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In questo numero la storia dei Persichella, la vicenda Matteotti e tanto altro
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Marzo 2015 numero 2
Marzo 2015 Gente di Bracciano2
Marzo 2015 numero 3
Dedicato a Gabriella
EditoreAssociazioneGente di Bracciano
PresidenteClaudio Calcaterra
Direttore responsabileGraziarosa Villani
RedazioneFrancesco MancusoVittoria CasottiMena MaisanoBiancamaria AlberiLuigi Di Giampaolo
CollaboratoriMassimo Giribono
Registrato al Tribunaledi Civitavecchian. 1388/2014
Foto di CopertinaTiberio Ferri
Per questo numeroStampaTipografia Camponeschi - Bracciano
Progetto GraficoSimone Camponeschi
CONTRIBUISCI AL PROGETTOPer la TUA pubblicitàcontatta la redazione:
[email protected] 349 13 59 720
I perchè di questa rivistaGià, perché “Gente di Bracciano”? Molti mi hanno fatto questa domanda, ma a mio avviso,
la risposta è nei fatti. Mi spiego meglio: mai come in questo momento sorgono e, in alcuni casi, direi “spuntano” riviste, giornali e giornalini dai nomi più strani e, alcuni, contras-segnati da sigle pittoresche. Qualcuno dirà: “E allora che bisogno c’era di un’altra rivista?” Intanto: se nascono tante riviste, giornali e giornalini vuol dire che c’è voglia di conoscere i fatti, le iniziative e i problemi del territorio in cui uno vive.Molti di questi giornali e di queste riviste sono però “politiche”. Non mancava forse una rivista che parlasse della “Gente di Brac-ciano” dei suoi personaggi, delle loro storie ma anche di personaggi “storici” e facesse rivivere le belle tradizioni di questo paese, e così non si perdessero nel tempo? I giovani di oggi, ma non solo loro, sono distratti dal richiamo di tante sirene e confusi da tante proposte contraddittorie, ecco far rivivere antiche tradizioni, far riscoprire alcune caratteristiche del tessuto sociale in cui vivono, insieme al “vissuto” di quelle persone che hanno contribuito a caratterizzarlo, mi sembra, non solo interessante, ma davvero importante. Allora, attraverso “Gente di Bracciano” e alle sue “storie”, sono convinto che possa trovare o ritrovare quello spirito che ha aiutato e che aiuta tutt’ora ogni persona ad essere pienamente se stessa e a comprendere come le sue capacità si rivelino appieno e si esaltino nel sociale. In questo modo ciascuno incide, non importa se poco o molto, nella realtà in cui vive. Luigi Di Giampaolo
“I Pecoroni”A nessuno fa piacere sentirsi dare del pecorone, figuriamoci a noi gente di Bracciano!
Se riflettiamo un istante però, forse, più di una volta ci siamo comportati come coloro che, senza “mettere in moto” la propria intelligenza, hanno seguito il gregge, da pecoroni. Appunto. Eppure, ognuno di noi preso singolarmente, ha un certo livello di cultura, di esperienza, di dignità. E’ una persona, insomma, capace di ragionare e di dare perfino, anche se non troppo spesso, dei buoni consigli. Tuttavia, non nascondiamocelo, alcune volte ci siamo lasciati “imbrancare”, ed abbiamo segui-to qualche venditore di fumo o giocoliere di parole che ci ha illuso con sogni di facili ricchezze e con felicità a buon mercato.No. Con i tempi che corrono non si può essere “pecoroni”, neppure per un istante. Allora? Allora dobbiamo stare molto attenti: non possiamo dare la nostra fiducia a chi, molto spesso, se ne serve per i propri interessi. Lo avete notato? Questi falsi pastori, pieni di presunzione fanno di tutto per farci diventare un gregge belante.Il gioco è ormai chiaro e il “trucco” non funziona più. Osserviamoli attentamente questi falsi pecorari. Appaiono un po’ dappertutto: alla televisione, alla radio, sui giornali, sui muri, con il volto sempre sorridente che sembra dire “non so quello che debbo dirti, ma sorrido lo stesso”. Sono convito, ma sono sicuro di interpretare la vostra volontà, che a questa “specie” di pecorari bisogna fare qualcosa: mandarli da qualche parte, per aiutarsi, si capisce! Dove? Magari in montagna, con un paio di robuste ciocie, un bel mantello di capra, senza bastone, perché potreb-bero farsi male ed anche uno zufolo. All’aria aperta potrebbero meditare e in qualche raro caso rinsavire. Chissà con un pezzo di pane ed acqua fresca di ruscello imparerebbero ad avere più rispetto per la natura e per le persone che la abitano. E allora? “Pecoroni”? Ma va là!! L.D.G.
Marzo 2015 numero 2
Marzo 2015 Gente di Bracciano3
Rita Levi Montalcini
103 anni spesi nella ricerca. Nobel per la Medicina nel 1986 per il fattore di crescita nervoso
Nata in una famiglia ebrea sefardita, figlia di Adamo Levi, ingegnere elettronico e
matematico e della pittrice Adele Montalcini, nel 1909 Rita nacque insieme alla sorella ge-mella Paola. I genitori, molto colti, instillarono nei figli l’amore per la ricerca intellettuale. Nonostan-te l’ostilità del padre, Rita decise nel 1930 di studiare medicina all’Università di Torino. La scelta fu determinata dal fatto che in quell’an-no morì di cancro la sua amata governante Giovanna Bruatto. A vent’anni entrò nella scuola medica dell’istologo Giuseppe Levi (padre di Natalia Ginzburg), dove cominciò gli studi sul siste-ma nervoso. Ebbe come compagni universitari due futuri premi Nobel: Salvador Luria e Re-nato Dulbecco. Tutti e tre furono studenti di Giuseppe Levi verso il quale si sentirono in debito per aver insegnato loro come affronta-re i problemi scientifici in modo rigoroso, in un momento in cui tale approccio era ancora abbastanza inusuale. Fu lo stesso Levi a in-trodurre in Italia il metodo di coltivazione in vitro. Nel 1936 il rettore dell’Università di Torino, Silvio Pivano, le conferì la laurea in Medicina e Chirurgia con 110 e lode. Si specializzò poi in neurologia e psichiatria, ancora incerta se dedicarsi completamente alla professione me-dica o alle ricerche in neurologia. A seguito delle leggi razziali del 1938, Rita fu costretta a emigrare in Belgio con Giusep-pe Levi. Fu ospite dell’Istituto di Neurologia dell’Università di Bruxelles dove continuò gli studi sul differenziamento del sistema nervo-so. Poco prima dell’invasione del Belgio tornò a Torino dove, nel 1940, allestì un laboratorio domestico nella sua camera da letto. Ad ispira-re i suo studi un articolo di Viktor Hamburger del 1934 sugli effetti dell’estirpazione degli arti negli embrioni di pulcini. Presto si unì a lei nelle ricerche anche Giu-seppe Levi. Il loro obiettivo era comprendere il ruolo dei fattori genetici e ambientali nella differenziazione dei centri nervosi. In quel la-boratorio Rita scoprì il meccanismo della mor-
te di intere popolazioni nervose nelle fasi ini-ziali del loro sviluppo, fenomeno riconosciuto solo tre decenni più tardi (1972) e definito con il termine apoptosi. Il bombardamento alleato di Torino nel 1941 la indusse a rifugiarsi nelle campagne di un paese astigiano, dove ricostruì il suo minilaboratorio e riprese gli esperimen-ti. Nel 1943, sotto l’occupazione tedesca, la-sciò il rifugio ormai pericoloso. I Levi-Mon-talcini nel 1943 restarono a Firenze, divisi in vari alloggi, sino alla liberazione della città, cambiando spesso casa per non incorrere nelle deportazioni. Una volta furono salvati da una domestica, che li fece scappare appena in tem-po. A Firenze, Rita fu in contatto con le forze partigiane del Partito d’Azione e nel 1944 en-trò come medico nelle forze alleate. Nel 1944 divenne medico al Quartier Generale anglo-americano e fu assegnata al campo dei rifugia-ti di guerra trattando le epidemie di malattie infettive e di tifo addominale. Qui si accorse però che quel lavoro non era adatto a lei, in quanto non riusciva a costruire il necessario distacco personale dal dolore dei pazienti. “Era in corso – ricordò - un’epidemia di tifo, i malati morivano a decine. Facevo di tutto, il medico, l’infermiera, la portantina. Giorno e notte. E’ stato molto duro e ho avuto fortuna a non ammalarmi”.
