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CASSB Appunti di Gnoseologia I 2010-2011 1 CENTRO DI ALTI STUDI «SAN BRUNO, VESCOVO DI SEGNI» APPUNTI DI GNOSEOLOGIA I ANNO ACCADEMICO 2010 2011 PROF.: P. MARCO MIKALONIS, IVE

Apuntes de gnoseologia

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CASSB Appunti di Gnoseologia I 2010-2011

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CENTRO DI ALTI STUDI «SAN BRUNO, VESCOVO DI SEGNI»

APPUNTI DI GNOSEOLOGIA I

ANNO ACCADEMICO 2010 – 2011

PROF.: P. MARCO MIKALONIS, IVE

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SOMMARIO

INTRODUZIONE

PRIMA PARTE

LE CORRENTI PRINCIPALI DELL’EPISTEMOLOGIA

I. LO SCETTICISMO

II. L’EMPIRISMO

III. IL RAZIONALISMO

IV. L’IDEALISMO

V. IL REALISMO

PARTE SECONDA

NOZIONI FONDAMENTALI

VI. LA CONOSCENZA

VII. LA VERITÀ

VIII. LA CERTEZZA

IX. L’EVIDENZA

X. L’ERRORE

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INTRODUZIONE

Schema 1. Accenni storici 2. Il problema della conoscenza 3. Presupposti 4. Il nome di questa scienza 5. Metodo 6. Necessità dello studio della conoscenza 7. Critica e metafisica

1. Accenni storici

a. La filosofia e il problema della conoscenza

Cominciamo col domandarci che posto occupa la gnoseologia nel contesto della storia della

filosofia.

Forse qualcuno potrebbe affermare che la filosofia della conoscenza, in quanto studio filosofico

della conoscenza umana, cominci con i filosofi chiamati «moderni», cioè, da Cartesio in poi.

Non è difficile mostrare la falsità d’una affermazione di questo genere, almeno se la si prende in

tutta la sua estensione. Basti ricordare che già gli «antichi», come Platone o Aristotele, hanno

studiato la conoscenza umana. Aristotele, per esempio, lo ha fatto nei suoi De Anima e De sensu

et sensato. Più tardi, nel Medioevo, San Tommaso d’Aquino commenterà questi libri di Aristotele,

ed studierà pure la conoscenza in altri luoghi come la questione De Veritate o la stessa Summa

theologiae.

Ciò che sì se potrebbe accettare è il fatto che con i cosiddetti «filosofi moderni» la filosofia della

conoscenza diventa, per prima, il centro e l’inizio di tutta la filosofia (come per esempio, per

Cartesio e Kant), e che poi, tutta la filosofia si confonde con una certa «filosofia della conoscenza»

(come per Hegel). Afferma Roger Verneaux:

Dopo Kant, nella scuola idealistica, il problema della conoscenza non è solo il primo, ma l’unico problema che il filosofo deve considerare, ed è naturale poiché, se è il pensiero che pone l’essere, si tratta soltanto di sapere quando e a quali condizioni la sua affermazione sia obiettiva1.

b. Tendenze della «scuola» tomistica

Il termine «scuola», intesso come una linea de pensiero omogeneo, non sembra del tutto

adeguato per riferirsi all’insieme dei pensatori che dicono di seguire il pensiero di San Tommaso.

In tanto, per farci capire, diciamo che in questa «scuola», principalmente nel ventesimo secolo,

possiamo trovare tre tendenze principali.

Alcuni cercarono di conciliare San Tommaso con i moderni. Tra quelli che cercarono questa

«conciliazione» con Cartesio, Verneaux annovera autori come il cardinale Mercier (Critériologie),

Mons. Noël (Notes d’épistémologie thomiste e Le Réalisme immediat), il p. Picard S.I. (Le

1 Roger VERNEAUX, Epistemologia generale, Paidea editrice, Brescia 1967, 12.

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Problème critique fondamental e Réflexions sur le problème critique fondamental) e il p. Roland-

Gosselin O.P. (Essai d’une critique de la connaissance). L’influsso di Kant, invece, domina nel p.

Maréchal S.I. (Le thomisme devant la philosophie critique)2.

Altri autori, come Étienne Gilson, rifiutano ogni possibilità d’accordo, e pugnano per un ritorno

«puro» a San Tommaso. Verneaux collega alla posizione di Gilson quelle del p. de Tonquédec S.I.

(Critique de la connaissance) e di Y. Simon (Introduction à l’ontologie du connaître)3.

In quest’ ambito, è interessante almeno accennare il giudizio sul «realismo critico» che Gilson

fa nel suo libro Le realisme methodique4.

La filosofia moderna, afferma Gilson, critica la neoscolastica come un «realismo ingenuo»:

Ciò che gli avversari della Scolastica le rimproverano, quando si degnano di occuparsene, è o di non essere in alcun modo una filosofia a causa delle contaminazione teologiche di cui essa soffre, o di essere un dogmatismo e un realismo ingenuo che, non avendo avuto il minimo sospetto di ciò che poteva essere l’idealismo critico, si sono fermati sulla soglia della filosofia vera5.

Alcuni neoscolastici rispondono con un realismo che si pretende «critico», accettando la

posizione del problema della filosofia in termini idealisti. Gilson però, rifiuta come inadeguata

questa risposta: «Non si può partire da Cartesio per arrivare a San Tommaso». Vediamo alcuni

testi di Gilson:

In altre parole, chi inizia come idealista finirà necessariamente come idealista, perché l’idealismo non si fa smentire da di dentro. Era illogico pretendere di ottenere dall’idealismo il proprio auto-trascendimento, perché già la storia faceva capire che la cosa non era possibile. Il cartesianismo consiste nel ragionare così: «Cogito, ergo res sunt»; e questa è l’antitesi esatta di ciò che viene considerato come il realismo scolastico, e la causa della sua rovina6.

Non è perciò sorprendente che coloro che si impegnano su questa via si imbattano presto o tardi in serie difficoltà. Al pari delle teorie che l’hanno preceduto, il realismo immediato arriva allo strano paradosso di pretendere che il metodo di Descartes, dal quale deriva ogni forma di idealismo, porti a costruire una metafisica realistica [...]. No, non è possibile, e se davvero la sorte del realismo dipende dalla risposta a quella domanda [Noël: «è o non è possibile raggiungere le cose mettendosi dal punto di vista del cogito?»], la sua sorte è segnata; nessun cogito giustificherà mai il realismo di Tommaso d’Aquino. [...] Il problema di costruire un realismo critico è in sé contraddittorio come la nozione di un cerchio quadrato7.

Ciò che occorre è un «realismo metodico», dove l’accetazione della realtà così come è «data»

diventa il metodo del filosofare. Si tratta di un ritorno all’atteggiamento proprio dei greci e dei

medioevali, che «erano realisti senza saperlo». In poche parole: accettare l’evidenza della realtà.

Questo ritorno è rafforzato dallo studio del fracasso evidente della filosofia idealista:

Di conseguenza, per restituire al realismo scolastico il suo senso vero bisogna ritornare in primo luogo all’atteggiamento filosofico dei pensatori del Medioevo, dopo aver adeguatamente criticato quello degli idealisti. [...] Il realismo tomistico [...] si fonda sull’evidenza dei suoi principi e si giustifica per una

2 Cfr. Ivi, 12-13. Per una conoscenza del giudizio di Fabro su questi autori rimandiamo agli «indici dei nomi» dei volumi «Fenomenologia della percezione» e «Percezione e pensiero». Acceniamo soltanto che i due autori con i quali più si confronta Fabro sono Marechal e Roland-Gosselin, allontanandosi sostanzialmente da essi. 3 Cfr. Ivi, 14. 4 Cfr. Étienne GILSON, Il realismo. Metodo della filosofía (Edizione italiana a cura di Antonio Livi), Casa editrice Leonardo Da Vinci, Roma 2008. 5 Ivi, 45. 6 Ivi, 48. 7 Ivi, 54.

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critica all’idealismo, ossia con la quale si dimostra che con questa dottrina non si può costruire una filosofia valida8.

Il rimedio all’idealismo non dovrebbe dunque essere cercato lungo la via dell’idealismo; il solo rimedio concepibile è di cambiare metafisica. Non si può superare l’idealismo opponendovisi dal di dentro, perché facendo così ci si sottomette, ma dispensandolo di esistere9.

Cornelio Fabro scriverà: «Che la filosofia moderna sia sorta da un falso problema? Questo è

appunto il problema dei problemi»10.

Finalmente, come terza tendenza della scuola tomista, Verneaux segnala altri autori che, in

diversi modi, cercano di servirsi dai problemi e delle domande poste dai moderni per sviluppare

«per evoluzione omogenea»11 il pensiero di San Tommaso d’Aquino. Questa sarebbe la posizione

d’autori come Maritain (Les degrés du savoir), mons. Jolivet (Le thomisme et la critique de la

connaissance) e Verneaux stesso.

Il pensiero di Cornelio Fabro sembra si possa avvicinare a questo terzo versante più che a

quelle due precedenti.

2. Il problema della conoscenza

Ogni filosofare comincia da un problema, o da una domanda. Domandiamoci quale sarebbe il

problema della conoscenza, o «problema critico», per cominciare a precissare l’oggetto del nostro

studio.

Abbiamo già segnalato come, secondo Fabro e Gilson, la filosofia moderna parte da un falso

problema, e come l’accettazione di questo non può essere mai il punto di partenza per una

metafisica che si pretenda realistico-tomista.

La conoscenza va accettata come un fatto evidente. Non possiamo domandarci se conosciamo

o no. È un assurdo mettere in dubbio la nostra conoscenza dal momento che si pone la domanda

sulla conoscenza. Gilson distingue tra «critica della conoscenza» e «critica delle conoscenze»: «Il

realismo non si sottrae alla critica delle conoscenze; esso l’accetta, la reclama: ma rifiuta ogni

critica della conoscenza condotta con criteri stabiliti a priori»12. Ancora Gilson:

Solo allora che il realista, essendosi rifiutato di legarsi a una critica preliminare della conoscenza, sarà libero – molto più libero dell’idealista – di dedicarsi a una critica delle diverse conoscenze, commisurando ciascuna di esse al suo specifico oggetto13.

Fabro precisa la natura da dove sorge questo falso problema: la scissione nel pensiero

moderno fra percezione e pensiero operata da Cartesio quando costui pensò di opporre materia e

spirito, corpi composti ed enti semplici spirituali14.

8 Ivi, 56. 9 Ivi, 60. 10 Cornelio FABRO, Percezione e pensiero (Opere complete – 6), EDIVI, Segni 2008, 13. 11 Roger VERNEAUX, op. cit., 14. 12 Etienne GILSON, op. cit., 123-124. 13 Ivi, 144-145. 14 Cfr. Cornelio FABRO, op. cit., 5.

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Verneaux, da parte sua, dirà che il problema critico consisterà, principalmente, nel determinare

il «valore della conoscenza»:

Quale formula dobbiamo allora proporre? Non ne vediamo una migliore di questa: qual è il valore della conoscenza umana oppure: dare un giudizio di valore motivato sulle diverse forme della conoscenza umana. Questa formula è abbastanza generale per includere tutte le forme di conoscenza e tutti i problemi che si pongono nei loro riguardi. Non pregiudica alcuna soluzione, ma presuppone soltanto i «dati del problema» strettamente indispensabili15.

Fabro sostiene cha da una «fenomenologia pura» (concetto che spiegheremo un po’ più avanti)

nascono tre problemi: il problema psicologico, il problema critico e il problema metafisico:

Il problema psicologico studia le funzioni ed i gradi della assimilazione dell’oggetto da parte del soggetto; quello critico, le condizioni per la determinazione dei valori di realtà degli oggetti; quello metafisico, la struttura dell’essere in quanto essere16.

In un altro testo Fabro spiega un po’ di più la portata di ciascuno di questi problemi:

Il problema metafisico è quello che considera la realtà «in sé», secondo contenuti e rapporti di valore assoluto: l’essere in quanto essere.

Il problema psicologico è quello del divenire conoscitivo, nei suoi principî soggettivi ed oggettivi, nelle sue fasi e nei suoi piani.

Il problema critico è quello del «valore di presenza» degli oggetti che vengono assimilati, che è quindi il valore di realtà.

Il problema metafisico ricerca una esplicitazione analitica, cioè assoluta e sistematica, di questa realtà che è «data»17.

Segnaliamo ancora come Il problema «critico», secondo Fabro, si collega col determinare il

«valore di realtà» (oggettività) delle nostre conoscenze:

Per «problema critico della percezione» s’intende la determinazione del valore di realtà da attribuire ai contenuti percettivi, i quali possono essere considerati tanto assolutamente, quanto nell’atto sintetico della percezione; ed in ambedue i momenti si pone il problema dell’oggettività: qual è il grado di realtà dei contenuti percettivi? quale, quello della sintesi sensoriale?18.

3. Presupposti19

Il problema della conoscenza, quindi, non è un problema assoluto. Afferma con risoluzione

Verneaux:

Non vi è e non può nemmeno esservi un problema assoluto: è una nozione intrinsecamente contraddittoria. Infatti, un problema deve avere necessariamente dei dati, altrimenti non può esistere. Un punto interrogativo sopra un foglio bianco non ha alcun senso20.

In altre parole, non è e non può essere la critica della conoscenza l’inizio della filosofia. Lo

affermava pure tassativamente Gilson: «Quello che bisogna fare, è dunque liberarsi prima dalla

ossesione dell’epistemologia come condizione preliminare della filosofia»21. Che cosa si richiede

per fare della buona metafisica? Risponde Cornelio Fabro.

15 Roger VERNEAUX, op. cit., 17. 16 Cornelio FABRO, op. cit., 297. 17 Ivi, 391. 18 Cornelio FABRO, op. cit., 347. 19 Cfr. Roger VERNEAUX, op. cit., 20-23. 20 Ivi, 21. 21 Etienne GILSON, op. cit., 58.

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Per fare della buona metafisica si richiede uno spirito sano e disciplinato nei sensi e nell’intelligenza, e nulla più: non certamente un laboratorio scientifico, e neppure le astruserie di raffinate analisi; i cospicui contributi della fenomenologia contemporanea servono solo ad una penetrazione più intima del suo oggetto, supposto già presente22.

Verneaux afferma, quindi che ci sono certe «condizioni» previe necessarie che rendono la

critica possibile come scienza o studio della conoscenza. Queste condizioni sono sia «formali» che

«materiali».

Condizioni formali sono la logica; l’intelligenza, come facoltà innata per distinguere il vero dal

falso; e anche un’idea della verità, in rapporto alla quale si potrà giudicare il valore delle

conoscenze. Le condizioni materiali, ovvero «l’oggetto» di studio della critica in quanto scienza

della conoscenza, saranno, appunto gli «atti diretti di conoscenza». Se ogni scienza è una certa

«riflessione», ci deve essere per prima qualcosa sulla quale «riflettere» (tornare):

Pretendere di riflettere prima di conoscere, dice Hegel, che per una volta dà prova di buon senso, «è altrettanto assurdo della saggia precauzione di quello scolastico, che voleva imparare a nuotare prima di arrischiarsi di andare in acqua»23.

Verneaux afferma che questa conoscenza, oggetto della critica, non può essere mai una

conoscenza «vuota» al modo cartesiano. Citiamo ancora alcune espressioni di Verneaux, per

ribadire quanto si è detto sul problema della conoscenza e la percezione come punto di partenza

dello studio gnoseologico:

Gli atti di conoscenza sono dunque il punto di partenza della critica. [...] Non può essere il cogito, vale a dire il pensiero puro, che il dubbio ha vuotato da ogni oggetto. [...] Non vi è pensiero senza oggetto, e sopprimere ogni oggetto è sopprimere il pensiero e la coscienza stessa24.

Gilson, nel suo «Vademecum del realista principiante», confrontando realismo e idealismo,

distingue tra «pensiero» e «conoscenza»:

Occorre poi usare con cautela il termine «pensiero». In effetti, la differenza più grande tra il realista e l’idealista è che l’idealista pensa, mentre il realista conosce. Per il realista «pensare» vuol dire solamente organizzare delle conoscenze o riflettere sul loro contenuto; a lui non viene in mente di fare del pensiero il punto di partenza della sua riflessione, perché lui sa che un pensiero è possibile solo se prima ci sono state delle conoscenze. Ora, l’idealista, visto che procede dal pensiero alle cose, non può sapere se quello da cui parte corrisponde o meno a una cosa; e quando egli domanda al realista come si possono raggiungere le cose partendo dal pensiero, il realista deve rispondere subito che ciò non è possibile, e che proprio in questo sta il motivo principale per non essere idealisti. Il realismo infatti parte dalla conoscenza, cioè da un atto dell’intelletto che consiste essenzialmente nel cogliere un oggetto; quindi per il realista la domanda dell’idealista non pone un problema insolubile ma solo un pseudo-problema, che è una cosa ben diversa25.

Perfino il pensiero logico, secondo Fabro, quello che può sembrare più «vuoto» o «lontano»

dalla realtà, sarà sempre un «pensiero delle cose»:

La Logica è pensiero, ed il pensiero, ogni pensiero, è fatto per le cose, per esprimere le cose, non per delirare o fantasticare. E se la logica riferisce direttamente i rapporti che hanno i concetti fra loro, essa si riferisce indirettamente alle cose, in quanto è pensiero del pensiero delle cose: questo riferisce l’ordine delle cose, la logica l’ordine che nella mente prende il pensiero delle cose. L’accusa quindi sbaglia completamente il segno, come si è detto: è la Logica a dipendere dalla metafisica non

22 Cornelio FABRO, op. cit., 468. 23 Roger VERNEAUX, op. cit., 22. 24 Ibidem. 25 Etienne GILSON, op. cit., 132.

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viceversa, cioè sono i contenuti e i rapporti logici ad essere estratti e modellati su quelli metafisici e non al contrario, come si vuol far credere26.

Tornando sulla distinzione messa in evidenza da Gilson, concludiamo quindi, che oggetto e

punto di partenza della nostra gnoseologia non è tanto il «pensiero» quanto la «conoscenza»:

Sarebbe una vera liberazione se tutti noi prendessimo coscienza di questa verità elementare: che l’oggetto della filosofia della conoscenza non è il pensiero (coscienza di una conoscenza) ma appunto la conoscenza (possesso intenzionale di un oggetto)27.

4. Il nome di questa scienza28

Quale è il nome più adeguato per la nostra scienza? «Non esiste, risponde Verneaux, un nome

appropriato per indicare lo studio della conoscenza». Un nome adatto dovrebbe indicare ciò che è

specifico di questa scienza. Diversi nomi sono stati proposti: criteriologia, epistemologia,

gnoseologia e critica, per esempio. Tra questi, Verneaux preferisce l’ultimo: critica.

Criteriologia è troppo ristretto, perché indica soltanto lo studio dei criteri di verità. Epistemologia

è anche stretto giacché spesso viene riferito allo studio della scienza, ma questa non è l’unico

modo di conoscenza. Gnoseologia «sarebbe un termine eccellente», ma è poco usato.

Allontanandosi dal modo kantiano di fare critica della conoscenza, Verneaux afferma che non ci

sono inconvenienti nell’adottare questo termine. Etimologicamente «criticare» significa «scegliere»

e quindi «giudicare»: giudicare il valore di una cosa in funzione di una regola o di un ideale. In

questo senso, una «critica della conoscenza», o delle conoscenze, comporterebbe un giudizio di

valore del conoscere in rapporto al vero.

5. Metodo29

Il metodo critico che si pretenda seguire dipenderà dal modo nel quale si imposti il problema

della conoscenza. Abbiamo accennato già, e lo ribadiamo ancora, come per pensatori come

Gilson e Fabro, la filosofia moderna sorge da un «falso problema» che non va accettato come

punto di partenza del filosofare.

In questa linea, Verneaux rifiuta pure i «metodi» che seguono questa posizione del problema: il

dubbio cartesiano, l’analisi psicologica - mera introspezione - di Locke, l’analisi trascendentale di

Kant o l’analisi riflessiva d’autori come Lachelier o Brunschvicg. Secondo Verneaux, un «metodo

realista» si muove in tre momenti: descrizione e valutazione delle conoscenze, e spiegazione - non

dimostrazione - dell’evidenza.

Approfondiamo questo approccio metodologico, con alcune idee presse da Cornelio Fabro.

Sembra che secondo Fabro, si può affermare che il nostro metodo gnoseologico si svolge

cominciando da «un punto di partenza», per svilupparsi come una «ricerca in due momenti».

26 Cornelio FABRO, Esegesi Tomistica, Libreria editrice della Pontificia Università Lateranense, Roma 1969, 290. La presente citazione appartiene ad un articolo pubblicato con anteriorità è ristampata nel volume citato: Cornelio FABRO, Logica e metafisica, in Acta Pont. S. Thomae Aquinatis, Torino-Roma 1946, vol. XII (N.S.), 129-150. 27 Etienne GILSON, op. cit., 125. 28 Cfr. Roger VERNEAUX, op. cit., 17-18. 29 Ivi, 18-20.

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Quale è il nostro punto di partenza? Il fatto della percezione. Così l’afferma esplicitamente

Fabro: «il punto di partenza sia quindi il fatto della percezione»30.

Dal fatto della percezione, quindi, deve cominciare la nostra ricerca, che si svilupperà in due

momenti: uno «analitico», l’altro «sintetico».

Il primo momento, quello che chiamiamo analitico, è principalmente «descrittivo» o

«fenomenologico». Ad esso corrisponde «porre i problemi». Al momento «sintetico» o

«metafisico», corrisponderà cercare una risposta o «interpretazione» ai problemi messi in

evidenza dal primo. Vediamo due testi di Fabro:

A mio avviso le due opere [«La fenomenologia della percezione» e «Percezione e pensiero»] si hanno da completare a vicenda e certamente la seconda perderà molta forza nelle sue istanze speculative se è lasciata a sé; come anche la prima apparirà troppo complessa ed ardua se si vuol prescindere dalle finalità che mi sono proposto di realizzare nella seconda. Nella mia prima intenzione, le due opere dovevano formare due volumi di un’unica opera; sono stati in seguito separati nell’intento di curare maggiormente la presentazione dei due distinti momenti della ricerca, i quali sotto molti aspetti possono rimanere ciascuno a sé distinto ed anche sufficiente dal punto di vista, analitico o sintetico, che lo ispira31.

La fenomenologia descrittiva è certamente indispensabile alla posizione dei problemi, ma da sola non ne risolve alcuno: o meglio essa acuisce il vero interesse dei problemi, prospetta l’itinerario da seguire, ma non lo può percorrere perché ciò è oggetto d’interpretazione e non più di «descrizione»32.

È importante segnalare come intende Fabro il compito della fenomenologia, particolarmente per

distinguere la sua concezione da altre «fenomenologie» della prima metà del ventesimo secolo.

Per il momento sia sufficiente far vedere che Fabro chiama la sua «fenomenologia pura», e spiega

in questo modo l’utilizzazione di questi termini:

Indichiamo, in via problematica, lo studio di questo processo al pensiero moderno come «Fenomenologia pura», dando al nome il senso di «descrizione del modo di apparire immediato degli oggetti» e all’aggettivo il senso che tale descrizione ha da esser fatta all’infuori di «ogni presupposto teoretico», in guisa che l’apparire ha da informarci non soltanto dell’esistenza dell’oggetto, ma anche del modo di apparire e perfino del modo di essere dell’oggetto stesso33.

A modo di esempio, e per introdurre un nuovo termino nel nostro studio, vediamo brevemente

che cosa intende Fabro per «percezione»? La percezione, considerata «in se stessa» è un certo

«incontro» o «passaggio» tra soggetto e oggetto:

D’altra parte il fatto stesso che nella percezione, e nella conoscenza in generale, soggetto ed oggetto sono detti incontrarsi e passare l’uno nell’altro, tale incontro e tale passaggio potrebbero contenere, per una coscienza vigile e una mente ordinata, assieme ai contenuti anche i criterî di valore ed i princìpi per la stessa interpretazione teoretica a cui si vuol arrivare34.

Se la si considera «da parte dell’oggetto», la percezione si manifesta come l’apprensione di un

«oggetto unificato», di un «complesso configurato», di un «oggetto qualificato»:

Si sa infatti che l’«albero» è un tale oggetto; esso consta di un tronco che è sorretto dalle radici; esso si espande in rami i quali, se la stagione lo comporta, sono coperti di foglie ed anche di fiori o di frutti. E si noti che questa complessità di contenuti, entro un unico oggetto di percezione, invece di nuocere,

30 Cornelio FABRO, La fenomenologia de la percezione (Opere Complete – 5), EDIVI, Segni 2006, 28. 31 Ivi, 23. 32 Cornelio FABRO, Percezione e pensiero, op. cit., 6. 33 Cornelio FABRO, La fenomenologia della percezione, op. cit, 49. 34 Cornelio FABRO, Percezione e pensiero, op. cit., 7-8.

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rafforza la persuasione che ho di trovarmi di fronte ad un oggetto ben determinato, di percepire un albero, non un gatto od una gallina. Possiamo dire allora che la percezione è l’«apprensione di un oggetto unificato.

L’albero consta di tronco, rami, foglie... L’albero, che ora percepisco, ha una propria configurazione, più o meno simmetrica ma caratteristica della sua specie. La configurazione di una quercia non è quella di un salice o di un pioppo. Ed una propria configurazione l’hanno pure il tronco, i rami, le foglie della quercia, che non è la configurazione del tronco, dei rami e delle foglie di un salice o di un pioppo, ed è per questo che posso rendermi conto di trovarmi di fronte ad una quercia e non a qualsiasi altro albero. La percezione è pertanto l’«apprensione di un complesso configurato».

Ma non potrei mai percepire la configurazione di un albero e delle sue parti, se l’albero nel suo complesso e ciascuna sua parte non mi apparissero cariche di determinato tono di colore o di ben appropriate variazioni cromatiche: poiché l’occhio non «vede» che colori, o figure colorate se si vuole, mai «figure pure», e tanto meno «oggetti puri». La percezione è allora anche l’«apprensione di un oggetto qualificato»35.

Invece, la percezione, «da parte del soggetto» è chiamata da Fabro un «pensiero vissuto»:

Allora si può concludere che la percezione è una certa qual «sintesi» di sensibilità e di pensiero. Meglio ancora, più che parlare di una sintesi che sa troppo di estrinsecità, diciamo che la stessa percezione è un pensiero, non puro astratto però, ma in quanto è oggettivato immediatamente nei contenuti sensibili; un pensiero che «incorpora» a sé l’esperienza. Per questo è stato giustamente detto che il momento essenziale nella percezione è la «incorporazione del significato» (Michotte). La percezione pertanto non è né sensazione pura, né pensiero puro; ma piuttosto essa è un «pensiero vissuto»...36.

6. Necessità dello studio della conoscenza (critica e metafisica)

Perché è necessaria una «teoria della conoscenza»? Cornelio Fabro risponde così: «la teoria

della conoscenza è stata introdotta per fondare l’affermazione ed il valore di realtà, come realtà,

onde render possibile la metafisica»37.

Perciò, può essere utile considerare il problema del rapporto tra gnoseologia e metafisica,

considerando pure il luogo che la fenomenologia deva occupare rispetto ad ambedue.

Inanzitutto, il rapporto tra gnoseologia e metafisica pone, al meno, due problemi: quello della

«priorità» e quello della «specificità» di ciascuna38.

Il «problema della priorità» si potrebbe esprimere così: c’è qualche precedenza di alcuna di

queste scienza riguardo all’altra? In altre parole: la critica, è anteriore alla metafisica? O è la

metafisica che è anteriore alla critica?

Quello della «specificità» si domanda, invece, se questi due rami della filosofia costituiscano

scienze realmente (specificamente) diverse e autonome, cioè con oggetti diversi, giacché le

scienze si diversificano dai loro oggetti.

Vediamo alcune affermazioni degli autori che abbiamo citato fino adesso (Verneaux, Gilson,

Fabro) riguardo a questa problematica.

Vernaux precisa in questo modo il «problema della priorità»: «si tratta di sapere se una critica

della conoscenza in generale, o dell’intelligenza, della ragione, è preliminare alla metafisica»39.

35 Ivi, 6-7. 36 Ibidem. 37 Cornelio FABRO, Fenomenologia della percezione, op. cit., 50. 38 Cfr. Roger VERNEAUX, op. cit., 24.

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Risponderà che il rapporto tra ambedue è «reciproco»: «la critica è insieme posteriore e anteriore

alla metafisica»40:

Diciamo che la critica è anteriore alla metafisica, che è la metafisica stessa che dubita di sé e riflette sulle sue origini. Forse non è il suo primo passo, ma non ha importanza alcuna che sia il secondo o l’ultimo: essa non sarà fondata, dal punto di vista critico, se non quando si sarà criticata. In altri termini, la critica è logicamente anteriore alla metafisica quando ci si pone dal punto di vista critico, ma il punto di vista critico è posteriore al punto di vista metafisico41.

Riguardo al problema della «specificità», affermerà Verneaux:

È vero che la metafisica ha per oggetto l’essere, e la critica la conoscenza, ma la conoscenza è essa pure un essere, poiché tutto è essere, di modo che sotto questo aspetto rientra nell’oggetto della metafisica [...]. Parlare dell’essere e delle sue proprietà, delle sue leggi, delle sue forme, non è la stessa cosa che parlare del modo in cui possiamo conoscerli. [...]. Il primo movimento è diretto e ad esso conviene il nome di Metafisica, [...]; il secondo è riflesso e noi ci permettiamo di chiamarlo critico. Ma un riflessione sulla conoscenza dell’essere, non può essere fatta che dall’intelligenza che conosce l’essere, ragione per cui noi manteniamo la specificità della critica pur dichiarandola interiore alla metafisica42.

Passiamo adesso ad alcune affermazioni di Gilson:

Quello che bisogna fare, è dunque liberarsi prima dalla ossessione dell’epistemologia come condizione preliminare della filosofia. [...] Non si tratta, per questo, di rinunciare a ogni teoria della conoscenza. Ma bisogna che la filosofia della conoscenza non pretenda di essere una condizione dell’ontologia ma si sviluppi in essa e con essa, essendo insieme atta a spiegare e a essere spiegata, sostenendola ed essendo sostenuta da essa, come si sostengono mutuamente le parti di una filosofia vera. Ricordo di aver sentito Alfred North Whitehead che diceva ai suoi studenti dell’Univesità di Harvard questa frase che mi sembra molto profonda: «Quando c’è nella vostra teoria della conoscenza qualcosa che non funziona, vuol dire che c’è qualcosa che non funziona nella vostra metafisica». Da parte mia, a questo principio aggiungerei la constatazione che nell’idealismo non c’è solo «qualcosa» che non funziona, non funziona nulla43.

Finalmente, alcuni di testi di Fabro, sul rapporto tra «fenomenologia» e «metafisica»:

Quello che importa non è il luogo che ad essa [a la fenomenología] compete nel novero delle scienze, ma che essa sia di fatto condotta a termine prima della elaborazione sistematica dei problemi. Ho affermato prima che essa non era estranea alla filosofia classica, come lo è per molte filosofie moderne: qui è da ricordare l’esempio insigne di Aristotele proprio nel capitolo di introduzione alla Metafisica e nell’ultimo capitolo del libro degli Analitici Posteriori, che non solo forniscono una giustificazione storico-critica al mio procedimento, di alto valore, ma mi hanno suggerito la stessa trama essenziale della ricerca44.

Allora se la coscienza è il criterio supremo per una fenomenologia fondamentale del conoscere, e se questa fenomenologia è una propedeutica indispensabile alla posizione di qualsiasi problema speculativo, come credo si possa convenire con la filosofia contemporanea, si devono accettare i responsi di coscienza sia quanto al contenuto degli oggetti, sia quanto al modo di apparire ed alle condizioni dell’apparire che essa può rilevare degli oggetti stessi45.

Perciò la Fenomenologia, quale teoria generale della percezione, è un prolegomeno della fondazione stessa della metafisica in genere, come dei problemi metafisici in ispecie. La posizione fenomenologica dei problemi metafisici non pretende di darne in anticipo la soluzione, ma piuttosto di suggerire con la sua forma di struttura, nella quale la molteplicità fenomenale appare unificata, la possibilità e la direzione di quell’unificazione intelligibile comprensiva ch’è la soluzione metafisica. La

39 Ivi, 25. 40 Cfr. Ibidem. 41 Ivi, 25. 42 Ivi, 26. 43 Etienne GILSON, op. cit., 58.59-60. 44 Cornelio FABRO, La Fenomenologia..., op. cit., 58. 45 Cornelio FABRO, Percezione..., op. cit., 296.

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Fenomenologia e la Metafisica, così intese, si corrispondono come l’esterno e l’interno di un medesimo edificio: per noi, che possiamo penetrare la realtà soltanto dal di fuori, la fenomenologia fornisce un primo ed indispensabile punto di appoggio per l’interpretazione metafisica del reale46.

Non si può fare, quindi, gnoseologia al di fuori di una metafisica, al punto che Gilson chiamerà

lo studio della conoscenza, «metafisica della conoscenza».

Ancora di più. Da questo confronto tra gnoseologia, fenomenologia, e metafisica, si vede in

modo più chiaro la necessità dello studio della conoscenza. Per dirla con parole di Fabro, questo

studio per noi come scopo più importante il «raggiungere un punto sicuro per la fondazione della

metafisica realista»47. «I problemi di una gnoseologia elementare del conoscere umano, scrive

Fabro, sono i problemi di questa interpenetrazione fra il mondo ed il soggetto»48.

* * *

Questo corso di Gnoseologia avrà due «momenti»: nel primo, piuttosto «storico», si cercherà di

mettere in rilievo ciò Gilson chiama «il fracasso di tre secoli d’idealismo» per confrontarlo con

quanto si dirà dopo; e il secondo, più sistematico, nel quale si cercherà di studiare la conoscenza e

alcune nozioni fondamentali ad essa colleggate, secondo l’insegnamento di San Tommaso

d’Aquino e guidati nella nostra lettura dell’Aquinate dagli studi di Cornelio Fabro.

46 Ivi, 452-453. 47 Cornelio FABRO, La Fenomenologia della percezione, op. cit., 60. 48 Ivi, 390.

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PRIMA PARTE

LE CORRENTI PRINCIPALI DELL’EPISTEMOLOGIA

Non è possibile classificare tutte le posizioni che sono state prese nel corso della storia sul

problema della conoscenza. Le ridurremo a cinque principali1.

La prima questione è sapere se lo spirito umano possa raggiungere la verità, se ha certezze

legittime. Se non si ha alcuna speranza di raggiungere la verità in nessun campo, si è scettici.

Contrariamente, ciò che Verneaux chiama «dogmatismo» afferma che la verità può essere

conosciuta ed in alcuni casi è raggiunta.

Se abbracciamo l’idea scettica non ci sono già problemi. Altrimenti, si pongono due nuovi

problemi.

Il primo problema è questo: con quale mezzo, cioè con quale facoltà, possiamo conoscere la

verità? L’empirismo risponde: con l’esperienza; unica fonte delle nostre conoscenze. Con la

ragione risponde il razionalismo, poiché è l’unica facoltà che può afferrare verità necessarie e

universali.

Il secondo problema riguarda l’oggetto conosciuto: che cosa possiamo conoscere, quali specie

di cose ci sono accessibili?

L’idealismo risponde che lo spirito è chiuso in sé stesso e che può conoscere solo le proprie

idee. Il realismo invece sostiene che possiamo conoscere il reale, cioè, l’essere esistente in sé,

fuori del nostro spirito.

1 Cfr. Roger VERNEAUX, op. cit., 30-31.

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I. LO SCETTICISMO

Schema 1. Nozione 2. Autori 3. Argomenti 4. Lo scetticismo metodico

1. Nozione

Lo scetticismo è una tentazione costante per lo spirito umano che riflette e abbandona il terreno

fermo delle certezze del senso comune. Lo scetticismo consiste nel sospendere ogni giudizio su

tutte le cose (epoché). È una manifestazione dell’inquietudine congenita dell’uomo e della sua

eterna insoddisfazione. Ma, spingendo l’inquietudine al limite estremo e erigendola in una specie di

assoluto, termina in una disperazione intellettuale.

Lo conclusione dello scettico non è «io non so nulla» ma piuttosto «io mi astengo (dal

giudicare)». Si tratta d’una indifferenza totale o dubbio universale.

Lo scetticismo potrebbe chiamarsi anche una sorta di «scoraggiamento intellettuale». Afferma

Antonio Livi: «Il soggetto pensante, sulla scorta di successive e deludenti esperienze di fallibilità, si

sente sempre meno capace di assenso, di certezza»1.

Lo stesso autore definisce lo scetticismo come il «rifiuto sistematico della verità come possibilità

del pensiero»2, e fa notare come nel suo inizio si trova un atto volontario, «l’atto volontario di

dubitare di tutto (Descartes: “Volo dubitare de omnibus”), come anche l’atto volontario di praticare

la “e.poch,”3 universale (Husserl)»4. In altre parole, si vuole affermare che «non c’è modo di sapere

che cosa sia la verità, ossia che di nessuna ipotesi possiamo pensare che sia vera»5.

Si possono distinguere, secondo quest’ autore, diverse forme di scetticismo.

Da una parte, uno «scetticismo “moderato”», che implica la «la coscienza dei limiti della

conoscenza, sia riguardo all’esistenza delle cose [...] sia riguardo alla loro essenza»6. Questo

scetticismo non sarebbe incompatibile con il «senso comune».

C’è anche uno «scetticismo “forte”», che può essere «prescrittivo» (che prescrive l’adozione di

criteri pratici, sia razionali che irrazionali, in sostituzione delle certezze del «senso comune»7) o

1 Antonio LIVI, Verità del pensiero, LUP, Roma 2002, 227. 2 Ibidem. 3 «Epochè»: «atteggiamento della filosofia scettica consistente nel non accettare né rifiutare, nel non affermare né negare qcs. per raggiungere l'imperturbabilità» (Dizionario italiano De Mauro). 4 Antonio LIVI, Verità del pensiero, op. cit., 227. 5 Ibidem. 6 Ivi, 228. 7 Avvertiamo che per l’autore che stiamo citando, l’espressione «senso comune» ha un significato «tecnico» ben preciso, che non deve confondersi con il «senso comune» intesso come «senso interno». «Senso comune», per Livi, sulla scia di Gilson, è l’insieme di «evidenze primarie riguardanti l’oggetto dell’esperienza umana universale e necessaria», che si trovano «alla radice dei diversi processi del pensiero», e che sono espresse come «giudizi d’esistenza non fondati su altri giudizi». Questi giudizi «originari e primari» possono ridursi a cinque affermazioni: l’affermazione dell’esistenza e divenire di enti molteplici, l’emergenza del soggetto, l’analogia dei soggetti

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«teoretico» (che «separa nettamente la prassi da ogni possibile certezza riguardo alla realtà: il

mondo, i valori morali, Dio»). Particolarmente quest’ultimo è «razionalmente insostenibile»8.

2. Autori9

Tutta la storia della filosofia occidentale è un’oscillazione tra il dogmatismo e lo scetticismo: ai

filosofi naturali greci si oppongono i sofisti; ai pensatori medioevale, lo scetticcismo di Montagne;

alla pretesa critica di Kant, il positivismo; al hegelianismo, l’esistenzialismo.

