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Tintin nella letteratura a fumetti per l'infanzia e la gioventù: qual'è il limite dell'amicizia

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Jataka Sataka, racconti mitici delle vite precedenti del Buddha – ilBodhisattva quando era una lepre donò il suo stesso corpo,

gettandosi da sé nel fuoco, per non far morire di fare un asceta chenon l’avrebbe mai ucciso per cibarsene – schizzo di Gianfranco

Goria fatto mentre traduceva questo racconto dall’originale in linguaPali, la lingua del canone buddista – 1975 ca.

Statuetta basata sulla versione originale inlegno di Patrick Regout – Tintin e Chang,

oggetto anche di una vertenza legale: vedi suhttp://goo.gl/m2uYX4

Per qualcuno non c’è, il limite. Per qualcuno è chiaro che non c’è amore più grande che dare la vitaper qualcuno. E’ Giovanni (15, 13-15) che citaGesù? E’ Gesù che cita Buddha (Jataka)?

E’ Tintin, in Cina nel 1936 (in bianco e nero,poi a colori nel 1946) e in Tibet nel 1958. Tintin vive proprio questo concetto di amiciziasenza limite. Certo, ci si dovrebbe chiederecosa vuol dire essere davvero amici, giacché“amico” è un termine spesso usato asproposito.

Ma per uno come Tintin non ci sono dubbi. Sabene per chi rischiare la pelle e, in questocaso, si tratta del giovane Chang, l’amico chegli ha fatto scoprire i propri limiti culturali, che lo ha risvegliatoal rispetto per la diversità, che gli ha fatto capire quanto fossestolto adeguarsi agli stereotipi del suo tempo. C’è unoscivolamento costante fra il Chang della finzione, il ragazzinoche, sempre istintivamente, senza pensarci un attimo (e quindinon per amicizia, ma per pura generosità d’animo), Tintin salvadalle acque ne Il Loto Blu, e il Chang della realtà, il giovanottoche era venuto dalla Cina negli anni trenta per studiare arte aBruxelles e che ha aperto la mente al giovane Hergé, fino adallora schiavo del “pensiero comune”, di quel che gli era statoinculcato nell’ambiente in cui aveva vissuto. Il Chang dellarealtà gli offre anche la possibilità di evolvere artisticamente,mettendolo a confronto con l’arte antica del suo Paese e fra idue si crea un legame che andrà oltre i limiti geografici. ChangChong Jen infatti deve poi tornare in Cina e Hergé ne perde letracce. Tempi decisamente difficili, quelli, e le comunicazioninon erano certo quelle odierne. Ci vorranno molti anni diricerche, dopo la guerra, perché Hergé riesca, in modoavventuroso, a ritrovare l’amico e a farlo tornare a Bruxelles.L’evento colpì l’intera nazione: le televisioni seguirono l’arrivodi Chang e il commovente nuovo incontro dei due amici nellarealtà, dopo quello avuto solo nella finzione con Tintin in Tibet. E’ il 18 marzo 1981, sono passati 45anni e Hergé è molto malato, ormai, come si vede dalle immagini: morirà due anni più tardi, il 3 marzo1983. Quando, alle telecamere, Hergé attribuisce a Chang l’immenso merito di avergli aperto “porte efinestre”, sa bene che non si parla solo della conoscenza di una lontana cultura millenaria, ma di molto,molto di più.

L’artista Chang patirà, naturalmente, anche la rivoluzione culturale cinese, che non amava punto gliintellettuali d’alcun tipo, e in Patria dovrà quindi guadagnarsi da vivere facendo lo spazzino. Madiventerà un artista apprezzato quando quella disastrosa rivoluzione nella rivoluzione giungerà alproprio termine. Prenderà poi la cittadinanza francese, dopo aver ritrovato Hergé, nel 1985, si stabiliràin Francia su richiesta di Danielle Mitterrand, e continuerà a fare lo scultore, fino alla propria morte, l’8ottobre 1998.