Dopo la guerra allestì un laboratorio di for-tuna nella casa vicino ad Asti. Nel 1947 il bio-logo Viktor Hamburger la invitò a St. Louis, a prendere la cattedra di docente di Neurobio-logia al Dipartimento di Zoologia della Wa-shington University. Quella che doveva essere una breve permanenza si rivelò poi una scelta trentennale. Fino al 1977 rimase negli Usa, dove realizzò gli esperimenti che la condus-sero, nel 1951-52, durante la sperimentazione di un trapianto di tumore di topo sul sistema nervoso dell’embrione di un pulcino, alla sco-perta del fattore di crescita nervoso, una pro-teina che gioca un ruolo essenziale nella diffe-renziazione delle cellule nervose sensoriali e simpatiche. Nel 1956 fu nominata professore associato e nel 1958 ordinario di zoologia alla
Washington University di St. Louis e vi inse-gnò fino al pensionamento del 1977. Il Nerve Growth Factor (NGF), o fattore di crescita nervoso, e sul suo meccanismo d’azio-ne, le valsero nel 1986 il Premio Nobel per la Medicina insieme al suo studente biochimico Stanley Cohen. “La scoperta dell’NGF all’inizio degli anni Cinquanta è – dice la motivazione - un esem-pio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos. In precedenza i neurobiologi non aveva-no idea di quali processi intervenissero nella corretta innervazione degli organi e tessuti dell’organismo”. Molti i riconoscimenti. Ormai celebre Rita ha fondato nel 2001 l’Istituto Europeo di Ri-cerca sul Cervello (Fondazione EBRI, Euro-pean Brain Research Institute), dove ha pro-seguito, fino a poco tempo prima di morire, la sua attività di ricerca. A 90 anni è diventata parzialmente cieca a causa di una maculopatia degenerativa. Nel 2009, giungendo all’età di cento anni, è stata la prima tra i vincitori del Nobel a varca-re il secolo di vita. E’ stata anche la più longe-va tra i senatori a vita in carica e della storia repubblicana italiana. Più anziano di lei fu il senatore del Regno Giovanni Battista Borea d’Olmo, vissuto fino all’età di 105 anni. In occasione del compimento dei cento anni disse: “Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente”. In suo ono-re è stato nominato l’asteroide 9722 scoperto nel 1981. Rita Levi Montalcini muore il 30 di-cembre 2012, a 103 anni, nella sua abitazione romana di viale di Villa Massimo, nei pressi di Villa Torlonia.Il 31 dicembre viene allestita la camera ardente al Senato e il giorno seguente la salma viene trasferita a Torino, accolta da una breve cerimonia privata con rito ebraico. Il 2 gennaio 2013 si svolgono i funerali in forma pubblica. Dopo la cremazione, le sue ceneri sono state deposte nella tomba di fami-glia nel campo israelitico del Cimitero monu-mentale di Torino. A Cura di Claudio Calcaterra
Marzo 2015 Gente di Bracciano4
foto di Salvatore M.
Persichella Da David ad Andrea, passando per Alfredo
David Granatelli
era al fronte
nella Grande Guer-
ra. Quando poteva
scriveva alla moglie
e chiedeva notizie
della famiglia, era
l’unica ventata di
aria fresca in quei
giorni bui. Quando
nacque Elsa, la pri-
mogenita, si presen-
tò al mondo con due guance di rosa purpurea e
David, dall’inferno della guerra, chiedeva come
stesse la sua adorata “Persichella”, la sua pesca
rosata, non sapeva che stava dando il nome a
una “stirpe” che avrebbe contribuito alla cresci-
ta di Bracciano. La persica, insieme al persico
lo si trova ancora nei tovaglioli per chi ha il pia-
cere di andare a mangiare da “Alfredo”, la ter-
razza sul lago. David da civile faceva il carret-
tiere, un po’ di muli, un terreno dove tenerli, un
carretto e via, su e giù per Bracciano, a portare
oggetti e persone. Le voci narranti sono di Elvi-
ra e Anna, le figlie di Alfredo, il terzo figlio di
David. David era un tipo fantasioso, diede
nome Eros alla sua seconda figlia perché era il
nome della fidanzata dell’ufficiale a cui faceva
da attendente.
Quel nome lo conquistò, doveva avere un
animo romantico e così incoronò la figlia di
un nome che sapeva di amore, nulla importa-
va che fosse maschile. Poi venne il tempo della
vecchiaia, era faticoso il mestiere di carrettiere,
così il figlio, Alfredo, vendette i muli, che ave-
vano cominciato a lasciare qualche livido sulla
pelle di David, il terreno, il carretto e lo mise a
godersi il meritato riposo.
Alfredo era un ragazzo forte, ambizioso, in-
traprendente. Nacque nel 1920, prese la 5^
elementare, e non era scontato in quei tempi,
e cominciò subito a lavorare. Lo zio, Goffredo
Sala, lo prese a Roma e gli insegnò il mestiere
di carpentiere. Acilio, nome della gens romana
Acilius che fondarono la cittadina di Acilia, e
Curzio, forse preso dallo storico romano Quin-
to Curzio Rufo, erano i figli di Goffredo, che
doveva essere un amante dell’antica Roma per
donare ai suoi figli nomi così densi di storia.
Alfredo e i figli di Goffredo crebbero insieme
e divennero inseparabili monelli, a cui piaceva
giuocare e sgarbare. Crescevano per le strade
dei Parioli dove i Sala abitavano e costruivano.
Ogni tanto venivano chiamati per fare qualche
lavoretto e guadagnare qualche soldo, si tratta-
va di pulire i cantieri alla fine della copertura, di
raccogliere i chiodi, di ordinare i ferri, nonché
di chiudere, armati di cazzuola e poca calce, i
buchi che rimanevano quando venivano tolte le
impalcature.
Ma la calce non bastava mai. Un giorno venne
loro un’idea che nessuno saprà mai quale dio
dei dispetti, o dell’immaginazione, abbia potu-
to pensarla. Presero i pranzi degli operai, pasta,
pane e cicoria e con quel materiale “crearono”
dei blocchetti per tappare i buchi. Nessuno sa
come finì la storia, si sa solo che quel giorno gli
operai digiunarono. Il giovane Curzio divenne
anche un buon pugile, un peso medio, gli anna-
li riportano che fece cinque incontri vincendoli
tutti. In un’ intervista di Decio Lucarini all’ot-
tantunenne Cesaretto De Santis, famoso talent
scout romano e allenatore di giovani promesse
pugilistiche, questi narra “degli anni gloriosi
della palestra l’ l’Audace che ospitava il popo-
larissimo Barbaresi, poi Fiermonte e Palmucci,
Ubaldo e Ceccarelli, De Carolis e Curzio Sala,
Leopardi e i Marfurt, Ansini, Girolami e Lu-
impresa e creatività
Marzo 2015 Gente di Bracciano5
Alfredo Granatelli con la moglie Filomena Signorotti
cioli, il formidabile terzetto dei pesi mosca
Sili, Varani e Magliozzi, quindi gli Alleori e
Berardi”… Poi i tempi si fecero difficili e Aci-
lio Sala emigrò a Buenos Aires, dove divenne
un importante imprenditore edile.