Per conoscere lo scetticismo si deve risalire agli scettici greci, perchè non si è fatto nulla di

meglio e tutti gli altri dipendono da loro. Lo scetticismo greco presenta quattro forme principali.

La sua forma estrema si dà in Pirrone. Il suo ideale era non credere niente, astenersi dal

giudicare, diffidare perfino delle impressioni sensibili. Si propone di vivere una vita apatica o

indifferente (atarassia o apatia). Il suo sforzo era un’ascesi, il cui scopo era l’estinzione della

coscienza, spogliare l’uomo, spogliarsi dell’umanità.

L’Accademia Nuova (Arcesilao e Carneade) professa il probabilismo: nessuna

rappresentazione è evidente, non siamo mai certi di essere nella verità. Alcune rappresentazioni

sono verosimili o probabili, e questo basta per la vita.

Lo scetticismo classico (Enesidemo) è un fenomenismo. Consente di credere nelle apparenze,

qualora siano immediatamente presenti alla coscienza e le siano imposte, ma si astiene dal

giudicare sulla realtà. «Ho freddo; di questo non posso dubitare. Invece se mi domando: fa

freddo?, non c’è modo di saperlo».

L’ultima tappa è l’empirismo (Sesto Empirico), sviluppo logico del fenomenismo. Se si

ammettono i fenomeni, nulla impedisce di osservarli e se si osservano, si notano certi rapporti

constanti delle successioni regolari, che permettono di prevederli e di agire su di essi.

Lo scetticismo però non è cosa del passato. Nei nostri tempi si fa presente nel pensiero di

diversi autori.

Abbiamo così, per esempio, il «problematicismo» di Ugo Spirito, discepolo di Giovanni

Gentile10; il «razionalismo critico» di Karl Popper11; il «pragmatismo» di Hilary Putnam12; o il

«pensiero debole» o «ontologia decadente» di Gianni Vattimo13. Finalmente, si può segnalare lo

scetticismo «etico-politico» di autori come Jürgen Habermas o Gian Paolo Prandstraller, i quali

«sostengono che l’uomo contemporaneo è “l’uomo senza certezze”, e che questo prelude a un

o intersoggettività, l’esistenza di un ordine morale, l’esistenza di Dio. (Cfr. Antonio LIVI, Metafisica e senso comune, Casa editrice «Leonardo da Vinci», Roma 2007, 17-18). 8 Antonio LIVI, Verità del pensiero, op. cit., 228. 9 Cfr. Roger VERNEAUX, op. cit., 32-43. 10 Cfr. Antonio LIVI, Verità del pensiero, op. cit., 228. 11 Cfr. Ivi, 229. 12 Cfr. Ivi, 230. 13 Cfr. Ivi, 235.

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nuovo tipo di impegno sociale, più pragmatico e produttivo da una parte, e dall’altra parte al riparo

dalla illusioni utopistiche e dai fanatismi aggressivi»14.

3. Argomenti

a. Premessa

Passiamo adesso ad esaminare gli argomenti con i quali gli scettici pretendono di sostenere la

loro teoria.

Diciamo innanzitutto, a modo di «premessa», che una confutazione teoretica profonda dello

scetticismo chiederà da noi chiarire nozioni fondamentali come «verità», «evidenza», «certezza»,

ed «errore», cosa che faremo nella seconda parte di questo corso.

Un primo passo in quest’analisi potrebbe essere il verificare che in realtà, lo scetticismo

«pratico» semplicemente non esiste. Non ci sono uomini che vivano la loro vita di tutti i giorni

senza alcuna certezza, anche se elementare. Si può dire, ricordando parole già citate di Gilson,

che quelli che pretendo di pensare come scettici, «pensano come realisti non appena si

dimenticano che stano svolgendo un ruolo». È un fatto d’esperienza che ogni uomo ha delle

certezze, come l’afferma Fabro nel seguente testo:

Quando dico «Io vedo un albero, la casa, il cielo...» mi riferisco ad un fatto noto a tutti e che ciascuno è in grado di realizzare per suo conto quando voglia: giovani o vecchi, europei o papuasici, filosofi o uomini della strada. Esso era un fatto noto ai tempi della preistoria, non diversamente di quanto lo è oggi e di quanto lo sarà per i secoli dei nuovi lumi da venire: alla sera gli uomini tornavano, tornano e torneranno alla caverna, alla capanna, alla casa ospitale e non le scambieranno – come non le scambiamo noi, nè la scambiarono coloro che ci hanno preceduti – con gli alberi o con il cielo o con qualsiasi altro oggetto. Si vuol dire che gli oggetti si «segregano» in modo autonomo nel campo dell’esperienza e per ogni coscienza matura, in ogni forma di civiltà, essi sono allo stesso modo ciò che sono una volta per sempre15.

Adesso sì, consideriamo brevemente gli argomenti dello «scetticismo teorico». Abbiamo già

letto l’affermazione di Verneaux: «Se vogliamo conoscere lo scetticismo, dobbiamo sempre risalire

agli scettici greci, perchè non si è fatto nulla di meglio e tutti gli altri dipendono da loro»16.

Senza nessuna pretessa di confutare i loro argomenti, per il momento, vedremo i dieci tropi di

Enesidemo e i cinque tropi di Agrippa.

b. I «dieci tropi» di Enesidemo

I dicie tropi di Enesidemo sono una raccolta degli argomenti o tropi (tropoi) con cui gli scettici

sostenevano la necessità di sospendere l’assenso a ogni forma di conoscenza e quindi il giudizio.

Ecco la lista completa17:

1. Le differenze di sensazioni, gusti e piacere tra gli animali rispetto allo stesso oggetto;

14 Ivi, 239. 15 Cornelio FABRO, Percezione..., op. cit., 8. 16 Roger VERNEAUX, Epistemologia generale, op. cit., 33. 17 Cfr. Batista MONDIN, Storia della Metafisica (Volume 1), ESD, Bologna 1998, 438.

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2. Analoghe differenze tra gli uomini, che provano piacere o disgusto in maniera differente per le stesse cose;

3. Differenze di temperamenti o idiosincrasie,

4. Varietà di umori tra gli uomini;

5. Differenza di cultura, istituzioni, leggi, religione;

6. Cambiamenti e mescolanze di oggetti, poiché nessuno oggetto cade sotto i nostri sensi di per sé solo;

7. Variazione di percezione di oggetti dovuta a distanza o a condizioni atmosferiche: ad es. il sole è diverso quando sorge e quando tramonta;

8. Effetti diversi dovuti alla velocità diversa degli oggetti;

9. Mutazioni delle impressioni secondo che si provano frequentemente o di rado;

10. Divergenze causate dalla posizione (a destra o a sinistra, in alto o in basso ecc).

Per tutti questi motivi, «tanta discordanza v’è nelle cose che noi non potremo affermare quale

sia nella realtà l’oggetto, ma solo quale esso appaia in rapporto a questo criterio, a questa legge, a

questo costume e in rapporto a ciascuno degli altri fatti»18.

c. I «cinque tropi» di Agrippa

Il filosofo scettico Agrippa, vissuto nella seconda metà del I secolo d.C., non rimase soddisfatto

della tavola dei dieci «tropi» redatta da Enesidemo e ne formulò una nuova, composta da cinque

«tropi».

Leggiamo un testo di Sesto Empirico19 nel quale questo spiega questi «cinque tropi»:

Gli scettici più recenti [i seguaci di Agrippa] invece, tramandano questi cinque modi della sospensione del giudizio:

1) quello che dipende dalla discordanza;

2) quello che rimanda all’infinito;

3) quello che dipende dalla relazione;

4) l’ipotetico;

5) il diallele.

Il modo che dipende dalla discordanza, è quello per cui troviamo che intorno a una cosa proposta esiste una discordia indirimibile nella vita e nei filosofi; onde, non essendo in grado né di preferire né di respingere nessuna opinione, finiamo col sospendere il giudizio.

Il modo per il quale si cade nell’infinito, è quello in cui ciò che ri reca a prova della cosa proposta, noi diciamo che ha bisogno, a sua volta, di prova, e questo, a sua volta, di un’altra prova, all’infinito; talché, non avendo noi onde cominciare un’argomentazione, ne consegue la sospensione del giudizio.

Il modo che dipende dalla relazione, come abbiamo detto sopra, è quello in cui diciamo che l’oggetto ci appare così o così, in rapporto al giudicante e al resto che insieme con esso oggetto viene percepito, e ci asteniamo dal giudicare quale esso sia realmente.

18 SESTO EMPIRICO, Schizzi I, 163. Citato da MONDIN. 19 Cfr. Batista MONDIN, Storia della Metafisica, op. cit., 438: «[Sesto Empirico] visse tra il 180 e il 230 d. C. è l’ultimo esponente riconosciuto dello scetticismo, nonché la fonte più importante per la conoscenza dello scetticismo antico. Fu chiamato “empirico” (empeirikòs) perché come medico preferiva rifarsi alla sua esperienza personale piuttosto che alle teorie dei medici più celebrati. Sono andati perduti i suoi scritti di medicina, mentre sono giunte integre a noi le sue opere filosofiche: Schizzi pirroniani, in tre libri; Contro i dogmatici, in cinque libri; Contro i matematici, in sei libri».

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Si hal il modo ipotetico, quando i Dogmatici, rimandati all’infinito, cominciamo da qualche cosa che essi non concludono per via di argomentazione, ma pretendono di assumere, così semplicemente, senza dimostrazione, per una concessione.

Nasce il diallele, quando ciò che deve essere conferma della cosa cercata, ha bisogno, a sua volta, di essere provato dalla cosa cercata: allora, non potendo assumere nessuno dei due per concludere l’altro, sospendiamo il giudizio intorno ad ambedue20.

4. Lo scetticismo metodico

Anche rifiutando lo scetticismo come teoria, resta la domanda – posta da alcuni pensatori

(Montaigne, Pascal) – se non sia lo scetticismo un metodo valido per arrivare alla conoscenza

della verità.

Questi pensatori pensavano che lo scetticismo, umiliando la ragione, fosse lo strumento

migliore per preparare il cuore alla fede. Cartesio, e ai nostri giorni Husserl, hanno pensato che

esso è il solo mezzo per fondare una filosofia veramente scientifica. Per quanto riguarda la fede, lo

scetticismo può forse dare luogo ad un atto cieco, che costituirebbe un atto di forza della volontà.

Sarebbe una fede di tipo luterano, non una fede di tipo cattolico, poiché questo non è affatto una

movimento cieco del cuore (cfr. fideismo21) ma è un assenso razionale (cfr. la definizione di fede

che da San Tommaso22).

Sul piano filosofico, mettere in dubbio l’evidenza racchiude definitivamente nello scetticismo,

poiché non si troverà mai nulla di meglio, nessun motivo migliore d’affermare. Mettere tra parentesi

l’esistenza, è un mero artificio tipografico, un nuovo atto di forza della volontà.

A modo di conclusione

Trascriviamo alcune affermazioni di Verneaux:

Lo scetticismo è uno dei tentativi dello spirito umano per giungere l’assoluto, e per questo non è privo di seduzione.

Vedendo l’impossibilità di giungere ad un assoluto positivo, che sarebbe la divinità stessa, lo scettico si spinge più avanti possibile sulla via della rinuncia verso un termine che costituirebbe un assoluto negativo. Non si può negare infatti che lo scettico perfetto non sia infallibile e impassibile, come voleva Pirrone, ma ciò accade perché egli si è spogliato della sua umanità senza sostituirla con niente. La seduzione dello scetticismo è in ultima analisi quella del nulla23.

20 SESTO EMPIRICO, Schizzi pirroniani, I, 141-144. Cfr. Carmelo LACORTE et al. [ed.], Teoretica I in Ugo SPIRITO [ed.], Storia antologica dei problemi filosofici, Sansoni editore, Firenze 1965, 285. 21 Il fideismo è stato esplicitamente condannato dal Concilio Vaticano I. 22 Cfr. San TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, II-II, q. 2, a. 1, co: «Invece l'atto del credere ha un'adesione ferma a una data cosa, da questo lato chi crede è nelle condizioni di chi conosce per scienza o per intuizione; tuttavia la sua conoscenza non si compie mediante una percezione evidente: e da questo lato chi crede è nelle condizioni di chi dubita, di chi sospetta e di chi ha un'opinione. E sotto questo aspetto è proprio del credente il cogitare con assenso: ed è così che l'atto del credere si distingue da tutti gli atti intellettivi che hanno per oggetto il vero o il falso». 23 Roger VERNEAUX, Epistemologia generale, op. cit., 43.

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II. L’EMPIRISMO

Schema 1. Nozione 2. Correnti e autori 3. Gli argomenti dell’empirismo

1. Nozione1

È un movimento filosofico che non ammette più che un mezzo di conoscenza valido:

l’esperienza sensibile. Accettati però i suoi principi, arriviamo allo scetticismo.

L’esempio più rinomato d’empirismo è quello delle palle di bigliardo (Cfr. David Hume). La palla

bianca si scontra con la palla viola. Cosa vediamo? Vediamo forse che la palla bianca muove la

viola? No, vediamo - afferma Hume - semplicemente la palla viola che si muove dopo la palla

bianca. Ma il rapporto di causalità non si vede. Se non si vede, non si può affermare che esista.

È importante ribadire che l’empirismo (come tante altre dottrine della conoscenza) è

«dogmatico», in quanto non parte da un fatto d’esperienza, ma da un pregiudizio.

È un dato d’esperienza che davanti ad un albero io vedo un albero, e non soltanto dei colori o

delle figure. Quello è il fatto d’esperienza: vedo colori, vedo una figura, e vedo anche un albero. Se

si afferma che vedo soltanto colori e figure, e che l’albero non è visto bensì soltanto inventato dal

soggetto, quello deve dimostrarsi. Se una cosa è evidente, c’è bisogno di dimostrazione per

negarla, non per affermarla.

2. Correnti e autori

La storia presenta un lungo «dialogo» tra l’empirismo ed il razionalismo. L’empirismo ha preteso

d’ampliare ed approfondire la sua base per trovare in alcune esperienze un accesso alla

metafisica.

a. I greci

Eraclito fondandosi sui dati dei sensi sosteneva che l’essere è puro cambiamento. Tutto

cambia, niente rimane. Comunque, per arrivare al vero pensiero d’Eraclito, e giudicare quanto è in

realtà assoluta, o no, la sua affermazione del «puro cambiamento», si dovrebbe pure studiare la

nozione eraclitiana di «logos».

Il suo discepolo, Protagora, notando che la sensazione è relativa alla costituzione dei nostri

sensi, aggiunge un po’ di più: «l’uomo è la misura di tutte le cose».

Epicureo è celebre per la morale del piacere che è una conseguenza della teoria della

conoscenza. L’uomo può conoscere soltanto ciò che i sensi presentano; di conseguenza il bene

dell’uomo è sensibile.

1 Cfr. Roger VERNEAUX, Epistemologia…, op. cit., 44-54.

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b. Nominalismo

Dall’empirismo si cade facilmente nel nominalismo. Non c’è esperienza delle essenze: io non

vedo un albero, ma soltanto un insieme di colori, al massimo vedo delle figure, alle quali quando

sono somiglianti do uno stesso nome. In questa linea di pensiero possiamo includere il

nominalismo di Ockam. La sua tesi centrale dice che nella mente non esistono concetti astratti e

universali che rappresentano l’essenze, ma solamente dei termini o dei nomi, il cui senso consiste

nell’indicare degli individui dati dall’esperienza.

c. L’empirismo inglese

I filosofi principali di questa corrente sono Locke, Berkeley e Hume.

Nel punto seguente approfondiremo un po’ di più l’analisi del pensiero di questi autori.

d. L’esistenzialismo

Esso consiste nell’utilizzazione di certe esperienze, cui viene accordata una portata metafisica:

sono esperienze di ordine affettivo, poiché il sentimento è considerato come più penetrante e più

rivelatore dei sensi o dell’intelligenza. A questa corrente appartengono autori come Heidegger

(angoscia), Jasper (scacco), Sartre (nausea).

3. Gli argomenti dell’empirismo

Analizziamo alcune idee di questa corrente gnoseologica, studiando con Fabro, gli argomenti

principali dei suoi maggiori esponenti: Locke, Berkeley e Hume.

Non vogliamo fare qua una «rifiutazione» di questi autori. Ci serva questo breve analisi del loro

pensiero per conoscere i punti principali del medesimo, e per prospettare a quali punti della

dottrina tomista della conoscenza essi si oppongono.

a. Le radici cartesiane dell’associazione

Prima d’andare avanti però, può esserci utile fermaci a considerare ciò che Cornelio Fabro

chiama «le radici cartesiane dell’associazione»2.

Partendo dai principi «empiristi» facilmente si arriva, a modo di logica conseguenza, a ciò che in

gnoseologia riceve il nome di «associazionismo».

L’associazionismo spiega la percezione servendosi della seguente formula: P = Sn + A. Dove P

può significare sia la percezione, o le idee o le emozioni. Mentre che «Sn è la somma delle

sensazioni, immagini, affezioni che sono interessate, ed A la forza associativa che hic et nunc le

tiene unite in questa complessione che attualmente esperimento»3.

Fabro afferma che «la prima forma dell’Associazionismo, inteso come teoria esplicativa

integrale della conoscenza, è dagli storici, di solito, riferita a Hume». Hume, però presenta la

2 Cfr. Cornelio FABRO, La fenomenologia della percezione, op. cit., 63-69. 3 Ivi, 64.

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propria posizione come «la continuazione logica, o meglio come la “reductio ad absurdum”

dell’opera dei suoi predecessori, di Locke e Berkeley». Quindi, conclude Fabro, «l’opera del

grande scettico non è che la maturazione inevitabile dei princìpi che sono all’aurora del pensiero

moderno, vale a dire la posizione cartesiana della conoscenza»4.

Seguendo questa linea di pensiero sembra conveniente quindi, prima d’addentrarsi nel pensiero

empirista, dire con Fabro due parole sul pensiero di Cartesio.

In primo luogo cercheremo di riassumere il giudizio di Fabro su quest’autore, per passare in un

seconodo momento alla lettura di alcuni testi dello stesso Descartes, alla luce della critiica di

Fabro.

- Giudizio di Fabro

Secondo Fabro, Cartesio affermava «per il suo meccanicismo, che il corpo è del tutto “fuori”

dell’anima, l’anima veniva ristretta alla sola sfera della coscienza»5. Perciò, «l’anima non può

essere conscia di alcuna affezione della materia, né l’affezione dell’organo può assomigliare

all’oggetto esterno dal quale è stata causata».

Fabro riassume così la posizione di Cartesio:

L’ultima modificazione organica [l’impressione] non è quindi che l’occasione nella quale, sotto l’influsso

dell’Autore della natura – gran punto oscuro del Cartesianesimo – l’anima è specificamente determinata a

rappresentarsi l’oggetto esteriore. […] La rappresentazione mentale dell’oggetto esterno è ciò che

propriamente è detto idea6.

Dalla critica che Fabro fa a Cartesio possiamo segnalare due idee principali.

La prima, che Cartesio, per il suo già accennato meccanicismo, «dovette negare ogni

interferenza reale e complementarità fra i due mondi [fisico e spirituale]». Dallo quale si segue che

«veniva tolta, con la continuità “reale” (causale), ogni continuità “intenzionale”»7.

La seconda, ciò che Fabro chiama il «principio dell’idea-oggetto», vale a dire, il «fare dell’idea

l’oggetto per sé del conoscere». Questo è un punto fondamentale. Così, sembra potersi affermare

che l’idea «chiara e distinta» diventa essa stessa la realtà. Da questo fondo gnoseologico e

metafisico, afferma Fabro, «sorgeranno, come vegetazione parassitaria, gli sviluppi, le angustie e

le disfatte del problema moderno della percezione». Dalla «idea-concetto» o dalla «idea-

immagine» si apriranno le direzioni capitali del pensiero moderno: l’Empirismo ed il Razionalismo8.

4 Ivi, 65. 5 Ivi, 66. 6 Ivi, 67. 7 Ivi, 69. 8 Ibidem.

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- Testi di Descartes9

* Dai «Princìpi della filosofia»

Criteri della conoscenza (che cosa è una percezione chiara e distinta; che essa può essere

chiara senza essere distinta, ma non viceversa):

Vi sono anche delle persone, che, in tutta la loro vita, non percepiscono nulla como necessario per ben giudicarne. Poiché la conoscenza sulla quale si vuole stabilire un giudizio indubbio dev’essere non solo chiara, ma anche distinta. Io chiamo chiara quella che è presente e manifesta ad uno spirito attento: come noi diciamo di vedere chiaramente gli oggetti, quando, essendo presenti, agiscono abbastanza fortemente, e i nostri occhi sono disposti a guardarli. E distinta, quella che è talmente precisa e differente da tutte le altre, da non comprendere in sé se non ciò che appare manifestamente a chi la considera come si deve.

Per esempio, quando cualcuno sente un dolore cocente, la conoscenza che egli ha di questo dolore è chiara a suo riguardo, e non per questo è sempre distinta, poiché egli la confonde ordinariamente col falso giudizio che fa sulla natura di quello che crede essere nella parte ferita, che egli crede simile alla idea o alla sensazione del dolore che è nel suo pensiero, benché non percepisca chiaramente null’altro che la sensazione o il pensiero confuso che è in lui. Così la conoscenza può essere chiara senza essere distinta, e non può essere distinta senza essere chiara per lo stesso mezzo10.

Sul rapporto di anima e corpo (come si prova che l’anima non sente che in quanto è nel

cervello):

E si può facilmente provare che l’anima non sente in quanto è in ogni membro del corpo, ma solo in quanto è nel cervello, dove i nervi, coi loro movimenti, le riportano le diverse azioni degli oggetti esteriori, che toccano le parti del corpo nelle quali essi sono inseriti. Poiché, in primo luogo, vi sono molte malattie, che, benché non offendano che il cervello soltanto, tolgono, nondimeno, l’uso di tutti i sensi, come fa anche il sonno, come sperimentiamo tutti i giorni, e, tuttavia, esso non cambia nulla che nel cervello. Di più, benché non vi sia nulla di mal disposto né nel cervello, né nelle membra dove sono gli organi dei sensi esteriori, se solo il moto di uno dei nervi, che si estendono dal cervello fino a queste membra, è impedito in qualche luogo dello spazio ch’è fra loro due, questo basta per togliere la sensazione alla parte del corpo dove sono le estremità di questo nervo. E oltre di ciò, sentiamo qualche volta del dolore, come se esso fosse in qualcuna delle nostre membra, di cui la causa non è in quelle membra dove esso si sente, ma in qualche luogo più vicino al cervello, per cui passano i nervi che ne danno all’anima la sensazione. Il che potrei qui provare per mezzo di molte esperienze, ma mi contenterò qui di metterne una manifestissima. Si era soliti bendare gli occhi ad una giovinetta, quando il chirurgo veniva a curarla da un male ch’essa aveva alla mano, poiché essa non ne poteva sopportare la vista, e la cancrena avendo attaccato il suo male, si fu costretti di tagliarle fino alla metà del braccio, ciò che si fece senza avvertirnela, poiché non la si voleva attristare; e le si attaccarono molte bende legate l’una sull’altra nel posto di quello che si era tagliato, di modo che essa restò molto tempo dopo senza saperlo. E quello ch’è notevole in questo è che essa non cessava intanto di avere molti dolori, che pensava fossero nella mano che non aveva più, e di lamentarsi di ciò che sentiva ora nell’una delle sue dita e ora nell’altra. Del che non si potrebbe dare altra ragione, se non che i nervi della sua mano, che finivano allora verso il cubito, vi erano mossi nello stesso modo in cui avrebbero dovuto esserlo prima nelle estremità delle sue dita per fare avere all’anima nel cervello la sensazione di simili dolori. E ciò mostra evidentemente che il dolore della mano non è sentito dall’anima in quanto essa è nella mano, ma in quanto è nel cervello11.

* Dalle «Meditazioni metafisiche»

Delle cose che si possono revocare in dubbio:

Già da qualche tempo mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo accolto come vere una quantità di false opinioni, onde ciò che in appresso ho fondato sopra princìpi così mal sicuri, non poteva essere che assai dubbio ed incerto; di guisa che m’era d’uopo prendere seriamente una volta

9 Tutti i testi di Cartesio che citeremo in questo punto sono pressi da: Carmelo LACORTE et al. [ed.], Teoretica II, in Ugo SPIRITO [ed.], Storia antologica dei problemi filosofici, Sansoni Editore, Firenze 1968, 118-184. 10 Renè DESCARTES, I principi della filosofia, I, nn. 45-46. 11 Ivi, IV, nn. 196-198.

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in vita mia a disfarmi di tutte le opinioni ricevute fino allora in mia credenza, per cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta, se volevo stabilire qualche cosa di fermo e di durevole nelle scienze. Ma poiché quest’impresa mi sembrava grandissima, ho atteso di aver raggiunto un’età così matura, che non potessi sperarne dopo di essa un’altra più adatta; il che mi ha fatto rimandare così a lungo, che, ormai, crederei di commettere un errore, se impiegassi ancora a deliberare il tempo che mi resta per agire12.

La natura dell’io, il pensiero, è più facile a conoscersi che il corpo:

La meditazione che feci ieri m’ha riempito lo spirito di tanti dubbi, che, oramai, non è più in mio potere dimenticarli. E tuttavia non vedo in qual maniera potrò risolverli; come se tutt’a un tratto fossi caduto in un’acqua profondissima, sono talmente sorpreso, che non posso né poggiare i piedi sul fondo, né nuotare per sostenermi alla superficie. Nondimeno io mi sforzerò, e seguirò da capo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontandomi da tutto quello in cui potrò immaginare il menomo dubbio, proprio come farei se lo riconoscessi assolutamente falso; e continuerò sempre per questo cammino, fino a che non abbia incontrato qualche cosa di certo, o almeno, se altro non m’è possibile, fino a che abbia appreso con tutta certezza che al mondo non v’è nulla di certo.

Archimede, per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasportarlo altrove, domandava un sol punto fisso ed immobile. Così io avrò diritto di concepire alte speranze, se sarò abbastanza fortunato da trovare solo una cosa, che sia certa e indubitabile.

Io suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo siano false; mi pongo bene in mente che nulla c’è mai stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne, mi rappresenta; penso di non aver senso alcuno; credo che il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed il luogo non siano che finzioni del mio spirito [chimerae]. Che cosa, dunque, potrà essere reputato vero? Forse niente altro, se non che non v’è nulla al mondo di certo.

Ma che ne so io se non vi sia qualche altra cosa, oltre quelle che testè ho giudicato incerte, della quale non si possa avere il menomo dubbio? Non v’è forse qualche Dio, o qualche altra potenza, che mi mette nello spirito questi pensieri? Ciò non è necessario, perché forse io sono capace di produrli da me. Ed io stesso, almeno, sono forse qualche cosa? Ma ho già negato di avere alcun senso ed alcun corpo. Esisto, tuttavia; che cosa, infatti, segue di là? Sono io talmente dipendente dal corpo e dai sensi, da non poter essistere senza di essi? Ma mi sono convinto che non vi era proprio niente nel mondo, che non vi era né cielo, né terra, né spiriti, né corpi; non mi sono, dunque, io, in pari tempo, persuaso che non esistevo? No, certo; io esistevo senza dubbio, se mi sono convinto di qualcosa, o se solamente ho pensato qualcosa. Ma vi è un non so quale ingannatore potentissimo e astutissimo, che impiega ogni suo sforzo nell’ingannarmi sempre. Non v’è dunque dubbio che io esisto, s’egli m’inganna; e m’inganni finchè vorrà, egli non saprà mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa. Di modo che, dopo avervi ben pensato ed avere accuratamente esaminato tutto, bisogna infine concludere, e tener fermo, che questa proposizione: Io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che le pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito.

Ma io non conosco ancora abbastanza chiaramente ciò che sono, io che son certo di essere… […].

Ma che cosa, dunque, sono io? Una cosa che pensa. E che cos’è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente. Certo non è poco, se tutte queste cose appartengono alla mia natura. Ma perché non vi apparterrebbero esse? Non sono io ancora quel medesimo, che dubito, quasi di tutto, che, nondimeno, intendo e concepisco certe cose, che assicuro ed affermo quelle solo essere vere, che nego tutte le altre, che voglio e desidero conoscerne di più, che non voglio essere ingannato, che immagino molte cose, qualche volta anche contro la mia volontà; che molte cose sento come se mi venissero attraverso gli organi del corpo? V’è qualcosa in tutto ciò che non sia tanto vero, quanto è certo che io sono ed esisto, quand’anche dormissi sempre, e colui che m’ha dato l’essere si servisse di tutte le sue forze per ingannarmi?13.

Ora io chiuderò gli occhi, mi turerò le orecchie, distrarrò tutti i miei sensi, cancellerò anche dal mio pensiero tutte le immagini delle cose corporee, o almeno, poiché ciò può farsi difficilmente, le riputerò vane e false; e così intrattenendo solamente me stesso e considerando il mio interno, cercherò di rendermi a poco a poco più noto e più familiare a me stesso. Io sono una cosa che pensa, cioè che dubita, che afferma, che nega, che conosce poche cose, che ne ignora molte, che ama, che odia, che

12 Renè DESCARTES, Meditazioni metafisiche, Prima meditazione. 13 Ivi, Seconda meditazione.

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vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente. Poiché, come ho notato prima, sebbene le cose che sento ed immagino non siano forse nulla fuori di me ed in se stesse, io sono tuttavia sicuro che quelle maniere di pensare, che chiamo sensazioni ed immaginazioni, per il solo fatto che sono modi di pensare risiedono e si trovano certamente in me. Ed in quel poco che ho detto, io credo di aver riportato tutto ciò che so veramente, o, almeno, tutto ciò che fin qui ho notato di sapere14.

b. La frammentazione dell’oggetto (Locke)

- Giudizio di Fabro15

Tre sono i punti del pensiero di Locke che vogliamo considerare: la nozione lockiana di «idea»,

la sua distinzione tra idee «semplici» e idee «complesse», e la distinzione tra «qualità primarie» e

«qualità secondarie».

Contro Cartesio, Locke afferma che le idee non possono essere «innate», un «puro prodotto

dello spirito», ma che devono essere «piantata nell’esperienza». Cosa intende Locke per «idea», e

per «percezione»? Fabro riassume così: «l’idea è una immagine sensibile», e la percezione «non

si distingue realmente dalla sensazione». Comunque, fa notare Fabro, Locke coincide con

Cartesio nel fare dell’idea «l’oggetto ed il termine del conoscere». La conoscenza implica però,

secondo Locke, un «reale processo di sviluppo», che in Cartesio era assente. Questo sviluppo si

dà nell’ambito dell’esperienza immediata, che si svolge in due momenti: la sensazione e la

riflessione.

Questa esperienza immediata non presenta allo spirito qualcosa «unitaria», ma certi «complessi

di idee che rappresentano essere particolari». Lo spirito, secondo Locke, può «scoprire» (il termine

non è di Locke, ma nostro), in questo complesso le idee semplici che lo compongono. E,

«dall’apparizione delle idee semplici lo spirito può passare alla formazione di quelle complesse»,

tra le quali si possono elencare, per esempio, idee come quelle di «sostanza», «modo»,

«relazioni».

Le qualità primarie e le qualità secondarie di Locke si potrebbero avvicinare (al meno per avere

una prima nozione di esse) a ciò che nel realismo viene chiamato «sensibili comuni» e «sensibili

propri». Locke affermerà la priorità gnoseologica, e anche «metafisica», delle prime, dicendo che

solo le qualità primarie esistono realmente nei corpi, mentre che le qualità secondarie non esistono

nei corpi. Fabro dice che abbiamo qua un ultimo contatto con il realismo, anche se «si inverte il

rapporto di oggettività aristotelico fra i sensibili propri e comuni».

- Testi di Locke16

Tutti i testi che citeremo appartengono al «Saggio sull’intelleto umano» di Locke.

Delle idee in generale e della loro origine:

Supponiamo dunque che al principio lo spirito sia quel che si chiama un foglio bianco, privo di ogni carattere, senza alcuna idea. In che modo giungerà esso a ricevere le idee? Donde e come ne

14 Ivi, Terza meditazione. 15 Cfr. Cornelio FABRO, La fenomenologia della percezione, op. cit., 70-73. 16 Cfr. Carmelo LACORTE et al. [ed.], Teoretica II, op. cit., 435-492.

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acquista quella quantità prodigiosa che l’immaginazione dell’uomo, sempre all’opera e senza limiti, le offre con una varietà quasi infinita? Donde ha tratto tutti questi materiali della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall’esperienza. È questo il fondamento di tutte le nostre conoscenze; da qui esse traggono la loro prima origine. Le osservazioni che facciamo sia intorno agli oggetti esteriori e sensibili, sia intorno alle operazioni interiori dell’anima nostra, che percepiamo e sulle quali noi stessi riflettiamo, forniscono la nostra intelligenza di tutti i materiale del pensiero. Sono queste le due sorgenti da cui discendono tutte le idee che abbiamo, o che possiamo avere naturalmente.

E anzitutto, i nostri sensi, venendo in rapporto con particolari oggetti sensibili, ci fanno entrare nell’anima molte percezioni distinte delle cose, secondo le maniere diverse in cui tali oggetti agiscono sui nostri sensi. È così che acquistiamo le nostre idee del bianco, del giallo, del caldo, del freddo, del duro, del molle, del dolce, dell’amaro, e di tutto ciò che chiamiamo qualità sensibili. Dico che i nostri sensi fanno entrare tutte queste idee nell’anima nostra, intendendo con ciò che, dagli oggetti esteriori, essi fanno passare nell’anima ciò che vi produce queste percezioni. E poiché questa grande fonte della maggior parte delle idee che abbiamo dipende interamente dai sensi, e si comunica all’intelligenza per mezzo loro, io la chiamo sensazione.

L’altra sorgente da cui l’intelligenza viene a ricevere, per esperienza, delle idee, è la percezione delle operazioni che l’anima nostra compie dentro di sé sulle idee che ha ricevute mediante i sensi: operazioni che, diventando l’oggetto della riflessioni dell’anima, producono nell’intelligenza un’altra specie di idee, che gli oggetti esterni non le avrebbero potuto fornire: e tali sono le idee di ciò che si chiama percepire, pensare, dubitare, credere, ragionare, conoscere, volere, e tutte le diverse azioni della nostra anima, dell’esistenza delle quali essendo pienamente consapevoli, perché le troviamo in noi stessi, riceviamo per loro mezzo delle idee altrettanto distinte quanto quelle che sono prodotte in noi dai corpi quando vengono a colpire i nostri sensi. Questa è una fonte di idee che ogni uomo ha interamente in sé; e sebbene questa facoltà non sia un senso, poiché non ha niente a che fare con gli oggetti esterni essi vi si avvicina di molto, e non le converrebbe male il nome di senso interno. Ma, poiché l’altra sorgente delle nostre idee la chiamo sensazione, questa la chiamerò riflessione, poiché per suo mezzo l’anima riceve soltanto le idee che essa acquista riflettendo entro se stessa sulle proprie operazioni. Perciò appunto vi prego di osservare che, nel seguito del presente discorso, per riflessione intendo la conoscenza che l’anima acquista delle proprie diverse operazioni, e dei loro procedimenti: conoscenza, per mezzo della quale l’intelligenza viene ad acquistare le idee di quelle operazioni stesse. Questi due, a mio avviso, sono i soli princìpi da cui traggono origine tutte le nostre idee: le cose esterne e materiali, che formano l’oggetto della sensazione, e le operazioni interiori del nostro spirito, che formano l’oggetto della riflessione. Uso qui la parola operazione in senso ampio, non solo per indicare quelle azioni dell’anima che riguardano le sue idee, ma ancora certe passioni che sono prodotte talvolta da queste idee, come il piacere o il disagio causati da un qualunque pensiero17.

Qualità primarie e qualità secondarie:

Chiamo idea tutto ciò che lo spirito percepisce in se stesso, o che è l’immediato oggetto della percezione, del pensiero o dell’intelligenza; e chiamo qualità di un oggetto il potere o capacità che essa ha di produrre una certa idea nello spirito. Così chiamo idee la bianchezza, la freddezza e la rotondità, in quanto siano percezioni o sensazioni che troviamo nell’anima, e in quanto essi si trovino in una palla di neve, che può produrre in noi queste idee, le chiamo qualità. E se qualche volta parlo di queste idee come se esse fossero nelle cose stesse, bisogna ricordare che intendo con ciò le qualità che si riscontrano negli oggetti che producono in noi quelle idee.

Ciò posto, bisogna distinguere nei corpi due specie di qualità.

Anzitutto, quelle che sono interamente inseparabili dal corpo, in qualunque stato esso sia, in modo che esso le conserva sempre, quali che siano le alterazioni e i cambiamenti che il corpo viene a subire o la forza che si eserciti sopra di esso. […]. Queste qualità del corpo, che non possono venirne separate, le chiamo qualità originali o primarie, e sono la solidità, l’estensione, la figura, il numero, il movimento o il riposo; esse producono in noi delle idee semplici, come ognuno, credo, può accertarsi da se stesso.

In secondo luogo, vi sono delle qualità che nei corpi non sono effettivamente nient’altro che la capacità di produrre in noi diverse sensazioni per mezzo delle loro qualità primarie, ossia per mezzo

17 John LOCKE, Saggio sull’intelligenza umana, II, I, nn. 2-4.

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della grandezza, figura, struttura e movimento delle loro parti insensibili, e saranno ad esempio sensazioni di colori, di suoni, di sapori, ecc. A queste do il nome di qualità secondarie

18.

I gradi della conoscenza:

Poiché tutta la nostra conoscenza consiste, come ho detto, nella visione che lo spirito ha delle proprie idee, che costuisce la suprema luce e la maggior certezza da cui noi, con le nostre facoltà e col nostro modo di conoscere, siamo capaci, non sarà fuori luogo considerare un poco i gradi della sua evidenza. La diversa chiarezza della nostra conoscenza mi sembra stia nel diverso modo di percezione, che lo spirito possiede, della concordanza o discordanza fra le sue idee, quali che siano. Poiché, se rifletteremo sulle maniere del nostro pensare, troveremo che talvolta lo spirito percepisce la concordanza o discordanza fra due idee, per se stesse e immediatamente, senza l’intevento di alcun’altra: e penso che questa potremo chiamarla conoscenza intuitiva. Poiché, in questo caso, la spirito non dà alcuna pena di provare o esaminare, ma percepisce la verità come fa l’occhio con la luce, per il solo fatto di dirigersi verso di essa. Così, lo spirito percepisce che bianco non è nero, che un cerchio non è un triangolo, che tre sono più di due e sono uguali a uno più due. Tali specie di verità la mente percepisce alla prima vista delle idee unite assieme, per mera intuizione, senza l’intervento di alcun’altra idea: e questa specie di conoscenza è la più chiara e più certa di cui sia capace l’umana fralezza [fragilità]. Questa parte della conoscenza è irresistibile, e, come la chiara luce del sole, ci costringe immediatamente a percepirla, non appena la mente volga lo sguardo da quel lato; e non lascua luogo a esitazione, dubbio o ulteriore esame, bensì la mente è senz’altro riempita dalla chiara luce di essa. Da questa intuizione dipende tutta la certezza ed evidenza di tutta la nostra conoscenza; certezza che ognuno trova essere talmente grande, che non può immaginare, né quindi esigerne, la maggiore; poiché uno non può concepirsi capace di una certezza maggiore di quella che consiste nel sapere che una qualunque idea che ha nella mente è quale egli la percepisce; e che due idee, tra le quali percepisce una differenza, sono diverse e non esattamente identiche. Chi domanda una certezza maggiore di questa, non sa che cosa domandi, e solo dimostra di volersi atteggiare a scettico, senza tuttavia riuscirvi. La certezza dipende così interamente da questa intuizione, che, in quel grado successivo della conoscenza che chiamo dimostrativo, questa intuizione è necessaria in tutte le connessioni delle idee intermedie, e senza di essa non possiamo raggiungere né conoscenza né certezza19.

c. L’interiorità assoluta dell’oggetto come «idea» e la critica alle idee astratte (Berkeley)

- Giudizio di Fabro20

In primo luogo, Berkeley nega le «qualità primarie» e afferma, con Locke che le «qualità

secondarie», le uniche che restano in piedi, «sono soltanto nella mente».

