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29 l capitale cerebrale e umano «è identico per l’uomo e la donna, solo che nella donna viene distrutto dalla cultura sociale mentre nell’uomo viene sopravvalutato». Non lascia spazio ad ulteriori commenti la frase di Rita Levi Montalcini. La frase sembrerebbe destinata ad un’altra epoca, in- vece è stata detta in occasione dei festeggiamenti per i 100 anni del pre- mio Nobel, dunque pochi mesi fa. È invece di ottobre il rapporto del World Economic Forum (the Global Gender Gap Report) il quale riporta la classifica mondiale sul gap di ge- nere. Tale rapporto conferma una persistente resistenza alla chiusura del gap in ancora troppi paesi nel mondo. E l’Italia si ritrova quest’anno a per- dere due posizioni nella classifica rispetto all’anno scorso. Difatti il no- stro paese si inserisce agli ultimi posti rispetto agli altri membri Ue. In una classifica che prende in considerazione 134 paesi, l’Italia si piazza 72ª, peggio di noi, in Europa, troviamo solo Repubblica Ceca (74ª), Cipro (80ª) e Grecia (86ª). Il punteggio di ogni paese viene calcolato prendendo in esame 4 indicatori: partecipazione e opportunità economica; parteci- pazione alla vita politica, salute e prospettive di vita; livello d’istruzione. Sebbene nel livello d’istruzione e nella partecipazione alla vita politica, l’Italia raggiunga il 46° e il 45° posto, quello che ancora ci tiene in fondo alla classifica sono la partecipazione economica – 96° posto – e la salute, che si piazza ad una poco invidiabile posizione 86. Secondo il rapporto del Wef, dunque, il nostro paese non starebbe al passo con le altre grandi nazioni europee. Infatti il basso punteggio di 0,5898 (il punteggio va da un minimo di 0 ad un massimo di 1) è dovuto, più che ad un situazione poco rosea preesistente, ad uno sviluppo più marcato nelle politiche economiche e sociali degli altri paesi. Verrebbe, a questo punto, da chiedersi se in Italia e in particolare nel Lazio le donne se la passino davvero così male. DONNE, UN SOGGETTO QUASI FORTE Dossier A cura di Lucia Aversano

DONNE, UN SOGGETTO QUASI FORTE · 2010-11-24 · 30 L’occupazione femminile in Italia,e più in generale in Europa,sta cre-scendo,ma è ancora lontana dagli obiettivi posti dal

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l capitale cerebrale e umano «è identico per l’uomo e la donna, solo chenella donna viene distrutto dalla cultura sociale mentre nell’uomo vienesopravvalutato». Non lascia spazio ad ulteriori commenti la frase di RitaLevi Montalcini. La frase sembrerebbe destinata ad un’altra epoca, in-vece è stata detta in occasione dei festeggiamenti per i 100 anni del pre-mio Nobel, dunque pochi mesi fa.È invece di ottobre il rapporto del World Economic Forum (the GlobalGender Gap Report) il quale riporta la classifica mondiale sul gap di ge-nere. Tale rapporto conferma una persistente resistenza alla chiusura delgap in ancora troppi paesi nel mondo. E l’Italia si ritrova quest’anno a per-dere due posizioni nella classifica rispetto all’anno scorso. Difatti il no-stro paese si inserisce agli ultimi posti rispetto agli altri membri Ue.In una classifica che prende in considerazione 134 paesi, l’Italia si piazza72ª, peggio di noi, in Europa, troviamo solo Repubblica Ceca (74ª), Cipro(80ª) e Grecia (86ª). Il punteggio di ogni paese viene calcolato prendendoin esame 4 indicatori: partecipazione e opportunità economica; parteci-pazione alla vita politica, salute e prospettive di vita; livello d’istruzione.Sebbene nel livello d’istruzione e nella partecipazione alla vita politica,l’Italia raggiunga il 46° e il 45° posto, quello che ancora ci tiene in fondoalla classifica sono la partecipazione economica – 96° posto – e la salute,che si piazza ad una poco invidiabile posizione 86.Secondo il rapporto del Wef, dunque, il nostro paese non starebbe alpasso con le altre grandi nazioni europee. Infatti il basso punteggio di0,5898 (il punteggio va da un minimo di 0 ad un massimo di 1) è dovuto,più che ad un situazione poco rosea preesistente, ad uno sviluppo piùmarcato nelle politiche economiche e sociali degli altri paesi. Verrebbe, aquesto punto, da chiedersi se in Italia e in particolare nel Lazio le donnese la passino davvero così male.

