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GEROLAMO FAZZINI SIAMO SIAMO TEMPO TEMPO (L’abbiamo scordato?)

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G E R O L A M O F A Z Z I N I

SIAMOSIAMOTEMPOTEMPO

( L’ a b b i a m o s c o r d a t o ? )

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Collana «Emibook»

AA.VV., In poche parole, Francesco. Il papa gesuita in 9 termini chiaveLorenzo Fazzini, Dio in quarantena. Una teologia del coronavirusFrancesco Muzzarelli, Spaesati in casa. Orientarsi al tempo del Covid-19Gerolamo Fazzini, Siamo tempo. (L’abbiamo scordato?)

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Gerolamo Fazzini

SIAMO TEMPO

(L’abbiamo scordato?)

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Contatti della nostra Casa editriCe per:✓ iscriverti alla nostra newsletter: www.emi.it ✓ invitare i nostri autori: [email protected] ✓ librai: [email protected]✓ giornalisti: [email protected] ✓ informazioni generali: [email protected]

1ª edizione: aprile 2020

Copertina di Zanini ADV

Impaginazione: La Grafica – Soluzioni per la stampa © EMI, 2020

Editrice Missionaria Italiana – Impresa sociale srlVia Bernini Buri, 99 – 37132 VeronaTel. 045 [email protected] ISBN edizione digitale (Pdf) 978-88-307-2479-2Disponibile anche in edizione Epub: 978-88-307-2480-8

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Ai miei figli Luca e Ana Maria

Abbiamo due vite e la seconda inizia quando ti rendi conto che ne hai solo una.

Mário de Andrade

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INDICE

Introduzione ............................................... Pag. 7

Parte prima. L’oro è il tempo (e non viceversa) ........................................ » 10

Parte seconda. Loro è il tempo. Ovvero: l’amore ai tempi del Covid-19 » 31

Ringraziamenti ........................................... » 38

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INTRODUZIONE

Ormai è diventato un mantra: quando sarà passata, la pandemia non lascerà tutto come pri-ma. Andrà davvero così, oppure – ancora una vol-ta, purtroppo – esibiremo la nostra incredibile in-capacità di imparare dal passato e, per converso, di metabolizzare rapidamente anche le tragedie più grandi? Diventeremo migliori? Non lo so, nes-suno lo sa. Lo scrittore israeliano David Gross-man se ne dice certo: «Dopo la peste torneremo a essere umani» (Repubblica, 20 marzo 2020); il fi-losofo sudcoreano Byung Chul Han replica scet-tico: «Nessun virus è in grado di fare la rivoluzio-ne» (El País, 22 marzo). Chi ha ragione? Non lo so.

Nelle ultime settimane, tante voci si sono leva-te per invitare ciascuno di noi a riflettere con cal-ma, a non lasciare cadere gli inediti pensieri che ci passano per la testa, a non lasciar evaporare le strane sensazioni che abbiamo nel cuore. C’è chi ha saggiamente consigliato di trasformare la si-

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tuazione in occasione. Papa Francesco, nella sua potente omelia del 27 marzo scorso in una piaz-za San Pietro deserta, ha ridestato le coscienze di tutti con parole che indicano una rotta nuova: «La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i no-stri progetti, le nostre abitudini e priorità. […] In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, sia-mo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta».

Ecco, se hanno un senso le pagine che seguo-no, esso consiste nel provare a rendere propizia questa singolare «quarantena esistenziale» nel-la quale siamo immersi nostro malgrado e della quale – a oggi – non vediamo una fine certa.

Non aspettatevi un trattatello: mi sono limi-tato a raccogliere, ordinare e collegare una serie di spunti di vario genere sul tema del tempo, tra i molteplici che l’attuale temperie culturale ci of-fre. È come se mi fossi fermato a meditare ad alta voce e condividessi con voi alcune considerazio-

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ni. Mi colpisce positivamente che molti richiami profondi e pensieri provocatori vengano da don-ne e uomini non credenti.

A dire: c’è una grammatica umana elementare da riscoprire. E da cui ripartire.

2020, 12 aprile, mese IV d.C.-19Pasqua di Resurrezione

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Parte primaL’ORO È IL TEMPO

(E NON VICEVERSA)

Una salutare decelerazioneUna salutare decelerazione

Qualcuno ha scritto che l’esperienza che stia-mo vivendo ai tempi del Covid-19 lascerà un segno incancellabile, come la cicatrice che sul braccio la-sciava il vaccino antivaioloso. Un fatto è assoda-to: l’imprevedibile epidemia attuale ci ha costretto a fare i conti con il tempo. Michele Serra, su Ro-binson, il supplemento culturale settimanale di Re-pubblica, il 4 aprile scorso ha scritto: «Molte, mol-tissime delle cose che stiamo rivalutando chiusi in casa, e molte di quelle che adesso malediciamo, avremmo dovuto benedirle e maledirle molto pri-ma. Ma siamo fatti così, molto cicale e poco for-miche, la previdenza non è il nostro forte, il tem-po l’abbiamo compresso nella manciata di giorni che camminano al passo con noi; sarà già tanto, quando

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il mondo ripartirà, se l’indice della saggezza col-lettiva sarà aumentato dell’uno per cento».