A ventuno anni Alfredo parte per la leva mi-
litare a Vigna di Valle, è il 1941, siamo già
nell’orrore della seconda guerra mondiale,
ma finisce la leva presto. Il fatto è che morì il
fratello di sua moglie, Filomena, e lui diven-
ne l’unico sostentamento della famiglia. Così
seguitò a lavorare con lo zio, finché non fa il
grande salto e si mette in proprio. Intanto stu-
dia per corrispondenza da geometra e impara a
fare i calcoli del cemento per costruire palazzi,
la sua avventura nella vita. Il primo palazzo
lo costruisce sulla via Claudia, all’entrata di
Bracciano, all’altezza del distributore di ben-
zina, poi costruisce case coloniche sui terreni
degli Scorsolini, a Vicarello, poi costruisce il
circolo ufficiali di Vigna di Valle, lui progetta
le sue case e assume personale, giovani mura-
tori e padri di famiglia.
A Elvira e Anna s’illuminano gli occhi quan-
do parlano del padre, lo hanno amato e lo
amano profondamente. Elvira racconta che a
diciotto anni le regalò la sua prima macchina,
una mini-spider, ma per un motivo originale.
Aveva paura che la sua cara figlia potesse
farsi del male, così pensò ad una macchina con
il motore anteriore, non la cinquecento che da-
vanti era sguarnita di peso e resistenza.
Lui aveva una Lancia beta Montecarlo con
motore posteriore e per evitare gl’impenna-
menti, possibili per la mancanza di peso ante-
riore, il motore era dietro, rinforzava il cofano
con solidi blocchetti delle case che costruiva.
A volte, quando doveva festeggiare la coper-
tura del tetto con i suoi operai, o per qualche
altro motivo che non mancava mai, rinforzava
la trazione anteriore con cassette di vino.
Era un tipico vino braccianese chiamato
Micchelino, noto a tutti i braccianesi comp
gni di bevute e d’allegria, che serviva a ren-
dere allegre le serate di festa.
E con quel vino rubizzo Alfredo festeggia-
va con i suoi operai le sue imprese e il loro
lavoro, binomio inscindibile per creare pro-
sperità. Il vino finiva sempre e allora, quando
ripartiva, giù con nuovi blocchetti. Gli operai
gli volevano bene. Alfredo era una sorta di
strano e controverso Robin Hood. Sul libretto
degli operai, invece delle marchette, metteva
francobolli, poi li aiutava a farsi casa, le case
che lui costruiva. Un giorno arrivò in cantie-
re una moderna macchina per intonacare le
pareti dei palazzi che costruiva. Come tutte
le innovazioni tecnologiche aveva la conse-
guenza di ridurre la mano d’opera. Allora Al-
fredo, che non voleva licenziare nessuno, usò
uno stratagemma.
Costituì due squadre, una che doveva lavo-
rare con la macchina e un’altra con il vecchio
sistema manuale…vediamo cosa conviene,
disse ai suoi operai. Vinsero i manuali che
pur di battere la macchina misero in atto turni
e velocità di lavoro sbalorditivi. La macchina
continuò a lavorare e anche i manuali, con una
redditività molto più alta di quando la mac-
china non c’era, ma senza che nessuno fosse
licenziato. Alfredo aprì a Bracciano una pale-
stra di boxe per permettere ai giovani braccia-
nesi di fare sport, era il suo modo d’investi-
re per il benessere del suo paese. Allenatore
delle giovani promesse, c’erano molti dei suoi
operai, era Freddie Mack, un nero gigantesco
a cui tutta Bracciano voleva bene. Una lunga
storia la sua. Era nato in una piantagione di
cotone del South Carolina. Sua madre, per le
strane coincidenze astrali che si condensano
nella vita, si trovò a lavorare in un ristorante
di Bracciano. Freddie era stato introdotto alla
boxe da un amico di Floyd Patterson, campio-
ne del mondo dei massimi negli anni Cinquan-
ta, dove apprese i rudimenti della nobile arte.
Non apparve vero ad Alfredo di affidare la
cura della sua palestra a cotanta sapienza ed
energia pugilistica, così Freddie si ritrovò a
lavorare, tra ring e sacchi, nella palestra che
Alfredo aveva messo su, forse ispirato proprio
dalle imprese di Curzio. Era una strana pale-
stra frequentata da giovani braccianesi e dagli
operai dei cantieri di Alfredo. Per gli aspiranti
boxeur operai tutto cominciava nei cantieri,
dove, tra loro, volavano sfottò e smargiassa-
te, che poi regolavano in palestra dove se le
davano di santa ragione, forse per dimostrare
chi era il più bravo, il più fico del reame, ma
sempre tra risate e sollazzi vari, l’amicizia non
si toccava! Quasi un intermezzo musicale, un
andante con brio, tra il cantiere e la palestra.
I vecchi braccianesi si ricordano ancora di al-
cuni di loro: Francesco Viarengo, Bruno Cate-
na, Salvatore Morbidelli, Franco Silvestri, gli
altri sono spariti nelle nebbie della memoria
di tempi lontani, sempreché non vivano, sep-
pure dimenticati in qualche cassetto chiuso,
nella memoria di qualche vecchio amico a noi
sconosciuto. Ma torniamo ad Alfredo. Elvira
e Anna raccontano che costruì tre palazzine
attorno all’ospedale vecchio, lì c’erano anche
le sue rimesse di materiale edile dove una ban-
Marzo 2015 Gente di Bracciano6
Alfredo, la moglie, la figlia Elvira e i primi dipendenti negli anni Sessanta
da di ragazzini terribili andava spesso a giu-
ocare, facendo danni. Solo Alfredo riusciva a
spaventarli, quando lo sentivano arrivare cor-
revano via come lepri urlando via, via, arriva
Persichella! Arrivarono a costruirsi un tunnel
per nascondersi e rimanere nei paraggi.
Ogni tanto s’intrufola amabilmente Andrea,
il figlio di Elvira, che ha deciso, insieme al
fratello Rodolfo, di ammodernare e rendere
sempre più ospitale l’albergo e il ristorante dei
“Persichella”. L’albergo inizialmente doveva
essere la casa della famiglia di Alfredo, lui
aveva scelto quel luogo sul lago e cominciato a
costruire la sua casa. Gli capitò l’ostilità della
moglie che stava bene dove già abitava e che
dichiarò che non sarebbe mai andata a vivere
in un pantano. Alfredo era un gran bell’uomo,
amava teneramente sua moglie, ma le donne
erano per lui calamite, le mie fragole, amava
chiamarle.
Usava un parfume da puzzola incantata per
confondere gli odori fragolosi che si sedimen-
tavano nella sua Lancia beta. Una sera la sua
dolce metà decise che il suo Alfredo aveva
passato il segno, così mentre era sdraiato sul
letto gli rifilò una dolce seggiolata addosso,
Alfredo capì, non disse nulla, si rannicchiò su
sé stesso e la mattina dopo trovò preparata una
ricca colazione che consumò allegramente con
la sua dolce metà.
Ma facciamo un passo indietro. Nel 1958 Fi-
lomena aprì in via dell’Ospedale Vecchio un
ristorante: Persichella si chiamò. Il ristorante
ebbe un buon successo, poi subentrò una nuo-
va gestione. Nel 1991, Andrea, finito il milita-
re, insieme al fratello Rodolfo, riprese l’azien-
da che intanto si era chiamata “la Fontanella”.
