43
1 Crisi di sostenibilità e forme istituzionali di detenzione del debito pubblico nell’Italia unita Giuseppe Conti e Giuseppe Della Torre (Università di Pisa e Università di Siena) Sommario 1. INTRODUZIONE. – 2. EVOLUZIONE SECOLARE DEL DEBITO STATALE E FASI CRITICHE. 2.1. Il debito ‘reale’ e i problemi di sostenibilità. 2.2. Le origini delle crisi debitorie. 2.3. La sostenibilità del debito. 3. COLLOCAMENTO E DETENZIONE ISTITUZIONALE DEL DEBITO. – 2.5. Gli elementi di forza e di debolezza nella gestione del debito. 4. LE EPOCHEDEL DEBITO. 4.1. Le virtù del pareggio di bilancio in epoca liberale. 4.2. Verso le virtù del disavanzo. 5. COSTI, RISCHI DEL DEBITO E CICLO FINANZIARIO INTERNAZIONALE. 6. CONCLUSIONI. – Bibliografia. 1. INTRODUZIONE La conquista dell’unificazione nazionale è avvenuta in Italia per mezzo del debito e del riconoscimento dei debiti degli Stati preunitari. La loro conversione nel Gran Libro del debito pubblico fu uno dei primi importanti provvedimenti economici a tre mesi dalla costituzione del Regno. Rappresentò l’ammissione di una debolezza della rivoluzione nazionale, ma anche l’assunzione di responsabilità e di credibilità di governo. Una parte del debito, nell’ordine di circa il 30% o superiore, si stima fosse collocata all’estero (Tattara 1992, p. 97; Della Torre 2008, p. 406), seppure in parte in possesso di cittadini italiani, perché il Paese non disponeva ancora di una struttura finanziaria adeguata e capace di gestire efficacemente una serie di servizi di emissione, quotazione e trasferimento dei titoli (Masi 1989; Toniolo, Conte e Vecchi 2003; Schisani 2008). I principali centri finanziari italiani (Genova e Milano) erano subordinati alle maggiori piazze estere. Il risparmio nazionale non aveva ancora raggiunto una massa critica adeguata e in grado di assicurare un’indipendenza finanziaria piena e stabile. Fin dall’inizio il debito rappresentò un’opportunità per tenere insieme e rafforzare un Paese a lungo diviso, ma, da allora in poi, costituì anche un peso per le finanze e per l’intera economia. Il rischio di crisi di sostenibilità del debito ha minacciato spesso la stessa sovranità finanziaria come capacità di costituire un sistema dei pagamenti in valuta nazionale, di estrarre imposte e ottenere capitali dal mercato. Una crisi fiscale dello Stato avrebbe demolito sul nascere l’unità nazionale e, in ogni caso, messo in pericolo la crescita e la stabilità dell’economia e della società. Nonostante non si siano verificate situazioni di

WP 2014 Crisi di sostenibilità e forme istituzionali di detenzione del debito pubblico, con Giuseppe Conti

Embed Size (px)

Citation preview

1

Crisi di sostenibilità e forme istituzionali di detenzione del debito pubblico nell’Italia unita Giuseppe Conti e Giuseppe Della Torre (Università di Pisa e Università di Siena) Sommario 1. INTRODUZIONE. – 2. EVOLUZIONE SECOLARE DEL DEBITO STATALE E FASI CRITICHE. – 2.1.

Il debito ‘reale’ e i problemi di sostenibilità. – 2.2. Le origini delle crisi debitorie. – 2.3. La sostenibilità del

debito. – 3. COLLOCAMENTO E DETENZIONE ISTITUZIONALE DEL DEBITO. – 2.5. Gli elementi di

forza e di debolezza nella gestione del debito. – 4. LE ‘EPOCHE’ DEL DEBITO. – 4.1. Le virtù del

pareggio di bilancio in epoca liberale. – 4.2. Verso le virtù del disavanzo. – 5. COSTI, RISCHI DEL

DEBITO E CICLO FINANZIARIO INTERNAZIONALE. – 6. CONCLUSIONI. – Bibliografia.

1. INTRODUZIONE

La conquista dell’unificazione nazionale è avvenuta in Italia per mezzo del debito e del riconoscimento dei debiti degli Stati preunitari. La loro conversione nel Gran Libro del debito pubblico fu uno dei primi importanti provvedimenti economici a tre mesi dalla costituzione del Regno. Rappresentò l’ammissione di una debolezza della rivoluzione nazionale, ma anche l’assunzione di responsabilità e di credibilità di governo. Una parte del debito, nell’ordine di circa il 30% o superiore, si stima fosse collocata all’estero (Tattara 1992, p. 97; Della Torre 2008, p. 406), seppure in parte in possesso di cittadini italiani, perché il Paese non disponeva ancora di una struttura finanziaria adeguata e capace di gestire efficacemente una serie di servizi di emissione, quotazione e trasferimento dei titoli (Masi 1989; Toniolo, Conte e Vecchi 2003; Schisani 2008). I principali centri finanziari italiani (Genova e Milano) erano subordinati alle maggiori piazze estere. Il risparmio nazionale non aveva ancora raggiunto una massa critica adeguata e in grado di assicurare un’indipendenza finanziaria piena e stabile.

Fin dall’inizio il debito rappresentò un’opportunità per tenere insieme e rafforzare un Paese a lungo diviso, ma, da allora in poi, costituì anche un peso per le finanze e per l’intera economia. Il rischio di crisi di sostenibilità del debito ha minacciato spesso la stessa sovranità finanziaria come capacità di costituire un sistema dei pagamenti in valuta nazionale, di estrarre imposte e ottenere capitali dal mercato. Una crisi fiscale dello Stato avrebbe demolito sul nascere l’unità nazionale e, in ogni caso, messo in pericolo la crescita e la stabilità dell’economia e della società. Nonostante non si siano verificate situazioni di

2

default ‘ufficiali’, il fardello di debiti ha imposto alcune ristrutturazioni, tra cui quattro tra conversioni e prestiti forzosi1, comportato massicci trasferimenti di risorse da inflation tax, e, infine, ha aggravato i costi finanziari per la pressione al rialzo del costo del denaro sul mercato interno.

Il lavoro mira a tenere insieme due aspetti solitamente trattati separatamente. La sostenibilità del debito è una questione eminentemente politica e le politiche per renderla tale sono in primo luogo fiscali ma anche di gestione e di organizzazione del collocamento e della detenzione stabile del debito (Montiel 2005). Insieme sostenibilità e gestione del debito aiutano a comprendere meglio come si sono formate le condizioni di debiti elevati e per quali vie siano stati allontanati gli eventuali pericoli. Il lavoro si divide in quattro parti. Nella prima (§ 2) si considera l’evoluzione dell’ammontare debito e delle principali fonti di accumulo. Un livello elevato di debito non è necessariamente intollerabile. Quel che proponiamo è una stima precisa della dinamica di sostenibilità in base alla quale lo Stato segue un sentiero relativamente sicuro o, altrimenti, corre maggiori rischi di crisi finanziaria e fiscale dovuti all’eccesso di oneri del servizio del debito rispetto alle proprie capacità correnti di onorarlo. Un governo può decidere di prendersi tali rischi di insostenibilità per ‘calcolo’, ritenendo di dover compiere spese straordinarie o di rinviare il prelievo fiscale a momenti migliori. In qualche modo, i rischi possono essere così ritenuti necessari, accidentali o dovuti a imprevidenza o – forse – peggio, a cattiva gestione (o una combinazione variabile di tali elementi). In ognuno di questi casi, difficili da stabilire, cambiano 1) i tempi di reazione per superare le condizioni più critiche, 2) le possibilità di disporre o dotarsi degli strumenti adatti, 3) l’intensità, i costi e i tempi delle politiche di exit. In altri termini sono questioni di: sapere, volere, potere. A esse si può tentare di fornire qualche risposta proprio alla luce della soglia di in/sostenibilità e delle reazioni politiche.

L’insostenibilità così intesa non è il segno di un crollo imminente e certo. È una condizione dinamica nella quale i fattori che permettono di disegnare la soglia di separazione della sostenibilità dall’insostenibilità sono mutevoli nel breve e nel lungo periodo e contribuiscono a cambiare, anche rapidamente, le

1 Il primo redimibile al 5% di interesse più 1% di premi a sorte, da 400 milioni di lire fu approvato il 28 luglio 1866. Promosso dal ministro Scajola per sostenere le spese di guerra, ottenne 350 milioni e fu interamente collocato in Italia. Fu convertito in consolidato nel 1871 con una convenzione con la Banca Nazionale e, nel complesso, evitò esborsi stimati in 217 milioni di lire. Nel 1926 si giunse a un consolidamento forzoso del debito a breve termine (r.d.l. 26 novembre) per favorire il raggiungimento di ‘quota 90’. Sempre sotto il fascismo avvenne l’altro prestito forzoso per lo scoppio della guerra di Etiopia, venticinquennale 5% e in misura del 5% del valore degli immobili (d.l. 5 ottobre). Infine, nel 1976 per far fronte alla crisi valutaria le somme da corrispondere su un deposito vincolato sulle importazioni furono fissate in titoli di Stato appositamente emessi. Complessivamente gli effetti erano di peggiorare la credibilità verso il debito sovrano. Cfr. Zamagni, Vera, Franco Osculati et al. (1988, pp. 18, 20, 35, 38, 42 e 72), Salvemini e Zamagni (1993).

3

zone di relativa sicurezza o di rischio da un anno all’altro2. Si analizzano così le crisi del debito, intese come situazioni persistenti d’insostenibilità tendenziale. Come vedremo prima del 1914 l’aumento di rischi del genere non sono interamente imputabili alle conseguenze di deficit accumulati in seguito alle guerre d’indipendenza o a imprese coloniali. I governi dell’Italia liberale, della Destra o della Sinistra, generalmente hanno mostrato un forte impegno a rimettere i conti in ordine o a tentare di tenere sotto controllo le finanze pubbliche e mantenere o recuperare la credibilità finanziaria dello Stato. Un patto implicito di stabilità, rafforzato dal regime di cambio, dalla necessità di mantenere aperti i canali di credito estero anche quando, verso la fine del secolo, gli afflussi di capitale non erano più così necessari a coprire le richieste di fondi da parte del Tesoro come negli anni successivi all’Unità, ma quando ancora i deflussi non potevano essere controllati. Il periodo tra le due guerre è invece attraversato da tendenze molto contrastanti in parte attribuibili alle conseguenze della guerra e a quelle delle crisi bancarie e della depressione degli anni ’30. L’analisi giunge però alla conclusione che il risanamento dei conti pubblici e il ritorno alla convertibilità della lira hanno come contropartita un risultato, apparentemente sorprendente, d’insostenibilità tendenziale del debito per tutti gli anni seguenti.

Il periodo dei governi repubblicani smentisce, nel caso italiano, l’idea che in democrazia ci sia una tendenza connaturata a alti debiti e a situazioni di insostenibilità tendenziale. Nel secondo dopoguerra e per tutto il periodo della Guerra fredda il sistema politico italiano era ‘bloccato’ e senza alternative di governo. Ciò ha contribuito a smorzare l’uso del deficit spending fino a quando la stabilità dei partiti centristi e di governo (da non confondere con l’instabilità delle coalizioni di governo) non è stata minacciata dai cambiamenti avvenuti dopo il 1968 e dalla crisi degli anni ’70. Da allora è sopraggiunta l’epoca dei debiti pubblici elevati in molte economie avanzate. In Italia però la combinazione di repressione finanziaria, inflation tax e deprezzamento del cambio contribuirono a rendere sostenibile l’espansione rapida di un debito molto più elevato di quello delle grandi economie. La situazione cambiò radicalmente a partire dagli anni ’80 con il progressivo dissolvimento delle condizioni internazionali e dei presupposti che rendevano praticabile tutto ciò. L’altezza del debito pubblico divenne persistente e eccessiva (per quanto non

2 Il presente lavoro si differenzia da studi precedenti sulla sostenibilità del debito pubblico, come quelli di Zamagni, Osculati et al. (1988) e Artoni e Biancini (2003), su tre aspetti fondamentali: 1) si avvale delle nuove stime di contabilità nazionale e del debito pubblico recentemente proposte dalla Banca d’Italia in occasione dei 150 anni dall’Unità (Baffigi 2013 e Balassone, Francese e Pace 2013), 2) per tenere conto del debito del Tesoro invece che del debito del settore statale (per ragioni di coerenza con le variabili utilizzate per la sostenibilità) e 3) per seguire – come vedremo – le proposte analitiche di Sylos Labini e Pasinetti. Occorre tener presente che le differenze tra l’entità del debito del Tesoro e del debito del Settore pubblico è rilevante e instabile e corrisponde al debito degli enti locali verso la Cassa Depositi e Prestiti (v. Appendice). I dati delle entrate, delle spese e della spesa per interessi della Ragioneria Generale dello Stato fanno riferimento alla partizione per strumenti finanziari del debito del Tesoro e non e non di quello statale v. anche Balassone, Mazzotta e Monacelli (2008).

4

sempre tecnicamente ‘insostenibile’), pericolosamente ingovernabile anche in conseguenza della crescente instabilità politica giunta al culmine ai primi anni ’90 con il crollo del sistema dei partiti tradizionali e l’avvento dell’alternanza tra coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra.

Nella seconda parte (§ 3) si prendono in considerazione politiche e cambiamenti istituzionali che i governi nazionali hanno preso per sostenere e correggere le posizioni debitorie del Tesoro. Una parte importante di tali cambiamenti istituzionali ha interessato i modi di gestione del debito pubblico con particolare riguardo dei controlli amministrativi e di mercato per stabilizzare la detenzione di quote importanti di debito e la fiducia generale verso i titoli di Stato. Nella terza parte (§ 4) si traggono alcune conseguenze di quanto analizzato in precedenza e si avanza l’ipotesi di epoche del debito corrispondenti al modo di sfruttarlo e di governarlo. Infine, nella parte successiva (§ 5), si cerca di analizzare le fasi di sostenibilità e insostenibilità e di gestione e detenzione del debito in relazione al ciclo internazionale. Nelle conclusioni si riprendono alcune linee interpretative emerse tra cui l’importanza per i governi italiani di osservare e adeguarsi ai cicli della finanza internazionale. Il successo o l’insuccesso di molte politiche di consolidamento del debito e della finanza pubblica sono dipese da tale capacità di adattamento e dal saper trarre vantaggio dalle trasformazioni istituzionali nel governo del debito. Ciò permette, forse, di valutare il puzzle del mix di ‘virtù’ e ‘fortuna’ che caratterizza ogni azione collettiva e di governo.

2. EVOLUZIONE SECOLARE DEL DEBITO STATALE E FASI CRITICHE

Un debito elevato corrisponde a un accumulo di spese non coperte da

entrate fiscali3. Reinhart e Rogoff (2009) e Reinhart, Reinhart e Rogoff (2012) ritengono che oltre un livello dal 60-90% del PIL il debito sia fonte di problemi e, in primo luogo, di difficoltà a onorarne gli impegni. Come vedremo anche un debito molto elevato non è di per sé insostenibile. Alcune serie statistiche consentono di valutare il livello del debito, stabilire come sia stato raggiunto e come si sia ridotto, e, infine, contribuiscono a tracciare una linea di frontiera tra la sostenibilità e l’insostenibilità. Le difficoltà di valutazione dipendono dall’aleatorietà delle variabili. Alcune sono relativamente indipendenti dall’azione di governo, come la crescita del reddito, se specialmente le spese da cui il debito ha avuto origine sono improduttive. Su altre variabili l’azione di governo può essere inefficace (ad esempio, i tassi di interesse o i prezzi). Su

3 Abbiamo cercato, per quanto possibile, di seguire uno schema e una sequenza dell’apparato statistico simili a quelli del saggio di Francisco Comín (2014). Ringraziamo Francisco che, gentilmente, ci ha fatto conoscere una versione preliminare del proprio lavoro. Restano alcune differenze, importanti, in primo luogo quelle relative ai dati, alle definizioni delle grandezze che – come vedremo meglio – non rendono interamente comparabili le evoluzioni del debito nei due paesi. Nel caso italiano si è resa necessaria una definizione differente della soglia di sostenibilità anche perché in mancanza di default e ristrutturazioni dichiarate poteva essere arbitrario stabilire le fasi di crisi debitorie.