Su La Lettura del Corriere della Sera, il giorno dopo, Nuccio Ordine intervista un gigante della cul-tura europea, Edgar Morin. Alla domanda sull’im-portanza di riscoprire l’importanza della lentezza, Morin replica: «L’epidemia, con le restrizioni che genera, ci ha obbligato a compiere una salutare de-celerazione. Io stesso ho notato un forte ridimen-sionamento del mio ritmo quotidiano. Adesso, con maggior coscienza, mi sto (ci stiamo) riappro-priando del tempo». Poi aggiunge: «Bergson aveva capito bene la differenza tra il tempo vissuto (quel-lo interiore) e il tempo cronometrato (quello este-riore). Riconquistare il tempo interiore è una sfida politica, ma anche etica, esistenziale».

Che cosa si è davvero infettato?Che cosa si è davvero infettato?

Per capire che cosa stia davvero cambiando in queste settimane si potrebbe partire da un Car-neade, tal John Harrison. Il grande pubblico ha

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scoperto questo orologiaio inglese, cui dobbia-mo nel 1761 l’invenzione del cronometro marino, il 2 aprile scorso, grazie a Stefano Massini. Nei po-chi minuti del suo seguitissimo show settimanale all’interno di Piazzapulita su La7, ha portato in sce-na l’illuminante dialogo tra Harrison e il re inglese Giorgio III, a partire dal quale l’attore ha preso di mira l’abitudine, che tutti abbiamo, di ipotecare il futuro, considerandolo scontato: tant’è che, come ha ironizzato Massini, è (era?) diventato norma-le fissare scadenze da un anno all’altro, program-mare viaggi con mesi di anticipo, stipulare con-tratti pluridecennali… Il coronavirus, insomma, ha infettato ben più che i corpi, perché è anda-to a incrinare la nostra concezione del tempo, to-gliendoci, nei fatti, il «controllo totale» del futuro. Non solo: l’inedita situazione in cui ci troviamo immersi ci obbliga anche a un nuovo modo di vi-vere il presente. Perché di colpo noi – generazio-ne abituata al «tutto e subito», alle risposte just in time, a ordinare merci dall’altra parte del mondo a colpi di clic, noi, che abbiamo persino inventato le «guerre lampo» – ci vediamo costretti a misurarci

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con i tempi dilatati e imprevedibili dell’attesa. Ma facciamo una fatica boia, perché il «durante» non lo accettiamo, il «già e non ancora» ci inquieta.

Frastornati dalla frettaFrastornati dalla fretta

Essere stati costretti a rimanere in casa ha ob-bligato molti di noi a rimodulare orari, ritmi e abi-tudini. In una simpatica vignetta del New Yorker si vede un tizio, collegato dal pc di casa, che escla-ma, stupito: «Oh, mio Dio… Tutte quelle riunioni avrebbero veramente potuto essere email». E sul Sole 24 Ore del 12 aprile Vincenzo Barone firma un pezzo intitolato «Vivere senza più l’orologio», nel quale parla degli effetti della pandemia come di un «gigantesco esperimento di rallentamento del tempo».

Ma non è (solo) questo il punto. C’è molto di più, come ha acutamente osservato Paolo Gior-dano nel suo instant book Nel contagio, uscito il 26 marzo (Einaudi-Corriere della Sera): «Siamo da-vanti a qualcosa di più grande, che merita la no-

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stra attenzione e il nostro rispetto. Molto in que-sta crisi ha a che fare con il tempo. Con il nostro modo di organizzare, di torcere, di subire il tem-po. D’un tratto la normalità è la cosa più sacra che abbiamo. Ora è il tempo dell’anomalia, dob-biamo imparare a viverci dentro, trovare delle ra-gioni per accoglierla che non siano soltanto la paura di morire». La questione è che l’emergenza coronavirus ha innescato una serie di novità, tan-to imprevedibili e importanti quanto potenzial-mente feconde. Quanto accaduto e sta ancora ac-cadendo ha radicalmente cambiato, almeno per la larga maggioranza di noi, il ritmo delle nostre giornate, la velocità delle attività in cui siamo im-pegnati. Non sto dicendo che sia scattata una va-canza generalizzata o giù di lì. Anzi: per molti si è verificato esattamente il contrario (penso a tan-ti docenti che, per essere all’altezza della didattica a distanza, si sono fatti letteralmente in quattro).

