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I L M INOTAURO Problemi e ricerche di psicologia del profondo Anno XXXVIII - n.2 Dicembre 2011 € 15.90 ISSN 2037-4216

Il Minotauro - Dicembre 2011

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Articoli: - Psicologia del profondo come libera cultura Editoriale di Luca Valerio Fabj - La prima materia dell’opera di Jung quale emerge nel periodo tra il 1907 e il 1913 di Marco Gay - Psiche e materia: sophia et hyle: l’uomo di massa e la sua fuga dagli abbaglianti messaggi subliminari di Hermes di Diego Pignatelli Spinazzola - Jung e la psicosi di Augusto Nucciotti. - Sincronicità tra relazione e mistero: dalla sincronicità junghiana a quella dei sistemi simbolici sincronotopici di Lorenzo Ostuni di Eldo Stellucci. Rubrica: arte e inconscio - Euard (Evard) Munch e l’angoscio di Laura Muratori Immagine, tempo e parola nell’orizzonte teorico clinico della psicologia analitica di Mario Mastroianni, Massimiliano Scarpelli, Napoli. Il tema del passaggio di Beatrice Balsamo. Un metodo molto pericoloso la coniucto sessuale alchemica trasformativa (prima parte) di Luca Valerio Fabj.

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IL MINOTAUROIL MINOTAUROIL MINOTAUROProblemi e ricerchedi psicologia del profondo

Anno XXXVIII - n.2Dicembre 2011

€ 15.90

ISSN 2037-4216

Editore

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Anno XXXVIII – Vol. n. 2 DICEMBRE 2011

IL MINOTAURO

PROBLEMI E RICERCHE

DI PSICOLOGIA DEL PROFONDO

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IL MINOTAURORivista fondata in Roma nel 1973 da Francesco Paolo Ranzato

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ORGANO UFFICIALE DELLA SCUOLA DI PSICOTERAPIA ANALITICA AIÓN

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Angelo Gabriele AielloElena AcquariniAntonio Grassi

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specificando nome e cognome, nella causale “abbonamento alla rivista Il Minotauro”

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Sommario

Articoli:

Psicologia del profondo come libera cultura, Editoriale di Luca Valerio Fabj.......4

La prima materia dell’opera di Jung, quale emerge nel periodo tra il 1907 e il 1913 di Marco Gay................................................................................................12

Psiche e materia, sophia et hyle: l’uomo di massa e la sua fuga dagli abbaglianti messaggi subliminari di Hermes di Diego Pignatelli Spinazzola...........................31

Jung e la psicosi di Augusto Nucciotti...................................................................35

Sincronicità tra relazione e mistero: dalla sincronicità junghiana a quella dei sistemi simbolici sincronotopici di Lorenzo Ostuni di Eldo Stellucci..................57

Rubrica: arte e inconscio

Edvard Munch e l’angoscia di Laura Muratori.....................................................70

Immagine, tempo e parola nell’orizzonte teorico clinico della psicologia analitica di Mario Mastroianni, Massimiliano Scarpelli.........................................................77

Il tema del passaggio di Beatrice Balsamo.............................................................98

Un metodo molto pericoloso: la coniuncto sessuale alchemica trasformativa (prima parte) di Luca Valerio Fabj.....................................................................107

Rubrica: i simboli cosmici dell’astrologia come archetipi dell’inconscio collettivo

Premessa.............................................................................................................121

Archetipo, astrologia e nuovo senso psicologico di Irene Zanier.......................125

Appendice:

Recensioni....................................................................................................................129

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PSICOLOGIA DEL PROFONDO COME LIBERA CULTURA

Editoriale di Luca Valerio Fabj

«Grazie a Dio non sono uno junghiano».1

Carl Gustav Jung

Anche quest’anno sta giungendo al termine ed è quindi una buona cosa fare qualche bilancio.

L’anno che si chiude è stato l’anno delle celebrazioni per il cinquantenario della morte di Jung, ed esse sono state senza alcun dubbio molto vaste sia a Bologna, che nel resto d’Italia che nel mondo. Il recente film di Cronenberg sulla vita di Jung che narra della nota vicenda che ha coinvolto il padre della Psicologia analitica nella sua relazione amorosa extraconiugale con Sabina Spielrein e i suoi rapporti con Freud (dall’amicizia alla rottura) insieme al gran successo della pubblicazione (in ritardo di un anno in Italia) del Liber Novus (arbitrariamente definito, per motivi meramente commerciali, Libro Rosso), mostrano chiaramente sia l’interesse sempre vivo per il pensiero di Jung e la psicologia del profondo da parte del vasto pubblico.

Tale interesse però, duole dirlo, è sempre meno vivo invece per gli addetti ai

1 Confidenza fatta da Jung a un collega durante un dibattito avvenuto nell’istituto da lui fondato. Tale aneddoto è riportato da Wilhelm Bitter in una intervista condotta da Gene F. Nameche, Stoccarda 10 settembre 1970, e trascritta in Jung Oral History Archive, vol. VII.

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lavori: medici e psicologi non hanno certo l’interesse di un tempo per la psicodinamica a causa dei metodi psicoterapeutici attualmente di moda come il comportamentismo o il costruttivismo. L’idea stessa di un inconscio, dei complessi e degli inconsapevoli conflitti intrapsichici come causa delle malattie mentali è assolutamente messo in discussione e considerato da molti una sorta di retaggio oscurantista che la scienza psicologica dovrebbe ormai storicizzare. A questo coro naturalmente si associa la visione unicamente organicista della malattia mentale per la quale il disagio psichico andrebbe risolto se non totalmente, almeno prevalentemente, con l’uso di farmaci.

Tale situazione sta portando la psicodinamica stessa, e le scuole che a essa si ispirano, a una faticosa lotta per la “sopravvivenza” in questa giungla di sistemi psicoterapeutici basati “sull’evidenza” che la vorrebbero far sparire il nome della “scienza” psicologica sperimentale. Naturalmente a fronte dei sistemi pubblicitari messi in essere dai nuovi sistemi di psicoterapia, basati sul comportamento o sui costrutti linguistici comunicativi, ben poco conta far osservare come in realtà la famosa “evidenza” si basa solo su delle convenzioni accettate di classificazione delle malattie mentali — quali è il DSM IV — o che, come direbbe Jung, tutte queste psicologie, sono psicologie “senz’anima” che si fermano unicamente alla superficie dell’individuo agendo sui suoi “sintomi” senza scendere nelle sue profondità interiori. Quello che conta oggi, infatti, è solo la superficialità e soprattutto evitare di pronunciare le parole “attività psichica inconscia”, poiché esse oggi, esattamente come ai tempi di Freud, fanno una grande paura o procurano un immenso fastidio. All’Io megalomane moderno, l’ideologia di “non essere padrone in casa propria” è insopportabile oppure fa un assoluto terrore: per i “poveri di spirito” pensare di non avere un assoluto controllo su pensieri ed emozioni è una credenza non solo inaccettabile, ma che va combattuta con la stessa foga paranoide con la quale si sosterrebbe una vera caccia alle streghe. Da ciò un’azione capillare da più parti contro la psicoanalisi: dal mondo accademico, dalle Neuroscienze, dalla Psicologia e dalla Psichiatria. Pur di poter eliminare i capisaldi inconfutabili della psicoanalisi si sono eliminati dalla nomenclatura medica i termini “isteria” e “nevrosi”, come se bastasse abolire un nome per eliminare l’esistenza di una malattia. Del resto è noto che l’isterico usa la rimozione e il paranoico la proiezione per cercare di non osservare il suo disagio interiore, negando così il problema o trasferendolo su altri.

Tuttavia, il vero e principale responsabile di questa crisi della psicoanalisi e della psicoterapia basata sull’ermeneutica, è, paradossalmente, lo stesso medesimo mondo della psicologia del profondo! Infatti, le varie scuole di psicodinamica

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sono sempre state del tutto incapaci di trovare una coesione fra di loro con conseguente e assoluta divisione e necessariamente debolezza delle teorie che esse propugnavano. Cominciando dal distacco fra Freud e Jung, le manie di grandezza personali, e non le vere differenze teoriche fra i vari autori, hanno reso debole tutto l’impianto della psicologia del profondo con la conseguenza finale che essa è in crisi in toto e se non troverà un punto di unione, sarà destinata come mezzo psicoterapeutico ad essere spazzata via dai nuovi metodi che premono, con la loro “evidenza” di potersi imporre non per adesione da parte dei clinici e/o dei pazienti, ma per decreto legge come il sinistro termine da aula di tribunale, “basato sull’evidenza” lascia, purtroppo, presagire.

