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1 giugno 2016 6 EURO TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB MENSILE DI RELIGIONI · POLITICA · SOCIETÀ giu 2016 Uno s g uardo su ll ’Iran

Confronti giugno 2016 (parziale)

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giugno 2016

6 EUROTARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB

MENSILE DI RELIGIONI · POLITICA · SOCIETÀ

giu2016

“Uno sguardo sull’Iran”

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ANNO XLIIINUMERO 6Confronti, mensile di religioni, politica, società, è proprietà della cooperativa di lettori Com Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Nicoletta Cocretoli, Ernesto Flavio Ghizzoni (presidente), Daniela Mazzarella, Piera Rella, Stefania Sarallo (vicepresidente).

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COLLABORANO

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Giulio Ercolessi, Maria Angela Falà, Giovanni Franzoni, Pupa Garribba, Daniele Garrone, Francesco Gentiloni, Gian Mario Gillio (direttore responsabile), Svamini Hamsananda Giri, Giorgio Gomel, Laura Grassi, Bruna Iacopino, Domenico Jervolino, Maria Cristina Laurenzi, Giacoma Limentani, Franca Long, Maria Immacolata Macioti, Anna Maffei, Dafne Marzoli, Cristina Mattiello, Lidia Menapace, Adnane Mokrani, Paolo Naso, Luca Maria Negro, Silvana Nitti, Enzo Nucci, Paolo Odello, Enzo Pace,

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A QUESTO NUMERO

A. Benedetti, R. Bertoni, M. Chichi, E. Cortese, A. D’Antoni, E. Ferrero, M. Mazzoli.

FOTO/CREDITI

Michele Lipori

(copertina,

pagine 3, 10, 27,

28, 39, 44).

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Chi fosse interessato a ricevere, oltre alla copia cartacea della rivista, anche una mail con Confronti in formato pdf può scriverci a: [email protected]

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giugno 2016

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giugno 2016 le immagini

TORNANDO DALL’IRAN

Le immagini che introducono

le sezionidi questo numero e quelle

nel servizio di pagina 25 si riferiscono

al viaggio in Iran

organizzato da Confronti a fine aprile. Per restare aggiornati sulle nostre iniziative,

inviateci una mail a [email protected]

Foto di Michele Lipori

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il sommario

il sommario

giugno 2016

GLI EDITORIALI

Il segnale da Londra e l’isteria anti-islamicaPaolo Naso6

Omicidio Regeni: perché la verità non esce fuori?Elisa Ferrero7

Giornalismo e immigrazione: le parole sono importantiMartina Chichi8

Dove è finita la finanza “dal volto umano”?Marco Mazzoli9

ISERVIZI

POLITICAGrande riforma o rottamazione costituzionale?Adriano Gizzi11

Una riforma che risolve molti problemi(intervista a) Carlo Fusaro13

No alle “riformette”sì al semi-presidenzialismo(intervista a) Gianfranco Pasquino 15

STATI UNITI Gli Usa si riposizionano nello scacchiere geopoliticoAdriano Benedetti17

La politica Usa nel post-guerra fredda(intervista a) Tiziano Bonazzi19

IMMIGRAZIONEAlla ricerca di un umanesimo europeoRoberto Bertoni21

Italiani di Tunisia rimozione di una migrazioneCarmelo Russo23

IRANIran: un paese affascinante e di grandi contrastiMichele Lipori Luigi Sandri25

HEIDEGGERSe gli ebrei sono “un ostacolo da eliminare”Ottavio Di Grazia30

ORTODOSSISfide, temi e problemi del Concilio pan-ortodossoDavid Gabrielli32

CDBLe Comunità di base si interrogano sul futuroStefano Toppi35

La chiesa di base al tempo di FrancescoEnzo Cortese36

CHIESA CATTOLICAFrancesco, la Chiesa, la donna. E un ConcilioLuigi Sandri37

Un passo avantiBrunetto Salvarani38

LENOTIZIE

Armi 40

Libertà religiosa 4041

Medio Oriente4142

Islam42

Migranti 43

Protestanti 43

LERUBRICHE

In genereLe religioni sono tutte uguali (nel discriminare le donne)Stefania Sarallo45