Secondo punto della dottrina del vescovo irlandese che ci interessa accennare è la sua critica

alla teoria della astrazione. «No general ideas», sostiene Berkeley.

Secondo Fabro, «per Berkeley [...] ammetter questo [l’astrazione] è lo stesso che voler dividere

una cosa da se stessa»: «se il conoscere termina all’idea in quanto attualmente presente, non si

può spogliarla della sua attualità, senza perciò stesso sopprimerla»21.

Perciò, troviamo già in Berkeley la «prima forma d’idealismo moderno»22, per la sua

affermazione dell’«interiorità assoluta del reale»23.

18 Ivi, II, VIII, nn. 8-10. 19 Ivi, IV, II, n. 1. 20 Cfr. Cornelio FABRO, La fenomenologia della percezione, op. cit., 73-78. 21 Ivi, 77. 22 Cfr. Ivi, 73. 23 Ivi, 78.

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- Testi di Berkeley24

Critica delle idee generali astratte:

Se ci siano altri che abbiano questa meravigliosa potenza di astrarre le loro idee, potranno dirlo loro meglio di chiunque. Per conto mio, oso asserire positivamente che io non l’ho: mi accorgo in realtà d’esser capace di immaginare, ossia di rappresentarmi, le idee di quelle cose particolari che ho percepite, unendole fra loro e dividendole in vario modo. Posso immaginare un uomo con due teste, ovvero il busto d’un uomo congiunto al corpo d’un cavallo. Posso considerare la mano, l’occhio, il naso ciascuno per conto suo, astratto ossia separato dal resto del corpo: però, qualunque sia la mano o l’occhio che immagino, deve avere una forma ed un colore determinato. Del pari, l’idea di un uomo che compongo, deve essere idea d’un uomo bianco o nero ovvero brunastro, diritto ovvero storto, alto o basso ovvero di statura mezzana. Non posso, per quanti sforzi di pensiero faccia, concepir l’idea astratta come l’ho descritta più sopra. Mi è altrettanto impossibile formare l’idea astratta di movimento distinto dal corpo che si muove, e che non sia né rapido né lento, né curvilineo né rettilineo. E si può dir lo stesso di qualsivoglia altra idea generale astratta. Per spiegarmi meglio: riconosco di esser capace di astrarre ma in un solo senso, cioè quando prendo a considerare certe parti specifiche ovvere certe qualità peculiari separate da altre quando è possibile che le prime esistano realmente senza queste ultime benché si ritrovino unite in qualche oggetto. Ma nego di poter astrarre l’una dall’altra, ossia di poter concepire separatamente quelle qualità che non possono realmente esistere isolate in questo modo; nego d’esser capace di formare una nozione generale astraendo nel modo sopra descritto dai particolari: e sono questi due i significati esatti del termine «astrazione». C’è buona ragione di credere che moltissimi tra gli uomini riconosceranno di trovarsi nelle mie condizioni. La grande maggioranza, gente semplice ed incolta, non pretende mai d’aver nozioni astratte. Si dice che esse sono difficili e che non possono venir conseguite senza studio e fatica: potremo quindi concludere con ragione che, se pure esistono nozioni astratte, sono un privilegio riservato alle sole persone dotte25.

L’«esse» delle cose è un «percipi»:

È evidente per chiunque esamini gli oggetti della conoscenza umana, che questi sono: o idee impresse ai sensi nel momento attuale; o idee percepite prestando attenzione alle emozioni e agli atti della mente; o infine idee formate con l’aiuto della memoria e dell’immaginazione, riunendo, dividendo o soltanto rappresentando le idee originariamente ricevute nei [due] modi precedenti. Dalla vista ottengo le idee della luce e dei colori, con i loro vari gradi e le loro differenze. Col tatto percepisco il duro ed il soffice, il caldo ed il freddo, il movimento e la resistenza, ecc., e tutto questo in quantità o grado maggiore o minore. L’odorato mi fornisce gli odori; il gusto mi dà i sapori; l’udito trasmette alla mente i suoni in tutta la loro varietà di tono e di combinazioni. E poiché se vede che alcune di queste sensazioni si presentano insieme, vengono contrassegnate con un solo nome, e quindi, considerate come una cosa sola. Così, avvendo osservato, per esempio, che si accompagna un certo colore con un certo sapore, un certo odore, una certa forma, una certa consistenza, tutte queste sensazioni sono considerate come una cosa sola e distinta dalle altre, indicata col nome di «mela»; mentre altre collezioni di idee costituiscono una pietra, un albero, un libro e simili cose sensibili che, essendo piacevoli o spiacevoli, eccitano in noi i sentimenti d’amore, di odio, di gioia, d’ira, ecc.

Ma oltre a questa infinita varietà di idee, o di oggetti della conoscenza, v’è poi qualcosa che conosce o percepisce quelle idee, ed esercita su di esse diversi atti come il volere, l’immaginare, il ricordare, ecc. Questo essere che percepisce ed agisce è ciò che chiamo «mente», «spirito», «anima», «io». Con queste parole io non indico nessuna mia idea, ma una cosa interamente diversa da tutte le mie idee e nella quale esse esistono, ossia dalla quale esse vengono percepite: il che significa la stessa cosa perché l’esistenza di una idea consiste nel venir percepita.

Tutti riconosceranno che né i nostri pensieri né i nostri sentimenti né le idee formate dall’immaginazione possono essistere senza la mente. Ma per me non è meno evidente che le varie sensazioni ossia le idee impresse ai sensi, per quanto fuse e combinate insieme (cioè, quali che siano gli oggetti composti da esse), non possono esistere altro che in una mente che le percepisce. Credo che chiunque possa accertarsi di questo per via intuitiva, se pensa a ciò che significa la parola «esistere» quando viene applicata ad oggetti sensibili. Dico che la tavola su cui scrivo esiste, cioè che la vedo e la tocco; e se fossi fuori del mio studio direi che esiste intendendo dire che potrei percepirla se fossi nel mio studio, ovvero che c’è qualche altro spirito che attualmente la percepisce. C’era un

24 Cfr. Carmelo LACORTE et al. [ed.], Teoretica II, op. cit., 680-718. 25 George BERKELEY, Trattato sui princìpi della conoscenza umana, Introduzione, n. 10.

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odore, ciè era sentito; c’era un suono, cioè era udito; ecco tutto quel che posso intendere con espressioni di questo genere. Perché per me è del tutto incomprensibile ciò che si dice dell’esistenza assoluta di cose che non pensano, e senza nessun riferimento al fatto che vengono percepite. L’esse delle cose è un percipi, e non è possibile che esse possano avere una qualunque esistenza fuori delle menti o dalle cose pensanti che le percepiscono26.

Qualità primarie e qualità secondarie:

Alcuni fanno distinzione fra qualità «primarie» e qualità «secondarie»: con le prime indicano l’estensione, la forma, il moto, la quiete, la solidità o impenetrabilità, ed il numero; con le seconde, denotano tutte le altre qualità sensibili, quali i colori, i suoni, i sapori, ecc. Essi riconoscono che le idee che abbiamo di queste ultime non sono similitudini di cose che esistano fuori della mente, ossia non percepite; ma sostengono che le nostre idee delle qualità primarie sono esemplari o modelli di cose che esistono fuori della mente, in una sostanza priva di pensiero che essi chiamano «materia». Quindi per «materia» dovremmo intendere una sostanza inerte e priva di senso, nella quale sussitirebbe attualmente l’estensione, la forma, il movimento, ecc. Ma da ciò che abbiamo già dimostrato risulta evidente che la estensione, la forma ed il movimento sono soltanto idee esistenti nella mente, e che un’idea non può essere simile ad altro che ad una idea. Quindi, né le idee primarie né i loro archetipi possono esistere in una sostanza che non percepisce. Di qui è chiaro che la nozione stessa di ciò che vien chiamato «materia» o «sostanza corporea», importa una contraddizione. E perciò non riterrei proprio necessario sciupar altro tempo a mostrarne l’assudità: ma poiché l’affermazione dell’esistenza della materia sembra aver presa così salda radice nelle menti dei filosofi e porta tante cattive conseguenze, preferisco che mi si giudichi prolisso e tedioso piuttosto di omettere qualcosa che possa giovare a scoprire ed estirpare completamente questo pregiudizio. […].

Insomma, se uno esamina quegli argomenti che si crede provino ad evidenza che i colori, i sapori, ecc., esistono soltanto nella mente, troverà che gli stessi argomenti possono venir addotti a provare lo stesso per l’estensione, la forma ed il movimento. Tuttavia, si deve riconoscere che questo processo d’argomentazione non prova proprio che non esistano estensione, colore, ecc., in un oggetto esterno, ma piuttosto che non conosciamo col senso quale sia la vera estensione o il vero colore dell’oggetto. Sono invece le argomentazioni precedenti che mostrano chiaramente come sia impossibile che un colore qualunque o una qualunque estensione o qualsivoglia altra qualità sensibile possa esistere in un soggetto che non pensa, fuori della mente, ed anzi che esista qualcosa che sia un oggetto esterno27.

Cause delle idee è lo spirito:

Tutte le nostre idee, sensazioni, nozioni ossia le cose che percepiamo, con qualsivoglia nome vogliamo indicarle, sono evidentemente inattive: esse non comprendono nessuna forza e nessun agente. Cossichè nessuna idea od oggetto del pensiero può produrre un qualunque cambiamento in un altro oggetto. Per esser certi della verità di questo, basta soltanto osservare le nostre idee. Dato infatti che esse e ogni parte di esse esistono soltanto nella mente, ne consegue che in esse v’è soltanto ciò che viene percepito; ma chiunque osservi le sue proprie idee, siano esse dovute al senso ovvero alla riflessione, non troverà in esse nessun potere o attività. Nulla di tutto questo è dunque compresso in esse. Basta un poco d’attenzione per riverlarci che la stessa natura dell’idea importa passività e inerzia, tanto che è impossibile ad un’idea far qualcosa, ossia, parlando propriamente, esser causa di qualcosa; né essa può esser la similitudine o la riproduzione di un qualunque essere attivo, come è evidente per ciò che s’è detto nel § 8. Di qui consegue logicamente che l’estensione, la forma e il moto non posson essere la causa delle nostre sensazioni. Quindi, dire che queste siano effetto di forze risultanti dalla forma, dal numero, dal movimento, dalle dimensioni, ecc. di corpuscoli, sarà certamente falso.

Noi avvertiamo una successione incessante di idee: alcune sono suscitate di nuovo, altre sono mutate ovvero scompaiono del tutto. Esiste dunque una causa di queste idee, una causa dalla quale esse dipendono e che le produce e le muta. Da quanto s’è detto nella sezione precedente, è evidente che questa causa non può essere una qualunque qualità o una qualunque idea o combinaizone di idee. Deve dunque essere una sostanza: ma poiché si è provato che non esiste sostanza corporea o materiale, non resta, come causa delle idee, che una sostanza incorporea e attiva, ossi lo spirito. […].

26 Ivi, nn. 1-3. 27 Ivi, nn. 9.15.

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Io trovo di poter suscitare a piacere idee nella mia mente, variando e mutando la scena tutte le volte che lo credo opportuno. Basta volere, ed ecco subito che questa quell’altra idea sorge nella mia fantasia; e dallo stesso potere viene cancellata e lascia il posto a un’altra. Questo fare e disfare idee rende appropriato qualificare la mente come attiva. Tutto questo è certo e fondato sull’esperienza: mentre quando parliamo d’agenti che non pensano ovvero di idee suscitate indipendentemente dalla volontà, non facciamo altro che giocar con le parole.

Ma qualunque sia il potere che o ho sui miei propri pensieri, trovo che le idee percepite attualmente dai sensi non dipendono nello stesso modo dalla mia volontà. Quando apro gli occhi alla piena luce del giorno, non posso scegliere di vedere o di non vedere, né fissare quali oggetti se si debbano precisamente presentare alla mia vista, e lo stesso accade per l’udito e per gli altri sensi: le idee impresse ad essi non sono creazioni della mia volontà. V’è dunque qualche altra volontà ossia un altro spirito che le produce28.

d. Il problema della causalità (Hume)

- Giudizio di Fabro29

Quale è il «problema della causalità»? Sembra di non essere, al meno nel suo inizio, una critica

alla causalità in se stessa, quanto una critica alla possibile fondamentazione filosofica di questo

principio.

Hume si rende conto che non è possibile giustificare a priori la causalità, cercherà quindi se

nell’«esperienza» c’è qualcosa che li permetta di fondare questo principio:

[Hume] Non riuscendo a risolvere il problema per pure considerazioni a priori (relazioni filosofiche), lo fa

scendere dal piano speculativo puro a quello psicologico: «perché noi diciamo che certe particolari cause

devono avere di necessità certi particolari effetti?»30.

Fabro sostiene che non si tratta, la critica di Hume, d’una negazione della causalità: «come

uomo ordinario, egli [Hume] resta sempre persuaso che quel nesso esiste di fatto, desidera

soltanto di poter giustificarlo in sede filosofica»31.

Per capire la posizione del problema bisogna conoscere la gnoseologia humiana, e il rapporto

che in essa si stabilisce tra «idea» e «impressione», e anche, quale è la nozione humiana

d’«impressione», che sembra in gran parte quella del Berkeley, vale a dire, una «sensazione

attuale». Per questo, Fabro afferma: «il problema di Hume all’ultima sua tappa [...] affinché sia

giustificata la nozione di causa, si chiede e pretende che venga mostrata un’impressione

corrispondente»32. Ancora Fabro: «nella gnoseologia di H. però la riduzione è legittima, poiché

come l’idea in tanto vale in quanto può esser riferita ad una impressione corrispondente»33.

Due sono i passi per trovare una risposta al problema posto da Hume.

Il primo, capire bene quale è il problema: «si può inoltre cercare, seguendo passo passo lo

svolgersi del problema, di penetrarne il senso e di discernere le esigenze reali del medesimo da

28 Ivi, nn. 25-25.28-29. 29 Cfr. Cornelio FABRO, Percezione..., op. cit., 431-443. 30 Ivi, 431. 31 Ivi, 432. 32 Ivi, 433 33 Ivi, 431

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quelle fittizie»34. Il secondo, cercare una risposta metafisica, non solo fenomenologica: «Ognuno

vede che una risposta adeguata al problema, posto da Hume, può esser data soltanto risalendo

immediatamente ai princìpi gnoseologici e metafisici che ne comandano la soluzione»35.

Sembra che Fabro sia d’accordo nell’accettare che il principio della causalità non possa

sostenersi a priori senza un qualche ricorso all’esperienza: «per un intelletto radicalmente passivo

com’è il nostro, non sono derivabili senz’altro da queste per via analitica: devono quindi sorgere a

posteriori, cioè dalla esperienza»36.

«Possiede l’uomo - si domanda Fabro - un’esperienza reale della causalità, dell’attività e della

passività?»37. La risposta sarà affermativa, anche se non si tratta d’una «esperienza» al modo

richiesto da Hume.

Cerchiamo di rintracciare il ragionamento di Fabro. In primo luogo, si afferma che «nella vita

ordinaria ciascuno di noi incontra di continuo forme di attività e passività»38. E si analizza un

esempio:

Osserviamo: sto preparando la lezione e voglio fissare le mie idee in maniera da poterle comunicare. Potrei limitarmi ad ordinarle nella mia mente con alcuni minuti di riflessione; ma siccome temo che l’affidarmi alla sola memoria del momento mi possa giocare qualche sorpresa, mi decido a prender penna e carta per appuntare in modo ordinato le mie riflessioni, e scrivo39.

Per il soggetto che agisce è assai evidente, anche in sede esperimentale, che il suo agire

dipenda in qualche modo da sé: «Questo esercizio di attività non è impersonale, ma va unito alla

persuasione di esserne NOI i responsabili, perché autori, e dicendo “NOI” s’intende il soggetto

concreto particolare»40; «sono però certissimo che il movimento attuale della mia mano che scrive

dipende unicamente dalla mia volontà e posso sospenderlo o continuarlo a mio piacere»41. Questa

esperienza, anche se semplice e ordinare, può servire come punto di partenza per lo studio della

causalità: «Pare che questo complesso sperimentale della vita ordinaria sia sufficiente per servire

di base e di giustificazione al contenuto della nozione di causa, tanto sotto l’aspetto dell’attività

come di quello della passività, senza ricorrere esplicitamente ad esperienze privilegiate»42.

Occorre però precisare bene a quale tipo di esperienza si fa riferimento. Non è una intuizione in

senso stretto: «la percezione della causalità non si limiti a constatare una successione regolare –

l’urto delle palle da biliardo – né consiste in una penetrazione diretta dello svolgersi delle forze

naturali all’interno delle sostanze»43. È analoga a quella «esperienza» che si potrebbe avere

34 Ivi, 432-433. 35 Ivi, 432. 36 Ivi, 433. 37 Ivi, 434. 38 Ivi, 434. 39 Ivi, 436. 40 Ivi, 435. 41 Ivi, 436. 42 Ivi, 437. 43 Ivi, 441.

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dell’essere: «La causalità, che diffonde l’essere, è troppo profonda perché ne possiamo avere un

contatto sperimentale: ha infatti la sua radice nel principio stesso dell’essere»44. È chiaro pure che

non si tratta nemmeno d’una sensazione della causalità:

Per la filosofia realista, non si può dare una «sensazione» della causalità, come si dà una sensazione di rosso, di caldo, di freddo...; per questo abbiamo sempre parlato di «percezione dell’attività e passività» e mai di «sensazione» o d’«intuizione» in senso stretto45.

Riassumendo, sembra che possiamo dire, seguendo Fabro, che c’è una certa «esperienza»

reale della causalità, dell’attività e della passività, non però al modo richiesto da Hume (cfr. il

rapporto per H. fra impressione ed idee). Corrisponderà alla metafisica l’analisi di questa

esperienza, lo studio dell’origine della nozione di causalità, il contenuto di essa, ecc.

- Testi di Hume46

Impressioni ed idee:

Tutte le percezioni dello spirito umano si possono dividere in due classi, ch’io chiamerò impressioni e idee. La differenza fra esse consiste nel grado diverso di forza e vivacità con cui colpiscono il nostro spirito e penetrano nel pensiero e nella coscienza. Le percezioni che penetrano con maggior forza e violenza, le chiamiamo impressioni: e sotto questa denominazione io comprendo tutte le sensazioni, passioni ed emozioni, quando fanno la loro prima apparizione nella nostra anima. Per idee, invece, intendendo le immagini illanguidite [indebolite] di queste sensazioni, sia nel pensare che nel ragionare… [Nota, di Hume: Adopero questi termini di impressione e idea, in un senso diverso dall’ordinario, e spero che mi sarà concessa questa libertà tanto più ch’io credo di restituire, così, alla parola idea il suo significato originario, dal quale Locke l’allontanò chiamando idee tutte le nostre percezioni.].

Ma c’è un’altra divisione della nostre percezioni da non trascurare, la quale comprende tanto le impressioni quanto le idee: quella delle percezioni in semplici e complesse. Le percezioni semplici, impressioni o idee, son quelle che non permettono nessuna distinzione o separazione: le percezioni complesse, al contrario, posson essere distinte in parti. Benchè, ad esempio, un particolare colore sapore e odore siano qualità unite insieme in questa mela, è facile vedere che non sono le stesse, sì che posson esser distinte l’una dall’altra…47.

Sensazione e riflessione:

Le impressioni possono dividersi in due specie: quelle di sensazione e quelle di riflessione. Quelle della prima specie nascono nell’anima originariamente, da cause ignote. Quella della seconda derivano in gran parte dalle nostre idee, nell’ordine che ora si espone. Un’impressione colpisce dapprima i nostri sensi e ci fa percepire il freddo o il caldo, la sete o la fame, un qualsiasi piacere o dolore. Di questa impressione una copia resta nello spirito, ed è quella che chiamiamo idea. Quest’idea di piacere o di dolore, quando torna a operare sull’anima, produce nuove impressioni di desiderio o di avversione, di speranza o di timore, che possono giustamente esse chiamate impressioni di riflessione, perché da essa derivano. Queste vengono, da capo, riprodotte dalla memoria e dall’immaginazione, e diventano idee, le quali possono, a loro volta, dar origine ad altre impressioni e idee. Cosicchè le impressioni di riflessione sono anteriori soltanto alle loro idee corrispondenti ma posteriori alle idee di sensazione, e derivano da queste48.

Dell’associazione delle idee:

Dato che tutte le idee semplici possono essere separate dall’immaginazione, e di nuovo unite nella forma che più le piace, le operazioni di questa facoltà sarebbero inesplicabili se non fosse guidata da

44 Ivi, 442. 45 Ivi, 443. 46 Cfr. Carmelo LACORTE et al. [ed.], Teoretica II, op. cit., 718-752. 47 David HUME, Trattato sulla natura umana, Libro primo, I, I, passim. 48 Ivi, I, II.

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un principio universale che la renda in certa misura uniforme in tutti i tempi e luoghi. Se le idee fossero interamente slegate e sconnesse, soltanto il caso potrebbe congiungerle; ma è impossibile che le stesse idee semplici si raccolgano regolarmente in idee complesse (come di solito accade) senza un legame che le unisca tra loro, senza una proprietà associativa, sì che un’idea ne un introduca un’altra naturalmente. Questo principio di unione fra le idee non deve essere considerato come una connessione indissolubile: chè questa già l’abbiamo esclusa dalla immaginazione; né, quindi, dobbiamo conchiudere che senza questo principio lo spirito non possa congiungere due idee: chè non c’è niente di più libero di quella facoltà. Noi dobbiamo considerarlo semplicemente come una dolce forza49 che comunmente s’impone, ed è la causa, fra l’altro, che le lingue hanno tanta corrispondenza tra loro: la natura par che indichi a ognuno le idee semplici più adatte ad essere riunite in idee complesse.

Le proprietà che danno origine a questa associazione e fan sì che la mente venga trasportata da un’idea all’altra, sono tre: di somiglianza, di contiguità nel tempo o nello spazio, di causa od effetto…50.

Critica delle idee astratte:

Una questione molto importante è stata sollevata intorno alle idee astratte o generali: se esse siano generali o particolari nell’atto con cui la mente le concepisce. Un grande filosofo, il dottor Berkeley, ha contestata l’opinione invalsa a questo proposito, ed ha affermato che tutte le idee generali non son altro che idee particolari congiunte a una certa parola che dà loro un significato più esteso e occorrendo, fa sì che ne richiamino altre individuali simili a loro. Poiché questa scoperta io la considero uno delle maggiori e più importanti che siano state fatte in questi ultimi anni nella reppublica delle lettere, cercherò di confermarla qui con alcuni argomenti che spero la metteranno fuori d’ogni dubbi e controversia…51.

Sul principio di causa:

Tutti i ragionamenti relativi a materie di fatto sembrano fondati sulla relazione di causa ed effetto. Soltanto per mezzo di questa relazione possiamo andare al di là dell’evidenza della memoria e dei sensi. Se chiedete ad una persona perché crede a qualche fatto, che non è presente, per esempio che un suo amico si trova in campagna o in Francia, vi darà una ragione; e questa ragione sarà qualche altro fatto, come una lettera ricevuta da parte dell’amico o la conoscenza di sue risoluzioni e promesse precedenti. Un uomo che trovasse un orologio o un’altra macchina in una isola deserta, concluderebbe che in quell’isola una volta vi sono stati degli uomini. Tutti i ragionamenti riguardanti fatti sono della stessa natura; in essi si suppone sempre che ci sia una connessione fra il fatto presente e quello che da esso viene inferito. Se non ci fosse nulla che li legasse insieme, l’inferenza sarebbe del tutto precaria. L’udire una voce articolata e un discorso razionale al buio, ci assicura della presenza di qualche persona: perché? Perché questi sono gli effetti della struttura della fabbrica umana strettamente connessi con essa. Se anatomizziamo tutti gli altri ragionamenti di tale natura, troveremo che sono fondati sulla relazione di causa ed effetto e che questa relazione è vicina o remota, diretta o collaterale. Il calore e la luce sono effetti collaterali del fuoco, ed uno di questi effetti può, appunto per questo, essere inferito dall’altro.

Se, dunque, vogliamo metter capo a una spiegazione soddisfacente intorno alla natura dell’evidenza che ci assicura dei fatti, dobbiamo ricercare come arriviamo alla conoscenza di causa ed effetto.

Oserò affermare come proposizione generale che non ammette eccezioni che la conoscenza di questa relazione non si consegue in alcun caso mediante ragionamenti a priori; ma nasce interamente dall’esperienza quando troviamo che certi particolari oggetti sono costantemente congiunti tra loro. Presentiamo un oggetto ad una persona di capacità ed abilità razionali forti quanto si voglia; se quell’oggetto le è del tutto nuovo, essa non riuscirà, coll’esame più accurato delle qualità sensibili di esso, a scoprire qualcuna delle sue cause o dei suoi effetti. Adamo, anche se si supponga che le sue facoltà razionali fossero, fin dall’inizio, assolutamente perfette, non avrebbe potuto inferire dalla fluidità

49 Cfr. Cornelio FABRO, La fenomenologia della percezione, op. cit., 83: «La forza gentile è l’ASSOCIAZIONE». E anche Cornelio FABRO, Percezione e pensiero, op. cit., 426: «D. Hume, dopo la sua demolizione critica, pur abbandonando con rammarico gli studi speculativi, aveva fatto ritorno e si era affidato con fiducia al pensiero spontaneo che scorre dolcemente spinto dalla “gentle force” del “Custom” o “Belief” e riusciva a consolarsi, alla fine, che l’Autore della natura, in materia tanto importante, non ci avesse lasciato in balìa dei nostri poveri ragionamenti, ma avesse posto nella nostra mente un principio infallibile, per il quale il corso delle nostre idee procedeva sincrono, in piena uniformità, come per un’«armonia prestabilita», con quello della natura». 50 Ivi, I, IV. 51 Ivi, I, VIII.

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e trasparenza dell’acqua che questa lo poteva soffocare, o dalla luce e dal calore del fuoco che questo poteva ridurlo in cenere. Nessun oggetto manifesta, per mezzo delle qualità che appaiono ai sensi, né le cause che lo hanno prodotto, né gli effetti che sorgeranno da esso; né la ragione può mai, senza l’aiuto dell’esperienza, trarre alcuna inferenza riguardante esistenze reali o materia di fatto.

Questa proposizione che cause ed effetti si possono scoprire non per mezzo della ragione, ma per mezzo dell’esperienza sarà ammessa facilmente per quanto riguarda gli oggetti dei quali ricordiamo che in passato ci sono stati del tutto sconosciuti, giacchè dobbiamo essere consci dell’assoluta incapacità in cui allora ci trovavamo di predire che cosa sarebbe venuto da essi. Presentate due pezzi levigati [lisci] di marmo ad uno che non abbiamo nemmeno un’infarinatura di filosofia naturale; egli non scoprirà mai che essi aderiranno l’uno all’altro in maniera di richiedere molta forza per separarli in linea retta, mentre oppongono scarsa resistenza ad una pressione laterale. Eventi tali, che hanno poca analogia col comune corso della natura, vengono conosciuti, lo si ammette facilmente, soltanto per mezzo dell’esperienza: né qualcuno immagina che l’esplosione della polvere da sparo o l’attrazione della calamita potrebbero essere scoperte per mezzo di argomenti a priori. Allo stesso modo, quando si ritiene che un effetto dipenda da un intrincato meccanismo o segreta struttura di parti, non facciamo difficoltà ad attribuire tutta la nostra conoscenza di esso all’esperienza. Chi asserirà di poter dare la ragione ultima per cui il latte o il pane sono nutrimento adatto per un uomo, non per un leone o per una tigre?

La stessa verità però può non apparire, a prima vista, fornita della medesima evidenza in relazione ad eventi che ci siano divenuti familiari fin dal nostro primo apparire al mondo, che abbiano una stretta analogia con l’intero corso della natura e che si ritenga dipendano dalle semplici qualità degli oggetto, senza alcuna segreta struttura di parti. Noi siamo inclini a pensare che potremmo scoprire questi effetti per mezzo delle semplici operazioni della ragione, senza esperienza. Noi immaginiamo che se fossimo portati all’improvviso in questo mondo, potremmo fin dall’inizio inferire che una palla di bigliardo sarebbe in grado di comunicare movimento ad un’altra in seguito ad impulso; e che non avremmo bisogno di attendere l’evento per pronunciarci con certezza intorno ad esso. È tale l’influsso della consuetudine che questa, dove è più forte, non soltanto nasconde la nostra ignoranza della natura, ma anche cancella se stessa, e sembra che non esista, soltanto perché è presente nel più alto grado. Ma per convincerci che tutte le leggi di natura, e tutte le operazioni dei corpi senza eccezione, vengono conosciute soltante per mezzo dell’esperienza, basteranno, forse, le seguenti riflessioni. Se vi presentasse un oggetto, e vi si chiedesse di pronunciarvi intorno all’effetto che ne risulterà, senza consultare delle osservazioni passate, in quale maniera, vi prego, dovrebbe procedere la mente in una simile operazione? Dovrebbe inventare o immaginare qualche evento, da ascrivere all’oggetto come suo effetto; ed è chiaro che quest’invenzione dovrebbe essere del tutto arbitraria. Non è possibile che la mente trovi mai l’effetto nella supposta causa, nemmeno con l’indagine e con l’esame pià accurato, perché l’effetto è totalmente differente della causa, e per conseguenza non può venire scoperto in essa. Il movimento nella seconda palla di bigliardo è un fatto del tutto distinto dal movimento nella prima; non c’è nulla che suggerisca nell’uno il più piccolo cenno dell’altro. Una pietra o un pezzo di metallo sollevato in aria e lasciato senza sostegno, immediatamente cade; ma a considerare la materia a priori, v’è forse qualcosa che noi si scopra in tale situazione e che possa generare l’idea di un movimento all’ingiù, piuttosto che quella di un movimento all’insù o di qualche altro movimento, nella pietra o nel metallo?

E come la prima immaginazione o invenzione di un particolare effetto, in tutte le operazioni della natura, è arbitraria, se noi non consultiamo l’esperienza, così dobbiamo considerare arbitrario il supposto legame o connessione fra causa ed effetto che li unisce insieme e rende impossibile che qualche altro effetto possa risultare dall’azione di quella causa. Quando vedo, per esempio, una palla di bigliardo che si muove in linea retta verso un’altra, anche supponendo che il movimento nella seconda palla mi venga accidentalmente suggerito come risultato del loro contatto o impulso, non posso forse io concepite che cento diversi fatti possano egualmente seguire da tale causa? Non potrebbero forse entrambe quelle palle arrestarsi e rimanere in posizione di quiete assoluta? Non potrebbe forse la prima palla tornare indientro in linea retta o rimbalzare dalla seconda in una qualsiasi linea o direzione? Tutte queste supposizioni sono coerenti e concepibili. Perché dovremmo dare la preferenza ad una che non è più coerente o concepibile delle altre? Nessun ragionamento a priori riuscirà mai a giustificare questa preferenza.

In una parola, dunque, ogni effetto è un fatto distinto dalla sua causa. Non potrebbe, dunque, venire scoperto nella causa e la prima invenzione o concezione di esso, a priori, deve risultare del tutto arbitraria. Anche dopo esse stato suggerito, la congiunzione dell’effetto colla causa apparirà egualmente arbitraria, poiché ci sono sempre molti altri effetti che alla ragione apparirano egualmente

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del tutto coerenti e naturali. Invano, dunque, pretenderemo di determinare qualche singolo fatto, o di inferire qualche causa o qualche effetto, senza l’aiuto dell’osservazione e dell’esperienza52.

Quando si presenta qualche oggetto naturale o qualche evento, ci è impossibile, con qualunque sagacia o penetrazione, di scoprire, o anche solo di congetturare, prescindendo dall’esperienza, quale evento deriverà dal primo, o di spingere la nostra previsione al di là dell’oggetto che è immediatamente presente alla memoria e ai sensi. Anche dopo un caso o un esperimento in cui abbiamo rilevato che un evento particolare tien dietro ad un altro, non siamo autorizzati a formare una regola univesale, o a predire quello che accadrà in casi simili, poiché si pensa giustamente che sia imperdonabile temerità il giudicare dell’intero corso della natura da un singolo esperimento per quanto accurato o certo. Ma quando una specie particolare di eventi è stata congiunta con un’altra sempre, in tutti i casi, non abbiamo più alcuno scrupolo di predire l’una in base all’apparire dell’altra, né di adoperare quel ragionamento che unico può darci sicurezza in qualunque questione di fatto o di esistenza. Allora noi chiamiamo un oggetto causa e l’altro effetto. E supponiamo che vi sia qualche connessione fra di essi, qualche potere nell’uno, con cui esso produce infallibilmente il secondo ed opera colla maggiore certezza e colla più forte necessità.

Risulta allora che quest’idea d’una connessione necessaria fra eventi sorge da un numero di casi simili in cui si verifica la costante congiunzione dei detti eventi, mentre quell’idea non può mai esser suggerita da qualcuno solo di questi casi, anche se considerato in tutte le luci e le posizioni possibili. Ma in un certo numero di casi non c’è nulla di diverso da quello che c’è in ciascun caso singolo, che si suppone sia esattamente simile agli altri, eccetto soltanto che, dopo il ripetersi di casi simili, la mente viene spinta dall’abitudine, in base al presentarsi di un evento, ad attendere l’evento che di solito lo accompagna ed a credere che esso si verificherà. Questa connessione, dunque, che noi sentiamo nella mente, questo passaggio che l’immaginazione in base alla consuetudine compie da un oggetto a quello che di solito lo accompagna, è il sentimento o l’impressione da cui formiamo l’idea di potere o di connessione necessaria. Nulla più di questo, nel nostro caso. Considerate il soggetto da tutti i lati; non troverete alcun’altra origine di quell’idea. Questa è la sola differenza fra un solo caso, dal quale non possiamo derivare l’idea di connessione, ed un numero di casi simili, dal quale essa ci vien suggerita. La prima volta che un uomo osservò la comunicazione del movimento per mezzo di impulso, come per mezzo dell’urto di due palle di bigliardo, non potè dire che l’un evento era connesso, ma soltanto che era congiunto con l’altro. Dopo aver osservato parecchi casi di questa natura, dichiara che essi sono connessi. Quale modificazione è intervenuta a far sorgere questa nuova connessione? Nessuna all’infuori che ora egli sente che questi eventi sono connessi nella sua immaginazione e può facilmente predire l’esistenza dell’uno dall’apparire dell’altro. Quando diciamo, perciò, che un oggetto è connesso con un altro, intendiamo soltanto che i due oggetti hanno acquistato una connessione nel nostro pensiero, che conducono a quell’inferenza, per cui divengono prova l’uno dell’esistenza dell’altro; conclusione, questa, alquanto fuori dell’ordinario, ma che pare fondata su una sufficiente evidenza. Né quest’evidenza sarà indebolita da qualche generale diffidenza dell’intelletto, o da qualche sospetto scettico nei confronti d’ogni conclusione nuova e straordinaria. Nessuna conclusione può essere più gradita allo scetticismo di questa che fa scoperte intorno alla debolezza ed ai limiti ristretti della ragione e della capacità dell’uomo53.

Chiudiamo questo capitolo sull’empirismo con un paragrafo di Cornelio Fabro:

La realtà in quanto si pone di fronte al pensiero è «ciò che sta in sé» (An sich bestehen): ora ciò che sta in sé, in senso pieno, è la sostanza. La filosofia moderna ai suoi inizî ha una manipolazione propria della nozione di sostanza, la quale è responsabile non poco delle «riduzioni» successive sia ontologiche (Spinoza, Leibniz), sia gnoseologiche (Locke, Berkeley, Hume e infine Kant). Nelle «riduzioni gnoseologiche» la sostanza segue le sorti della realtà, come essenza; e così doveva essere, poiché in tanto è possibile concepire una sufficienza nel campo ontologico reale, in quanto è dato un nucleo di sufficienza reale in quello ontologico formale. L’empirismo ha soppresso quest’unità formale profonda quando ha negato le idee astratte; perduto così il principio di ogni consistenza nozionale e reale, per la smania di ridurre tutto alla evidenza di percezione, si ridusse – come toccò, per la sua confessa testimonianza, a Hume – a distruggere i fondamenti della stessa percezione. Noi conosciamo solo le apparenze, le proprietà esteriori; la sostanza, che le sostiene dall’interno, ci resta sconosciuta. Locke afferma, con Aristotele, che le nostre idee vengono dall’esperienza, e conserva ancora tutta la terminologia tradizionale, ma il contenuto dei termini è all’ultimo limite di depauperamento. Berkeley passa alla negazione esplicita delle idee astratte, ma

52 David HUME, Ricerca sull’intelletto umano, IV, I, passim. 53 Ivi, VII, II, passim.

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ritiene per incongruenza ancora la persuasione sulle sostanze, almeno in quelle spirituali, dell’anima e di Dio. Toccò a Hume di raccogliere i frutti della coerenza piena riducendo la sostanza alle proprietà dell’esperienza attuale, cioè al fascio delle impressioni ed idee di percezione secondo che l’Associazione le riunisce in gruppi fenomenali di una certa consistenza54.

54 Cornelio FABRO, Percezione e pensiero, op. cit., 406.

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III. IL RAZIONALISMO

Schema 1. Nozione 2. Autori 3. Il dualismo gnoseologico di Kant

1. Nozione

È la tendenza opposta all’empirismo. Afferma che la verità soltanto può essere raggiunta dalla

ragione. Se qualche volta lascia un posto all’esperienza sensibile, le riduce il valore1.

Il razionalismo afferma che quanto c’è d’ordine e d’universale nella nostra conoscenza viene

dallo spirito. Perciò, il processo del conoscere non è un processo d’«astrazione» d’un universale

partendo dai singolari, quanto una certa «illuminazione» dell’esperienza a partire delle verità che si

trovano già nello spirito. Fabro lo spiega così:

[Il Razionalismo] suppone che l’universale ed ogni ordine e struttura nella conoscenza sono di natura immediata e «data», non costruibile dal basso; per questo non sono i processi inferiori la ragione dei superiori, ma piuttosto i primi non si attuano che in seguito e in dipendenza dei secondi. Lo sviluppo gnoseologico qui avviene nella direzione dall’alto in basso: allora non è più il caso di parlare di «sviluppo», quanto invece di regressione, di degradazione dell’intelligibile nel sensibile, dell’universale nel particolare, della appercezione luminosa delle verità immutabili e della proiezione delle medesime nelle oscure intuizioni dei sensi2.