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A cura di Lucia Aversano

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L’occupazione femminile in Italia, e più in generale in Europa, sta cre-scendo, ma è ancora lontana dagli obiettivi posti dal trattato di Lisbona.Si stima che le donne rappresentino il 45% della popolazione attiva inEuropa e che il 15% di loro siano più esposte ai rischi di disoccupazione.Non solo: sempre rispetto agli uomini, le donne hanno un salario piùbasso, dovuto soprattutto allo svolgimento di lavori part-time e nella mag-

gior parte dei casi lavori alle dipendenze di qualcuno. Nonostante il tassod’occupazione femminile sia in crescita, si rileva ancora una forte dispa-rità uomo-donna, sia per le donne straniere che per quelle italiane.Insomma restiamo ancora una specie a rischio nel mondo del lavoro; arischio, sì, ma anche molto preziosa. Le donne che lavorano sono unaricchezza, non solo per la famiglia di cui fanno parte, ma anche per l’in-tera struttura economica nazionale. Molti studi (tra questi un inchiestariportata dal “The Economist” nel 2006) hanno dimostrato come l’in-cremento dell’occupazione femminile ha contribuito, nei paesi sviluppati,

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alla crescita del Pil. Questo perché all’interno delle famiglie con doppioreddito ci sono maggiori entrate e quindi maggior possibilità di consumo,maggior utilizzo di beni e servizi, maggiore capacità di risparmio e di in-vestimento. C’è poi da sottolineare come, all’interno delle famiglie nellequali lavorano le donne, esistono bisogni di tipo domestico che vengonosoddisfatti da servizi esterni (scuole per l’infanzia, strutture per gli an-ziani, collaborazioni domestiche e così via), tutti servizi questi che creanolavoro. Entrando nel merito della questione lavoro, le donne e gli uomini nonsono mai pari, né nel bene e né nel male. Nel libro verde “Le donne cam-biano il lavoro” si legge: “Nonostante gli elevati livelli di scolarizzazione,il tasso di attività e il tasso di occupazione femminile sono ancora distantidai parametri europei” Vediamo perché. Nel Lazio vi è un alta percen-tuale di scolarizzazione femminile –le donne che completano la scuola su-periore sono 81,3% contro il 73,2% della media nazionale– ma a questatendenza non corrisponde un trend altrettanto positivo in termini didonne e lavoro. In media le donne sono più disoccupate rispetto agli uo-mini –si parla di almeno 3 punti percentuale– e le laureate sono quelle chepercorrono una strada più lunga e faticosa nella ricerca del lavoro. Tale ri-cerca, poi, si conclude con lavori spesso al di sotto della loro formazioneprofessionale, si approda così a lavori con qualifiche medio-basse. Secondoil rapporto “Donna e Scienza 2008 l’Italia e il contesto internazionale”pubblicato dall’associazione Observa in collaborazione con Unesco, no-nostante sei laureati –e dottori di ricerca– su dieci siano donne, le italianecontinuano ad essere escluse dai ruoli chiave nel mondo della ricerca, oltrea guadagnare un 33% in meno rispetto ai loro omonimi maschi. Questoper ciò che riguarda il mondo della ricerca, ma anche allontanandosi dal-l’università la realtà cambia di poco, quando non peggiora.