Ma c’è di più. L’emergenza Covid-19 si è abbat-tuta come un uragano su un pianeta che pensava-mo tecnologicamente evoluto, abituato a reagire in tempo reale alle disgrazie, a sfoderare soluzio-

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ni d’avanguardia per ogni imprevisto. E invece no: questo maledetto virus strisciante, tanto invisibile quanto diabolico, sta mettendo in ginocchio l’Eu-ropa, minando economie sin qui solide come quel-la americana, minacciando interi continenti (cosa capiterà se dovesse sfondare in Africa?). Questo virus ci sta facendo scoprire più che mai fragili. An-che a noi, uomini del terzo millennio, ci è rivelato, come d’incanto, quel che siamo ma dimenticava-mo di essere: vulnerabili. E come ai nostri progeni-tori nel Paradiso terrestre, tutto questo ci fa male. Ce ne vergogniamo, come chi venga denudato e riportato alla sua verità più profonda: il limite.

La grande amnesiaLa grande amnesia

«Il tempo è soltanto il brevissimo momento presente, simile a un cavallo bianco al galoppo, che in un istante sparisce ai nostri occhi». Narrano le cronache che padre Matteo Ricci, il grande gesui-ta pioniere della missione moderna in Cina, rispo-se così al ministro del Personale Li Dai che gli ave-

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va chiesto l’età (Ricci stava per compiere 50 anni). Da profondo intellettuale qual era, il missionario marchigiano aveva chiarissima la coscienza della strutturale provvisorietà o, se preferite, della pre-carietà ontologica che caratterizza tutti noi umani.

Si dirà: Ricci era un uomo del Rinascimento, noi oggi siamo nel XXI secolo, tecnologie, scien-za e medicina hanno fatto passi da gigante, l’età media si è allungata moltissimo, anche in mol-ti paesi in via di sviluppo. E, dunque, oggi il «caval-lo bianco» di Ricci galoppa per nostra fortuna a una velocità assai minore. Il celebre gesuita morì a 58 anni, l’età che raggiungerò io a dicembre di quest’anno; ma io mi auguro, a differenza di Ricci, di poter vivere ancora un po’, visto che le statisti-che sono dalla mia.

Eppure. Ancora una volta, il Covid-19 ci ha sbattuto in

faccia con una violenza tanto smisurata quanto imprevedibile quanto ragionamenti come quello di poco sopra siano fragili ed effimeri. La Gran-de Amnesia consiste nel continuare a pensare che «abbiamo tempo», anziché renderci conto che

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«siamo tempo». La verità, repetita iuvant, è che il tempo non è nostro e che – sebbene siamo sem-pre più tentati di entrare nei panni di novelli Pro-metei – la nostra essenza di «figli del tempo» non muta, nemmeno col passare dei secoli. La cosa grave è che non l’abbiamo semplicemente dimen-ticato: l’abbiamo s-cordato, «tolto dal cuore», eli-minato dalla nostra consapevolezza più profonda.

L’illusione dell’immortalitàL’illusione dell’immortalità

Mi sembra di osservare un paradosso di fon-do della pandemia dentro la quale siamo immersi: le zone più colpite dal terribile virus (almeno sino al momento in cui sto scrivendo), ossia le zone dove di colpo Sorella morte ha fatto visita agli uomini con frequenza e intensità maggiori, sono le stesse dove si lavora e si produce a ritmi più in-tensi che altrove (e dove, ahimè, l’inquinamento è più alto). Una sorta di contrappasso nemmeno tanto simbolico. In Cina è stata l’industriosissi-ma Wuhan, in Italia la locomotiva-Lombardia, ne-

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gli Usa è toccato a New York, cuore della finan-za mondiale, di quella Wall Street dove, nel giro di pochi secondi, passano fortune economiche gi- gantesche, flussi di denaro spaventosi. In altre pa-role, proprio nelle zone in cui la regola era «il tempo è oro», sono totalmente saltati gli schemi.

È sempre più evidente che non sono solo i rit-mi della giornata, con il Covid-19, ad essere com-pletamente scardinati. No, è accaduto, sta acca-dendo molto di più: stiamo toccando con mano quanto vicina a noi, a tutti noi (ricchi e poveri, occi-dentali e orientali e via dicendo) possa farsi – im-provvisamente – la morte. Una morte che miete, senza pietà, amici, familiari e parenti. E ci fa, di col-po, cambiare la percezione fondamentale del no-stro essere. Getta una luce abbagliante, come una fotoelettrica nella notte, sulla vita e il suo senso.