5

tutte, e specialmente sul debito, vale il peso del passato, almeno di quello recente. In ogni caso, in circostanze diverse, le autorità politiche sono state in grado di tenere sotto controllo i conti pubblici e in tal caso di adottare misure adeguate per non esporsi a rischi d’instabilità e d’insostenibilità. Resta comunque il fatto che non sempre alle intenzioni seguono i fatti. Identificare le ‘vere’ intenzioni è solo un primo passo per valutare capacità, volontà e possibilità di un’azione (o inazione) di governo. In tutti i casi il debito resta una delle variabili che, più di altre, risentono di tali combinazioni di motivazioni e scelte contrapposte a possibilità effettive e risultati inevitabili.

2.1. Il debito ‘reale’ e i problemi d’insostenibilità

La scalata verso alti livelli di debito pubblico è un fenomeno che si lega

alla crescita delle economie e degli Stati nazionali ma insieme si rafforza la pressione a tenere sotto controllo la sostenibilità, cioè evitare crisi fiscali, onorare gli impegni sul debito nei confronti di contribuenti e di investitori esteri. Il caso italiano mostra che la credibilità di un’economia dipende spesso da quella dello Stato e, in definitiva, dal debito pubblico. L’indebitamento pubblico dipende a sua volta, e in larga misura, dall’evoluzione delle strutture istituzionali che regolano e consentono un buon funzionamento dei mercati finanziari e una gestione corretta del debito. In questo senso si fondano sulla fiducia e contribuiscono a crearla e a sostenerla.

La fig. 1 mostra un trend di lungo periodo dell’andamento del debito in termini ‘reali’ relativamente costante dall’Unità fino all’inizio degli anni ’70 del XX secolo. Una forte deviazione si riscontra negli anni compresi tra le due guerre mondiali nei quali si osserva un rialzo di quasi il doppio rispetto al periodo precedente e a quello immediatamente successivo, con alcuni modesti aggiustamenti intermedi. La rottura del trend e la forte divergenza si situa attorno alla metà degli anni ’60, interrotta da una breve ma significativa riduzione del debito tra il 1994 e il 2002.

6

Figura 1 – Debito statale in termini ‘reali’ – 1861-2013 (in milioni di euro del 2010)

Fonte: nostre elaborazioni su dati Balassone, Francese e Pace (2013) e Baffigi (2013). Avvertenze: La serie è sempre la stessa, su due scale diverse. La linea tratteggiata mostra l’andamento dal 1861 al 1973 i cui valori si leggono sull’asse sinistro (in migliaia di euro).

La sostenibilità del debito intesa come la capacità dello Stato di pagare

gli interessi e di rimborsare il capitale in scadenza dipende ovviamente dal livello del debito ma anche da altre variabili. Si coniuga anzitutto con la capacità di prelievo fiscale e di controllo sulla dinamica delle spese. La sostenibilità resta una condizione indispensabile per mantenere e rafforzare la credibilità dello Stato e, insieme, lo «state of confidence» più generale.

Sylos Labini (1948, 1998 e 2004) e Pasinetti (1998a, 1998b e 1998c), indipendentemente, hanno proposto un indicatore di insostenibilità come soglia critica oltre la quale la capacità dello Stato a far fronte al servizio del debito si deteriora progressivamente. La soglia non indica un pericolo certo e estremo di default imminente o di ristrutturazione del debito improrogabile, ma è il segnale di una situazione sempre più esposta a rischi di vario genere compresi quelli più disastrosi. L’insostenibilità è tendenziale, non inevitabile perché restano aperte – come vedremo – varie vie d’uscita, anche se i costi possono aumentare di conseguenza. La relazione base di sostenibilità è data dalla condizione seguente: SP/Y – [(i - g) D/Y] ≥ 0, in cui SP indica il saldo primario nei conti dello Stato, ossia l’avanzo di bilancio al netto della spesa per interessi, Y il reddito (qui considerato equivalete al prodotto interno lordo),

7

mentre il fattore i - g è la differenza tra il saggio d’interesse nominale e il saggio di aumento del reddito a prezzi correnti e D il volume complessivo del debito. Se il bilancio è in avanzo occorre comunque che copra il secondo termine della diseguaglianza affinché si ottenga un valore superiore o uguale a zero. Ciò si verifica tutte le volte che il saggio di crescita dell’economia supera il saggio medio di interesse sul debito e anche, nel caso inverso, se il valore assoluto del secondo termine non è maggiore dell’avanzo. Se la differenza i - g è positiva gli interessi diventano onerosi, opprimono le finanze e possono rendere necessarie manovre di riconversione del debito. In caso poi di disavanzo la situazione si complica e il secondo termine deve essere positivo e coprire il livello del disavanzo affinché possano essere rispettate le condizioni della diseguaglianza. Nei casi contrari la finanza statale si muove in una zona di insostenibilità. Il livello del debito è ovviamente il fattore cruciale. L’altro è dato dalla differenza, appena ricordata, tra il saggio d’interesse e quello di crescita dell’economia. Nel caso speciale in cui tale differenza risultasse nulla e anche il saldo fosse nullo, le finanze si manterrebbero in una zona di sostenibilità qualunque livello abbia raggiunto il rapporto tra debito e prodotto. Ciò indica che il rapporto D/Y non è, di per sé, una misura significativa dello stato di salute della finanza statale4.

Entrano ovviamente in gioco anche altre variabili. Il livello del saggio d’interesse è solo una proxy dei tassi applicati sui vari scaglioni del debito. La spesa per interessi incorpora le condizioni strutturali del debito dipendenti dai tassi d’interesse negoziati all’emissione dei prestiti, dal profilo delle durate e delle scadenze relative, dalle quote dei prestiti esteri. Gli interessi pagati correntemente pesano sull’utilizzo delle entrate e sulla capacità (e volontà) del governo di prelevare nuove tasse (ridurre le spese) e accendere nuovi debiti. La crescita del reddito, o prodotto, è – si ricorda – considerata in termini nominali e incorpora il tasso di inflazione. L’inflazione e la deflazione svolgono un ruolo importante nell’alleggerimento o meno del peso del debito (Fiorito 2014). A parità di debito, finché l’economia cresce, le finanze statali non incorrono in particolari problemi. Anche un rallentamento può invece mettere a repentaglio la sostenibilità. Infine, il quadro istituzionale permette eventualmente di influire sulle caratteristiche di detenzione dei titoli del debito e indirettamente sulle condizioni di sostenibilità. Investitori istituzionali possono assorbire quote significative del debito con un effetto-calmiere sui saggi d’interesse e di rendimento di mercato e sulle condizioni di rinnovo alla scadenza. Il quadro istituzionale cambia più lentamente e è modificabile dall’azione politica e sociale, attraverso riforme ma senza la certezza di ottenere i risultati attesi. Ma su questo ritorneremo più avanti (§§ 3 e 4).

L’indice di sostenibilità della fig. 2 è costruito come sommatoria nel corso degli anni della diseguaglianza appena esaminata. Se l’indice è crescente persiste la traiettoria di sostenibilità imboccata all’inizio, viceversa se è in diminuzione le finanze statali entrano in una zona d’insostenibilità.

4 Su questo aspetto cfr. anche Casarosa (1988).

8

Fig. 2 – Rapporto debito statale su PIL in % e indice di sostenibilità 1862-2011

Fonte: v. fig. 1 per debito e PIL; Ministero del Tesoro - Ragioneria Generale dello Stato (1969); Ministero dell'Economia e delle Finanze (2011); Istat, Annuario statistico italiano (vari anni); Bianchi (1979); OECD, Database; Banca d’Italia, Relazioni annuali (vari anni).

Nell’ultimo secolo e mezzo quest’indice della finanza statale evidenzia 5

fasi d’insostenibilità tendenziale (fig. 2, le fasi indicate con 1, 4, 9 e 11). Nel primo decennio, dal 1862 al 1871, il debito si accumula rapidamente 1) per l’eredità dei debiti degli Stati preunitari unificati dal nuovo regno, e, soprattutto, 2) per l’inadeguatezza dell’ordinamento tributario e dell’amministrazione fiscale che richiesero l’attuazione di importanti riforme, tra le quali l’introduzione dell’imposta sulla ricchezza mobile nel 1864 e la tassa sul macinato nel 1868, 3) per l’aggravamento delle finanze statali a seguito della terza guerra d’indipendenza nel 1866 e, infine, 4) per le misure necessarie alla costruzione del nuovo apparato statale (forze armate, apparato centrale e periferico dello Stato, opere pubbliche infrastrutturali) (Zamagni 1992).

Negli anni tra le due guerre si verificano altre due fasi critiche, la prima di breve durata all’inizio della Grande guerra, tra il 1914 e il 1915, nei quali il debito spinto dalle spese militari lievita più rapidamente del PIL a prezzi correnti; la seconda, più lunga, interessa quasi per intero gli anni successivi al ripristino della convertibilità aurea di ‘quota 90’, dal 1926 fino ai primi anni della seconda guerra mondiale. Ciò si verifica nonostante le politiche predisposte prima del ritorno alla parità aurea e, in particolare, il risanamento del bilancio con l’annuncio ufficiale dell’equilibrio tra entrate e spese e l’abbattimento dei debiti esteri contratti durante la guerra.

9

Sotto i governi repubblicani si hanno due situazioni particolarmente critiche, la prima dopo il 1978, con un lungo periodo di insostenibilità tendenziale durato fino al 1995 e invertito solo con i governi Prodi e gli altri di centro-sinistra, volti a perseguire l’ingresso nella moneta unica. Infine, dopo la crisi del 2007, e prima della crisi dei debiti sovrani in Europa, le finanze dello Stato si trovano nuovamente esposte a rischi crescenti, in parte, per la stagnazione del reddito per più di un decennio, per il basso tasso d’inflazione e, soprattutto, per il deterioramento del saldo primario.

2.2. Le origini delle crisi debitorie

Nella prima fase, quella del primo decennio postunitario, i disavanzi

primari iniziali furono ricondotti prima in pareggio nel 1865 e dopo, mantenuti in avanzo, con una media del 3,7% dal 1870 al 1913 (fig. 3). Il problema principale di incremento del debito è però dovuto alla differenza molto elevata tra il livello del saggio d’interesse medio5, che nel 1866, all’epoca della crisi di convertibilità della lira, giunse a sfiorare una media annua del 10%, e il saggio di crescita del prodotto la cui media, in termini nominali, fino al 1871 non supera l’1,4%. Anche la spesa complessiva per interessi è costantemente in aumento fino a stabilizzarsi attorno al 4,5% soltanto verso la metà degli anni ’70. Nel 1876 l’ultimo governo della Destra annunciò il raggiungimento della meta del pareggio di bilancio con l’effetto di ridare credibilità allo Stato e stabilizzare il corso della rendita sui mercati esteri e in Italia. L’ingranaggio di aumento del rapporto tra debito e prodotto è innescato dall’effetto congiunto dei disavanzi e del carico degli interessi e rallenta solo con gli effetti dell’abbandono della convertibilità nel 1866 e del boom dei primi anni ’70. Infine, il riacquisto di credibilità che gli ultimi governi della Destra riuscirono a ottenere stabilizzò la situazione e rimosse i pericoli del decennio precedente. In particolare il ministro Quintino Sella adottò severe misure fiscali accompagnate – come vedremo – da cambiamenti significativi del quadro istituzionale volti a ‘nazionalizzare’ il debito collocato all’estero e canalizzare più stabilmente il risparmio interno.

5 Come proxy di un saggio d’interesse di mercato per i nuovi prestiti abbiamo considerato il rendimento medio annuo sulla rendita 5%.

10

Fig. 3 – Saggio d’interesse, spesa per interessi, saldo primario e saggio di crescita del prodotto interno - 1862-2011 (in %)

Fonte: v. fig. 1 e 2. Note: i = rendimento dei principali titoli di Stato a lunga scadenza (o a 10 anni); Si/Y = spesa per interessi su PIL, Sp/Y = rapporto tra saldo primario e PIL; g = tasso di crescita del PIL a prezzi correnti. Le linee verticali tratteggiate sono poste in corrispondenza degli anni di inversione del segno dell’indice di sostenibilità (fig. 2) e, per memoria indicati con -, =, + per intendere, rispettivamente: un debito tendenzialmente insostenibile, stazionario, o sostenibile.

Il secondo periodo riguarda l’anno che precede l’entrata in guerra nel

quale il principale fattore che mette a rischio i conti è rappresentato dall’azzeramento dell’avanzo primario e dal vertiginoso disavanzo primario causato dalle spese per la difesa a parità di entrate. La situazione si inverte rapidamente con l’inizio della guerra e la forte crescita dell’inflazione che porta il tasso di crescita nominale dell’economia a superare ampiamente il saggio d’interesse di riferimento per il debito statale.

11

Una situazione più complessa si presenta nel terzo periodo, dal 1927 al 1942. Dal 1924 il saldo primario ritorna a essere positivo e stabile fino al 1934 attorno a un valore medio del 2,2% rispetto al PIL. I problemi sorgono però proprio dopo la stabilizzazione monetaria del 1926-27 e per gli effetti combinati di deflazione e riduzione della crescita economica che perdurano fino al 1935. Il ritorno alla parità aurea comporta anche costi in termini di rialzo sensibile dei tassi d’interesse che, specialmente dal 1928 al 1936, si riverbera sulla spesa per interessi, salita di circa un punto percentuale di PIL rispetto al livello dei primi anni ’20. La conquista coloniale dell’Etiopia comporta una falla nel bilancio statale, ma contribuisce anche alla crescita della domanda aggregata. Infine l’entrata in guerra apre la voragine nei conti dello Stato.

Per tutti gli anni ’50 del secondo dopoguerra il rapporto debito su PIL resta stabile attorno al 23%, scende poco sopra al 15 nel 1964 e, da allora s’impenna fino agli ultimi anni del secolo. Le condizioni di sostenibilità si invertono e peggiorano dal 1977 (fig. 2). Dall’inizio degli anni ’70 il saldo primario si deteriora e diventa sempre più negativo. I tassi di interesse sono in rialzo, ma l’alta inflazione e una crescita del reddito ancora positiva evitano lo scivolamento nella zona d’insostenibilità. Nel ’78 il disavanzo primario precipita a 9,5 punti percentuali di PIL e dal 1979 all’88 non scende mai sotto i 5 punti (fig. 3). Dal 1981 il livello del saggio d’interesse supera il saggio di crescita del prodotto e inizia la scalata verso l’alto della spesa per interessi non compensata dai saldi primari, che restano negativi fino al ’91, o insufficientemente positivi come negli anni dopo la crisi valutaria del 1992. Tutto ciò contribuisce all’accumulo di debito e alla tendenziale insostenibilità fino al 1995. Da allora i governi si impegnano, con più decisione, a rimettere in sicurezza i conti con alti avanzi primari, superiori al 5% del PIL fino al 1999, al fine di consentire l’ingresso dell’Italia nella moneta unica. Le manovre fiscali attuate dopo la crisi valutaria del settembre 1992 comportano anche un recupero di credibilità che si accompagna alla diminuzione dei tassi d’interesse sui mercati internazionali e alla riduzione dello spread dei tassi interni rispetto a quelli tedeschi.