Note dal margineI cristiani critici sono ancora in campo?Giovanni Franzoni46

LEIMMAGINI

Uno sguardo sull’IranMichele Liporicopertina

Tornando dall’IranMichele Lipori3

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giugno 2016

Dopo le unioni civili Claudio Paravati

È legge dello Stato la n. 76/2016, quella più conosciuta come “Cirinnà”, dal nome della relatrice a Palazzo Madama, la senatrice Monica Cirinnà del

Partito democratico. Oggetto della legge: le unioni civili e le convivenze di fatto. La pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale ha fatto scattare il conto alla rovescia, e ora le nuove regole in materia entrano in vigore a partire dal 5 giugno 2016.

Un passo in avanti, decisivo, nel panorama della nostra democrazia, e dei diritti e doveri concessi ai cittadini! Un risultato importante in un Paese come il nostro, abituato a trattare simili materie (famiglia, sessualità, corporeità, morte) spesso radicandole nella dimensione etico-religiosa, sul confine di qua e di là del Tevere.

Le Chiese ancora una volta non hanno fatto mancare chi il proprio apprezzamento, chi il dissenso. Una settimana dopo il voto definitivo in Parlamento (11 maggio), il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha ricordato come i temi prioritari dovrebbero essere altri: disoccupazione, incertezza del futuro per la crisi economica, calo di natalità... aggiungendo che «non si comprende come così vasta enfasi ed energia sia stata profusa per cause che rispondono non tanto a esigenze ma a schemi ideologici».

Di altro avviso le Chiese minoritarie nel Paese, tra cui quelle protestanti: «La nostra Chiesa – ha dichiarato il pastore Eugenio Bernardini, moderatore della Tavola valdese – è contenta di avere contribuito a tenere alta l’attenzione su questo tema approvando, già nel 2010, la possibilità di benedire coppie dello stesso sesso appartenenti alle nostre chiese e intenzionate a realizzare un amore profondo e responsabile. Il nostro impegno pastorale prosegue per sostenere tutte le relazioni familiari e combattere ogni forma di omofobia». Per il pastore Heiner Bludau, decano della Chiesa luterana, la nuova legge «assicura a tutte le coppie di vivere un’unione in dignità e certezza dei diritti», e il pastore battista Raffaele Volpe, presidente dell’Unione delle chiese battiste, ha dichiarato: «La legge allarga i confini dei diritti. Più riconoscimento significa più inclusione e quindi più giustizia!».

Ognuno si tenga la sua opinione. Eppure va profilandosi una volta di più una faglia tra le Chiese (e, non c’è da stupirsi, tra le religioni) in materie non solo strettamente morali, bensì fattivamente politiche. L’impegno dovrà essere quello di costruire una tribuna pubblica laica, aperta a tutte le opinioni, comprese quelle delle confessioni religiose (e di quelle non religiose), senza tuttavia che l’agone politico perda la propria natura pubblica e laica. Nell’era della post-secolarizzazione forse sarà più facile a dirsi che a farsi, ma è proprio questa una delle sfide della politica di oggi. Per esempio, dalla Cirinnà rimane fuori la questione dei figli: dovere morale, e politico, non dimenticarsene.

invito alla lettura

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giugno 2016 gli editoriali

Il segnale da Londrae l’isteria anti-islamica Paolo Naso

Sempre indeciso tra politica e buffoneria, Beppe Grillo ha

accolto l’elezione a sindaco di Londra di Sadiq Khan con una delle battute più infelici del suo repertorio: «Voglio vedere quando si farà saltare in aria a Westmister». Razzismo di borgata più che “British humor”, ma ogni occasione è buona per conquistare un titolo e spingere i candidati pentastellati in corsa alle amministrative.