L’unica energia non rinnovabileL’unica energia non rinnovabile

Uno dei segni più vistosi dell’Alzheimer collet-tivo del quale siamo vittime è l’abitudine a pro-

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grammare il domani, ipotecando il futuro come se fosse nostra proprietà. La pubblicità fa di tut-to per convincerci della nostra terrena immorta-lità: dalla crema anti-rughe alle polizze anti-tutto, dagli 8 airbag alle porte blindate, tutto è pensato come se la nostra sorte fosse definitivamente an-corata a questa terra. È una malattia tipica delle società benestanti, laddove i consumi anestetiz-zano (o cercano di farlo) la percezione del tempo che scorre ineluttabilmente.

Si fa un gran parlare di energie rinnovabili, del-le risorse a rischio del pianeta; peccato che pochi si interroghino sul più prezioso e meno rinnova-bile dei tesori dell’uomo: il tempo. Come mai? La verità è che abbiamo dimenticato una delle pre-ghiere più belle – ma anche più scomode – con-tenute nella Bibbia. «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore». Vie-ne alla mente anche il salmo 48: «Lo stolto e l’in-sensato periranno insieme e lasceranno ad altri le loro ricchezze. / Il sepolcro sarà loro casa per sempre, loro dimora per tutte le generazioni, ep-pure hanno dato il loro nome alla terra. / Ma l’uo-

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mo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono».

Siamo tutti precari (Zuckerberg compreso)Siamo tutti precari (Zuckerberg compreso)

Dalla Scrittura alla filosofia, dal salmista alla psicanalista. «L’epidemia ci obbliga a confrontarci, oltre che con la solitudine, con i limiti e la morta-lità. La situazione attuale ci fa comprendere che la vita è una sopravvivenza continua perché esi-stono limiti, obblighi, fragilità, una dimensione che nelle religioni era ben presente e che l’uma-nesimo contemporaneo tende a cancellare. Così come si tende a espellere da noi la questione del-la mortalità, il limite più grande, che pure fa parte della natura e della vita». A esprimersi così non è un prelato o qualche maestro spirituale di oggi, ma Julia Kristeva, una intellettuale laica tra le più famose a livello europeo. L’ha fatto in un’intervi-sta con Stefano Montefiori dal titolo «La nostra scommessa è la nuova tenerezza», pubblicata su La Lettura del Corriere il 29 marzo. Le parole della

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Kristeva ci rimandano a una verità tanto elemen-tare quanto censurata: non siamo eterni su que-sta terra. Passeremo. Presto o tardi, ma ce ne an-dremo di qui. La verità, difficile da accettare, è che sotto il profilo esistenziale siamo tutti preca-ri. Dall’ultimo degli stagisti al banchiere svizzero ricco sfondato, dall’operaia stagionale all’impren-ditore sulla cresta dell’onda, sia egli il fondatore di Facebook o lo stilista più affermato del made in Italy. Davanti a Sua Maestà il tempo siamo tutti uguali. Punto. Una consolazione o una maledizio-ne? Fate voi. La sostanza non cambia.

Una società «postmortale»? Una società «postmortale»?

L’epidemia del coronavirus è come se ci aves-se ridestato da un sonno profondo, durante il quale la coscienza del nostro essere morta-li si era come attutita fino a sparire. A cosa allu-do? Non trovo di meglio per dirlo che riprende-re un illuminante articolo di Aldo Schiavone. «Se la tecnica cancella la morte naturale», pubblicato

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su Repubblica il 28 luglio di dodici anni fa. Dice-va così: «Dobbiamo prepararci a gestire la mor-te (f inché avremo a che fare con essa), come l’esito di una scelta responsabile, almeno per la mag-gior parte delle donne e degli uomini che abitano la parte tecnologicamente avanzata del pianeta, rispetto a una prosecuzione della vita alle condi-zioni (relazionali, affettive, esistenziali) rese pos-sibili dalla tecnologia di volta in volta disponibile, e non più come un evento scandito da una trama ineluttabile di consequenzialità fuori controllo». Me lo chiedo sottovoce, col massimo rispetto: oggi potremmo scrivere le medesime frasi? Con la pandemia del coronavirus, la morte non si è forse ripresentata esattamente come un evento scandito da una trama ineluttabile di consequenziali-tà fuori controllo?

Il brano di cui sopra l’ho trovato in un testo firmato dal priore della comunità monastica di Bose, Luciano Manicardi: un libro di nove anni fa, un vero e proprio gioiellino, intitolato Memo-ria del limite (Vita e Pensiero, 2011) e con un sot-totitolo non meno interessante: «La condizione

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umana nella società postmortale». Avete letto bene: postmortale. Come a dire che, nella cultura contemporanea, si era via via sedimentata l’idea che oggi, grazie alla medicina e alla tecnologia, la morte non fosse più quel nemico invincibile che solo fino a pochi decenni fa appariva come tale. E meno ancora lo spauracchio che i preti poteva-no agitare nel Medioevo per costringere le per-sone ad andare in chiesa (indimenticabile la scena spassosissima di Non ci resta che piangere quando, a colui che severamente lo ammonisce «Ricorda-ti che devi morire», Massimo Troisi replica serafi-co: «Mo’ me lo segno»).