La parentesi di recupero di sostenibilità dura solo fino al 2006. Il debito in rapporto al PIL, dopo il picco del 107% del 1994, scende stabilmente fino all’85% del 20026. Risale però a 100 nel 2003. Dopo di allora i governi non mantengono la stessa fermezza per piegare stabilmente verso il basso la traiettoria del debito, la cui risalita riflette in particolare gli indirizzi di politica economica del quarto governo Berlusconi che fallisce negli obiettivi di riduzione della tassazione e di rilancio della crescita. Con la crisi del 2007, aggravatasi pesantemente nel 2008, e poi con la crisi dei debiti sovrani si interrompono anche i benefici della convergenza dei tassi d’interesse interni

6 Si ricorda che il rapporto di debito qui considerato riguarda il debito del Tesoro e non il debito dell’intero settore pubblico la cui misura, con varie correzioni, è uno dei ‘parametri di Maastricht’. Sulla differenza tra settore “statale” e “pubblico” è importante tener presente il lavoro di Balassone, Mazzotta e Monacelli (2008).

12

verso quelli dell’area euro a partire dal nuovo secolo. Nonostante i bassi saggi d’interesse sul debito, il ristagno del reddito nominale rende sempre pericolosamente positiva la differenza tra i e g e non viene arrestato lo slittamento verso l’insostenibilità.

2.3. Le condizioni di sostenibilità

Per tutto il periodo postunitario fino a oggi l’Italia ha avuto un debito

statale elevato: per soli 41 anni inferiore al 60% del PIL. Lo Stato italiano si può definire un debt state7, con due eccezioni, la prima, parzialmente, nell’età giolittiana prima del 1914, l’altra in età repubblicana, nei due decenni dopo il 1948. La condizione di debt state segnala un’evidente deviazione da quella di tax state, in cui le spese sono coperte dal potere di assoggettare a prelievo fiscale sudditi o cittadini. Tale potere è limitato dal consenso e dalla lealtà civicamente intesa come adesione alle scelte di governo e accettazione delle conseguenze (Milward, 1995). Il debt state ha il proprio limite nel merito di credito dello Stato, ma subisce quello della capacità contributiva quando, per dimensioni, trascina in alto la spesa per interessi (e, con essa, il prelievo fiscale), come succede dopo gli anni ’80 del XX secolo.

Nonostante l’altezza del debito le finanze non sono sempre state a rischio durante i 50 anni delle 5 fasi di insostenibilità. I timori più forti di seri rischi di default sono, forse, emersi solo in due occasioni. Nei primi anni postunitari i governi della Destra storica si trovarono a affrontare problemi enormi, non solo sul piano finanziario, per consolidare il nuovo Stato nazionale (Zamagni 1992). Il brigantaggio tenne sotto scacco quasi metà dell’esercito per un decennio (Ciocca 2013). La nuova guerra contro l’Austria giunse a pochi anni dall’Unità con i governi impegnati a favorire e realizzare costruzioni di infrastrutture, compresi i servizi finanziari, e, non ultimo, un’opera faticosa di unificazione amministrativa. I sette diversi sistemi di riscossione delle imposte furono unificati solo all’inizio degli anni ’70 dopo uno strenuo lavoro di anni. L’altro momento si situa un secolo e mezzo dopo con la crisi dei debiti sovrani che, specialmente nell’estate del 2011, ha rischiato di provocare una catastrofe non solo per l’Italia, ma anche per l’intera area euro. Le dimissioni del governo Berlusconi, inerte di fronte all’emergenza e ormai privo di credibilità interna e internazionale, permisero la formazione di un governo ‘tecnico’ che prese una serie di misure di risanamento, evitò un commissariamento da parte di autorità internazionali. La crisi fu superata anche grazie agli interventi non convenzionali della Banca centrale europea per contrastare la speculazione.

Un problema sorge riguardo alla gravissima crisi degli anni ’90 del XIX secolo. Essa si colloca alla fine di un periodo nel quale l’indice di sostenibilità è relativamente stazionario. Tuttavia, dal 1890 e specialmente dal ‘91 inizia un peggioramento che dura fino al 1894. Nonostante la stabilità o il lieve miglioramento dell’avanzo primario, la forte diminuzione del reddito e dei

7 Su questo aspetto v. anche De Cecco e Pedone (1995, p. 270).

13

prezzi dal 1891 al ’94 mina le basi della sostenibilità. La crisi bancaria era già scoppiata sul finire degli anni ’80 in conseguenza della crisi edilizia, aggravata nel 1889 quando i corsi della rendita anticiparono il peggioramento di aspettative e la ricomparsa dell’aggio dell’oro. La crisi valutaria risentì infatti del ritiro di capitali esteri e implicò il ritorno a un corso forzoso di fatto (Della Posta e Di Martino 2001, pp. 74-75; Cerrito 1999). Pare confermata la tesi prevalente, e ripresa dai primi analisti (in particolare, Pareto e Pantaleoni), secondo la quale l’afflusso d’argento e oro dopo l’abolizione del corso forzoso riprese il cammino inverso una volta scoppiata la crisi bancaria con governi incapaci di riconquistare fiducia e credibilità, specie dopo la rottura commerciale con la Francia e il disavanzo commerciale con l’estero. Le banche d’emissione, impantanate nella speculazione immobiliare, non poterono reggere all’urto, né proteggere il paese (De Cecco 1990, pp. 46-47).

Infine, se si escludono i prestiti forzosi realizzati durante il fascismo, non ci sono state ristrutturazioni importanti del debito che abbiano comportato parziali default. L’analisi fondata sull’indice di sostenibilità porta a rivedere alcune interpretazioni precedenti. In primo luogo quella che siano sempre state le guerre (d’indipendenza, coloniali, o mondiali) a compromettere la solidità finanziaria dello Stato (Artoni e Biancini 2003). Al 1862, un anno dopo l’unificazione dei debiti degli Stati preunitari, il debito complessivo del Regno era relativamente modesto e fino al ’65 non raggiunse il 60% del PIL. Su quei valori assoluti del debito – a oggi ritenuti i più affidabili – si possono avanzare comunque alcuni dubbi specialmente se si riuscisse a fornire una contabilità più accurata della fase di transizione e di unificazione dei debiti preunitari8. Un’eventuale correzione al rialzo del rapporto del debito su prodotto renderebbe comunque più drammatica la situazione d’insostenibilità per il primo decennio postunitario. Le guerre coloniali (Abissinia, Libia e Etiopia) non contribuirono significativamente a peggiorare la situazione sotto il profilo della sostenibilità. Diverso il caso dell’esplosione delle spese nelle due guerre mondiali. Specialmente nella prima il rapporto del debito su PIL raggiunse livelli del 150%, contro il picco di 100 nel 1943. La drammaticità, anche economica, di quegli eventi non ebbe conseguenze gravi sul bilancio dello Stato ma rappresentò un imponente trasferimento di ricchezza sottratta, principalmente, ai creditori in genere e ai portatori di titoli del debito pubblico in particolare. Sotto questo profilo il default fu latente e provocò una sorta di ‘eutanasia’ per molti rentiers e risparmiatori, con le conseguenze sociali e politiche mostrate a suo tempo da Luigi Einaudi (1933).

Reinhart e Rogoff (2009) assimilano i processi di inflazione superiori a poco meno del doppio del livello di inflazione ‘strisciante’ del 2,5-3% a un default subdolo del debito dello Stato. La stabilità monetaria di un paese ha

8 Un problema è costituito dalla mancanza di pubblicità dei bilanci degli Stati preunitari che rese difficile stabilire con certezza i deficit non coperti degli Stati preunitari in eredità del nuovo regno Minghetti (1888, p. 79). D’altronde far chiarezza e pubblicità poteva avere effetti destabilizzanti.

14

certo importanza per l’affidabilità di uno Stato-debitore, specialmente per gli investitori esteri perché l’inflazione costituisce un fattore importante di insostenibilità del debito verso l’estero e che, per questa via, espone la valuta nazionale a attacchi speculativi come avvenne con la crisi degli anni ’90 del XIX secolo quando il cattivo andamento del corso della rendita sui mercati esteri, il rimpatrio della medesima e le pressioni sul cambio portarono a una delle peggiori crisi bancarie della storia italiana (Cerrito 1999 e 2003). La natura di twin crisis – come già accennato – fu ben identificata dai maggiori economisti italiani dell’epoca (Pantaleoni e Pareto). Pochi anni prima, e dopo il massiccio afflusso di oro e argento del prestito Baring, alcune banche avevano alimentato la febbre della speculazione edilizia rispetto alla quale nemmeno le banche d’emissione si erano tenute fuori, a seguito anche dei cedimenti nei vincoli operativi ammessi da vari governi nel dopo il ritorno alla convertibilità.

Quel caso dimostra che l’inflation tax non è sempre e comunque legata a politiche monetarie in cui prevalgono le esigenze fiscali di monetizzazione del debito, o rivolte a allentare o risolvere i problemi del peso del debito statale. Nei sistemi a standard monetari metallici come quelli del XIX secolo la stabilità di cambio e il meccanismo di aggiustamento dei conti con l’estero attraverso afflussi e deflussi di metalli monetari funzionavano a condizione che l’intera struttura dei prezzi fosse flessibile e si adeguasse alla maggiore o minore disponibilità di metalli monetari. L’inflazione e la deflazione erano pertanto accettati e, se non si adottavano devices per contrastarli, accompagnavano processi di aggiustamento da lasciare a se stessi. I capitali si spostavano da un paese all’altro (Obstfeld e Taylor 2004) senza timori che un’inflazione interna eccessiva nel paese di afflusso potesse condizionare la credibilità del paese stesso in quanto la fiducia e gli impegni (commitments) che assicuravano la stabilità del sistema monetario erano abbastanza forti da non mettere in dubbio, nel medio e lungo periodo, la stabilità di cambio. Nel periodo a standard metallico le banche d’emissione esercitavano generalmente impulsi deflazionistici a condizione che rispettassero i criteri di prudenza previsti nei loro statuti. Quelle italiane, attratte dalla febbre speculativa, non li rispettarono e anzi commisero gravi illeciti 1) per l’abbondanza iniziale di riserve metalliche ottenute per il ripristino della convertibilità, 2) per cattiva deregolamentazione che 3) le indusse a assumere maggiori rischi da speculazione e 4) a eccedere in emissioni abusive anche per nascondere gli immobilizzi e le perdite e tentare di evitare il dissesto. Fig. 4 – Variazione dei prezzi (media mobile 3 anni) e saggio d’interesse nominale e reale – 1862-2010.

15

Fonti e avvertenze: v. fig. 1 e 2. L’indice dei prezzi considerato è il deflatore implicito del PIL. Il saggio d’interesse reale è calcolato secondo la formula di Fisher: r=(1+i)/(1+p) -1, dove r è il saggio d’interesse reale, i quello nominale e p è la variazione dei prezzi.

La fig. 4 mostra che fasi di deflazione si riscontrano nel XIX secolo, con

una certa frequenza e all’interno di una forte escursione nel breve periodo, e, in maniera molto pronunciata nel decennio 1926-35. In questi casi di inflation tax ‘negativa’ (deflation endowment) lo Stato elargisce un cadeau ai propri creditori. Nel complesso occorre valutare la natura dei fenomeni di variazione dei prezzi e distinguere tra andamento dell’indice generale dei prezzi (il solo considerato a livello macroeconomico) e le variazioni anche molto forti nei prezzi relativi generalmente indipendenti dal finanziamento monetario della spesa pubblica. Gli effetti di inflazione e deflazione non redistribuiscono solo risorse tra lo Stato e i creditori dello Stato ma anche tra debitori e creditori in generale (Toniolo e Ganugi 1992, pp. 130-131). I governi sono anche espressione di questi interessi privati, li rappresentano e li sostengono, o li subiscono. L’inflation tax agisce pienamente nei periodi in cui i ‘patti’ di stabilità di cambio sono particolarmente vulnerabili e perdono di credibilità. Infatti in Italia è stato uno strumento efficace di sostenibilità del debito statale per tutti gli anni ’70 quando anche i controlli valutari erano ancora in vigore. Con un’intensificazione dei movimenti internazionali dei capitali e di liberalizzazioni valutarie, come è successo negli ultimi tre-quattro decenni, è venuta invece a mancare progressivamente proprio la componente di inflation tax che aveva contribuito alla sostenibilità del debito fino al ‘divorzio’ tra Banca d’Italia e Tesoro col quale si poneva fine al finanziamento in sede d’asta di emissione dei titoli di Stato necessario all’acquisizione della parte residua di debito non collocata al saggio

16

di rendimento fissato dalle autorità monetarie come obiettivo. Deregolamentazione finanziaria interna e apertura ai movimenti di capitale hanno accompagnato l’introduzione degli accordi di Maastricht e avviato alla fase di unificazione monetaria. L’alto debito e l’abbattimento dell’alta inflazione e i saggi d’interesse molto elevati nei primi anni ’80 (fig. 4*) hanno reso molto più difficili e onerose le politiche di rientro e di risanamento fiscale esponendo l’economia italiana ai rischi da debito eccessivo.

Altre osservazioni, che riprenderemo in seguito, riguardano alcune idee prevalenti e relative ai governi della Destra storica generalmente rigorosi in materia fiscale contrariamente a quelli della Sinistra che avrebbero incoraggiato, specialmente con il ministro Agostino Magliani, una finanza ‘allegra’. Sotto il profilo di sostenibilità non emergono però grosse differenze di comportamento. I risultati conseguiti dalla Destra, con il famoso pareggio di bilancio, non furono perduti dai governi della Sinistra sotto il profilo degli avanzi primari che si mantennero attorno al 4,2% del PIL dal 1876 fino al 1904. Ovviamente né le grandezze oggi disponibili, né tantomeno le misure di sostenibilità potevano servire da guida. I governi osservavano comunque di altri segnali prontamente disponibili, in primo luogo il corso della rendita e del cambio. Tuttavia il potere della classe dirigente liberale e risorgimentale nel suo complesso non subiva minacce dall’opposizione legale di partiti radicali alternativi. La «rivoluzione parlamentare» della Sinistra fu un ricambio interno tra schieramenti che si apprestavano a rimescolarsi con il trasformismo depretisiano. Il regime elettorale a suffragio ristretto per censo contribuiva a rendere relativamente omogenee le classi dirigenti sulle questioni economiche fondamentali, mentre dal 1868 al 1919 il non expedit impedì alle forze clericali di eleggere propri rappresentanti in parlamento e di formare un partito ‘cattolico’ di opposizione. I parlamentari di orientamento liberale, nelle componenti di destra o di sinistra, erano espressione dei principali contribuenti (e, forse, dei principali detentori privati della rendita dello Stato), inoltre potevano preoccuparsi della propria rielezione come singoli ma non come gruppo e anche questo riduceva fortemente la pressione sulla spesa statale. Lo stesso ‘trasformismo’ bloccò nell’Italia liberale una sorta di ciclo politico, con effetti sul bilancio dello Stato, che invece si svilupperà, pienamente solo dalla fine degli anni ’60, con il sistema di democrazia allargata e con l’affermazione del pluripartitismo.

