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Il regime sanzionatorio contro l’Iran. Una valutazione ... · scenari e necessari per il raggiungimento degli obiettivi che le Forze Armate, e più in generale la collettività

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CENTRO ALTI STUDI

PER LA DIFESA

Dr. Michele Brunelli

Il regime sanzionatorio contro l’Iran.

Una valutazione dell’impatto a livello

politico, economico e sociale

sui nuovi scenari e sulle potenzialità

strutturali nel periodo post

Dr. Michele Brunelli

(a cura di)

Il regime sanzionatorio contro l’Iran.

Una valutazione dell’impatto a livello

politico, economico e sociale e un’analisi

sui nuovi scenari e sulle potenzialità

strutturali nel periodo post-embargo

(Codice AL-R-04)

Il regime sanzionatorio contro l’Iran.

Una valutazione dell’impatto a livello

e un’analisi

sui nuovi scenari e sulle potenzialità

embargo

CENTRO MILITARE

DI STUDI STRATEGICI

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Il Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS) è un organismo istituito nel 1987 che gestisce, nell’ambito e per

conto della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico. Tale attività permette di accedere, valorizzandoli, a

strumenti di conoscenza ed a metodologie di analisi indispensabili per dominare la complessità degli attuali

scenari e necessari per il raggiungimento degli obiettivi che le Forze Armate, e più in generale la collettività

nazionale, si pongono in tema di sicurezza e difesa.

La mission del Centro, infatti, nasce dalla ineludibile necessità del Ministero della Difesa di svolgere un ruolo di

soggetto attivo all’interno del mondo della cultura e della conoscenza scientifica interagendo efficacemente con

tale realtà, contribuendo quindi a plasmare un contesto culturale favorevole, agevolando la conoscenza e la

comprensione delle problematiche di difesa e sicurezza, sia presso il vasto pubblico che verso opinion leader di

riferimento.

Più in dettaglio, il Centro:

● effettua studi e ricerche di carattere strategico politico-militare;

● sviluppa la collaborazione tra le Forze Armate e le Università, centri di ricerca italiani, stranieri ed

Amministrazioni Pubbliche;

● forma ricercatori scientifici militari;

● promuove la specializzazione dei giovani nel settore della ricerca;

● pubblica e diffonde gli studi di maggiore interesse.

Le attività di studio e di ricerca sono prioritariamente orientate al soddisfacimento delle esigenze conoscitive e

decisionali dei Vertici istituzionali della Difesa, riferendosi principalmente a situazioni il cui sviluppo può

determinare significative conseguenze anche nella sfera della sicurezza e difesa.

Il CeMiSS svolge la propria opera avvalendosi di esperti civili e militari, italiani e stranieri, che sono lasciati liberi

di esprimere il proprio pensiero sugli argomenti trattati.

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CENTRO ALTI STUDI

PER LA DIFESA

Michele Brunelli

Il regime sanzionatorio contro l’Iran.

Una valutazione dell’impatto a livello

politico, economico e sociale e un’analisi

sui nuovi scenari e sulle potenzialità

strutturali nel periodo post

(Codice AL-R-04)

Michele Brunelli

( a cura di)

Il regime sanzionatorio contro l’Iran.

Una valutazione dell’impatto a livello

politico, economico e sociale e un’analisi

nuovi scenari e sulle potenzialità

strutturali nel periodo post-embargo

CENTRO MILITARE

DI STUDI STRATEGICI

Il regime sanzionatorio contro l’Iran.

Una valutazione dell’impatto a livello

politico, economico e sociale e un’analisi

nuovi scenari e sulle potenzialità

embargo

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Il regime sanzionatorio contro l’Iran.

Una valutazione dell’impatto a livello politico, economico e sociale e un’analisi sui nuovi

scenari e sulle potenzialità strutturali nel periodo post

NOTA DI SALVAGUARDIA

Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dell’autore, e non quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari

Le analisi sono sviluppate utilizzando informazioni disponibili su fonti aperte. Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici

Direttore Amm. Div. Mario Caruso

Vice Direttore - Capo Dipartimento Col. A.a.r.n.n. Pil. Marco Francesco D’Asta

Progetto grafico Massimo Bilotta - Roberto Bagnato

Autori Michele Brunelli – Annalisa Cristini

Stampato dalla tipografia del Centro Alti Studi per la Difesa

Dipartimento Relazioni Internazionali

Piazza della Rovere, 83

e-

Il regime sanzionatorio contro l’Iran.

Una valutazione dell’impatto a livello politico, economico e sociale e un’analisi sui nuovi

e sulle potenzialità strutturali nel periodo post-embargo

NOTA DI SALVAGUARDIA

Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dell’autore, e non quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali l’autore

NOTE

Le analisi sono sviluppate utilizzando informazioni disponibili su fonti aperte.

Centro Militare di Studi Strategici

Capo Dipartimento Relazioni Internazionali Col. A.a.r.n.n. Pil. Marco Francesco D’Asta

Roberto Bagnato

Annalisa Cristini – Federica Origo – Fabio Indeo – Laura Rachele Galeotti

Centro Alti Studi per la Difesa

Centro Militare di Studi Strategici Dipartimento Relazioni Internazionali

Palazzo Salviati Piazza della Rovere, 83 - 00165 – Roma

tel. 06 4691 3204 - fax 06 6879779 -mail [email protected]

Chiusa a novembre 2017

ISBN 978-88-99468-57-6

Una valutazione dell’impatto a livello politico, economico e sociale e un’analisi sui nuovi

embargo

Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dell’autore, e non quello del civili alle quali l’autore stesso appartiene.

Laura Rachele Galeotti

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INDICE SOMMARIO ........................................................................................................................................................... 7

Capitolo 1. La strategia dell’embargo: dall’appoggio storico alle conseguenze politiche ........................... 10

Capitolo 2. Le sanzioni nel quadro del diritto internazionale ........................................................................ 23

2.1 La responsabilità internazionale degli Stati .................................................................................... 23

2.2 Gli elementi costitutivi dell’illecito internazionale ........................................................................ 24

2.3 Le contromisure come reazione all’illecito ..................................................................................... 26

2.4 Le sanzioni e la loro efficacia ........................................................................................................... 28

2.5 Casi che videro l’Iran coinvolto in questioni concernenti la responsabilità internazionale, la

forza maggiore e l’estremo pericolo ................................................................................................ 30

Capitolo 3. Il Caso Iran: le cause delle sanzioni ............................................................................................... 32

3.1 La Dinastia Pahlavi e lo scoppio della Rivoluzione iraniana ....................................................... 32

3.2 La nascita della Repubblica Islamica dell’Iran e il cambiamento politologico portato dagli

Ayatollah.............................................................................................................................................. 40

3.3 Lo stravolgimento degli assetti regionali e la politica di contenimento messa in atto da

Washington: dalla crisi degli ostaggi fino all’Iran-Libya Sanctions Act .......................................... 45

3.4 La questione del nucleare iraniano e la risposta internazionale durante le trattative per una

soluzione pacifica ............................................................................................................................... 50

3.5 Il piano d’azione congiunto (Joint Comprehensive Plan of Action) e la firma dell’accordo ............ 60

Capitolo 4. L’impatto sociale e politico delle sanzioni e la risposta di Teheran .......................................... 63