I due fratelli promossero una cucina “caserec-
cia” e lanciarono il menù fisso a prezzi fissi
per conquistare le clientele dei lavoratori delle
Asl, del Comune, delle caserme, delle comu-
nità di lavoro di Bracciano.
E’ stata la loro gavetta prima di intraprendere
l’albergo e il ristorante sul lago, dove hanno
lavorato a lungo le figlie di Alfredo, Elvira e
Anna. E la vita presenta sempre le sue curiose
ricorrenze e ricorsi storici. Alfredo permise al
padre David di vivere una vita serena, senza
“muli” e pensieri, così, ora, Andrea e Rodol-
fo, pur sotto il loro occhio vigile e amorevole,
permettono alla madre e alla zia di godersi se-
renamente il frutto del loro lavoro.
La chiacchierata è avvenuta davanti al camino
del ristorante, un camino benedicente il riaf-
fiorare di memorie, a volte allegramente spa-
ventate di divenire racconto pubblico, a volte
divertite del riaffiorare di fatti inediti, ciascuna
all’altra, della loro vita.
Non è stato facile lavorare il racconto di Per-
sichella, un puzzle denso di affreschi, schizzi,
suggestioni, che è stato simpaticamente im-
pegnativo cucire insieme per provare a farne
un vestito, o almeno un patchwork. Grazie ad
Elvira, Anna, Rodolfo e Andrea, che adesso si
chiama anche lui Persichella.
FrancescoMancuso
Andrea Formaggi
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a l b e r g o / R i s t o r a n t eAlfredo “da Persichella”
Via della Sposetta vecchia,1 00062 Braccianotel 06 99 80 55 85 - fax 06 99 80 91 40
Marzo 2015 Gente di Bracciano8
Controcorrente 6Ricorda sempre che sei unico, esattamente come tutti gli altri (Anonimo)
L’esperienza formativa di ciascun esse-
re umano è costantemente attraversata
e costellata da continue presenze dell’altro.
Le relazioni interpersonali sono di fatto una
“galleria di volti e voci” che irrompono nel
nostro spazio vitale e ai quali rispondiamo in
forme differenti e ciascuno, a suo modo, in
forma singolare.
Entrare in relazione con l’altro vuol dire
entrare in contatto con un’altra identità, cioè
con qualcuno che è “diverso” da me.
E attraverso questo gesto, oltre a sviluppa-
re maggiore coscienza della mia identità, io
posso diventare una persona migliore o, co-
munque, più riflessiva, grazie all’alterità in-
contrata.
Eppure a volte, a livello sociale (e, spes-
so anche a livello educativo) si cerca di an-
nullare la “diversità” che ci rende tutti così
meravigliosamente unici, si tende a lavorare
più sulla massa che sull’individuo, a creare
universi omologati, comunità di simili dove
il singolo si possa identificare con il gruppo,
e questo comporta che, spesso, la pluralità
dei soggetti non sempre viene rispettata.
Così l’alterità e la diversità vengono attribu-
ite non a ciascun individuo in quanto essere
differente da un altro, ma solo ad alcuni che
presentano “particolari caratteristiche”, che
li rendono dissimili rispetto all’omologazio-
ne del gruppo. Ed è proprio per questo che
la presenza dei cosiddetto “diverso” nella
società genera conflitti, mette in crisi il nor-
male funzionamento del sistema e condiziona
in modo forte la formazione e la crescita dei
singoli, ancor più quando si tratta di bambini
e/o adolescenti.
La “diversità” è cioè spesso vista in chia-
ve negativa, come “minaccia” della propria
identità e per questo la presenza dei “diver-
so” frequentemente genera sentimenti di pau-
ra, ansia, sospetto. Basti pensare a quanto la
presenza di alterità sessuali, degli immigrati,
di portatori di handicap o dei cosiddetti ca-
ratteri difficili, creino notevoli difficoltà re-
lazionali, quando non direttamente la ripulsa,
all’interno dei gruppi identitari.
Se si riuscisse invece a percepire la “diffe-
renza” non come un limite alla comunicazio-
ne, ma come un valore, una risorsa, un dirit-
to, l’incontro con l’altro potrebbe essere in
certi casi anche scontro, ma non sarebbe mai
discriminazione. E l’incontro diventerebbe
scoperta e affermazione della propria identità
e, contemporaneamente, valorizzazione del-
le differenze.Invece è il pregiudizio, inteso
proprio come giudizio superficiale non aval-
lato da fatti, ma da opinioni, il motore che a
volte muove le azioni e i comportamenti di
tutti noi, che condiziona le nostre relazioni
sociali, ostacolando le opportunità di contat-
to, incontro, esplorazione, scoperta, che sono
i fondamenti del rapporto con l’altro da sé.
Ma il pregiudizio non è innato, ha piuttosto
il suo fondamento nelle influenze familiari,
ambientali, sociali, e si struttura già dalla pri-
ma infanzia. Pertanto, se crediamo sia giusto
cercare di limitare il più possibile l’insorgere
di pregiudizi, è fondamentale intervenire a li-
vello scolastico, educativo, familiare per fare
della diversità una vera ricchezza, un nuovo
paradigma educativo e per stimolare i bambi-
ni e i ragazzi a pensare criticamente piuttosto
che dir loro quello che devono pensare.
In quest’ottica uno dei compiti della socie-
tà, e in primis della scuola dovrebbe essere
quello di educare alla differenza, all’altro, al
diverso, per creare i presupposti di una cul-
tura dell’accoglienza e per impedire l’omo-
geneizzazione culturale. La nostra ricchezza
collettiva è data dalla nostra diversità. L’al-
tro, come individuo o come gruppo, è prezio-
so nella misura in cui è dissimile. Oggi più
che mai la scuola dovrebbe educare gli stu-
denti a considerare il diverso non come un
“pericolo” per la propria sicurezza, ma come
“risorsa” per la sua crescita.
Tuttavia una vera pedagogia della differenza
si esprime non certo in prediche e indottrina-
menti, né con tecniche di persuasione più o
meno sofisticate, ma anzitutto sperimentando
quotidianamente la realtà di una società come
una “comunità di diversi”, che non emargina
chi non è “uguale” o chi non è in grado di
seguire il ritmo dei migliori. E’ chiaro che,
perché tutto ciò avvenga, è necessario porre
come elementi centrali della relazione edu-
cativa l’ascolto, il dialogo, la ricerca comune
e l’utilizzo di metodologie attive e di tecni-
che d’animazione in grado di sviluppare le
capacità critiche, di porsi delle domande, di
imparare a mettersi nei panni altrui, di atti-
vare delle reti di discussione, di uscire dagli
schemi, di essere creativi e divergenti.
Io sono, un pronome e un verbo che usia-
mo in continuazione, poi arriva il sostanti-
vo, senza sé e senza ma…io sono cattolico,
io sono musulmano, io sono ebreo, io sono
italiano, io sono pisano e tu sei livornese, io
sono livornese e tu sei pisano, io sono aria-
no, io sono potente, io sono, io sono, io sono,
una cantilena densa di esclusioni, di scontri,
di segnali di guerra. Il primo Io Sono forte
e chiaro lo troviamo nella Bibbia nel libro
dell’Esodo (Es 3,14-15): Dio disse a Mosè:
«Io sono Colui che sono!».
3 Il problema è che fatichiamo a dare un sen-
so alla nostra vita se non ci identifichiamo,
se non ci raccontiamo chi siamo. Mi chiedo
spesso se è possibile non chiudersi nella gab-
bia del chi sono che abbiamo deciso di es-
Marzo 2015 Gente di Bracciano9
sere, ma di aprire le porte agli altri io sono.