Ma oltre che cattiva comicità, quella di Grillo è anche pessima politica: le sue antenne non colgono la grande novità che arriva da Londra, e cioè dalla capitale di un paese europeo da cui potrebbe partire il colpo letale all’Unione dei 28 stati. O, all’opposto, una scossa salutare perché l’Ue possa recuperare credibilità, energie, visione. Khan è un avvocato di origine pakistana, nato e cresciuto nelle case popolari che abbiamo imparato a conoscere nei film di Ken Loach o in cult movies come East is East o My beautiful laundrette; istruito e formato grazie alle borse di quel welfare britannico che per almeno tre decenni

ha garantito un efficiente ascensore sociale ai figli degli immigrati di prima generazione. Non solo. Il nuovo sindaco

di Londra è l’espressione più tipica del militante laburista che, iniziando ad impegnarsi nel quartiere in cui vive, vent’anni dopo si trova a essere sindaco di una metropoli europea, trascinato da un partito di massa che lo ha formato, selezionato, candidato e sorretto, secondo lo schema classico di quella “vecchia politica” rottamata dai personalismi antidemocratici. Khan è quindi il frutto maturo di quel multiculturalismo che per anni ha costituito la strategia con la quale il Regno Unito ha cercato di gestire la complessità etnica, religiosa e sociale derivata dalla massiccia presenza di immigrati provenienti dalle ex colonie di sua maestà. Oggi vediamo più netti i limiti di quel modello, incapace di trasformare la multiculturalità in interculturalità, il rispetto dei vari gruppi e delle loro tradizioni in un pluralismo dinamico e fecondo. Ma resta aperta la domanda se quel modello fosse davvero peggiore di quello assimilazionista che, nella pretesa di uniformare tradizioni e stili di vita, ha creato ghetti e discriminazioni che hanno generato un aggressivo disagio sociale. Almeno il deprecato multiculturalismo anglosassone ha “riconosciuto” soggetti e comunità, cogliendone le potenzialità e valorizzandone il patrimonio sociale di cultura, tradizioni, modelli educativi, solidarismo.Dietro questa elezione, quindi, c’è molto di più di una bella storia di emancipazione personale: c’è un pezzo della storia inglese in materia di immigrazione e integrazione. Peccato che tanti analisti non se ne siano accorti e del neo-sindaco di

Londra si siano limitati a sottolineare che è musulmano. Poco importa che, prima di questo e insieme a questo, Khan sia anche un figlio di immigrati, avvocato, militante per i diritti umani, laburista... Lo stigma che conta è che è musulmano, che forse legge il Corano e si immagina preghi cinque volte al giorno. Questa assolutizzazione del tratto islamico sta diventando una vera nevrosi isterica, in Europa come negli Usa. Ce lo conferma il semplice fatto che Obama per molti suoi concittadini resta “musulmano”; come scorre un brivido lungo la schiena quando si pensa al muro anti-islam invocato da Donald Trump e di fatto costruito dai nazionalisti europei che crescono tra Austria e Ungheria, con il plauso di Salvini, Le Pen e delle destre xenofobe di tutta Europa. Il loro non è il doveroso rifiuto del fondamentalismo, del radicalismo e del settarismo – che non sono patrimonio esclusivo dell’islam – ma un no all’islam tout court, da Averroè ai sufi, da ogni moschea a ogni Corano, da chi rivendica i diritti nell’islam a chi li combatte nel nome di una teocrazia premoderna. Una rondine non fa primavera e l’elezione di Khan potrebbe essere un segnale isolato, smentito dalle urne inglesi il prossimo 23 giugno: la “Brexit”, infatti, non sarebbe solo una sconfitta dell’europeismo degli inglesi. L’addio all’Europa segnerebbe anche il declino di un’intera politica di condivisione, integrazione e mutualità intra-europea. Una politica strettamente intrecciata a quella che ha portato Sadiq Khan alla Camera dei Comuni prima e alla London City Hall oggi.

“Il nuovo sindaco Khan è il frutto maturo del

multiculturalismo britannico„

PAOLO NASOdocente di Scienza politica e Giornalismo politico alla Sapienza e coordinatore del Consiglio per le relazioni con l’islam italiano.