Per il razionalismo il problema della percezione ha poca importanza. Il suo grande problema è

cercare di spiegare l’origine di queste «strutture» a priori della conoscenza. Perciò Fabro arriva ad

affermare che nel contesto dello studio della conoscenza lo studio del razionalismo non ha molto

interesse:

Il problema intrinseco ad ogni Razionalismo diviene allora quello di spiegare – al contrario di quanto si verifica nell’Empirismo – come il soggetto sia un puro «soggetto» cioè un inerte ricettacolo o depositario di quei contenuti intelligibili, i quali ripetono la propria origine e la propria presenza, non dalle energie apprensive del soggetto particolare, ma dall’attuarsi che si ha nei soggetti particolari di un Intelletto, Spirito, Coscienza o Attività universale. In questa direzione speculativa tutto l’interesse è vôlto alla spiegazione della natura dei primi contenuti universali e della maniera nella quale l’Intelletto universale li può comunicare ai soggetti particolari (Innatismo, Armonia prestabilita, Ontologismo, Tradizionalismo, Idealismo...). Il problema della percezione o vi è completamente trascurato, od, al più, è considerato come un «epifenomeno» che accade alla mente, quando per soddisfare alle esigenze particolari della vita, deve mettersi in contatto con il flusso caleidoscopico dell’esperienza sensibile. E per questo non c’è ragione che ci occupiamo più direttamente del Razionalismo3.

2. Autori

Possiamo dire che il primo tra i razionalisti è stato Parmenide. Secondo lui, solo la ragione

conduce il saggio al cuore della verità: la via dell’esperienza porta solo all’errore. La prima verità

per l’intelligenza è: «l’essere è, il non essere non è». Da questo principio Parmenide deduce una

1 Cfr. Roger VERNEAUX, op. cit., 55-68. 2 Cornelio FABRO, La fenomenologia della percezione, op. cit., 39. 3 Ivi, 39-40.

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metafisica monistica, che nega intrepidamente il cambiamento e la diversità degli esseri,

affermando l’unità e l’immobilità dell’essere.

La morale stoica riposa su una metafisica di questo tipo. Il saggio deve diventare indifferente,

insensibile al piacere ed al dolore e così estirpare le passioni, perché le passioni appartengono al

mondo del sensibile. La felicità risiede nella virtù e la virtù consiste nel vivere secondo la ragione.

La filosofia moderna, con Cartesio, dà luogo al razionalismo moderno. Il razionalismo di

Cartesio si esprime soprattutto nell’idea della matematica universale e nella teoria delle idee

innate. La matematica per Cartesio è il tipo della scienza, perché è rigoroso e progressiva. Una

conoscenza scientifica deve svilupparsi a priori da idee chiare e distinte afferrate per intuizione, e

dedurre la verità per ordine, come la serie dei teoremi della geometria. L’esperienza serve in

quanto da un indice di esistenza alle conclusioni dedotte a priori dai principi. L’esperienza non

fornisce alcun oggetto alla scienza. Riguardo all’origine dell’idee, Cartesio ammette che molte idee

sono «avventizie», come le sensazioni, ed altre «fittizie», come l’immaginazione; ma queste idee

non sono chiare e distinte e di conseguenza non possono servire di base per le scienze. Solo le

idee innate sono chiare e distinte, specialmente l’estensione, che è l’oggetto della geometria.

Altri pensatori come Spinoza, Wolf e Leibniz continueranno questo indirizzo di ricerca di una

«matematica universale».

Con Kant il razionalismo si approfondisce. Nel punto seguente approfondiremo la dottrina di

questo autore.

3. Il dualismo gnoseologico di Kant

Come si è già segnalato in precedenza, non vogliamo fare in questi capitoli una rifiutazione

completa del pensiero dei pensatori studiati. Una «rifiutazione» incompleta, o al meno in principis,

vorrebbe essere il frutto del confronto tra le dottrine dei filosofi moderni e gli insegnamenti di San

Tommaso, che studieremo più avanti guidati da Fabro. A Cartesio ci siamo già riferiti, perciò

cerchiamo di dire adesso qualcosa sul pensiero di Kant.

a. Giudizio di Fabro

A Kant si può concedere il merito d’aver tentato di superare tanto l’empirismo quanto il

razionalismo, o almeno, d’aver proclamato l’insufficienza di ambedue teorie per rispondere in

modo adeguato al problema della conoscenza. In questo senso, Kant, propriamente parlando,

sarebbe al di là del «razionalismo» in senso stretto. Per la sua affermazione della necessità di una

certa continuità tra sensibilità e intelligenza per arrivare ad una conoscenza «oggettiva» Fabro

chiama Kant il più «aristotelico» dei pensatori del suo tempo. Ecco il testo di Fabro che stiamo

commentando:

È stato Kant a proclamare nell’età moderna il carattere fittizio di ambedue i metodi isolati introducendo per primo, nella filosofia del suo tempo, il principio metodologico che una teoria adeguata della conoscenza umana dev’essere quella non di un’intelligenza pura, né di una pura sensibilità, ma di un’intelligenza che è insieme legata intrinsecamente, nel suo attuarsi «completo», alla sensibilità. Kant introduceva così il Dualismo, in gnoseologia, come soluzione per un sapere che sia ad un tempo

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valido, cioè necessario ed oggettivo, cioè riferibile ai contenuti d’esperienza (problema dei giudizî sintetici a priori). E fin qui si può riconoscere che Kant obbediva ad un urgente bisogno di raggiungere una teoria del conoscere che fosse al di là dei punti stagni dell’Empirismo e del Razionalismo, ed in questo si può ben dire ch’egli si è avvicinato alla «forma mentis» aristotelica più di qualsiasi pensatore del suo tempo4.

Non ostante le sue buone intenzioni, Kant, prigioniero dei principi della filosofia moderna, è

rimasto chiuso nell’isolamento proprio di una dottrina che non riesce a spiegare la continuità tra il

mondo spirituale e quello materiale. Fabro riassume così il fallimento kantiano:

Comunque la cosa sia, va segnalato il fatto che il sistema kantiano, contrariamente alla persuasione del suo Autore, non è stato che un punto di partenza per una rielaborazione originale che ha portato a quelle stesse forme più ardite del filosofare contro le quali egli stesso era insorto. Segno questo che nel suo sistema il senso e l’intelletto, l’esperienza e la ragione, la cosa in sé e il fenomeno... erano rimasti, nonostante il tentativo di avvicinarli, estranei l’un all’altro5.

L’argomento centrale del kantismo si può riassumere così: ciò che ordina l’esperienza non può

essere dato dall’esperienza. Allora, spezzata la «connessione vitale» della quale parla Fabro, pure

il kantismo è condannato a naufragare nell’idealismo. Leggiamo un breve testo di Fabro:

L’argomento centrale era il principio «ciò che ordina l’esperienza non può essere dato dall’esperienza»; di qui la deprecata separazione di una materia tutta a posteriori e di una forma tutta a priori che, non solo Kant, ma tutti i kantiani non sono riusciti a riparare, ed hanno dovuto naufragare nell’idealismo6.

Da questo si segue quale sia il «punto debole» del kantismo, come lo chiama Fabro: «Ma il

punto più debole del Kantismo sta nella doppia distinzione di intuizione e pensiero, di materia e

forma: così come stanno in Kant, esse spezzano una connessione vitale»7.

Facciamo un breve accenno alla gnoseologia kantiana8 a partire di questa doppia distinzione.

Alla sensibilità è dato «un caos od una “polvere” di elementi sensibili, indistinta ed informe nel

contenuto». Kant accetta integralmente la nozione humiana dell’esperienza sensoriale.

Fabro insiste su questa dipendenza di Kant della nozione humiana di percezione nel suo

volume «Percezione e pensiero». Per esempio:

La posizione di Kant, vista da questo angolo, non regge e va riveduta perché il suo punto di partenza, l’analisi humiana della percezione, è tutt’altro che indiscutibile; e se Kant la accettò con un acquiescente «come Hume ha dimostrato», ciò non depone a favore del suo acume critico9.

La psicologia moderna ha da liberare la teoria della conoscenza da non poche superstizioni, che molti si ostinano a credere intangibili. La principale è la distinzione kantiana di «materia» e «forma» nella percezione sensoriale: la dottrina che l’ordine nelle percezioni sensoriali dipenda essenzialmente da forme a priori, non ha altra base che il concetto humiano della percezione10.

Ciò che si da alla sensibilità quindi, è la chiamata «materia» della conoscenza. Ed è una «pura

materia», tutta a posteriori e senza nessun ordine. «Forma» della conoscenza invece è la

«struttura» che ricevono questi dati informi. Questa «formazione» è opera della spontaneità del 4 Ivi, 40. 5 Ibidem. 6 Ivi, 56. 7 Ivi, 53. 8 Cfr. Cornelio FABRO, Percezione..., op. cit., 194-196. 9 Ivi, 407. 10 Ivi, 412.

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soggetto (e per questo è tutta a priori) secondo le sue «categorie» e ha due tappe: «una nel

campo sensoriale dell’intuizione, l’altra nel campo della ragione con la sintesi categoriale».

Lo stesso Kant si rende conto che a questo punto non è ancora giustificata l’«oggettività» della

conoscenza. Vediamo un piccolo testo di Kant citato da Fabro: «Le categorie senza intuizione

“sono vuote” e la esperienza da sola è cieca, onde la conoscenza oggettiva è valida soltanto

nell’applicazione di una categoria ad un contenuto d’esperienza intuitiva o sussunzione di questa

in quella (B, P. II, lib. I, § 26, 151-152)». Il problema sorge dalla «disparità» tra categorie e

intuizione empiriche che non possono entrare in contatto. Ancora alcune affermazioni di Kant: «i

concetti puri dell’intelletto paragonati alle intuizioni empiriche (anzi sensibili, in generale) sono

affatto eterogenei e non possono trovarsi mai in una qualsiasi intuizione. Or com’è possibile la

“sussunzione” di queste sotto di quelli, e quindi l’applicazione delle categorie ai fenomeni? (B,

159)».

Da questa problematica nasce la teoria kantiana degli «schemi»: «È qui che Kant, con profondo

intuito, escogitò lo schema quale “terzo termine che dev’essere omogeneo da un lato con la

categoria, e dall’altro col fenomeno”, onde sia possibile l’applicazione di quella a questo. “Tale

rappresentazione intermedia dev’essere pura (senza niente di empirico) e tuttavia, da un lato,

intellettuale, dall’altro sensibile. Tale è lo schema trascendentale”». Lo «schema» più importante è

quello del tempo. Si possono aggiungere altri esempi di «schemi»: «Kant esemplifica: il numero è

lo schema puro della quantità; lo schema della sostanza è la permanenza del reale nel tempo:

sostrato che perciò rimane, mentre tutto il resto muta; lo schema della causa è il reale a cui, una

volta che esso sia posto, segue sempre qualche altra cosa: esso consiste adunque nella

“successione del molteplice, in quanto è sottoposta ad una regola” (B, 163)».

b. Testi di Kant11

Le due fonti della conoscenza, sensibilità e intelletto, e la loro dottrina, estetica e logica:

La nostra conoscenza scaturisce da due fonti principali dello spirito, la prima delle quali è la facoltà di ricevere le rappresentazioni (la recettività delle impressioni), la seconda quella di conoscere un oggetto mediante queste rappresentazioni (spontaneità dei concetti). Per la prima, un oggetto ci è dato; per la seconda esso è pensato in rapporto con quella rappresentazione (come semplice determinazione dello spirito). Intuizione e concetti costituiscono, dunque, gli elementi di ogni nostra conoscenza; per modo che, né concetti, senza che a loro corrisponda in qualche modo una intuizione, né intuizioni, senza concetti, possono darci una conoscenza. Entrambi sono puri o empirici. Empirici, quando contengano una sensazione (che suppone la presenza reale dell’oggetto); puri, invece, quando alla rappresentazione non sia mescolata alcuna sensazione. La sensazione si può dire materia della conoscenza sensibile. Quindi una intuizione pura contiene unicamente la forma in cui qualcosa è intuito, e un concetto puro solamente la forma del pensiero d’un oggetto in generale. Ma solo le intuizioni e i concetti puri possibili sono a priori, gli emprici soltanto a posteriori.

Se chiamiamo sensibilità la recettività del nostro spirito, la facoltà di ricevere rappresentazioni quando esso è in qualunque modo modificato, l’intelletto è invece la facoltà di produrre da sé rappresentazioni, ovvero la spontaneità della conoscenza. La nostra conoscenza è cosiffatta che l’intuizione non può essere mai altrimenti che sensibile, cioè non contiene se non il modo in cui siamo modificati dagli oggetti. Al contrario, la facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile è l’intelletto.

11 Cfr. Carmelo LACORTE et al. [ed.], Teoretica II, op. cit., 1034-1148.

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Nessuna di queste due facoltà è da anteporre all’altra. Senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto sarebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche. È quindi necessario tanto rendersi sensibili i concetti (cioè aggiungervi l’oggetto nell’intuizione), quanto rendersi intelligibili le intuizioni (cioè ridurle sotto concetti). Queste due facoltà o capacità non possono scambiarsi le loro funzioni. L’intelletto non può intuire nulla, né i sensi nulla pensare. La conoscenza non può scaturire se non dalla loro unione. Ma non perciò si devono confondere le loro parti; chè, anzi, si ha grande ragione di separarle accuratamente e di tenerle distinte. Per questo noi distinguiamo la scienza delle leggi della sensibilità in generale, l’estetica, dalla scienza delle leggi dell’intelletto in generale, la logica12.

L’intelletto, divisione della logica trascendentale in analitica e dialettica trascendentale:

In una logica trascendentale noi isoliamo l’intelletto (come sopra, nella Estetica trascendentale, la sensibilità), e rileviamo, di tutta la nostra conoscenza, soltanto la parte del pensiero, che ha la sua origine unicamente nell’intelletto. Ma l’uso di questa conoscenza pura si fonda su ciò come sua condizione: che ci vengano dati nell’intuizione oggetti, ai quali possa essere applicata. Giacchè senza intuizione ad nostra conoscenza manca l’oggetto, ed essa allora rimane affatto vuota. La parte, dunque, della logica trascendentale che espone gli elementi della conoscenza pura dell’intelletto e i principi senza i quali nessun oggetto può essere assolutamente pensato, è l’analitica trascendentale, e insieme una logica della verità. Infatti, nessuna conoscenza può contraddire ad essa senza perdere insieme ogni contenuto, cioè ogni rapporto a un oggetto qualsiasi, e quindi ogni verità. Ma, poiché è molto secudente e pieno di attrattiva servirsi di queste conoscenze intellettuali e principi puri da soli, e anche oltre i limiti dell’esperienza, la quale solamente, per altro, può fornirci la materia (gli oggetti) a cui quei concetti puri dello intelletto possono essere applicati; così l’intelletto corre il rischio di fare, con vani sofismi, un uso materiale di quelli che sono soltanto principi formali dell’intelletto puro, e di giudicare indifferentemente di oggetti, che non ci sono punto dati, anzi probabilmente non possono esserci dati in alcun modo. Poiché dunque essa propriamente non può essere altro che un canone di giudizio nell’uso empirico, se ne abusa se la si fa valere come organo di uso generale ed illimitato, e ci si arrischia, col solo intelletto puro, a pronunziar giudizi sintetici, ad affermare e a decidere sopra oggetti in generale. L’uso infatti dell’intelletto puro sarebbe in tal caso dialettico. La seconda parte della logica trascendentale, perciò, deve essere una critica di questa apparenza dialettica, e si chiama dialettica trascendentale, non quasi un’arte di suscitare dommaticamente una tale apparenza (arte purtroppo corrente, di svariate ciurmerie13 metafisiche), ma come critica dell’intelletto e della ragione rispetto al loro uso iperfisico, a fine di svelare l’apparenze fallace delle sue conoscenze, che essa si illude di ottenere mercé14 principi trascendentali, al semplice giudicamento dell’intelletto puro e al suo preservamento dalle illusioni sofistiche15.

Il principio dell’unità sintetica dell’appercezione:

Il molteplice delle rappresentazioni può esser dato in una intuizione che è puramente sensibile, ossia che non è altro che recettività; e la forma di questa intuizione può trovarsi a priori nella nostra facoltà rappresentativa, senza tuttavia esser altro che la maniera, in cui il soggetto è modificato. Ma l’unificazione (coniunctio) di un molteplice in generale non può mai venire in noi dai sensi, e nemmeno perciò essere contenuta immediatamente nella pura forma dell’intuizione sensibile; perché essa è un atto della spontaneità dell’attività rappresentativa; e poiché questa occore chiamarla intelletto per distinguerla dalla sensibilità, così ogni unificazione [Verbindung], - ne abbiamo noi o no coscienza, e sia unificazione del molteplice nell’intuizione, o di molteplici concetti, e nel primo caso, del molteplice dell’intuizione sensibile o dell’intuizione non sensibile, - è una operazione dell’intelletto, che possiamo designare colla denominazione generale di sintesi, anche per far in tal modo rilevare che noi non possiamo rappresentarci nulla come unificato [verbunden] nell’oggetto, senza averlo prima unificato già noi, e che tra tutte le rappresentazioni l’unificazione è la sola, che non è data dagli oggetti, ma può essere prodotta solo dal soggetto, essendo un atto della sua spontanea attività. Qui facilmente si scorge che questo atto deve essere originariamente unico e valevole ugualmente per ogni unificazione, e che la divisione (analisi), che sembra essere il suo opposto, lo presuppone tuttavia

12 Immanuel KANT, Critica della ragione pura. Logica trascendentale. Introduzione, I. 13 «Ciurmare»: «v.tr. BU pop. raggirare, ingannare; OB proteggere con mezzi magici da pericoli o mali» (Dizionario italiano De Mauro). 14 «Mercé» : «5. prep., per causa di, per merito di, grazie a» (Dizionario italiano De Mauro). 15 Immanuel KANT, Critica della ragione pura. Logica trascendentale. Introduzione, IV.

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sempre; giacchè, se l’intelletto nulla ha prima unificato, non può nulla dividere, poiché soltanto per opera di esso è possibile che all’attività rappresentativa sia stato dato qualcosa come unificato16.

16 Immanuel KANT, Critica della ragione pura. Analitica dei concetti, §§ 15-17.

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IV. L’IDEALISMO

Schema 1. Nozione 2. Autori 3. L’idealismo di Hegel

1. Nozione

Vi è una stretta affinità tra il razionalismo e l’idealismo e come una inclinazione naturale del

primo verso il secondo, poiché il miglior mezzo per ottenere un reale che sia razionale è

evidentemente quello di ammettere che il reale è costituito dalla attività della ragione. Tuttavia, non

è possibile identificare puramente e semplicemente le due correnti. Il problema al quale

rispondono non è lo stesso: per una è il mezzo di conoscenza, per l’altra la sua portata. Anche

perché la storia presente combinazioni diverse: razionalismo realistico, per esempio in Cartesio, e

un idealismo empiristico, per esempio, in Berkeley. L’idealismo parte dal affermare il fatto di che la

conoscenza è un atto immanente. Perciò «un al di là del pensiero è impensabile» (Le Roy) 1.

Nel suo «Vade-mecum du débutant réaliste» («Qualche consiglio per chi vuole essere realista»,

traduce Livi) Gilson offre un interessante confronto tra il pensiero idealista e la conoscenza

realista:

3. Occorre poi usare con cautela il termine «pensiero». In effetti, la differenza più grande tra il realista e l’idealista è che l’idealista pensa, mentre il realista conosce. Per il realista «pensare» vuol dire solamente organizzare delle conoscenze o riflettere sul loro contenuto; a lui non viene in mente di fare del pensiero il punto di partenza della sua riflessione, perché lui sa che un pensiero è possibile solo se prima ci sono state delle conoscenze. Ora, l’idealista, visto che procede dal pensiero alle cose, non può sapere se quello da cui parte corrisponde o meno a una cosa; e quando egli domanda al realista come si possono raggiungere le cose partendo dal pensiero, il realista deve rispondere subito che ciò non è possibile, e che proprio in questo sta il motivo principale per non essere idealisti. Il realismo infatti parte dalla conoscenza, cioè da un atto dell’intelletto che consiste essenzialmente nel cogliere un oggetto; quindi per il realista la domanda dell’idealista non pone un problema insolubile ma solo un pseudo-problema, che è una cosa ben diversa.

6. Così come non dobbiamo passare dal pensiero alle cose (sapendo che l’impresa è impossibile), nemmeno ci dobbiamo domandare se un al di là del pensiero sia pensabile. Può darsi in effetti che un al di là del pensiero non sia pensabile, ma è sicuro che ogni conoscenza implica un al di là del pensiero. Il fatto che questo «al di là del pensiero» ci sia dato nel pensiero (attraverso la conoscenza) non impedisce di considerarlo un «al di là»; ma l’idealista confonde sempre l’essere che ci è dato nel pensiero con l’essere che ci è dato mediante il pensiero. Per chi fa filsofia a partire dalla conoscenza, un al di là del pensiero è totalmente pensabile: anzi, questa concezione del pensiero è proprio quella che presuppone un suo al di là2.

Secondo Fabro l’idealismo, che egli chiama «filosofia dell’identità», avrebbe posto a proprio

fondamento, in senso capovolto però, lo stesso principio attribuito a Democrito: il simile si conosce

con il simile3. Afferma pure che il «soggettivismo idealista» è «proprio dello spirito germanico»4, e

1 Cfr. Roger VERNEAUX, op. cit., 69-86. 2 Cfr. Etienne GILSON, op. cit., 131-146. 3 Cfr. Cornelio FABRO, Percezione e pensiero, op. cit., 37-38, nota 5. 4 Cornelio FABRO, La fenomenologia della percezione, op. cit., 364.

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richiama un altro principio, caratteristico della logica monista degli idealisti: il «principio

dell’internalità assoluta delle relazioni»5.

La prima opposizione tra realismo e idealismo non sta nella negazione della realtà, ma nel

modo di concepire questa realtà. Leggiamo un testo di Fabro che consideriamo fondamentale:

L’opposizione, almeno iniziale, fra realismo e idealismo non verte propriamente sull’affermazione o negazione di realtà, ma sulla determinazione della realtà. Si vuol dire che ambedue le filosofie ammettono sia che la metafisica si dà e si deve dare, sia che la metafisica ha per oggetto una realtà in sé; differiscono nella «posizione» della realtà, se questa sia da porsi e dissolversi nel pensiero o ne possa esser riconosciuta indipendente. L’indipendenza è espressa egualmente, nel nostro caso, sia che si parta dal rigido dualismo di fenomeno – noumeno (Platone e Kant), sia che si assorba dialetticamente l’uno nell’altro (fenomenismo e idealismo). Il problema allora è quello della funzione che compete all’esperienza per l’atto di conoscenza, che è infine il problema dell’immanenza e della trascendenza: il noumeno è immanente o trascendente al fenomeno? «Ciò che è» va detto assolutamente estraneo a «ciò che appare», e viceversa?6

Fabro afferma pure che questo «nuovo concetto di realtà», proprio del pensiero moderno in

quanto «ribellione contro il realismo classico», ha la sua radice in un «nuovo concetto di

esperienza e di coscienza» che segue la linea «Cartesio-Locke-Berkeley-Hume». Ecco il testo

completo:

Ricercando le ragioni della ribellione fatta al realismo classico, esse sono state individuate in un nuovo concetto di esperienza e di coscienza, da cui è sorto il nuovo concetto di realtà. Le leggi della realtà in astratto, come l’affermazione di realtà in generale e la stessa metafisica come sistema del reale, non sono contestate, né in sé mutate. Ciò che è mutato è il concetto iniziale di realtà ed esso, storicamente, risulta mutato, a partire dallo sviluppo Cartesio-Locke-Berkeley-Hume, per via dell’analisi della percezione7.

A partire di queste ultime affermazioni di Fabro si potrebbe prospettare la discussione

sull’importanza del rapporto tra analisi della percezione e concetto di realtà.

2. Autori

L’idealismo è una dottrina moderna; a volte si attribuisce a Platone la paternità del movimento,

ma questo non è corretto. In Platone l’idea è qualcosa di reale, più reale delle cose sensibili.

a. Dal razionalismo all’idealismo

Il padre dell’idealismo moderno è Cartesio, anche se sarebbe un errore pensarlo come un

idealista, perché le conclusioni del suo sistema si pretendono realistiche. Egli sparge i germi

dell’idealismo, principalmente tre: il dubbio metodico, col quale respinge l’esistenza dell’essere

extramentale; il cogito come principio primo della sua filosofia; l’affermazione della esistenza nello

spirito di idee innate, che sono gli oggetti stessi della conoscenza.

Afferma Verneaux che dopo Cartesio, questo si manterrà come una costante in tutta la

modernità: non sono le cose che determinano il nostro pensiero, ma il nostro pensiero è il criterio

5 Ivi, 365. 6 Cornelio FABRO, Percezione e pensiero, op. cit., 392. 7 Cornelio FABRO, La fenomenologia della percezione, op. cit., 48.

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per giudicare cosa c’è in realtà. Fabro va più in fondo. Chiama questo principio «il principio

dell’interiorità assolutà del reale»8.

Abbiamo già visto come Fabro afferma che dalla negazione della distinzione tra qualità primarie

e qualità secondarie, sostenuta ancora da Locke, con Berkeley è «sorta la prima forma di

idealismo moderno»9.

Kant chiama il suo sistema un idealismo trascendentale o critico: afferma che non possiamo

conoscere le cose come esse sono in sé, bensì come ci appaiono in virtù della nostra costituzione

soggettiva.

b. Idealismo dialettico (Hegel)

Secondo la linea hegeliana, l’opera della filosofia consisterà nel costruire una sistema di

categorie. Perché un sistema di categorie è una filosofia compiuta? È evidente: le categorie, nel

senso kantiano, sono le leggi del pensiero e quindi sono anche leggi dell’essere, dell’essere

pensato, indubbiamente, poiché non ve ne è un altro per noi. Hegel chiama il suo metodo

dialettica, ed è per questo che questa forma di idealismo è in generale chiamata idealismo

dialettico.

c. Idealismo critico (Fichte)

Secondo la linea di Fichte, l’opera della filosofia è un’analisi riflessiva dello spirito. L’unico

compito della filosofia è quello di conoscere lo spirito e perciò il solo metodo possibile consiste nel

risalire dagli atti di conoscenza scientifica ai principi che li spiegano. L’analisi scopre così le leggi o

forme dello spirito e più profondamente l’attività che è lo spirito stesso. E siccome la scienza non è

mai compiuta, e le sue scoperte sono imprevedibili lo spirito stesso appare in ultima analisi come

pura spontaneità o come libertà creatrice. Questa forma di idealismo, che pensa di essere la sola

fedele allo spirito del kantismo, si chiama idealismo critico.

3. L’idealismo di Hegel

a. Giudizio di Fabro

L’opera di Hegel è monumentale e difficile. Qui vogliamo soltanto segnalare alcuni riferimenti

che Fabro fa al pensatore tedesco nelle sue opere «La fenomenologia della percezione» e

«Percezione e pensiero».

Fabro si impegna nel precisare il contenuto di ciò che Hegel chiama «fenomenologia dello

spirito», per distinguerla dalla propria «fenomenonologia». Secondo Fabro, Hegel fa della sua

fenomenologia «la storia delle tappe successive, delle approssimazioni e delle opposizioni per le

quali lo spirito si eleva dalla sensazione individuale fino alla ragione universale». Fa notare Fabro

8 Ivi, 78. 9 Ivi, 75.

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che la fenomenologia dello spirito in Hegel ha un significato preciso, cioè sistematico «che non può

esser accettato in «sede fenomenologica»10.

Si può convenire con Hegel, dice Fabro sul fatto che la fenomenologia costituisca «il “primo

momento” della scienza la quale ha da cominciare “con la presentazione del sapere apparente”».

Fabro cita due testi di Hegel, con i quali non si può convenire, perché in essi si rende evidente la

«riduzione sistematica della realtà alla coscienza»11. Presentiamo questi testi come citati da Fabro:

«Ora, poiché questa presentazione ha per oggetto soltanto il sapere apparente, sembra ch’essa stessa non sia la libera scienza moventesi nella sua figura peculiare: anzi, da questo punto di vista, può venir considerata come il cammino della coscienza naturale, la quale urge verso il vero sapere»; la F. è «il cammino dell’anima percorrente la serie delle due formazioni come stazioni prescrittele dalla sua natura perchè si rischiari a spirito e, mediante la piena esperienza di se stessa, giunga alla conoscenza di ciò che essa è in sé e per sé» (HEGEL, Die Phänomenologie des Geistes, 70-71).

La F. diventa così la «scienza della esperienza della coscienza», in quanto «la coscienza è in generale il sapere di un oggetto, sia esteriore che interiore» (Philos. Propädeutik, Phänomenologie, § 6).

Questa fenomenologia, perché pretende d’essere «formale» sostituisce di fatto in Hegel sia la

teoria esplicita della conoscenza, sia la stessa metafisica12. Compito di questa fenomenologia

hegeliana è descrivere le tappe che percorre lo spirito verso l’«Idea»:

Per Hegel infatti la concretezza si muove dal limite estremo della indeterminatezza e la sua «Fenomenologia dello spirito» ha appunto il compito di descrivere le tappe che percorre lo spirito che parte dalla «certezza sensibile» iniziale legata all’individuale e al «determinato» che è «fuori di sé», e si ritrova – a traverso la «negazione» di questo immediato – nella conquista di se stesso in quanto è ciò che massimamente è universale e indeterminato quale «Idea». Perciò una teoria della percezione interessa «vitalmente» ogni teoria della conoscenza, ed ogni teoria della conoscenza è interessata «vitalmente» in ogni teoria della percezione. Qui si dibatte certamente il più grave problema che occupi il pensiero umano, e noi vorremmo che non ci sfuggisse13.

La fenomenologia di Hegel si sviluppa per gradi. Anche Fabro ammette la esistenza di gradi,

che egli chiamerà «funzionali», nella sua «fenomenologia pura». La differenza tra entrambe

fenomenologia sta nel fatto che in quella hegeliana questi gradi si riducono a «momenti della

coscienza», mentre che nella fenomenologia di Fabro i gradi affettano simultaneamente l’oggetto

ed il soggetto. Così si esprime Fabro:

Anche per HEGEL la Fenomenologia può essere detta svilupparsi per tre gradi, secondo la diversità dell’oggetto: in quanto tratta dell’oggetto come tale (Gegenstand), dell’oggetto posto all’Io (Objekt) o dell’Io stesso (Philos. Propädeutik, Phänomenologie, § 9). Nella nostra posizione i gradi non sono momenti della coscienza, ma affettano ad un tempo l’oggetto (Erscheinung) ed il soggetto (Funktion)14.

Afferma anche Fabro che si trovano già in Hegel una «critica essenziale all’associazione» e

«l’esigenza dell’unificazione intellettiva». Mentre afferma questo, Fabro ci offre un piccolo acceno

di «gnoseologia hegeliana»:

10 Ivi, 49. 11 Ivi, 50. 12 Cfr. Ivi, 51-50. 13 Ivi, 402. 14 Ivi, 59 nota 31.

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In primo luogo, evidentemente, non sono idee, ma immagini quelle che vengono associate; poi, quei modi di realizzazioni (fra le immagini) non sono affatto leggi, ma indicano piuttosto l’arbitrio e l’accidentalità e quindi la mancanza di pensiero. L’essere infatti ossia il presentificarsi del conoscere nel processo associativo (H. dice: «Il trovarsi determinato – Das Sich-bestimmt Finden – dell’intelligenza») è appiccicato alla rappresentazione, così che vi si distingue ancora rappresentazione e pensiero, contenuto e forma. Estrinseca ovviamente deve risultare in questo processo l’astrazione (Abstraction), o produzione di «rappresentazioni generali» (allgemeine Vorstellungen) come il cadere casuale, puramente estrinseco perché privo di concetto, di molte immaginazioni che pretende soppiantare il concetto (Enc. d. philos. Wiss. § 455. Nel Zusatz della Grande Enciclopedia si distingue fra la reproductive Einbildungskraft che dà la pura riproduzione delle immagini, e la associirende Einbildungskraft in cui si ha che le immagini assumono connessioni e rapporti fra loro che Hegel riduce a rapporti di spazio e tempo. – ed. Boumann, Berlin 1845, t. VII, 2, p. 331 ss.). Comunque per Hegel – come per S. Tommaso, ma con movimento inverso – l’immagine assume significato soltanto in quanto è «sussunta» nell’unita dell’intelligenza (Intelligenz) nel gioco dei simboli, allegorie, esempi... di cui la fantasia riveste ed estrinseca il pensiero (§ 456)15.

Finalmente, vediamo un po’ come Fabro si riferisce al rapporto tra Hegel e Aristotele. Esiste un

«entusiasmo hegeliano per il grande Greco». Anzi, esiste anche un punto «ove le due mentalità si

possono incontrare», e questo è: «l’identità intenzionale di conoscente e conosciuto»16. Pure il

giudizio di Fabro su Hegel in questo punto si mostra «equilibrato». Fabro non nasconde che c’è un

«aprezzamento» da parte di Hegel della teoria della sensazione di Aristotele17. Neanchè ha

scrupoli Fabro nell’affermare che le dichiarazioni di Hegel sull’intenzionalità aristotelica sono

«profonde, al solito, ed istruttive»18. Si leggano le seguente affermazioni di Fabro per vedere un

po’ come costui apprezzava il «filosofo dell’Idea»:

Hegel ha voluto seguire con scrupolosa attenzione la teoria aristotelica, a cui riconosce – a differenza dei moderni che trovano egualmente facile criticare Hegel ed Aristotele – il merito d’aver gettato «profondi sprazzi di luce» sulla natura della coscienza. Il filosofo dell’«Idea» non s’è lasciato sfuggire la radicazione metafisica che ha la gnoseologia aristotelica19.

Alla fine del primo capitolo di «Percezione e pensiero»20 Fabro presenta una piccola analisi

sull’«esegesi di Hegel ad Aristotele»21, particolarmente per quanto riguarda la sensazione,

l’intenzionalità della conoscenza e l’unità tra conoscente e conosciuto.

Fabro sembra accettare la interpretazione hegeliana del principio aristotelico22 che dice: «La

sensazione è la recezione delle forme sensibili senza la materia, così la cera accoglie in sé

soltanto il segno del sigillo d’oro, e non già l’oro stesso, ma soltanto la forma di esso». Fabro cita

in estenso la spiegazione di Hegel:

Infatti la forma è l’oggetto in quanto universalità; e nei riguardi teoretici noi ci comportiamo non come un che d’individuale e di sensibile, ma precisamente come un che di universale. Altrimenti stanno le cose quando ci conduciamo praticamente, nel qual caso l’azione presuppone appunto il reciproco contatto di ciò che è materiale: perciò anche, come Aristotele ricorda, le piante non sentono. Invece nella recezione della forma, il materiale scompare; infatti essa non è una relazione positiva con

15 Ivi, 394-395 nota 28. 16 Cornelio FABRO, Percezione e pensiero, op. cit., 63. 17 Cfr. Ivi, 51. 18 Ivi, 61. 19 Ivi, 62. 20 Cfr. Ivi, 61-65: «L’immanenza aristotelica secondo Hegel». 21 Ivi, 51 nota 37. 22 Cfr. ARISTOTELE, De Anima, II, 12.

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quest’ultimo, che non è più cosa da offrire resistenza. Se adunque si vogliono chiamare in generale impressioni sensibili le sensazioni, ci si arresta alla grossolanità del paragone; e da esse poi passando all’anima, ci si ripara dietro rappresentazioni, che in parte sono indeterminate, in parte non sono concetti. Si afferma allora che tutte le sensazioni sono impresse nell’anima soltanto dalle cose esteriori, allo stesso modo che la materia del sigillo agisce sulla materia della cera; e poi si pretende che questa sia filosofia aristotelica!... Così accade del resto alla maggior parte dei filosofi: quando essi adducono un esempio, ognuno lo capisce e prende il contenuto del paragone in tutta la sua estensione, come se tutto quello ch’è contenuto in questo rapporto sensibile potesse valere anche per lo spirituale. Non dobbiamo adunque attenerci rigorosamente a questo modo di rappresentarci le cose, ch’è soltanto un’immagine nella quale il paragone dev’essere considerato solo nel senso che il passivo della sensazione è nella passività soltanto per quel che concerne la pura forma; che soltanto questa forma è accolta nel soggetto senziente ed è nell’anima, senza tuttavia trovarsi in essa nel rapporto in cui si trova la forma con la cera, né come in chimica una cosa compenetra l’altra materialmente. Sicché viene trascurata proprio la circostanza principale che costituisce la differenza tra questa immagine e il comportarsi dell’anima. Di fatto la cera non assume la forma: quest’impressione resta figura e conformazione esterna in essa, senza essere una forma della sua essenza, ché, in questo caso, essa cesserebbe di essere cera. Non si riflette infatti che in tal modo viene a mancare nell’imagine appunto la recezione della forma nell’essenza. Invece l’anima assimila questa forma con la propria sostanza per l’appunto perché essa è in sé in certo modo tutto il sentito (...). Il suddetto paragone adunque non significa altro, se non che soltanto la forma perviene all’anima; non si riferisce dunque al fatto che la forma è e resta esteriore alla cera, né vuol significare che l’anima, come cera, non abbia forma in se stessa. L’anima non è affatto cera passiva, né riceve le sue determinazioni dall’esterno. Aristotele ha voluto dire piuttosto... che lo spirito respinge da sé la materia e si premunisce contro di essa, entrando in relazione soltanto con la forma. Senza dubbio nella sensazione l’anima è passiva, ma il suo ricevere non è come quello della cera, anzi è a un tempo l’attività dell’anima: infatti dopo aver patito il senziente supera questa passività e se ne libera. Così l’anima trasforma la forma del corpo esterno nella sua propria, ed è identica con questa qualità astratta soltanto perché è essa stessa questa forma universale»23.

Hegel, e con lui la filosofia moderna hanno seguito Aristotele fino certo punto, per poi

allontanarsi dal maestro greco24.

Evidenziamo soltanto i punti che Fabro critica della esegesi hegeliana di Aristotele:

- il modo di concepire «la natura dell’alterazione che si ha nel primo momento del sentire»25;

- il volere che l’attuazione sensoriale sia propria dell’anima e sorga in modo autoctono dalle

profondità della medesima26;

- l’accentuazione dell’interiorità a scapito del riferimento all’esteriorità (intenzionalità),

«certamente un effetto» dei preconcetti di Hegel27;

- il modo di capire il principio dell’unità, nell’atto del sentire, tra il sensibile ed il senziente,

«toccato da Hegel con molto acume ma con palese tendenziosità»28.

Appunto questo «principio dell’unità» è un «principio fondamentale, su cui s’è fermato Hegel».