4.1 Le contromisure iraniane .................................................................................................................. 71

4.2 Il livello della politica estera. Nuove alleanze strategiche: Paesi non allineati, Russia, Cina,

Corea del Nord ................................................................................................................................... 78

4.3 Dall’Asse del Male al Triangolo dei Vincenti: Mosca-Teheran-Ankara ..................................... 79

4.4 Cui prodest? ........................................................................................................................................ 87

Capitolo 5. La fine delle sanzioni e i primi cambiamenti ................................................................................ 95

5.1 Il nuovo corso di Hassan Rohani e i cambiamenti portati dall’Implementation Day ............. 95

5.2 Le potenzialità del mercato iraniano ............................................................................................... 99

5.3 Le possibili sinergie economiche tra Iran e Italia ........................................................................ 100

Capitolo 6. L’impatto economico delle sanzioni sull’Iran ............................................................................ 102

6.1 Le sanzioni economiche e finanziarie all’Iran .............................................................................. 102

6.1.1 Un breve excursus cronologico ......................................................................................................... 102

6.2 Il quadro macroeconomico dell’Iran nel periodo delle sanzioni ............................................... 104

6.3 Come quantificare l’impatto economico delle sanzioni ............................................................. 109

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6.4 L’impatto economico delle sanzioni: una breve rassegna degli studi esistenti ........................ 113

6.5 La fine delle sanzioni economiche e finanziarie .......................................................................... 114

6.5.1 Le sanzioni rimosse e quelle che rimangono: i settori interessati ................................................ 115

6.6 L’effetto delle sanzioni economiche e le prospettive a seguito della loro rimozione ............ 116

6.6.1 Le esportazioni italiane in Iran: un’analisi settoriale ....................................................................... 117

6.7 Conclusioni ....................................................................................................................................... 122

Capitolo 7. Iran: la dimensione energetica ...................................................................................................... 124

7.1 Il potenziale produttivo iraniano ................................................................................................... 124

7.2 Le sanzioni occidentali .................................................................................................................... 127

7.3 La fine delle sanzioni e il ritorno dell'Iran sullo scenario energetico globale: potenzialità e

debolezze ........................................................................................................................................... 129

7.4 Alla ricerca di nuove rotte d’esportazione e di nuovi mercati ................................................... 131

7.5 Conclusioni ....................................................................................................................................... 134

Capitolo 8. La dimensione militare .................................................................................................................. 136

8.1 Il governo Rohani ............................................................................................................................ 138

8.2 L’industria bellica: dalla dipendenza all’autosufficienza ............................................................. 141

Capitolo 9. Gli Stati Uniti e la vittoria di Rohani ........................................................................................... 156

BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................................... 163

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SOMMARIO

Nel 2013, con la fine della presidenza di Ahmadinejad, l’intera platea internazionale ha assistito ad

una nuova era delle relazioni diplomatiche ed economiche con la Repubblica Islamica dell’Iran e con

l’inizio dell’era di Rohani, un capo di Stato che ha cercato di cambiare gli equilibri in atto, aprendo i

cosiddetti “colloqui sul nucleare” e avviando una nuova fase politica internazionale che, partita da

Teheran, ha avuto come fulcro Ginevra per poi arrivare a pieno compimento a Vienna.

Nel luglio del 2015, infatti, proprio a Vienna, dopo due anni di trattative, si è arrivati al consenso

con i paesi del gruppo P5+1, ossia i membri del Consiglio di Sicurezza con potere di veto (Regno

Unito, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina) più la Germania, ponendo ufficialmente fine a parte delle

sanzioni economiche contro Iran.

Il patto sul nucleare, noto come Implementation Day, deve essere considerato una grande vittoria da

riconoscere anche all’Amministrazione Obama che nella negoziazione ha investito enormi risorse

diplomatiche. Il presidente degli Stati Uniti, oltre ad aver contrattato la fine della politica sanzionatoria

con uno storico paese ostile, ha anche dovuto sfidare l’opposizione interna dei Repubblicani, avversi a

qualsiasi tipo di collaborazione con gli Ayatollah.

Nello specifico, l’Implementation Day prevede l’avvio di due manovre: da una parte i paesi

occidentali devono eliminare progressivamente le sanzioni economiche e commerciali imposte alla

Repubblica Islamica dell’Iran, dall’altra Teheran deve limitare il suo programma nucleare a soli scopi

civili. Nonostante gli accordi mettano in evidenza molti punti, sette sono quelli da considerare cruciali,

ossia:

1. gli ispettori ONU devono avere la possibilità di eseguire controlli periodici nei siti nucleari

iraniani;

2. nei siti nucleari di Natanz e Fordow devono essere interrotti i processi di arricchimento

dell’uranio così come devono essere ridotte le attività di ricerca e sviluppo;

3. le operazioni sotto copertura per produrre materiale fissile devono essere concluse;

4. in caso di violazione dell’accordo, le sanzioni nei confronti dell’Iran devono essere ripristinate

dopo 65 giorni dalla contestazione della violazione;

5. vengono sospese le sanzioni che riguardano alcuni settori economico-commerciali

particolarmente strategici, come quello degli idrocarburi;

6. sono stati scongelati diversi asset economici dal valore di centinaia di miliardi di dollari,

7. l’embargo sulla vendita di armi, imposto dalle Nazioni Unite, sarà attivo fino al 2020, mentre il

meccanismo di sanzioni per lo sviluppo di missili resterà in vigore fino al 2023.

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L’Implementation Day non pone però fine a tutte le restrizioni. Permangono difatti alcuni blocchi in

merito a specifiche categorie di prodotti e verso alcuni enti, società e persone fisiche, i cui fondi e

risorse economiche restano congelati, in attesa di un futuro migliore.

Il piano di reintegro nell’economia internazionale, noto come Joint Comprehensive Plan of Action

(JCPOA), prevede che i blocchi, imposti da Stati Uniti, Nazioni Unite e Unione Europea in momenti

storici diversi, debbano svincolati progressivamente, l’embargo economico e commerciale verranno

eliminati per primi, mentre le limitazioni riguardanti la vendita di armi e missili, come citato sopra,

resteranno in vigore ancora per diversi anni.

Ciò anche per cercare di stemperare, almeno in parte, la forte opposizione dei principali alleati

regionali di Washington, in primis dal regime degli al-Sa‘ud e dal governo conservatore di Netanyahu.