Un altro risultato riguarda il periodo fascista per la lunga fase di avanzata nella ‘zona’ di insostenibilità dopo ‘quota 90’ e nonostante il ridimensionamento del rapporto debito su PIL durante quasi tutto il ventennio. La politica di stabilizzazione valutaria ebbe varie motivazioni (prestigio, difesa dei risparmiatori penalizzati dall’inflazione bellica e postbellica, apertura ai capitali esteri), ma quel che interessa in questa sede è che si incorse in vari costi: di indebolimento del sistema bancario, di diminuzione dei salari reali e della domanda interna, e anche di esposizione della finanza pubblica e del suo debito a rischio d’insostenibilità.

Sugli anni più recenti la questione della sostenibilità del debito è stata ampiamente trattata in molti lavori. Sul periodo repubblicano si può riprendere

17

l’osservazione appena fatta sul ciclo politico-elettorale. Sotto questo profilo il ’68 (’69 per l’Italia) produce una cesura importante nella finanza pubblica. La scalata del debito inizia in quegli anni. Negli anni ’70 il conflitto sociale si inasprisce in tutto il Paese con due valvole di sfogo rilevanti per l’analisi qui svolta: l’accelerazione dell’inflazione e, appunto, l’accumulo del debito pubblico. Come abbiamo in parte già visto i due fenomeni possono essere associati. I governi cedevano alle pressioni sociali o si preoccupavano di ampliare, in ritardo rispetto ad altri paesi europei, gli spazi di welfare a carico del bilancio dello Stato (e delle regioni, istituite come centri di spesa nel 1970) (Morcaldo 1993). Nel contempo lasciavano correre (o subivano) un’inflazione che consentiva di sgravare l’onere del debito sullo Stato, con conseguenze tutt’altro che trascurabili in termini di redistribuzione del reddito incontrollata e con differenze rilevanti anche all’interno di gruppi di soggetti appartenenti alle medesime fasce sociali. La situazione italiana appare ancor più singolare se comparata con quella delle altre economie avanzate nelle quali i tassi d’inflazione e i livelli relativi del debito pubblico restavano più bassi. La divergenza italiana, per inflazione e debito, può trovare una spiegazione nella conflittualità delle relazioni industriali, nella fragilità delle coalizioni di governo che subivano le conseguenze di una democrazia ‘bloccata’ e gli attacchi destabilizzanti di terrorismi, stragi e trame eversive.

Nel corso degli anni ’80 vengono meno alcuni capisaldi di compatibilità di quel binomio. L’entrata nello Sme, prima, e politiche di cambio ‘forte’, successivamente, non consentirono più quel recupero di compensazione della competitività dei prodotti italiani sull’estero che fino ad allora passava per il deprezzamento della lira nei confronti delle principali valute. Cambiò anche il quadro internazionale nel quale le politiche monetarie accelerarono i processi di disinflazione dopo il secondo shock petrolifero rendendo sempre più insostenibile lo scarto tra l’inflazione interna e quella internazionale. A quel punto la debolezza dell’azione politica pesò sui ritardi italiani nell’imboccare con decisione la medesima strada seguita dalle principali economie. Ciò non ‘normalizzò’ le tensioni sociali interne, nonostante la sconfitta del sindacato dopo la ‘marcia dei 40.000’ e l’esito del referendum sulla scala mobile, e l’esaurimento della lunga scia di attentati del brigatismo ‘rosso’. Le tensioni mutarono di natura e direzione canalizzate in una miscela di populismi e rivolta fiscale una volta che il meccanismo di ‘illusione fiscale’ della preferenza di debiti a tasse, cominciava a incepparsi per gli effetti di una liberalizzazione finanziaria che consentiva un ampliamento al collocamento del risparmio, metteva in concorrenza i prodotti finanziari e per gli effetti di aggravio di spesa per interessi che richiedeva nuove coperture questa volta di tipo fiscale dato che la monetizzazione del debito (e l’inflation tax) era stata inibita dal ricordato “divorzio”.

3. COLLOCAMENTO E DETENZIONE ISTITUZIONALE DEL DEBITO

18

Sulle condizioni di sostenibilità del debito influisce il merito di credito del debitore e alcuni aspetti particolari della domanda di fondi che possono cadere sotto il dominio decisionale dei governi, come la tempistica delle emissioni e le caratteristiche specifiche dei titoli rappresentativi del debito (per esempio, la valuta, nazionale o estera - compresa la “clausola oro”, nella quale possono essere contratti, i tassi d’interesse, variabili o fissi, le scadenze e le modalità di rimborso). Lo Stato nazionale può gestire le proprie esigenze di fondi in funzione delle preferenze di coloro che acquistano e detengono i titoli e anche tentare di orientare queste ultime e influire così sulle condizioni poste dai creditori per mitigarle. In particolare, i comportamenti di alcuni operatori istituzionali possono temperare i tassi d’interesse e stabilizzare componenti della domanda, rendere meno aleatoria la fase di collocamento e ridurre la volatilità delle quotazioni. La banca centrale svolge per tradizione un ruolo chiave nella gestione del debito perché, attraverso la monetizzazione del medesimo, fornisce i mezzi alternativi ai debiti cartolari (e alla tassazione), può influire sui tassi d’interesse e, inoltre, via inflation tax sulla stessa sostenibilità del debito. In base alla stima della sostenibilità del debito sono scandite le fasi critiche e le politiche e i meccanismi per risolverle.

Il successo o meno di questi tentativi è propriamente il risultato di una negoziazione in cui il debitore sovrano mette in gioco la propria ‘qualità’ e autorevolezza. Lo Stato italiano, fin dalla sua costituzione come Stato nazionale, ha cercato di ridurre la propria dipendenza dal mercato finanziario seguendo un percorso di interventi non sempre coerente e preciso 1) per ridurre, in primo luogo, la dipendenza finanziaria dall’estero, 2) stabilizzare la detenzione dello stock del debito, 3) organizzare le nuove emissioni per provvedere al rinnovo dei debiti in scadenza e alla copertura dei nuovi deficit di bilancio.

In questa sede esamineremo meglio il secondo aspetto che riguarda le caratteristiche strutturali di detenzione dello stock del debito. A partire dall’unificazione furono attuati una serie di interventi che possono essere inscritti in un processo di affinamento istituzionale e di rafforzamento della sovranità. Il discrimine tra dipendenza e sovranità fiscale e finanziaria si può tradurre in debito come fardello o come opportunità. Il passaggio dal primo al secondo non è scontato, senza costi e né irreversibile, dati i problemi di sostenibilità. Per i governi liberali incanalare il risparmio serviva a due obiettivi: rastrellare fondi per lo Stato nazionale e promuovere un senso civico di parsimonia e previdenza. Ciò poteva avvenire a tre condizioni: una crescita del reddito e del risparmio privato, un aumento della propensione al risparmio e la ‘qualità’ dei titoli di Stato che poteva incoraggiare gli investimenti finanziari privati. Per migliorare la ‘qualità’ del debito nel corso degli anni vennero sperimentate forme istituzionali volte, in primo luogo, a alleggerire il peso del debito e smorzare gli effetti che alcune variabili potevano avere sulla sostenibilità o, meglio, sulla percezione che si poteva avere di essa. Alcune delle tappe sono riportate nella tab. 1 e individuano i passaggi principali in un percorso di costruzione di istituzioni e pratiche per rafforzare la fiducia verso lo Stato debitore e forme di gestione del debito pubblico. Alcuni passaggi sono già

19

stati richiamati in precedenza e su altri insisteremo nel commento di alcune figure.

Tabella 1 – Tappe del processo di “istituzionalizzazione” del debito pubblico Dal 1861 Istituti di emissione

Dal 1861, 1888 e 1897 Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde e casse di risparmio in generale

Dal 1863, 1875, 1895 CDP (impieghi in titoli, casse postali, vincolo portafoglio)

Dalla fine dell’800 Istituti di previdenza della CDP (avanzi di gestione)

Dai primi anni del ‘900 Istituti di previdenza e assicurativi pubblici

Dagli anni ’30 Intero sistema bancario (Banca d’Italia: moral suasion)

Dal 1947 al 1975 Sistema bancario (composizione della riserva obbligatoria)

1982, 1993 ‘Divorzio’ Tesoro-Banca d’Italia e trattato di Maastricht

Post crisi 2008 Sistema bancario (condizioni di rifinanziamento presso la BCE)

CDP (moral suasion del Ministero dell’Economia)

La fig. 5 mostra la composizione del debito statale fino al 1946. Dall’Unità

fino alla grande guerra oltre il 90% del debito è rappresentato da debito consolidato, o patrimoniale, mentre la parte residua corrisponde al debito fluttuante, generalmente contratto per sopperire alle esigenze di cassa. La guerra comporta una drastica riduzione delle scadenze. Nel 1919 il debito totale è all’incirca diviso in parti uguali tra le due forme principali. Negli anni successivi si cerca di ristabilire la composizione consueta. Nel 1928 il debito consolidato ha nuovamente superato il 90%, ma dagli anni ’30 in poi il declino è inesorabile e con la seconda guerra mondiale il debito fluttuante supera quello consolidato. La parte del debito fluttuante rappresentata da anticipazioni degli istituti di emissione resta molto bassa fino alla metà degli anni ’20. La parte acquisita dalla Cassa Depositi e Prestiti sale dal 10 al 15% circa dal 1874 al 1880, scende a circa il 5% nei primi anni ’80 in corrispondenza dell’emissione del prestito Baring-Hambro, ma risale costantemente fino al 1913-14 quando supera il 20%. Anche dopo la grande guerra sulla Cassa si riversa una quota rilevante del debito fino a circa il 25% tra il 1933-1940 (fig. 5).

20

Fig. 5 – Debito del Tesoro: diviso in patrimoniale e fluttuante sul debito (di cui Buoni ordinari) e per la quota ‘monetizzata’ e in possesso della Cassa Depositi e Prestiti (in % del totale) – 1863-1946.

Fonte: Della Torre (2008, pp. 405-406).

Un passaggio essenziale per il nuovo regno fu quello di superare la

doppia dipendenza dall’estero e dal finanziamento monetario (diretto o indiretto). Il sistema oligopolistico di pluralità d’emissione, squilibrato per dimensioni d’impresa e distribuzione territoriale, creò una serie di problemi di controllo dell’offerta di moneta sia in regime di corso forzoso (fino almeno alla legge bancaria Minghetti del 1874) che di convertibilità (come già visto per il coinvolgimento di tali istituti nella grave crisi finanziaria di fine secolo). La concorrenza ritardò la formazione di un mercato monetario su titoli pubblici a breve scadenza. Solo le casse di risparmio costituirono un fronte compatto a difesa dei titoli di Stato che detenevano in portafoglio, spesso fino alla scadenza. Le riforme che riguardarono la Cassa Depositi e Prestiti mirarono a rafforzare lo stesso fronte, specialmente dopo l’istituzione delle casse di risparmio postali da parte di Sella, e a ‘nazionalizzare’ buona parte del debito fino a allora in mano a non residenti (Della Torre 2008, pp. 405-406). Le funzioni della Cassa Depositi e Prestiti si integrarono con il sistema previdenziale che si costituì verso la fine del XIX secolo. Dagli anni ’30 in poi si posero le basi per una gestione in senso moderno del debito pubblico che trovava sostegno in un sistema bancario sui cui orientamenti d’investimento influivano, in via

21

prioritaria le scelte di politica economica delle autorità monetarie fino alla liberalizzazione progressiva avviata dagli anni ’80 dopo il ‘divorzio’ tra Tesoro e Banca d’Italia.

Fig. 6 – Debito ‘istituzionalizzato’ sul PIL (in %) – 1863-2012.

Fonti: v. fig. 5. Avvertenze: M = finanziamento monetario; CDP = comprende le anticipazioni concesse e i titoli detenuti dalla Cassa Depositi e Prestiti, compresi i titoli depositati in garanzia; Banche = titoli di Stato detenuti dal sistema bancario; D istit. = il totale del debito ‘istituzionalizzato’. Le linee verticali tratteggiate delimitano le fasi di sostenibilità e i numeri corrispondono a quelle di insostenibilità (come dalla fig. 2).

22

Fig. 7 – Quote di detenzione dello stock del debito dello Stato (in %) – 1863-2012.

Fonti e avvertenze: come in fig. 6.

Il processo di istituzionalizzazione del debito fu continuo fino alla

seconda guerra mondiale, interrotto solo dalla grande guerra (fig. 6). Con esso si intende il collocamento e la detenzione di una quota crescente del debito statale presso istituzioni finanziarie in parte sotto l’influsso delle autorità monetarie. Fino al 1914 il debito ‘istituzionalizzato’ ha un andamento nettamente crescente, con due fasi ascendenti diverse. La prima si situa nel decennio dopo l’Unità. Attorno ai primi anni ’70 il debito è detenuto in prevalenza dagli istituti d’emissione a fronte di biglietti (‘circolante’ secondo la terminologia dell’epoca). Si stabilizza su un livello più basso attorno al 12% del totale (fig. 7) nel corso del decennio successivo per scendere ancora al di sotto del 10% dalla metà degli anni ’80 fino al 1914. Il ridimensionamento del ruolo degli istituti d’emissione si intreccia con la crescita costante e robusta della Cassa Depositi e Prestiti e con la detenzione del debito da parte delle banche. Per queste ultime occorre fare alcune distinzioni. Per le casse di risparmio i titoli del debito pubblico costituiscono una delle forme d’investimento privilegiate che fornisce un reddito sicuro e un’immediata liquidità. Esse impiegano una parte rilevante della raccolta in titoli della rendita o altri garantiti dallo Stato e concedono anticipazioni garantite sui medesimi. Lo stesso non si può dire, prima della seconda guerra mondiale, per le banche private per le quali i titoli

23

pubblici rappresentano principalmente un cuscinetto di liquidità e la detenzione riflette il ciclo degli affari: generalmente le banche si orientavo verso i titoli pubblici quando l’economia ristagna e i prestiti ai privati diventano più rischiosi. Fino al 1914 veniva osservato un comportamento speculare negli impieghi di banche e casse di risparmio anche in ragione della movimentazione di depositi che avveniva nelle fasi avverse del ciclo quando venivano ritirati dalle banche e versati nelle casse che li impiegavano nell’acquisto di titoli. Ciò poteva avere effetti potenzialmente stabilizzanti sul corso dei titoli pubblici ammesso che compensassero le vendite da parte dei detentori stranieri. Nella crisi degli anni ’90 del XIX secolo la compensazione non fu sufficiente a resistere alla valanga di vendite sulla borsa di Parigi.

Dalla fig. 6 si evince che quando il debito si muove in un territorio di insostenibilità, come nel primo decennio postunitario, si rafforza l’azione di riforma istituzionale nelle direzioni sopra ricordate: la sottrazione della dipendenza dalla monetizzazione del debito e l’assorbimento di titoli dal mercato dopo il rafforzamento del ruolo della Cassa Depositi e Prestiti. Dagli anni ’80 è quest’ultima a acquisire una quota di debito pari a quella precedentemente in portafoglio degli istituti di emissione, mentre le banche private, tra cui anche quelle d’emissione, iniziano a detenere titoli in funzione delle proprie scelte e esigenze di gestione.

Anche dopo la metà degli anni ’20 la Cassa riprende a svolgere il proprio ruolo istituzionale, con maggior vigore fino alla metà degli anni ’30, quando il sistema bancario ormai quasi interamente sotto il dominio ‘pubblico’ e sotto la spinta della cattiva congiuntura inizia a investire massicciamente in titoli.

Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale la quota di debito ‘istituzionalizzato’ presenta due forti avvallamenti: il primo dal 1955 al ’67 (con una discesa costante dal 25% del PIL circa al 13), la seconda dal 1994 al 2003. Nella fase intermedia di debito statale tendenzialmente insostenibile la quota di debito istituzionalizzato sul PIL oscilla tra il 30 e il 37%. Le componenti principali sono costituite 1) dalla Cassa Depositi e Prestiti che, anche in questo caso, interviene in maniera sempre più ampia nell’acquisizione dei titoli, e 2) dal sistema bancario, prima delle privatizzazioni degli anni ’90. Con l’avvio dei processi di liberalizzazione (concorrenza bancaria, apertura sull’estero) si osserva a) un collocamento progressivo dei titoli pubblici sul mercato, cioè presso il settore privato non bancario e sull’estero, e, contestualmente, b) una tendenziale riduzione delle scadenze. Lo spostamento verso la zona d’insostenibilità avvenuto negli anni più recenti, nei quali la sovranità monetaria è stata conferita alla Banca Centrale Europea, ha riportato la Cassa, rimasta il solo braccio operativo del Tesoro, nonostante la parziale privatizzazione, a giocare una parte preminente nella gestione del debito pubblico. Le banche, specialmente dopo il 2007, hanno acquisito quote crescenti di titoli di Stato soprattutto per mettere in sicurezza i propri bilanci, ma – non è escluso – per una sorta di residuo ‘spirito nazionale’ nonostante i rischi crescenti compensati però dall’esplosione dello spread nei confronti dei titoli tedeschi tra il 2010 e 2011.

24

4. LE ‘EPOCHE’ DEL DEBITO

Come si è visto, dalla seconda metà degli anni ’60 del XX secolo il debito

in termini reali prende una traiettoria molto diversa dalla stabilità relativa mantenuta fino a allora, a parte un rialzo negli anni compresi tra una guerra e l’altra (fig. 1). Si può avanzare l’ipotesi che vi siano ‘epoche’ del debito dipendenti dai regimi politici. In particolare si hanno due periodi di Stato di diritto con differenti regimi parlamentari e distribuzione dei poteri, uno di tipo oligarchico in età liberale e uno democratico e pluripartitico in età repubblicana. In mezzo, negli anni del fascismo la discontinuità è attribuibile alla prima guerra mondiale e alla preparazione della seconda. In ognuno dei tre regimi cambia l’attitudine delle classi dirigenti di fronte al debito e alle politiche che lo formano e lo riducono. In ciascuna epoca cambia la percezione dei pericoli del debito e del debito come opportunità in riferimento al diverso contesto sociale e istituzionale. Anche le situazioni di emergenza sono affrontate in tempi e con strumenti differenti. L’equivalenza ricardiana costituisce il metro di paragone per una situazione statica e per una società in cui lo scambio intertemporale tra gruppi di contribuenti della stessa classe sociale o di gruppi diversi si fonda su un criterio astratto di equità fiscale. Se viene meno intervengono complesse situazioni di ‘illusione fiscale’ che si accompagnano a quelle di ‘illusione monetaria’, con effetti ‘reali’ in entrambi i casi.

4.1. Le virtù del pareggio di bilancio in epoca liberale

L’impennata del debito del primo decennio postunitario dipese da uno

stato di necessità. I governi si trovarono nell’impossibilità di coprire le spese con il gettito delle imposte prima di mettere in piedi un ordinamento tributario secondo principi liberali e uniforme su tutto il territorio nazionale. A ministri delle Finanze, come Minghetti o Sella, viene attribuita una chiara visione della situazione di emergenza e delle linee-guida per superarla (Pedone 2013; Reviglio 2013 e Salsano 2013). Per essi il ricorso al debito è un’imposta differita per coprire spese straordinarie quando il gettito delle entrate fiscali correnti è insufficiente o potrebbe giungere in ritardo. Nel corso del tempo questo principio è la regola fondamentale del ‘buongoverno’ nello Stato fiscale moderno d’impronta liberale. Al momento dell’Unità il gettito del nuovo regno non poté corrispondere a quello complessivo degli Stati preunitari per effetto dell’abolizione di ‘balzelli’ imposti da Stati dispotico-assolutistici da parte dei vari governi provvisori. Inoltre il programma del partito moderato si fondava proprio sul rifiuto di incorporare, anche in via transitoria, l’insieme dei tributi preesistenti per le disparità di trattamento che avrebbe comportato. Il crollo delle entrate scavò una voragine nei conti pubblici finché, con fatica, non fu messo a regime un nuovo ordinamento fiscale. In un intervento parlamentare del 14 febbraio 1863, in occasione dell’approvazione del grande prestito da 700 milioni di lire, Minghetti si espresse in questi termini: «Nei tre primi anni del

25

nostro risorgimento noi abbiamo speso oltre un miliardo più delle rendite, attingendolo al credito pubblico, per l’anno 1862 abbiamo 375 milioni da saldare, per l’anno 1863 abbiamo in prospettiva 400 milioni di disavanzo […] è tempo, o signori, di fermarsi; è tempo di guardare dove andiamo per questa via» (Minghetti 1888, p. 83; cfr. Marongiu 1995, p. 73). Sui disavanzi di bilancio del triennio 1859-61 aveva inciso la spesa per interessi del debito pubblico cresciuta oltre i 70 milioni a fronte di un debito superiore a un miliardo. Il debito era stato necessario anche se «assai pericoloso; imperocché nasconde agli occhi del pubblico la differenza e la sproporzione tra le forze contributive del paese ed i suoi dispendi» (Minghetti 1888, p. 81).

Il senso di vivere al di sopra delle possibilità e la preoccupazione di diffondere un’illusione fiscale si ritrovano anche in Sella ma congiunti a un maggior pragmatismo politico. Il debito creava dipendenza dalla finanza internazionale e tale condizione andava assolutamente rimossa per completare il programma risorgimentale di uno Stato pienamente sovrano (Conti e Schisani 2011). Prima di tutto era necessario bloccare l’avvitamento continuo dei disavanzi di bilancio. Sella, in un discorso del 13 dicembre 1865 sulla situazione finanziaria, ritenne opportuno far leva sulle entrate perché la spesa, prevista per il 1866 nell’ordine di più di 900 milioni di lire, era per circa la metà dovuta a impegni incomprimibili per servizio del debito, pensioni, garanzie ferroviarie e, per l’altra metà, garantiva servizi amministrativi e di difesa ritenuti essenziali (cit. in Marongiu 1995, p. 171). L’imposizione di nuove imposte, o un aumento di quelle esistenti, era la via obbligata. Ogni rinvio avrebbe implicato un onere futuro maggiore: «continuare ad emettere rendita significa abbandonare il pareggio», anche perché il rendimento crescente sulla rendita avrebbe sottratto capitali agli impieghi produttivi e, anche per questa via, peggiorato le condizioni finanziarie dello Stato (Marongiu 1995, p. 173 e 229). La politica del rigore era condivisa da un dottrinario e eminente economista come Francesco Ferrara che, divenuto ministro delle Finanze, ritenne pericoloso adagiarsi sull’«infido aiuto del credito» (cit. da Marongiu 1995, p. 193), quando, per il consolidamento del nuovo Stato, «La più sicura difesa e il migliore di tutti gli eserciti stanno nella buona finanza» (Marongiu 1996, p. 124 per analogo concetto espresso da Minghetti).

La Destra finalmente mise in sicurezza i conti pubblici. In base ai dati sulla sostenibilità del debito la sua caduta non segnò un sostanziale cambiamento nella politica fiscale. Si accentuò la tensione tra nazionalismo e pareggio di bilancio. Il pareggio non implica di per sé uno Stato liberale ‘minimo’, ‘guardiano notturno’ per il sistema economico. Come il criterio-guida poteva valere anche in uno Stato con dimensioni di spesa più estese. Il pareggio non costituiva l’elemento di divisione tra Destra e Sinistra, cambiava il modo di come interpretarlo. Agostino Magliani, uno dei più autorevoli esponenti della Sinistra e ministro delle Finanze in più dicasteri, propugnava un’«elasticità fiscale» pur nel rispetto del vincolo del pareggio di bilancio (Marongiu 1996, p. 66). Ciò spiega, almeno in parte, il profilo seghettato assunto dal debito dopo il 1876 (in termini reali o relativi, fig. 1 e 2). La maggiore variabilità ciclica si

26

mantiene tuttavia, fino a verso la fine del secolo, entro un trend stabile nel medio e lungo periodo. Le possibilità di spesa dipendevano dal circolo virtuoso fiducia e solidità dei conti pubblici. Se i governi riuscivano a ridurre l’incertezza e a migliorare lo «state of confidence», anche il corso della rendita si rafforzava. La stessa credibilità internazionale, da cui dipendevano le condizioni di accesso ai prestiti esteri diretti o indiretti, era condizionata in buona parte dalle finanze pubbliche. Migliorando la fiducia interna e internazionale si poteva far leva sul debito per incrementare spese pubbliche ‘produttive’ che potessero ripagare il debito attraverso l’aumento indotto nel gettito. Le politiche correttive e di consolidamento del bilancio evitavano il trasferimento sugli esercizi futuri di squilibri contingenti. L’azione politica tentò di mantenere la fiducia degli investitori nella rendita anche se il pilastro implicito di tutta la politica fiscale restava per questo il ripristino della convertibilità perché rafforzava gli impegni di prudenza fiscale che si riassumevano nel pareggio di bilancio. Una volta riportati i conti in quasi equilibrio, il debito che preoccupava i governi era soprattutto quello contratto con la Banca Nazionale per i 250 milioni di lire ottenuti al momento della guerra del 1866 in contropartita della sospensione della convertibilità e l’ammontare complessivo della circolazione di biglietti per conto dello Stato ascesa poi a 940 milioni di lire. La «cancrena del corso forzoso» doveva perciò finire, come annunciò Depretis nel discorso d’insediamento del suo primo governo (cit. in Marongiu 1996, p. 36).

Per il ritorno alla convertibilità restava aperta ovviamente la questione del saldo dei conti con l’estero e il buon andamento della bilancia commerciale. Il ritorno alla convertibilità nel 1883 sembrò davvero realizzare le aspettative governative. L’ingente prestito in argento e oro concesso dalle case Baring e Hambro ricreò condizioni generali di fiducia e di ottimismo. Il corso della rendita che nel 1883 era attorno all’87% e tre anni dopo sfiorò la parità.

La convertibilità era un richiamo alla responsabilità fiscale (prima che monetaria) in materia di deficit eccessivi. Non era un rimedio. Con il ritorno alla moneta ‘sana’ si risvegliarono le preoccupazioni per una ricaduta nel corso forzoso causata da un accumulo di disavanzi imprevisti9. Luigi Luzzatti ritenne che l’abolizione della tassa sul macinato e del corso forzoso fossero state «due audacissime riforme» realizzate da Magliani: la prima poteva nuocere all’altra e la seconda, per il recupero di credibilità che comportava, rischiava di essere un pretesto per ammorbidire la severità fiscale (cit. in Marongiu 1996, pp. 288 e 350). Così avvenne: Magliani ridette elasticità al bilancio e allentò i vincoli di spesa per opere pubbliche e militari.

4.2. Verso le virtù del disavanzo

9 Occorre ricordare che l’insistenza sul pareggio in epoca liberale dipendeva anche dalle difficoltà di determinare tempestivamente le entrate e le uscite. Giolitti ricordò che il risultato di un esercizio finanziario poteva essere determinato con molti anni di ritardo, senza poi considerare gli espedienti per addomesticare i conti (cfr. Marongiu 1996, pp. 295 e 305). Per questo c’è uno scarto, spesso molto consistente, tra la contabilità in base alla quale i governi orientavano la propria azione e quella ritenuta oggi più affidabile.

27

Durante tutto il periodo dell’Italia liberale resse un patto sociale che

sostanzialmente rispettava certe condizioni dell’equivalenza ricardiana tra debito e prelievi fiscali differiti (con i quali ripagare l’intero servizio del debito). Il sistema elettorale ristretto per censo assicurava un’omogeneità di fondo tra i contribuenti e loro rappresentanti, sia in parlamento che nelle classi dirigenti di governo e, più in generale, nelle élite economiche. Inoltre, si saldava un patto intergenerazionale fondato su forti vincoli patrimonial-familiari volti a preservare un asse ereditario incardinato sui beni immobili, fonti di rendita e di prestigio. Di certo i governi erano interessati a quella che Magliani aveva definito un’«elasticità» di bilancio, la possibilità cioè di poter allentare i vincoli sulle spese ma mantenendo una situazione finanziaria ‘sana’. I costi dell’unificazione e della costruzione di uno Stato nazionale – come abbiamo visto – non erano indifferenti. L’elasticità poteva essere ottenuta attraverso ‘illusione fiscale’, ossia guastando l’equivalenza come credo sociale. Lo ‘scambio’ di un debito oggi contro prelievi aveva una sua credibilità soprattutto a livello di sistema. L’‘illusione’ trovava comunque sostegno nell’opinione pubblica se, attraverso la politica fiscale, si introducevano distorsioni tributarie tra chi oggi acquistava un titolo della rendita pubblica, piuttosto che essere assoggettato a un’imposta straordinaria, e chi – domani – contribuiva al rimborso del medesimo. Un partito del debito – per quanto socialmente trasversale e irrobustito dai parvenus della borghesia industriale – trovava adepti tra i gruppi di pressione favorevoli a una traslazione d’imposta. In questo caso un tax shifting non faceva leva su uno specifico regime di mercato attraverso il ricarico sui prezzi, ma sulla capacità di influenzare la politica fiscale dei governi e orientarla verso imposte e tasse con una base imponibile più ampia di quelle preesistenti.

Il patto sociale che aveva i suoi pilastri nel pareggio di bilancio e nella convertibilità monetaria cominciò a incrinarsi. Le prime crepe divennero evidenti attorno agli anni ’80 con l’allargamento del suffragio (dal 2 al 7% nel 1882 e, nel 1912, al 23% della popolazione) e con i cambiamenti nell’organizzazione del consenso e della protesta sociale. I governi della Sinistra, specialmente con Magliani, cercarono di interpretare e tradurre in politica fiscale quel tipo di trasformazioni che avvenivano nella società. Sempre negli stessi anni, il rapporto debito su prodotto continuò a crescere, seppure in maniera molto irregolare (fig. 2). Ciò avvenne senza peggiorare la sostenibilità. Il peso crescente assunto dalla Cassa Depositi e Prestiti, rilanciata da Sella e rinvigorita dai governi successivi, consentì di sottrarre dal mercato e dai portafogli privati, una parte rilevante dei titoli pubblici tra cui quelli detenuti all’estero. In questo modo la Cassa investiva in maniera stabile i fondi provenienti dal risparmio postale. Ciò produceva economie esterne anche per le banche la cui liquidità poteva essere gestita con costi ridotti su un mercato monetario più robusto sul quale la rendita e altri titoli avevano garanzie di controparti istituzionali in caso di vendita o di acquisto. I governi stessi, che accertavano il buon andamento delle finanze da segnali indiretti come quelli

28

provenienti dal corso dei titoli, avevano minori sorprese nell’organizzare le nuove emissioni. Non era comunque facile e scontato poter condizionare i mercati, specialmente poi quelli internazionali. Non mancarono tentativi del genere. Nello scandalo della Banca Romana fu coinvolto anche Magliani perché, in base a alcuni sospetti, avrebbe indotto l’istituto a sostenerne il corso della rendita a Parigi (Marongiu 1996, p. 445). Le modalità di intervento erano ancora molto rozze perché mancava l’affinamento istituzionale per governare senza apparire di farlo.