Uomini, Uomini, ergoergo vulnerabili vulnerabili

La coscienza della strutturale vulnerabilità dell’uomo non è affatto copyright dei credenti: la storia della filosofia e della letteratura sono lì a dirlo. Venendo a noi: Antonio Polito, vicediretto-re e apprezzato editorialista del Corriere della Sera, pur cresciuto con un’educazione cattolica oggi

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dice di non credere. Il che non gli ha impedito di scrivere un best seller dal titolo Prove tecniche di resurrezione (Marsilio, 2018), molto profondo e in-trigante. Dialogando con Davide Perillo, diret-tore di Tracce, il 2 aprile scorso, Polito parla del sentimento di vulnerabilità come di un’evidenza portata dal coronavirus. E spiega: «Accorgersene è decisivo. Nel mondo dei nostri genitori o non-ni, dove si moriva a trent’anni, un’epidemia come questa era quasi un evento normale. Oggi no, nella nostra epoca la precarietà è qualcosa che tendiamo a censurare. Anzi, c’è addirittura una ricerca dichiarata di immortalità. Mentre stia-mo combattendo con il virus, nel posto più avan-zato del mondo, la California della Silicon Valley, ci sono i proprietari delle Big Tech che investo-no miliardi nelle biotecnologie o nell’integrazio-ne tra uomo e macchina. Abbiamo già centinaia di corpi ibernati in attesa che la scienza trovi il modo di riportarli in vita… Il sogno dell’immor-talità è potentissimo nella società contempo-ranea. Che si ritiene l’ultima civiltà, la definitiva, quella che può raggiungere la liberazione dell’uo-

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mo dalla morte. Ecco, in una società che vive di una hybris così potente da sentirsi fiera di sé, in-vulnerabile, la scoperta di questa fragilità è an-cora più sconvolgente. È un trauma terribile. Ma può essere utile».

La questione è l’unità di misuraLa questione è l’unità di misura

Su Internazionale del 20 marzo scorso, una gior-nalista britannica, Laurie Penny, in un intervento dal sorprendente titolo «Per battere il virus dob-biamo essere altruisti» ha scritto: «La mentalità comune del neoliberalismo incoraggia l’interesse personale e il pensiero a breve termine. Richiede che la vita sia organizzata attorno a quel tipo di insicurezza e stress continuo che ci impedisce di pensare al di là del prossimo anno fiscale». Ama-ra la conclusione: «Le malattie più gettonate nel prossimo secolo saranno quelle che sfrutteranno la nostra modalità fallimentare di vivere». Dietro il j’accuse della Penny si intravvede la critica radica-le (e giustificata) a un modello economico basato

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esclusivamente sul profitto a breve termine: una logica di corto respiro che ha prodotto e produ-ce conseguenze negative incalcolabili.

L’orizzonte di riferimento – la tragedia del co-ronavirus ce lo conferma una volta di più – è de-cisivo per capire le priorità dell’uomo e il suo modo di intendere la vita. In una celebre pagina, Charles Péguy parla di un viandante medievale che passa vicino a una cava di pietra. Avvicinatosi al primo lavoratore, cui aveva chiesto cosa stes-se facendo, si sente rispondere: «Mi sto ammaz-zando di fatica». Pure il secondo lo rimprovera aspramente: «Non lo vedi? Lavoro da mattina a sera per mantenere mia moglie e i miei bambini». Finalmente il pellegrino incontra un terzo spac-capietre, stanco non meno degli altri. Ma gli oc-chi, quelli, sono diversi. E alla domanda del pelle-grino, l’artigiano risponde con un sorriso carico di fierezza: «Non lo vedi? Sto costruendo una cattedrale».

Cosa dice a noi, oggi, questa storia? Provo a dirlo così: ciò che fa la differenza è l’unità di mi-sura, la prospettiva che si ha sul tempo. Se l’oriz-

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zonte è l’eternità, le cose cambiano. Saper guar- dare lontano è la virtù che possiede chi contem-pla gli altri in un orizzonte grande, ossia chi pen-sa al «dopo di sé». Virtù rara, chiosa Marco Da-milano nel suo pezzo «Il passaggio» sull’Espresso del 12 aprile: «Politici, economisti, intellettua-li e anche gli uomini della chiesa e delle religio-ni hanno espulso lo spirito […] la disponibilità verso il cambiamento che è il cuore di ogni sto-ria di salvezza, di ogni passaggio verso una nuova condizione. Si sono appiattiti sul presente, l’ansia dell’istante, che la paura e l’incertezza di questo tempo ci hanno portato via. Hanno dimenticato un orizzonte più largo, il cammino, la marcia, il passaggio, l’attesa».