La presente ricerca ha cercato di ricostruire il trentennale regime sanzionatorio che ha

immobilizzato l’economia e la società iraniane per sette amministrazioni, indagando le potenzialità che,

a livello politico, economico, sociale e militare, la fine dell’embargo potrà avere nel medio e lungo

periodo. L’obiettivo principale è stato condurre un’analisi sugli effetti della politica delle sanzioni in

Iran, applicata prima dagli Stati Uniti e poi dall’Unione Europea, attraverso lo studio delle

trasformazioni economiche e politiche avvenute negli ultimi decenni. Nella ricerca si è quindi analizzato

il livello di efficacia del regime sanzionatorio e l’impatto degli shock provocati dallo stesso, nella duplice

dimensione politica (si vedano i capitoli di Brunelli e Galeotti) ed economica (con i capitoli di Cristini

ed Origo, Indeo), per meglio comprenderne i limiti e gli esiti attesi. Inoltre è stata svolta un’attenta

analisi comparata che ha messo a confronto il periodo “pre-” e “post- embargo” (Cristini-Origo) per

definire una mappa degli scenari futuri, in grado di circoscrivere le sfide politiche e le opportunità

economiche internazionali (Brunelli, Indeo). Particolare enfasi è stata data ai settori industriale,

commerciale e a quello della Difesa, rilevando la mancanza cronica di mezzi tecnologici avanzati delle

forze armate iraniane, dovuto ad oltre trentacinque anni di restrizioni, in parte mitigati da una

produzione militare autarchica.

La necessità di provvedere al più presto all’ammodernamento dei sistemi d’arma incontra una

mutata dottrina militare, “a mosaico”, che mette in luce l’adeguamento della concezione militare

iraniana alla situazione di caos strutturale insito nella regione vicino e medio orientale, che rappresenta

una delle principali fonti di crisi e di minaccia all’interesse nazionale iraniano (Brunelli), ma anche

all’opposizione sempre più dura rappresentata dal nuovo asse anti iraniano, guidato da Israele ed Arabia

Saudita, il quale, dopo l’elezione alla Casa Bianca di Donald J. Trump ha trovato una importante terza

sponda.

La ricerca si è basata su dati raccolti direttamente nella Repubblica Islamica dell’Iran,

coinvolgendo personalità delle istituzioni economico-finanziare e politiche iraniane. Sono stati

organizzati incontri e interviste con funzionari della Banca Centrale dell’Iran, e in particolare con il suo

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centro studi, dell’Institute for Political and International Studies del Ministero degli Affari Esteri; del Center for

Strategic Research, organo del Consiglio per il Discernimento, dello Statistical Center of Iran, nonché con

ricercatori ed accademici di alcune delle principali università iraniane, tra le quali la Shahid Behesthi e la

Islamic Azad University, quest’ultima nelle sue sedi di Teheran ed Arak. I dati e le informazioni raccolti,

anche attraverso una serie di interviste, sono stati messi a confronto con quelli delle principali

istituzioni internazionali, quali World Bank, International Monetary Fund e UNDP.

La letteratura presa in considerazione ha fatto riferimento ad un ventaglio di voci molto

articolato, in modo da attingere da risorse e da fonti interdisciplinari e multidisciplinari, requisito

indispensabile per qualsiasi analisi scientifica che non voglia rincorrere alcuna stereotipia.

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Capitolo 1. La strategia dell’embargo: dall’appoggio storico alle conseguenze politiche

Michele Brunelli1

Nella comune percezione delle élites al potere agli inizi del XX secolo, alle conseguenze

drammatiche sul piano umano, economico e geopolitico che la Grande Guerra stava provocando, si

affiancava un elemento di speranza, sicuramente intriso di una forte componente ideologica, ma

condiviso, che vedeva quell’inutile strage come la guerra che avrebbe posto fine a tutte le guerre.

Nell’ottica wilsoniana quello sarebbe dovuto essere l’ultimo dei conflitti, ignaro che proprio gli esiti

della Pace di Parigi (1919) e dei suoi diversi trattati, sarebbero stati i prodromi non solo della Seconda

Guerra mondiale, ma in prospettiva, anche del caos attuale del Vicino e Medio Oriente. Tuttavia, in

maniera molto più pragmatica, si decise che qualora gli orrori delle distruzioni, della guerra di trincea,

del coinvolgimento massivo della popolazione nel conflitto, non fossero stati sufficienti a scongiurare la

perniciosa bellicosità di talune nazioni, il ricorso all’arma economica, per mezzo di una serie di sanzioni

imposte dalla comunità internazionale, sarebbe stato uno strumento sicuramente efficace a scongiurare i

conflitti futuri. Sin dalla rivoluzione industriale, i grandi imperi avevano appreso l’importanza

dell’approvvigionamento delle materie prime, della necessità degli interscambi. Il mantenimento e la

messa in sicurezza delle vie di comunicazione – sebbene fosse un antico Leitmotiv della strategia –

necessari per far confluire ai grandi centri industriali materie prime, s’imponeva più che mai come un

imperativo. L’equazione di fondo, semplice quanto banale, era dunque di utilizzare un embargo per

togliere linfa vitale alle industrie, privandole del carbone, in seguito del petrolio, e delle altre

componenti primarie in modo che si potesse bloccare la produzione industriale e quindi impedire la

realizzazione di una eventuale economia di guerra. Sussisteva anche un risvolto politico, ben più sottile

e celato: il mancato afflusso di beni dall’esterno avrebbe costretto il paese all’autarchia e portato

gradualmente la popolazione a privazioni tali da indurla – almeno nelle speranze dei fautori

dell’embargo – a rivoltarsi contro la loro stessa classe dirigente, provocando così il collasso del paese

dall’interno, anche attraverso un regime change.

Il ricorso al blocco economico era già stato sperimentato ben prima della Grande Guerra.

Artefice principale ne fu Napoleone Bonaparte, quando nel 1806, decretando il blocus continental contro

1 Michele Brunelli è docente di Storia ed istituzioni delle società musulmane ed asiatiche presso l’Università degli Studi di Bergamo e docente di Storia delle civiltà extraeuropee presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia.

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l’odiata Gran Bretagna, cercò di strangolarne l’economia.2 Fu un disastro. Il blocco non scalfì

l’economia britannica, ma colpì con veemenza inaudita ed inaspettata quella francese. Nell’ottica dei

fisiocrati francesi, veri dei ex machina di tale strategia, l’intero assetto economico britannico, come ben

argomenta Virgilio Ilari, era da considerarsi assai fragile, poiché poggiava in maniera sbilanciata sul

settore creditizio ed era “troppo dipendente dalle relazioni commerciali col resto del mondo, perché importa cereali e

materie prime ed esporta manufatti /.../. Lo scopo del blocco [era] quindi duplice. Da un lato infliggere al nemico fame,

sovrapproduzione, inflazione, caduta del potere d’acquisto e rivolte sociali, e paralizzare la sua marina privandola di

legname e canapa; dall’altro proteggere e sviluppare l’industria tessile francese, sia pure a spese del commercio”.3 I

Francesi sottovalutarono la portata della differenziazione delle esportazioni inglesi, che attenuò l’effetto

del blocco.

Indicativo l’incipit caustico dell’esule François D’Ivernois,4 nel suo Effets su blocus continental sur le

commerce, les finances, le crédit et la prospérité des Isles Britanniques:

Votre blocus ne bloque point, Et grâce à votre heureuse adresse, Ceux que vous affamez sans cesse, Ne périront que d’embonpoint.5

Mancava sicuramente un consenso più ampio a bloccare le importazioni e le esportazioni di

Londra, che a secolo XIX iniziato, nell’ideologia utopistica del presidente statunitense veniva – o

avrebbe dovuto essere garantita – dal nuovo strumento internazionale – la Società delle Nazioni –

attraverso la quale poter mettere in atto il boicottaggio, con un embargo multilaterale.