Se le varie scuole di psicologia del profondo non troveranno un punto di unione fra loro, nessuna di esse avrà un reale futuro. E tale punto di incontro può essere solo e un’unica cosa, ovvero: la clinica. La ortodossia dei vari capi scuola, le teorie più o meno astratte e talora praticamente “metafisiche” di certa psicoanalisi, o lo studio della simbologia fine a se stessa non possono essere tale punto di incontro, per il semplice motivo che sono sempre state la causa degli scontri e dei particolarismi, talora veramente più degni di un postribolo che di un consesso di professionisti. Solo per la clinica, unicamente con la clinica e all’interno della clinica è possibile trovare un’utile sintesi comparativa fra le varie scuole di psicologia del profondo. Tutto il resto è ciò che ci ha diviso e indebolito e dovrà, gioco forza, venire storicizzato e abbandonato.

Per fortuna questa mia concezione, ampiamente trattata nel mio primo libro ove si cerca di fare una comparazione fra il pensiero di Jung e quello della Klein, sta prendendo piede anche nel mondo accademico più illuminato, come dimostra l’ottimo manuale di psicodinamica scritto dai professori Concato e Innocenti del Dipartimento di Psicodinamica dell’Università di Firenze. In tale testo, nel quale è inserito un vasto capitolo su Jung, infatti, viene fatta una comparazione fra i vari paradigmi delle scuole di psicologia del profondo, allo scopo di trovare un punto di unione fra le scuole che risulti valido dal punto di vista clinico.

Vale la pena di considerare cosa questi due autori asseriscono al riguardo:

Di fatto nella pratica della psicoterapia, capita sempre più di rado che uno psicoanalista lavori utilizzando un solo modello teorico e ignorando gli altri. Anche se le scuole comunicano e dibattono sempre meno tra loro, la distanza istituzionale viene di fatto colmata nella pratica clinica, per l’esercizio della quale sarebbe necessaria una formazione che, pur privilegiando un particolare modello, non trascurasse la conoscenza di tutti gli altri.

Ma questi autori si spingono più in là giungendo ad asserire che se si considerano

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quali sono i reali presupposti teorici di ogni paradigma psicoanalitico che sottendono l’essenza della pratica della psicoterapia dinamica «... la molteplicità dei modelli di comprensione della vita psichica risulta essere una ricchezza di opportunità ai fini di una maggiore efficacia degli interventi».2 Pertanto seguendo i concetti di questi due autori appare assolutamente chiaro che più paradigmi si includono (nella propria pratica professionale), più siamo efficaci in termini clinici.

Per questo motivo è doveroso, scientifico, deontologico, accademico e assolutamente aggiornato fare comparazioni fra il pensiero di Jung e gli altri pensieri psicoanalitici, al fine di giungere a una utile sintesi. Mentre è assolutamente obsoleto continuare ad arroccarsi su posizioni oltranziste e ortodosse che vogliono arrogarsi superbamente il diritto di essere le uniche depositarie della “verità” psicodinamica. Una verità che alla fin fine, ammassa, classifica e accorcia, come sul letto di Procuste, gli individui per poter “dimostrare” le proprie teorie anche a scapito della cura e della dignità dei pazienti. Del resto, il primo ad asserire l’impossibilità di dividere le varie scuole di psicodinamica è stato proprio lo stesso Jung che ha imposto il nome di “psicologia analitica” alle sue teorie (cito testualmente): «[...] intendendo con questa espressione un concetto generale che comprende “psicoanalisi”, “psicologia individuale” e altre tendenze nell’ambito della psicologia dei complessi».3 Pertanto la psicologia analitica, nell’ideazione originaria di Jung, include e non esclude la psicoanalisi di Freud e la psicologia individuale di Adler. Anche in questo Jung è stato un geniale precursore di ciò che il mondo dei clinici della psicologia del profondo si sta accingendo a fare, per lo meno come tendenza futura, e forse non è lontano il giorno in cui definirsi “junghiani”, o “freudiani” o “adleariani” o quant’altro non significherà, finalmente, più nulla, e le parole “psicologia analitica”, “psicoanalisi”, “psicologia individuale” lasceranno il posto al nuovo termine di psicodinamica comparata. Forse non è lontano il realizzarsi di ciò che, fin dagli anni Settanta, si augurava Aldo Carotenuto che considerava un chiaro segno di nevrosi l’assolutizzare le proprie teorie psicoanalitiche, asserendo che:

È invece importante la tolleranza delle diverse idee, perché è nostro parere che bisogna considerare la psicoterapia come una totalità di concezioni diverse. Per fare un esempio, quando si dice che la pittura è una non si pretende che Giotto sia lo stesso che Piero della Francesca. Anche le

2 G. Concato e F.B. Innocenti, Manuale di Psicologia Dinamica, Edizioni Psicoline, Francavilla al Mare (CH) 2010.

3 C.G. Jung (1929), Problemi della psicoterapia moderna, in Opere, vol. XVI, Bollati Boringhieri, Torino 1981.

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religioni sono tutte diverse, ma esse comunque formano quella totalità che è chiamata “religione”.4

Nel suo piccolo “il Minotauro”, da me diretto in questi anni, si batte proprio con questo scopo, ovvero: la causa della psicodinamica comparata. Solo un contributo verso la sintesi dei paradigmi psicoanalitici rende ragione dell’esistenza stessa di questa rivista ed è il precipuo motivo per cui essa viene pubblicata attualmente. Per tali motivi “il Minotauro” — è bene ribadirlo — è assolutamente una sorta di tribuna libera psicoanalitica ove i vari autori, purché argomentino le loro tesi e purché non assumano atteggiamenti offensivi verso i colleghi, i quali possono serenamente esprimere la loro opinione senza dover seguire alcun dettame editoriale se non quello che caratterizza qualsiasi seria rivista scientifica. E questo la rende unica nel suo genere: “il Minotauro”, come del resto il suo direttore, non ha alcun padrone né materiale, né tanto meno ideale o spirituale e, mi preme per l’ennesima volta ribadire che, su questa rivista, chiunque può esprimere i concetti che sostiene, anche se essi sono l’opposto di quelli sostenuti dal direttore di tale rivista. Per essere ancora più preciso, e a scanso di equivoci, “il Minotauro” è una rivista di psicologia del profondo, di scienze umane (filosofia, storia, arte, religione, antropologia), di psichiatria, neuroscienze, e psicofarmacologia: così è stata da me registrata al Tribunale di Bologna. Voglio con ciò intendere che il “il Minotauro” ha solo un orientamento junghiano, ma non è in alcun modo una rivista che vuole sancire in un qualche modo una qualche presunta superiorità di Jung su altre scuole di pensiero psicoanalitico. Solo la linea editoriale verrà sempre da me accuratamente rispettata, ovvero, la necessità di una accurata bibliografia a sostegno di ciò che si afferma. Se essa manca, l’articolo potrà essere pubblicato ugualmente, ma sotto il titolo di “opinioni” e non di contributo scientifico, giacché, in tal caso, solo di una supposizione si tratta, con lo scarso valore che ogni opinione ha, chiunque sia ad esprimerla.

Tuttavia, una rivista scientifica — anche se, in spirito assolutamente junghiano, essa per scienza si riferisce alla fenomenologia psicologica e non alla psicologia sperimentale — si basa su articoli scientifici, ovvero su ipotesi e tesi, e non su opinioni, per cui articoli privi di bibliografia, chiunque sia a mandarli, verranno pubblicati solo in presenza di uno spazio sufficiente.

Ciò non di meno, l’orientamento di questa rivista resta junghiano e pertanto essa darà sempre ampio spazio a tutti temi cari alla Psicologia analitica. Per tale

4 A. Carotenuto, Senso e contenuto della psicologia analitica, Bollati Boringhieri, Torino 1977. Il corsivo è stato aggiunto dall’autore.