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giugno 2016 gli editoriali

Omicidio Regeni: perchéla verità non esce fuori? Elisa Ferrero

Perché il colpevole dell’assassinio di Giulio Regeni non è ancora

stato trovato? Perché il colpevole è il regime dittatoriale egiziano capeggiato dal presidente Abdel Fattah al-Sisi, che ovviamente non intende consegnarsi a nessun tipo di giustizia, anche a costo di mettere a repentaglio le relazioni con un partner strategico come l’Italia. Eppure, questa risposta è insoddisfacente.Un regime forte non avrebbe alcun problema a sacrificare qualche uomo in nome della diplomazia internazionale, offrendo un colpevole verosimile, se non proprio quello vero. Anzi, in un regime forte, come al tempo di Hosni Mubarak, la tortura e l’assassinio di un occidentale non sarebbero mai potuti accadere, bastando una semplice espulsione per fermare le attività di qualsiasi straniero non gradito, senza danneggiare né le relazioni diplomatiche né il prezioso turismo. Tuttavia, le modalità dell’assassinio di Regeni puntano tutte alla responsabilità dei servizi di sicurezza egiziani (ma quali, fra i tanti?). Allora perché il regime di al-Sisi si è messo nei guai uccidendo un italiano? Perché ha fatto ritrovare il corpo? Perché non vuole consegnare un colpevole per trarsi d’impaccio?La risposta è che forse non può farlo, perché in realtà al-Sisi non è un dittatore forte come lo era Mubarak. Ashraf el-Sherif, analista politico

all’American University del Cairo, ha ben detto di lui:

«Non lo vedo come un dittatore. È piuttosto il rappresentante di una coalizione di istituzioni statali dittatoriali» (New York Times, 9 gennaio 2016). Ciascun elemento di questa coalizione – esercito, Ministero degli Interni, polizia, sicurezza nazionale, intelligence generale, intelligence militare, mass media, magistratura, mondo dell’economia e del business, istituzioni religiose, ecc. – ha il proprio potere e i propri interessi, con i quali la Presidenza deve venire a patti, se vuole restare

a galla. L’antica alleanza stabilita da Mubarak fra tutte queste parti, sulla base di un vasto sistema di corruzione, non è ancora stata sostituita da un’altra altrettanto forte e coesa. In questo scenario, identificare il colpevole dell’omicidio di Regeni significherebbe, per al-Sisi, inimicarsi uno o più apparati di sicurezza del Paese, facendo scoppiare un pericoloso conflitto interno al regime i cui sintomi, oggi, sono sempre più numerosi, tanto che si mormora di manovre sotterranee per sostituire al-Sisi.D’altronde, una situazione simile è già accaduta con il processo ai giornalisti di al-Jazeera nel 2014/15. Il presidente ad interim Adly Mansour e l’allora ministro della Difesa al-Sisi non volevano questo processo così imbarazzante. Tuttavia, non hanno potuto opporsi né al Ministero degli Interni né

alla magistratura e il processo è andato avanti attirando le critiche internazionali. Divenuto presidente, al-Sisi non ha potuto far altro che emanare un decreto con il quale consentiva l’espatrio dei prigionieri stranieri, fra i quali anche alcuni giornalisti sotto processo.La richiesta italiana di giustizia per l’omicidio di Regeni cade, purtroppo, in mezzo a queste complesse dinamiche di potere e difficilmente avrà esito positivo. Il regime di al-Sisi preferisce perdere il partner

italiano piuttosto che rischiare una micidiale faida interna, tanto più che l’Egitto ha molti partner alternativi, a cominciare dall’Arabia Saudita e altri Paese del Golfo. Le misure prese dall’Italia non paiono efficaci. Sconsigliare i viaggi in Egitto significa colpire il settore turistico (già profondamente in crisi), del quale vivono quasi quattro milioni di persone. Interrompere le relazioni culturali (ma non quelle economiche!) significa bloccare un importante canale di dialogo fra i nostri paesi, senza sfiorare in alcun modo il regime. Sono misure che non fanno altro che alienarsi le simpatie degli egiziani, i quali sono stati, invece, molto solidali con il caso Regeni. Purtroppo, soltanto la giustizia per il popolo egiziano potrebbe portare anche quella per Regeni, ma il cammino su questa strada è ancora lungo e faticoso.

ELISA FERREROtraduttricee studiosa del mondo arabo.