2 Napoleone decretò il blocco continentale da Berlino, con l’omonimo decreto il 21 novembre del 1806 e pubblicato su Le Moniteur il 5 dicembre. Con esso dichiarava che: “Les îles britanniques sont déclarées en état de blocus. Tout commerce et toute correspondance avec les îles britanniques sont interdits. En conséquence, les lettres ou paquets adressés ou en Angleterre ou à un Anglais, ou écrits en langue anglaise, n’auront pas cours aux postes et seront saisis. Tout individu sujet de l'Angleterre, de quelque état ou condition qu’il soit, qui sera trouvé dans les pays occupés par nos troupes ou par celles de nos alliés, sera fait prisonnier de guerre. Tout magasin, toute marchandise, toute propriété, de quelque nature qu'elle puisse être, appartenant à un sujet de l’Angleterre, sera déclaré de bonne prise. Le commerce des marchandises anglaises est défendu, et toute marchandise appartenant à l’Angleterre, ou provenant de ses fabriques et de ses colonies, est déclarée de bonne prise. /.../ Aucun bâtiment venant directement de l'Angleterre ou des colonies anglaises, ou y ayant été depuis la publication du présent décret, ne sera reçu dans aucun port. /…/”. Si veda: Correspondance de Napoléon Ier. Tome XIII, publiée par ordre de l'Empereur Napoléon III”, Imprimerie Impériale, Paris, 1863, pp. 682-685, documento 11283.

3 Virgilio Ilari, Vaincre la mer par la terre. Il sistema continentale e il crollo dell'Impero napoleonico (1807-1813), Mimeo. 4 Esule ginevrino (1757-1842), uomo politico ed economista François divenne Sir Francis, quando approdò in

Gran Bretagna, in fuga dalla Francia rivoluzionaria, in quanto oppositore del nuovo regime. Per un approfondimento si consultino: Michaud Joseph, et al., Biographie universelle, ancienne et moderne : Histoire, par ordre alphabétique, de la vie publique et privée de tous les hommes qui se sont fait remarquer par leurs écrits, leurs actions, leurs talents, leurs vertus ou leurs crimes, tome XX, C. Desplaces, Paris, 1858, pp. 428-429; Otto Karmin, Sir Francis d’Ivernois, 1757-1842; sa vie, son œuvre et son temps, Revue historique de la révolution et de l’empire, Genève, 1920.

5 François D’Ivernois, Effets su blocus continental sur le commerce, les finances, le crédit et la prospérité des Isles Britanniques, Vogel et Schulze, Londres, 1810.

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Così si esprimeva lo stesso Wilson:

“A nation that is boycotted is a nation that is in sight of surrender. Apply this economic, peaceful, silent, deadly remedy and there will be no need for force. It is a terrible remedy. It does not cost a life outside the nation boycotted but it brings a pressure upon the nation which, in my judgment, no modern nation could resist”.6

Ai tempi di Wilson il termine “boicottaggio” era entrato ormai nel lessico specialistico e

giornalistico già da qualche decennio. Azione, nell’accezione cui oggi noi facciamo riferimento,

elaborata dagli irlandesi proprio contro Charles Cunningham Boycott (1832-1897), ex ufficiale

britannico, amministratore dei beni terrieri di un nobile locale, mira dell’ostracismo della comunità

locale per essersi opposto alla politica di tutela dei contadini della potentissima Irish Land League. La

grande maggioranza degli abitanti di un piccolo villaggio si unirono, relegandolo ai margini della vita

sociale: in maniera molto semplice ma altrettanto pragmatica, i negozianti si rifiutavano di vendergli i

propri prodotti, mentre i vicini, in una sorta di ostracismo sociale, lo ignoravano. I membri della Lega

ricorsero all’intimidazione anche fisica verso chi non adottava questa strategia di isolamento.

Fu lo stesso ex Capitano britannico a denunciare alla stampa nazionale, con una lettera al Times di

Londra, le vessazioni alle quali veniva sottoposto.7 Da allora divenne un eponimo e le azioni intraprese

dalla piccola comunità irlandese si trasformarono in strategia impiegata dagli Stati nazionali.

La locuzione “boicottaggio” è spesso impiegata impropriamente come sinonimo di “embargo”,

termine di origine spagnola col significato giuridico di “sequestro”, da embargar, “impedire”,

“sequestrare”, riferito soprattutto alle navi estere all’ancora nei porti nazionali o presenti nelle acque

territoriali del paese, alle quali è fatto formale e fisico impedimento di riprendere il largo, ovvero di

attraccare nel porto. Significativo ancora che il termine derivi da una pratica marinara e che sia stato

elaborato da una potenza marittima, come la Spagna, con quindi una valenza preminentemente

commerciale, quando la ricchezza era portata dalle navi, viaggiando dalle esotiche terre d’Oriente o

proveniente dai territori d’oltremare delle lontane lande latine e mesoamericane sino alla Madrepatria.

Oggi si preferisce un termine più specifico: quello di “sanzione economica”, ove il termine

“sanzione” sta a indicare una ritorsione ad una violazione compiuta, o per lo meno percepita tale da

uno Stato o dalla comunità internazionale.

6 Saul Kussiel Padover, Wilson’s Ideals, American Council on Public Affairs, Washington D.C., 1942, p. 108. 7 In una lettera al Times del 18 ottobre 1880, Boycott denunciava le minacce subite, così come quelle

perpetrate ai danni di chi, ancora lavorava per lui: “... My herd has been frightened by them into giving up his employment, though he has refused to give up the house he held from me as part of his emolument. Another herd on an off farm has also been compelled to resign his situation. My blacksmith has received a letter threatening him with murder if he does any more work for me, and my laundress has also been ordered to give up my washing. A little boy, twelve years of age, who carried my post-bag to and from the neighbouring town of Ballinrobe, was struck and threatened on 27th September, and ordered to desist from his work ...”. Si veda Gary Minda, Boycott in America: How Imagination and Ideology Shape the Legal Mind, Southern Illinois University Press, 1999, p. 26, e spec. nota 43. Si veda altresì: Niall O’Dowd, “How the Irish invented the boycott after tenants were thrown off their land”, January 22, 2016, http://www.irishcentral.com/roots/history/how-the-irish-invented-the-boycott-after-tenants-were-thrown-off-their-land, (consultato il 31/3/2017).

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Fu proprio la neonata organizzazione sovranazionale – la Società delle Nazioni – ad attribuirsi il

potere di vincolare i suoi membri ad interrompere immediatamente ogni rapporto commerciale e

finanziario verso il componente che fosse ricorso alla guerra.

Nello specifico, l’articolo 16 del Patto della Società statuiva:

Si un membre de la Société recourt à la guerre, contrairement aux engagements pris aux articles 12, 13 ou 15, il est ipso facto considéré comme ayant commis un acte de guerre contre tous les autres membres de la Société. Ceux-ci s'engagent à rompre immédiatement avec lui toutes relations commerciales ou financières, à interdire tous rapports entre leurs nationaux et ceux de l'État en rupture de pacte et à faire cesser toutes communications financières, commerciales ou personnelles entre les nationaux de cet État et ceux de tout autre État, membre ou non de la Société.8

Ed il primo membro a subire l’azione di forza, tramite l’imposizione di un embargo, fu l’Italia

mussoliniana. A causa delle sue velleità imperiali, all’alba del 3 ottobre 1935, Roma aveva infatti mosso

guerra all’Impero di Etiopia, invadendolo con i tre corpi d’armata, guidati dal Generale Emilio de Bono.