Vediamo come Fabro espone questo principio in Aristotele, per capire un po’ che cosa non ha

detto Hegel:

In A. l’essere reale proprio del sensibile e del senziente, e cioè il sensibile in potenza ed il senziente in potenza, sono diversi: ma il sensibile in atto ed il senziente in atto formano un unico e medesimo atto.

23 HEGEL, Vorlesungen, 352-354. Così citato da Fabro. 24 Cornelio FABRO, Percezione e pensiero, op. cit., 53. 25 Ibidem. 26 Cfr. Ivi, 54. 27 Cfr. Ivi, 63. 28 Cfr. Ibidem.

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Qui Aristotele, come anche nella Metafisica (IV, 5, 1010 b, 32) fa supporre chiaramente che il sensibile è pienamente in atto (solo) nella facoltà apprensiva di cui è oggetto, mentre nella primitiva esposizione della teoria (Cat. 7 b, 36, 8 a, 12) egli riteneva che il sensibile antecede la sensazione e non vien distrutto con la distruzione di questa. L’ultima teoria è certamente più metafisica ed anche gnoseologicamente più matura: essa mostra fino a qual punto, nell’ultima fase del suo pensiero, il Filosofo si sia consapevolmente accostato al realismo naturalistico di Democrito29.

b. Testi di Hegel

Definizione della Realtà:

La Realtà è l’Unità, divenuta immediata, dell’Essenza e dell’Esistenza, cioè dell’Interno e dell’Esteno. L’Estrinsecazione del Reale è il Reale stesso, nel senso che il Reale, nell’Estrinsecazione, è anche essenziale, ed è essenziale solo nella misura in cui è nell’Esistenza esteriore immediata30.

L’idealismo in generale e l’asserzione pura: «Io sono ogni realtà»:

In tal modo, poiché adesso l’autocoscienza è ragione, il suo comportamento fin qui negativo verso l’essere-altro si converte in un comportamento positivo. Finora l’autocoscienza ha avuto a che fare soltanto con la propria autonomia e libertà, e il suo fine è stato unicamente quello di salvarsi e di mantenersi per se stessa a spese del mondo oppure della propria realtà, proprio mentre l’uno e l’altro le apparivano come il negativo della propria essenza. In quanto ragione, invece, divenuta sicura di se stessa, l’autocoscienza lo affronta entrambi con serenità ed è in grado di sopportarli, perché adesso è certa di se stessa come della realtà, ha cioè la certezza del fatto che ogni realtà non è niente di diverso da essa. Il pensiero dell’autocoscienza è, immediatamente, esso stesso la realtà, e nei confronti di questa si comporta dunque come Idealismo [Idealismus].

Quando l’autocoscienza si considera come Idealismo, è come se il mondo le si offrisse per la prima volta. In precedenza non la ha compreso, ma lo ha desiderato e trasformato col lavoro; poi, ritraendosi da esso entro se stessa, lo ha annientato per sé e ha annientato se stessa come coscienza – ha annientato sia la consapevolezza che il mondo costituisse la propria essenza, sia la consapevolezza della nullità del mondo. Solo più avanti, e cioè dopo aver perduto il sepolcro della propria verità, dopo aver annientato lo stesso annientamento della propria realtà, dopo aver colto la singolarità della coscienza, in sé, come essenza assoluta, solo allora l’autocoscienza scopre il mondo come il proprio nuovo mondo reale. Adesso nutre interesse verso il carattere permanente del mondo, mentre prima veniva attratta soltanto dal suo dileguare. Adesso, nella sussistenza del mondo, l’autocoscienza scorge la propria verità e presenza, e, nella sfera del mondo, è cera di fare esperienza unicamente di se stessa.

Il concetto della ragione espresso dall’Idealismo è il seguente: la ragione è la certezza, da parte della coscienza, di essere ogni realtà. Ora, come la coscienza, quando entra in scena in quanto ragione, ha immediatamente in sé questa certezza, così l’Idealismo la esprime in modo altrettanto immediato: Io sono Io [Ich bin Ich]. Questa formula non enuncia più l’autocoscienza in generale, nel quale caso Io sarebbe ancora un oggetto vuoto in generale; né si tratta dell’autocoscienza libera, per cui Io si sarebbe soltanto ritirato dagli altri oggetti, e questi, accanto a esso, manterrebbero pur sempre il loro valore. La formula dell’Idealismo indica invece che Io è mio oggetto unitamente alla consapevolezza del non-essere di qualsiasi altro oggetto: Io, dunque, è il mio unico oggetto, è ogni realtà e presenza.

L’autocoscienza, tuttavia, è ogni realtà – non soltanto per sé, ma anche in sé – solo perché diviene questa realtà, o meglio, solo perché si dimostra tale lungo l’intero cammino già percorso31.

Il vero è il Tutto (Das Wahre ist das Ganze):

Secondo il mio punto di vista, che dovrà giustificarsi unicamente mediante l’esposizione del sistema stesso tutto dipende dal concepire ed esprimere il vero non tanto come sostanza, bensì propriamente come soggetto. Al tempo stesso va notato che la sostanzialità include in sé tanto l’universale, cioè l’immediatezza del sapere stesso, quanto anche quell’immediatezza che è essere o immediatezza per il sapere. – Se concepire Dio come l’unica sostanza indignò l’epoca in cui questa determinazione venne espressa, la ragione di ciò risiede, in parte, nella certezza istintiva che in tale concezione l’autocoscienza non si è affatto conservata, ma è sprofondata; d’altro canto, però, la posizione

29 Ivi, 64. 30 Georg HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Rusconi, Milano 1996, § 142, 303. 31 Georg HEGEL, Fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano 1995, 333-335.

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contraria, la quale sostiene il pensiero in quanto pensiero, cioè l’universalità in quanto tale, è affetta dalla medesima semplicità, è sostanzialità immobile e indifferenziata; e se poi, in terzo luogo, il pensiero unifica con sé l’essere della sostanza e concepisce l’immediatezza o l’intuizione come pensiero, resta ancora da vedere se questa intuizione intellettuale non ricada a sua volta nella semplicità inerte e se non rappresenti la realtà stessa in modo irreale.

Inoltre, la sostanza vivente costituisce l’essere che è veramente soggetto, che è veramente reale, solo nella misura in cui essa è il movimento del porre-se-stessa [dasselbe heßt], solo in quanto è la mediazione tra il divenire-altro-da-sé e se stessa. In quanto soggetto, la sostanza è la negatività pura e semplice, e proprio per questo è lo sdoppiamento del semplice, è la duplicazione opponente che a sua volta costituisce la negazione di questa diversità indifferente e della sua opposizione: solo questa uguaglianza restaurantesi, solo questa riflessione entro se stesso nell’essere-altro – non è un’unità originaria in quanto tale, né immediata in quanto tale – è il vero. Il vero è il divenire di se stesso, è il circolo che presuppone e ha all’inizio la propria fine come proprio fine, e che è reale solo mediante l’attuazione e la propria fine.

È dunque possibile esprimere la vita di Dio e la conoscenza divina come un gioco dell’amore con se stesso.

Il vero è il Tutto. Il Tutto, però, è solo l’essenza che si compie mediante il proprio sviluppo. Dell’Assoluto, infatti, bisogna dire che è essenzialmente un risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità. E appunto in ciò consiste la sua natura: nell’essere realtà, soggetto, divenire-se-stesso [und hierin eben besteht seine Natur, Wirkliches, Subjekt, oder Sichsebstwerden zu sein]. Per quanto possa sembrare contraddittorio il fatto che l’Assoluto dev’essere concepito essenzialmente come risultato, basterà una breve riflessione a togliere questa parvenza di contraddizione32.

Il Conoscere in generale:

In generale, questo Processo è il Conoscere. In sé, nel Conoscere viene rimossa in un’unica Attività l’Opposizione, cioè l’unilateralità della Soggettività insieme all’unilateralità dell’Oggettività. Innanzitutto, però, questa Rimozione avviene soltanto in sé. Il Processo in quanto tale, pertanto, è esso stesso immediatamente gravato dalla Finitezza di questa sfera, e si scompone nel seguente duplice movimento posto come diverso: (1) l’impulso a rimuovere l’unilateralità della Soggettività dell’Idea mediante la ricezione entro sé – cioè entro la Soggettività della rappresentazioni e del pensiero – del Mondo essente, e a riempire la Certezza astratta di se stesso con un Contenuto che è questa Oggettività veramente valida; e, viceversa, (2) l’impulso a rimuovere l’unilateralità del Mondo oggettivo – il quale Mondo ha qui dunque, al contrario, il valore di essere soltanto una Parvenza, una raccolta di accidentalità e di figure in sé nulle -, a determinarlo e dargli forma mediante l’Interno del Soggettivo – il quale vale qui come l’Oggettivo veramente essente. Il primo impulso è quello del Sapere verso la Verità, è il Conoscere in quanto tale, l’Attività teoretica dell’Idea. Il secondo è l’impulso del Bene verso il suo Compimento, è il Volere, l’Attività pratica dell’Idea33.

La Finitezza generale del Conoscere è implicata in uno dei Giudizi, cioè nel presupposto dell’Opposizione (§ 22), rispetto al quale presupposto l’Attività stessa del Conoscere consiste nell’aportare la Contradizzione34.

Cosa significa conoscere lo Spirito:

La conoscenza dello Spirito è la conoscenza più concreta, e pertanto la più alta e più difficile. Conosci te stesso: né in sé, né nel contesto storico in cui è stato espresso, questo comando assoluto significa soltanto un’autoconoscenza in base alle facoltà, al carattere, alle inclinazioni e alle debolezze particolari dell’individuo, ma ha piuttosto il significato della conoscenza della verità dell’uomo e della Verità in sé e per sé: significa la conoscenza dell’Essenza stessa come Spirito. La Filosofia della Spirito non è neppure quel che si chiama conoscenza degli uomini, la quale è intenta a esplorare anche le particolarità, le passioni, le debolezze degli altri uomini, le cosidette pieghe del cuore umano; da un lato, questo tipo di cognizioni ha senso soltanto sul presupposto della conoscenza dell’Universale, de «l’uomo», e quindi essenzialemente dello Spirito; dall’altro lato, esso si occupa di

32 Ivi, 65-67. 33 Georg HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche…, op. cit. , § 225, 400-401. 34 Ivi, § 226, 401.

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esistenze spirituali accidentali, insignificanti, non vere, e non si spinge affatto fino al Sostanziale, allo Spirito stesso35.

Il fine essenziale della Filosofia dello Spirito:

Già nell’Introduzione si è parlato della pneumatologia, cioè della cosiddetta psicologia razionale, come di una metafisica astratta dell’intelletto. La psicologia empirica, invece, ha per oggetto lo Spirito concreto. Dopo la rinascita delle scienze, allorchè l’osservazione e l’esperienza sono divenute la base principale della conoscenza del Concreto, la psicologia empirica è stata esercitata secondo questa modalità; in tal senso, da un lato, quel tratto metafisico è stato tenuto fuori da questa scienza empirica e non è pervenuto entro sé a nessuna determinazione e consistenza concreta; dall’altro lato, la scienza empirica si è attenuta alla consueta metafisica intellettiva delle forze, delle diverse attività, ecc., e ne ha messo al bando ogni considerazione speculativa. Di conseguenza, i libri del De Anima di Aristotele, con le sue trattazioni degli aspetti e degli stati particolari dell’anima, restano sempre l’opera più importante sull’argomento, o l’unica che presenti al riguardo un interesse speculativo. Il fine essenziale di una Filosofia dello Spirito può essere soltanto quello di introdurre nuovamente il Concetto nella conoscenza dello Spirito, per la qual cosa occore quindi anche riscoprire il senso di quei libri aristotelici36.

La limitatezza del contenuto delle sensazioni:

La sensazione è la forma della trama oscura dello spirito nella individualità priva di coscienza e d’intendimento. Qui ogni determinatezza è ancora immediata, è posta come non sviluppata tanto secondo il contenuto quanto secondo l’opposizione di una oggettività contro il soggetto, e come appartenente alla peculiarità più particolare dello spirito, quella naturale. Il contenuto della sensazione è limitato e transeunte, dunque all’Essere qualitativo e finito37.

La certezza sensibile:

Sulla base della concretezza del suo contenuto, la certezza sensibile appare immediatamente come la conoscenza più ricca, anzi come una conoscenza infinitamente ricca: infatti, non ci sembra possibile perle né un limite esterno, nello spazio e nel tempo in cui essa si dispiega, né un limite interno, nella divisione in parti di un qualisiasi frammento di questa pienezza. Inoltre, essa appare come la conoscenza più vera, in quanto non ha ancora trascurato nulla dell’oggetto, ma lo ha piutosto davanti a sé in tutta la sua integrità e completezza. Di fatto, però, tale certezza si rivela proprio come la verità più astratta e più povera. Il suo sapere si riduce soltanto all’enunciazione: «esso è», e la sua verità contiene unicamente l’essere della Cosa38.

35 Ivi, § 377, 635. 36 Ivi, § 378, 635-637. 37 Ivi, § 400, 663. 38 Georg HEGEL, Fenomenologia dello spirito, op. cit. , 169.

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V. IL REALISMO

Schema 1. Nozione 2. Autori 3. Il «Vademecum del realista principiante» di Gilson

1. Nozione

Possiamo enunciare alcune tesi fondamentali del realismo in confronto con le diverse correnti

epistemologiche studiate fino a questo punto. In opposizione allo scetticismo, il realismo sostiene

che noi possiamo cogliere la verità. Concede un posto al dubbio nella vita intellettuale, ma afferma

che il dubbio universale è la morte dell’intelligenza. Neanche nega la possibilità dell’errore

considerandolo un incidente, mera anomalia. In sintesi afferma che abbiamo certezze legittime. Il

realismo si oppone al razionalismo e all’empirismo allo stesso tempo. Con quale mezzo

conosciamo la verità? Con la sola esperienza? No. Con la sola ragione? Nemmeno, ma con

l’esperienza e con la ragione insieme congiunte. Si dice a volte che il realismo è la sintesi

dell’empirismo e del razionalismo. Ma la formula non è felice, perché: in primo luogo, l’empirismo è

esclusivo del razionalismo e viceversa, o uno o l’altro; secondo, perché sia l’empirismo che il

razionalismo sono prodotti della decomposizione del realismo. Infine, per quanto riguarda la

portata della conoscenza, il realismo si oppone all’idealismo. Esso afferma che lo spirito umano

può conoscere l’essere ‘in sé’ e che la verità consiste precisamente nella conformità a ciò che è.

Dobbiamo avvertire che il nome di realismo non è falso, ma ha l’inconveniente di darne un’idea

ristretta, perché la determina solo in rapporto all’idealismo, mentre è una teoria della conoscenza

complessa e completa. Il realismo è facile di accettare nel piano del buonsenso perché ogni uomo

è convinto della sua capacità per conoscere la verità ed inoltre si fida dei suoi sensi, ma il realismo

è difficile nel piano filosofico perché suppone un’antropologia ed una metafisica ardua per

l’intelligenza. Con le altre posture gnoseologiche succede tutto il contrario. Finalmente, diciamo

che il realismo ha un vincolo stretto col dogma cattolico, a tal punto che può presentarsi come

parte della mentalità cristiana, quasi un preambolo della fede1.

All’opposizione tra idealismo e realismo ci siamo già riferiti in precedenza. Leggiamo ancora

una volta un testo di Fabro che abbiamo citato del capitolo precedente cercare di prestare più

attenzione questa volta a quanto si dice sul realismo:

L’opposizione, almeno iniziale, fra realismo e idealismo non verte propriamente sull’affermazione o negazione di realtà, ma sulla determinazione della realtà. Si vuol dire che ambedue le filosofie ammettono sia che la metafisica si dà e si deve dare, sia che la metafisica ha per oggetto una realtà in sé; differiscono nella «posizione» della realtà, se questa sia da porsi e dissolversi nel pensiero o ne possa esser riconosciuta indipendente. L’indipendenza è espressa egualmente, nel nostro caso, sia che si parta dal rigido dualismo di fenomeno – noumeno (Platone e Kant), sia che si assorba dialetticamente l’uno nell’altro (fenomenismo e idealismo). Il problema allora è quello della funzione che compete all’esperienza per l’atto di conoscenza, che è infine il problema dell’immanenza e della

1 Cfr. Roger VERNEAUX, op. cit., 87-100.

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trascendenza: il noumeno è immanente o trascendente al fenomeno? «Ciò che è» va detto assolutamente estraneo a «ciò che appare», e viceversa?2

Avendo presente che tutto questo corso cerca d’essere un introduzione ad una gnoseologia

realista non vogliamo allungarci in questa presentazione del idealismo. Presentiamo soltanto

alcuni parragrafi di Fabro che pensiamo possano riassumere quale sia l’attegiamento realista.

In primo luogo, alcune affermazioni da «La nozione metafisica di partecipazione»:

Abbiamo toccato l’aspetto più profondo del realismo tomista, che bisogna tener presente agli inizi stessi della metafisica; la realtà talmente domina il pensiero che lo obbliga a prendere in sè non solo il suo aspetto formale, ma ad imitare e corrispondere nella struttura astratta a quanto essa in sè possiede come realtà concreta3.

E poi, alcune «tesi» fondamentali di questo realismo che troviamo nel lavoro di Fabro «La

fenomenologia della percezione» sotto il titolo «La posizione realista». Scriveva Fabro:

La terza direzione, oltre lo Psicologismo ed il Logicismo, per un’interpretazione dei rapporti fra l’oggetto ed il soggetto, è il dualismo gnoseologico. Esso prospetta, in generale, il problema della conoscenza nei seguenti punti:

a) Nella nostra conoscenza le dualità di contenuto ed atto, di soggetto ed oggetto, di esterno e di interno sono, per ogni coppia, irriducibili.

b) Ciascuno dei membri di ogni coppia può esser considerato «essere» in due momenti: l’uno antecedente al conoscere, l’altro nel conoscere stesso; essi non sorgono, in altre parole, per una «posizione» assoluta che sia una creazione immanente all’atto del conoscere come atto.

c) Il primo momento è quello della «possibilità» di essere conosciuto e di farsi conoscere da parte dell’oggetto, e del conoscere e di far conoscere da parte del soggetto; il secondo, quello dell’essere conosciuto e del conoscere in atto.

d) È da ammettersi pertanto che l’oggetto non si riduce all’atto, né si pone assolutamente nell’atto del conoscere; ma si dà prima come possibilità del conoscere, come «dato» rispetto al medesimo. Parimenti il soggetto non sorge assolutamente per l’atto, come per il suo costitutivo primo ed essenziale, ma lo precede come capacità reale del medesimo.

e) Tutto questo fa supporre che l’oggetto in quanto è un «dato» da conoscere ed il soggetto in quanto è (od ha) una capacità reale del conoscere non sono isolabili: ma l’uno e l’altro, presi insieme, costituiscono la possibilità reale ed adeguata. L’atto si dà per il passaggio all’atto, appunto, di tale possibilità reale.

f) Tale possibilità esige da un canto che il «dato» si faccia conoscere come oggetto; che influisca cioè attivamente sul soggetto, cosicché la specificazione di oggettività sia intrinseca a quella di causalità; dall’altro canto, che il soggetto, una volta che è stato fatto passare all’atto dall’azione del «dato», sviluppi la propria azione nella direzione di assicurarsi il «dato» come «oggetto»4.

2. Autori

Possiamo segnalare diversi «realismi».

Per prima, un realismo «classico», che normalmente, come lo fa anche Verneaux, viene ridotto

a due tendenze. Una ha come figure più importanti Platone, Sant’Agostino e San Bonaventura.

L’altra corrente ha come le sue massime figure Aristotele e San Tommaso. La differenza sarebbe

innanzitutto metafisica, e toccherebbe l’epistemologia soltanto in un secondo momento. Cornelio

2 Cornelio FABRO, Percezione e pensiero, op. cit., 392. 3 Cornelio FABRO, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino (Opere Complete – 3), EDIVI, Segni 2005, 149. 4 Cornelio FABRO, La fenomenologia della percezione, op. cit., 46-48.

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Fabro sostiene un’interpretazione alquanto diversa. In realtà, secondo Fabro, il pensiero di San

Tommaso è una sintesi originale che si serve di alcune elementi «platonici» e di altri «aristotelici»5.

C’è pure un realismo «immediato» che ha voluto essere un primo intento di reazione contro il

pensiero immanentistico moderno, con autori come Thomas Reid o William Hamilton6.

Il realismo «critico» degl’inizi del ‘900 ha trovato la sua critica nel realismo «metodico» di

Gilson, come abbiamo accennato all’inizio di questo corso.

Abbiamo finalmente autori assai singolari, come Cornelio Fabro, il quale a volte è annoverato in

quel che si chiama il tomismo essenziale.

3. Il «Vademecum del realista principiante» di Gilson

A modo di esempio, leggiamo alcuni paragrafi del «Vademecum del realista principiante» di

Gilson, che troviamo nel suo libro «Il realismo. Metodo della filosofia»7:

1. Il primo passo sulla via del realismo è rendersi conto che si è sempre stati realisti. Il secondo passo è rendersi conto che, qualunque sforzo si faccia, non si riuscirà mai a pensare in modo diverso. Il terzo passo è prendere atto che tutti quelli che pretendono di pensare in modo diverso si rimettono a pensare da realisti non appena si dimenticano di star recitando una parte. A questo punto, se uno di questi si domanda il perché, la sua conversione è cosa fatta.

2. La maggior parte di coloro che si professano e si ritengono idealisti vorrebbero tanto non esserlo, ma pensano di non averne il diritto. C’è chi dice loro che non potranno mai uscire dal loro pensiero e che un al di là del pensiero non è pensabile. Se accettano la sfida e cercano di rispondere a questa obiezione sono perduti, perché tutte le obiezioni dell’idealista al realista sono formulate in termini idealistici. Per questo non sorprende che l’idealista risulti sempre vittorioso nelle discussioni. La soluzione idealistica dei problemi è già implicata nel modo con cui l’idealista imposta i problemi. Il realista deve dunque convincersi, come prima cosa, di non dover accettare la sfida su un terreno che non è il suo, così come non deve sentirsi in difficoltà quando non sa come risolvere dei problemi che in effetti sono senza soluzione ma che lui non ha motivo da porsi.

3. Occorre poi usare con cautela il termine «pensiero». In effetti, la differenza più grande tra il realista e l’idealista è che l’idealista pensa, mentre il realista conosce. Per il realista «pensare» vuol dire solamente organizzare delle conoscenze o riflettere sul loro contenuto; a lui non viene in mente di fare del pensiero il punto di partenza della sua riflessione, perché lui sa che un pensiero è possibile solo se prima ci sono state delle conoscenze. Ora, l’idealista, visto che procede dal pensiero alle cose, non può sapere se quello da cui parte corrisponde o meno a una cosa; e quando egli domanda al realista come si possono raggiungere le cose partendo dal pensiero, il realista deve rispondere subito che ciò non è possibile, e che proprio in questo sta il motivo principale per non essere idealisti. Il realismo infatti parte dalla conoscenza, cioè da un atto dell’intelletto che consiste essenzialmente nel cogliere un oggetto; quindi per il realista la domanda dell’idealista non pone un problema insolubile ma solo un pseudo-problema, che è una cosa ben diversa.

4. Ogni volta che l’idealista ci prescrive di risolvere i problemi posti dal pensiero, si può essere sicuri che egli parla in nome dello Spirito. Per lui, lo Spirito è ciò che pensa, come per noi l’intelletto è ciò che conosce. Occorre dunque evitare, per quanto sia possibile, di compromettersi con questo termine. Non è sempre facile, perché esso ha anche un senso legittimo, ma noi viviamo in un tempo in cui si impone prima di tutto la necessità di ritradurre in un linguaggio realistico tutti i termini che l’idealismo ha mutuato da noi e poi ha corrotto. Un termine di tipo idealistico è quasi sempre un termine che per il realista designa una delle condizioni spirituali della conoscenza e che invece l’idealista considera come generatrice del suo contenuto.

5. La conoscenza di cui parla il realista è l’unione vissuta e sperimentata tra l’intelletto e una realtà conosciuta. Ecco perché una filosofia realistica ha sempre come referente questa realtà conosciuta

5 Cfr. Cornelio FABRO, La nozione metafisica di partecipazione, op.cit., 43-120. 6 Cfr. Cornelio FABRO, La fenomenologia della percezione, op. cit., 125-126. 7 Cfr. Étienne GILSON, op. cit., 131-146.

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senza la quale non ci sarebbe conoscenza. Le filosofie idealistiche, al contrario, partono dal pensiero e per questo arrivano ben presto a scegliere come loro oggetto la scienza o la filosofia stessa. L’idealista, se pensa veramente da idealista, realizza nella forma più pura l’essenza del «professore di filosofia»; mentre il realista, se pensa veramente da realista, è in perfetto accordo con l’essenza autentica del filosofo: perché il filosofo parla delle cose, mentre il professore di filosofia parla di filosofia.

6. Così come non dobbiamo passare dal pensiero alle cose (sapendo che l’impresa è impossibile), nemmeno ci dobbiamo domandare se un al di là del pensiero sia pensabile. Può darsi in effetti che un al di là del pensiero non sia pensabile, ma è sicuro che ogni conoscenza implica un al di là del pensiero. Il fatto che questo «al di là del pensiero» ci sia dato nel pensiero (attraverso la conoscenza) non impedisce di considerarlo un «al di là»; ma l’idealista confonde sempre l’essere che ci è dato nel pensiero con l’essere che ci è dato mediante il pensiero. Per chi fa filsofia a partire dalla conoscenza, un al di là del pensiero è totalmente pensabile: anzi, questa concezione del pensiero è proprio quella che presuppone un suo al di là.

16. Prima di ogni spiegazione filosofica della conoscenza, c’è il fatto della conoscenza stessa, e c’è poi il desiderio insopprimibile che tutti gli uomini hanno di arrivare a comprendere la realtà. Se la ragione si accontenta troppo spesso di spiegazioni sommarie e incomplete; se essa fa spesso violenza ai fatti, deformandoli o passandoli sotto silenzio quando la intralciano, è proprio perché la passione di comprendere prevale sul desiderio di conoscere, o che i mezzi di conoscere di cui essa dispone sono impotenti a soddisfarla. Il realista non è meno esposto a queste tentazioni dell’idealista, e non vi cede meno spesso. La differenza è che quando il realista cede a questa tentazione la fa andando contro i propri princìpi, mentre l’idealista è disposto fin dall’inizio a cedervi ben volentieri. All’origine del realismo c’è dunque la rassegnazione dell’intelletto a dipendere da un essere reale che è causa della conoscenza; all’origine dell’idealismo c’è invece l’impazienza di una ragione che vuole ridurre l’essere reale alla conoscenza, per essere sicura che alla conoscenza non sfugga assolutamente nulla.

23. Dire che la conoscenza consiste nel cogliere una cosa così com’è, non vuol dire in alcun modo che l’intelletto possa sempre cogliere ogni cosa così com’è. Nemmeno si vuol dire che la conoscenza esarurisca in un solo atto il contenuto del suo oggetto. Quello che la conoscenza afferra del suo ogetto è reale, ma la realtà è inesauribile, e quand’anche l’intelletto ne avesse saputo coglire tutti i particolari, si scontrebbe ancora con il mistero dell’esistenza stessa dell’oggetto. Chi ritiene di afferrare infallibilmente e con una sola intuizione tutta la realtà è l’idealista Descartes; il realista Pascal sa bene che c’è tanta ingenuità nella pretesa che hanno certi filosofi di «intuire i princìpi dell’essere, e da lì arrivare a conoscere la totalità delle cose»: pretesa che manifesta «una presunzione infinita, proprio come è infinita la totalità delle cose che questi filosofi vorrebbero conoscere». La virtù propria del realista è la moderazione nelle pretese della conoscenza: può darsi che di fatto egli qualche volta non pratichi questa virtù, ma ciò non toglie che essa costituisca il suo specifico dovere professionale.

29. Tale è la libertà del realista; perché non abbiamo altra scelta che dipendere dai fatti e così essere liberi dal nostro pensiero, o essere liberi dai fatti per poi dipendere dal nostro pensiero. Volgiamo dunque la nostra attenzione alle cose che sono oggetto della conoscenza a al rapporto tra le nostre specifiche conoscenze e il loro specifico oggetto, in modo che la filosofia si adegui sempre meglio alle cose e così possa di nuovo progredire.

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PARTE SECONDA

NOZIONI FONDAMENTALI

VI. LA CONOSCENZA

Schema 1. Natura della conoscenza 2. La specie 3. Forme complete del conoscere

1. Natura della conoscenza

Secondo Fabro, la conoscenza è una «presenza»1. Questa affermazione ci ricorda un passo

del De Veritate di San Tommaso:

Questa è la perfezione del conoscente in quanto è conoscente, perché una cosa è conosciuta dal conoscente secondo che quella stessa cosa è in qualche modo nel conoscente2.

In questo particolare modo di «presenza» si possono considerare due momenti: la presenza in

atto, come qualcosa già compiuta, e il «farsi» di questa presenza.

Un esempio utilizzato da San Tommaso può aiutarci a capire, forse, questa distinzione:

Allo stesso modo che nelle nostre azioni esterne si può distinguere l’operazione stessa e la cosa prodotta, come sarebbe il costruire e l’edificio che viene costruito; così nelle operazioni della ragione si può distinguere l’atto stesso della ragione, cioè l’intendere e il ragionare, da quanto viene costituito da codesti atti3.

In altre parole: una cosa è il frutto della conoscenza e un’altra il processo che porta a questo

frutto.

Vediamo un testo di Fabro:

Il conoscere si rivela pertanto nell’Aristotelismo come un processo di unificazione e di presenza [...] Nella quale si possono considerare due momenti: il conoscere, per cui c’è la presenza, ed il processo di assimilazione che porta tanto l’oggetto come il soggetto a muoversi per la realizzazione di questa presenza4.

Anche intendendo la conoscenza come «presenza», lo stesso Fabro precisa che i paragoni di

tipo «spaziale» che a volte si usano parlando sulla conoscenza (per esempio, quando si dice che

l’oggetto «entra» nel soggetto) non sono appropriati. Spiega Fabro: «tali processi di ordine

spaziale non hanno luogo. Ciò che ha luogo è la crescenza dell’anima che si attua in oggetti»5.

1 Cornelio FABRO, Percezione e pensiero, op. cit., 47. 2 TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, 2, 2, co. [Trad. italiana tratta dalla seguente edizione: S. TOMMASO D’AQUINO, La verità in Le questioni disputate (Volume I), ESD, Bologna 1992.]: «et haec est perfectio cognoscentis in quantum est cognoscens, quia secundum hoc a cognoscente aliquid cognoscitur quod ipsum cognitum est aliquo modo apud cognoscentem». 3 TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-II, q. 90, a. 1, ad 2. [Trad. italiana tratta dalla seguente edizione: S. TOMMASO D’AQUINO, La Summa theologiae (Volume XII), ESD, Bologna 1991.]: «Ad secundum dicendum quod, sicut in actibus exterioribus est considerare operationem et operatum, puta aedificationem et aedificatum; ita in operibus rationis est considerare ipsum actum rationis, qui est intelligere et ratiocinari, et aliquid per huiusmodi actum constitutum». 4 Cornelio FABRO, Percezione e pensiero, op. cit, 47. 5 Ivi, 370.

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Dobbiamo quindi sgombrare il terreno affermando che il processo della conoscenza non è un

processo di movimento locale, tantomeno un mero processo fisico-materiale. È giustissimo riferirsi

a questo processo del conoscere come ad un processo di «assimilazione», allo stesso modo come

ha fatto per primo Aristotele. La conoscenza sarà, quindi, un modo del tutto particolare di

«assimilazione».

Il processo del conoscere è in un certo modo un «farsi presente» (non fisico, non locale)

dell’oggetto nel soggetto, che implicherà qualche «assimilazione» che avrà come conseguenza

una (e adesso bisogna introdurre un nuovo termine) «alterazione» del soggetto.

Fabro utilizza ancora un’altra espressione per riferirsi al processo del conoscere: «presa di

possesso». Vediamo cosa dice lo stesso Fabro: «L’attività gnoseologica nel suo reale sviluppo non

è un circolo chiuso, ma per essa il soggetto procede gradualmente verso una presa di possesso

sempre più adeguata dell’oggetto»6.

Storicamente, prima d’Aristotele, due filosofi affrontarono il problema gnoseologico. Da una

parte il siciliano Empedocle, cui poi seguirà Democrito. Dall’altra, Anassagora. Empedocle fonda la

sua teoria della conoscenza sul seguente principio: «il simile si conosce con il simile». Anassagora

affermava invece che è «per il contrario che si conosce il contrario»7.

Aristotele comincia paragonando il processo del conoscere con il processo che si ha nella

nutrizione e si domanda: «Si deve dire che il simile si nutre del simile o il contrario del contrario?».

Fabro riassume la sua risposta:

Ambedue le ipotesi, risponde il Filosofo, possono essere buone: tutto dipende dal punto nel quale si vuol considerare l’alimento, poiché se lo si considera all’inizio del processo il cibo è certamente dissimile, ed è vero che il contrario si nutre del contrario; considerato invece al termine dell’assimilazione, quando è fatto simile, è parimenti esatto il dire che il simile si nutre del simile. Il passaggio che fa l’alimento nel processo della nutrizione implica una mutazione interiore che interessa le qualità reali8.

Analogamente va considerato il processo dell’assimilazione conoscitiva che può anche essere

detta un’alterazione qualitativa giacché il soggetto, prima di conoscere, non è simile se non in

potenza all’oggetto: si fa simile all’oggetto dopo aver patito (cioè essere stato alterato) dal

medesimo9.

Possiamo illustrare questo primo momento della nostra analogia ricordando un esempio che

utilizza Aristotele. La cera «riceve in sé l’impronta, cioè la forma dell’anello, senza la sua materia:

la cera riceve il sigillo aureo o bronzeo, ma come sigillo soltanto, e non come bronzo. Similmente

anche il senso subisce l’azione e si assimila ciò che ha colore, suono…»10. Da questo esempio

possiamo cogliere l’analogia che si può stabilire tra il sigillo e la conoscenza: la cera è alterata

6 Ivi, 166. 7 Cfr. Ivi, 37-40. 8 Ivi, 41. 9 Ivi, 42. 10 Ivi, 59.

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dall’anello e riceva la sua figura. Analogamente, il soggetto è alterato dall’azione dell’oggetto e

«assimila», «fa proprie», certe attualità o perfezioni proprie dell’oggetto.

Attenzione, però: c’è una differenza fondamentale tra l’assimilazione della nutrizione e quella

della conoscenza. La nutrizione è una alterazione fisico-corrutiva, propria del divenire corporeo11.

Questo modo di alterazione resta essenzialmente «una successione di contrari in modo che

l’apparire del seguente implica la cessazione del precedente»12. Fabro afferma che seguendo

Aristotele si può considerare come esempio di questo modo di alterazione l’acquisizione della

scienza da parte dell’individuo che si trova in potenza rispetto ad essa, cioè di colui che può avere

la scienza. Questo passaggio può implicare una vera alterazione fra contrari, come quando si

passa dall’errore alla verità o viceversa. Non è così nell’assimilazione conoscitiva: «Questa non

avviene al termine della vittoria che un contrario riporta sull’altro, ma appartiene all’ascesa naturale

che fa l’anima conoscente con l’assimilazione oggettiva delle forme»13.

Perciò, l’esempio della cera già ricordato, anche se utile per illustrare quanto Aristotele

pretende insegnare, non è sufficiente per spiegare l’assimilazione propria della conoscenza.

Hegel, in un testo citato da Fabro, mostra i limiti di quest’esempio, approssimandosi, in un certo

modo, al concetto d’assimilazione conoscitiva come alterazione «perfettiva»:

Di fatto – fa notare il filosofo tedesco – la cera non assume la forma: quest’impressione resta figura e conformazione esterna in essa, senza essere una forma della sua essenza, ché, in questo caso, essa cesserebbe di essere cera. […] Invece l’anima assimila questa forma con la propria sostanza per l’appunto perché essa è in sé in certo modo tutto il sentito14.

Il «patire» proprio della conoscenza implicherà un «alterarsi» del soggetto conoscente in quanto

è perfezionato per la possessione di nuove forme ed atti diversi dalla propria essenza che la

arricchiscono. Perciò l’assimilazione conoscitiva è detta alterazione perfettiva.

Finalmente, la conoscenza può essere anche intessa come un modo di partecipazione, come

l’afferma Fabro riferendosi all’assimilazione conoscitiva:

Pare quindi che il «conoscere» realizzi in natura il «partecipare» nel senso pieno del termine. Conoscere è assimilare e assimilarsi, è l’avere l’atto e la forma di altra cosa in quanto l’atto e la forma sono e restano dell’altra cosa. […] Per questa modificazione qualitativa, che ha tutta la sua ragione e struttura dall’oggetto e che viene ad adergersi e ad emergere sopra l’essere del conoscente come un fiore sopra il gambo, si comprende bene che il conoscere è proprio un «partecipare»15.

2. La specie

Partiamo dalla seguente affermazione: se la conoscenza, come abbiamo detto è

«assimilazione», questa assimilazione non è possibile senza la produzione d’una certa

somiglianza della cosa conosciuta nel conoscente, somiglianza che chiameremo «specie»16.

11 Ivi, 43. 12 Ivi, 42. 13 Ivi, 43. 14 HEGEL, Vorlesungen, 352-354. Così citato da Cornelio FABRO, Percezione e pensiero, op. cit., 62. 15 Cornelio FABRO, La nozione metafisica di partecipazione, op. cit., 270. 16 Cf. Cornelio FABRO, Percezione e pensiero, op. cit., 331.

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Fabro, nel seguente testo, lo afferma riferendosi alla conoscenza intellettuale, dicendo che non c’è

conoscenza intellettuale senza verbum: «nella gnoseologia tomista non si dà alcuna assimilazione

intellettuale senza la produzione di un “verbum” che sia per l’anima l’espressione interiore

dell’oggetto conosciuto»17.

Cerchiamo di spiegare quindi la natura e le caratteristiche di questa specie.

In una gnoseologia tomista, la conoscenza è intessa come assimilazione: assimilazione

intenzionale tra un soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto, nella quale due termini

dissomiglianti diventano somiglianti18. Allora, è un fatto che l’oggetto rimane inalterato mentre che

il soggetto cambia, passando dalla potenza all’atto, dal non conoscere al conoscere. Perciò, sarà

necessario che ci sia nel soggetto qualche somiglianza dell’oggetto conosciuto. In altre parole:

l’assimilazione che è propria della conoscenza non è possibile senza il «farsi presente», in qualche

modo, dell’oggetto nel soggetto.

Questa presenza dell’oggetto nel soggetto, spiega Fabro, non si da per «identità» ma per

«informazione», vale a dire, per l’appropriasi del soggetto della forma dell’oggetto, o, se vogliamo

esprimerci dal punto di visto dell’oggetto, per il penetrare della forma dell’oggetto nel soggetto che

conosce. Questa informazione sarà «mediata» e non «immediata», in quanto l’oggetto si fa

presente non con la sua forma propria nella sua realtà fisica, ma con una somiglianza di questa:

E l’informazione può essere doppia: una immediata, come avviene per l’essenza divina rispetto all’intuizione che hanno i comprensori nella visione beatifica; l’altra mediata, in quanto l’oggetto si fa presente non con la realtà, o con la forma fisica, ma con una similitudine di sé. Questa similitudine è la specie intenzionale, forma vicaria, specie impressa, cioè primo principio determinativo del conoscere19.