Precarietà, flessibilità e part-time non sempre portano concilioSempre all’interno del Libro verde, vengono messi sotto la lente d’in-grandimento tutta una serie di dati che riguardano la situazione lavorativadella donna nel Lazio. Ne esce fuori che: le donne sono le lavoratrici pre-carie per eccellenza (il Lazio è, dopo la Lombardia, la seconda regione ita-liana ad avere più lavoratori precari), si affacciano relativamente tardi nelmondo del lavoro rispetto alle loro coetanee europee e la loro vita lavo-rativa è spesso colpita da periodi di inattività e disoccupazione molto piùfrequentemente di quanto accada agli uomini. Inoltre, per ogni 5 lavora-tori part-time 4 sono donne, questo perché un lavoro part-time permette

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di conciliare il lavoro con la fa-miglia. Ciò si traduce con paghepiù basse, possibilità di carrieranulle e svolgimento di lavoricon mansioni elementari. Sem-pre rispetto agli uomini, è inte-ressante vedere come le donneche lavorano nella fascia d’etàdelle giovanissime siano il 6,6%in meno degli uomini. Questa distanza aumenta se siconsidera la fascia d’età 25-35:sono il 20% in meno le donneche lavorano rispetto agli uo-mini. Salgono a 30 i punti per-centuali se si fa riferimento alla fascia d’età 35-54. Sempre secondo il Libro verde, se si da un’occhiata ai dati che riguar-dano salari e retribuzioni, le differenze tra uomini e donne si accentuano.Specialmente nel lavoro atipico, in cui queste differenze divengono si-gnificative in termini di stipendio. Una donna su due guadagna meno di5.000 euro (ovviamente annui) e solo sei donne su cento guadagnano piùdi 30.000 euro. La percentuale degli uomini che invece guadagnano menodi 5000 euro con il lavoro atipico si ferma a 34% e quelli che percepi-scono uno stipendio superiore ai 30.000 euro sono un buon 20%. Biso-gna tenere a mente che il Lazio, rispetto alla media nazionale, è la regioneche ha il 20% in più di rischio di precarietà. Questa condizione si riper-cuote successivamente nelle pensioni, dove esiste una sostanziale diffe-renza di genere: 35 punti percentuale in meno rispetto alle pensionimaschili, dovuti soprattutto al percorso lavorativo discontinuo.

Una buona notizia c’è e riguarda le donne imprenditrici. Secondo l’Os-servatorio Imprenditoria Femminile di Unioncamere, Roma è tra le pro-vince italiane quella ad avere il maggior numero di imprese femminili(61.584), mentre il Lazio supera il tasso della media nazionale per im-

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LL’’iimmpprreennddiittoorriiaa ee lloo ssppoorrtt ssoonnoo rroossaaIIll LLaazziioo èè llaa pprroovviinncciiaa ccoonn iill mmaaggggiioorr nnuummeerroo ddii iimmpprreessee ffeemmmmiinniillii.. MMaa ssppeessssoo ssoonnoo ffrraaggiillii

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prese femminili di due punti percentuale (26% contro una media nazio-nale che si aggira attorno al 24%). L’imprenditrice tipo ha fra i 30 e i 40anni, ha nel 60% dei casi una laurea e nel 52% un master, di solito intra-prende un attività imprenditoriale dopo una separazione o un divorzio onel momento di reinserirsi nel mondo del lavoro dopo la maternità, anchese la maggior parte delle imprenditrici è nubile e senza figli. Una dellecaratteristiche dell’ imprenditorialità femminile laziale è la forte presenzadi donne straniere che ricoprono ruoli imprenditoriali. La mortalità delleimprese femminili resta però superiore a quella delle imprese non fem-minili, tant’è che esistono alcuni settori in cui questa mortalità è quasisempre in agguato: attività di commercio e finanziarie, attività ricreativee culturali, attività immobiliari e di noleggio auto. Neppure il volume d’af-fari, che si aggira attorno ai 250mila euro, riesce a stare al passo con lealtre imprese e ciò non permette alle aziende di crescere ed essere al-l’avanguardia, correndo così il rischio di essere poco competitive e dun-que inevitabilmente prossime a fallire. Concludiamo questa rassegna sul lavoro femminile prendendo in esameun altro tipo di lavoro: il mestiere di atleta. Anche qui il panorama noncambia, ma c’è un però. Nello sport una piccola soddisfazione le donnesono riuscite a prendersela. Si tratta di una piccola rivincita, o meglio, sitratta di molteplici vincite rosa che portano ori al medagliere italiano. Seinfatti alle Olimpiadi di Pechino erano stati 4 gli ori vinti sia dagli uominiche dalle donne, ai Giochi del Mediterraneo dello scorso giugno le donnehanno vinto 34 medaglie d’oro contro le 30 di quelle maschili. Dunquele donne, almeno sul podio, sorpassano gli uomini. Resta purtroppo l’in-felice tendenza che vede le donne escluse dai ruoli dirigenziali e dai postidi rilievo: sono solo il 6% le federazioni internazionali che hanno allaloro dirigenza il gentil sesso. In Italia questa percentuale è pari a zero.