Tre giorni dopo la Società delle Nazioni decretava contro l’Italia il blocco sul commercio di armi,

sull’importazione di materie prime e merci, nonché un embargo su crediti, che sarebbe entrato in vigore

il 18 novembre.9 Due giorni prima, il Gran Consiglio, riunito da Mussolini, approvava un documento di

contro-condanna e definiva quella “una data di ignominia e di iniquità nella storia del mondo”.10 Ne dava

notizia l’indomani la Gazzetta del Mezzogiorno, la quale riportava in prima pagina “Il Gran Consiglio del

Fascismo protesta fieramente contro le inique sanzioni ed acclama il Duce realizzatore del supremo diritto della Nazioni

e parlava della piena consapevolezza del popolo italiano che opporrà la più fiera resistenza”.11

La risposta fu l’autarchia e iniziarono a svilupparsi, oltre ad una serie di iniziative dal carattere

fortemente propagandistico e populistico, come la “giornata della fede”, alla quale gli italiani venne

8 “Pacte de la Société des Nations”, Traité de Versailles de 1919, Partie 1, artt. 1-26, Digithèque de matériaux juridiques et politiques, http://mjp.univ-perp.fr/traites/1919versailles.htm, (consultato il 31/3/2017).

9 Sul caso si veda: André N. Mandelstam, Le Conflit italo-éthiopien devant la Société des Nations, Librairie du Recueil Sirey à Paris, 1937.

10 Si veda la 157a Riunione del Consiglio del Gran Fascismo, in Edoardo e Duilio Susmel, (a cura di), Opera omnia di Benito Mussolini, Firenze, La Fenice, 1951-1963, vol. 27, p. 183.

11 Michele Cifarelli, Libertà vo' cercando...: diari 1934-1938, (a cura di Giancarlo Tartaglia) Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2004, p. 80, n. 113.

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chiesto di donare la propria fede nuziale per fornire “oro alla patria”,12 anche strategie di

diversificazione di approvvigionamento energetico, così come si andò alla ricerca di succedanei di vari

prodotti. Ecco quindi che il carcadè fu sostituito al tè, il caffè venne fatto con la cicoria e la lignite fu

usata al posto del carbone. Prese l’abbrivio una politica di diversificazione di produzione energetica, che

porterà il paese a sperimentare nuove fonti di energia: dalla idroelettrica a quella a metano per le

autovetture da parte della neonata Agip; alla realizzazione di una sorta di biocarburante senza piombo

ante litteram; fino alla costruzione delle littorine gassogene dell’Ansaldo. Si assisterà anche ad un

aumento notevole dell’estensione kilometrica delle linee ferroviarie elettrificate; l’elettrotreno farà sì che

l’Italia, nel 1939, ottenesse il primato mondiale di velocità commerciale ferroviaria con una punta

massima di 203km/h tra Milano e Bologna, velocità ineguagliabile all’epoca da qualsiasi veicolo a

motore. L’autarchia non si estese solo ai principali settori economico-industriali, ma investì anche la

cultura popolare. Sparirono – per decreto – dal lessico quotidiano tutti i francesismi o gli anglismi

entrati nella lingua italiana: ed ecco che quindi il pull-over fu imperativamente chiamato solamente

“maglione”, un flirt amoroso divenne civettuosamente “amoretto”, il cachet, “cialdino”, il dessert, “fin di

pasto” ed il cognac, “arzente”.13

Era un paese che, collettivamente, reagiva.

La “politica sanzionista”, così come la definiva Mussolini,14 rivelava l’intrinseca debolezza

dell’istituzione che l’aveva imposta. Berlino e Washington continuarono le relazioni commerciali con

Roma, non essendo membri della Società delle Nazioni, mentre diversi altri paesi che la componevano

ebbero un approccio blando alle imposizioni economiche, timorosi anch’essi di veder bloccate le loro

aspirazioni imperialistiche.

12 Scriveva Mussolini sul Popolo d’Italia il 27 novembre del 1935: “L’oro per la resistenza è offerto dalle madri e dalle vedove degli eroi il cui sacrificio ampliò gli imperi altrui, è offerto da tutte le spose che donano gli anelli nuziali, simbolo di una fedeltà che dalla famiglia si innalza e si sublima in una più alta fedeltà alla patria, è offerto da tutti i cittadini, ricchi e poveri /.../ Nessuno si illuda di piegare il diritto e l’onore d’Italia”, in Edoardo e Duilio Susmel, (a cura di), Opera omnia ..., cit., vol. 27, p. 184-185. Gli italiani saranno invitati dal regime a consegnare alla Patria le fedi nuziali e altri oggetti d’oro per sostenere la guerra in Etiopia. Anche la Regina Elena ed il suo consorte aderirono alla campagna e nell’ambito della teatralità del potere fascista, si recheranno all’Altare della Patria a Piazza Venezia, per donare le loro vere. Trentasette le tonnellate d’oro raccolte nel paese. Siamo al punto più elevato del consenso degli italiani verso il Fascismo e grande il risentimento verso quelle potenze coloniali – in primis Francia e Gran Bretagna giudicate ipocrite – che avevano votato per le sanzioni: secondo la narrativa diffusa in quelle giornate di dicembre del 1935 infatti venivano accusate di mantenere vasti imperi coloniali, impedendo all’Italia di perseguire le proprie ‘legittime’ aspirazioni imperiali. Per un approfondimento si veda anche: Petra Terhoeven, Oro alla Patria. Donne, guerra e propaganda nella giornata della Fede fascista, Il Mulino, Bologna, 2006.

13 Questa autarchia delle parole avrà forza di legge dopo l’entrata in guerra dell’Italia con il “Divieto di uso delle parole straniere nelle intestazioni (delle ditte) e nelle varie forme di pubblicità”, Legge 23 dicembre 1940, n. 2042. Per una lista esaustiva si consulti: Gabriella Klein, La politica linguistica del fascismo, Il Mulino, Bologna 1986.

14 Benito Mussolini, Discorso del 7 dicembre 1935 alla Camera, Dichiarazioni alla Camera dei deputati contro la politica sanzionista. Si veda anche Benito Mussolini, Scritti e Discorsi, Ulrico Hoepli, Milano, 1938, vol. 10, p. 17 ss.

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Tra il 1934 ed il 1936, anno della fine delle sanzioni, l’Italia accusò un calo nelle importazioni

poco superiore al 21%, le esportazioni registravano addirittura un aumento del 5%. L’anno successivo

l’export volava con un +88%, rispetto al 1936.15

Quello contro l’Italia falliva proprio come il blocco napoleonico, sulla base dell’impossibilità di

chiudere ermeticamente le frontiere di un paese, ovvero di realizzare un blocco integrale, che fosse

veramente collettivo, capace così di portare il paese allo stremo, alla stessa stregua di ciò che avveniva

con i lunghi assedi e la presa per fame delle città durante le guerre del Medio Evo. Ma la componente

geografica non poteva certo essere comparata con quella delle nazioni.