Questa concezione della conoscenza si trova presente nel pensiero di San Tommaso. Per

esempio:

Infatti in chiunque intende, per ciò stesso che intende, c'è qualcosa che procede in lui, che è il concetto [o l'idea] della cosa intesa, che sgorga dall'attività della mente e dalla nozione della cosa intesa20.

Da questo si segue che la specie è necessaria per garantire l’oggettività della conoscenza,

giacché è in essa, grazie alla sua funzione mediatrice, che si compie l’unione attuale tra soggetto e

oggetto nell’atto conoscitivo.

Alcuni filosofi come Hamilton con il suo «realismo immediato» hanno accusato la specie

scolastico-tomista d’essere la causa dell’idealismo moderno, allontanando l’intelligenza dalla

conoscenza del concreto per fermarsi sulla conoscenza di pure «idee». Fabro risponde mostrando

una delle caratteristiche essenziali della specie: la sua intenzionalità. Corrisponde alla natura della

17

Ivi, 258. 18 Cf. Ivi, 477. 19 Ivi, 471. 20 San TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I, q. 27, a. 1: «Quicumque enim intelligit, ex hoc ipso quod intelligit, procedit aliquid intra ipsum, quod est conceptio rei intellectae, ex vi intellectiva proveniens, et ex eius notitia procedens».

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specie trascendere se stessa, conservando sempre un riferimento attuale all’oggetto dal quale fu

prodotta:

Se, invece, l’andare oltre l’idea significa precisamente il riferirsi dell’idea alla realtà, allora l’andare oltre l’idea è la natura stessa dell’idea, come quella per cui si attua il conoscere. La distinzione fra idea e realtà non è fuori del conoscere21.

Perciò, la specie conserva sempre un doppio aspetto: si tratta d’un atto prodotto dal soggetto

che lo modifica permettendoli la percezione d’un contenuto che trova pure il suo origine

nell’oggetto che «comunica» al soggetto questo contenuto:

Cioè la specie tomista ha una doppia funzione: una, d’informare come qualità entitativa (ut accidens) l’anima; l’altra di produrre la conoscenza cioè di mettere l’anima in relazione all’oggetto. È la famosa funzione intenzionale della specie, ripresa nei tempi moderni nella Scuola del Brentano22.

La specie, quindi, sia quella sensitiva come quella intellettiva, è qualcosa prodotta dal soggetto

in dipendenza dall’oggetto al quale fa riferimento. Questo ci porta ad accennare quale è il rapporto

esistente tra la specie e l’oggetto: specie ed oggetto sono uguali in quanto al loro contenuto e

diversi in quanto al loro modo d’essere.

Per questo si dice nell’Aristotelismo che alla «species» come tale compete un modo di essere particolare, l’essere «intenzionale»: la specie che ontologicamente è una qualità accidentale dell’anima, gnoseologicamente è quello che è l’oggetto a cui si riferisce e che riferisce, perché da esso è specificata e ne ripete la struttura oggettiva nella facoltà e nell’anima23.

Per precisare ancora la natura della specie conoscitiva dobbiamo introdurre un’ulteriore

distinzione: la distinzione tra «specie impressa» e «specie espressa».

Come abbiamo detto, nella concezione tomista della conoscenza la specie porta in sé sempre

un doppio riferimento: al soggetto (somiglianza metafisica, ut accidens) e all’oggetto (somiglianza

gnoseologica, ripetizione della struttura oggettiva di ciò che è conosciuto in essa).

Questa doppia somiglianza si può accettare soltanto, fa notare Fabro, se si ammette che la

assimilazione conoscitiva si sviluppa in due momenti realmente diversi, che originano due specie

intenzionali diverse, anche se intrinsecamente subordinate l’una all’altra. Questi due momenti sono

la presentazione dell’oggetto e la sua contemplazione. Nel primo momento lo spirito si trova come

recipiente, come materia che si attua in una forma. Nel secondo, il soggetto «esprime»

esplicitamente a sé stesso il contenuto dell’oggetto e si attua in esso.

La «specie impressa» sarà il termine del primo movimento dell’oggetto al soggetto, termine

dell’influsso che il soggetto riceve dall’oggetto. La «specie espressa», invece, sarà il termine della

contemplazione, o della penetrazione e pressa di possesso che l’anima compie di quel contenuto

offerto dalla specie impressa24. La perfezione della conoscenza, cioè l’apprensione intellettuale

dell’oggetto, si compie propriamente nella produzione della specie espressa alla quale corrisponde

in questo caso il nome di verbum o «concetto» in senso stretto.

21 Cornelio FABRO, Percezione e pensiero, op. cit., 477. 22 Ivi, 472. 23 Ivi, 71-72. 24 Cf. Ibidem.

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Cerchiamo di precisare ancora un po’ l’essenza di ciascuna di queste specie, e il rapporto

esistente tra di loro, con alcune espressioni dello stesso Fabro.

Ciò che abbiamo chiamato «specie espressa» o verbum è quello più immateriale e perfetto

nella nostra vita... prodotta al termine della conoscenza astrattiva25. È la più elevata operazione

vitale, che produce l’intellezione in atto26. È l’intermediario e il termine, soggettivo, del contatto27 tra

soggetto e oggetto. Conservando sempre il suo carattere intenzionale è l’objectum quod della

contemplazione intellettuale28. Finalmente, è il «medium in quo quod»29 della conoscenza.

La «specie impressa», frutto dell’astrazione de-individuante30, informa l’intelletto possibile31, è

principio determinativo del conoscere32, intermediario oggettivo per il quale è possibile entrare in

contatto con l’oggetto33, e si esaurisce nella «presentazione» dell’oggetto34 perché medium quo

della conoscenza35.

3. Forme complete del conoscere

Fino adesso abbiamo cercato di riferirci alla conoscenza in genere. Occorre però, precisare i

diversi modi di conoscenza con i quali ci possiamo trovare. Secondo Cornelio Fabro, esistono due

«forme complete» del conoscere, che anche se non sono le uniche sono quelle che si impongono

subito. Queste forme del conoscere sono la percezione e il giudizio:

Una fondazione teoretica del valore della conoscenza non può essere data che per un esame che lo spirito opera dentro di sé sopra gli atti, i contenuti e le forme di conoscenza che egli produce e di cui anche vive. Fra le forme complete del conoscere s’impongono subito la percezione ed il giudizio: nell’una si fanno presenti gli oggetti concreti della vita vissuta per una presenza «di fatto»: nell’altra gli oggetti ed i loro valori rendono esplicita la propria presenza per il riferimento, che in essa opera l’intelletto, ai contenuti e principî assoluti dell’essere36.

Nella percezione, come si afferma nel testo sopracitato, gli oggetti concreti della vita vissuta si

fanno presenti per una presenza «di fatto». Ad essa sembra corrispondere l’assimilazione

conoscitiva, che ha due direzioni: l’esperienza sensibile e l’intelligenza, «procedenti non in linea

retta o puramente parallela, ma secondo rapporti di convergenza e di mutua complementarità»37.

25 Cf. Ivi, 331. 26 Cf. Ivi, 470. 27 Cf. Ivi, 479. 28 Cf. Ibidem. 29 Ivi, 481. 30 Cf. Ivi, 331. 31 Cf. Ivi, 470. 32 Cf. Ivi, 471. 33 Cf. Ivi, 478-479. 34 Cf. Ivi, 479. 35 Cf. Ivi, 481. 36 Cornelio FABRO, La Fenomenologia della percezione, op. cit., 27. 37 Ivi, 32.

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Della percezione possiamo dare una prima nozione, «iniziale»: «percepire è l’accorgersi di

qualcosa in concreto, cioè in quanto è immediatamente dato nella sua presenzialità in atto»38.

Il giudizio è opera dell’intelletto ed in esso gli oggetti ed i loro valori rendono esplicita la propria

presenza per il riferimento ai contenuti e principî assoluti dell’essere. «Il giudizio afferma (o nega)

l’identità dei termini e dei rispettivi contenuti»39. Fabro afferma che il giudizio si può ridurre ad una

forma di astrazione «in quanto coglie nella ricchezza di un oggetto, presente nell’apprensione

percettiva, un particolare aspetto: come quando dico che “Pietro è un uomo” astraggo, e devo

astrarre, se sia musico, padre, figlio...»40.

Che rapporto si può stabilire tra queste due forme del conoscere? C’è qualche precedenza

d’una sull’altra?

Fabro afferma che una «fondazione critica completa» deve abbracciarli ambedue41, e che

anche se il giudizio è più importante, si deve cominciare lo studio della conoscenza dalla

percezione, perché questo è il movimento «più naturale»: «la realtà è prima vissuta che

classificata ed i contenuti concreti hanno immanenti, sia pur rozzamente, anche gli astratti, mentre

non può esser vero il contrario»42. In questo senso, la percezione «fonda» il giudizio. Ancora di più:

il giudizio pone due problemi, quello del «contenuto» e quello del «valore», che non si possono

fondamentare senza una precedente «apprensione percettiva»43:

Pertanto il «vero» punto di partenza di una psicologia, ed almeno fino ad un certo punto anche di una critica della conoscenza, è quella forma di «tutto» inizialmente dato alla coscienza nel quale l’intelletto possa trovare presenti od in qualche modo adombrati i contenuti ed anche le forme stesse di connessione che saranno poi affermate nel giudizio44.

38 Ivi, 43. 39 Ivi, 30. Cfr. San TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I, q. 85, a. 5: Se il nostro intelletto conosca raffrontando e contrapponendo. 40 Cornelio FABRO, La fenomenologia della percezione, op. cit., 30. 41 Ivi, 27. 42 Ivi, 28. 43 Cfr. Ivi, 30. 44 Ivi, 31.

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VII. LA VERITÀ

Schema 1. Diverse posture 2. Esistenza e nozione di verità in San Tommaso 3. La determinazione della verità di una proposizione

1. Diverse posture

La prima domanda che si può fare riguardo alla verità è se questa esista o no.

Come abbiamo già visto, il cosidetto «scetticismo» affermà che non ci sono verità, o almeno

che non ci possono essere certezze sulla verità. Nei nostri giorni, questo scetticismo si fa presente

nel «pensiero antimetafisico», che può prendere diversi nomi1: relativismo, prospettivismo,

pragmatismo, fallibilismo, «pensiero debole», ecc...

Dall’altra parte troviamo diverse posture che, anche se accettano l’esistenza della verità,

differiscono riguardo alla sua nozione. In ultima istanza, queste diverse posture si riducono al

confronto tra idealismo e realismo.

Il realismo intende la verità come una certa «conformità» o «corrispondenza» tra l’intelletto e la

cosa, da cui la nozione «classica» di verità: aedequatio rei et intellectus.

Le correnti di taglio idealista invece, concepiscono la verità come «coerenza interna» del

pensiero con sé stesso. Senza soffermarci a confutare questa postura, diciamo soltanto che,

anche se la «coerenza» intessa come «non contraddizione» è necessaria affinché ci sia la verità

da sé non è sufficiente per «produrre» questa verità.

Si potrebbe segnalare a parte, per il suo rilievo nel pensiero contemporaneo, la nozione di

verità di Heidegger, che pretende riportarla alla nozione pre-socratica di verità. Secondo lui, la

verità sarebbe «rivelazione» dell’essere. Antonio Livi afferma: «Di conseguenza, dice Heidegger,

la verità è l’essere stesso, ed esistenzialmente consiste nell’atto libero con il quale l’uomo si apre

all’essere che si manifesta: “L’essenza della verità è la libertà”»2.

Queste posture girano, quindi, attorno a due domande: se esiste la verità, e che cosa sia.

2. Esistenza e nozione di verità in San Tommaso

I nostri punti di riferimento saranno due: Somma teologica, I, q. 16, aa. 1-8; De Veritate, q. 1,

aa. 1-5.

a. L’esistenza della verità è evidente

San Tommaso ritiene evidente che vi sia una verità «in generale». Vediamo alcuni testi al

rispetto:

1 Cfr. Antonio LIVI, Verità del pensiero, op. cit., 27. 2 Ivi, 28.

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Che esista la verità in generale è di per sé evidente, ma che vi sia una prima Verità non è per noi altrettanto evidente3.

Non si può pensare puramente e semplicemente che no vi sia la verità. Si può pensare che non vi sia alcuna verità creata, come si può pensare che non vi sia alcuna creatura: infatti l’intelletto può pensare di non esistere e di non pensare, anche se non può mai pensare senza esistere o pensare; non è infatti necessario che tutto ciò che l’intelletto, pensando, possiede, lo pensi anche, pensando, dato che non sempre riflette su se stesso; e quindi non c’è inconveniente se pensa che non esiste la verità creata senza la quale non può pensare4.

La verità si fonda sull’ente: per cui, come è immediatamente evidente che l’ente esiste in generale, così pure esiste la verità5.

L’evidenza della verità si fonda, quindi, sull’evidenza dell’ente, il quale fonda la verità. È da

notare però, che in questi testi San Tommaso si riferisce alla verità in termini di verità «in

communi» o «simpliciter», quindi, la esistenza di certe verità «particolari» non è necessariamente

evidente.

b. Aedequatio rei et intellectus

Cerchiamo di precisare adesso il significato che hanno per San Tommaso ciascuno dei termini

della definizione classica di verità: «aedequatio», «res», «intellectus».

Il rapporto di adeguazione che costituisce la verità è una corrispondenza tra l’intelligenza e il

reale, in cui l’intelligenza in qualche modo si «conforma» con la cosa che conosce:

La prima comparazione dell’ente all’intelletto è dunque che l’ente concordi con l’intelletto, la quale concordanza è detta «adeguazione della cosa e dell’intelletto», e in ciò formalmente si compie la definizione di «vero»6.

Allora, perché se San Tommaso afferma che «veritas sopra ens fundatur» nella nozione di

verità si utilizza il temine res e non ens?

Vediamo alcuni testi di San Tommaso:

Essendoci però nella cosa la sua quiddità e l’essere, la verità si fonda più sull’essere della cosa che sulla quiddità, come anche il nome di ente viene imposto dall’essere; e nella stessa operazione dell’intelletto che prende l’essere della cosa così come è mediante una certa assimilazione ad esso si compie la relazione di adeguazione, nella quale consiste la nozione di verità7.

L’essere della cosa è la causa della vera valutazione che la mente ha della cosa8.

Analogamente è l’essere della cosa, e non la sua verità, che causa la verità dell’intelletto9.

3 San TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I, q. 2, a. 1, ad 3: «Ad tertium dicendum quod veritatem esse in communi, est per se notum, sed primam veritatem esse, hoc non est per se notum quoad nos». 4 San TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, 1, 5, ad 5: «Ad quintum dicendum, quod non potest intelligi simpliciter veritatem non esse; potest tamen intelligi nullam veritatem creatam esse, sicut et potest intelligi nullam creaturam esse. Intellectus enim potest intelligere se non esse et se non intelligere, quamvis numquam intelligat sine hoc quod sit vel intelligat; non enim oportet quod quidquid intellectus intelligendo habet, intelligendo intelligat, quia non semper reflectitur super seipsum; et ideo non est inconveniens, si veritatem creatam, sine qua non potest intelligere, intelligat non esse». 5 Ivi, 10, 12, ad 3: «Veritas supra ens fundatur. Unde sicut ens esse in comune est per se notum, ita veritatem esse». 6 Ivi, 1, 1: «Prima comparatio entis ad intellectum est ut ens intellectui correspondeat. Quae quiden correspondentia, adaequatio rei et intellectus dicitur, et in hoc formaliter ratio veri perficitur». 7 San TOMMASO D’AQUINO, In I Sententiarum, d. 19, q. 5, a. 1: «Cum autem in re sit quidditas ejus et suum esse, veritas fundatur in esse rei magis quam in quidditate, sicut et nomen entis ab esse imponitur; et in ipsa operatione intellectus accipientis esse rei sicut est per quamdam similationem ad ipsum, completur relatio adaequationis, in qua consistit ratio veritatis». 8 San TOMMASO D’AQUINO, In II Metaphysica, lect. 2, n. 298: «Esse rei est causa verae existimationis quam mens habet de re». 9 San TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae I, q. 16, a. 1, ad 3: «Et similiter esse rei, non veritas eius, causat veritatem intellectus».

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Res designa all’ente in quanto ha un’essenza. Il punto di riferimento è sempre, quindi, l’ens.

Forse si può dire che si utillizza res per mettere in rilievo che è la totalità della cosa che produce la

verità dell’intelletto. Perciò, nei testi che abbiamo visto, San Tommaso non dice semplicemente res

ma insiste nel fatto che l’«esse rei» è causa della verità.

Come capire «intellectus»? Sappiamo che secondo San Tommaso, la verità si trova

«formalmente», «per prius», nell’intelletto e non nella cosa.

Il santo utilizza spesso l’analogia della salute: sano si dice propriamente l’animale, le cose delle

quali si predica la salute - il cibo, la medicina, ecc - sono detti sani in senso estrinseco ed

improprio, in quanto hanno un certo rapporto con la sanità dell’animale.

«La verità propriamente è soltanto nell'intelletto»10, afferma San Tommaso. Allora, gl’intelletti

che possono interessare principalmente al nostro studio sono due: l’intelletto divino e quello

umano. Abbiamo quindi tre «luoghi» nei quali la verità si può trovare, anche se secondo sensi

diversi: Dio, la cosa e l’uomo. A noi, in tanto che stiamo facendo un corso di gnoseologia, ci

interessa domandarci come si trova la verità nell’uomo. Ci interessa quindi, ciò che a volte si

chiama la «verità logica» così come si trova nell’intelletto umano, e allo studio di questa verità ci

limiteremo. San Tommaso affermerà che nell’uomo la verità si trova nell’intelletto che «compone e

divide», cioè, nel giudizio.

c. ...verum per prius dicitur de compositione vel divisione intellectus...11

Vediamo alcuni argomenti con i quali San Tommaso sostiene quest’affermazione.

Primo argomento: veritas sopra esse fundatur.

La verità si fonda sull’essere, ed è la seconda operazione che attingerà in qualche modo

l’essere reale della cosa, e non la semplice apprensione che guarda all’essenza.

La prima operazione riguarda l’essenza della cosa, la seconda riguarda il suo essere. E poiché la nozione di verità si basa sull’essere, e non sulla quiddità, come si è detto, così la verità e la falsità si riscontrano propriamente nella seconda operazione12.

Secondo argomento: aequalitas diversorum est.

La verità consiste in un’adeguazione. Affinché ci sia un’adeguazione è necessario che ci siano

due cose diverse, perché non si dà adeguazione di una cosa rispetto di sé stessa. Orbene,

soltanto nel giudizio c’è qualcosa propria dell’anima che non è nella cosa, perché nella cosa non si

trova l’affermazione che si trova nel giudizio. Nella semplice apprensione, invece, l’anima possiede

la similitudine della cosa, che sì è nella cosa. Pertanto, solo nel giudizio si potrà avere

l’adeguazione dell’intelletto con la realtà, sempre che il giudizio corrisponda alla realtà. Questo non

vuol dire che nelle altre operazioni non ci sia qualcosa di verità; in esse c’è la verità come

«materialmente»; nel giudizio, invece, la verità si trova «formalmente»: 10 Ivi, I, q. 16, a. 8, co: «Veritas proprie est in solo intellectu». 11 San TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 1, a. 3, co. 12 San TOMMASO D’AQUINO, In I Sententiarum, d. 19, q. 5, a. 1, ad 7: «Prima operatio respicit quidditatem rei; secunda respicit esse ipsius. Et quia ratio veritatis fundatur in esse et non in quidditate, ut dictum est, ideo veritas et falsitas proprie invenitur in secunda operazione».

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Ma l’intelletto che forma la quiddità delle cose ha soltanto la similitudine della cosa esistente al di fuori dell’anima, come anche il senso in quanto riceve la specie sensibile. Quando invece comincia a giudicare della cosa appresa, allora lo stesso giudizio dell’intelletto è qualcosa ad esso proprio che non si trova al di fuori nella cosa; e quando si adegua a ciò che è fuori nella cosa, allora si dice che il giudizio è vero; l’intelletto poi giudica della cosa appresa quando dice che qualcosa è o non è, il che è proprio dell’intelletto componente e dividente: per cui il filosofo dice anche che «la composizione e la divisione è nell’intelletto e non nelle cose». Dunque la verità si trova primariamente nella composizione e divisione dell’intelletto13.

d. Unità, eternità e immutabilità della verità

San Tommaso studia queste tre proprietà della verità. Vediamo cosa dice al rispetto.

Ricordiamo nel nostro studio ci concentriamo sulla verità «logica», così come si trova nell’intelletto

umano.

Sull’unità della verità ci possiamo domandare: c’è una verità?, o chi possono essere diverse

verità? Se può affermare che ciascuno ha la «sua» verità? Vediamo che cosa risponde San

Tommaso:

Se dunque parliamo della verità in quanto, secondo la sua nozione propria, è nell'intelletto, allora, dato che esistono molte intelligenze create, vi sono anche molte verità; e anche in un solo e medesimo intelletto vi possono essere più verità, data la pluralità degli oggetti conosciuti14.

Il sedersi di Socrate, che è la causa della verità di questa proposizione: Socrate siede, non può essere considerato allo stesso modo quando Socrate siede e dopo che è stato seduto e prima che sedesse. Quindi anche la verità da esso causata presenta aspetti diversi [rispetto al tempo], e si esprime in diverse maniere nelle tre proposizioni: al presente, al passato e al futuro. Quindi non ne viene che, restando vera una delle tre proposizioni, resti un’unica verità invariabile15.

Si può parlare di «diverse verità» in quanto ci possono essere «diverse adeguazioni», sia per la

diversità delle cose conosciute sia per la diversità degl’intelletti creati: un intelletto può adeguarsi a

diverse cose, o diversi intelletti possono adeguarsi alla stessa o diverse cose. D’altra parte, una

stessa cosa può essere conosciuta sotto diversi aspetti, da dove si segue che una stessa cosa

può produrre diverse adeguazioni, e quindi, diverse verità. Sembra che si può dire che in certo

senso «ciascuno ha la sua verità» in quanto che è il proprio intelletto che si adegua alla cosa, e si

«appropria» del suo essere.

Comunque, è necessario ribadire due cose. La prima, che queste diverse verità non possono

essere contraddittorie tra di loro. La seconda, che la causa della verità non è l’intelletto, ma

l’essere delle cose, come si è visto sopra.

Sull’eternità e immutabilità della verità, ci domandiamo: può cambiare la verità? si può parlare di

«verità eterne»?

13 San TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 1, a. 3, co: «Intellectus autem formans quidditatem rerum, non habet nisi similitudinem rei existentis extra animam, sicut et sensus in quantum accipit speciem sensibilis; sed quando incipit iudicare de re apprehensa, tunc ipsum iudicium intellectus est quoddam proprium ei, quod non invenitur extra in re. Sed quando adaequatur ei quod est extra in re, dicitur iudicium verum; tunc autem iudicat intellectus de re apprehensa quando dicit aliquid esse vel non esse, quod est intellectus componentis et dividentis; unde dicit etiam philosophus in VI metaph., quod compositio et divisio est in intellectu, et non in rebus. Et inde est quod veritas per prius invenitur in compositione et divisione intellectus». 14 San TOMMASO D’AQUINO,Summa theologiae, I, q. 16, a. 6: «Si ergo loquamur de veritate prout existit in intellectu, secundum propriam rationem, sic in multis intellectibus creatis sunt multae veritates; etiam in uno et eodem intellectu, secundum plura cognita». 15 Ivi, I, q. 16, a. 8, ad 4: «Ad quartum dicendum quod sessio Socratis, quae est causa veritatis huius propositionis, Socrates sedet, non eodem modo se habet dum Socrates sedet, et postquam sederit, et antequam sederet. Unde et veritas ab hoc causata, diversimode se habet; et diversimode significatur propositionibus de praesenti, praeterito et futuro. Unde non sequitur quod, licet altera trium propositionum sit vera, quod eadem veritas invariabilis maneat».

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Cominciamo con questa affermazione di San Tommaso: «Mutate le cause, mutano gli effetti;

ma le cose che sono causa della verità delle proposizioni mutano: dunque muta anche la verità

delle proposizioni»16.

Comunque, questo cambiamento delle cose non è assoluto, perché si sa che in ogni

cambiamento c’è qualcosa che cambia e qualcosa che rimane, altrimenti il cambiamento sarebbe

impossibile. Ci interessa considerare particolarmente i cambiamenti che può soffrire una cosa

rimanendo se stessa. In questi cambiamenti possono cambiare molte cose, la natura o essenza

della cosa rimane invariata. Rimangono pure invariati, quindi, quelle proprietà o note della cosa

che sgorgano della sua essenza. A questo rispetto, vediamo due testi di San Tommaso sulla

«immutabilità degli universali»:

Che una cosa esista sempre e dovunque può essere inteso in due modi. O perché ha in sé la proprietà di estendersi a ogni tempo e a ogni luogo, e in tal senso compete a Dio. Oppure nel senso che non ha in sé un elemento che la determini a un punto dello spazio o del tempo [piuttosto che a un altro]: [...]. E in questo senso di ogni universale si dice che è dovunque e sempre, in quanto gli universali astraggono dallo spazio e dal tempo. Ma da ciò non segue che essi siano eterni se non nell'intelletto, dato che ve ne sia uno eterno17.

Che l’universale sia perpetuo e incorruttibile, Avicenna lo spiega in due modi: o intendendo che è perpetuo e incorruttibile in ragione dei particolari, che non ebbero inizio e non avranno fine, stando all’opinione di chi sostiene l’eternità del mondo, – la generazione infatti secondo i filosofi ha lo scopo di salvare la perpetuità dell’essere nella specie, dato che non si può salvarla nell’individuo –; oppure intendendo che è perpetuo dato che non si corrompe per sé ma accidentalmente, quando si corrompe l’individuo18.

Ancora un testo di San Tommaso, nel quale si precisa quale sia questa «mutabilità delle verità

create»:

Come si è detto sopra [a. 1], la verità propriamente è soltanto nell'intelletto, mentre le cose sono dette vere in rapporto alla verità che si trova in un'intelligenza. Quindi la mutabilità del vero va ricercata in relazione all'intelletto, la cui verità consiste nella conformità con le cose conosciute. Ora, questa conformità può variare in due maniere, come ogni altro confronto, cioè per il cambiamento dell'uno o dell'altro termine. Quindi dalla parte dell'intelligenza la verità cambia se, restando la cosa immutata, uno se ne forma un'opinione diversa; e varierà egualmente se, restando invariata l'opinione, cambia la cosa. E in ambedue i casi c'è mutamento dal vero al falso. [...] La verità dell'intelletto divino è dunque immutabile, mentre quella del nostro intelletto è mutevole. Non che essa sia il soggetto di queste mutazioni, ma [si ha il mutamento] a motivo del nostro intelletto che passa dalla verità alla falsità: è in questa maniera infatti che sono mutevoli le forme. [...]19.

16 San TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 1, a. 6, sc:«Sed contra, mutatis causis mutantur effectus. Sed res, quae sunt causa veritatis propositionis, mutantur. Ergo et propositionum veritas mutatur». 17 San TOMMASO D’AQUINO,Summa theologiae, I, q. 16, a. 7, ad 2: «Ad secundum dicendum quod aliquid esse semper et ubique, potest intelligi dupliciter. Uno modo, quia habet in se unde se extendat ad omne tempus et ad omnem locum, sicut deo competit esse ubique et semper. Alio modo, quia non habet in se quo determinetur ad aliquem locum vel tempus, sicut materia prima dicitur esse una, non quia habet unam formam, sicut homo est unus ab unitate unius formae, sed per remotionem omnium formarum distinguentium. Et per hunc modum, quodlibet universale dicitur esse ubique et semper, inquantum universalia abstrahunt ab hic et nunc. Sed ex hoc non sequitur ea esse aeterna, nisi in intellectu, si quis sit aeternus». 18 San TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 1, a. 5, ad 14: «Ad tertium decimum dicendum, quod hoc quod dicitur, universale perpetuum esse et incorruptibile, Avicenna dupliciter exponit: uno modo ut dicatur esse perpetuum et incorruptibile, ratione particularium, quae nunquam inceperunt nec deficient secundum tenentes aeternitatem mundi; generatio enim ad hoc est, secundum philosophos ut salvetur perpetuum esse in specie, quod in individuo salvari non potest. Alio modo ut dicatur esse perpetuum, quia non corrumpitur per se, sed per accidens ad corruptionem individui». 19 San TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I, q. 16, a. 8 co: «Respondeo dicendum quod, sicut supra dictum est, veritas proprie est in solo intellectu, res autem dicuntur verae a veritate quae est in aliquo intellectu. Unde mutabilitas veritatis consideranda est circa intellectum. Cuius quidem veritas in hoc consistit, quod habeat conformitatem ad res intellectas. Quae quidem conformitas variari potest dupliciter, sicut et quaelibet alia similitudo, ex mutatione alterius extremi. Unde uno modo variatur veritas ex parte intellectus, ex eo quod de re eodem modo se habente aliquis aliam opinionem accipit, alio modo si, opinione eadem manente, res mutetur. Et utroque modo fit mutatio de vero in falsum. Si ergo sit aliquis intellectus in quo non possit esse alternatio opinionum, vel cuius acceptionem non

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La verità in se stessa non cambia. Essendo una certa relazione però, può cambiare in quanto

cambia alcuno dei suoi termini. Possono darsi due casi. Il primo, che cambiando uno dei termini

della relazione cambi pure l’altro, e si produca una nuova adeguazione, e quindi, una «nuova

verità». Questo sarebbe il caso della molteplicità delle verità la quale è stata studiata sopra. Il

secondo caso sarebbe quando cambiando uno dei termini l’altro resta invariato. In quest’ultimo

caso, l’adeguazione è distrutta. Non si tratta, quindi, d’un cambiamento della verità, ma d’un passo

dalla verità alla falsità, come precisa San Tommaso.

Ci servano queste brevi riflessioni al meno per far vedere che il nostro realismo e tutt’altro che

un realismo «ingenuo»...

3. La determinazione della verità di una proposizione

Consideriamo brevissimamente un altro problema, nel quale si «toccano» la gnoseologia e la

logica «materiale»: la determinazione della verità di una proposizione.

Espressione del giudizio è la proposizione. Ci domandiamo adesso: come si fa a mostrare la

verità di una proposizione? Quale potrebbe essere la «procedura» che ci permetta d’essere certi

della verità d’una affermazione qualsiasi? Questo passo ci permette pure di introdurre le lezioni

seguenti sulla certezza e l’evidenza, e vedere il collegamento esistente tra i temi in esse

considerati.

Per esempio, un autore da noi già citato risponde alle domande precedenti, in parte, con ciò

che egli chiama la «presupposizione»: «La presupposizione è una operazione logica (di logica

aletica [materiale], non formale), e quindi appartiene all’essenza della filosofia; il fatto di rilevare i

presupposti della filosofia nell’esperienza»20. E ancora: «Intendo dunque per “presupposizione”

l’individuazione di quella caratteristica logica di un discorso per cui esso rimanda a elementi che gli

sono (logicamente) anteriori ma che ne costituiscono le condizioni di possibilità»21.

Ci sembra importante la nota affermazione di San Tommaso della De Veritate 1,1: «nelle

proposizioni dimostrabili bisogna operare la riduzione a qualche principio per sé noto

all’intelletto»22. Si potrebbe aggiungere un altro, anche della De Veritate:

La verità in base alla quale l’anima giudica tutto è la verità prima: come infatti dalla verità dell’intelletto divino fluiscono nell’intelletto angelico le specie innate delle cose, secondo le quali [gli angeli] conoscono tutte le cose, così dalla verità dell’intelletto divino procede esemplarmente nel nostro intelletto la verità dei primi principi, secondo i quali giudichiamo di ogni cosa; e poiché non potremmo

potest subterfugere res aliqua, in eo est immutabilis veritas. Talis autem est intellectus divinus, ut ex superioribus patet. Unde veritas divini intellectus est immutabilis. Veritas autem intellectus nostri mutabilis Est. Non quod ipsa sit subiectum mutationis, sed inquantum intellectus noster mutatur de veritate in falsitatem; sic enim formae mutabiles dici possunt. Veritas autem intellectus divini est secundum quam res naturales dicuntur verae, quae est omnino immutabilis». 20 Antonio LIVI, Verità del pensiero, op. cit., 42. 21 Ivi, 43. 22 San TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 1, a. 1, co: «in demonstrabilibus oportet fieri reductionem in aliqua principia per se intellectui nota».

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giudicare in base ad essa se non in quanto è una similitudine della prima verità, così si dice che giudichiamo di ogni cosa secondo la prima verità23.

Il giudizio che si può fare sulla verità d’una proposizione non è tanto una dimostrazione quanto

una «riduzione». La dimostrazione, da sé, si fonda sulla verità di alcune proposizioni precedenti.

Sembra però non sia sufficiente la dimostrazione per sostenere la verità di un giudizio, giacché se

uno si muove solo nel piano della dimostrazione rimane sempre nel piano formale e non si vede

quando si fa quel «passo» necessario che è mostrare il contatto - adeguazione - del giudizio con la

realtà.

La determinazione della verità di una proposizione si fonderà quindi, su una «riduzione» che

cercherà di mostrare la relazione tra questa proposizione e altri principi all’intelletto già «evidenti»,

cioè noti, e dei quali non si possa dubitare. Per trovare questi «aliqua principia per se intellectui

nota» abbiamo due punti di riferimento: l’esperienza e i primi principi.

Possiamo dire, quindi, che per determinare la verità di una proposizione sarà necessario

mostrare la relazione esistente tra questa proposizione e alcune verità evidenti.

23 Ivi, q. 1, a. 4, ad 5: «Ad quintum dicendum, quod veritas secundum quam anima de omnibus iudicat, est veritas prima. Sicut enim a veritate intellectus divini effluunt in intellectum angelicum species rerum innatae, secundum quas omnia cognoscunt; ita a veritate intellectus divini procedit exemplariter in intellectum nostrum veritas primorum principiorum secundum quam de omnibus iudicamus. Et quia per eam iudicare non possemus nisi secundum quod est similitudo primae veritatis, ideo secundum primam veritatem dicimur de omnibus iudicare».

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VIII. LA CERTEZZA

Schema 1. L’assenso 2. Certezza 3. Classi di certezza

I nostri punti di riferimento per la presente lezione saranno i seguenti testi di San Tommaso: De

Veritate q. 14, a. 1; Summa theologiae II-II, q. 1, a. 4.

Può essere interessante far notare che in ambedue questi testi San Tommaso studia l’atto di

fede. Quello della De Veritate ha come titolo: «Che cosa sia credere»; e quella della Summa: «Se

le cose che si vedono possano essere oggetto di fede».

Cercheremo di seguire nella nostra trattazione quanto più fedelmente sia possibile lo schema

generale di San Tommaso in questi articoli.

1. L’assenso

a. Natura

Come abbiamo già studiato, la verità nell’intelletto umano si trova «per prius» nel giudizio. L’atto

proprio del giudizio è l’assenso, e l’assenso è la determinazione dell’intelletto rispetto ad una

verità. La certezza sarà una caratteristica di questo assenso, che guarda la sua fermezza.

Afferma San Tommaso: «diamo l’assenso a qualcosa quando aderiamo ad essa in quanto

vera»1. Con altre parole, assenso è la determinazione dell’intelletto ad una delle parti della

contraddizione2.

b. Cause dell’assenso

L’intelletto, perché passivo, non si muove se non è mosso da un altro:

L’intelletto possibile [...] è di per sé maggiormente indeterminato ad aderire alla composizione piuttosto che alla divisione, o viceversa; ora, tutto ciò che è indeterminato rispetto a due cose non viene determinato a una di esse se non da qualcosa che lo muove3.

Allora, quell’«altro» che muova l’intelletto ad assentire può essere l’oggetto o la volontà.

L’oggetto muove in quanto si fa presente (evidente), sia in modo diretto che indiretto (per intuizione

o per dimostrazione). La volontà muove in quanto ha in sé la capacità di muovere tutte le altre

facoltà dell’anima.

Ora, l'intelletto può assentire a una cosa in due modi. Primo, perché è mosso dall'oggetto, il quale può essere conosciuto o direttamente per se stesso, come avviene per i primi princìpi di cui si ha un abito

1 San TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 14, 1, co: «non enim dicimur alicui assentire nisi quando inhaeremus ei quasi vero». 2 Cf. Ibidem. 3 Ibidem: «Intellectus autem possibilis, cum quantum est de se sit in potentia respecto omnium intelligibilium formarum, sicut et materia prima respectu omnium sensibilium formarum, est etiam quantum est de se non magis determinatus ad hoc quod aheareat compositioni quam divisioni, vel e converso; omne autem quod est indeterminatum ad duo, non determinatur ad unum eorum nisi per aliquod movens ipsum».

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naturale, oppure indirettamente, come avviene per le conclusioni di cui si ha la scienza. Secondo, non perché è mosso adeguatamente dal proprio oggetto, ma per una scelta volontaria, che inclina più verso una parte che verso l’altra4.

2. Certezza

a. Dubbio e opinione

Prima dell’assenso vero e proprio, l’intelletto si può trovare in diversi modi riguardo alle «parti

della contraddizione». Ci possono essere l’ignoranza, il sospetto, il dubbio o l’opinione.

Fermiamoci soltanto su questi ultimi due, perché sono quelli considerati da San Tommaso negli

articoli che stiamo seguendo.

Innanzitutto, afferma San Tommaso, che né nel dubbio, né nell’opinione c’è ancora vero

assenso:

Chi dubita non ha l’assenso, dato che non aderisce a una parte più che all’altra; similmente neppure colui che opina, dato che la sua recezione di una delle due parti non è ferma5.

Che cosa è il dubbio? Risponde San Tommaso, indicando in che cosa consista il dubbio e quali

siano le sue cause:

Talvolta l’intelletto non è inclinato a uno più che all’altro, o per difetti di motivo, come in quei problemi nei quali non troviamo ragioni, o per l’apparente uguaglianza dei motivi a favore dell’una e dell’altra parte, e questa è la disposizione di chi dubita, che fluttua fra le due parti della contraddizione6.