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motivo, anche a seguito della richiesta di vari lettori, “il Minotauro” — come già fece in passato ad opera degli ottimi articoli del dottore Giuseppe Di Bartolo — da questo numero inizierà con una rubrica apposita, per mezzo dell’articolo di Irene Zanier, ad occuparsi della simbologia contenuta in quella tradizione umana archetipica antichissima, ma sempre viva e di interesse sempre attuale che è l’astrologia. E un’altra rubrica, inoltre, viene battezzata in) questo numero, grazie all’articolo della dottoressa Muratori, è una rubrica quella dell’Arte grafica, ovvero sui quadri, o meglio sulle immagini inconsce che i quadri contengono, ovviamente, sempre in un’ottica junghiana, cioè, archetipica di esse.

Sempre per i suddetti motivi la rivista in questo numero dà ampio spazio ad un articolo del dottor Gay, Fondatore della Lista di Milano, sulla prima materia alchemica che emerge dalla vita di Jung, che riassume una delle relazioni tenutesi al Dipartimento di Psicologia della Università di Bologna durante il convegno organizzato dalla Associazione Alba per celebrare il cinquantenario della morte di Jung. Così come non può che essere gradito alla rivista ospitare articoli come quello del dottor Nucciotti, o dei Mastroianni e Scarpelli, che si occupano rispettivamente della psicosi secondo Jung e della immaginazione nell’ottica teorico-pratica della psicologia analitica junghiana; oppure, l’articolo del dottor Pignatelli che si tratta, sempre junghianamente, di Psiche e Materia.

Tuttavia ciò non impedisce, come sempre è avvenuto, di poter pubblicare articoli come quelli della dottoressa Balsamo sulla psicologia delle narrazioni, scritti in un’ottica prevalentemente psicoanalitica, ove Freud, Bion, Lacan e il filosofo Heidegger sono le figure centrali dei testi; né l’orientamento junghiano di questa rivista impedirebbe la pubblicazione di articoli che fossero assolutamente critici e negativi nei confronti del pensiero di Jung, essendo essa, come già asserito, una rivista libera e senza alcun padrone di cui eseguire i dictat indiscutibili. Certi atteggiamenti, a mio avviso figli di un retaggio corporativo medioevale e anti scientifico, li lascio ad altri: a quelli che devono fabbricare, e distribuire a peso d’oro, le “patenti” di junghianità con tanto di “punti” a perdere e eventuali sospensioni, qualora fossero commesse “infrazioni” alle indiscutibili e “divine” regole del codice della Psicologia analitica. Spiacente, ma la visione mosaica del “maestro” a cui sottomettersi, per un assoluto e convinto nietzschiano, quale io sono, non mi appartiene, né, finché io ne sarò direttore, apparterrà mai a questa rivista. Gli esercizi di genuflessione dorsale li lascio ad altri, a quelli che hanno una schiena più flessibile della mia che, purtroppo, data la mia età, si è alquanto indurita e tende a restare diritta, causa la malattia cronica che da sempre l’affligge e che prende in nome di “Dignità”.

In ultimo, ma non per importanza, mi scuso perché a seguito della recente

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scomparsa di J. Hillmann, forse alcuni, o molti lettori, si aspettavano che in questo numero lo si celebrasse. Purtroppo per ragioni d’impaginatura e di tempi di stampa non è stato possibile farlo, ma prometto che nel prossimo numero si darà ampio spazio a questo importante psicologo e filosofo.

Finendo, una nota positiva: gli abbonamenti de “il Minotauro” crescono, e con essi l’interesse per la rivista che va diffondendosi anche in ambienti diversi da quelli ristretti della psicoterapia. Non posso che esserne lieto. Ogni abbonamento in più, ogni collega che mi manda un articolo in più, sono grandi gratificazioni per la mia fatica di occuparmi di questa rivista. Ma soprattutto, la cosa che più mi gratifica è il fatto che nessuno in questa rivista viene retribuito per farla, né tanto meno — cosa che spesso vergognosamente avviene — deve pagare per potervi pubblicare sopra. Questo mi sostiene moltissimo e mi dimostra che, nonostante la mentalità mercantile e quantificante del mondo moderno, sia possibile fare ancora cultura in un determinato modo, ovvero: da Uomini Liberi, con Spirito Libero e per Spiriti Liberi!

Luca Valerio Fabj

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LA PRIMA MATERIA DELL’OPERA DI JUNG, QUALE EMERGE NEL PERIODO TRA IL 1907 E IL 19135

Marco Gay*

La prima materia è l’informe massa viva, che evoca direttamente le rappresentazioni del “caos” alchimistico, la massa o “materia informis o confusa” che sin dalla creazione contiene i germi di vita, o ancora, la prima materia come sostanza sconosciuta nella quale è proiettato il contenuto psichico autonomo. È lo stato latente nascosto che può essere tramutato nel secondo stato, quello manifesto, in virtù dell’arte e della grazia divina. Sarebbe la "nera terra" la materia dove i fenomeni proiettivi prendono forma, sostanza e pesantezza?). Luogo d’origine quindi del processo individuativo, ma non origine di luce, bensì origine di “luoghi” dove la luce si occulta e dai quali la coscienza può riemergere, può uscire fuori dai suoi neri spazi, che sono già le radici della segnatura specifica del soggetto, della sua radicalità, che traluce nella sua stessa estraniazione. 6 In questo mio breve intervento mi interessa cogliere alcuni di questi luoghi, fatti d’incontri e scontri, dove il fenomeno proiettivo di Jung rivela la sua potenza, la sua cecità, le sue potenzialità. Tragitto quindi dove la sua ricerca, le sue traiettorie di trasformazione proliferano in una sorta di, secondo il gergo

5 Intervento tratto dal convegno per commemorare la memoria di Jung, 50 anni dalla morte di C.G. Jung. Modernità di un metodo psicodinamico, tenutosi alla Università di Bologna, il 5 maggio 2011.

6 C.G. Jung, Psicologia e Alchimia, in Opere, vol. XII, Bollati Boringhieri, Torino 1944, pp. 151-135.

«La materia prima è quindi “inizio”, ma non luogo della esaltazione delle coscienze, luogo della luce. L’origine è la notte della coscienza, materia prima e informe, caduta e perdita, processo di autoestraniazione e di materializzazione della nostra vita, come se essa nascesse a se stessa inclusa e circondata dalla dinamica proiettiva. Rispetto alla proiezione, alla caduta nella materia, la coscienza nella sua esaltazione solare è sempre in ritardo, quando non è illusione e negazione della sua oscura provenienza. La legge, questa regola inevitabile vale anche per Jung: anche per lui la materia prima non è nei fasti del Libro rosso, ma nelle cadute, che vanno dal 1907 al 1913, fino a quando cioè,

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PSICHE E MATERIA, SOPHIA ET HYLE: L’UOMO DI MASSA E LA SUA FUGA DAGLI ABBAGLIANTI MESSAGGI SUBLIMINARI DI

HERMES

Diego Pignatelli Spinazzola*

Lo stato generale in cui si riversa la condizione umana può esser definito, junghianamente parlando, stato di compensazione.

Ciò che intendo per compensazione è qui intesa come la compensazione degli istinti inferiori che tendono a sopravvalutarsi a scapito di quelli superiori. Mi spiego meglio: il vulgus populi è un fenomeno sociale di massa senza precedenti nel XXI secolo. Questo fenomeno, trasposto però nel singolo, eredita un germe di quella mediocre ignoranza collettiva, superstiziosa e bigotta ma anche insolentemente oltraggiosa. Se essa ha il primato e come annoia (ignoranza) nelle coscienze individuali arroga presunzione, e confabula sugli spiriti elevati che gridano al nome di gnosi (conoscenza) è perchè abbiamo permesso a questa volgare maya incantatrice di tessere il gioco. È un gioco tra contendenti. Da una parte l’individualità specificatamente differenziata, direi eroica, nous e torcia illuminante, candelabro e glifo di Hermes, dall’altra la coscienza delle masse volgari, popolane, istintive contenute nella matrice chiamata agnosia. Il dialogo è quasi irraggiungibile tra i due contendenti, una lotta senza quartiere. Sophia et hyle, spirito e materia, reggono le sorti, ma il primato della materia offusca tale incontro. A uno dei due contendenti è dato il potere dell’invisibilità. Cosicché esso ha il potere di occultarsi e nell’occultatio, nella segreta autonomia della propria individualità, poter ottemperare al compito di “rischiarare” le coscienze involute nella misera materialità. Un compito preposto al Poimandres, lì dove il nous primigenio veniva riversato come fonte di guarigione,di rigenerazione spirituale. Ma giacchè la materia è irredenta, il Nous ingaggerà una lotta all’ultimo sangue con la physis: con Sophia Achamoth, l’errante peccatrice.