Ben prima dell’inconsistenza del regime sanzionatorio dell’Italia, la Società delle Nazioni aveva

già dimostrato la propria incapacità di far fronte alle crisi internazionali, impedendo nuove guerre,

venendo così meno ai principi cardine che avevano portato alla sua costituzione, quali quelli inerenti al

disarmo quale prerequisito essenziale per il mantenimento della pace (art. 8) e dell’interdizione della

guerra (artt. 10 ss): i prodromi della violazione del primo punto sopra citato si perfezioneranno sin dal

Trattato di Rapallo (1922) ed i successivi tentativi di ricondurre Germania e Giappone alla limitazione

dei loro armamenti porteranno le due cancellerie ad abbandonare l’organizzazione,16 mentre sul piano

più prettamente bellico, la Società, oltre alla summenzionata crisi italo-etiopica, nulla potrà per impedire

l’invasione giapponese della Manciuria nel 1931, o la guerra del Chaco (1932), né lo scoppio della guerra

civile spagnola (1936). L’invasione della Polonia da parte del Terzo Reich il 1 settembre del 1939 ed il

conflitto russo-finlandese alla fine dello stesso anno, del quale essa sarà direttamente investita per

redimerne la questione, daranno il colpo definitivo all’invenzione wilsoniana.17

Nonostante il fallimento della Società delle Nazioni, il tema dell’imposizione delle sanzioni, da

attuarsi verso taluni Stati ritenuti inadempienti nei confronti di una situazione o di una violazione allo

status quo o al diritto internazionale ritenuto, ovvero percepito tale unilateralmente o multilateralmente,

sopravvivrà.

15 Forte fu il calo delle importazioni da Francia (-71%) e Gran Bretagna (-93%), cui corrispose un aumento di Austria (+ 92%) e Germania (+34). Nostre elaborazioni su dati di Giovanni Federico, Sandra Natoli, Giuseppe Tattara, Michelangelo Vasta , Il Commercio Estero Italiano 1862 - 1950, Collana Storica della Banca d’Italia, Serie “Statistiche Storiche”, Roma, 2011, Volume 4.

16 Il Trattato tedesco-russo di Rapallo, oltre che al ristabilimento delle relazioni diplomatiche, consentirà alla nascenda Unione Sovietica l’accesso a tecnologie avanzate, alla Germania l’ambiente ideale e celato per testare le nuove armi e per riarmarsi. Il trattato pertanto condurrà al riarmo tedesco che sarà perfezionato con la legge tedesca del 16 marzo 1935. Per un approfondimento si veda anche Hans Adolf Jacobsen, Konstantin Schepetow, 70 Jahre nach dem Vertrag von Rapallo, 1922-1992: die Zusammenarbeit zwischen der Sowjetunion und Deutschland als Beispiel für friedliche Koexistenz¸ Evangelische Akademie Mülheim, Ruhr, 1992.

17 Sull’attività di mediazione o di tentativi di risoluzione del conflitti per il mantenimento della pace si rimanda al saggio di Victor-Yves Ghebali, “La gestion des conflits internationaux par la Société des Nations: Rétrospective critique”, in Études internationales vol. 31, n. 4, 2000, pp. 675–690.

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�e sa��i�i ar�a ec��ica ar�a p�itica�

Le sanzioni economiche fanno parte di un più ampio spettro di strumenti della politica estera.

Acceso è il dibattito circa il fatto se le sanzioni economiche debbano ricadere sotto il soft o l’hard power.

Molti i margini discrezionali. Se si propende per una definizione restrittiva e per hard power si intende

l’esclusivo ricorso allo strumento militare, va da sé che le sanzioni debbano necessariamente ricadere

nella categoria degli strumenti di soft power. Tuttavia altre variabili potrebbero intercorrere in questa

valutazione.

Tra queste, la valutazione se il paese oggetto di sanzioni sia economicamente dipendente dalla

potenza e/o dallo stato che le impone. In questo caso potrebbero prefigurarsi come un’azione di hard

power.

Il dibattito risulta essere molto fluido, soprattutto se ci si attiene rigorosamente alla definizione

data dal Joseph Nye nel 1990.18 Partendo dalla constatazione – che si inserisce appieno nel contesto

logico ed entusiastico in taluni circoli statunitensi dell’incipiente post-Guerra Fredda – che fosse

intercorso un cambiamento nella definizione di “potere”, avendo perduto quelle connotazioni

esclusivamente di forza militare e di conquista, che avevano segnato le epoche precedenti, Nye

sottolineava di come fattori quali la tecnologia, l’istruzione e la crescita economica stessero acquisendo

un maggior perso nel contesto del potere internazionale e nel contempo elementi come la geografia, la

popolazione e le materie prime fossero qualcosa di meno importante:19

“A state may achieve the outcomes it prefers in world politics because other states want to follow it or have agreed to a situation that produces such effects. In this sense, it is just as important to set the agenda and structure the situations in world politics as to get others to change in particular cases. This /.../ aspect of power-which occurs when one country gets other countries to want what it wants-might be called co-optive or soft power in contrast with the hard or command power of ordering others to do what it wants.20

Era il tentativo di definire una dimensione del potere, anche sociale, che risultasse ormai scevro

dagli elementi totalizzanti che avevano caratterizzato i quattro decenni della Guerra Fredda, basati, sin

dagli inizi sulla carrot and stick diplomacy, ossia la capacità di costringere o persuadere il potenziale

avversario attraverso una ricompensa. Nella fattispecie ciò era primariamente e precipuamente

condotto nei confronti dell’Unione Sovietica, verso la quale si sarebbero dovute alternare fasi di crisi a

periodi di distensione che sarebbero stati negativi per la coesione interna del paese, basata sul concetto

di minaccia esterna e di continua sovrapproduzione di armamenti e sistemi militari.21

18 Joseph S. Nye, Jr., “Soft Power”, in Foreign Policy, n. 80, Autumn, 1990, pp. 153-171. 19 Ibidem, p. 154. 20 Ibidem, p. 166. 21 Si veda a tal fine la strategia suggerita da George Frost Kennan nel suo cosiddetto “Long Telegram”,

George Kennan to George Marshall, February 22, 1946 e pubblicato in seguito con lo pseudonomo di Mr X, “The source of Soviet conduct”, in Foreign Affairs, vol. 25, n. 4, July 1947, pp. 566-582.

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Ora, secondo Nye si doveva fare affidamento sulla capacità di “attrazione”, poiché se “il potere

indica la capacità di influenzare il comportamento altrui al fine di ottenere gli esiti desiderati”, vero è che vi siano

“diversi modi di influenzare il comportamento degli altri: li si può costringere con le minacce; li si può indurre con dei

compensi o li si può attrarre e cooptare”.22

Quindi il soft power, “è la capacità di ottenere ciò che si vuole tramite la propria attrattiva piuttosto che per

coercizione o compensi in denaro. Nasce dal fascino della cultura, degli ideali e delle pratiche politiche di un paese. Quando

le nostre politiche appaiono legittime agli occhi degli altri, il soft power si rafforza.23 Specificando meglio, Nye

asseriva che il soft power di un paese si basa su tre risorse: la cultura, laddove sia “affascinante” per gli

altri; i valori politici, quando il paese se ne dimostri “all’altezza” e le politiche estere, quando esse siano

considerate legittime e “ricche di autorità morale”. Valori senza dubbio positivi, nei quali non sembra

possibile ricondurre lo strumento della sanzione.