La popolazione femminile in Italia supera i 30 milioni di individui, cifrache rappresenta il 51,3% della popolazione. Di questa cifra il 5,7% sonodonne straniere, dato che negli ultimi anni ha visto una costante crescita. Secondo l’indagine Istat “Gli stranieri e il mercato del lavoro 2008”, il livellomedio di istruzione degli stranieri è molto simile a quello medio italiano. Nel

IIll ddooppppiioo ssvvaannttaaggggiioo ddeellllee ssttrraanniieerreeEEsssseerree ddoonnnnaa ee pprroovveenniirree ddaa uunn aallttrroo ppaaeessee:: ii pprroobblleemmii ssii mmoollttiipplliiccaannoo

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2006 la quota di stranieri con diploma di scuola superiore era del 36,2% afronte di un 38% degli italiani. Se si fa una distinzione di genere all’internodi questa media, si nota come sono le donne ad avere un livello maggioredi istruzione e quindi ad alzare il livello percentuale. Basti pensare che oltreil 50% delle donne possiede un diploma di scuola superiore a fronte del43% degli uomini, mentre le laureate sono il 13% contro un 9% di laureati.

Le donne straniere nel Lazio al primo gennaio del 2009 sono 240.347, edalle ricerche e dati statistici vari ne esce un buon quadro: i permessi disoggiorno per lavoro richiesti dalle donne sono solo il 16% in meno diquelli richiesti dagli uomini, dunque sono molte di più le lavoratrici stra-niere rispetto alle altre regioni (nel resto d’Italia la media del gap dei per-messi uomo-donna è del 34%). Per quanto riguarda l’essere madre, il lorotasso di fecondità è stimato attorno al 2,15 figli per donna. Nel Lazio epiù in particolare nella provincia di Roma un dato interessante è quellodel numero delle donne straniere nell’imprenditoria. Sono infatti 12.147le donne imprenditrici nella capitale e le imprese guidate dalle stranieresono cresciute dell’8,7% (nell’anno 2006-2007) a fronte di una crescita del1,6% delle imprese delle italiane. Non bisogna dimenticare che le donnestraniere subiscono una doppia discriminazione nel mondo del lavoroper il fatto di essere allo stesso tempo donna e proveniente da un altropaese e questo provoca un duplice ostacolo alla vita lavorativa.

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Incontro fra culture e generazioni