E così che uno spirito perfetto viene circoscritto nell’arena pubblica allo scherno delle unilaterali coscienze cristiane pregne di materialità bigotta. Forse il Cristo

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JUNG E LA PSICOSI

Augusto Nucciotti

«Anche quando con un paziente non ho molte speranze, cerco di somministrargli quanta psicologia può tollerare, perché ho visto molti casi in cui gli attacchi successivi

furono meno gravi e la prognosi migliore, e precisamente come risultato di una ampliata comprensione psicologica».44

Carl Gustav Jung

1. Introduzione:

Il tentativo per capire le cause degli stati psicotici45 e per trovare le cure più appropriate, ha da sempre diviso gli psichiatri in due gruppi, con fondamentali differenze di opinione.

Verso la fine del XIX secolo e nei primi decenni del ‘900, era in auge, come ci ricorda Ellenberger,46 un’appassionata controversia tra coloro che credevano che tutti i maggiori disordini mentali fossero causati da malattie fisiche del cervello 47

e altri che li vedevano, invece, come il risultato di una lotta dinamica psicologica o di qualche tipo di conflitto grave: i Somatiker o Physiker contro gli Psychiker. I primi attribuivano le malattie mentali a cause organiche, mentre i secondi

44 C.G. Jung, (1939), Psicogenesi della schizofrenia, Opere, vol. III, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 258.

45 Il termine psicosi è stato introdotto in psichiatria solo nel 1845, fondamentalmente con il significato generico di “malattia mentale o follia”, da un romantico, Ernst Von Feuchtersleben. Poeta, filosofo e medico, Rettore dell’Università di Vienna, nei suoi Principles of Medical Psycology, aggregando sotto questa voce svariati tipi di sintomi e disturbi (cfr. P.F.Pieri, Dizionario junghiano, alla voce psicosi, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 590 ).

46 H. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, 1970, vol. I, Bollati Boringhieri, Torino 1976, pp. 247-248 e 282-283.

47 La noxa patogena.

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SINCRONICITÀ TRA RELAZIONE E MISTERO: DALLA SINCRONICITÀ JUNGHIANA A QUELLA DEI SISTEMI

SIMBOLICI SINCRONOTOPICI DI LORENZO OSTUNI

(Relazione presentata al Convegno “Potere, Possesso e Amore”,XI Convegno di Psicosomatica, Livorno 22-23 ottobre 2011)

Eldo Stellucci

Inizieremo questo nostro incontro citando Gregory Bateson:

Il bello e il brutto, il letterale e il metaforico, il sano e il folle, il comico e il serio... perfino l’amore e l’odio, sono tutti temi che la scienza evita. Ma tra pochi anni, quando la spaccatura fra i problemi della mente e i problemi della natura cesserà di essere un fattore determinante di ciò su cui è impossibile riflettere, essi diventeranno accessibili al pensiero formale. Oggi la maggior parte di questi temi sono inaccessibili e gli scienziati, anche gli antropologi e gli psichiatri li evitano, e per ottime ragioni. I miei colleghi ed io non siamo ancora in grado di indagare su temi tanto delicati. Siamo appesantiti da errori come quelli che ho menzionato e, come gli angeli, dobbiamo esitare a mettere piede in queste regioni, ma non per sempre.

Carl Gustav Jung ha cercato di dare delle risposte a queste indirette sollecitazioni. Ora lasciamo parlare Jung a partire dal Libro Rosso:99

Anima mia, dove sei? Io parlo, ti chiamo... Ci sei? Sono tornato, sono di nuovo qui. Ho scosso dai miei calzari la polvere di ogni paese e sono venuto da te, sono a te vicino, dopo lunghi anni di lunghe peregrinazioni, sono ritornato da te. Vuoi che ti racconti tutto ciò che ho visto, vissuto, assorbito in me? Oppure non vuoi sentire nulla di tutto il rumore della vita e del mondo? Ma una cosa devi sapere: una cosa ho imparato, ossia che questa vita va vissuta. Questa vita è la via, la via a lungo cercata verso ciò che è inconoscibile e che noi chiamiamo divino. Non c’è altra via. Ogni altra strada è sbagliata. Ho trovato la via giusta, mi ha condotto a te, anima mia. Ritorno temprato e purificato. Mi conosci ancora? Quanto a lungo è durata la separazione! Tutto è così mutato. E come ti ho trovata? Come è stato bizzarro il mio viaggio! Che parole dovrei usare per descrivere per

99 C.G. Jung, Liber Primus, in Libro Rosso, Bollati Boringhieri,Torino 2010, p. 232.

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RUBRICA: ARTE E INCONSCIO

EDVARD MUNCH E L’ANGOSCIA

Laura Muratori*

Breve biografia di E. Munch (1863-1944):

E. Munch nasce nel 1863 in Norvegia, è il quinto figlio del dottore Christian Munch, medico dell’esercito. All’età di cinque anni muore la madre e la casa viene affidata ad una zia. Dopo nove anni muore la sorella Sophie di quindici anni di tubercolosi anche lei, come la madre. A sedici anni si iscrive a Ingegneria per poi rinunciarvi dopo un anno e iniziare a dipingere seriamente. Nel 1885 con

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IMMAGINE, TEMPO E PAROLA NELL’ORIZZONTE TEORICO CLINICO DELLA PSICOLOGIA ANALITICA

Mario Mastroianni e Massimiliano Scarpelli

«Sana le ferite che mi provoca il dubbio, anima mia. Anche questo va superato perché io riconosca il tuo senso superiore. Come tutto è lontano e quanto sono tornato

indietro! La mia mente è un tormento, distrugge il mio sguardo interiore, vorrebbe sezionare e disfare ogni cosa, sono ancora vittima del mio pensare. Quando potrò

quietare i miei pensieri per farli strisciare ai miei piedi, questi cani riottosi? Come potrò mai sperare di sentire meglio la tua voce, di scorgere più limpide le tue visioni

se i miei pensieri mi ululano addosso?».109

La riflessione che intendiamo proporre circa la relazione tra l’immagine e i processi che essa ingenera nella dialettica dello psichismo, rende necessario soffermarsi su cosa vada inteso col termine immagine, e che funzione quest’ultima ricopra all’interno del modello junghiano della psiche. La parola immagine difatti richiama immediatamente un’esperienza legata alla percezione visiva, e in tal modo risulta ristretto e fuorviato il complesso fenomeno al quale ci si intende riferire. È pure importante considerare come l’attività immaginativa costituisca sia la forma rappresentativa e progettuale del futuro, sia l’impressione del ricordo attraverso il quale costruiamo la dimensione del passato. In particolare poi la capacità e l’attività immaginativa strutturano il tessuto psichico che determina e rende in seguito possibile l’esperienza con l’oggetto.

Col termine immagine dobbiamo anche intendere l’avvento alla coscienza di un contenuto inconscio, non derivato cioè da una immediata esperienza sensibile, e quindi, come scrive Humbert, il termine si riferisce a:

«l’insieme dei fenomeni raggruppati abitualmente sotto questo nome, comprese

109 C. G. Jung (2009), Libro Rosso, Bollati Boringhieri, Torino 2010.

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IL TEMA DEL PASSAGGIO

Beatrice Balsamo*

Il passaggio è un varco, un’apertura, così attraverso questa apertura qualcosa può passare, ma anch’io posso, attraverso un varco, portarmi in un altrove. Così, l’apertura può lasciare/passare (la qual cosa implica un “lasciare”) e consentire un sopraggiungere.