Tuttavia il termine “legittimo” e la ricchezza di autorità morale possono essere elementi ambigui,

che consentono comunque far annoverare anche un regime sanzionatorio entro gli strumenti di

cooptivi (co-optive), evitando così il ricorso ad una guerra guerreggiata.

Basare il regime sanzionatorio su una decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite,

rende certamente in quest’ottica la sanzione stessa uno strumento di soft-power.

A maggior ragione, se tale decisione si basa su una indiscussa autorità morale volta a perseguire il

commune bonum, così come percepito dalla stessa comunità internazionale (o parte di essa) quale

oggettivamente veritiero o frutto di un’abile manipolazione che ha condotto a tale convincimento.

Esemplificativo appare il caso delle sanzioni verso l’Iraq di Saddam Hussein, oggetto di una prima

tornata di sanzioni economiche all’indomani dell’invasione dei Kuwait (1990) e in seguito mantenute

operative sino alla caduta del regime, nel 2003.24 Si enfatizzava, prima, la grave violazione del diritto

internazionale, compiuta con l’attacco e la conseguente invasione di uno Stato sovrano, poi alla

componente del “legittimo”, si andava aggiungendo quella “morale”, poiché si cercava di perseguire

uno Stato, divenuto da “alleato” a “canaglia”, in possesso di armi di distruzione di massa.

Con il disordine mondiale conseguente alla fine della Guerra Fredda, gli attacchi al cuore degli

Stati Uniti e le involuzioni intervenute a livello internazionale si sentì l’esigenza di addivenire ad una

definizione più formale del concetto. Pertanto Nye, nel 2011, nel suo Future of Power cercò di dare una

enunciazione più esaustiva e soprattutto al passo con i tempi:

22 Joseph S. Nye, Jr., Soft Power. The Means to Success in World Politics, Public Affairs, New York 2004 (trad. it. Soft Power. Un nuovo futuro per l’America, Einaudi, Torino 2005), spec. p. 4.

23 Ibidem, p. viii. 24 Il primo atto sanzionatorio entrò in vigore con la United Nations Security Council Resolution 661, adottata il 6

agosto del 1990. Dopo il ritiro delle truppe irakene dall’emirato del Golfo, le sanzioni vennero temporalmente estese, ricomprendendo l’imposizione della distruzione delle (supposte) armi di distruzioni di massa, con la Risoluzione 687. Le sanzioni imponevano il bando su tutte le transazioni economico-finanziarie, fatta eccezione per medicinali e derrate alimentari per “motivi umanitari”, le cui importazioni erano sottoposte a stretta regolamentazione. Per il testo della risoluzione si veda: http://www.un.org/Depts/unmovic/documents/687.pdf, (consultato il 4/4/2017).

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L’hard power fa pressione, il soft power attrae. Nella sua piena definizione, il soft power è la capacità di influenzare gli altri attraverso mezzi di cooptazione, quali fissare l’agenda, convincere e esercitare un’attrazione positiva, al fine di ottenere i risultati desiderati.25

Se in apparenza può sembrare una questione di mera discussione accademica, in realtà

l’attribuzione o meno dell’attributo – soft o hard – cambia completamente la percezione dei media e

quindi della società. Le sanzioni – in maniera erronea – non sono oggi considerate al pari di un’azione

bellica, sebbene quasi sempre la loro efficacia vada a colpire le frange della popolazione maggiormente

vulnerabili, lasciando indenne l’élite al governo, causa dell’embargo stesso. A titolo di esempio, ancora,

il caso recente dell’Iraq appare significativo. Da un punto di vista macroeconomico, nel 1990 prima

dell’avvio delle sanzioni, l’Iraq produceva circa 3 milioni di barili di petrolio al giorno. Di questi ne

venivano esportati 2,5 milioni, ingenerando incassi per circa 19 miliardi di dollari annui, il 65% del PIL.

Le sanzioni tagliarono le esportazioni del 90%, provocando una ovvia crisi economica che, nel giro di

tre anni, portò ad una drastica riduzione del PIL procapite (da 2.800 dollari del 1989 a 1.500 nel 1991),

aumentando la disuguaglianza economica tra la popolazione.

Nel 1996 il ministero della salute irakeno, in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della

Sanità, pubblicava un rapporto nel quale si sottolineava che si erano verificati: un incremento tra la

mortalità infantile, gravi problemi di malnutrizione ed una crescita esponenziale di casi di malaria (da

1.500 casi nel 1989 ad oltre 22.000 nel 1994).26

Alcuni studi, sulla base dei dati forniti dall’UNICEF, riportavano 227.000 decessi di minori tra

l’agosto del 1991 ed il marzo 1998, tre quarti dei quali ascrivibili alle sanzioni.27 Nel 1996, in

un’intervista concessa alla trasmissione della CBS 60 Minutes, l’allora segretario di Stato

dell’Amministrazione Clinton, Madeleine Albright, incalzata sull’impatto delle sanzioni statunitensi sulla

25 Joseph S. Nye, Jr., The Future of Power, Public Affairs, New York, 2011, pp. 20-21; a proposito della “definizione formale” e della sua presunta maggiore solidità rispetto alle precedenti formulazioni si veda ivi, p. 302, n° 50.

26 Fonte: World Health Organisation, The health conditions of the population in Iraq since the Gulf crisis, WHO/EHA/96.1; World Health Organization, Geneva, 1996. Diversi gli studi sull’impatto delle sanzioni, limitatamente però solo al primo periodo delle sanzioni. Tra questi: Amer Al-Roubaie, Wajeeh Elali, “The Financial Implications of Economic Sanctions against Iraq” in Arab Studies Quarterly, vol. 17, n. 3, 1995, pp. 53–69; G. R Popal, “Impact of sanctions on the population of Iraq”, in Eastern Mediterranean Health Journal, vol. 6, n. 4, 2000, pp. 791-795; Abbas Alnasrawi, “Iraq: Economic Sanctions and Consequences, 1990-2000”, in Third World Quarterly, vol. 22, n. 2, April 2001, pp. 205-218. Per una analisi comparata degli effetti dell’embargo su Cuba, Iraq ed Haiti, si veda: Richard Garfield, “The Impact of Economic Sanctions on Health and Well-being”, in RRN Network Paper n. 31, Relief and Rehabilitation Network (RRN), Overseas Development Institute, London, 1999.

27 La FAO, nel 1995, arrivava a stimare in 500.000 le morti dei bambini a causa delle sanzioni. Si vedano: UNICEF and Ministry of Health (Iraq), Child and Maternal Mortality Survey 1999: Preliminary Report (Iraq: July 1999), Richard Garfield, Morbidity and Mortality Among Iraqi Children from 1990 Through 1998: Assessing the Impact of the Gulf War and Economic Sanctions, March, 1999, disponibile al sito: http://www.casi.org.uk/info/garfield/dr-garfield.html (consultato il 14/4/2017). Si veda altresì Alexander B. Downes, Targeting Civilians in War, Cornell University Press, Ithaca and London, 2008, spec. p. 231 ss.