Detta così la questione sembra di facile solu-
zione, basterebbero un po’ di buoni sentimen-
ti per permettere all’amore e alla fraternità di
sbaragliare il perfido nemico, ma la storia e
l’esperienza ci raccontano delle fatiche e dei
guai che spesso intervengono nell’incontro
con l’altro. Non esiste una regola matematica
che possa orientarci, si può solo provare ad
esercitare una grande disponibilità all’ascol-
to, al vivere positivamente anche le fatiche
e le delusioni che possono capitare nell’in-
contro con l’altro, al razionalizzare quello
che a volte diventa l’impossibilità di vivere
insieme, a reprimere gli istinti violenti che
albergano dentro noi. A volte, però, malgra-
do i nostri sforzi è l’altro che è chiuso nella
gabbia dell’io sono senza sé e senza ma, che
fare allora?
Come ho già scritto nel controcorrente 2
Einstein, nel luglio del 1932, presago dei
terribili guai che il nazismo avrebbe provo-
cato, scrisse una lettera a Freud chiedendo
a lui, profondo studioso dell’animo umano,
come fosse possibile liberarsi della violenza,
della guerra, dell’istinto dell’annientamento
dell’altro, del diverso. Freud, nel settembre
dello stesso anno, gli rispose che da tempi
immemorabili l’umanità è soggetta al pro-
cesso dell’incivilimento.
Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo
divenuti e buona parte di ciò di cui soffriamo.
Le sue cause e origini sono oscure, il suo
esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facil-
mente visibili…aggiungendo, subito dopo,
che la “velocità” di questo processo è eguale
a quella di quei contadini che hanno portato
grano al mulino per avere farina e mangiare,
ma questo è talmente lento che rischiano di
morire di fame. Una risposta lucida, ottimi-
sticamente pessimista o pessimisticamente
ottimista, come voi desiderate.
La sera, in quel magico momento prima di
addormentarmi in cui parlo con me stesso
senza remore, mi racconto che io mi sento
quella risposta e che già sentire questa em-
patia mi apre all’ascolto, al dialogo, a quello
possibile, seppure nei tempi del mulino.
Non nascondo che non riesco a trovare “una
conclusione” a queste mie parole in libertà,
troppo arduo chiudere un tema come questo
in due paginette, troppo vischioso, troppo
denso di trappole umane e filosofiche, troppo
pieno di accadimenti terribili che si sono sno-
dati e si snodano tuttora sotto i nostri occhi
per pensare di chiuderle con qualche accenno
di razionalità.
Allora ho cercato qualche poesia che potes-
se esprimere questo mio sentimento, questo
mio bisogno, ho navigato per una mattina in-
tera alla ricerca di una poesia dell’io sono, FrancescoMancuso
rapinatorediparoleinrete
Mia madre non è solo un ventre che si è scoperto per mio padre e per me, quando sono nato.Le donne non sono solo un ventre che si scopre per noi e per i predatori.
Non sono solo due occhi dolci e impauriti, sono il cervello ed il cuore di tutti noi maschi. Spesso l’uomo uccide chi ama, anche il più profondo dei sentimentiha il suo limite,
perchè l’uomo spesso è il peggior nemico di se stesso.
finché non mi sono imbattuto in quella di
Penna d’Aquila Danzante:
Io sono una roccia, ho visto la vita e la mor-
te, ho conosciuto la fortuna, la preoccupazio-
ne e il dolore. Io vivo una vita da roccia.Io
sono una parte di nostra Madre, la Terra.
Ho sentito battere il suo cuore sul mio,ho
sentito i suoi dolori e la sua gioia. Io vivo
una vita da roccia. Io sono una parte di nostro
Padre, il Grande Mistero.
Ho sentito le sue preoccupazioni e la sua
saggezza. Ho visto le sue creature, i miei
fratelli,gli animali, gli uccelli, i fiumi e i ven-
ti parlanti, gli alberi,tutto quello che è sulla
Terra e tutto quello che nell’Universo è.
Io sono parente delle stelle. Io posso par-
lare, quando conversi con me e ti ascolterò,
quando parlerai. Io ti posso aiutare, quando
hai bisogno di aiuto.
Ma non mi ferire, perché io posso sentire,
come te. Io ho la forza di guarire, eppure
all’inizio tu dovrai cercarla. Forse tu pensi
che io sia solo una roccia,che giace nel silen-
zio, sull’umido suolo. Ma io non sono questo.
Io sono una parte della vita,io vivo, io aiuto
coloro che mi rispettano.
Claudio Calcaterra
Marzo 2015 Gente di Bracciano10
Novant’anni fail delitto Matteotti
Dal rapimento all’omicidio.
Nel 2014 si è celebrato il novantesimo anniversario dall’assassinio di Giacomo
Matteotti, avvenuto il 10 giugno del 1924 per mano fascista. Personaggio cui in quasi 4mila Comuni d’Italia è dedicata una via o una piaz-za, a testimonianza di quanto forte e radicata la sua figura nella memoria collettiva del no-stro Paese. Nonostante il silenzio assordante dei media nazionali sull’anniversario, la figura del leader socialista, quest’anno è ricordata in diversi appuntamenti, tra cui anche a Braccia-no e ad Anguillara, grazie al contributo della Fondazione Matteotti. Giacomo Matteotti fu rapito e subito ucci-so sul Lungo Tevere Arnaldo da Brescia di Roma. Il suo corpo fu ritrovato a Riano, in lo-calità Quartarella, a 24 chilometri di distanza dal luogo del rapimento, sotterrato in una bo-scaglia, sessantasei giorni dopo, il 16 agosto.Il tragitto compiuto della lussuosa e vistosa Lan-cia Lambda nera su cui il leader antifascista fu caricato a forza di calci e pugni dalla Ceka mussoliniana, comandata da Amerigo Dumini e composta da Albino Volpi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo e Augusto Malacria, è an-cora oggi oggetto di studi e di ricerche. Anche a questa ricostruzione, oltre che al desiderio
di tramanda-re alle future generazioni la personalità umana e poli-tica di Matte-otti, è dedica-to il mio libro, dal titolo “Il corpo di Mat-teotti”, pub-blicato da Su-raci Edizioni.Su quale sia stato l’itinera-
rio dell’automobile gli assassini hanno sempre sostenuto di non ricordarlo, asserendo di esse-re andati a zonzo per ore nella campagna nei dintorni di Roma. Su cosa sia realmente avvenuto non possiamo
che basarci sugli articoli di stampa di quel periodo. Leggerli fa capi-re che il delitto, uno dei più vio-lenti e atroci del Novecento, in particolare nella dinamica in cui è avvenuto, appar-tiene agli abitanti a nord di Roma più di quanto si-
pensi, anche dal punto di vista geografico. L’omicidio e il ritrovamento del corpo del le-ader socialista, nella riproposizione fantastica o meno di quei giorni, nella cronaca spicciola o attenta dei giornali, nella rappresentazione sincera o meno delle rivelazioni che via via si succedevano, infatti, coinvolse solo ed esclu-sivamente tutta l’area compresa tra la Salaria, la Tiberina, la Flaminia e la Cassia.