Un’economia dal respiro cortoUn’economia dal respiro corto

Emblematica, sotto questo aspetto, anche l’os- servazione fatta dall’economista Stefano Zama-gni nel suo articolo «Le quattro lezioni della cri-si» pubblicato da Vita.it il 3 aprile. «Si è voluto far

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credere che prudente è il soggetto che teme di prendere decisioni, perché avverso al rischio. Ma la prudenza è esattamente il contrario. È piutto-sto la virtù del voler guardare lontano per mirare al bene comune». Anche nell’ambito economico si possono condurre riflessioni approfondite su come cambino le cose, a seconda dell’unità di mi-sura che si adotta e della prospettiva esistenziale in cui ci si colloca. Qui possiamo solo farvi cenno per sommi capi. Se la mia prospettiva è egoisti-ca, sceglierò il breve termine, il carpe diem nel-la sua formula più aggressiva. Se sono un impren-ditore che ha come obiettivo esclusivo il proprio profitto e non, anche, il bene di chi verrà dopo, se cioè la mia visione è schiacciata sul presente e non ha uno sguardo sul futuro e sulle prossime generazioni, è evidente che adotterò scelte red-ditizie nel breve e stop, fregandomene altamen-te, per esempio, di questioni come la produzione di emissioni nocive. Al contrario, se terrò con-to di quelli che vengono chiamati gli «stakeholder muti» (le giovani generazioni e l’ambiente), allora molto cambia.

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Dietrofront sui consumiDietrofront sui consumi

Da quando è scoppiata la pandemia, al super-mercato dove vado di solito è capitato che man-cassero le uova e il pane. Pensavo fosse un caso. Poi, leggendo un articolo di Eugenio Spagnuolo su Wired.it del 4 aprile, ho scoperto che in tutt’Ita-lia le vendite di farina sono aumentate del 185%, mentre sono crollate quelle di profumi e cosme-tici. «Una ricerca ci dice che il 57% degli italiani si sta concentrando sull’essenziale», commenta un esperto citato da Wired. Che sia venuto il tem-po di ridisegnare l’economia nel suo complesso in maniera più lungimirante?

Autore di Transizione ecologica (Emi, 2015), il ge-suita Gaël Giraud, economista di vaglia, su La Ci-viltà Cattolica del 4 aprile prova a guardare lon-tano: «Sulla scia dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco, vogliamo sperare che questa pande- mia sia un’opportunità per indirizzare le nostre vite e le nostre istituzioni verso una felice so-brietà e verso il rispetto per la finitudine del no-stro mondo. […] Oggi molti ne sono consape-

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voli: la crisi ecologica ci garantisce pandemie ricorrenti. Accontentarsi di dotarsi di mascheri-ne ed enzimi per il prossimo futuro equivarreb-be a trattare solo il sintomo. Il male è molto più profondo, ed è la sua radice che dev’essere me-dicata. La ricostruzione economica che dovremo realizzare dopo essere usciti dal tunnel sarà l’oc-casione inaspettata per attuare le trasformazioni che, anche ieri, sembravano inconcepibili a colo-ro che continuano a guardare al futuro attraver-so lo specchietto retrovisore della globalizzazio-ne finanziaria».

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Parte secondaLORO È IL TEMPO.

OVVERO: L’AMORE AI TEMPI DEL COVID-19

Tempo perso, tempo guadagnatoTempo perso, tempo guadagnato

Il teologo portoghese José Tolentino Men-donça, da poco cardinale, in un ebook, Il pote-re della speranza, appena uscito per Vita e Pen-siero, osserva acutamente: «Abbiamo passato la vita intera a dirci che time is money e nemmeno ci siamo accorti del costo esistenziale di questa affermazione. Ora può essere il momento di an-dare in cerca di quanto abbiamo perduto; di ciò che abbiamo sistematicamente rinunciato a dire; di quell’amore per il quale non abbiamo mai tro-vato una parola né l’occasione; di quella gratitu-dine soffocata che adesso possiamo gustare ed esercitare». Ebbene: dire che noi «siamo tempo» equivale ad affermare che il tempo che dedichia-mo alle persone e/o alle varie attività dice mol-

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to di ciò in cui crediamo. La cantante Patti Smith, in un’intervista sulla Stampa del 2 aprile dal tito-lo «Spero che l’epidemia rivoluzioni il mondo con empatia e umiltà», afferma che «abbiamo tutti bi-sogno di essere meno materialisti, più empatici, più francescani, direi».