Ugualmente, posso dire, ingannevolmente, “è passato!” (e così dicendo, lo presentifico), è s-corso del tempo, come fosse corso via, per un’avvenuta cancellazione. Ma non è così. Il passato è tale solo se passa in Altro.

Posso dire, anche, “mi è passato!” o qualcuno può dirmi: “ti è passato?”, domanda collegata a un dolore, a un turbamento. Ma quando il dolore o il turbamento è in atto, ho perso il senso, “i sensi”, sono entrato in un dissenno, ho perso il senso del mondo, per rimanere chiuso, immobile.

L’esperienza del dolore immobilizza, poiché un “agglutinato pulsivo” domina il soggetto, anzi, non vi è più soggetto che senta il dolore, che lo riconosca, ma tutto è dolore, egli stesso è dolore. Vengono meno le parole, in un autistico lamento.

Viene meno “del” simbolico, ciò che “fa” segno all’Altro, e spesso anche l’Altro inibisce i propri segni e non fa segno di rimando, preso da una pre-occupazione (un “per sé”), non si occupa più di fare segno all’Altro. Tutto rimane un utilizzabile o calcolabile curativo, senza comprendere quanto, in questo “agglutinato”, siano importanti i “segni” dell’amore, la soddisfazione simbolica, la presenza donante, propriamente umani, che solo l’Altro può consegnare. Poiché il dolore disumanizza, mentre la soddisfazione simbolica umanizza, più di ogni altra cura. Così, posso dire “è passato!” solo se sono “fuori” da quell’agglutinato, in un “aperto”. Qui mi sento leggero, rinato, qualcosa si è aperto anche se solo come speranza e posso dire: “ne sono uscito fuori”.

Il passaggio è quindi un’apertura, un altrove, un uscir fuori, un’attesa, anzi il poter ospitare l’attesa, quella tollerabile frustrazione che mi consente di poter

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UN METODO MOLTO PERICOLOSO: LA CONIUNCTIO SESSUALE ALCHEMICA TRASFORMATIVA (PRIMA PARTE)

Luca Valerio Fabj

«Spero che Freud e i suoi allievi spingano le loro idee fino ai limiti estremi, in modo che possiamo sapere di che si tratta. Tali idee non possono non gettare luce sulla natura umana, ma confesso che personalmente Freud mi ha fatto l’impressione di un uomo ossessionato da idee fisse. Per quanto mi riguarda, non so cosa fare con la teoria dei sogni, e il “simbolismo” è manifestamente un metodo molto pericoloso».

Wiliam James a Thèodore Flournoy,(1909)

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RUBRICA: I SIMBOLI COSMICI DELL’ASTROLOGIA COME ARCHETIPI DELL’INCONSCIO COLLETTIVO

PREMESSA

Con questo numero del Minotauro, la rivista, come aveva già fatto precedentemente negli anni passati, dedica un suo spazio periodico in forma di rubrica alla simbologia astrologica ed ai suoi rapporti con la psiche. Il titolo scelto per la suddetta rubrica vuole appunto intendere questo rapporto antichissimo, ermetico, e più volte sottolineato da Jung fra il microcosmo dell’individuo ed un macrocosmo ove esso, in un certo qual modo, si riconosce (o forse in senso platonico sarebbe più corretto dire si “ricorda”), proprio attraverso la presenza nella sua psiche di immagini archetipiche che vengono proiettate sulle costellazioni zodiacali.

Infatti l’interesse della umanità per l’astrologia si perde nella notte dei tempi e non è mai scemato e, oggi, si può senza dubbio dire che esso sia più presente che mai e che di tutte le forme attualmente esistenti del così detto “esoterismo/occultismo”, l’astrologia, è quella più organizzata sistematicamente, la più diffusa e la più seguita. Sebbene i dati siano di diverse decadi fa, basta pensare che negli Stati Uniti vi sono più di cinque milioni di americani che programmano la loro vita in base alle predizioni astrologiche e che il numero di quotidiani che pubblicano oroscopi è stimato in un numero che va dai 1200 ai 1750. Se poi consideriamo, inoltre, non solo le persone che credono all’“astrologia’’ al punto di basare su di essa le proprie scelte di vita, ma che semplicemente pensano che essa sia in un certo qual modo “veritiera” e degna di interesse, per lo meno per quanto riguarda le caratteristiche del proprio carattere rispetto al segno zodiacale di appartenenza, il numero degli appassionati/interessati, diviene semplicemente impressionante, non solo negli U.S.A., ma in tutto il mondo. Tutto ciò fa dell’astrologia un vero fenomeno sociale collettivo che vista l’antichità che possiede e la sua diffusione mondiale, non può certo essere liquidata con un’alzata di spalle di sufficienza da parte della psicologia del profondo; specie da parte di quella psicologia, come la psicologia analitica, che si occupa di immagini archetipiche ed in particolare, come fece Jung, di quelle alchemiche.

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ARCHETIPO, ASTROLOGIA E NUOVO SENSO PSICOLOGICO

Irene Zanier

«Solo attraverso il simbolo è possibile raggiungere ed esprimere l’inconscio. Per questo anche il processo di individuazione non può fare a meno del simbolo, in

quanto il simbolo è da un lato l’espressione primitiva dell’inconscio, ma dall’altro è un’idea che corrisponde all’intuizione più profonda della coscienza».

Carl Gustav Jung

Quando si parla o si scrive di astrologia al giorno d’oggi si corre sempre il rischio di venir emarginati o zittiti a priori, senza che venga data la possibilità di spiegarsi, o di spiegare, come questo strumento antico possa essere un mezzo ricchissimo di simboli, codificati da millenni, per l’esplorazione di sé. Per correttezza va chiarito che questa diffidenza è giustificata dal fatto che nella maggior parte dei casi, purtroppo, questa disciplina è stata usata e viene tuttora usata per scopi manipolatori e delle volte praticata da persone di scarsa o nessuna cultura che, sentenziando quasi sempre per proiezione, influiscono per suggestione sulle vite di chi le consulta. È doveroso quindi operare anche una distinzione, già messa in luce da Pico della Mirandola, tra astromanzia e astrologia. Spinti da questa naturale diffidenza si commette però, purtroppo, l’errore di fare di tutta l’erba un fascio e, bollando il tutto come “mera superstizione” o mantica, di rimuovere senza esplorare e conoscere. Esplorazione e conoscenza che non danno, comunque, alcuna certezza o verità assoluta su quello che dovrebbe essere il senso della vita, ma che permettono, forse, un approccio più sacrale ad essa.

Non è quindi un’eliminazione della sofferenza umana o un autoinganno ben intessuto, ma semmai è un arricchimento del vocabolario interiore al fine di descrivere esperienze comuni. Un modo per delimitare il cosmos che si dispiega attorno ad un nuovo centro (o axis mundi) separandolo e contrapponendolo al caos . Mi auguro di riuscire a trasmettere proprio questo nel prosieguo di questo articolo e di fornire un’altra chiave di lettura del fenomeno astrologico, che ha molto da spartire con la sorella Psicologia del Profondo156.

156 La tentazione iniziale di riferirmi solo alla Psicologia senza alcuna specifica è stata superata nel momento in cui mi sono trovata a pensare che questo termine è

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RECENSIONI

GIUSEPPE BERTI CERONI

Confini, muri e bordi

Continuità e discontinuità all’interno dellamente e fra mente e corpo

P. E. Persiani Editore, Bologna 2011

ISBN: 978-88-96013-30-4

Pp: 224 16,90 €

Questo è un libro sui generis: non è un libro di psicoanalisi, anche se la psicoanalisi è presente in ogni sua pagina. Non è un libro di politica, ma la politica è il brodo di tutte queste pagine, che non sono per niente maturate in una torre eburnea, ma nei vettori e nei problemi di questo cinquantennio, fra gli anni Sessanta e oggi.È un libro che guarda attorno a tutte le altre discipline, ma dai bordi della psicoanalisi, cogliendo, salvo che per la neurologia e la psichiatria cliniche, solo bocconi delle altre discipline, probabilmente anche fraintesi. È zibaldone, congerie, poutpourri, ma ha l’estrema continuità di vivere in diversi aloni di tempo, da Freud e Bion a Berlinguer e Moro, da Jacksone Foucault a Kapuschinski e Schama.Diviso in tre parti — confini, muri e bordi — è frutto di pensieri, pratiche e ricerche che prendono spunto da tutta la vita professionale dell’autore.