“Identificare il colpevole dell’omicidio Regeni significherebbe, per il presidente egiziano al-Sisi, inimicarsi uno o più apparati di sicurezza

del Paese, facendo scoppiare un pericoloso conflitto interno al regime„

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Giornalismo e immigrazione:le parole sono importanti Martina Chichi

6655. Questo il numero di articoli che, secondo l’analisi periodica

svolta sulla nostra rassegna stampa tematica, i quotidiani cartacei hanno dedicato al tema dell’immigrazione da gennaio ad aprile: il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2015, il 62% rispetto allo stesso quadrimestre del 2014. Una tendenza che era già stata rilevata dall’Osservatorio di Pavia nel rapporto “Notizie di confine”: nel 2015 l’aumento di notizie in prima pagina sull’immigrazione, sulla carta stampata, è stato tra il 70 e il 180% rispetto all’anno prima.6655 occasioni, dunque, per raccontare i flussi migratori, i migranti e i rifugiati. Dobbiamo essere soddisfatti? Non proprio.Se è vero, tuttavia, che il tema dell’immigrazione è uscito fuori dal “ghetto” dell’informazione settoriale raggiungendo le prime pagine su carta e sul web, i tg nelle fasce di punta, i principali talk show, è altrettanto vero che il sensazionalismo e l’approssimazione continuano a caratterizzare una parte considerevole dei prodotti. Probabilmente perché la diffusione ormai pervasiva del tema ha portato molti professionisti che mai l’avevano incrociato a

doversene occupare. Con l’effetto di standardizzare il linguaggio, di accentuare l’utilizzo di cliché.

Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) il giornalismo italiano, nei primi mesi del 2015, ha rappresentato l’immigrazione con un linguaggio allineato e standardizzato. Le “voci fuori dal coro”, insomma, rappresentano l’eccezione. «In Italia il racconto della “crisi” è diventato più cauto e informato, in parte facendo propria la strategia di “normalizzazione” portata avanti dal governo. Il rischio è che diventi troppo supina al racconto ufficiale. La situazione sul campo sta cambiando velocemente e c’è bisogno che la stampa svolga un ruolo di watchdog», ha commentato il sociologo Nando Sigona in un articolo pubblicato da Open Migration e Carta di Roma.Della Carta di Roma – il protocollo

deontologico su migranti, richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tratta adottato dai giornalisti italiani – oggi c’è ancor più bisogno, se si vuole che quelle 6655 occasioni siano sfruttate come opportunità per informare i cittadini. Cioè come occasioni per restituire ai lettori «la verità sostanziale» di questa nuova complessità. Non basta “descrivere”, si tratta di spiegare e interpretare. Usare “le parole giuste” è necessario, ma non più sufficiente. È questa la nuova sfida del giornalismo italiano.Non promuoviamo, né apprezziamo, il “buonismo”. Non ci piace il termine, ma non ci piace nemmeno la sua sostanza perché, a volte, il “buonismo” – cioè un’informazione positiva ma sciatta e superficiale quanto quella ostile agli immigrati – esiste. La formazione dell’opinione pubblica deve fondarsi su fatti e dati verificati, esposti con le parole appropriate e con informazioni contestualizzate. La sfida per un nuovo racconto dell’immigrazione è anche la strada per un salto di qualità della professione giornalistica nel suo complesso.

“Il tema dell’immigrazione è spesso trattato con approssimazione e sensazionalismo„

gli editoriali

MARTINA CHICHIgiornalista,coordinamento dell’Associazione “Carta di Roma”.

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Dove è finita la finanza“dal volto umano”? Marco Mazzoli