Se c’era bisogno di una conferma, l’esperienza della «quarantena esistenziale» legata alla pande-mia da coronavirus ci ricorda che la vita è fatta di priorità. Se vado a vedere la recita di mio figlio di prima elementare e, per farlo, mi assento un paio d’ore dal lavoro, ho perso tempo o l’ho guadagna-to? Se, per colpa di un’urgenza (che poi, a conti fat-ti, tale non era), mi perdo uno degli irripetibili mo-menti della vita, per esempio la nascita del figlio, quanto mi struggerò, poi, nel rimorso? All’indoma-ni della pandemia da Covid-19 credo che la rispo-sta sia chiara. Un cataclisma di quelle proporzioni non può non costringerci a mettere dei punti fer-mi. E a ripartire su più solide basi rispetto a pri-ma, all’epoca in cui il Pil dettava legge su tutto e tutti. Nel suo L’illusione della crescita (Il Saggiato-re, 2019), David Pilling, editorialista economico

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del Financial Times, evidenzia una contraddizione del nostro tempo: «Se rimani bloccato nel traffico per un’ora contribuisci al Pil. Se invece vai a casa di un amico per dare una mano a imbiancare, no».

Pietra d’inciampoPietra d’inciampo

Questo Covid-19, insomma, si sta rivelando una vera e propria una pietra d’inciampo o, me-glio, un segno di contraddizione, che «svela i se-greti di molti cuori». Lo sottolineava anche Ales-sandro D’Avenia nella sua rubrica «Ultimo banco» sul Corriere del 6 aprile scorso: «Quando perdia-mo ciò su cui puntiamo di più (amore, affetti, car-riera), la vita ci si mostra nella sua nuda fragilità e: o ci si perde o ci si ritrova una volta per sem-pre». La morte ci spaventa non solo perché ci fa sentire polvere, precari, ma perché ci mette da-vanti alla terribile evidenza che un giorno (non sappiamo quale) le nostre relazioni più care si in-terromperanno. E da lì in poi muterà completa-mente il modo col quale continueremo a relazio-

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narci con chi ci sta più a cuore. C’è chi sparge le ceneri della moglie in mare aperto, chi va a pre-gare sulla tomba dei genitori al cimitero, chi tiene sulla scrivania la foto del figlio prematuramente scomparso. Segni diversi che esprimono un solo desiderio, anzi un urlo: «Tu, per me, ci sei ancora, perché io continuo ad amarti».

Quelle file di camion con le bareQuelle file di camion con le bare

Non è forse un’altra delle lezioni che l’epide- mia del coronavirus ci ha lasciato in eredità? Del-le tante immagini che ci hanno sommerso in questi mesi non è forse, ad averci letteralmente sciocca-to, quella colonna dei camion militari che si porta-vano via decine e decine di bare? Ognuna di esse conteneva una persona cui, nell’ultimo istante, nes-suno aveva potuto stringere la mano, dare il con-forto di una parola amica, condividere una preghie-ra. Sulla Stampa del 6 aprile, Domenico Quirico ha dato voce all’angoscia di tanti, concludendo un intenso articolo intitolato «Morire da soli, la cru-

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deltà di una fine senza avere la certezza di essere amati» con queste parole: «Cos’hanno mormora-to nell’ambulanza che li ha portati verso la segrega-zione? Di chi hanno chiesto, invocato? L’epidemia ci spoglia dell’essenziale, la vita, e dell’accessorio, ci costringe a cedere alla disperazione e mette in dubbio anche la certezza che siamo amati».

Prendere coscienza che tutti «siamo tempo» forse potrà condurci a guardare in modo diver-so anche al rapporto fra le generazioni. Nell’e-mergenza coronavirus, purtroppo, è scattato, in alcuni casi-limite, un meccanismo implacabile, per cui, dovendo scegliere, sono stati salvati i pa-zienti meno anziani. C’è da augurarsi che tale lo-gica, comprensibile in un contesto eccezionale e di emergenza, non diventi la regola. Non oso immaginare a cosa porterebbe una sanità piega-ta totalmente al rapporto costi-benefici, una so-cietà dominata da criteri di sapore darwiniano, dove sono premiati i giovani e forti e dove in-vecchiare diventa una colpa. Fosse così, potrem-mo ritrovarci a breve nello scenario cupo dipin-to da alcuni racconti di fantascienza (penso a The

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Test, scritto nel 1958 da Richard Matheson e pub-blicato in Le meraviglie del possibile, Einaudi). Ma io sono convinto che proprio la traumatizzante esperienza collettiva del coronavirus possa pro-durre gli anticorpi per evitare tale rischio.