Giuseppe Berti Ceroni è stato primario di psichiatria per venti anni nei Servizi Psichiatrici di Bologna e Provincia. Tenace fautore sul piano politico, sociale e medico del modello territoriale delle cure psichiatriche fin dai primi anni settanta, ha in seguito fortemente contribuito allo sviluppo di questo modello, a livello regionale e nazionale, con un’appassionata e innovativa attività scientifica e clinica. La sua straordinaria capacità d’integrare scienza, pratica clinica e insegnamento, ha dato origine a innumerevoli attività di ricerca coinvolgendo, e formando in esse, ampi gruppi di colleghi. Tra queste la più significativa è la

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Collaborazione fra medici di Medicina generale e psichiatri, che successivamente ha dato origine al Progetto regionale “Leggieri”. Membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, componente dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale fondata da Freud, ha partecipato attivamente alla vita culturale societaria e ne è stato segretario scientifico dal 2001 al 2005, dopo aver lavorato per più di dieci anni nella redazione della “Rivista di Psicoanalisi”. Anche in questo campo i suoi contributi scientifici sono stati di grande qualità e “disparati”, a riprova della sua vasta cultura e dei suoi molteplici interessi. Ha curato l’edizione dei seguenti volumi: con F. Asioli e A. Ballerini, Psichiatria nella Comunità, (Bollati Borighieri, Torino 1993); con Elisabetta Paltrinieri L’ambulatorio psichiatrico pubblico. Ruolo, attività, problemi (Carocci, Roma 1996); con A. Correale, Psicoanalisi e Psichiatria (Cortina, Milano 1999) e infine, Come cura la psicoanalisi (Angeli, Milano 2005).

Il 2 dicembre 2011 si è svolta la prima presentazione del libro, purtroppo uscito postumo alla scomparsa dell'Autore, presso il Centro Psicoanalitico di Bologna, a cui hanno partecipato:Angelo Battistini, presidente del Centro Psicoanalitico di BolognaMarco Monari, psichiatra AUSL Bologna e psicoanalistaManuela Battistelli, psichiatra e psicoterapeutaLuigi Boccanegra, psicoanalista, VeneziaAntonello Correale, psicoanalista, RomaCecilia Neri, psichiatra AUSL BolognaLuigi Rinaldi, psicoanalista, Napoli

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ROBERTO ZACCO

Dove guarda la Sfinge

P. E. Persiani Editore, Bologna 2010

ISBN: 978-88-96013-20-5

Pp: 200 16,90 €

Recensione di Maurizio Harari*

(È il III tomo della trilogia ‘amarniana’, preceduto da: Le braccia del Sole, Milano, Mondadori, Milano 1997; Gli occhi della Luna, Mondadori, Milano 2006)

Com’è noto ai lettori di Zacco, i primi due tomi di questa sua trilogia dedicata all’antico Egitto raccontavano gli eventi di un’epoca esemplarmente critica della sua storia millenaria — quella che chiamiamo amarniana, verso la metà del XIV secolo a.C. —, secondo il duplice punto di vista della regina, la bellissima Nefertiti, e del sovrano Amenophi IV (rinominato Akhenaton, conformemente alla sua sovversiva riforma religiosa). Ho già sottolineato in altra circostanza che con questa giustapposizione di visuali, differenti e complementari, c’entra poco Pirandello e c’entra poco (nonostante l’ambientazione egiziana) anche Durrell: non siamo di fronte a un girotondo delle parti manierato e irrisolto, intrecciato attorno ad accadimenti enigmatici o a sfuggenti verità psicologiche, e ce ne dà conferma proprio il terzo romanzo che, diversamente dai due che l’hanno preceduto, racconta un’altra storia, con lieve ma decisivo scarto temporale.

Le braccia del Sole era costruito sull’invenzione di un diario della Regina, e ciò imponeva una messa a fuoco accorciata degli avvenimenti, percepiti nella loro significatività immediata e affatto contemporanea; Gli occhi della Luna recuperavano il medesimo materiale narrativo nella visuale invece dilatata di un memoriale retrospettivo, dettato dal Faraone in punto di morte. Ma nel terzo romanzo cambia tutto: in primo luogo, perché viene meno il principio di sincronia che aveva governato gli altri due, e il racconto non è più quello degli anni fervidi ed esaltanti di Akhenaton, ma trova contesto nel dopo, nel riflusso

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ideologico del brevissimo regno del suo successore Tutankhamun; e inoltre, perché l’io narrante appartiene questa volta a un personaggio di cui il lettore sa bene l’importanza — se lo stesso Akhenaton, nel finale del secondo volume, l’aveva salutato con commozione: «sei tu l’unico Faraone esistente!» —, ma che è incommensurabilmente lontano, per statuto sociale e per preoccupazioni esistenziali, dai due prim’attori che l’hanno preceduto in scena. Si tratta dello scultore Tutmhose — una figura di piena storicità, cui apparteneva realmente la bottega esplorata dagli archeologi tedeschi a Tell El-Amarna, nel 1902-3, con splendide opere incompiute, calchi, bozzetti e busti-modello, oggi esposti nel Neues Museum di Berlino —, un uomo appunto già molto anziano e palesemente cardiopatico, di ritorno a Tebe dopo la morte di Nefertiti e Akhenaton, in anni relativamente pacati e malinconici accanto alla sposa Redit, una barbara di origine scitica, e alle due figlie Ankhespaton e Merimaat.

Affidare il racconto a un artigiano — sia pure geniale e privilegiato da una committenza di rango più che principesco — e assumere la quotidianità della sua vita a oggetto principale del racconto, hanno come conseguenza un radicale riposizionamento dell’intreccio, che lascia per così dire il piano nobile dei sovrani e del loro protagonismo nella grande storia, perdendo quasi completamente i connotati dell’eccezionalità per assumere, all’apparenza, un andamento di fatti usuali, propri del vivere nello spazio ordinario della famiglia. Un marito intelligente, colto e inventivo, senza troppi rimorsi per infedeltà del passato avvertite come irresistibili; una moglie capace di tolleranza e di tenerezza; le figlie accomunate dalla stessa passione per la vita, ma quasi didascalicamente rappresentative di una sensualità che in Merimaat è tutta radicata nella carne, e in Ankhespaton, diversamente, disincarnata nell’esperienza estetica della musica. Potremmo parlare, in termini oggi desueti, di una dimensione borghese del romanzo: dove infatti il lettore non troverà più — tranne che nella forma mediata di alcune parentetiche rievocazioni — i fatti impressionanti, le deflagrazioni visionarie che avevano dato ritmo alla vicenda del Faraone e della sua ineguagliabile compagna; e quel loro caratteristico dialogare in tono alto, solenne e sentenzioso, è limitato agl’interventi di Teye, la regina madre, e del sapiente medico e architetto Amenhotep, o alle citazioni fatte proprie da Tutmhose. Si esplicita così quanto era già percettibile seppure dissimulato, nei primi due romanzi, ed è uno dei temi dominanti nella letteratura europea del secolo appena trascorso: mi riferisco alla condizione contraddittoria dell’artista, borghese di estrazione socio-culturale e tuttavia chiamato a confrontarsi rischiosamente col disordine e con l’eccezionalità che stanno a fondamento dell’esercizio creativo, fino a esserne in qualche misura necessariamente contaminato. È la condizione di Tutmhose, ma è anche la condizione di chi

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scrive, con processo d’immedesimazione — pure da parte del lettore — ch’era molto più arduo, ovviamente, di fronte al carisma inattingibile di Nefertiti e di Akhenaton.