In modo simile, anche se più «vicino» all’assenso si trova chi «opina»:

Talvolta invece l’intelletto è inclinato a un estremo piuttosto che all’altro, ma tuttavia ciò che inclina non muove sufficientemente l’intelletto in modo da determinarlo totalmente verso una delle parti. Per cui prende sì una parte, ma dubita sempre di quella opposta, e questa è la disposizione di chi opina, il quale prende una parte della contraddizione «con il timore dell’altra»7.

b. La certezza

Quando, superati sia il dubbio che l’opinione, l’intelletto aderisce totalmente, pienamente,

saldamente, ad una delle parti della contraddizione. Ci troviamo in questo momento davanti

all’assenso dell’intelletto e alla «certezza», che è la «forza» con la quale l’intelletto abbraccia il suo

oggetto. Vediamo come si esprime San Tommaso:

Talvolta infine l’intelletto possibile è determinato ad aderire totalmente a una parte...8;

aderisce certissimamente a una parte»9;

4 San TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, II-II, q. 1, a. 4, co: «Assentit autem alicui intellectus dupliciter. Uno modo, quia ad hoc movetur ab ipso obiecto, quod est vel per seipsum cognitum, sicut patet in principiis primis, quorum est intellectus; vel est per aliud cognitum, sicut patet de conclusionibus, quarum est scientia. Alio modo intellectus assentit alicui non quia sufficienter moveatur ab obiecto proprio, sed per quandam electionem voluntarie declinans in unam partem magis quam in aliam». 5 San TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 14, a. 1, co: «...dubitans non habet assensum cum non inhaeret uni parti magis quam alteri; similiter etiam nec opinans cum non firmetur eius acceptio circa alteram partem». 6 Ibidem: «Quandoque enim non inclinatur ad unum magis quam ad aliud, vel propter defectum moventium, sicut in illis problematibus de quibus rationes non habemus, vel propter apparentem aequalitatem eorum quae movent ad utramque partem, et ista est dubitantis dispositivo qui fluctuat inter duas partes contradictionis». 7 Ibidem: «Quandoque vero intellectus inclinatur magis ad unum quam ad alterum, sed tamen illud inclinans non sufficienter movet intellectum ad hoc quod determinet ipsum in unam partium totaliter; unde accipit quidem unam partem, semper tamen dubitat de opposita, et haec esto dispositivo opinantis qui accipit unam partem contradictionis “cum formidite alterius”». 8 Ibidem: «Quandoque vero intellectus possibilis determinatur ad hoc quod totaliter adhaereat uni parti». 9 Ibidem: «intelligens habet quidem assensum quia certissime alteri parti inahaeret».

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la certezza può comportare due cose, cioè la fermezza dell’adesione [...] o anche l’evidenza di ciò a cui si dà l’assenso10.

c. Intelletto, scienza e fede

Tre sono dunque, le possibili cause dell’assenso: l’intuizione, la dimostrazione e la volontà.

L’intuizione, che implica un certo contatto diretto con la realtà conosciuta può essere chiamata

«intelletto». L’evidenza alla quale si arriva per dimostrazione e propria della «scienza». La volontà

che muove ad assentire coopera a produrre l’atto di fede - l’accettare la testimonianza altrui.

Perciò può essere utile paragonare la certezza che producono queste tre cause, per precisare il

nostro concetto di certezza, e per vedere come tutte e tre producono, anche se in diversi modo,

un’autentica certezza. Il seguente testo di San Tommaso può aiutarci:

La certezza può comportare due cose, cioè la fermezza dell’adesione, e sotto questo aspetto la fede è anche più certa di ogni intuizione e scienza, poiché la verità prima che causa l’assenso della fede è una causa più forte del lume della ragione che causa l’assenso dell’intuizione o della scienza; [la certezza però] comporta anche l’evidenza di ciò a cui si dà l’assenso, e in questo senso la fede non ha la certezza, che invece hanno la scienza e l’intuizione: ed è per questo motivo che l’intuizione non ha cogitazione11.

3. Classi di certezza

San Tommaso parte da un principio che prende d’Aristotele, il quale afferma che non si deve

chiedere a tutte le cose la medesima certezza, perché la certezza dipende dalla materia sulla

quale versa.

Alcune cose sono contingenti, altre sono necessarie. Ci sarà quindi una certezza sulle cose

necessarie (quella che di solito è chiamata «certezza metafisica», che San Tommaso chiama

«certezza dimostrativa») e un’altra sulle cose contingenti (fatti della natura sui quali c’è «certezza

fisica»; atti umani sui quali possiamo avere una «certezza morale»).

Questi due modi di certezza si distinguano non solo per la materia sulla quale versano, ma

anche perché la certezza che versa su cose contingenti («certezza probabile»), può ammettere

eccezioni, cosa che non succede con la certezza metafisica.

La certezza su materia contingente, insiste San Tommaso, è in ogni caso sufficiente, perché

uno può essere sicuro che ciò che si afferma sarà vero nella maggior parte dei casi.

Vediamo alcuni testi di San Tommaso:

Come fa notare il Filosofo [Ethic. 1, cc. 3, 7], «non si deve esigere in tutte le materie la medesima certezza». Poiché negli atti umani, sui quali vertono i processi e le deposizioni dei testimoni, non si può avere una certezza dimostrativa, trattandosi di cose contingenti e variabili. Basta quindi una certezza probabile, che raggiunge la verità nella maggior parte dei casi, sebbene talora si scosti da essa12.

10 Ivi, q. 14, a. 1, ad 7: «certitudo duo potest importare, scilicet fimitatem adhaesionis [...] etiam evidentiam eius cui assentitur». 11 Ivi, 14, 1, ad 7: «Ad septimum dicemdum quod certitude duo potest importare, scilicet firmitatem adhaesionis, et quantum ad hoc fides est certior etiam omni intellectu e scientia quia prima veritas quae causat fidei assensum est fortiori causa quam lumen rationis quae causat assensum intellectus vel scientiae; importat etiam evidentiam eius cui assentitur, et sic fides non habet certitudinem sed scientia et intellectus, et exinde est quod intellectus cogitationem non habet». 12 San TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, II-II, q. 70, a. 2 (Se basti la testimonianza di due o tre testimoni), co: «Respondeo dicendum quod, secundum Philosophum, in I Ethic., certitudo non est similiter quaerenda in omni materia. In actibus enim humanis, super quibus constituuntur iudicia et exiguntur testimonia, non potest haberi certitudo demonstrativa, eo quod sunt circa contingentia et variabilia. Et ideo sufficit probabilis certitudo, quae ut in pluribus veritatem attingat, etsi in paucioribus a veritate deficiat».

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Secondo Aristotele [Ethic. 1, 3] «non si deve pretendere in tutte le cose la medesima certezza». Perciò nelle realtà contingenti, quali sono i fenomeni fisici e le cose umane, basta la certezza per cui una cosa è vera nella maggior parte dei casi, sebbene vi siano delle eccezioni13.

Come nota il Filosofo [Ethic. 1, 3], «non si deve cercare in tutte le cose una certezza assoluta, ma quanta ne permette la natura di ciascuna materia». Siccome dunque la materia della prudenza è data dai singolari contingenti, di cui si interessano le azioni umane, la certezza della prudenza non può essere tale da eliminare ogni sollecitudine14.

Degli atti umani si può avere una qualche certezza, anche se non come nelle scienze dimostrative, bensì soltanto come comporta tale materia: p. es. mediante la testimonianza di persone idonee15.

13 Ivi, I-II, q. 96, a. 1, ad 3: «Ad tertium dicendum quod non est eadem certitudo quaerenda in omnibus, ut in I Ethic. dicitur. Unde in rebus contingentibus, sicut sunt naturalia et res humanae, sufficit talis certitudo ut aliquid sit verum ut in pluribus, licet interdum deficiat in paucioribus». 14 Ivi, II-II, q. 47, a. 9., ad 2: «Ad secundum dicendum quod, secundum philosophum, in I ethic., certitudo non est similiter quaerenda in omnibus, sed in unaquaque materia secundum proprium modum. Quia vero materiae prudentiae sunt singularia contingentia, circa quae sunt operationes humanae, non potest certitudo prudentiae tanta esse quod omnino sollicitudo tollatur». 15 Ivi, II-II, q. 60. a. 3, ad 1: « Ad primum ergo dicendum quod in humanis actibus invenitur aliqua certitudo, non quidem sicut in demonstrativis, sed secundum quod convenit tali materiae, puta cum aliquid per idoneos testes probatur».

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IX. L’EVIDENZA

Schema 1. Nozione d’evidenza: ciò che è «per se notum» 2. Divisione dell’evidenza: «secundum se» - «quoad nos» 3. Evidenza e certezza

Ci proponiamo di rintracciare, leggendo alcuni testi di San Tommaso, ciò che l’Angelico Dottore

pensava riguardo a ciò che noi chiamiamo «evidenza». Non vogliamo fare uno studio intensivo del

problema, ma offrire soltanto alcune linee che possano servire per un successivo approfondimento

della questione.

Dal punto di vista semantico, la parola «evidente», in italiano, significa ciò «che si vede

chiaramente, che è ben visibile», e ha la sua origine etimologica nell’espressione latina

evidĕnte(m), composta di e- con valore intensivo e un derivato di vidēre «vedere»1.

Occorre premettere che quando San Tommaso studia l’evidenza, utilizza spesso l’espressione

latina «per se notum» per riferirsi ad essa. Quindi, la nostra ricerca comincerà dal cercare di

mostrare come intendere quest’espressione, per poi vedere alcuni testi nei quali il santo distingue

tra ciò che può essere evidente in sé e ciò che può essere evidente per noi, e finire mostrando il

rapporto tra evidenza e certezza.

Dobbiamo premettere ancora una seconda «premessa». Come sempre, ma particolarmente per

quanto riguardo il tema che vogliamo studiare in questa lezione, se vogliamo cogliere il pensiero

autentico di San Tommaso si devono leggere i suoi testi nel latino originale. Perciò in questa

lezione faremmo in un modo un po’ diverso da quanto abbiamo fatto nelle lezioni precedenti:

lasceremmo i testi in latino nel corpo della lezione, e metteremo le traduzioni all’italiano nelle note.

1. Nozione d’evidenza: ciò che è «per se notum»

Possiamo cominciare dall’analisi delle parole utilizzate da San Tommaso. «Notum» significa

«conosciuto» o «noto». Il «per se» sembra aggiungere che certe cose si fanno «conoscere», si

«manifestano», si «rendono palese», si «fanno vedere», da sé stesse. Afferma San Tommaso:

«Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia»2.

Nel seguente testo San Tommaso utilizza altre espressioni come «manifestum» o «notum

propter se» che sembrano confermare quanto detto nel paragrafo precedente:

Et dicit quod ridiculum est quod aliquis tentet demonstrare quod natura sit, cum manifestum sit secundum sensum quod multa sunt a natura, quae habent principium sui motus in se. Velle autem demonstrare manifestum per non manifestum, est hominis qui non potest iudicare quid est notum propter se, et quid non est notum propter se: quia dum vult demonstrare id quod est notum propter se,

1 Cfr. Dizionario De Mauro, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2000. 2 San TOMMASO D’AQUINO, In Perihermeneias, lect. 14, n. 199: «Ora c’è un vero che è noto di per sé: tali sono i primi principi indimostrabili».

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utitur eo quasi non propter se noto. [...]. Et e converso accidit his qui volunt demonstrare naturam esse: quia utuntur notis ut non notis. Naturam autem esse, est per se notum, inquantum naturalia sunt manifesta sensui. Sed quid sit uniuscuiusque rei natura, vel quod principium motus, hoc non est manifestum3.

«Evidente» sarebbe, quindi, ciò che si fa conoscere da sé stesso. Facciamo notare che nel

testo citato San Tommaso collega l’evidenza con l’esperienza sensibile: alcune cose sono «per se

notum» in quanto si manifestano ai sensi. Comunque, ed è facile vederlo nei testi che citeremo,

l’evidenza non si si riduce a questo «manifestarsi ai sensi», anche se si trova in stretto

collegamento con esso.

Nel seguente testo San Tommaso afferma che qualcosa può essere «per se notum» per due

motivi: o perché abbiamo d’essa una conoscenza immediata - senza la mediazione di nessun altro

-; o perché non la possiamo conoscere indirettamente («per accidens»):

Potest enim aliquid dici per se notum dupliciter, vel quia per nihil aliud in eius notitiam devenitur, sicut dicuntur prima principia per se nota; vel quia non sunt cognoscibilia per accidens, sicut color est per se visibilis, substantia autem per accidens4.

La radice di questa «evidenza», o «manifestazione», o «conoscibilità», della cosa si trova nella

sua attualità. Quindi, quanto più attualità avrà una cosa, tanto più sarà evidente «secondo la

propria natura». Nel seguente testo San Tommaso spiega perché alcune cose sono più «evidenti»

(«notiora») di altre:

Notandum autem est quod idem dicit nota esse naturae et nota simpliciter. Simpliciter autem notiora sunt, quae secundum se sunt notiora. Sunt autem secundum se notiora, quae plus habent de entitate: quia unumquodque cognoscibile est inquantum est ens. Magis autem entia sunt, quae sunt magis in actu: unde ista maxime sunt cognoscibilia naturae5.

Le cose più evidenti sono due: l’ente e il principio di non contradizzione, perché fondato sulla

prima apprensione dell’ente:

In his autem quae in apprehensione omnium cadunt, quidam ordo invenitur. Nam illud quod primo cadit in apprehensione, est ens, cuius intellectus includitur in omnibus quaecumque quis apprehendit. Et ideo primum principium indemonstrabile est quod non est simul affirmare et negare, quod fundatur supra rationem entis et non entis, et super hoc principio omnia alia fundantur, ut dicitur in IV metaphys.. Sicut autem ens est primum quod cadit in apprehensione simpliciter, ita bonum est primum quod cadit in apprehensione practicae rationis […]6.

3 San TOMMASO D’AQUINO, In II Physica, lect. 1, n. 148: «E afferma che sarebbe ridicolo tentar di darne una dimostrazione. È infatti evidente alla sensazione che molte cose esistono dalla natura, che cioè hanno il principio del movimento in se stesse. Ora cercare di dimostrare cose evidenti servendosi di cose che evidenti non sono è proprio di una persona che non può distinguere tra ciò che è conoscibile per sé e ciò che invece non lo è: infatti, mentre cerca di dimostrare ciò che è evidente in se stesso, si serve di ciò che evidente per sé non è. […] E la cosa opposta accade a coloro che vogliono dimostrare che la natura esiste, perché fanno uso di cose evidenti come se non fossero evidenti. Infatti, che esista la natura è cosa evidente in se stessa, in quanto le cose naturali sono evidenti ai sensi. Ma che cosa sia la natura di ogni singola cosa, o quale sia il principio del movimento, questo non è affatto evidente». 4 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 87, a. 1, ad 1: «Una cosa infatti può dirsi conosciuta per se stessa per due motivi: o perché si arriva alla sua conoscenza senza intermediari, come avviene per i primi princìpi per sé noti, oppure perché non è conoscibile per via indiretta [per accidens]: come il colore è visibile direttamente, mentre la sostanza è visibile per via indiretta [per accidens]». 5 San TOMMASO D’AQUINO, In I Physica, lect. 1, n.7«Però va notato che ciò che è manifesto secondo natura e ciò che è semplicemente manifesto sono la stessa cosa. Infatti sono semplicemente più manifeste quelle cose che sono is se stesse più manifeste. Ora, sono in se stesse più manifeste quelle cose che sono maggiormente dotate di essere, poiché ogni cosa è conoscibile in quanto è un ente. Ora, sono maggiormente enti quelle cose che sono maggiormente in atto; per cui queste sono anche le cose che sono massimamente conoscibili per natura». 6 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 2, co: «tra le cose universalmente conosciute vi è un certo ordine. Infatti la prima cosa che si presenta alla conoscenza è l'ente, la cui nozione è inclusa in tutto ciò che viene appreso. Perciò il primo principio indimostrabile è che l'affermazione e la negazione sono incompatibili: poiché esso si fonda sulla nozione di ente e di non ente. E su questo principio si fondano tutti gli altri, come nota Aristotele [Met. 4, 3]. Ora, come l'ente è la cosa assolutamente prima nella conoscenza, così il bene è la prima nella conoscenza della ragione pratica […]».

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San Tommaso utilizza lo stesso principio, che noi formuliamo dicendo che «una cosa è

conoscibile in quanto è in atto, e quindi a più attualità corrisponderà più evidenza», per mostrare in

quale modo alcune cose siano evidenti, come la materia, il movimento e il tempo:

Et quod quantum ad aliquas res difficultas contingat in cognoscendo veritatem ipsarum rerum ex parte earum, patet. Cum enim unumquodque sit cognoscibile inquantum est ens actu, ut infra in “Nono” huius dicetur, illa quae habent esse deficiens et imperfectum, sunt secundum seipsa parum cognoscibilia, ut materia, motus et tempus propter esse eorum imperfectionem, ut Boetius dicit in libro «De duabus naturis»7.

San Tommaso si riferisce spesso, come esempio di cose «per se notum», ai primi principi.

Quindi, i primi principi sono evidenti per San Tommaso. Nel commento al IV libro della Metafisica

di Aristotele, quando si studia quali sia il primo tra questi principi, il quale deve essere il più saldo e

certo, se segnalano tre condizioni che costui deve avere, che poi saranno applicate al principio di

non contraddizione. Queste condizioni ci servono per «caratterizzare» le cose evidenti, al meno

quelle più evidenti. Le tre condizioni sono: «Manifestum est ergo quod certissimum principium sive

firmissimum, tale debet esse, ut circa id non possit errari, et quod non sit suppositum et quod

adveniat naturaliter»8. Citiamo, «in estenso», il testo di San Tommaso:

Ponit ergo primo, tres conditiones firmissimi principii. Prima est, quod circa hoc non possit aliquis mentiri, sive errare. Et hoc patet, quia cum homines non decipiuntur nisi circa ea quae ignorant: ideo circa quod non potest aliquis decipi, oportet esse notissimum. Secunda conditio est ut sit non conditionale, idest non propter suppositionem habitum, sicut illa, quae ex quodam condicto ponuntur. Unde alia translatio habet. Et non subiiciantur, idest non subiiciantur ea, quae sunt certissima principia. Et hoc ideo, quia illud, quod necessarium est habere intelligentem quaecumque entium hoc non est conditionale, idest non est suppositum, sed oportet per se esse notum. Et hoc ideo, quia ex quo ipsum est necessarium ad intelligendum quodcumque, oportet quod quilibet qui alia est cognoscens, ipsum cognoscat. Tertia conditio est, ut non acquiratur per demonstrationem, vel alio simili modo; sed adveniat quasi per naturam habenti ipsum, quasi ut naturaliter cognoscatur, et non per acquisitionem. Ex ipso enim lumine naturali intellectus agentis prima principia fiunt cognita, nec acquiruntur per ratiocinationes, sed solum per hoc quod eorum termini innotescunt. Quod quidem fit per hoc, quod a sensibilibus accipitur memoria et a memoria experimentorum et ab experimento illorum terminorum cognitio, quibus cognitis cognoscuntur huiusmodi propositiones communes, quae sunt artium et scientiarum principia9.

Alcune di queste «condizioni» compaiono in altri testi. Per esempio: «naturaliter nobis cognita

sunt non solum universalia principia speculativa, sed etiam practica»10; «nullus potest cogitare

7 San TOMMASO D’AQUINO, In II Metaphysica, lect. 1, n. 280: «Quanto al fatto che per certe cose si verifichi la difficoltà nel conoscere la verità delle cose stesse da parte di esse, questo è evidente. Infatti, poiché ogni essere è conoscibile in quanto è un ente in atto, come diremo più avanti nel “Nono libro”, di quest’opera, quelli che hanno un essere fragile e imperfetto sono di per sé poco conoscibili, come la materia, il moto e il tempo; ciò a causa del loro essere imperfetto; è quanto scrive Boezio nell’opera “Le due nature”». 8 San TOMMASO D’AQUINO, In IV Metaphysica, lect. 6, nn. 599: «è dunque evidente che il principio più certo o più sicuro dev’essere tal da non potersi commettere errore su di esso: che non sia una ipotesi e che giunga per via naturale». 9 Ivi, nn. 597-599: «Espone quindi, innanzitutto, le prime tre condizioni del principio più sicuro. La prima è che su di esso nessuno possa mentire o cadere in errore. Il che è chiaro perché, dal momento che gli uomini non si ingannano se non sulle cose che ignoranno, ne consegue che ciò in merito a cui nessuno può sbagliarsi dev’essere la cosa più nota. La seconda condizione è che non sia “sotto condizione”, cioè non abbia una formulazione di un’ipotesi, come è per quelle cose che si porgono per una supposizione. Per questo, un’altra redazione reca: “E non siano soggetti”, ossia non siano assoggettati quelle che sono i principi più sicuri. Questo perché quel principio che deve possedere chi conosce qualsiasi essere “non è sottoposto a condizione”, cioè non è un’ipostesi, ma deve essere noto di per sé. Il motivo è che, essendo esso necessario alla conoscenza di qualsiasi cosa, bisogna che lo conosca chiunque conosca le altre cose. La terza condizione è che non venga acquisito tramite una dimostrazione o in qualche altro modo simile; arrivi in un modo naturale a chi lo possiede: come se sia conosciuto naturalmente, e non per acquisizione. Infatti, i primi principi diventano conosciuti dal lume dell’intelletto agente, né si acquisiscono con delle argomentazioni, ma soltanto per il fatto che diventano noti i loro termini. Ciò si verifica in quanto dai sensibili si trae la memoria, dalla memoria l’esperienza, e dall’esperienza la conoscenza dei loro termini: conosciuti questi, si conoscono tali proposizioni comuni che costituiscono i principi delle arti e delle scienze». 10 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 49, a. 2, ad 1: «poiché per natura ci sono noti non solo i primi princìpi universali di ordine speculativo, ma anche quelli pratici».

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oppositum eius quod est per se notum ut patet per Philosophum, in IV Metaphys. et I Poster., circa

prima demonstrationis principia»11.

2. Divisione dell’evidenza: «secundum se» - «quoad nos»

Fino a qui abbiamo cercato di riferirci all’evidenza considerata «in se stessa», come

manifestazione dell’attualità della cosa, che la rende più o meno conoscibile.

Allora, fa notare San Tommaso, quando si parla della conoscenza di una cosa, la si può

considerare doppiamente: dal punto di vista della cosa, o dal punto di vista di chi conosce. Così lo

troviamo nel seguente testo:

Respondeo, quod de cognitione alicujus rei potest aliquis dupliciter loqui: aut secundum ipsam rem, aut quo ad nos. Loquendo igitur de Deo secundum seipsum, esse est per se notum, et ipse est per se intellectus [...]. Loquendo autem de Deo per comparationem ad nos, sic iterum dupliciter potest considerari. Aut secundum suam similitudinem et participationem; et hoc modo ipsum esse, est per se notum; nihil enim cognoscitur nisi per veritatem suam, quae est a Deo exemplata; veritatem autem esse, est per se notum. Aut secundum suppositum, idest considerando ipsum Deum, secundum quod est in natura sua quid incorporeum; et hoc modo non est per se notum; immo multi inveniuntur negasse deum esse, sicut omnes Philosophi qui non posuerunt causam agentem, ut Democritus et quidam alii. Et hujus ratio est, quia ea quae per se nobis nota sunt, efficiuntur nota statim per sensum; sicut visis toto et parte, statim cognoscimus quod omne totum est majus sua parte sine aliqua inquisitione12.

Da questo si segue che si distingua l’evidenza della cosa in se stessa considerata, da quanto

possa essere evidente per noi. San Tommaso si riferisce con frequenza a questa distinzione.

Forse uno dei testi più conosciuti e quello che troviamo all’inizio della Summa, quando San

Tommaso si domanda se l’esistenza di Dio sia evidente: «contingit aliquid esse per se notum

dupliciter, uno modo, secundum se et non quoad nos; alio modo, secundum se et quoad nos», e

spiega il perchè di questa distinzione:

Ex hoc enim aliqua propositio est per se nota, quod praedicatum includitur in ratione subiecti, ut homo est animal, nam animal est de ratione hominis. Si igitur notum sit omnibus de praedicato et de subiecto quid sit, propositio illa erit omnibus per se nota, sicut patet in primis demonstrationum principiis, quorum termini sunt quaedam communia quae nullus ignorat, ut ens et non ens, totum et pars, et similia. Si autem apud aliquos notum non sit de praedicato et subiecto quid sit, propositio quidem quantum in se est, erit per se nota, non tamen apud illos qui praedicatum et subiectum propositionis ignorant. Et ideo contingit, ut dicit Boetius in libro De hebdomadibus, quod quaedam sunt communes animi conceptiones et per se notae, apud sapientes tantum, ut incorporalia in loco non esse13.

11 Ivi, I, q. 2, a. 1 sc: «Nessuno può pensare l'opposto di ciò che è di per sé evidente, come spiega Aristotele [Met. 4, 3; Anal. post. 1, 10] riguardo ai primi princìpi della dimostrazione.». 12 San TOMMASO D’AQUINO, In I Sententiarum, d. 3, q. 1, a.2, sol: «Dalla conoscenza di una cosa si può parlare in due modi: o secondo la cosa stessa, o in rapporto a noi. Parlando dunque di Dio secondo se stesso, l’essere è immediatamente evidente, ed egli è intesso per sé stesso […]. Parlando invece di Dio in rapporto a noi, così ancora lo si può considerare in due modi. O secondo la sua somiglianza e partecipazione; e in questo caso che egli esiste è immediatamente evidente: infatti nulla è conosciuto se non mediante la sua verità, che è modellata da Dio; ora che la verità esiste è immediatamente evidente. Oppure secondo il supposto, cioè considerando Dio stesso, secondo che è nella sua natura qualcosa di incorporeo; e in questo modo non è immediatamente evidente; anzi, si trovano molti che negarono l’esistenza di Dio, come tutti i filosofi che non posero la causa agente, come Democrito e alcuni altri. E il motivo di ciò è che le cose che sono per noi immediatamente evidenti vengono rese note immediatamente dai sensi: come visti il tutto e la parte conosciamo immediatamente, senza alcuna ricerca, che ogni tutto è maggiore della sua parte». 13 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 2, a. 1 co: «Una cosa può essere di per sé evidente in due modi: primo, in se stessa, ma non per noi; secondo, in se stessa e anche per noi. Infatti una proposizione è di per sé evidente se il predicato è incluso nella nozione del soggetto, come per esempio: l'uomo è un animale, poiché animale fa parte della nozione stessa di uomo. Se dunque è a tutti nota la natura del predicato e del soggetto, la proposizione risultante sarà per tutti evidente, come avviene nei primi princìpi delle dimostrazioni, i cui termini sono nozioni comuni che nessuno può ignorare, come ente e non ente, il tutto e la parte, ecc. Se però a qualcuno rimane sconosciuta la natura del predicato e del soggetto, la proposizione sarà evidente in se stessa, ma non per quanti

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Nel testo precedente San Tommaso argomenta a partire dell’evidenza della proposizione.

Comunque, questa evidenza si fondamenta sull’«apprensione» di certi termini (ente, non ente,

tutto, parte) che nessuno può ignorare.

Troviamo questa distinzione pure, per esempio, nella Contra Gentiles, nella quale San

Tommaso si riferisce ad un’evidenza simpliciter e un’evidenza quoad nos:

Praedicta autem opinio provenit. [...] Partim vero contingit ex eo quod non distinguitur quod est notum per se simpliciter, et quod est quoad nos per se notum. Nam simpliciter quidem Deum esse per se notum est: cum hoc ipsum quod deus est, sit suum esse. Sed quia hoc ipsum quod Deus est mente concipere non possumus, remanet ignotum quoad nos. Sicut omne totum sua parte maius esse, per se notum est simpliciter: ei autem qui rationem totius mente non conciperet, oporteret esse ignotum14.

Ancora un altro testo nel quale si spiega questa distinzione dell’evidenza:

Est enim dupliciter aliquid per se notum; scilicet secundum se, et quoad nos. Deum igitur esse, secundum se est per se notum; non autem quoad nos; et ideo nobis necessarium est, ad hoc cognoscendum, demonstrationes habere ex effectibus sumptas. Et hoc quidem sic apparet. Ad hoc enim quod aliquid sit per se notum secundum se, nihil aliud requiritur nisi ut praedicatum sit de ratione subiecti; tunc enim subiectum cogitari non potest sine hoc quod praedicatum ei inesse appareat. Ad hoc autem quod sit per se notum nobis, oportet quod nobis sit cognita ratio subiecti in qua includitur praedicatum. Et inde est quod quaedam per se nota sunt omnibus; quando scilicet propositiones huiusmodi habent talia subiecta quorum ratio omnibus nota est, ut, omne totum maius est sua parte; quilibet enim scit quid est totum et quid est pars. Quaedam vero sunt per se nota sapientibus tantum, qui rationes terminorum cognoscunt, vulgo eas ignorante. Et secundum hoc Boetius in Lib. De hebdomadibus dicit, quod duplex est modus communium conceptionum. Una est communis omnibus, ut, si ab aequalibus aequalia demas, etc.. Alia quae est doctiorum tantum, ut puta incorporalia in loco non esse, quae non vulgus, sed docti comprobant; quia scilicet vulgi consideratio imaginationem transcendere non potest, ut ad rationem rei incorporalis pertingat15.

Il fatto che una cosa evidente in se stessa non lo sia per noi non si deve a qualche imperfezione

della cosa, ma all’imperfezione della nostra conoscenza. Il caso più chiaro è quello dell’esistenza

di Dio: massimamente evidente in se stesso per quanto si è detto prima (per la sua assoluta

attualità, giacché in Lui s’identificano essenza ed essere) ma non evidente per noi. Citiamo ancora

la Contra Gentiles:

Et sic fit ut ad ea quae sunt notissima rerum, noster intellectus se habeat ut oculus noctuae ad solem, ut II Metaphys. dicitur. [...] Nec etiam oportet, ut secunda ratio proponebat, Deo posse aliquid maius cogitari si potest cogitari non esse. Nam quod possit cogitari non esse, non ex imperfectione sui esse est vel incertitudine, cum suum esse sit secundum se manifestissimum: sed ex debilitate nostri

ignorano il predicato e il soggetto della proposizione. E così accade, come nota Boezio [De Hebdom., proem.], che alcuni concetti sono comuni ed evidenti solo per i dotti: questo p. es.: “Le realtà immateriali non sono circoscritte in un luogo”». 14 San TOMMASO D’AQUINO, Summa contra gentiles I, c. 11: «E in parte l’opinione suddetta deriva dal non distinguere il per sé noto in senso assoluto, dal per sé noto rispetto a noi. Infatti in senso assoluto l’esistenza di Dio è per sé nota, poiché l’essenza di Dio coincide con la sua esistenza. Ma proprio perché noi non possiamo concepire intellettualmente l’essenza di Dio, ciò rimane ignoto rispetto a noi. Che il tutto, p. es., sia maggiore della sua parte è per sé noto in senso assoluto, ma per uno che non avesse il concetto di tutto, tale principio rimarrebbe ignoto». 15 San TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 10, a. 12 co: «Una cosa infatti è di per sé evidente in un duplice modo, cioè in se stessa e riguardo a noi. Dunque, l’esistenza di Dio è di per sé evidente in se stessa, non però riguardo a noi: e quindi, per conoscerla, ci è necessario avere delle dimostrazioni desunte dagli effetti. E ciò appare in questo modo: perché una cosa sia di per sé evidente in se stessa non si richiede altro se non che il predicato rientri nella nozione del soggetto: allora infatti il soggetto non può essere pensato senza che appaia che il predicato gli è inerente; perché invece [la cosa] sia di per sé evidente per noi è necessario che ci sia nota la nozione del soggetto nel quale è incluso il predicato. E da ciò deriva che alcune cose sono di per sé evidenti per tutti, quando cioè siffatte proposizioni hanno dei soggetti tali che la loro nozione è nota a tutti, come [per esempio la proposizione] che ogni tutto è maggiore di una sua parte: chiunque infatti sa che cos’è il tutto, e che cosa è una parte; alcune cose invece sono di per sé evidenti soltanto per i dotti, che conoscono le nozioni dei termini, mentre le persone comuni le ignorano. E in base a ciò Boezio afferma che “vi sono due tipi di nozioni comuni: uno è comune a tutti, come: se togli quantità uguali a quantità uguali” ecc., “l’altro appartiene soltanto ai più dotti, come per esempio che le realtà incorporee non sono [circoscritte] in un luogo, il che è compreso soltanto dai dotti, non dalla gente comune”, dato che la considerazione della gente comune non può trascendere l’immaginazione in modo da giungere alla nozione di realtà incorporea».

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intellectus, qui eum intueri non potest per seipsum, sed ex effectibus eius, et sic ad cognoscendum ipsum esse ratiocinando perducitur16.

Un testo dalla Summa theologiae:

Ad primum ergo dicendum quod nihil prohibet id quod est certius secundum naturam, esse quoad nos minus certum, propter debilitatem intellectus nostri, qui se habet ad manifestissima naturae, sicut oculus noctuae ad lumen solis, sicut dicitur in II Metaphysica. Unde dubitatio quae accidit in aliquibus circa articulos fidei, non est propter incertitudinem rei, sed propter debilitatem intellectus humani. Et tamen minimum quod potest haberi de cognitione rerum altissimarum, desiderabilius est quam certissima cognitio quae habetur de minimis rebus, ut dicitur in XI De animalibus17.

Le cose che sono più evidenti in se stesse non lo sono sempre per noi. Da questo si segue che

l’ordine della nostra conoscenza deva cominciare da ciò che è più evidente - più vicino - a noi,

anche se non è più evidente in se stesso: passiamo da ciò che è più evidente per noi a ciò che è

più evidente secondo la propria natura. Così lo afferma San Tommaso commentando Aristotele, in

un testo che abbiamo già citato:

Ad manifestationem autem primae propositionis, inducit quod non sunt eadem magis nota nobis et secundum naturam; sed illa quae sunt magis nota secundum naturam, sunt minus nota secundum nos. Et quia iste est naturalis modus sive ordo addiscendi, ut veniatur a nobis notis ad ignota nobis; inde est quod oportet nos devenire ex notioribus nobis ad notiora naturae18.

Ed è per questo che noi arriviamo all’esistenza di Dio partendo dai suoi effetti, che sono per noi

più evidenti:

Respondeo dicendum quod duplex est demonstratio. Una quae est per causam, et dicitur propter quid, et haec est per priora simpliciter. Alia est per effectum, et dicitur demonstratio quia, et haec est per ea quae sunt priora quoad nos, cum enim effectus aliquis nobis est manifestior quam sua causa, per effectum procedimus ad cognitionem causae. Ex quolibet autem effectu potest demonstrari propriam causam eius esse (si tamen eius effectus sint magis noti quoad nos), quia, cum effectus dependeant a causa, posito effectu necesse est causam praeexistere. Unde Deum esse, secundum quod non est per se notum quoad nos, demonstrabile est per effectus nobis notos

19.

Da questo si segue che la conoscenza in certo senso sia «difficile», come l’afferma anche San

Tommaso nel commento alla Metafisica:

Ubi similiter considerandum est, quod in omnibus, quae consistunt in quadam habitudine unius ad alterum, potest impedimentum dupliciter vel ex uno vel ex alio accidere: sicut si lignum non

16 San TOMMASO D’AQUINO, Summa contra gentiles I, c. 11: «Avviene così che il nostro intelletto rispetto ai principi più noti delle cose si trovi nella condizione del pipistrello rispetto al sole, come si esprime Aristotele. […] E neppure segue, come pretendeva il secondo argomento che, ammettendo la possibilità di pensare Dio come non esistente, si possa pensare qualche cosa come superiore a Dio. Infatti la possibilità di pensarlo come non esistente non deriva dall’imperfezione, o dalla mancata certezza della sua esistenza, che in sé è evidentissima; bensì dalla debolezza del nostro intelletto, che è incapace di conoscere Dio in se stesso, ma deve farlo attraverso i suoi effetti, e giungere così a conoscerne l’esistenza mediante il ragionamento». 17 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 1, a. 5 ad 1: «Nulla impedisce che quanto di sua natura è più certo sia meno certo relativamente a noi, a motivo della debolezza della nostra mente la quale, al dire di Aristotele [Met. 2, 1], "dinanzi alle cose più evidenti della natura è come l'occhio della civetta davanti al sole". Quindi il dubitare di alcuni circa gli articoli di fede non deriva dall'incertezza della cosa in se stessa, ma dalla debolezza del nostro intelletto. Eppure, nonostante ciò, una conoscenza minima che si possa avere delle realtà più alte è molto più desiderabile di una conoscenza certissima di quelle inferiori, come afferma il Filosofo [De part. animal. 1, 5]». 18 San TOMMASO D’AQUINO, In I Physica, lect. 1, n.7: «Per chiarire la prima proposizione, Aristotele fa vedere che non sono le stesse le cose che sono più conoscibili per noi e quelle che lo sono in senso assoluto, ma quelle che sono più manifeste secondo natura lo sono di meno rispetto a noi. E poiché il nostro modo o ordine naturale di apprendere è quello di procedere dalle cose che ci sono manifeste a quelle meno note, è necessario che noi giungiamo dalle cose che sono più note a noi alle cose che sono più note per natura». 19 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 2, a. 2, co: «i è una duplice dimostrazione. L'una procede dalla [conoscenza della] causa, ed è chiamata propter quid: e questa muove da ciò che di per sé ha una priorità ontologica. L'altra invece parte dagli effetti, ed è chiamata dimostrazione quia: e questa muove da cose che hanno una priorità solo rispetto a noi; ogni volta infatti che un effetto ci è più noto della sua causa, ci serviamo di esso per conoscere la causa. Da qualunque effetto poi si può dimostrare l'esistenza della sua causa (purché gli effetti siano a noi più noti della causa): dipendendo infatti ogni effetto dalla sua causa, posto l'effetto è necessario che preesista la causa. Quindi l'esistenza di Dio, non essendo evidente rispetto a noi, può essere dimostrata per mezzo degli effetti da noi conosciuti».

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comburatur, hoc contingit vel quia ignis est debilis, vel quia lignum non est bene combustibile; et similiter oculus impeditur a visione alicuius visibilis, aut quia est debilis aut quia visibile est tenebrosum. Sic igitur potest contingere quod veritas sit difficilis ad cognoscendum, vel propter defectum qui est in ipsis rebus, vel propter defectum qui est in intellectu nostro20.

Comunque, e se è stato già accennato nei testi citati, ci sono certe cose evidenti per tutti:

Dicitur autem aliquid per se notum dupliciter, uno modo, secundum se; alio modo, quoad nos. Secundum se quidem quaelibet propositio dicitur per se nota, cuius praedicatum est de ratione subiecti, contingit tamen quod ignoranti definitionem subiecti, talis propositio non erit per se nota. Sicut ista propositio, homo est rationale, est per se nota secundum sui naturam, quia qui dicit hominem, dicit rationale, et tamen ignoranti quid sit homo, haec propositio non est per se nota. Et inde est quod, sicut dicit Boetius, in libro De hebdomad., quaedam sunt dignitates vel propositiones per se notae communiter omnibus, et huiusmodi sunt illae propositiones quarum termini sunt omnibus noti, ut, omne totum est maius sua parte, et, quae uni et eidem sunt aequalia, sibi invicem sunt aequalia. Quaedam vero propositiones sunt per se notae solis sapientibus, qui terminos propositionum intelligunt quid significent, sicut intelligenti quod Angelus non est corpus, per se notum est quod non est circumscriptive in loco, quod non est manifestum rudibus, qui hoc non capiunt21.