Nella sua recente relazione, il presidente della Consob

Giuseppe Vegas ha osservato che le informazioni fornite da istituti di credito italiani sui prodotti finanziari da essi collocati presso la clientela sono insoddisfacenti. Le osservazioni del presidente della Consob vengono, certo, dopo il recente caso della Banca Etruria, ma anche dopo anni di episodi controversi nei rapporti tra alcuni istituti di credito e la loro clientela (dalla vendita dei titoli “subprime” all’inizio della crisi del 2007, ai bond argentini, ai titoli Cirio e Parmalat in anni passati).Se Vegas si è accorto che le schede informative degli istituti di credito italiani sui titoli collocati presso la clientela hanno contenuti informativi insoddisfacenti, viene allora da domandarsi perché le autorità competenti di vigilanza, il legislatore e le autorità politiche abbiano permesso, in tutti questi anni, che i risparmiatori fossero così poco tutelati e perché fosse consentito ad alcuni istituti di credito di fornire un prospetto informativo così insoddisfacente alla loro clientela... Ovviamente, come possiamo immaginare, i vari legami esistenti tra esponenti (ed ex esponenti) di primo piano di grandi istituti di credito italiani e partiti di area governativa saranno un fatto del tutto casuale e privo di concrete implicazioni...

Qualche tempo fa, avremmo potuto dire che esiste una “finanza dal volto umano” e un

modo “diverso” di essere banca. Esistevano le banche con forma giuridica di società cooperativa (fino a poco tempo fa le banche popolari, finora le Bcc, le banche di credito cooperativo). Gli istituti di credito con forma giuridica di impresa

cooperativa sono presenti in tutti i continenti, in tutte le culture e in paesi caratterizzati da qualsiasi tradizione religiosa. Da un punto di vista “darwiniano”, la sopravvivenza del Credito cooperativo per oltre un secolo a tanti cambiamenti economico-sociali in tutti i paesi del mondo dovrebbe far riflettere. Ad esempio, dovrebbe far riflettere il fatto che con il principio “una testa un voto”, nella banca cooperativa ogni socio vota “in quanto persona” e non in proporzione al capitale versato. Dovrebbe far riflettere il fatto che la crisi economica e finanziaria da cui stiamo molto faticosamente uscendo è nata da un improprio uso di strumenti finanziari complessi nel settore bancario convenzionale, non nel credito cooperativo, e da quella mancanza di trasparenza nella governance che mai si sarebbe verificata nell’ambito del credito cooperativo. Ha stupito molto la norma con cui il governo ha di fatto trasformato le banche popolari in normali società per azioni e, ancora di più, stupisce che il presidente Renzi, proveniente da una parte politica che tanto sostegno ha avuto dal

movimento cooperativo, abbia parlato in modo sprezzante di eliminazione del tabu del principio “una testa un voto”, ignorando l’importante ruolo economico svolto da esso e ignorando le “ragioni forti” di teoria economica indicate, tra gli altri, dal premio

Nobel Joseph Stiglitz nel suo modello di “peer monitoring”. Stupisce anche che un ministro del Lavoro, che deve il suo ruolo politico alla posizione di prestigio che assumeva nel movimento cooperativo, nulla abbia detto in proposito...Certo, le Bcc hanno anche criticità, come ad esempio non adeguato ricambio del gruppo dirigente e necessità di maggiori controlli, ma il ddl governativo di aprile che riordina il credito cooperativo non ha introdotto né limiti ai mandati dei presidenti delle Bcc, né controlli più capillari e stringenti: ha semplicemente previsto che le Bcc devono collegarsi a delle “Banche capogruppo”, sotto forma di SpA (ossia banche ordinarie) che svolgeranno per loro servizi ed indicheranno delle cosiddette “linee strategiche”... Queste “Banche capogruppo” saranno verosimilmente guidate dalle stesse persone che oggi guidano le maggiori Bcc da molti anni e senza ricambio... Ma pensare che dietro il ddl governativo ci sia l’influenza di qualche lobby sarebbe davvero pensare male... E chi pensa male commette peccato.

MARCO MAZZOLIprofessore di Politica economica, Università di Genova.

“Perché le autorità competenti di vigilanza, il legislatore e le autorità politiche hanno permesso, in tutti questi anni, che i risparmiatori

fossero così poco tutelati?„

gli editoriali

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i servizi

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Grande riformao rottamazione costituzionale?

Adriano Gizzi

A ottobre gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi su un referendum costituzionale di cui molti ignorano i contenuti.

Come previsto – e voluto dallo stesso Renzi – l’appuntamento si trasformerà in un plebiscito pro o contro il governo.