D’altro canto, il nesso strutturale che lega la storia di Tutmhose alle prime due parti della trilogia si coglie, oltre che in un pulviscolo di riprese formali e contenutistiche più o meno facilmente riconoscibili, come variazioni musicali della stessa sequenza di note, nella presenza di due importanti intermezzi che inscrivono il racconto nella narrazione, secondo una tecnica già utilizzata in precedenza dall’Autore. Il primo consiste nel viaggio dello scriba Sipturi — vera tempra di un ulisside, tiranneggiata dalla curiosità conoscitiva — che, con anticipo vertiginoso sulle moderne esplorazioni geografiche, risale per quindici anni il Nilo, ben oltre la terra di Kush, sin nel cuore nero dell’Africa, e ne scopre infine il principio nella regione dei grandi laghi. In effetti, altri racconti di viaggio erano penetrati nel tessuto narrativo dei primi due volumi: il viaggio di Taduchipa — tale il nome mitannico di Nefertiti — verso l’Egitto e le sue nozze regali, e il Grand Tour del giovane Amenophi a nord, nella Grecia dell’età del bronzo, e a sud sul confine nubiano. Viaggi iniziatici, tutti, e decisivi per il destino di chi li compie. Amenophi s’era confrontato con due deserti — «il deserto degli Achei e di tanti altri popoli», cioè il mare; e il deserto bruciante di roccia e di sabbia che cinge l’oasi del Nilo — e lì aveva vanamente cercato, secondo il consiglio fatale di Amenhotep, la voce del Dio silenzioso. Sipturi, sovvertendo nella sua interminabile navigazione l’orientamento del grande fiume, sfiora i deserti e incontra piuttosto regioni lussureggianti, e tutta un’imprevedibile vita di animali e uomini ‘fanciulli’, che «esistevano da sempre […] antichi come le loro foreste ma […] privi di una storia», e infine «una montagna tanto lontana quanto alta», che ci ricorda l’ultima avventura, nuovamente, di Ulisse e, col suo abbacinante candore argenteo il gran finale del Gordon Pym.

L’altro intermezzo è ben noto al lettore perché l’ha già incontrato negli Occhi della Luna, ed è il mito dei due scrigni del dio Ra: quello grande che doveva contenere la Libertà, la Giustizia e la Felicità ma, una volta frantumato dal Faraone arrogante, si svela vuoto, e quello piccolo, lo scrigno della Bellezza che aperto invade «il cielo e l’universo e rende tristi […] però fa sentire liberi e giusti e perfino felici». L’apologo era stato narrato da Teye a Nefertiti, e Nefertiti l’aveva trascritto su un papiro; è infine Tutmhose a ricopiarlo nuovamente, perché lo legga Ankhespaton, la figlia che conosce e sa trascrivere la musica. Dall’allegoria dei due scrigni deriva in effetti la sintesi gnomica dell’intera trilogia di Zacco: la dimensione della storia è inutilmente tragica, in quanto i suoi conflitti avvampano alimentati da parole vuote, di cattiva magia, e il potere è sempre, in

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ultima analisi, autodistruttivo; è invece appagante l’esperienza estetica (dell’arte figurativa, della musica, della scrittura), che include e invera, con la sua magia buona, tutte le aspirazioni dell’uomo, altrimenti ingannevoli.

Fra i Leitmotiven tematici variamente affioranti nel corso della narrazione, ritroviamo quello della finitezza della sapienza umana e in particolare della scienza medica: «Rubare una tazza d’acqua al fiume ci fa credere di esserci impossessati di tutta la sua ricchezza solo perché essa basta a spegnere la sete del momento e dimentichiamo tutta l’altra che scorre», è pensiero amaro del sapiente Amenhotep; l’aborto di Merimaat, («tanto piccolo da non avere alcuna forma umana, quasi fosse un frammento cruento del suo cuore»), lascia la giovane donna «sola e ancora più disperata»; mentre il vecchio Tutmhose spia il dolore delle vertebre, l’aritmìa del suo cuore, perché sa che «solo al tramonto» il sole «ti colpisce negli occhi e ti abbaglia e costringe a pensarlo come qualcosa che si prepara a colpirti più tardi con la sua assenza».

Il pensiero del Dio silenzioso — che oserei chiamare, con accento paolino, il Dio Ignoto — ingombra egualmente l’animo dello scriba e del faraone. Sipturi, che un «Dio sconosciuto e splendente» aveva pure incontrato alle sorgenti del Nilo, è preso dal dubbio di fronte al cucciolo di gazzella dilaniato dai leoni — e Tutmhose gli oppone l’idea che gli atei, pur avendo «molti buoni motivi per essere tali», scontino l’incapacità «a considerare l’infinito» (l’immisurabile, per definizione) «come l’unica misura delle cose e dei sentimenti.» Tutankhamun, «un piccolo astro […] che si appresta a scomparire oltre la linea dell’orizzonte […] confuso e triste a galleggiare in un’esistenza votata solo alla costruzione della sua tomba», chiede allo scultore «bellezza e serenità […] perché è il modo migliore per presentarsi agli Dèi»; e lo scultore ne concepisce il ritratto come di uno che dica al Dio Ignoto: «Anch’io come Te sono indifferente e tollero e accetto tutte le prove cui mi hai sottoposto. Anch’io sono come Te e quindi ti capisco. Anch’io sono sereno di fronte al dolore così come lo sei Tu nell’impormelo.» («Nessuno può pregare l’Aton per me poiché l’Aton ed io siamo rimasti soli» aveva detto, non troppo dissimilmente, Akhenaton). L’atonismo ancora rivive in memoria esistenziale negli anziani e come nostalgia politico-filosofica nei giovani; e nell’interpretazione che ne dà Zacco mantiene i connotati, volutamente anacronistici, di un monoteismo protocristiano, così che a Tutmhose in dialogo con la figlia è affidato un concetto prossimo a quello della metanoia: «Le vere rivoluzioni […] si realizzano solo quando il costume di un popolo cambia in funzione del cambiamento del cuore dei singoli».

Ma l’apporto specifico del romanzo di Tutmhose all’architettura ideologica della trilogia va indicato — come si desume dalle ultime righe della sua prefazione —

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nella riflessione estetica, qui declinata sul doppio registro della musica e della scultura, cui perfino l’architettura, per ammissione dello stesso Amenhotep, è costretta a cedere il primato. Qui s’annodano due filoni di pensiero propri dell’umanesimo occidentale: da una parte, l’idea giudaica e cristiana che la bellezza sia qualità divina e motivi il desiderio di Dio di dar vita all’uomo,e che allo stesso tempo l’uomo si riconosca in Dio stesso; dall’altra, la nozione platonica dell’eros (e cioè, nuovamente, del desiderio) come via maestra alla verità nascosta dall’apparenza sensibile, cosicché la creazione artistica — al di là di ben noti pregiudizi dello stesso Platone - può trovar senso nell’essere necessariamente maieutica: nel trarre dall’informe materiale la forma immateriale che preesiste e vi è contenuta. Si consideri la risposta che Tutmhose dà a Sipturi: «[…] si può sentire la mancanza di ciò che non si conosce? Sì. La bellezza precede la conoscenza quando è dentro di noi ed è grande e fortunata scoperta riconoscere come nostro ciò che ignoravamo; oppure: «[…] è la bellezza che induce ad amare o è il nostro bisogno d’amore che fa diventare bello ciò che amiamo?» E come Tutmhose descriva il suo lavoro: «Mi sono avventato contro la mia inerzia quasi improvvisamente e quasi con rabbia. [...] ho cominciato ad aggredire la pietra che da tempo attendeva e ho cominciato a separare il volume che contiene la testa da quello di una spalla scavando quel golfo che nel corpo sembra fatto per invitare altri a riporvi il proprio capo.» Dunque, la bellezza precede la conoscenza e motiva il desiderio dell’uomo, e l’artista è colui che, guidato dal desiderio (e perciò da un sentimento essenzialmente religioso), riesce a trarla dalla materia: «[…] quando per la prima volta considerasti il blocco informe di pietra, mentre dentro si agitava un’idea con il pianto dei neonati». Accenti di un neoplatonismo quasi michelangiolesco.