Pochi minuti dopo l’ora presunta del rapi-mento – le 16.30 – un avvocato vide sfilare l’automobile assassina all’altezza di Ponte Milvio. Un brigadiere di Finanza, tale Cossu, la notò procedere a gran velocità sulla salita di Tor di Quinto. Un uomo la segnalò invece lungo la via Cassia, mentre la denuncia di uno anonimo l’avvistò di passaggio a Ronciglione. Qui, due persone, Annibale Carelli e il bar-biere Mario Michele, dissero di averla veduta sfrecciare nella piazza del paese proprio nel momento in cui era in corso una tombolata, in occasione della Festa della Madonna. Uno sconosciuto comunicò al quotidiano “Il Mattino” un probabile indizio a Monteroton-do, dove a seguito della telefonata, cinquanta uomini della polizia setacciarono accurata-mente una località sperduta e selvaggia, esplo-rando anche alcuni scavi. Tutti questi indizi imposero agli uomini del-le forze dell’ordine di fare per giorni e giorni perlustrazioni ad hoc in tutta l’area a nord di Roma, fino ad arrivare a scandagliare il lago di Vico e le sue sponde.
Al di là di segnalazioni fatte ad arte, espresse più per depistare che per collaborare, la verità è che per i cinque assassini, che provenienti da l nord non conoscevano per niente le strade intorno a Roma, la situazione, con la precipi-tosa e rapida uccisione del deputato socialista, era sfuggita loro di mano.
Nelle ricostruzioni giornalistiche dell’epoca – come è possibile leggere anche in un artico-lo pubblicato su “La Stampa” del 15 giugno 1924 – alcuni testimoni, tra cui un ragazzo di undici anni, riferirono di aver avvistato la
Lancia Lambda nera anche in località Casac-cia, nei pressi di Anguillara Sabazia. E’ inoltre interessante sapere che la tessera ferroviaria di Giacomo Matteotti, di colore verde oliva, presumibilmente scaraventata dal finestrino dell’automobile dallo stesso leader socialista oppure accidentalmente persa dai rapitori-assassini nella foga del momento, fu ritrovata il 15 giugno sul Lungo Tevere Flaminio, nei pressi di Ponte Milvio, da un contadino di
La sua scheda parlamentare.(Fonte Archivio Storico Camera
Manoscritto di Matteotti riguardante quesiti sulle forze armate (Fonte Archivio Storico Camera dei Deputati)
Marzo 2015 Gente di Bracciano11
Pensiero per Nonna Gabriella
Campagnano in attesa dell’autocarro per tor-nare a casa. Così come è interessante sapere che il 12 agosto 1924, al diciottesimo chilo-metro della via Flaminia, sotto un ponticello stradale, in località Pietra Pertusa, a ritrovare la giacca in tessuto cheviot di Matteotti fu un cantoniere interpro-vinciale di Scrofano, attuale Sacrofano, Aldo Saccheri. A distanza di diciotto lustri dall’avvenimento storico che ha inserito in profondità l’antifa-scismo tra i sistemi valoriali dell’Italia, prima ancora che il fascismo prendesse veramen-te piede, è perciò doppiamente doveroso per l’area a nord di Roma, commemorare il percorso di un uomo che, seppur non crocifisso sul Golgota come Cristo, ha subìto maltratta-menti inimmaginabili, fino al barbaro sotter-ramento, compiuto in un luogo impersonale, freddo e abbandonato. ItaloArcuri
Sei stata la persona più solare che abbia
conosciuto in vita mia, un vero e pro-
prio fiume in piena di ottimismo, "gente al-
legra il ciel l'aiuta" dicevi spesso.
Mi ricordo particolarmente uno tra i tan-
ti motti che amavi ripetere: "non fare mai a
botte Gialluchì, mi raccomando; ma se sei
costretto, dalle, perché se torni e le hai pre-
se, poi quelle che mancano ce le aggiungo
io", era come per dire che nel crescere biso-
gnava imparare a difendersi, ma tu riusci-
vi a dirlo con quell'allegria che avevi tanta
quanto l'aria che respiravi.
Ricordo me bambino, in quella terrazza as-
solata su quel dondolo fatto di fili di plasti-
ca arancioni, con quella vista mozzafiato sul
castello e sul lago di Bracciano.
Ricordo te che cantavi e i profumi della tua
cucina, i peperoni, lo spezzatino in umido, i
filetti di persico fritti.
Ricordo te, piccina piccina, su un lettino di
ospedale dopo un'importante operazione e
i medici che avevano mandato a dire di te-
nerci pronti... una settimana dopo quel gior-
no eri in trattoria con me che mangiavi più
di me.
Sono passati quindici anni da allora, di tem-
po ce ne abbiamo avuto, e tanto di quel tem-
po, purtroppo, lo abbiamo sprecato.
Ma pur avendo avuto tutto questo tempo
per prepararci, noi non ci siamo fatti trova-
re pronti lo stesso.
Ciao Nonna Lella.
Gianluca Scortecci
Manoscritto di Matteotti riguardante una proposta di legge (Fonte Archivio Storico Camera dei Deputati)
Marzo 2015 Gente di Bracciano12
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Marzo 2015 Gente di Bracciano13
Fuffa metropolitana
Con la nascita della città non tramonta la visione romanocentrica
“Pronto?” – “Sì” – “Buongiorno, sono
della Provincia di Roma, ops della
Città Metropolitana di Roma, la chiamavo
per... ”.
Il debutto della città metropolitana, per ora,
è solo uno sterile cambio di parole. A tre mesi
da quella che doveva essere una rivoluzione
istituzionale attesa da decenni non si può non
constatare come, attorno al tema, si sia fatto
tanto rumore per nulla. Gattopardescamente
si potrebbe dire “cambiamo tutto perché nulla
cambi”.
Cambia il nome e non la sostanza. La Cit-
tà Metropolitana ad oggi fa quello che face-
va la Provincia di Roma. La sede è la stessa.
Palazzo Valentini nel centro di Roma a dieci
passi da piazza Venezia. Navigando in rete un
internauta attento può a malapena individua-
re il cambiamento per il reinderizzamento al
“nuovo” sito, vuoto di sostanza e contenuti,
che rimanda in uno schizofrenico rimbalzare
all’ex sito della Provincia di Roma. L’ente era
di area vasta e di area vasta rimane. Tradisce
crudezza ma anche velleità istituzionali il 1°
comma dell’articolo 1 dello Statuto partorito
dalla Conferenza metropolitana ed approvato
con l’atto n. 1 del 22 dicembre 2014.
“La Città metropolitana di Roma Capitale,
- recita - è ente territoriale di area vasta do-
tato di autonomia normativa, amministrativa
e finanziaria secondo i princìpi fissati dalla
Costituzione, dalle leggi e dal presente Sta-
tuto, ispirato a criteri di semplicità, efficien-
za e capacità di fornire risposte strutturali ai
bisogni e alle domande della società”. Sì la
società…quale? Il nuovo ente, più della Pro-
vincia, rischia di essere svincolato dal Paese
reale, dalla vera società in quel crescendo di
livelli istituzionali dove il cittadino non conta
più niente, dove il voto non è più un diritto
dovere dell’italiano. Poche le note positive del
nuovo statuto. La prima, la previsione della ele-
zione diretta. All’articolo 16 è scritto “Il Con-
siglio è composto dal Sindaco, che lo presiede,
e da un numero di Consiglieri stabilito dalla
legge,eletti a suffragio universale e diretto”.
Poi, tra i principi generali, il riconoscimento
alla parità di genere - si vedrà alla prova dei
fatti e l’espressa condanna alla “violenza do-
mestica”.
Ma come potranno i romametropolitani eleg-
gere i propri rappresentanti? Ad oggi non si sa
a quali arcani meccanismi di computo eletto-
rale si farà riferimento. Insomma fuffa, chec-
ché ne dica Graziano Del Rio, checché ne di-
cesse dal pulpito di coordinatore sindaci delle
Città Metropolitane Giorgio
Orsoni, all’epoca sindaco di Venezia e arre-
stato per le tangenti sul Mose. Nulla di nuovo.