Mettiamo a confronto due punti di vista autorevoli e opposti.

i servizi | POLITICA

In una domenica di ottobre, molto probabilmen-te il 16, gli elettori italiani verranno separati

nettamente in due, neanche fossero le acque del Mar Rosso: da una parte quelli che ritengono Matteo Renzi il più grande statista di tutti i tempi (e la sua riforma costituzionale, approvata il 12 aprile scorso, la soluzione ai problemi del paese) e dall’altra parte coloro che vedono nel premier un ducetto che vuole stravolgere e ridurre a carta straccia «la Costituzione più bella del mondo». Delle due l’una, tertium non datur. Ma probabil-mente la maggior parte delle persone andranno alle urne per il referendum costituzionale senza aver letto neanche una riga del ddl Boschi e de-cideranno cosa votare esclusivamente sulla base delle simpatie o antipatie politiche. Non è un caso se la quasi totalità del Partito democratico è mo-bilitata a favore, con migliaia di comitati per il Sì, e tutte le forze di opposizione sono schierate per il No. Il presidente del Consiglio ha esaltato «l’Italia che dice Sì» in contrapposizione a quella che dice sempre di no, che mugugna ma non vuo-le cambiare... insomma, i soliti gufi. Non siamo poi lontanissimi dagli stilemi comunicativi berlu-sconiani, dell’Italia che ama in contrapposizione a quella che odia e dell’amore che vince sempre sull’odio e sull’invidia.A “cominciare” (come si direbbe a scuola, in una baruffa tra alunni) è stato Renzi, annunciando che qualora dovesse perdere il referendum consi-dererebbe conclusa la sua esperienza politica. Lo disse quando i sondaggi davano in forte vantaggio i favorevoli alla sua riforma, mentre adesso pare che l’esito sia molto incerto. Gli oppositori del presidente del Consiglio non hanno perso tempo e, approfittando del suo generoso autogol, han-no risposto alla sfida accettando di trasformare il referendum in un plebiscito pro o contro di lui. Da posizioni contrapposte, filogovernativi e an-

tigovernativi concordano nel definire la posta in gioco: non tanto il ddl Boschi, quanto la so-pravvivenza o meno del governo.

LO “SPACCHETTAMENTO” PER SFUGGIRE ALL’ARMAGEDDON?Un modo per evitare i toni apocalittici e uscire da questa battaglia finale tra il bene e il male ci sarebbe: votare il referendum per parti sepa-rate, con la possibilità cioè di dire Sì o No alle singole questioni, senza essere obbligati ad ap-provare o respingere l’intero pacchetto. Secon-do alcuni costituzionalisti, tra cui Michele Ainis e Fulco Lanchester, il procedimento di revisione costituzionale era stato pensato per interventi mirati, quindi un quesito relativo a una qua-rantina di articoli della Costituzione violerebbe la libertà di voto, così come stabilito dalla Cor-te costituzionale nel 1978, quando si espresse contro i quesiti referendari disomogenei che non consentono all’elettore di discernere tra le diverse parti della legge su cui è chiamato a pro-nunciarsi. Va detto che negli altri referendum costituzionali (e quello del 2006 riguardava ad-dirittura una cinquantina di articoli) si votò su un unico quesito. L’ipotesi del cosiddetto “spac-chettamento” dei quesiti viene bocciata per esempio dal costituzionalista Lorenzo Cuocolo, che su l’Unità del 5 maggio scorso osservava: «Il criterio di omogeneità è previsto solo per il referendum abrogativo: questo invece è un referendum confermativo delle scelte del Par-lamento, che l’elettore può solo confermare o respingere in blocco».

POLITICAAdriano Gizzi p.11Carlo Fusaro (intervista) p.13Gianfranco Pasquino (intervista) p.15

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giugno 2016

Le opposizioni hanno depositato in Cassazione le firme dei parlamentari per richiedere il referen-dum costituzionale. Riccardo Magi, segretario di Radicali italiani, ha annunciato la presentazione di referendum parziali solo su due questioni: la composizione del Senato (articolo 57) e la mate-ria referendaria (articolo 75). Altre forze politi-che potranno presentare diversi quesiti parziali o puntare sul referendum per parti separate, c’è tempo fino a metà luglio. Sarà poi la Cassazione a valutare quali quesiti ammettere.