Veniamo ora più direttamente alle opere attribuite a Tutmhose nel romanzo. Sono sculture, tengo a sottolineare, tutte ancora esistenti, e non sarà difficile a lettori meticolosi riconoscerle, una per una, nelle fotografie di manuali illustrati e cataloghi di musei: sicuramente di Tutmhose l’ammiratissimo busto in calcare policromo di Nefertiti coronata, al museo di Berlino; forse di altra mano, ma uscita dalla stessa cerchia di botteghe di corte la testa di quarzite rosa, oggi al Cairo, che Zacco immagina fortunosamente sottratta alla rovina della capitale di Akhenaton; i ritratti di Teye, con l’inconfondibile «sottilissima piega amara» della bocca; la testina lignea di Tutankhamun fanciullo, colorata di un rosa innaturale che sembra preannunciarne malattia e morte precoce. Con condivisibile giudizio storico-artistico, Zacco si figura una qualche partecipazione di Tutmhose, sia pure marginale, alla fabbricazione dello strepitoso corredo funerario della Tomba di Tutankhamun: senza voler discutere il dettaglio della congettura — si tratterebbe dei canopi intagliati nell’alabastro e del modello per la maschera

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funeraria — è certo che l’arte della restaurazione post-amarniana non poté rompere d’improvviso ogni legame coi promotori del radicalismo morfologico dell’età precedente, e il ‘ritorno all’ordine’ ramesside sarebbe poi scaturito da una riappropriazione progressiva del grande linguaggio classico.

Lo sguardo di Zacco sull’arte dell’Egitto antico è poeticamente anacronistico: ne percepisce con lucidità la predeterminazione stereometrica; — «l’immagine a grandezza naturale di una bellissima donna assisa dentro la sua veste, con la quale forma una specie di cubo secondo una delle più antiche tradizioni scultoree» — ma che, di fronte all’anomalìa amarniana, non può evitare di descriverla, novecentescamente, come un’arte “della realtà”: «Ricordi l’esortazione che Akhenaton fece agli scribi nel suo discorso? Rappresentate la verità come è dato di vederla, non come vorreste che fosse!», [Sembra Plinio che parla di Lisippo]. Questa interpretazione realistica o addirittura veristica dell’arte amarniana si consolida agli occhi del medico, anche attraverso ciò che gli appare dettagliata sintomatologia di un guasto fisiologico che abbia prodotto la difformità anatomica. È, al fondo, ancora una volta il tentativo della magia della scienza di spiegare naturalisticamente quanto è guidato da una logica simbolico-espressiva tutta interna al fenomeno figurativo.

Vorrei chiudere con qualche nota di commento al titolo: Dove guarda la Sfinge. I titoli dei libri sono importanti: i libri cominciano, a volte, dal titolo che portano, e a volte ci finiscono. Questo è tutt’e due le cose: il principio e la fine, anzi la fine e il principio. Davanti alla Sfinge, per la prima volta, Tutmhose c’era capitato da ragazzo, sulla strada per la scuola di scultura di Menfi; e ci torna da vecchio, assieme alla figlia che pareva e forse non era, delle due, quella sciocca. Ma ancor più che alla Sfinge le sue parole si rivolgono, lì presso, all’enorme Piramide: «Guarda la base della piramide: vedi come essa grava sulla terra con il peso di milioni di enormi pietre in tutto simile a quello della condizione umana? Ma ora segui le linee dei suoi spigoli. Guarda come esse convergono verso un’apice che è solo un punto ed un punto non pesa nulla […] ma oltre quel punto tutto cambia, la pietra e la carne non vanno oltre ed ogni peso si annulla […] oltre quel vertice […] le linee divergono e si aprono come un calice che abbraccia tutto l’universo […] Dove guarda, dunque, la Sfinge? Guarda dentro l’infinito […] che si apre sopra le piramidi». Il vertice della piramide, un punto senza peso in cui si raggruma prodigiosamente la tristezza del mondo. Il vertice della piramide, un punto senza peso da cui sboccia prodigiosamente la bellezza del Mistero.

*Maurizio Harari è professore di Etruscologia ed Archeologia italica presso l’Università di Pavia. Dal 1988 è membro corrispondente dell’Istituto nazionale di Studi etruschi e italici.

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EUGENIO PELIZZARI

Le immagini dell’inconscio

Moretti &Vitali, Bergamo 2010

Recensione di Luca Valerio Fabj

Questo ottimo saggio di Eugenio Pelizzari si occupa del lavoro della psichiatra brasiliana Nise da Silveira sviluppando un argomento caro alla psicologia analitica: quello del rapporto fra le immagini dell’inconscio e la malattia mentale. Per Jung le immagini inconsce rappresentano, non una semplice illusione, ma gli aspetti più autentici e profondi della personalità umana. Quando queste immagini sono espressione di un archetipo dell’inconscio collettivo possono, qualora attivate, a causa del loro potere numinoso, produrre una profonda trasformazione psichica che può essere evolutiva o, all’opposto, foriera di patologia mentale. È proprio nella follia che queste immagini inconsce mostrano tutta la loro straordinaria potenza e poterle riconoscere e concretizzare in forma artistica, come avviene nel disegno, può portare ad alleviare il disagio psichico attraverso una determinazione del senso archetipico che esse possiedono. Proprio di queste immagini, e del loro significato, si occupa il lavoro della psichiatra Nise da Silveira, pressoché sconosciuta in Italia. Il Pelizzari in questo suo lavoro si concentra proprio sui disegni dei pazienti psichiatrici di Silveira fornendo una carrellata artistica di tali opere secondo le indicazioni teoriche della psichiatra brasiliana. Grazie a questo libro, insostituibile e prezioso ausilio per il lavoro del clinico psicopatologo, è possibile cogliere la bellezza di questi disegni e rendersi conto di come la follia non sia un non-senso psichico, ma una sorta di porta verso un mondo psichico che potrebbe forse anche avere un senso superiore rispetto a ciò che vediamo con gli occhi della normalità. Chi come me ha avuto un’esperienza di psicoterapia con pazienti psichiatrici gravi e meno gravi per mezzo del disegno, non potrà non trovare in questo libro una conferma della straordinarietà che la follia esprime e soprattutto della umanità che questi

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pazienti posseggono. In fondo anziché chiedersi sempre e oramai storicamente “che cosa pensano i malati di mente?”, sarebbe meglio domandarsi che cosa vedono i malati di mente. I disegni studiati dalla da Silvera, riportati dal Pelizzari, sono proprio un modo straordinario di vedere il mondo attraverso gli occhi della follia e per rendersi conto che forse quella vista ha in sé un’arcana bellezza foriera di nuovi significati.

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FRANCO FABBRO

Neuropsicologia dell’Esperienza Religiosa

Astrolabio, Roma 2010

Recensione di Luca Valerio Fabj

Come docente di Psicologia e Religione ritengo che questo libro del professore Fabbro, dovrebbe fare parte del materiale didattico formativo di ogni Scuola di Psicoterapia che si occupi degli aspetti psichici della religione. Questo testo innovativo si occupa delle basi neuropsicologiche delle esperienze religiose del misticismo.

Il testo unisce neurofisiologia e sacro in un modo rigorosamente scientifico, ma altrettanto colto dal punto di vista della storia delle religioni e dei simboli ad esse collegati. Nel libro si scopre come neuroscienze e psicologia e religione non sono affatto fra loro in contrasto, ma, anzi, si completano fra loro dando una visione dell’uomo e del cosmo veramente univoca, si potrebbe dire “divina”. Il Fabbro si occupa specificatamente, come già fece Eliade, delle tecniche dell’estasi sacra, da un punto di vista neuropsicologico e non solo religioso. Vengono considerate le tecniche dello sciamanesimo, del buddhismo, dell’induismo, dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islamismo, — nonché di molte antichissime religioni come quella egizia e lo zoroastrismo, — mostrandone aspetti comuni, come l’uso di alimenti e sostanze, per indurre l’estasi e la trance. Ma oltre a ciò il testo considera anche i problemi connessi fra il sacro e la neurologia come le esperienze religiose della epilessia, e anche fra religione, malattia e guarigione. Tutto ciò ne rende un lavoro davvero unico di cui il medico che si occupa di psicologia e religione non dovrebbe fare a meno per orientarsi nei suoi studi e nelle sue considerazioni cliniche.

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«Grazie a Dio non sono uno junghiano»

Carl Gustav Jung

BOLOGNA

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IL MINOTAUROIL MINOTAUROIL MINOTAUROProblemi e ricerchedi psicologia del profondo

Anno XXXVIII - n.2Dicembre 2011

€ 15.90

ISSN 2037-4216

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