Queste proposizioni evidenti per tutti saranno come una porta aperta attraverso la quale tutti

possono arrivare alla piena conoscenza della verità, anche riconoscendo che questo cammino

possa essere in certo senso «facile» all’inizio - vale a dire, riguardo alle cose più evidenti - per poi

diventare più difficile - cioè, rispetto alle cose meno evidenti:

... proverbialiter dicitur: in foribus, idest in ianuis domorum, quis delinquet? interiora enim domus difficile est scire, et circa ea facile est hominem decipi: sed sicut circa ipsum introitum domus qui omnibus patet et primo occurrit, nullus decipitur, ita etiam est in consideratione veritatis: nam ea, per quae intratur in cognitionem aliorum, nota sunt omnibus, et nullus circa ea decipitur: huiusmodi autem sunt prima principia naturaliter nota, ut non esse simul affirmare et negare, et quod omne totum est maius sua parte, et similia. Circa conclusiones vero, ad quas per huiusmodi, quasi per ianuam, intratur, contingit multoties errare. Sic igitur cognitio veritatis est facilis inquantum scilicet ad minus istud modicum, quod est principium, per se notum, per quod intratur ad veritatem, est omnibus per se notum

22.

3. Evidenza e certezza

Per finire, dobbiamo vedere quale rapporto esista tra evidenza e certezza.

È chiaro che l’evidenza fondamenta della certezza. A maggiore evidenza ci sarà più certezza.

Ecco alcuni testi nei quali si fa riferimento a questo rapporto:

20 San TOMMASO D’AQUINO, In II Metaphysica, lect. 1, n. 279: «Qui va analogamente rilevato che, in tutti gli esseri che consistono in un rapporto di uno all’altro, l’ostacolo può sorgere da due fattori, o da uno o dall’altro: ad esempio, se la legna non brucia, ciò si verifica o perché il fuoco è debole, oppure perché la legna non brucia bene; analogamente, l’occhio viene ostacolato dal vedere un oggetto visibile o perché è debole, oppure perché ciò che è visibile è avvolto dall’oscurità. Perciò, così può succedere che la verità sia difficile da conoscere: o per un ostacolo che si trovo nelle cose stesse, oppure per un difetto che c’è nella nostra intelligenza». 21 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, 94, 2, co: «Ora, una cosa può essere di per sé evidente in due modi: primo, per se stessa; secondo, rispetto a noi. È evidente per se stessa infatti qualsiasi proposizione in cui il predicato rientra nella nozione del soggetto: tuttavia per chi ignora la definizione del soggetto tale proposizione non è di per sé evidente. La proposizione, p. es.: l'uomo è un essere razionale è di per sé evidente nella sua natura, poiché chi dice uomo dice essere razionale; ma per chi ignora che cosa è l'uomo tale proposizione non è di per sé evidente. Quindi, come nota Boezio [De hebdom.], alcune formule o proposizioni sono universalmente note a tutti; e sono quelle i cui termini sono conosciuti da tutti. P. es.: il tutto è sempre maggiore di una sua parte; cose uguali a una terza sono uguali tra loro. Ci sono invece delle proposizioni che sono di per sé evidenti per i soli sapienti, i quali ne comprendono i termini: per chi capisce, p. es., che un angelo non è un corpo, è di per sé evidente che esso non si trova circoscritto in un luogo; ma ciò non è evidente per un indotto, il quale non lo comprende». 22 San TOMMASO D’AQUINO, In II Metaphysica, lect. 1, n. 277: «… il proverbio recita: “negli ingressi”, ossia nella parte aperta delle case, “chi si sbaglierebbe?”. Infatti, è difficile conoscere quanto si trova all’interno di una casa; e su ciò è facile che l’uomo si sbagli. Ma come sull’ingresso stesso della casa, che è visibile da tutti ed è la prima cosa che si incontra, nessuno s’inganna, così si verifica pure nell’analisi della verità. Infatti, gli esseri tramite i quali si entra nella conoscenza di altri sono noti a tutti, e nessuno si sbaglia su di essi: sono tali i primi principi noti da natura, come ad esempio quello secondo cui non si può contemporaneamente affermare e negare che una cosa esiste; e quello per il quale ogni tutto è più grande di una sua parte, e simili. Invece, nell’ambito delle conclusioni, nelle quali si entra tramite essi come attraverso una porta, l’errore si verifica con frequenza. Quindi, da questo punto di vista, la conoscenza della verità è facile poiché, almeno, questo poco che è il principio noto di per sé con cui si entra nella verità è da tutti conosciuto di per sé».

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Sicut enim scientia importat certitudinem cognitionis per demonstrationem acquisitam, ita intellectus importat certitudinem cognitionis absque demonstratione; non propter defectum demonstrationis, sed quia id de quo certitudo habetur, est indemonstrabile et per se notum. Et ideo ad hoc exponendum, subdit quod scientia demonstrativa nihil aliud est quam certa existimatio immediatae propositionis. Quod autem intellectus sit scientia indemonstrabilis patet ex hoc ipso quod dicit quod est principium scientiae. Cum enim scientia sit necessariorum, et necessaria non concludantur nisi ex necessariis, ut supra probatum est, necesse est quod intellectus, qui est principium scientiae, non sit contingentium23.

Certissima autem cognitio alicuius esse non potest nisi vel illud sit per se notum, sicut nobis prima demonstrationis principia; vel in ea quae per se nota sunt resolvatur, qualiter nobis certissima est demonstrationis conclusio. Id autem quod de Deo nobis per fidem tenendum proponitur, non potest esse homini per se notum: cum facultatem humani intellectus excedat. Oportuit igitur hoc homini manifestari per eum cui sit per se notum. Et quamvis omnibus divinam essentiam videntibus sit quodammodo per se notum, tamen ad certissimam cognitionem habendam oportuit reductionem fieri in primum huius cognitionis principium, scilicet in Deum, cui est naturaliter per se notum, et a quo omnibus innotescit: sicut et certitudo scientiae non habetur nisi per resolutionem in prima principia indemonstrabilia

24.

Non enim posset esse aliqua firmitas vel certitudo in his quae sunt a principiis, nisi ipsa principia essent firmiter stabilita. Et inde est quod omnia mutabilia reducuntur ad aliquid primum immobile. Inde etiam est quod omnis speculativa cognitio derivatur ab aliqua certissima cognitione circa quam error esse non potest, quae est cognitio primorum principiorum universalium, ad quae omnia illa cognita examinantur, et ex quibus omne verum approbatur, et omne falsum respuitur

25.

Respondeo dicendum ad primam quaestionem, quod cum voluntas sequatur rationem, processus voluntatis proportionatur processui rationis. Ratio autem habet aliquod principium per se notum, ad quod resolvendo, reducit illud cujus cognitionem quaerit: et quando ad illud reducere potuerit, habet certitudinem de re, et sententiat quod ita est; sed antequam ad illud principium reducere possit, movetur aliquibus verisimilitudinibus: et si quidem rationibus illis detineatur tamquam certis, decipitur et errat; si autem illis non detineatur, tunc habet opinionem unius partis cum formidine alterius26.

La causa di questa «fondazione» della certezza da parte dell’evidenza, è che l’intelletto deve

assentire necessariamente, naturalmente, a ciò che è evidente:

Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex

23 San TOMMASO D’AQUINO, In I Post Analyt., lect. 44, n. 3. 24 San TOMMASO D’AQUINO, Summa contra gentiles , IV, c. 54: «Ora, la conoscenza certissima di una cosa si può avere, o perché questo oggetto è per sé noto, come lo sono per noi i primi principi della dimostrazione; oppure perché si rivolge negli oggetti per sé noti, come è certissima per noi la conclusione di un argomento apodittico. Ma quanto viene a noi proposto come oggetto di fede non può essere per sé noto a noi uomini, poiché supera la facoltà dell’intelletto umano. Quindi bisognava che ciò fosse manifestato all’uomo mediante colui al quale è per sé noto. Ebbene, pur essendo ciò per sé noto in qualche modo a tutti coloro che vedono l’essenza divina, tuttavia per averne una conoscenza certissima bisognava risalire al primo principio di tale conoscenza, e cioè a Dio, al quale è per sé noto in forza della sua natura, e da cui viene manifestato a tutti: ossia come la certezza della scienza non si ha che mediante la risoluzione delle sue conclusioni nei primi principi indimostrabili». 25 San TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 16, a. 2 co: «Ed è per questo che tutte le realtà mutevoli si riducono a qualche realtà prima immobile; ed è pure per questo che ogni conoscenza speculativa deriva da una qualche conoscenza certissima intorno alla quale non vi può essere errore, e precisamente dalla conoscenza dei primi principi universali, alla luce dei quali vengono esaminate tutte le altre realtà conosciute e in base ai quali ogni cosa vera è approvata e ogni cosa falsa respinta». 26 San TOMMASO D’AQUINO, In III Sententiarum, d. 17, q. 1, a. 2, sol 1: «Dato che la volontà segue la ragione, il processo della volontà è proporzionato al processo della ragione. Ora, la ragione possiede un principio che è noto di per sé, risalendo al quale essa ricava ciò di cui cerca la conoscenza; quando è giunta a riceverlo, ha la certezza della cosa e formula il giudizio che è così. Prima però di potersi rifare a tale principio è spinta da alcune verosimiglianze: se queste la avvincono come se fossero delle certezze, essa viene tratta in inganno e a volte sbaglia, se invece non rimane imprigionata da quelle parvenze di verità, allora ha l’opinione di una parte con la paura dell’altra».

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necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam27.

Actus autem proprius fidei, etsi sit in ordine ad voluntatem, ut dictum est, tamen est in intellectu sicut in subiecto, quia obiectum eius est verum, quod proprie pertinet ad intellectum. In actibus autem intellectus differentia est. Quidam enim sunt habitus intellectus, qui important omnimodam certitudinem ad completam visionem eius quod intelligitur, sicut patet de intellectu, qui est habitus primorum principiorum, quia, qui intelligit quod omne totum est maius sua parte, videt hoc, et est certus. Hoc etiam facit habitus scientiae, et sic talis habitus intellectus et scientia, faciunt certitudinem et visionem. Quaedam vero alia sunt, quae neutrum faciunt, scilicet dubitatio et opinio. Fides vero tenet medium inter ista, quia dictum est quod fides facit assensum in intellectu, quod potest esse dupliciter. Uno modo quia intellectus movetur ad assentiendum ex evidentia obiecti, quod est per se cognoscibile, sicut in habitu principiorum, vel cognitum per aliud quod est per se cognoscibile, sicut patet in scientia astronomiae. Alio modo assentit alicui non propter evidentiam obiecti a quo non movetur sufficienter; unde non est certus, sed vel dubitat, scilicet quando non plus habet rationem ad unam partem, quam ad aliam, vel opinatur, si habet quidem rationem ad unam partem, non omnino quietantem ipsum, sed cum formidine ad oppositum. Fides autem neutrum horum dicit simpliciter, quia nec cum primis est sibi evidens, nec cum duobus ultimis dubitat, sed determinatur ad alteram partem, cum quadam certitudine et firma adhaesione per quamdam electionem voluntariam28.

Sembra che possiamo dire, per concludere, che la evidenza della cosa, quando presente, si

impone all’intelletto in modo tale di produrre l’assenso, certo e forte, dal quale si segue la

adeguazione propria della conoscenza che è la verità dell’intelletto umano.

27 San TOMMASO D’AQUINO, In Perihermeneias, lect. 14, n. 199: «Ora, c’è un vero che è noto di per sé: tali sono i primi principi indimostrabili, cui l’intelletto assente necessariamente; ci sono poi dei veri noti non di per sé, bensì in forza di altri. Questi [ultimi] possono essere in due modi: alcuni infatti seguono necessariamente dai principi, al punto cioè che non possono essere falsi, se i principi sono veri: tali sono tutte le conclusioni delle dimostrazioni. E a questi veri l’intelletto assente necessariamente, dopo che ha colto l’ordine di essi ai principi, ma non prima. Altri veri invece sono tali da non seguire necessariamente dai principi, nel senso cioè che potrebbero essere falsi pur essendo veri i principi; tali sono le cose opinabili, alle quali l’intelletto non assente necessariamente, anche se per un qualche motivo viene a essere più incline a una parte che all’altra». 28 San TOMMASO D’AQUINO, Super ad Hebreos, c. 11, lect. 1, n. 558: «Ora, l’atto di fede, benché dica ordine alla volontà, come è stato detto, tuttavia risiede nell’intelletto quale suo soggetto, poiché il suo oggetto è il vero, che propriamente appartiene all’intelletto. Ma negli atti dell’intelletto c’è differenza. Infatti ci sono alcuni atti dell’intelletto che comportano una assoluta certezza riguardo alla completa visione di ciò che è conosciuto, come risulta nell’intelletto che è l’abito dei primi principi, pioché chi conosce che il tutto è più grande di una parte vede ciò e ne è certo. Questo lo fa anche l’abito della scienza, e così questi due abiti dell’intelletto e della scienza danno la certezza e la visione. Mentre ci sono altri abiti che non danno né la certezza né la visione, e cioè il dubbio e l’opinione. Ora, la fede occupa una via mediana tra questi (abiti), poiché è stato detto che la fede opera l’assenso nell’intelletto: il che può accadere in due modi. Secondo un modo, l’intelletto è mosso all’assenso dall’evidenza dell’oggetto, che è conoscibile per se stesso come nell’abito dei primi principi, oppure in quanto è conosciuto mediante un’altra cosa che è conoscibile per se stessa, come accade nella scienza dell’astronomia. Secondo un altro modo, dà l’assenso a qualche cosa non per l’evidenza dell’oggetto da cui sia mosso sufficientemente, per cui non è certo, ma o dubita, come quando non ha più ragione da un parte, ma, non acquietandosi interamente, ha il timore del contrario. In senso assoluto la fede non dice nessuno di questi abiti, infatti non condivide con i primi la chiara evidenza, né con gli ultimi il dubbio; ma è determinata verso una parte, con una qualche certezza e una ferma adesione grazie a una scelta volontaria».

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X. L’ERRORE

Schema 1. Nozione 2. Soggetto 3. Cause

Prima di finire questa prima parte del nostro corso di gnoseologia dobbiamo affrontare uno

scoglio che sembra possa scuotere le fondamenta dell’edificio che vogliamo costruire, e questo è

l’errore. Così com’è evidente l’esistenza della verità, sembra essere evidente l’esistenza

dell’errore. Chi di noi può negare che abbia sbagliato almeno alcuna volta nella sua vita? Chi non

ha avuto delle «certezze false»? Non possiamo, quindi, andare avanti ovviando questo problema.

Come lo abbiamo fatto nelle lezioni precedenti, il nostro intento sarà quello di conoscere, o

meglio ancora di presentare sommariamente, il pensiero di San Tommaso d’Aquino riguardo a

questo tema.

Tre sono i punti di riferimenti principali che prenderemo in considerazione: due testi della prima

pars della Somma theologiae (l’intera questione 17 - «La falsità» - e l’articolo 6 della questione 85 -

«Se l’intelletto possa ingannarsi» -), e uno della Questione disputata «De Veritate» (questione 1,

articolo 12: «Se vi sia falsità nell’intelletto»).

Studieremo tre punti: la nozione d’errore o falsità, il suo soggeto, e le sue cause.

1. Nozione

Cominciamo, quindi, domandandoci che cosa è l’errore o falsità?

Afferma San Tommaso che che «verum» e «falsum» si oppongono1, e che si oppongono come

contrari e non come si possono oppore la affermazione e la negazione2.

Verità, come abbiamo già studiato, dice «adeguazione». Nè la negazione, nè la privazione

dicono o determinano qualcosa:

Per convincersene si osservi che la negazione non comporta cosa alcuna, né viene a determinare un dato soggetto; e per questo motivo essa può venire attribuita sia all'ente che al non ente, come p. es. il non vedere e il non essere seduto. E neppure la privazione comporta qualcosa, ma determina un soggetto: poiché essa, al dire di Aristotele [Met. 4, 2], è una negazione in un soggetto: cieco, p. es., non si dice se non di chi è nato per vedere3.

Perciò nè la negazione nella privazione sono contrari alla verità. Invece sì il falso, perché

«falsum aliquid ponit», afferma San Tommaso. Così precisa San Tommaso la sua nozione di falso:

Ora, il falso comporta qualcosa. La falsità infatti esiste, al dire di Aristotele [Met. 4, 7], perché una data cosa viene detta o creduta essere ciò che non è, o non essere ciò che è. E in realtà, come il vero

1 Cfr. San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 17, a. 1, co. 2 Cfr. Ivi, a. 4, co. 3 Ibidem: «Ad cuius evidentiam, sciendum est quod negatio neque ponit aliquid, neque determinat sibi aliquod subiectum. Et propter hoc, potest dici tam de ente quam de non ente; sicut non videns, et non sedens. Privatio autem non ponit aliquid, sed determinat sibi subiectum. Est enim negatio in subiecto, ut dicitur IV Metaphys., caecum enim non dicitur nisi de eo quod est natum videre».

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comporta un concetto adeguato alla cosa, così il falso comporta un concetto non adeguato alla cosa stessa4.

L’errore o falsità non è, quindi, la semplice negazione o privazione di verità, ma l’affermare -

dire - che è qualcosa che in realtà non è, ovvero dire che non è ciò che in realtà sì è. Perciò, nel

commento alla Metafisica, San Tommaso afferma: «il falso si riferisce al non essere»5. Il seguente

testo può aiutare a vedere meglio questa concezione del «falsum»:

... il vero si da quando si dice essere ciò che è, e non essere ciò che non è; il falso invece sarà, per eccesso, dire essere ciò che non è; o per difetto, quando si dice non essere ciò che è6.

2. Soggetto

Ci domandiamo adesso, quale sia il soggetto dell’errore. In altre parole, dove o quando ci può

essere l’errore? C’è falsità nelle cose? E nei sensi? E nell’intelletto? Ci può essere errore rispetto

ai primi principi?

L’argomentazione di San Tommaso poggia su due principi.

Il primo è che siccome il vero e il falso si oppongono, si troverà propriamente il falso li dove si

trova propriamente la verità:

Siccome il vero e il falso sono opposti tra loro, e d'altra parte gli opposti riguardano sempre un medesimo soggetto, è necessario anzitutto ricercare la falsità dove si trova formalmente la verità, cioè nell'intelletto7.

Il secondo principio è che una potenza non «sbaglia» riguardo a ciò che costituisce il suo

oggetto proprio. Per esempio:

Infatti ciascuna potenza è ordinata al proprio oggetto per se stessa e quindi, come tale, ha sempre un identico modo di comportarsi. Quindi una potenza, finché perdura, non può fallire il suo giudizio intorno al proprio oggetto8.

Come quindi le realtà naturali non possono perdere l'essere che hanno in forza della loro forma, ma possono perdere certe qualità accidentali o complementari - p. es. l’uomo potrà non avere più i due piedi, ma non cessare di essere uomo -, così la potenza conoscitiva non potrà mai venir meno nella conoscenza relativamente all’oggetto dalla cui immagine è informata, ma lo potrà rispetto a quei dati che lo accompagnano o gli si aggiungono9.

Da questi due principi possiamo già anticipare due conclusioni: l’errore o falsità si troverà «per

prius» nel giudizio; se ci sarà qualche errore in una cosa o potenza rispetto al suo oggetto proprio,

questo si darà non «per se», ma «per accidens».

4 Ibidem: «Est enim falsum, ut dicit philosophus, IV Metaphys., ex eo quod dicitur vel videtur aliquid esse quod non est, vel non esse quod est. Sicut enim verum ponit acceptionem adaequatam rei, ita falsum [ponit] acceptionem rei non adaequatam». 5 San TOMMASO D’AQUINO, In V Metaphysica, lect. 22, n. 1136: «falsum pertinet ad non ens». 6 San TOMMASO D’AQUINO, Questiones disputatae De Virtutibus, q. 1, a. 13, co: «verum est cum dicitur esse quod est, et non esse quod non est; falsum autem secundum excessum erit, ut dicitur esse quod non est; secundum defectum vero, cum dicitur non esse quod est». 7 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 17, a. 1, co: «Respondeo dicendum quod, cum verum et falsum opponantur; opposita autem sunt circa idem; necesse est ut ibi prius quaeratur falsitas, ubi primo veritas invenitur, hoc est in intellectu». 8 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 85, a. 6, co: «Quia ad proprium obiectum unaquaeque potentia per se ordinatur, secundum quod ipsa. Quae autem sunt huiusmodi, semper eodem modo se habent. Unde manente potentia, non deficit eius iudicium circa proprium obiectum». 9 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 17, a. 3, co: «... sicut res naturalis non deficit ab esse quod sibi competit secundum suam formam, potest autem deficere ab aliquibus accidentalibus vel consequentibus; sicut homo ab hoc quod est habere duos pedes, non autem ab hoc quod est esse hominem, ita virtus cognoscitiva non deficit in cognoscendo respectu illius rei cuius similitudine informatur; potest autem deficere circa aliquid consequens ad ipsam, vel accidens ei».

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Prima di analizzare l’errore dell’intelletto, accenniamo brevemente come possa trovarsi l’errore

sia nelle cose, sia nei sensi.

Le cose si dicono false o perché non sono o perché apparentano qualcosa che non sono10. Per

esempio, se diciamo che il diametro si può misurare con i lati del quadrato, ci troviamo davanti ad

un «falso impossibile», che non può essere e non sarà mai, e quindi sarà sempre falso. Un altro

esempio è quello dell’oro che si dice falso perché ha qualche somiglianza con l’oro vero.

I sensi, rispetto ai loro sensibili propri, non possono sbagliare - perché questi costituiscono il

loro oggetto proprio - nonché ci sia qualche difetto dell’organo. Possono sbagliare sì rispetto a ciò

che implica una certa «composizione», come il caso dell’apprensione dei sensibili comuni o dei

sensibili per accidens:

I sensi infatti non si ingannano circa l'oggetto proprio: la vista, p. es., non si inganna sui colori; se non forse per accidens, cioè per un impedimento casuale dell'organo. Come il gusto dei febbricitanti giudica amare le cose dolci perché la lingua è impregnata di umori cattivi. Sui sensibili comuni invece, ossia nel giudicare della grandezza, della figura ecc., il senso si può ingannare: come quando giudica, p. es., che il sole ha il diametro di un piede, mentre è più grande della terra. E si inganna anche più facilmente intorno ai sensibili per accidens, quando p. es. giudica che il fiele sia miele per la somiglianza del colore11.

Allora, come si dà l’errore nell’intelletto?

L’errore si troverà nell’intelletto che compone e divide. Nell’intelletto che conosce le quiddità ci

potrà essere l’errore soltanto per accidens, in quanto in questa conoscenza venga implicita

qualche composizione:

Poiché dunque la falsità si trova propriamente nell'intelletto solo quando questo unisce dei concetti [nel giudizio], essa può trovarsi accidentalmente anche nella semplice apprensione, mediante la quale l'intelletto conosce le essenze, quando vi si nascondono delle composizioni di concetti12.

Consideriamo questo «intelletto che conosce le quiddità».

L’intelletto non può sbagliare rispetto al suo oggetto proprio. Quale è l’oggetto proprio

dell’intelletto? «L'oggetto proprio dell'intelletto è la quiddità o essenza delle cose»13, risponde San

Tommaso. Quindi, rispetto a queste quiddità, l’intelletto è sempre vero: «per cui, come il senso

riguardo ai sensibili propri è sempre vero, così anche l’intelletto quando conosce l’essenze, come

dice Aristotele»14. L’intelletto può fallire soltanto «sui dati annessi alla quiddità»15, e questo per

accidens.

10 Cfr. San TOMMASO D’AQUINO, In V Metaphysica, lect. 22, n. 1128. 11 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 85, a. 6, co: «Sensus enim circa proprium obiectum non decipitur, sicut visus circa colorem; nisi forte per accidens, ex impedimento circa organum contingente, sicut cum gustus febrientium dulcia iudicat amara, propter hoc quod lingua malis humoribus est repleta. Circa sensibilia vero communia decipitur sensus, sicut in diiudicando de magnitudine vel figura; ut cum iudicat solem esse pedalem, qui tamen est maior terra. Et multo magis decipitur circa sensibilia per accidens; ut cum iudicat fel esse mel, propter coloris similitudinem». 12 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 17, a. 3, co: «Quia vero falsitas intellectus per se solum circa compositionem intellectus est, per accidens etiam in operatione intellectus qua cognoscit quod quid est, potest esse falsitas, inquantum ibi compositio intellectus admiscetur». 13 Ivi, ad 3: «Obiectum proprium intellectus est quidditas rei». 14 San TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 1, a.12: «sicut sensus sensibilium propriorum semper verus est, ita et intellectus in cognoscendo quod quid est ut dicitur in III De anima». 15 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 85, a. 6, co: «circa ea quae circumstant rei essentiam vel quidditatem».

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L’errore può darsi in due modi: quando si applica ad una cosa una definizione che non li

corresponde, o quando si tenta d’unire nella definizione due termini che non possono trovarsi mai

insieme. Vediamo alcuni testi:

Tuttavia l'intelletto si può ingannare, per accidens, sulla quiddità, quando si tratta di esseri composti: non già per causa degli organi [come nel caso dei sensi], poiché l'intelletto è una facoltà che non si serve di organi, ma a causa della composizione che si richiede per formulare una definizione. La definizione di una cosa infatti è falsa se è applicata a un’altra: la definizione del cerchio, p. es., è falsa per il triangolo. Inoltre la definizione può essere falsa in se medesima se è composta di termini incompatibili: quando, p. es., si pretende di definire qualcosa come animale razionale alato. Per cui non ci possiamo sbagliare nel caso di entità semplici, nelle cui definizioni non ci può essere composizione. Possiamo però mancare non percependo totalmente, come dice Aristotele [Met. 9, 10]16.

Tuttavia accidentalmente si può avere la falsità, in quanto cioè l’intelletto compone o divide falsamente, il che avviene in duplice modo: o in quanto esso attribuisce la definizione di una cosa a un’altra cosa, per es., nel caso in cui concepisce «animale razionale mortale» come definizione dell’asino, oppure in quanto congiunge delle parti della definizione che non possono essere congiunte, per es. nel caso in cui concepisse come definizione dell’asino «animale irrazionale immortale»17.

E ciò può avvenire in due modi: o perché l’intelletto attribuisce a una cosa la definizione di un’altra, p. es. se attribuisce all’uomo la definizione del cerchio, e in questo caso la definizione di una cosa diventa falsa se applicata a un’altra; oppure perché in una definizione unisce delle parti che non possono stare insieme: e in tal caso la definizione è falsa non solo relativamente a quella data cosa, ma in se stessa. Quando, p. es., l’intelletto forma questa definizione: animale razionale quadrupede, nel definire così è falso, poiché è falso quando esprime [in un giudizio] questa unione di concetti: un certo animale razionale è quadrupede. Per cui quando si tratta di conoscere delle quiddità o nature semplici l'intelletto non può essere falso, ma o è vero, oppure non conosce assolutamente nulla18.

Resta ancora una domanda da fare: ci può essere errore rispetto ai primi principi?

La conoscenza dei principi segue immediatamente la conoscenza delle quiddità:

In un primo modo in quanto si riferisce unicamente a ciò che dà origine al suo nome, e così si dice propriamente che intendiamo quando apprendiamo l’essenza delle cose, o quando intendiamo ciò che immediatamente è noto all’intelletto una volta che sono conosciute le essenze delle cose, come i primi principi, che noi conosciamo una volta conosciuti i termini, per cui si dice anche che l’intelletto è l’abito dei principi19.

Quindi, siccome l’intelletto non può sbagliare per se quando conosce le quiddità, neanche può

sbagliare nella conoscenza dei principi. Ecco alcuni testi, per chiudere questo punto:

Come l'intelletto non subisce inganno circa la natura delle cose così, per la stessa ragione, è sempre retto relativamente ai primi princìpi. Infatti i princìpi di per sé evidenti sono quelli che vengono

16 Ibidem: «Per accidens tamen contingit intellectum decipi circa quod quid est in rebus compositis; non ex parte organi, quia intellectus non est virtus utens organo; sed ex parte compositionis intervenientis circa definitionem, dum vel definitio unius rei est falsa de alia, sicut definitio circuli de triangulo, vel dum aliqua definitio in seipsa est falsa, implicans compositionem impossibilium, ut si accipiatur hoc ut definitio alicuius rei, animal rationale alatum. Unde in rebus simplicibus, in quarum definitionibus compositio intervenire non potest, non possumus decipi; sed deficimus in totaliter non attingendo, sicut dicitur in IX Metaphys.». 17 San TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 1, a.12. «Sed tamen per accidens potest ibi falsitas accidere, in quantum, videlicet, intellectus falso componit et dividit; quod dupliciter contingit: vel in quantum definitionem unius attribuit alteri, ut si animal rationale mortale conciperet quasi definitionem asini; vel in quantum coniungit partes definitionis ad invicem, quae coniungi non possunt, ut si conciperet quasi definitionem asini animal irrationale immortale; haec enim est falsa: aliquod animal irrationale est immortale». 18 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 17, a. 3, co: «Quod potest esse dupliciter. Uno modo, secundum quod intellectus definitionem unius attribuit alteri; ut si definitionem circuli attribuat homini. Unde definitio unius rei est falsa de altera. Alio modo, secundum quod partes definitionis componit ad invicem, quae simul sociari non possunt, sic enim definitio non est solum falsa respectu alicuius rei, sed est falsa in se. Ut si formet talem definitionem, animal rationale quadrupes, falsus est intellectus sic definiendo, propterea quod falsus est in formando hanc compositionem, aliquod animal rationale est quadrupes. Et propter hoc, in cognoscendo quidditates simplices non potest esse intellectus falsus, sed vel est verus, vel totaliter nihil intelligit». 19 San TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 1, a.12: «Uno modo secundum quod se habet ad hoc tantum a quo primo nomen impositum fuit; et sic dicimur proprie intelligere cum apprehendimus quidditatem rerum, vel cum intelligimus illa quae statim nota sunt intellectui notis rerum quidditatibus, sicut sunt prima principia, quae cognoscimus dum terminos cognoscimus; unde et intellectus habitus principiorum dicitur».

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conosciuti non appena ne abbiamo compresi i termini, dato che il loro predicato è incluso nella definizione del soggetto20.

Di conseguenza non può errare neppure a proposito di quelle proposizioni che si conoscono appena conosciuto il valore dei termini, come nel caso dei primi princìpi: dai quali poi deriva infallibilità di verità e certezza scientifica alle stesse conclusioni21.

E così è chiaro che la definizione non può essere falsa se non in quanto implica un’affermazione falsa: questo duplice modo di falsità è trattato nel libro V della Metafisica. Similmente anche nei primi principi l’intelletto in nessun modo si può ingannare22.

3. Cause

Riassumendo quanto si è detto in questa lezione, cerchiamo di mettere insieme le possibili

cause degli errori della nostra conoscenza.

San Tommaso, commentando la Metafisica d’Aristotele, spiega in quale senso si possa

affermare che esista l’«uomo falso». Falso è l’uomo, dice San Tommaso, che sceglie e produce

opinioni false. Se seguiamo leggendo, troviamo un’affermazione molto interessante: «Così, colui

che dice il falso volontariamente, pur essendo moralmente peggiore, tuttavia è più intelligente di

chi crede dire il vero, dicendo involontariamente il falso»23. Quindi, l’uomo può dire il falso

volontariamente o involontariamente. In modo analogo, sembra che si possa dire che l’uomo

possa cadare nell’errore, a volte «involontariamente», a volte con una certa «volontarietà».

Per affermare che la volontà può esercitare un certo influsso sulla nostra conoscenza, basti

ricordare quanto detto nelle lezioni precedenti sulle cause dell’assenso, che possono essere due:

l’evidenza dell’oggetto, o la stessa volontà in quanto può muovere tutte l’altre potenze.

L’errore «involontario» può venire sia dal confondere le cose che esternamente si somigliano, o

dalla corruzione degli organi di senso - si ricordi che la nostra intelligenza nello stato attuale opera

sempre in dipendenza della sensibilità -, o da sbagliate «composizioni» - sia a livello sensitivo che

intellettuale.

C’è ancora un testo di San Tommaso, nel quale il santo sembra negare l’infalilibilità della

conoscenza dei primi principi, ed è il seguente:

E ciò è evidente sia in campo speculativo che in campo pratico. Come quindi in campo speculativo l'errore circa i princìpi noti per natura è quello più grave e vergognoso, così in campo pratico l'agire contro ciò che è secondo la natura è il peccato più grave e più turpe24.

20 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 17, a. 3, ad 2: «Ad secundum dicendum quod intellectus semper est rectus, secundum quod intellectus est principiorum, circa quae non decipitur, ex eadem causa qua non decipitur circa quod quid est. Nam principia per se nota sunt illa quae statim, intellectis terminis, cognoscuntur, ex eo quod praedicatum ponitur in definitione subiecti». 21 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 85, a. 6, co: «Et propter hoc etiam circa illas propositiones errare non potest, quae statim cognoscuntur cognita terminorum quidditate, sicut accidit circa prima principia, ex quibus etiam accidit infallibilitas veritatis, secundum certitudinem scientiae, circa conclusiones». 22 San TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 1, a.12: «Et sic patet quod definitio non potest esse falsa, nisi in quantum implicat affirmationem falsam. Hic autem duplex modus falsitatis tangitur in V Metaph.. Similiter nec in primis principiis intellectus ullo modo decipitur». 23 San TOMMASO D’AQUINO, In V Metaphysica, lect. 22, n. 1138: «Sicut ille qui dicit falsum voluntarie, licet sit peior secundum morem, est tamen intelligentior eo qui credit se verum dicere, cum falsum dicat non voluntarie». 24 San TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 154, a. 12 co: «Et hoc apparet tam in speculativis quam in operativis. Et ideo, sicut in speculativis error circa ea quorum cognitio est homini naturaliter indita, est gravissimus et turpissimus; ita in agendis agere contra ea quae sunt secundum naturam determinata, est gravissimum et turpissimum».

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Come mai, dopo aver affermato con tanta forza l’evidenza e conoscibilità dei primi principi, se

possa ammettere la possibilità di sbagliare rispetto ad essi?

Ci sembra che per rispondere a questa «obiezione» possiamo far uso di quanto si è detto

sull’influsso della volontà nella conoscenza. Il legno non si brucia se umido, o se ancora verde,

diceva San Tommaso, come esempio di che l’azione di una potenza può essere impedita da

un’altra superiore. Si può dire quindi, che così come la volontà può muovere all’assenso, possa

pure impedirlo? Sembra che sì, e per affermarlo ci fondiamo nel seguente testo di San Tommaso,

nel quale si dice come l’impetto delle passioni possono ligare la ragione:

Nella conclusione del particolare da fare accade che in due modi vi sia il difetto. In un modo per la falsità dei principi in base ai quali si sillogizza: e in questo modo nella conclusione si tiene ciò che è contrario alla verità, e questo è un errore della coscienza. In un altro modo in base all’impeto delle passioni che assorbono e quasi legano il giudizio della ragione nel particolare, in modo che non consideri in atto né questo né il suo opposto, ma la volontà segue il dilettevole che il senso propone: e questo è un errore della scelta, non della coscienza25.

Insomma… La possibilità d’errare è reale. Questa però, non nega ma rafforza la nostra

convinzione di che l’essere umano possa arrivare ad una conoscenza certa della verità, perché

una possibilità per accidens, non per sé della nostra conoscenza. Questa possibilità non ci fa

rinunciare alla verità. Ci costringe però ad avanzare verso di essa con cautela, consapevoli della

possibilità di sbagliare, e di cercare di fondare, fino a dove è possible, le nostre certezze su

evidenze.

Resta adesso da studiare come si da quella conoscenza. A questo corrisponderà la seconda

parte di questo corso. In tanto, chiudiamo questa prima parte con parole di quel gran «realista»

che fu Gilbert Keith Chesterton26:

There is one sin: to call a green leaf gray, Whereat the sun in heaven shuddereth. There is one blasphemy: for death to pray, For God alone knoweth the praise of death.

There is one creed: neath no world-terror’s wing

Apples forget to grow on apple-trees. There is one thing is needful everything

The rest is vanity of vanities.

25 San TOMMASO D’AQUINO, In II Sententiarum, d. 39, q. 3, a. 2 ad 5: «Ad quintum dicendum, quod in conclusione particularis agendi dupliciter contingit esse defectum. Uno modo ex falsitate principiorum ex quibus syllogizatur; et hoc modo in conclusione tenetur id quod veritati contrarium est: et hic est error conscientiae. Alio modo ex impetu passionum absorbentium et quasi ligantium rationis judicium in particulari, ut actu non consideret nec hoc nec ejus oppositum, sed voluntas sequatur delectabile quod sensus proponit; et hic est error electionis, et non conscientiae». 26 Gilbert CHESTERTON, Ecclesiastes: «C’è un peccato che nel cielo il sole fa tremare: chiamare grigio un foglio verde…».

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INDICE GENERALE

INTRODUZIONE

1. Accenni storici

a. La filosofia e il problema della conoscenza

b. Tendenze della «scuola» tomistica

2. Il problema della conoscenza

3. Presupposti

4. Il nome di questa scienza

5. Metodo

6. Necessità dello studio della conoscenza (Critica e metafisica)

PRIMA PARTE

LE CORRENTI PRINCIPALI DELL’EPISTEMOLOGIA

I. LO SCETTICISMO

1. Nozione

2. Autori

3. Argomenti

a. Premessa

b. I «dieci tropi» di Enesidemo

c. I «cinque tropi» di Agrippa

4. Lo scetticismo metodico

II. L’EMPIRISMO

1. Nozione

2. Correnti e autori

a. I greci

b. Nominalismo

c. L’empirismo inglese

d. L’esistenzialismo

3. Gli argomenti dell’empirismo

a. Le radici cartesiane dell’associazione

- Giudizio di Fabro

- Testi di Descartes

b. La frammentazione dell’oggetto (Locke)

- Giudizio di Fabro

- Testi di Locke

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c. L’interiorità assoluta dell’oggetto come «idea» e la critica alle idee astratte (Berkeley)

- Giudizio di Fabro

- Testi di Berkeley

d. Il problema della causalità (Hume)

- Giudizio di Fabro

- Testi di Hume

III. IL RAZIONALISMO

1. Nozione

2. Autori

3. Il dualismo gnoseologico di Kant

a. Giudizio di Fabro

b. Testi di Kant

IV. L’IDEALISMO

1. Nozione

2. Autori

a. Dal razionalismo all’idealismo

b. Idealismo dialettico (Hegel)

c. Idealismo critico (Fichte)

3. L’idealismo di Hegel

a. Giudizio di Fabro

b. Testi di Hegel

V. IL REALISMO

1. Nozione

2. Autori

3. Il «Vademecum del realista principiante» di Gilson

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PARTE SECONDA

NOZIONI FONDAMENTALI

VI. LA CONOSCENZA

1. Natura della conoscenza

2. La specie

3. Forme complete del conoscere

VII. LA VERITÀ

1. Diverse posture

2. Esistenza e nozione di verità in San Tommaso

a. L’esistenza della verità è evidente

b. Aedequatio rei et intellectus

c. ...verum per prius dicitur de compositione vel divisione intellectus...

d. Unità, eternità e immutabilità della verità

3. La determinazione della verità di una proposizione

VIII. LA CERTEZZA

1. L’assenso

a. Natura

b. Cause dell’assenso

2. Certezza

a. Dubbio e opinione

b. La certezza

c. Intelletto, scienza e fede

3. Classi di certezza

IX. L’EVIDENZA

1. Nozione d’evidenza: ciò che è «per se notum»

2. Divisione dell’evidenza: «secundum se» - «quoad nos»

3. Evidenza e certezza

X. L’ERRORE

1. Nozione

2. Soggetto

3. Cause