I PUNTI SALIENTI DEL DDL BOSCHILa modifica più importante introdotta dalla rifor-ma costituzionale riguarda la fine del bicamerali-smo paritario: a votare la fiducia al governo sarà solo la Camera dei deputati, mentre il Senato avrà poteri limitati e non verrà più eletto diretta-mente. Cambia anche la composizione: si passa da 315 a 100 membri. Di questi, 74 saranno consiglie-ri regionali, 21 sindaci e cinque membri nominati dal capo dello Stato, non più a vita ma solo per sette anni. Membri di diritto a vita resteranno solo gli ex presidenti della Repubblica. La funzione legislativa è esercitata collettivamen-te dalle due camere solo in alcuni ambiti, tra cui: leggi di revisione costituzionale, leggi di ratifica dei trattati Ue, materia elettorale e referendaria, funzioni delle autonomie locali. Secondo i comitati per il No, non si supera veramente il bicamerali-smo ma lo si rende più confuso, complicando l’i-ter di formazione delle leggi e creando conflitti di competenza tra le due camere. Così come aumen-teranno – sempre secondo il “fronte del No” – i conflitti tra Stato e Regioni, anche se i sostenitori delle modifiche costituzionali replicano che pro-prio l’abolizione della legislazione concorrente tra Stato e Regioni e la revisione delle materie di competenza esclusiva dovrebbero semplificare le cose. Ora poi lo Stato si “riappropria” di molte

materie che aveva ceduto alle Regioni con la ri-forma del titolo V della Costituzione voluta dal centro-sinistra nel 2001.

Le critiche del comitato per il No si estendono an-che alle modifiche sulle proposte di legge di ini-ziativa popolare e sui referendum abrogativi. Per le prime, il ddl Boschi triplica il numero di firme necessarie (da 50 a 150mila), mentre per quanto riguarda i referendum porta da 500 a 800mila le fir-me, ma abbassa notevolmente il quorum, che verrà calcola-to sulla metà degli elettori che avevano votato alle ultime po-litiche. Di fatto, significa passare dal 50% fisso a una percentuale variabile (al momento intorno al 37%). Il nuovo articolo 72 pone un limite alla de-cretazione d’urgenza, prevedendo la procedura normale (cioè in aula, non in commissione) per i ddl di conversione in legge dei decreti. Inoltre, il nuovo articolo 77 prevede che «nel corso dell’e-same di disegni di legge di conversione dei decreti legge non possono essere approvate disposizioni estranee all’oggetto o alle finalità del decreto». In questo modo, si dovrebbe evitare il malcostume italiano di far passare in modo quasi “clandesti-no” delle norme che non si ha il coraggio di far conoscere all’opinione pubblica. Cambia anche il quorum per l’elezione del presidente della Re-pubblica: dal settimo scrutinio saranno necessari i tre quinti dei votanti, mentre fino ad ora dal quar-to scrutinio bastava la maggioranza assoluta, ma dei componenti.

Per Stefano Rodotà, «con il combinato disposto del ddl costituzionale e dell’Italicum si va verso la democrazia plebiscitaria». Ma ricordiamo che il 4 ottobre la Corte costituzionale dovrà pro-nunciarsi proprio sulla nuova legge elettorale. Secondo i critici, il rafforzamento dei poteri del governo rispetto al Parlamento verrebbe aggra-vato dal fatto che l’Italicum garantisce il 54% dei seggi a una lista che magari al primo turno aveva preso solo il 25% o anche meno, dando troppo potere a una minoranza. Una cinquantina di co-stituzionalisti – tra i quali gli ex presidenti della Corte Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida e Ugo De Siervo – hanno firmato un appello nel qua-le criticano la riforma, si dicono preoccupati del fatto che «la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determi-nante ai fini della permanenza o meno in carica di un governo» e chiedono che sia data la pos-sibilità di votare separatamente sui singoli temi. Difende invece la riforma il “manifesto per il Sì” firmato da quasi duecento giuristi.

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“La modifica più importante introdotta dalla

riforma riguarda la fine del

bicameralismo paritario„