Invece la sorte del Chang di carta ci è ignota. E’,comunque, proprio la sua praticamente certascomparsa in un tragico incidente aereo ascuotere la tranquilla vacanza montana di Tintin. IlDC 3 della linea Patna – Katmandu si schiantacontro il massiccio dello ShishaPangma (Gosainthān era il nome ufficiale all’epocadegli eventi) a causa di una tempesta e i quotidianiche riportano la notizia non offrono alcunasperanza per i 14 passeggeri e i 4 membridell’equipaggio: la zona è deserta, il freddoinsostenibile, i soccorsi faticano a raggiungere lameta e non potranno mai arrivare in tempo, sepure qualcuno fosse sopravvissuto allo schianto.Tintin non sa ancora che il suo amico era uno diquei disgraziati, quando, leggendo, commenta “Poveretti! Genitori, figli e amici li stavano aspettando…invece avevano appuntamento con la morte.”. Come non ricordare Samarcanda e l’inutilità deltentativo di sfuggire all’appuntamento con la nera signora, o l’identico appuntamento dell’amica diGuccini nella canzone a lei dedicata?Occorreranno ancora diverse pagine prima che noi si debba vedere Tintin in lacrime. Ma allo sconfortoprende rapidamente posto la determinazione di Tintin: sulla base di un inaffidabile incubo il nostrogiovane reporter è certo che Chang non sia morto e che egli debba assolutamente andare a salvarlo.Una spinta emotiva, totalmente irrazionale, priva di alcuna prova concreta, costringe il razionalissimoragazzo a seguire l’istinto. Di contro, l’emotivo, istintivo e irrazionale capitano Haddock, resiste, conargomenti concreti e ragionevolissimi, alla decisione di Tintin: “Ma ragazzo mio, questa è una follia!”.Siamo all’inversione dei ruoli? Haddock deve per forza cercare a tutti i costi di impedire all’amico (cheormai considera come un figlio, nonostante si diano del lei) di ficcarsi in una impresa non solodisperata, ma nella quale il rischio di perdere la vita è esageratamente alto, quasi una certezza, oltreche privo di giustificazioni razionali.Niente da fare, proprio a motivo dell’amicizia che non conosce ragioni, che non accetta ostacoli e che èpronta a dare la vita, Tintin è irremovibile. Cosa resta da fare al povero Haddock, la cui amicizia èanch’essa senza limiti?

Di più non voglio raccontarvi qui: dovete leggerlo, questo racconto, tutto basato sul sentimentodell’amicizia e sul colore bianco. Smorzerò, anzi, la tensione, dicendovi che Tintin era in vacanza, con

Haddock e il professor Girasole, all’Hotel des Sommets, nelle Alpi dell’Alta Savoia, a Vargèse (col suolago, la sua spiaggia, le sue montagne, le sue passeggiate, il suo casinò, come recita il cartellostradale posto nella prima vignetta del 17 settembre 1958, vignetta che verrà eliminata nel rimontaggioper l’edizione in albo cartonato del 1960), prossimo al bianco dei ghiacciaci. Hergé amava quellemontagne, la Svizzera e l’Italia, a giudicare dai suoi viaggi. Normale che abbia deciso di far trascorrereun periodo di riposo ai suoi eroi da quelle parti. Va da sé che il nome del paesino montano sia“inventato”, ma fino a un certo punto. Lo troviamo già citato nell’avventura La Vallée des cobras (dellaserie Les Aventures de Jo, Zette et Jocko del 1939 e che diventerà albo a colori solo nel 1957). E’ ilpaese in cui sembra esser solito andare in vacanza il Mahārāja di Gopal (sì, quello che regalerà ilfamoso gioiello alla soprano Bianca Castafiore, ma questa è, davvero, un’altra storia), che però scendeall’Hôtel des Neiges, e dove i Legrand (Jo, Zette, Jocko e genitori) hanno uno chalet.

Ma il punto è: esiste o no, Vargèse (Vargèze, nella prima versione)?Manco a dirlo, questi sono gli argomenti con cui si divertono un sacco i tintinofili e tintinologi come me!Su Wikipedia troverete una scheda dedicata a questo paesino di villeggiatura, indicato come “difantasia”. Ma la fantasia tende a costruirsi partendo dalla realtà, si sa. E parte del divertimento delfumettista sta anche nel seminare indizi per vedere se i suoi lettori sapranno trovarli. In questo caso laricerca deve spostarsi all’avventura degli anni trenta, pubblicata dalla rivista cattolica perragazzi Cœurs Vaillants che aveva chiesto a Hergé una serie che desse un esempio migliore aigiovani cattolici (storie con una famiglia, insomma, visto che Tintin non ne aveva e sembrava pure nonlavorare mai per andarsene sempre in giro in cerca d’avventure). Il 19 gennaio 1936 esce la primapuntata della nuova serie sul numero 3 della rivista, ma è nel 1939 che (secondo quanto si legge qui) si scopre che “… Jean Vaillant, qui visitait … la Maison de Repos des Cœurs Vaillants, à Saint-Gervais, en Haute-Savoie, se promenait allègrement … sur les pentes enneigées du Mont d’Arbois,lorsqu’il vit venir à lui, à toute vitesse … Jo, Zette et Jocko…“. Gli appassionati, come si vede, si sonodati un gran da fare, nei forum, e hanno offerto una soluzione plausibile assai. Peraltro Vargèse suonadecisamente come l’anagramma fonetico di Gervais ed è coerente coi nomi della zona. In tal casoparrebbe evidente che Hergé scelse quel nome per richiamare intenzionalmente la cittadina dellacitata casa di riposo collegata al nome della rivista francese, una delle tante che si trovavano (e sitrovano) da quelle parti. Ma… esisteva davvero una casa di riposo con tale nome? Esisteva forse unacasa di riposo collegata in qualche modo alla casa editrice cattolica che pubblicava quella storia?Volete cimentarvi nel trovare risposta a questi quesiti?