Nessuno ha scritto che è ora che Roma non
la faccia più da padrona sull’hinterland, che
non domini su quella cintura un tempo nobili-
tata con il nome di Agro Romano che le dava
grano, carne e formaggio, su quell’immenso
tesoro culturale, delizia per i turisti del Grand
Tour, fatto di ville, di dimore nobiliari e di ca-
stelli.
Nessuno ha scritto che Roma deve smette-
re di bere l’acqua del lago di Bracciano senza
dare nulla in cambio, che i biglietti dei treni
devono avere tariffe uguali almeno fino al
confine della Città Metropolitana stessa. Nes-
suno ha scritto che i Comuni metropolitani (e
Bracciano dal 1° gennaio 2015 è uno di que-
sti) devono veder garantito il diritto alla vita e
quindi ad un ospedale serio ed efficiente, alla
giustizia, con la garanzia di Tribunali di pros-
simità. Nessuno ha scritto che Radio Vaticana,
l’emittente extraterritoriale, deve smettere di
bombardare gran parte dell’area nord della
Città. Nessuno ha scritto che dall’Enea Casac-
cia devono essere trasferiti i rifiuti radioattivi
da destinare al deposito nazionale (?) defini-
tivo.
“Area vasta” è un termine vago per se stes-
so. Serve chiarezza ed incisività. Oggi come
prima altrimenti ci si ricorderà della Città Me-
tropolitana solo se si percorre una strada che
ricade nella sua competenza (a quando – ci si
chiede – la messa in sicurezza della Settevene
Palo I e II), se si vuole andare a raccogliere
funghi e serve il tesserino o andare a pesca, se
si vuole andare a pescare sul lago e serve l’au-
torizzazione, se in un liceo cade una finestra in
testa a uno studente.
Il lavoro e la formazione restano un capito-
lo a parte. Il sito www.capitalelavoro.it sta lì,
incurante della pseudo novità. La società in
house della Provincia di Roma si occupa oggi
di lavoro, formazione professionale, nuove
tecnologie, sociale, ambiente, formazione del
personale provinciale. A dirigerla fino all’ap-
provazione del bilancio 2016, un Consiglio di
Amministrazione il cui presidente e ammini-
stratore delegato percepiscono, fino all’appro-
vazione del bilancio 2016, 81mila e 600 euro
l’anno ciascuno. A nominarli degli organismi
provinciali ormai decaduti. L’interregno ri-
schia di essere lungo e pieno di incognite.
Intanto a Bracciano e non solo si chiede il re-
ferendum. Oltre 4mila le firme raccolte. Den-
tro o fuori? La risposta potrebbe essere “ma di
che parliamo?”.
GraziarosaVillani
La non violenza è una cosadell’animo;
è un valore, è come la musica,la poesia.
AldoCapitini
Marzo 2015 Gente di Bracciano14
Scoppia la Primavera
L’armonia a suon di mandolini e chitarre
Eccoci arrivati al momento della partenza.
L'entusiasmo è alle stelle. Nove di sera:
al centro anziani c'è una grande animazione o
forse sarebbe meglio dire una grande “cacia-
ra”. Qualcuno ha già portato lo “strumento”
e prova un accordo canticchiando una canzo-
netta. Naturalmente di accordo ce n'è poco: le
parole vanno da una parte e la “musica”, si fa
per dire da un'altra. Gran risate.
Arriva il maestro Salvatore Mele. Silenzio.
Si dispongono le sedie in circolo. Breve intro-
duzione. Succo del discorso occorre studiare,
fare molta attenzione e…provare e riprovare.
Innanzi tutto il maestro sottolinea l'importan-
za del solfeggio e invita i portatori di “stru-
mento a metterlo da parte, ma a…spolverarlo
ogni tanto.
Così sera dopo sera la sala è un risuonare di
do.o.o.o, mi.i.i. re.e.e.e, di: “attenzione non è
un do, è un mi, quattro quarti, due in battere e
due in levare, e così via.
Il “Branzoli”, in quelle serate, diventa la Bib-
bia di tutti noi apprendisti musicisti.
L'impegno di tutti e di ciascuno è forte: in
poco tempo le note sugli spazi e sulle righe,
vengono individuate al primo colpo d'occhio.
Un' altro passo avanti: il solfeggio diviene
sempre più impegnativo.
La pazienza del maestro è messa a dura pro-
va. I progressi però, si vedono o meglio...si
sentono.
L'unico sconfitto è chi scrive, perché nono-
stante il suo impegno e la sua buona volontà,
è costretto dalle lamentele dei figli e da quelle
degli inquilini del palazzo, a gettare la spugna.
Il buon maestro Mele, da persona intelligente,
vista la mia disperazione, mi assegna il com-
pito di presentare la Primavera e, brevemente,
le caratteristiche dei brani musicali “compito”
che rende felice e svolgo con il massimo im-
pegno. La voglia di far bene, la buona volontà,
la costanza, danno i primi frutti: finalmente si
passa allo “strumento” compaiono i mandoli-
ni, le chitarre, il basso e, in un primo tempo,
anche i violini.
Il maestro Mele ha un gran da fare ad ar-
monizzare le “voci” degli strumenti. Arriva
finalmente il giorno del grande debutto, 2004:
chiesetta del riposo. Grande emozione. L'inno
della primavera lungamente provato emozio-
na, e non poco, i presenti. Applausi e richiesta
di bis. L'impegno di tutti prosegue. Il reperto-
rio si arricchisce di nuovi brani musicali.
Maggio 2006: festa della primavera nella te-
nuta Santa Barbara. La primavera si esibisce
davanti ad un folto e attento pubblico. All'in-
no, seguono applauditissimi, “o sole mio”,
“quanto sei bella Roma”, e “voglio amarti
così”.
Ormai la Primavera è “lanciata”, arrivano
importanti riconoscimenti che rendono parti-
colarmente orgogliosi i componenti del grup-
po, e naturalmente il maestro Mele. Di cosa si
tratta? E' presto detto: tra i 278 comuni della
Regione Lazio, ne sono stati scelti 18 e, tra
questi 18 c'è il comune di Bracciano e la Pri-
mavera premiata come associazione che espri-
me al meglio la musica popolare.
Una bella soddisfazione. Che ve ne pare?
Gli anni che seguono sono anni intensi: di
studio, di preparazione, di concerti di successi.
Il repertorio si amplia sempre di più. La tec-
nica si affina. La Primavera, lentamente ma
inesorabilmente scala “l'olimpo”.
E poi? All'orizzonte appaiono nubi. Saranno
minacciose? Chissà. E poi? Ma su lo sapete! Il
poi alla prossima.
LuigiDiGiampaolo
Caffè Grand’ Italia
ServizioTrasportoPubblico
www.braccianotaxi.it
(+39) 329 42 51 067(+39) 345 34 49 836
Marzo 2015 Gente di Bracciano15
Ombre e luci della vita di “paese” nel terzo millennio
Il fascino del vivere in un paese piuttosto che
in una città è legato ad una serie di ragioni
e suggestioni che riguardano direttamente la
qualità della vita spaziando dalla riscoperta
del valore dei riti e dei simboli, alla voglia di
ritrovare ritmi più umani, un tempo più lento
e meno stressante in cui gli sguardi e le parole
ritrovano strade più umane, meno intasate di
noncuranza e indifferenza. Queste più o meno
le spinte che hanno agito su tanti cittadini che,
a un certo punto della loro vita, hanno deciso
di traferirsi in un centro urbano più piccolo
alla ricerca di uno stile di vita diverso, salvo
poi pentirsi e rimpiangere l’atmosfera più mo-
vimentata della metropoli di fronte ad una re-
altà ben diversa da quella sedimentata nell’im-
maginario collettivo.