Il vecchio ordine inizia lentamente a aprirsi verso la fiscalità del XX secolo. Una spinta proveniva dall’economia di potenza degli Stati-nazione. L’Italia aspirava a giocare la sua parte. Lo scarto di potenzialità demografiche, economiche e militari era netto rispetto alle grandi potenze (Chabod 1951, p. 485). Già con l’Unità il paese si caricò di un aggravio di spese superiore a quello delle altre grandi nazioni europee (Brosio e Marchese 1986). Entrare in quel novero comportava impegni di spesa in esubero rispetto alle capacità contributive, malgrado la sperequazione di una distribuzione dei carichi su una massa maggiore di contribuenti attuata dai governi della Sinistra (Marongiu 1996, p. 500). A lungo andare vi era poi un rischio di ‘isteresi’. La viscosità delle spese nei riaggiustamenti verso il basso è un fenomeno che trova ampie conferme storiche (Tanzi e Schuknecht 2000; Lindert 2007). La democratizzazione degli Stati nazionali comportò la crescita sul lato della spesa sociale ma su basi di maggiore equità fiscale. Nei due casi la spinta verso l’alto delle spese e i ritardi di adeguamento delle entrate allargavano i deficit di bilancio. Durante l’età giolittiana la crescita dell’economia e il ribasso nei saggi d’interesse interni, che si andavano allineando su quelli internazionali, resero più solida la finanza pubblica prima del 1914 e allentarono i vincoli sull’espansione delle spese.

Negli anni tra le due guerre i problemi di rientro su un profilo più basso di spese e le preoccupazioni di aggravio sui contribuenti non permisero di garantire nemmeno il raggiungimento di avanzi primari, divenuti quasi norma in età liberale (fig. 3). Il pareggio temporaneamente raggiunto servì al ripristino della convertibilità, le cui conseguenze – come abbiamo visto – invertirono il recupero di sostenibilità del debito realizzato dopo la guerra specialmente per il tramite dell’inflazione.

Nel corso del XX secolo il debito pubblico diventa uno strumento essenziale per il funzionamento del mercato monetario e finanziario interno. Ciò consentiva 1) un aumento in termini reali delle entrate e spese statali, 2) un livello persistente di deficit e, per questa via, un uso politico del debito pubblico come strumento di politiche economiche espansive specialmente dopo l’inizio degli anni ’70. Prima del 1914 i debiti a breve termine erano emessi per coprire gli sfasamenti transitori tra entrate e spese generali. I deficit strutturali erano coperti con emissioni di titoli a lunga scadenza, generalmente redimibili (perché rimborsabili dalla parte di spese ‘produttive’, altrimenti con debito consolidato). La grande guerra sconvolse, non solo in Italia, tali pratiche e diffuse l’uso dei Buoni del Tesoro a breve scadenza (fig. 5). La riduzione della

29

scadenza media andava incontro alle esigenze di una massa crescente di risparmiatori (contribuenti) che preferiva detenere un’attività finanziaria molto liquida piuttosto che godere di una ‘rendita’ certa ma a un corso aleatorio. Dall’altro lato, lo Stato poteva avvalersi di ciò per ottenere fondi a più buon mercato con una frequenza più regolare di emissioni collocabili presso investitori istituzionali che ruotavano il proprio portafoglio anche se, di fatto, congelavano a lungo titoli con un alto grado di liquidità. Con la contrazione delle scadenze del debito pubblico le banche dispongono, nei sistemi bancari maturi, di titoli adatti alla propria gestione di tesoreria e la politica monetaria di un mercato sul quale trasmettere impulsi di stabilità dei corsi e di allineamento verso il basso dei tassi d’interesse.

Se si osserva l’andamento di queste variabili nel lungo periodo questo successe solo per periodi relativamente brevi. Nel XX secolo una relativa stabilità dei tassi d’interesse nominali si ottenne per un ventennio tra il 1950 e il 1970, anche se in maniera parziale, ma con una maggiore stabilità di quelli ‘reali’ nel lungo periodo successivo alla seconda guerra mondiale (fig. 3 e 4). Fino al 1914 i tassi d’interesse nominali erano su livelli generalmente più elevati e con una forte variabilità di quelli ‘reali’, ma i più alti tassi nominali sui titoli di Stato non si avvicinavano ai rendimenti più elevati raggiunti alla fine del XX secolo. Homer e Sylla (1995, p. 459) hanno attribuito queste differenze alla crescita dei mercati creditizi e all’organizzazione del sistema finanziario. La maggiore efficienza dei mercati comportava anche una maggiore inflazione delle attività finanziarie. Nel XIX secolo l’andamento comunque erratico dei corsi dei titoli a lunga scadenza (consolidati e redimibili) non scoraggiava i sottoscrittori ‘cassettisti’ che si attendevano una rendita certa, mentre metteva in allerta i governi dal perseverare in politiche fiscali giudicate rischiose e limitava l’eventuale audacia dei responsabili del dicastero delle Finanze. Invece, nei decenni del nuovo secolo le esigenze delle classi medie di collocare il proprio risparmio impegnano sempre più lo Stato a stabilizzare i corsi sui titoli a breve scadenza e a smorzare l’andamento ciclico dell’economia. L’ampia gamma di titoli di Stato a scadenze brevi e medie consente ai sottoscrittori di sottrarre porzioni di patrimonio da fluttuazioni di valore e lo Stato riduce le incertezze sui flussi di cassa derivanti dalle nuove emissioni.

5. COSTI, RISCHI DEL DEBITO E CICLO FINANZIARIO INTERNAZIONALE

I cicli della sostenibilità e insostenibilità del debito pubblico italiano

dipendono, almeno in parte, dalla credibilità delle politiche governative, ma – come abbiamo visto – anche dalle condizioni dell’offerta di credito. E, non sempre, queste ultime sono condizionate dalle capacità di ‘buongoverno’ fiscale. Per Tattara (1992) attività economica interna e debito pubblico seguono l’andamento del ciclo finanziario internazionale. De Cecco (1992, pp. 143-144) ritiene che «la ‘sostenibilità’ dell’accumulazione di debito interno italiano […] dipende dalla situazione del mercato finanziario internazionale: alcuni stock e alcuni flussi […] possono essere tollerabili o intollerabili a seconda di come

30

cambiano le cose all’estero». In particolare l’Italia che sta alla periferia perde flussi finanziari quando anche gli altri paesi periferici li perdono, «quale che sia la politica economica interna che ciascuno di essi persegue». Infine, secondo Fenoaltea (2006, p. 94) che «in Italia le importazioni di capitali sono state […] alte quando erano alte le esportazioni di capitali dall’Inghilterra, e basse quando queste erano basse» e osserva, prima del 1914, una correlazione positiva tra le attività delle costruzioni e le importazioni di capitali e negativa rispetto ai tassi d’interesse (Fenoaltea 2006, p. 106). In un’economia strutturalmente aperta al commercio estero come quella italiana, i flussi internazionali di capitali sono una componente chiave del ciclo internazionale. Anche durante i periodi di controlli valutari, a intensità variabile, dopo la prima guerra mondiale fino agli anni ’90 del XX secolo, le condizioni finanziarie internazionali influivano sullo stato della fiducia all’interno del paese. Ciò ha condizionato e influito sulle politiche di accumulo del debito e su quelle di rientro. Governi e opinione pubblica percepivano le situazioni di gravi emergenze e di rischi incombenti di crisi attraverso i cambiamenti di condizioni finanziarie del paese sui mercati finanziari internazionali.

Le condizioni di debt state hanno pesato nel breve e nel lungo periodo della storia italiana. Quanto su di esse abbia influito il ciclo internazionale può essere in parte valutato attraverso l’andamento dello spread dei tassi d’interesse. Per calcolare il differenziale di tassi d’interesse interni rispetto a quelli sui mercati internazionali sono considerati i tassi di rendimento dei titoli a lunga scadenza in Italia rispetto a quelli inglesi fino alla seconda guerra mondiale e rispetto a quelli tedeschi per il periodo successivo. Nella figura 8A si osserva un legame positivo tra variazioni percentuali annue del debito sul PIL e i punti di spread d’interesse. Ciò può essere spiegato in due maniere. 1) Livelli più elevati di spread comportano più elevati tassi di crescita del rapporto debito su reddito. In questo caso uno dei canali principali di aumento del debito è dato dall’incremento della spesa per interessi che costituisce uno dei principali fattori di accumulo relativo del debito quando i saggi d’interesse sono elevati. Ciò può essere letto come coerente con la una «debt intollerance» dovuta agli effetti non lineare del debito sulla crescita economica imputabili alla reazione dei tassi d’interesse sui mercati finanziari (Reinhart e Rogoff 2009 e 2010). 2) Un innalzamento dell’indebitamento interno comporta un differenziale più ampio tra i tassi d’interesse nazionali e quelli esteri per una possibile percezione di rischio crescente da parte dei soscrittori dei titoli del debito. A livelli crescenti nel differenziale d’interesse gli investitori esteri possono ritirare fondi e limitare l’offerta di credito, quelli interni spostarli sull’estero e su altre valute quando si attendono manovre fiscali severe, deprezzamenti del cambio e in genere per poter mantenere i flussi normali di importazioni. Questa seconda ipotesi è avvalorata anche dal confronto tra le variazioni percentuali del debito rispetto alle variazioni nello spread specialmente quando a variazioni in aumento dello spread si associano riduzioni tendenziali del debito.

31

Fig. 8 – Variazione % annua A) del rapporto debito su PIL rispetto a spread d’interesse in punti percentuali e B) rispetto a variazioni del rapporto delle spese statali rispetto al PIL

A B

Fonti: v. fig. 1 e 2 e Homer e Sylla (1995). Note: il differenziale di tassi d’interesse è calcolato rispetto ai rendimenti dei titoli a lunga scadenza inglesi fino alla seconda guerra mondiale e dal 1950 rispetto a quelli tedeschi.

La fig. 8A vede posizionati nella zona attorno all’origine, di spread

relativamente ridotti e di crescita debole dell’indebitamento, o anche di riduzione del medesimo, i periodi di tendenziale sostenibilità. In una di queste fasi, quella dal 1996 al 2007, i punti di spread restano mediamente elevati (anche se decrescenti dopo il 2000) e ciò potrebbe spiegare, o giustificare, l’impegno dei governi nella riduzione dell’alto debito. L’aumento medio del debito dal 2008 avviene con livelli di spread di poco superiori a quelli medi del periodo precedente e questo conferma quanto già osservato riguardo agli effetti della crisi dell’economia globale e dell’attenuazione delle politiche di consolidamento da parte del governo proprio in quegli anni. L’altro cambiamento da far rilevare è il superamento delle condizioni finanziarie del primo decennio postunitario. Nel «pays du déficit» si assisteva a un rapporto debito prodotto con una crescita media annua superiore al 9% e a un forte divario tra il tasso di interesse sui titoli di Stato rispetto al rendimento medio sui titoli inglesi. Nel periodo successivo il riordino della finanza pubblica è sostanziale: la dinamica pericolosa del debito è arrestata e il differenziale d’interesse più che dimezzato per quanto in aumento in prossimità della grave crisi degli anni ’90.

Le considerazioni appena svolte trovano conferma dal confronto della dinamica del debito con quella delle spese dello Stato centrale. Si possono sottolineare alcuni aspetti: 1) nel lungo periodo spesa e debito crescono insieme, 2) le soglie di insostenibilità del debito sono varcate quando l’aumento del debito rispetto al prodotto supera il 4,5% in media annua e la dinamica della spesa è superiore al 2%. Nel caso italiano non trova conferma l’associazione

32

inversa tra gli andamenti della spesa e del debito come potrebbe verificarsi in un paese nel quale politiche di spesa risultano abbastanza efficaci da trainare la domanda interna e consolidare il debito (si veda, ad esempio, per il caso inglese Chick e Pettifor 2010, p. 3). Varrebbe invece una relazione molto più convenzionale tra spesa e debito. Se si tralasciano le situazioni estreme delle guerre, in due fasi di sostenibilità le diminuzioni moderate della spesa si accompagnano a riduzioni del debito (tra il 1916 e il ’26 il rientro si realizza anche grazie a forti riduzioni di spesa a guerra finita). In altre due l’aumento della spesa e del debito resta all’incirca sotto il 2% annuo. Tutte le fasi di insostenibilità le spese statali rispetto al PIL sono superiori al 2%, con incrementi di indebitamento anche molto superiori al doppio (nel caso degli anni 1927-42 l’aumento del debito resta modesto a fronte di aumenti di spese molto più intensi, per l’effetto distorsivo degli anni di preparazione della guerra). Sulla base delle figure 8A e 8B si potrebbe concludere che generalmente il peggioramento di condizioni dell’offerta di fondi non disciplina la politica fiscale dei governi e la spesa non ingrana effetti virtuosi sulla dinamica del debito.

L’ipotesi che abbiamo avanzato è che ci siano stati processi di istituzionalizzazione del debito più pronunciati nelle fasi di maggiori difficoltà e di pericoli di crisi del debito. Tali processi miravano a indebolire gli effetti del ciclo internazionale attraverso una minore dipendenza dai mercati dei capitali esteri e esercitando forme di controllo su quelli interni. I grafici della fig. 9 consentono di avanzare alcune considerazioni a questo riguardo.

La fig. 9A mostra la dispersione dei periodi di sostenibilità e insostenibilità del debito ristretta alla sola porzione dello spazio di punti più vicino all’origine. In tre fasi di insostenibilità tendenziale la variazione della quota di emissioni monetarie a fronte del debito risulta molto elevata e spesso associata a un differenziale alto. In quella con la variazione più bassa di ricorso all’offerta di moneta, relativa agli anni 1927-42, il valore risulta comunque superiore al 10%. Nella fase di insostenibilità degli anni 1978-95 il differenziale d’interesse è molto elevato a fronte di una riduzione del ricorso del Tesoro alle anticipazioni dopo l’introduzione del cosiddetto “divorzio” del medesimo dalla Banca d’Italia e l’avvio del processo di convergenza stabilito col trattato di Maastricht. In quella degli anni successivi al 2008 nel variabili qui considerate non sembrano aver avuto una parte significativa nell’aver spinto il debito pubblico in una zona d’insostenibilità, anche se lo spread nei saggi d’interesse svolge un ruolo importante a partire dalla crisi dei debiti sovrani in Europa e specialmente di quello italiano nel 2011 (Lane 2012).

Gli altri punti rappresentano le fasi di sostenibilità o di stabilità della posizione debitoria. Nel periodo 1872-94, di stazionarietà, persiste un differenziale di interessi ancora relativamente elevato associato a una modesta riduzione tendenziale della creazione monetaria dal canale pubblico. L’altra fase di stabilità è quella che copre gli anni del secondo dopoguerra fino alla metà degli anni ’70. In essa un basso ricorso alla monetizzazione si trova associato a un differenziale nullo o favorevole all’Italia. Una situazione analoga

33

di monetizzazione moderata e con uno spread attorno ai 100 punti-base si riscontra nell’altro periodo di prosperità corrispondente all’età giolittiana. Infine negli anni 1996-2007 la sostenibilità del debito è conseguita con uno spread relativamente basso e, specialmente negli anni di adesione all’euro e di rinuncia alla sovranità monetaria, diminuisce fortemente la quota di debito monetario.

Fig. 9 - Istituzionalizzazione del debito e differenziale di tassi d’interesse

A B

C D

Fonti: v. fig. 8. Note: v. fig. 8. Nell’asse delle ordinate della fig. A, Δ% Ms/D = alla variazione % annua della parte di debito a fronte di emissione di moneta, nella fig. B Δ% quota CDP = alla variazione della quota di debito in portafoglio della Cassa Depositi e Prestiti, nella fig. C e D la Δ% debito istit. = alla variazione % del debito ‘istituzionalizzato’. Sulle ascisse delle fig. A, B e C è riportato il differenziale di saggi d’interesse in punti percentuali e nella fig. D la variazione % annua del differenziale.