Per la cronaca, la striscia pubblicitaria che vedete qui sopra, apparsa sul giornale Tintin numero 522del 23 ottobre 1958 e che annuncia l’uscita della prima puntata di Tintin in Tibet, contiene testi diversida quelli definitivi e ufficiali. Testi che curiosamente collocano la fittizia Vargèse a una ventina dichilometri da Chamonix: è più o meno la distanza che Google Maps indica fra le terme di SaintGervais e Chamonix. A questo punto sarete diventati pignoli e vorrete sapere perché la data ufficialedella prima vignetta è il 17 settembre 1958, mentre l’annuncio dice al lettore che la storia uscirà il 30ottobre 1958. Forse quel banner è del’edizione francese del giornale Tintin, mentre la storia era giàuscita prima nell’edizione del Belgio? A buon ricercatore, poche parole…

Una quantità enorme di cose (non solo di questo tipo) si nascondono in ogni storia di Tintin, come intutti i grandi romanzi, e ne creano il fascinoso ambiente complessivo. Cose serie e cose divertenti. Emolti piccoli dettagli. Non sempre corretti, a dire il vero. Peraltro come sarebbe possibile la perfezione?E, in fondo, i piccoli blooper che si trovano, aggiungono divertimento al lettore appassionato. Ce nesono, certo, anche nel curatissimo Tintin in Tibet e ve ne segnalo qualcuno, per il vostro piacere extraletterario.

Intanto possiamo notare che, delle 62 tavole che compongono il racconto, 6 sono ambientate inEuropa, poi ce ne sono 3 in India, per passare a Nepal e Tibet in modo non chiaramente definito dapagina 10 a pagina 27. Il Tibet avrà l’esclusiva sicura da pagina 27 fino alla fine. La collocazione

temporale della storia viene definita dalla busta della lettera di Chang: ci sono un timbro postale e deifrancobolli. L’annullo porta la data del 19 luglio 1958. Tintin poi parte per il Tibet dove arriva senzaproblemi, per cui possiamo supporre che sia prima del 10 marzo 1959, quando nel Tibet giàoccupato dalla Cina ci fu la grande rivolta di Lhasa contro l’esercito cinese, con gran numero di morti, ilDalai Lama dovette fuggire all’estero e l’annessione alla Cina venne definitivamente completata. Tintinavrebbe avuto serissime difficoltà a passare la frontiera in quella situazione. I disegni mostranochiaramente che i nostri eroi sono in Francia in estate. Insomma, ci sono indizi bastanti a collocare glieventi nell’estate del 1958, quindi grosso modo in contemporanea con la sua uscita sulla rivista Tintin.

A questo punto ci dedichiamo alle cosette che nell’insieme del racconto non creano alcun problemanarrativo, ma che divertono da morire i ricercatori accaniti di blooper di vario genere. Si arriva a Delhicon un volo di linea per poi partire, tre ore dopo, per il Nepal. In questo breve lasso di tempo si fal’impossibile: dall’aeroporto internazionale al Qutab Minar, quindi al minareto a sud di Nuova Delhi, epoi il Forte Rosso nella vecchia Delhi, e ancora si visita un mausoleo a sud di Nuova Delhi, il JamaMasjid a vecchia Delhi e il Rajghat a est della vecchia Delhi, avendo anche il tempo di perdersi nellacittà vecchia… Decisamente impossibile. Ma voi non ci farete caso, ovviamente, presi dallo svolgersidell’azione, com’è giusto che sia in letteratura. Tuttavia, vi capitasse di andare a Delhi, fate la prova,visitate in quell’ordine i vari monumenti e scoprirete che… Hergé non ci era sicuramente andato dipersona!Lo si nota anche dalle case del villaggio tibetano, ampiamente decorate col legno (quindi belle dadisegnare), che sarebbero invece tipiche di zone più boscose. Ma tant’è: l’autore ha usato molta belladocumentazione fotografica, ma non è certo diventato matto con i dettagli più minuti. Non ha contato,per dire, il numero di braccia che la tradizione richiede abbia una determinata statua, qua e là i colorinon sono quelli previsti dall’iconografia tradizionale (ma non escludiamo che le foto usate fossero inbianco e nero) e manca qualche scalino richiesto dalla specifica architettura religiosa (dove i numerisono significativi). In compenso, come praticamente sempre, le scritte non sono a casaccio: possonotutte essere regolarmente tradotte dalle varie lingue utilizzate. Poi ci sono i consueti giochi di parole ela toponomastica inventata basandosi su paesi del Belgio modificati per avere un “caratteretibetanoide”: Wei-Pyiong, Poh-Prying e Khor-Biyong, per fare degli esempi citati espressamente daHergé il 3 maggio 1979, sono rispettivamente derivati da Wépion, borgo nella provincia di Namen,Poperinge, che è nelle Fiandre, e Corbion, paesino delle Ardenne vicino a Bouillon. Poi ci sono levariazioni dovute ad agenti esterni, come lo sfortunato DC 3 che è esattamente (e giustamente) quellodelle linee aeree indiane, ma che diventa Sari Airways nelle edizioni successive a seguito dellecomprensibili richieste della compagnia aerea. Ma a quanto pare, nessuno dei preoccupati richiedentinotò che a pagina 28 si vedeva benissimo il logo della compagnia e a pagina 58 c’era laminuscola scritta Air India, che è quindi rimasta sul fianco del disgraziato velivolo in tutte le edizioniseguenti…