Bracciano in particolare intorno agli anni ’90
è stata meta di trasferimenti abbastanza mas-
sicci da Roma tanto da portare, nel giro di 20
anni, al raddoppio della popolazione (da 10 a
20.000 abitanti) con i conseguenti problemi di
integrazione tra la comunità storica del paese
ed i nuovi arrivati concentrati, tra l’altro, in
una zona di recente edificazione denominata
fin dalla sua nascita “Bracciano Due” ed oggi
ribattezzata come “Bracciano Nuova”.
Riuscire ad integrare i due nuclei urbani, i
quali hanno caratteristiche socio demografiche
molto diverse tra di loro, è stato l’obiettivo
perseguito da tutte le amministrazioni comu-
nali susseguitesi in questi anni che gradual-
mente hanno messo in campo iniziative per
migliorare la situazione dei servizi pubblici
offerti a “Bracciano Nuova”.
Con il tempo le criticità più pesanti sono sta-
te parzialmente risolte e “Bracciano Nuova”
ha oggi luoghi di aggregazione, uffici, negozi,
parchi, anche se è legittimo chiedersi quanto
questo moderno quartiere riesca a soddisfare
le aspettative di chi, in un periodo della pro-
pria vita, aveva pensato di allontanarsi dalla
città per scegliere una vita più genuina, fatta di
relazioni umane autentiche e solidarietà socia-
le. In realtà la vita di un paese come Bracciano
oggi non presenta più queste caratteristiche
sociali. La piazza, simbolo per eccellenza del
luogo di sosta e di incontro nella struttura urba-
nistica del paese, non è molto diversa dal resto
dei luoghi urbani dove le persone si muovono
in fretta e non hanno tempo per chiacchiere,
parole, storie, leggende, personaggi.
Ugualmente, le relazioni tra le persone non
sono così idilliache come ci si continua a rac-
contare, la vita è cambiata per tutti, città e pa-
esi che, pur mantenendo proporzioni diverse,
presentano caratteristiche sempre più simili
tra di loro.
Anche per chi è nato e vissuto nel paese è
evidente che le cose sono molto cambiate nel
corso degli anni nel senso che il clima di “fa-
miglia allargata” che connotava la vita delle
piccole comunità che costituiva una solida rete
sociale non è più una caratteristica così pro-
nunciata nel tessuto territoriale.
Tra le tante persone che tra città e paese han-
no fatto la loro scelta in favore della vita di
paese, sicuramente ci saranno quelli soddi-
sfatti e quelli che rimpiangono la metropoli,
così come anche tra i nativi braccianesi ci
sono quelli che apprezzano la loro condizione
e quelli che aspirano a cambiamenti di luogo.
Questo per dire che non ci sono scelte giuste o
sbagliate. Scegliere dove e come vivere è una
questione strettamente personale, certo è che
nel nostro mondo globalizzato le differenze
tra vita di paese e vita di città appaiono for-
temente ridimensionate anche se non proprio
azzerate.
BiancamariaAlberi
Era freddo più di un bacio rubato,Ma volle fermarsi tra gli alberi spogli, Per un bacio, per avere il suo bacioIn quel campo ghiacciato.Non gridare il tuo piacereNon farti sentire.
Mi insultava, dall’offesa umiliataMi offriva la pace con gesti di pace.Sussurrava di parole carezze.Mi sentivo per amor consolata.Non gridare il tuo piacereNon farti sentire.Mi calpestava gelido,
Dignitosa protesta era il silenzio.Mi sorrideva, mi attirava,Piangeva, il suo piantoD’amore era gridoNon gridare il tuo piacereNon farti sentire
Mi colpiva selvaggio,Ma il mio cuore mentiva,Confondeva la mente.Parole di miele a smentire l’oltraggio.Non gridare il tuo piacereNon farti sentireTra quegli alberi spogli,
Si sfogò con ferocia,Con rabbia mi preseNaufraga tra onde e scogli.Grida di piacereChe ti possano sentire
Mentre il collo serrava, Con le sue mani, crudele.Custodivo dolore nel gremboDel suo piacere il seme.Del tempo nell’attimo senza tempoAngosciata il mio errore scoprivoQuell’uomo non mi amava.
Amore Sbagliato
RodolfoDamiani
Vado a vivere a...
Rosina Albieri La fioraia paladina degli infermi e dei bisognosi. Un’infaticabile donna che si è spesa sempre per gli altri
La storia che andremo ora a raccontare è
quella di una donna che forse le nuove
generazioni non conoscono ma che proprio
per questo motivo deve essere raccontata:
Stiamo parlando di Rosina Albieri.
La sua storia inizia nel 1917 quando, a soli
ventun anni, opera come infermiera sui cam-
pi di battaglia per assistere e donare sangue ai
soldati feriti con l’entusiasmo e la generosità
che Le venivano dalla sua terra d’origine, il
Polesine.
Nel 1922 si stabilisce a Bracciano e da quel
momento fino alla seconda guerra mondiale
sono frequenti i casi cui interviene per portare
il suo aiuto: assiste gli ammalati e sorregge gli
infermi, va a lavorare per consegnare il ricava-
to a famiglie estremamente indigenti, privan-
dosi ella stessa del cibo. I suoi pensieri sono
tutti per la sua famiglia, il figlio e i bisognosi.
Arriva la seconda guerra mondiale.
I bombardamenti non risparmiano neppure
Bracciano e allora Rosina Albieri, o semplice-
mente come la chiamavano tutti Rosina, cor-
re in aiuto di tutti come già aveva fatto sui
campi di battaglia della prima guerra mon-
diale. Nel settembre del 1943 sopraggiunge a
Bracciano l’armistizio. Il paese diventa teatro
di aspri combattimenti tra la colonne tedesche
che avanzano dal nord e le truppe italiane che
presiedono la zona. Di nuovo la guerra pro-
duce feriti, morti e dolore. E’ sempre Rosina
ad accorrere in aiuto dei feriti e a raccogliere
le vittime. Rosina raccoglie dal campo di bat-
taglia il corpo di Udino Bombieri, il sergente
carrista di Vicenza che sarà poi insignito della
medaglia d’oro. La nostra Rosina non sente
mai la fatica per il suo operato: anzi, sembra
che le sue energie non finiscano mai. La fine
della guerra non segna la fine delle fatiche di
Rosina: la donna continua a prestare la sua
opera di soccorso per feriti e morti tanto da
essere considerata per ospedali come il Poli-
clinico di Roma come una delle più assidue
donatrici di sangue.
Rosina non cesserà mai di stare vicino alle
vittime e al loro ricordo: a Lei si devono i tanti
omaggi floreali (la donna aveva un negozio di
fiori che ancora oggi molti ricordano ubicato
presso via Principe di Napoli angolo via XX
Settembre) deposti presso il monumento ai ca-
duti di piazza IV Novembre.
Nel 1949 il Commissariato Generale per le
Onoranze Funebri elogia pubblicamente Ro-
sina Albieri per la sua opera “prestata nel pe-
riodo bellico ed immediatamente post-bellico;
opera di soccorso verso i feriti da mitraglia-
mento e bombardamento e di raccolta e di
composizione dei corpi militari e civili caduti
in seguito ad azioni belliche”.
Ecco la storia di un personaggio di cui non
sentiremo, forse, parlare sui libri di storia ma
che sempre parlerà nei cuori dei Braccianesi.
MassimoGiribono
Riscopriamo il potere dell’uomo senza potere della capanna di Betlemme,dove più di duemila anni fà un uomo venne ucciso per aver dato al mondo il vero potere: L’amore
Auguri a tutti i nostri lettori di una Buona Pasqua La Redazione
Marzo 2015 numero 3