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Negli ultimi anni, si è visto in giro un moltiplicarsi di donne col pancione,carrozzine con neonati e passeggini con bimbi nati già da un po’. Fino aqualche anno fa sembrava che le donne avessero smesso di fare figli, oquantomeno avessero smesso di mostrare con gioia la loro maternità,quasi fosse un qualcosa da nascondere. Oggi invece le donne mostranola pancia, nel senso che sempre più spesso la condizione di mamma nonviene più ritenuta un impedimento, ma un’opportunità. E questo lo sivede anche in tv. Dove star e “starlette”, ma anche donne attive in poli-tica mostrano con orgoglio come la maternità sia un momento della vitache nulla toglie ad una donna, anzi. Tutto ciò rispecchia la realtà di ognigiorno nella quale troviamo un rinnovato desiderio di maternità. Bastipensare ad un aumento della fecondità nelle donne italiane. Aumento sìlieve, ma pur sempre un inversione di tendenza rispetto agli anni passati. Nel 2008, infatti, i nuovi nati sono stati 576mila unità, con una crescitadi 12mila unità rispetto all’anno precedente. Due sono i fattori principaliche hanno reso possibile questo aumento delle nascite: il recupero, sep-pur lieve, di natalità delle madri con cittadinanza italiana e il crescentecontributo delle madri di natalità straniera. Il primo fattore è strettamentecorrelato allo slittamento in avanti del calendario riproduttivo. L’età mediain cui le donne hanno il primo figlio oggi si aggira attorno ai 31 anni.Mentre il numero di figli per donna è salito all’1,33%, rispetto al 1,26%del 2006. Dunque il desiderio c’è, solo che si avvera un po’ più tardi. Seb-bene in crescita, quello italiano resta però uno dei tassi di natalità piùbassi fra i paesi industrializzati. Secondo l’indagine Istat “Essere madri in Italia”, nei desideri delle donneitaliane ci sono almeno due figli. Difatti il modello dominante familiare

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Come si aiutano le mammeil 52% delle donne ricorre all’aiuto intergenerazionale

il 13% ricorre agli asili pubbliciil 14% ricorre agli asili privati

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è quello dei due figli che si riscontra nel 62% delle intervistate, mentre il29% vorrebbe avere 3 o più figli. Sono solo il 12% quelle che dichiaranodi volere un figlio unico. Spesso però questo desiderio si scontra con laconcretezza del quotidiano. Sono, in effetti, parecchie le donne in Italiaad avere un solo figlio –un bambino su quattro in Italia è figlio unico–.Ciò è ricondotto a più fattori. Primo fra tutti ci sono i fattori economicilegati sia al costo dei figli sia alla difficoltà di conciliare il lavoro di casacon quello extradomestico; poi troviamo i motivi di salute e tutte le dif-ficoltà mediche che comporta un parto in età avanzata. Anche i dati par-

lano chiaro: lavora il 62% delle donne con un figlio e tale percentualescende a 32 per le donne con tre figli. Per gli uomini, che ne abbiano unoo ne abbiano tre, di figli, poco cambia: i tassi d’occupazione restano sta-bili al 90%. La difficoltà principale resta quella di conciliare il lavoro con la vita do-mestica. Sempre secondo l’indagine Istat sono il 18% le madri che smet-tono di lavorare dopo la nascita del figlio. Di questo 18% il 5,6% è statalicenziata o non si è vista rinnovare il contratto, mentre il restante 12,4%si è vista costretta a dare le dimissioni per via degli orari non concilianti.È interessante vedere come il livello di istruzione incida sulla perdita/ab-bandono del lavoro. Tant’è che lasciano o perdono il lavoro il 32% delle

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Giovani in Servizio civile

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madri aventi licenza media, mentre questa percentuale si affievolisce finoad un 7,8% se si prendono in considerazione le madri laureate. Tornandoal 75% delle donne che conservano il lavoro dopo la gravidanza, l’osta-colo più grande che incontrano sulla loro strada si chiama conciliazione.Sono soprattutto le lavoratrici full-time e quelle con un livello di istru-zione più elevato ad avere maggiori difficoltà di conciliazione, mentretale difficoltà grava meno su tutte quelle donne che possono contare sulsostegno delle reti informali. In Italia le reti informali restano il punto diriferimento di più della metà delle famiglie.