La fig. 9B mostra il cambiamento intervenuto nella detenzione del debito

che ha avuto come protagonista la Cassa Depositi e Prestiti. Nel primo decennio postunitario la crescita del ruolo della Cassa si spiega con la sua ricostituzione sull’istituzione piemontese. La quota di debito detenuta resta ancora percentualmente esigua; cresce nel periodo successivo dal 1872 al ’94 e anche i punti-base del differenziale si riducono. Nella fase seguente fino alla grande guerra persiste la stessa tendenza al potenziamento del ruolo della Cassa Depositi e Prestiti che – come si vede dalle fig. 5-7 – ha una quota di detenzione

34

che ha quasi raggiunto il 20% del debito complessivo. Negli anni tra le due guerre si osserva una riduzione tendenziale del ruolo della Cassa fino al 1926 e una forte ripresa negli anni seguenti nei quali la quota detenuta raggiunge il 24%. Dal 1948 al ’77 non si hanno cambiamenti significativi: la Cassa continua a mantenere circa un quinto del debito. Dal ’78 in poi la Cassa riduce la quota detenuta al 9% circa a fronte di livelli di spread molto elevati. Negli anni seguenti i governi rilanciano la funzione della Cassa che va a supplire l’avvenuta rinuncia alla monetizzazione.

La fig. 9C chiarisce forse meglio alcuni aspetti. Il debito ‘istituzionalizzato’ – si ricorda – comprende anche i titoli in portafoglio delle banche e a riguardo valgono i caveat discussi in precedenza. Se si escludono due valori ‘in eccesso’ in termini di punti-base di spread e di variazioni nei processi di istituzionalizzazione, relativi alle due fasi di insostenibilità del 1862-71 e 1978-95, i valori corrispondenti alle altre condizioni debitorie si disperdono attorno a una tendenza generale positiva: a punti-base di spread maggiori si osservano tendenze in crescita del debito in possesso di operatori istituzionali. Come spiegare tutto ciò? L’accostamento della fig. 9D consente ulteriori precisazioni. Livelli di spread elevati inducono il Tesoro a reagire. Le reazioni possono seguire vari percorsi di aggiustamento e riequilibrio delle finanze pubbliche e di consolidamento del debito come, in parte, abbiamo già visto. A fronte di una forte componente di “rischio-paese” presente nelle differenze tra i tassi d’interesse sul debito sovrano interno rispetto a quelli delle principali piazze estere i governi nazionali possono cercare di far assorbire quote del debito a operatori istituzionali a condizione di poter esercitare sui medesimi un’influenza diretta o indiretta. Negli anni successivi all’Unità con uno spread molto elevato la tendenza all’istituzionalizzazione può aver contribuito, insieme a altre misure di politica economica, a mitigare le differenze nel costo unitario del debito e a migliorare lo stato della fiducia. La tendenza a sottrarre debito dal mercato, per collocarlo presso circuiti meno sensibili ai rendimenti relativi e per contribuire così alla stabilizzazione delle detenzioni, prosegue fino al 1914 con convergenza tra i tassi d’interesse interni verso quelli internazionali in flessione.

In due fasi d’insostenibilità molto distanti tra loro, come quelle degli anni 1927-42 e 2008-10, lo spread si allarga ma crescono anche le quote istituzionalizzate (fig. 9D). In altre due, nelle quali i livelli di spread sono relativamente bassi e tendenzialmente decrescenti, come negli anni 1916-26 e 1996-2007, anche il volano dell’istituzionalizzazione è in declino, seppure per ragioni molto diverse legate ai rispettivi contesti: di smobilizzazione dell’economia di guerra nella prima fase e di integrazione monetaria a livello europeo nella seconda. Il periodo d’insostenibilità dal 1978 al ’95 si caratterizza per le forti inibizioni all’istituzionalizzazione del più volte ricordato “divorzio” e dell’effetto Maastricht, e anche per la rilevante divaricazione degli spread che – come abbiamo visto – contribuisce a spiegare l’insostenibilità tendenziale.

6. CONCLUSIONI

35

Ogni regime politico ha applicato, o meglio, ha violato a modo suo i principi equitativi dell’equivalenza ricardiana e della stabilità monetaria. Anche in età liberale, durante il fascismo, o nelle fasi recenti della liberal-democrazia repubblicana vi sono state differenze di rilievo riconducibili, rispettivamente, 1) allo stato di emergenza finanziaria e fiscale sotto la Destra, 2) di recupero dello spirito nazional-risorgimentale nei governi della Sinistra, 3) di recupero di un certo ordine liberale in età giolittiana, 4) di stabilizzazione della credibilità interna e internazionale nei primi governi Mussolini e 5), negli ultimi, di ricerca di una ‘terza via’ per superare gli effetti delle crisi bancarie e tentare un’occupazione corporativa dei centri decisionali, infine 6) di governo della crescente integrazione internazionale con forti controlli interni dell’industria finanziaria fino alla crisi della metà degli anni ’70, 7) di rottura degli equilibri precedenti e di ‘fuga’ nel debito che si cerca di frenare o arrestare nelle ultime due fasi: 8) di adeguamento ai parametri di Maastricht e 9) di ingresso nella moneta unica europea. In un secolo e mezzo di storia della finanza italiana il debito pubblico ha svolto un ruolo decisivo nello spostamento sistematico dalle condizioni di equità ricardiana. Einaudi, come ricordato, attribuì al tradimento del buongoverno in materia fiscale il crollo dell’ordine liberale durante e dopo la guerra e la nascita del fascismo. Un forte equilibrio tra basso debito pubblico e relativa stabilità monetaria fu conseguito per circa un ventennio dopo la seconda guerra mondiale nel quale la crescita del debito venne tenuta sotto controllo, la sostenibilità mantenuta stazionaria pur con una crescita relativa della spesa pubblica finché non sono saltati equilibri internazionali e interni.

La dinamica del debito ha risentito infatti della posizione internazionale dell’economia italiana e dei vincoli che il contesto finanziario internazionale poneva. Prima del 1914 la moneta a base metallica contribuiva, anche in periodi di corso forzoso, a esercitare una forza in grado di disciplinare la politica fiscale sul pareggio di bilancio e in funzione di una credibilità finanziaria internazionale. I tentativi di ampliare l’ambito di esercizio della sovranità potevano passare per un accumulo del debito, ma a condizioni di costi crescenti. Le guerre mondiali ruppero quell’ordine soprattutto attraverso un’alta inflazione, spesso lasciata correre e anche accettata fino a ritrovare un equilibrio nei conti pubblici, sgravati soprattutto dall’onere di un debito cresciuto vertiginosamente durante la guerra, da deficit primari molto elevati il cui divario veniva rapidamente richiuso dagli effetti dell’inflazione sulla dinamica delle entrate rispetto alle spese.

Specialmente nel tardo XX secolo i governi italiani hanno ricercato nel debito un volano di sovranità e di gestione del consenso sociale facendo leva soprattutto su quella che per il liberalismo classico si traduceva in ‘illusione fiscale’. Quando la possibilità di quest’ultima soluzione di rientro resta preclusa una volta avviati i processi verso la moneta unica, il debito è esploso in termini assoluti e relativi con costi crescenti per l’innalzamento dei saggi nominali d’interesse negli anni ’80. Una delle condizioni più importanti per il rientrare in una zona di sostenibilità del debito è stata poter mantenere una credibilità finanziaria e ridurre il differenziale con i tassi sui debiti sovrani nell’area euro.

36

Per quanto l’accesso alla finanza esterna non sia stato rilevante come nel periodo postunitario, le condizioni finanziarie esterne hanno comunque condizionato le politiche fiscali e soprattutto la sostenibilità del debito. Anche nei periodi di disordine monetario, come nel primo dopoguerra, o di repressione finanziaria (dagli anni ’30 agli anni ’90 circa), i governi italiani non si sono potuti sottrarre del tutto a quei vincoli.

Il processo di gestione del debito ha svolto un ruolo importante fin dopo l’Unità e ha comportato un affinamento istituzionale per canalizzare il risparmio interno e soprattutto rendere stabile la detenzione di una parte del debito, evitare la monetizzazione e, in definitiva, sottrarre il debito dall’influenza esercitata su di esso dall’offerta di capitale (e dalla domanda di attività finanziarie) sui mercati finanziari interni e internazionali. E’ stato un modo per poter garantire e mantenere una più ampia sovranità fiscale e finanziaria. Non sempre i risultati sono stati in linea con i propositi o con le attese.

In genere le finanze pubbliche italiane sono state ‘virtuose’ quando i vincoli esterni sono stati osservati10. Poiché il debito pubblico è stato spesso elevato, le finanze sono risultate ‘sane’ se il debito era sostenibile. Politiche fiscali e finanziarie in controtendenza rispetto al ciclo internazionale sono state, parzialmente, realizzate quando i conti pubblici risultavano molto in ordine, come negli anni ’50 e ’60 del XX secolo o anche nell’età giolittiana. Negli altri periodi la finanza ha spesso operato in condizioni di rischi elevati da alti debiti, senza esporsi a default, ma spesso sul ‘filo del rasoio’ e con una maggior dipendenza dai mercati. I rischi sono risultati incombenti quando i mercati hanno contato di più: l’allontanamento dalle zone di rischi da insostenibilità è avvenuto quando i mercati hanno contato di meno e la gestione del debito è stata più efficace.

L’entrata in zone d’insostenibilità è dipesa in un caso da problemi esogeni: l’unificazione nazionale. Le guerre mondiali hanno comportato debiti elevatissimi, ma nell’immediato dopoguerra l’alta inflazione ha liquidato più o meno rapidamente il fardello del debito. Negli altri casi l’insostenibilità è stata la conseguenza di un mutamento nel ciclo finanziario internazionale o dell’introduzione di vincoli nel contesto di un riordino di relazioni sovranazionali alle quali si riteneva non ci potesse (o dovesse) sottrarre. Dopo il 1926 il ripristino di un sistema aureo, per quanto ‘addomesticato’, comportò comunque costi elevati e misure anche radicali sul piano economico e su quello finanziario specialmente dagli anni ’30 in poi. Negli anni ’80 del XX secolo le conseguenze dell’adesione al Sistema monetario europeo e, infine, agli accordi di Maastricht richiesero misure di adeguamento spesso rinviate per rendere compatibili tali scelte con i vincoli interni, tra cui quelli di consenso sociale. Il rinvio o il cattivo aggiustamento si tradussero in forme di rivolta fiscale e di deviazione del conflitto sociale in forme esasperate di populismo e al collasso di

10 Cfr. per la relazione tra deficit di bilancio e inflazione in diversi regimi monetari Tattara e Volpe (1999).

37

rappresentatività dei partiti tradizionali. La forza o la debolezza dei governi dipendeva dalle condizioni di conflitto interno ma soprattutto dall’onda lunga del ciclo internazionale, come era nel caso della ‘fortuna’ del sistema giolittiano, o dei governi centristi democristiani. Molte compagini di governo risultarono ‘indebolite’ da una tendenziale e persistente insostenibilità del debito

Anche l’uscita da una zona d’insostenibilità è dipesa o è stata accompagnata da mutamenti nel ciclo internazionale. Costituisce forse un’eccezione l’azione di risanamento portata a termine dalla Destra storica (con un qualche aiuto anche in quel caso dal breve boom dei primi anni ’70 e dai vantaggi dell’inconvertibilità). Il risanamento di fine secolo di Sonnino e quello posteriore alla crisi degli anni ’90 di un secolo dopo richiesero misure fiscali coraggiose e un riadeguamento a un contesto internazionale e europeo con risultati che possono essere considerati un successo o una resa a seconda dell’ottica negoziale considerata: per il prezzo della credibilità o per il costo della resa. Per la più recente crisi del debito non resta che attendere un nuovo ciclo internazionale favorevole.

Appendice - Contabilità del debito e coerenza con i dati della finanza pubblica

La relazione della contabilità del debito utilizzata nel testo miscela dati di flusso della finanza pubblica (in particolare, l’avanzo primario, la spesa e il prelievo) e con la consistenza del debito pubblico. Dall’unificazione nazionale le informazioni statistiche sulle categorie di flusso della finanza pubblica sono predisposte dalla Ragioneria Generale dello Stato (Ministero del Tesoro 1969 e Ministero dell'Economia e delle Finanze 2011). L’operatore pubblico, a cui fanno riferimento i dati della Ragioneria, si occupa della «gestione di bilancio e di tesoreria» (Répaci 1962, pp. 3-10) e si approssima al Tesoro dello Stato. I flussi di finanza pubblica si riferiscono pertanto a questa definizione ristretta di operatore pubblico11. Per coerenza contabile e concettuale, i dati della consistenza del debito debbono riferirsi al debito del Tesoro dello Stato.

Il Settore statale comprende il Tesoro, la Cassa Depositi e Prestiti e le aziende autonome. Trascurando il debito delle aziende autonome, il riferimento al Settore statale comporta a) il consolidamento del debito del Tesoro verso la Cassa (costituito nelle diverse fasi storiche da combinazioni di debiti consolidati e redimibili e debito fluttuante) e b) l’inserimento della raccolta della Cassa Depositi e Prestiti, per le passività collocate fuori del perimetro del Settore Statale (Della Torre 2002, pp. 11-19). Il passaggio da debito del Tesoro a quello

11 Per le definizioni di operatore pubblico (Tesoro dello Stato, Settore Statale, Settore Pubblico e, più di recente, Amministrazioni Pubbliche) vedi Balassone, Mazzotta e Monacelli (2008, pp. 9 ss.).

38

del Settore statale è quindi pari alla differenza tra la raccolta della Cassa Depositi e Prestiti e gli impieghi di questa verso il Tesoro. Dato che la Cassa ha, come qualsiasi intermediario creditizio, un attivo finanziario pari grosso modo al passivo, la differenza tra raccolta della Cassa e impieghi di questa verso il Tesoro è eguale alla parte restante degli impieghi della Cassa, quelli a favore degli enti locali. Pertanto il debito del Settore statale è più elevato del debito del Tesoro, per un’entità pari agli impieghi della Cassa verso gli enti territoriali.

Il debito degli enti locali verso la Cassa assume grande rilevanza a livello dimensionale dopo la fondazione delle Casse postali nel 1875 e notevole instabilità temporale, per cui esiste una certa divaricazione tra debito del Settore statale e del Tesoro in relazione dell’aprirsi e del ridursi del ricorso della finanza locale alla Cassa Depositi e Prestiti (Della Torre 2013b, fig. 3). Ci sono pertanto due buone ragioni per non associare la spesa per interessi misurata dalla Ragioneria con il debito del Settore statale: entità e composizione qualitativa del debito.

Per la stima del debito del Tesoro dello Stato abbiamo utilizzato la serie storica del debito delle Amministrazioni Pubbliche costruita in Banca d’Italia da Francese e Pace (2008) e aggiornata in Balassone, Francese e Pace (2013). Siamo partiti dal debito “non consolidato” acceso alle Amministrazioni centrali, che comprendono le amministrazioni centrali dello Stato diverse dagli istituti di previdenza: Stato, organi costituzionali, agenzia per il Mezzogiorno, Cassa Depositi e Prestiti (fino alla privatizzazione del 2003) (Banca d’Italia 2004; e De Cecco e Toniolo 2013), ex aziende autonome con servizi resi gratuitamente all’utenza (es. Anas e Foreste Demaniali) (Francese e Pace 2008, p. 11). All’interno delle Amministrazioni centrale sono rilevanti, dal lato dimensionale, il Tesoro dello Stato e la Cassa Depositi e Prestiti. Pertanto, trascurando i debiti delle ex aziende autonome, sottraendo dai dati delle Amministrazioni centrali la raccolta della Cassa si perviene a una stima del debito del Tesoro.