Non dovrei dirvelo, se non l’avete ancora letto, ma in questo romanzo non ci sono “cattivi”. Quil’avversario è altro, e potrebbe addirittura essere imbattibile, ben al di là delle forze di un essereumano.Hergé ha avuto una vita complessa e anche il suo cervello ha dovuto affrontare avversari interni benpiù forti e temibili e subdoli di quelli esterni (ne so qualcosa, purtroppo), e più d’una volta. A partire daicondizionamenti infantili, più legati all’ambiente famigliare, arrivando a quelli giovanili, dovuti agliambienti extra famigliari, il tutto nel contesto arretrato e drammatico, quando nondisastroso, dell’Europa tra le due guerre mondiali. Nel periodo in cui l’autore lavora a questo episodiodelle avventure di Tintin, i suoi incubi hanno come colore dominante il bianco. Ne parlerà con grandesincerità a Numa Sadoul, nel corso della sua lunga intervista personale (quasi una sedutapsicoanalitica): “In quel periodo attraversavo una vera crisi e i miei sogni erano quasi tutti bianchi. Ederano molto angoscianti… […] Ne ricordo uno in cui mi trovavo in una specie di torre fatta da rampesuccessive. Delle foglie morte cadevano e ricoprivano tutto. A un certo punto, in una sorta di alcovad’un bianco immacolato, è apparso uno scheletro tutto bianco che ha cercato di prendermi.Istantaneamente, tutto intorno a me, il mondo è diventato bianco, bianco. E sono scappato, una fugasenza fine… Quando ho raccontato al dottor Ricklin questo sogno e alcuni altri, mi ha consigliato dismettere di lavorare…” * Ma Hergé continuò lo stesso a lavorare all’avventura tibetana.

Georges Prosper Remi, che la gente conosce e apprezza come Hergé il geniale creatore delleaffascinanti avventure di Tintin, deve uscire dai condizionamenti del passato per vivere la propria vitafutura infine libero. I sensi di colpa abbondano, tanto gli erano stati piantati in profondità negli anni

dell’infanzia e della gioventù. Anche il solo pensiero ipotetico di una separazione dalla sua primamoglie può mandarlo in profonda depressione. Eppure la sua nuova vita è lì, davanti a lui. Ce la farà,certo, ma non gratis, tutto ha un prezzo. Aprirsi finalmente a nuovi orizzonti e liberarsi dei fardelli delpassato non sarà uno scherzo e parte del duro lavoro che dovette fare su se stesso (non senza l’aiutodi specialisti, come abbiamo visto), viene riversato nel bianco di Tintin in Tibet. Producendo per i suoilettori un gioiello di narrativa per ragazzi (ma non solo per ragazzi, come sappiamo) e per se stessouna sorta di ardua psicoterapia su carta.

Leggetelo, Tintin in Tibet. Regalatelo alle giovani generazioni. Avventura e risate non mancano e c’èmolto di più di quel che potrebbe apparire a prima vista a un occhio distratto. Non abbiate paura di farviabbagliare dal bianco candore delle nevi (quasi) eterne e delle alte vette: su carta non rovina la retina.

[NdR: Pare proprio superfluo scriverlo, ma ovviamente il copyright delle immagini di questa pagina èHergé/Moulinsart solo per tutto quel che è effettivamente di proprietà Hergé/Moulinsart, nei limitiprevisti dalle leggi vigenti, come suol dirsi. Il resto è copyright degli altri aventi diritto, sempre nei limitiprevisti dalla legge.]

*: Numa Sadoul, Tintin et moi, entretiens avec Hergé, Casterman 2000, pagina 178.

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