Mamme a scuolaIl titolo di studio rappresenta un indicatore estremamente importanteper la definizione del concetto di benessere. Ciò è dovuto prevalente-mente al fatto che un titolo di studio alto offre opportunità di lavoromaggiori.Le madri con diploma sono passate dal 19% degli anni 1980 al 30% del1990 fino a superare il 54% del 2003. Nello stesso tempo le laureate sisono quadruplicate passando da un 4% negli anni 80 a un 16%. Paralle-lamente all’incremento del titolo di studio si registra un incremento dellapartecipazione delle madri al mercato del lavoro. Al momento dell’inter-vista (dati che si riferiscono all’indagine Istat sopraccitata)le madri chehanno un contratto a tempo indeterminato sono il 70% e quelle che la-vorano prevalentemente nel settore privato sono il 78%. Quasi l’80% la-vora alle dipendenze mentre i loro contratti sono per il 58% a tempopieno. Dall’indagine risulta inoltre che le donne che lavorano lo fannonon solo per contribuire all’economia familiare, ma anche e soprattuttoper sentirsi indipendenti e per realizzarsi professionalmente. Ma quando fanno il primo figlio le donne italiane? La risposta è sem-plice: dopo aver conseguito un titolo di studio piuttosto alto e dopo avertrovato lavoro.

Il fattore D«Per far ripartire L’Italia si deve far largo alle donne, dare più spazio alleloro aspirazioni, ai loro talenti, ai loro bosogni. Senza le donne, l’Ita-lia non può tornare a crescere, sopratutto a crescere bene».Maurizio Ferrera, “Il fattore D”, Oscar Mondadori 2006

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Malgrado l’aspettativa di vita si stia allungando per entrambi i sessi, e perle donne la vita media sia anche leggermente più lunga, le condizioni incui molte affrontano la vecchiaia è spesso di disabilità. Dal Libro biancodella salute della donna (Libro bianco 2009 sulla salute femminile) emergeinfatti che le ita-liane guada-gnano sì anni divita, ma sonoanni caratteriz-zati da saluteprecaria e dallaperdita dell’au-tonomia fisicapsichica e so-ciale.Si sono infattimoltiplicati i fat-tori di rischioper la salutefemminile. Fraquesti sono au-mentati i di-sturbi psichici–con ricoveri annessi– legati ai problemi di stress. Tali fattori sono in-trinsecamente collegati all’evoluzione del ruolo della donna nella societàmoderna. La famiglia, il lavoro, la casa: restano ancora troppe le respon-sabilità che gravano esclusivamente sulla donna. Non solo, i disturbi le-gati alla psiche si palesano, con l’illusione di combatterli, sotto forma diabuso di alcool, fumo e (psico)farmaci, il che grava sulla salute fisica delsesso, in questo caso più che mai, debole. Negli ultimi 50 anni le donnefumatrici sono triplicate, fuma il 16,8% delle ragazze sopra i 15 anni – nelLazio la percentuale è del 20% – fumano molto le donne dai 24 ai 54anni e sembra che le norme antifumo degli ultimi anni abbiano avuto più

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successo fra gli uomini che fra le donne: il numero di fumatrici è rimastoinvariato rispetto a quello maschile, che invece è sceso. Dati preoccupantiemergono anche sul fronte degli psicofarmaci e dei ricoveri per nevrosi(passati in soli due anni da 47 a 50 per 10mila casi). Anche i disturbi ali-mentari sono una caratteristica più femminile che maschile. C’è però unatendenza positiva: quella del calo delle morti per tumori. La prevenzionesta dando i suoi frutti e i riflettori accesi sulla salute della donna non sonostati inutili. C’è più sensibilità verso le tematiche femminili, piccoli tra-guardi si stanno raggiungendo ma si è ancora all’inizio.

MAC metodo aperto coordinamentoAttraverso il Metodo Aperto di Coordinamento, i paesi dell’UnioneEuropea si impegnano a combattere la discriminazione sociale e a pro-muovere le pari opportunità. Il MAC detta degli obiettivi generali daiquali partono le strategie dei rispettivi stati membri su settori d’inter-vento specifici. Tali obiettivi possono essere così riassunti: promozionedella coesione sociale, della parità uomo donna e pari opportunità pertutti; rafforzamento della crescita economica e miglioramento quanti-tativo e qualitativo del lavoro in linea con gli obiettivi di Lisbona; svi-luppo della trasparenza e della partecipazione di chi progetta attua econtrolla le politiche.Tali obiettivi vengono applicati ai seguenti settori: eliminazione dellapovertà e dell’esclusione sociale; garanzia di pensioni adeguate e so-stenibili, garanzia a tutti delle cure necessarie.

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