Il confronto tra questa ricostruzione e i dati di Zamagni (1998) (ricondotti da debito del Settore Statale a debito del Tesoro) mostrano una buona aderenza per gli anni tra l’Unità e la fine del primo conflitto mondiale, con significativi scostamenti tra le due guerre mondiali, a ragione del diverso trattamento del debito estero tra le due serie (Francese e Pace 2008, pp. 18-21, 25).

BIBLIOGRAFIA Artoni Roberto (2005), “Note sul debito pubblico italiano dal 1885 al 2001”, in

Rivista di storia finanziaria, n. 15. Artoni, Roberto e Sara Biancini (2003), Il debito pubblico dall'Unità ad oggi, in

Pierluigi Ciocca e Gianni Toniolo (a cura di), Storia economica d'Italia, 3: Industrie, mercati, istituzioni, 2: I vincoli e le opportunità, Roma-Bari, Laterza, pp. 269-380.

Baffigi, Alberto (2013), I conti nazionali, in Gianni Toniolo (a cura di), L'Italia e l'economia mondiale dall'Unità a oggi, Venezia, Marsilio, pp. 215-255.

39

Balassone, Fabrizio, Biagio Mazzotta, e Daniela Monacelli (2008), "I principali saldi di finanza pubblica: definizioni, utilizzo, raccordi", in Ministero dell’Economia e delle Finanze - Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato - Servizio Studi (Strumenti e metodi), n. 1.

Balassone, Fabrizio, Maura Francese, e Angelo Pace (2013), Debito pubblico e crescita economica, in Gianni Toniolo (a cura di), L'Italia e l'economia mondiale dall'Unità a oggi, Venezia, Marsilio, pp. 711-733.

Balassone, Fabrizio, Mazzotta, Biagio e Daniela Monacelli (2008), "I principali saldi di finanza pubblica: definizioni, utilizzo, raccordi", in Ministero dell'Economia e delle Finanze - Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, Studi e pubblicazioni, n. Gennaio.

Banca d’Italia (2004), “La trasformazione della CDP in società per azioni e gli effetti sul debito pubblico, in Bollettino Economico, n. 42, marzo.

Banca d’Italia (2008), “Serie storiche del debito delle amministrazioni pubbliche”, in Supplementi al Bollettino Statistico. Note metodologiche, XVIII, n. 73, 11 dicembre.

Bianchi, Bruno (1979), Appendice statistica: il rendimento del consolidato dal 1862 al 1946, in Fausto Vicarelli (a cura di), Capitale industriale e capitale finanziario: il caso italiano, Bologna, Il Mulino, pp. 61-138.

Brosio, Giorgio, and Carla Marchese (1986), Il potere di spendere. Economia e storia della spesa pubblica dall'Unificazione ad oggi, Bologna, Il Mulino.

Casarosa, Carlo (1988), Il significato economico del rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo: un'analisi critica, in Augusto Graziani (a cura di), La spirale del debito pubblico, Bologna, il Mulino, pp. 63-74.

Cerrito, Elio (1999), "Cambio, ciclo, efficienza, istituzioni: problemi di politica monetaria nell'Italia di fine Ottocento. Aspetti su alcune evidenze empiriche", in Rivista storica italiana, CXI, n. 2, pp. 476-542.

Cerrito, Elio (2003), "Depressioni. Caratteri e genesi della depressione di fine XIX secolo, più altre tre (e un'altra ancora)", in Studi storici, 44, n. 3-4, pp. 927-1005.

Chabod, Federico (1951), Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari, Laterza.

Chick, Victoria, and Ann Pettifor (2010), "The Economic Consequences of Mr Obborne. Fiscal Consolidation: Lessons from a Century of Macroeconomic Statistics", in www.debtonation.org/2010/06/the-economic-consequences-of-mr-osborne/

Ciocca, Pierluigi (2013), "Brigantaggio ed economia nel Mezzogiorno d'Italia, 1860-1870", in Rivista di storia economica, XXIX, n. 3, pp. 3-30.

Comín, Francisco (2014), Default, rescheduling and inflation. Public debt crisis in Spain during the 19th and 20th centuries, (ms.).

Confalonieri, Antonio (1952), "Aspetti della politica del debito pubblico", in Moneta e credito, V, n. 19-20, pp. 259-283.

Conti, Giuseppe, e Maria Carmela Schisani (2011), "I banchieri italiani e la haute banque nel Risorgimento e dopo l’Unità", in Società e Storia, n. 131, pp. 131-168.

40

De Cecco, Marcello (1990), Introduzione, in Marcello De Cecco (a cura di), L'Italia e il sistema finanziario internazionale 1861-1914, Roma-Bari, Laterza, pp. 3-54.

De Cecco, Marcello (1990), The Italian national debt conversion of 1906, in Rudiger Dornbusch e Mario Draghi (a cura di), Public debt management: theory and history, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 263-284.

De Cecco, Marcello (1992), Commento a Toniolo e Ganugi (1992), pp. 143-145. De Cecco, Marcello e Gianni Toniolo (a cura di) (2013), Storia della Cassa Depositi

e Prestiti. Un nuovo corso: la società per azioni, Laterza, Roma-Bari. De Cecco, Marcello, e Antonio Pedone (1995), Le istituzioni dell'economia, in

Raffaele Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano, Roma, Donzelli, pp. 253-300.

Della Posta, Pompeo, e Paolo Di Martino (2001), "Crisi valutarie degli anni Novanta del XIX e del XX secolo", in Studi e note di economia, n. 3, pp. 67-107.

Della Torre G. (2000), “Appendice. Dati quantitativi, fonti statistiche e note metodologiche”, in Marcello De Cecco e Gianni Toniolo (a cura di), Storia della Cassa Depositi e Prestiti, Laterza, Roma-Bari.

Della Torre G. (2002), “Il circuito del Tesoro e la Cassa Depositi e Prestiti, 1863-1943”, in Quaderni monografici della Cassa Depositi e Prestiti, n. 12.

Della Torre G. (2013a), L’intermediazione della Cassa Depositi e Prestiti tra ente pubblico e società per azioni: una valutazione quantitativa, in De Cecco e Toniolo (a cura di) (2013).

Della Torre G. (2013b), “La serie statistica del debito delle Amministrazioni Locali: Italia, 1861-2012. Alcune prime note sulla ricostruzione di Banca d’Italia (2008)”, (ms.).

Della Torre, Giuseppe (2008), Collocamento del debito pubblico e assetto normativo del sistema creditizio italiano (1861-1914), in Alberto Cova, Salvatore La Francesca, Angelo Moioli e Claudio Bermond (a cura di), Storia d'Italia, Annali 23: La banca, Torino, Einaudi, pp. 401-420.

Einaudi, Luigi (1933), La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, Bari - New Haven, Laterza - Yale University Press.

Fiorito, Riccardo (2014), "Extra Government Debt in the Great Recession: All Intentional?", in Luiss Lab of European Economics, March.

Francese M., A. Pace (2008), “Il debito pubblico italiano dall’Unità a oggi. Una ricostruzione della serie storica”, in Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza, n. 31.

Homer, Sidney, e Richard Sylla (2005 [1963]), A History of Interest Rates, Hoboken, New Jersey, Rutgers University Press [John Wiley & Sons, Inc.].

Istat, Annuario statistico italiano (vari anni)

Lane, Philip R. (2012), "The European Sovereign Debt Crisis", in Journal of Economic Perspectives, 26, n. 3, pp. 49-67.

Lindert, Peter H. (2007), Spesa sociale e crescita, Milano, Università Bocconi Editore.

41

Macry, Paolo (2013), "Ancora sul brigantaggio meridionale", in Rivista di storia economica, XXIX, n. 3, pp. 349-354.

Marongiu, Gianni (1995), Storia del fisco in Italia, I: La politica fiscale della Destra storica (1861-1876), Torino, Einaudi.

Marongiu, Gianni (1996), Storia del fisco in Italia, II: La politica fiscale della Sinistra storica (1876-1896), Torino, Einaudi.

Masi, Paola (1989), "L'influenza del debito pubblico sulla costituzione dei sistemi finanziari: il caso italiano, 1860-1893", in Rivista di storia economica, n.s., VI, n. 1, pp. 60-86.

Mauro, Paolo, Nathan Sussman, and Yishay Yafeh (2002), "Emerging Market Spreads: Then versus Now", in Quarterly Journal of Economics, 117, n. 2, pp. 695-733.

Milward, Alan S. (1995), "Allegiance. The Past and the Future", in Journal of European Integration History, I, n. 1, pp. 7-19.

Minghetti, Marco (1888), Discorsi parlamentari, Roma, Tip. della Camera dei Deputati, vol. II.

Ministero del Tesoro - Ragioneria Generale dello Stato (1969), Il bilancio dello Stato italiano dal 1862 al 1967, II: Allegati statistici: Risultati d'insieme e differenziali, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato.

Ministero dell'Economia e delle Finanze - Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato - Servizio Studi Dipartimentale (2011), "La spesa dello Stato dell'Unità d'Italia 1862-2009 ", in Studi e pubblicazioni, , n. Gennaio.

Montiel, Peter J. (2005), "Public Debt Management and Macroeconomic Stability: An Overview", in The World Bank Research Observer, 20, n. 2, pp. 259-281.

Morcaldo, Giancarlo (1993), La finanza pubblica in Italia (1960-1992), Bologna, il Mulino.

Obstfeld, Maurice, and Alan M. Taylor (2004), Global Capital Markets: Integration, Crisis, and Growth, Cambridge, Cambridge University Press.

Pasinetti, Luigi (1998), "European Union at the End of 1997: Who is within the Public Finance "Sustainability" Zone?", in BNL Quarterly Review, LI, n. 204, pp. 17-36.

Pasinetti, Luigi (1998), "L'"anomalia" del debito pubblico italiano: due modi per affrontarla", in Atti della Accademia Nazionale dei Lincei - Classe di scienze morali, storiche e filologiche - Rendiconti, CCCXCV, n. IX, fasc. 3, pp. 511-525.

Pasinetti, Luigi (1998), "The myth (or folly) of the 3% deficit/GDP Maastricht 'parameter'", in Cambridge Journal of Economics, 22, n. 1, pp. 103-116.

Pedone, Antonio (2013), La politica economica e finanziaria, in Accademia dei Lincei, Quintino Sella scienziato e statista per l’Unità d’Italia, Roma, Scienze e lettere editore commerciale.

Ragioneria generale dello Stato (1969), Il bilancio dello Stato italiano dal 1862 al 1967, 4 vols, Roma, Poligrafico dello Stato.

42

Reinhart, Carmen M., and Kenneth S. Rogoff (2010), "Growth in a Time of Debt", in American Economic Review, 100, n. 2, pp. 573-578.

Reinhart, Carmen M., e Kenneth S. Rogoff (2009), This Time is Different. Eight Centuries of Financial Folly, Princeton - Oxford, Princeton University Press.

Reinhart, Carmen M., e Kenneth S. Rogoff (2010), Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria, Milano, Il Saggiatore.

Reinhart, Carmen M., Vincent R. Reinhart, and Kenneth Rogoff (2012), "Public Debt Overhangs: Advanced-Economy Episodes Since 1800", in Journal of Economic Perspectives, 26, n. 3, pp. 49-67.

Répaci, Francesco A. (1962), La finanza pubblica italiana nel secolo 1861-1960, Bologna, Zanichelli.

Reviglio, Franco (2013), Il buon governo dei conti pubblici, in Accademia dei Lincei, Quintino Sella scienziato e statista per l’Unità d’Italia, Roma, Scienze e lettere editore commerciale.

Salsano, Fernando (2013), Quintino Sella ministro delle Finanze. Le politiche per lo sviluppo e i costi dell’Unità d’Italia, Bologna, il Mulino.

Salvemini, Giancarlo, e Vera Zamagni (1993), Finanza pubblica e indebitamento tra le due guerre mondiali: il finanziamento del settore statale, in Franco Cotula (a cura di), Ricerche per la storia della Banca d'Italia, Roma-Bari, Laterza, pp. 139-283.

Schisani, Maria Carmela (2008), I caratteri originali del mercato finanziario italiano (1861-1914), in Alberto Cova, Salvatore La Francesca, Angelo Moioli e Claudio Bermond (a cura di), Storia d'Italia, Annali 23: La banca, Torino, Einaudi, pp. 341-372.

Sylos Labini, Paolo (1998), "Sviluppo economico, interesse e debito pubblico", in Atti della Accademia Nazionale dei Lincei - Classe di scienze morali, storiche e filologiche - Rendiconti, CCCXCV, n. IX, fasc. 3, pp. 533-544.

Sylos Labini, Paolo (2004 [1948]), "Saggio dell'interesse e reddito sociale", in Rivista italiana degli economisti, IX, n. 1, pp. 153-183.

Sylos Labini, Paolo (2004), Torniamo ai classici. Produttività del lavoro, progresso tecnico e sviluppo economico, Roma-Bari, Laterza.

Tanzi, Vito, e Ludger Schuknecht (2000), Public Spending in the 20th Century. A Global Perspective, Cambridge, Cambridge University Press.

Tanzi, Vito, e Ludger Schuknecht (2000), Public Spending in the 20th Century. A Global Perspective, Cambridge, Cambridge University Press.

Tattara, Giuseppe (1992), Commento a Zamagni (1992), pp. 94-102. Tattara, Giuseppe e Mario Volpe (1999), Italy, Fiscal Dominance and the Gold

Standard Age, in Maria Cristina Marcuzzo, Lawrence H. Officer e Alessandra Roselli (a cura di), Monetary Standards and the Exchange Rates, London - New York, Routledge, pp. 229-263.

Toniolo, Gianni e Piero Ganugi (1992), Il debito pubblico italiano in prospettiva secolare (1876-1947), in Ente per gli studi monetari bancari e finanziari "Luigi Einaudi", Il disavanzo pubblico in Italia: natura strutturale e politiche

43

di rientro, II: Le politiche di rientro: problemi macro e microeconomici dell'aggiustamento, Bologna, il Mulino, pp. 103-142.

Toniolo, Gianni, Leandro Conte, e Giovanni Vecchi (2003), "Monetary Union, institutions and financial market integration: Italy, 1862-1905", in Explorations in Economic History, 40, n. 4, pp. 443-461.

Zamagni, Vera (1992), Debito pubblico e creazione di un nuovo apparato fiscale nell'Italia unificata (1861-76), in Ente per gli studi monetari bancari e finanziari "Luigi Einaudi", Il disavanzo pubblico in Italia: natura strutturale e politiche di rientro, II: Le politiche di rientro: problemi macro e microeconomici dell'aggiustamento, Bologna, il Mulino, pp. 9-93.

Zamagni, Vera (1998), "Il debito pubblico italiano 1861-1946: ricostruzione della serie storica", in Rivista di storia economica, XIV, n. 3, pp. 207-242.

Zamagni, Vera (1999), "Una rettifica", in Rivista di storia economica, XV, n. 3, pp. 339-342.

Zamagni, Vera, Franco Osculati et al. (1988), Ministero del Tesoro, Il debito pubblico in Italia 1861-1987, vol. I, Roma, Poligrafico dello Stato.