Punto a capoPunto a capo

Al libro Fragilità di Luciano Manicardi, provvi-denzialmente uscito pochi giorni fa per Qiqajon, rubo le sintetiche e profonde espressioni con cui vorrei concludere: «Non la fragilità è il problema, ma le risposte che a essa si possono dare. Una ri-sposta che il credente, che conosce il Dio fattosi carne, che conosce la fragilità del vivere, dà assu-mendo la forma di vita di Gesù stesso, che della fragilità della condizione umana ha fatto il luogo di costruzione della fraternità, della solidarietà, dell’amore».

Dopo quanto scritto, non trovo altro da dire di importante se non che, per me, la risposta al problema-tempo è Colui che per noi uomini si

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è fatto tempo. Il cristianesimo è l’unica religione che adori un Dio che si è mescolato con l’umani-tà, un Eterno che si è fuso col provvisorio, un In-vincibile che si è fatto precario, un Onnipotente che si è reso vulnerabile per amore.

Non ho mai dimenticato che Jean Guitton rimproverava ai cattolici di attardarsi in questio-ni «penultime» facendo così Silenzio sull’essenzia-le, come s’intitolava il suo libro-j’accuse. Anche un grande vaticanista, Luigi Accattoli, in La speranza di non morire (era il 1988) auspicava «una predica-zione evangelica rifatta radicale, prima e sempre sulla vita e sulla morte».

Ecco, nel mio piccolo (sarà che invecchio an-ch’io?) mi sto sempre più convincendo che o la chiesa mantiene desta l’attenzione a tali questioni e manifesta chiaramente il luogo decisivo che oc-cupano, oppure temo che anche la «quarantena esistenziale» del coronavirus, quando finirà, sarà passata invano. Ma quando ci capiterà un altret-tanto potente kairós, come questa specie di eser-cizi spirituali laici forzati ai quali in milioni (anzi: miliardi) siamo sottoposti?

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RINGRAZIAMENTI

Ho scritto queste pagine su invito del diretto-re editoriale di Emi. Ho lavorato gratuitamente, così come gratuitamente i lettori hanno potuto scaricare il libretto dal sito dell’Editrice: è il nostro modo di contribuire al bene comune, con un pic-colo gesto, in un momento delicato come questo.

Non credo di esagerare se dico che questo te-sto, pur breve, scritto di fretta e ricco di cita-zioni altrui, lo sento molto mio. Queste pagine, infatti, anticipano un libro più compiuto che ve-drà la luce nei prossimi mesi, un libro che ho ini-ziato a pensare molti anni fa. Forse addirittu- ra (anche se non ne ero consapevole) da quando – giovane studente di Lettere in Cattolica a Mila-no –, innamoratomi di una frase di Chesterton, decisi di scriverla su un poster e appenderla in camera mia. Diceva così: «Non nego che ci deb-bano essere preti per ricordare agli uomini che un giorno dovranno morire. Dico solamente che

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in certe epoche strane, come in quella che vivia-mo, è necessario avere un altro genere di preti, chiamati poeti, per ricordare agli uomini che an-cora non sono morti».

Il nuovo testo verrà trasposto anche in ver-sione teatrale, dopo l’autunno. Sarò lieto di acco-gliere commenti, critiche, suggerimenti e sugge-stioni.

Mi trovate su Facebook e Twitter. Oppure po-tete scrivere a: [email protected]

Grazie in anticipo.

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Gerolamo Fazzini (Verona, 1962), sposato con Laura e padre di due figli, fa il giornalista dal 1985, quando iniziò a collaborare con Avvenire. Ha diretto (primo laico della storia) Il Resegone, settimanale cat-tolico di Lecco, e lavorato all’Ufficio comunicazioni sociali della Diocesi di Milano quando il cardinale era Carlo Maria Martini.

Per quattro anni vicecaporedattore ad Avvenire, ha seguito da inviato tre viaggi internazionali di Giovanni Paolo II. Successivamente è stato direttore editoria-le del mensile del Pime Mondo e Missione, a lungo gui-dato da padre Piero Gheddo, per lui un maestro. In quegli anni ha visitato molti paesi asiatici e si è «preso una cotta» per la Cina («che ancora non è passata»).

Oltre a esperienze come autore televisivo per Tv2000, dal 2014 è consulente di direzione per il set-timanale Credere e il mensile Jesus. Insegna Teoria e tecniche del giornalismo all’Università Cattolica di Brescia.

Una decina i suoi libri – due con numerose tradu-zioni all’estero: Il libro rosso dei martiri cinesi (San Pao-lo, 2006) e In catene per Cristo. Diari di martiri nella Cina di Mao (Emi, 2015). «Un motivo c’è – spiega l’au-tore –: in entrambi i casi il merito non è mio. Io non ho fatto che raccogliere e presentare testi autobio-grafici di incredibile forza spirituale».