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popolazione civile irakena, alla domanda se i risultati attesi valevano il costo umano rispondeva: “I think

this is a very hard choice. But the price … we think the price is worth it.”28

Sebbene in passato si sia fatto largo uso dello strumento sanzionatorio in campo economico,

ancora29 oggi sembra non aver perduto la sua attualità. Come ricordato sopra, è più che mai utilizzato

come mezzo per il raggiungimento di obiettivi di politica estera. Tra le motivazioni dell’aumento al suo

ricorso vi sono senza dubbio il fatto che l’embargo sia considerato un’alternativa all’intervento militare;

la crescente dipendenza di una paese dall’economia internazionale, che rende le nazioni più vulnerabili

all’interruzione del commercio; una maggiore sensibilizzazione delle società civili occidentali verso il

costo umano delle guerre e, da ultimo, la fine del conflitto bipolare che ha fatto cessare la capacità

contrattuale degli Stati, taluni subordinando la loro fedeltà allo schieramento occidentale o comunista al

miglior offerente e oggi, invece, maggiormente vulnerabili alle pressioni economiche occidentali.

Tra i paesi che più vi hanno fatto ricorso troviamo gli Stati Uniti, fautori del 68% degli embarghi

dal 1966 e che continuano ancora a farne ricorso massivo. Tra gli ultimi casi, quelli inerenti la Russia,

l’Ucraina (2014)30 e la Siria dal 2004, ovvero da quando il governo di Damasco fu accusato di “sostenere il

terrorismo, continuare la sua occupazione del Libano, proseguire con i programmi missilistici e di distruzione di massa e

di minare gli sforzi compiuti dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale per la stabilizzazione e ricostruzione

dell’Iraq”.31 Si tratta dei tipici atti d’accusa che hanno caratterizzato la narrativa statunitense degli ultimi

decenni: un copione che ricalca quello che fu scritto per l’Iraq (armi di distruzione di massa) ed

utilizzato durante tutto il corso degli anni Novanta; così come l’accusa di sostegno al terrorismo,

28 La conduttrice Leslie Stahl faceva riferimento al fatto che in Iraq fossero morti più bambini che ad Hiroshima e questo scosse il pubblico. Si veda Rahul Mahajan, ‘We Think the Price Is Worth It’. Media uncurious about Iraq policy's effects--there or here, 60 Minutes (5/12/96), http://fair.org/extra/we-think-the-price-is-worth-it/ (consultato il 14/4/2017).

29 Per una lista esaustiva a sostegno di ciò, si veda Gary Clide Hufbauer, Economic Sanctions Reconsidered: History and Current Policy, Columbia University Press, Washington DC, 2007, Annex 1A, pp. 20 ss.

30 The President Executive Order 13660 of March 6, 2014, Blocking Property of Certain Persons Contributing to the Situation in Ukraine, Federal Register, vol. 79, n. 46, Monday, March 10, 2014, https://obamawhitehouse.archives.gov/the-press-office/2014/03/06/executive-order-blocking-property-certain-persons-contributing-situation, consultato il 4/4/2017. Per una vision globale anche sull’evoluzione delle sanzioni, si veda: Department of Treasury, Office of Foreign Asset Control (OFAC), Ukraine/Russia related sanctions program, updated June 16, 2016, Washington DC, 2016, https://www.treasury.gov/resource-center/sanctions/Programs/Documents/ukraine.pdf, (consutato il 4/4/2017).

31 The President Executive Order 13338 of May 11, 2004, Blocking Property of Certain Persons and Prohibiting the Export of Certain Goods to Syria, Federal Register vol. 69, n. 93, Thursday, May 13, 2004,: https://www.treasury.gov/resource-center/sanctions/Documents/13338.pdf, (consultato il 4/4/2017). Circa i vari Executve Orders sulla Siria che si sono succeduti, si veda: Department of Treasury, Office of Foreign Asset Control (OFAC), Syria sanctions program, Updated August 2, 2013, Washington DC, 2013, https://www.treasury.gov/resource-center/sanctions/Programs/Documents/syria.pdf, (consultato il 4/4/2017).

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soprattutto all’indomani del 2001 e del discorso sull’Asse del male di George W. Bush.32 Grottesca

appare invece l’accusa mossa da Washington a Saddam Hussein, di impedire la ricostruzione dell’Iraq, il

cui disfacimento fu proprio provocato da una gestione dilettantistica della transizione politica di quel

paese da parte dell’Amministrazione Bush.33

Poiché una delle caratteristiche dell’embargo è la loro lunga durata, ai regimi sanzionatori più

recenti si aggiungono quelli ormai storici, che nel corso degli anni hanno colpito la Corea del Nord, sin

dal 1950, in seguito alla guerra nella penisola asiatica; Cuba (1960) sotto Eisenhower, per la rivoluzione

castrista, la Repubblica Islamica dell’Iran, quale conseguenza alla rivoluzione khomeinista ed alla crisi

degli ostaggi a Teheran dal 4 novembre 1979.

Nel corso dei decenni le sanzioni sono andate modificandosi, adattandosi all’evoluzione degli

eventi storici, quasi a mantenere una sorta di meta storicità.

Se le sanzioni verso il regime di Pyongyang furono inizialmente poste per l’invasione ai danni

della Corea del Sud e riguardavano il blocco totale delle esportazioni e delle transazioni finanziarie,

successivamente, nonostante l’armistizio, negli anni Settanta del secolo scorso, andò ad aggiungersi

l’embargo sui prodotti agricoli e, nel 1988, il Dipartimento di Stato iscrisse il paese nella lista degli Stati

sponsor del terrorismo internazionale. Dopo un primo allentamento delle sanzioni per motivi umanitari

negli anni Novanta, durante i quali la Corea fu colpita da una terribile carestia, in seguito allo sviluppo

del programma missilistico e nucleare, Washington tornò ad imporre un nuovo regime sanzionatorio,

che, nell’ottica statunitense era giustificato da quattro ragioni principali: la Corea del Nord: i)

rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale statunitense; ii) è stata designata dal Segretario di

32 Così George W. Bush nel suo discorso alla nazione alla fine di gennaio 2002: “Iran aggressively pursues these weapons and exports terror, while an unelected few repress the Iranian people’s hope for freedom. Iraq continues to flaunt its hostility toward America and to support terror. The Iraqi regime has plotted to develop anthrax, and nerve gas, and nuclear weapons for over a decade. /.../ States like these, and their terrorist allies, constitute an axis of evil, arming to threaten the peace of the world. By seeking weapons of mass destruction, these regimes pose a grave and growing danger. They could provide these arms to terrorists, giving them the means to match their hatred. They could attack our allies or attempt to blackmail the United States. In any of these cases, the price of indifference would be catastrophic”, The President’s State of the Union Address, January 29, 2002, https://georgewbush-whitehouse.archives.gov/news/releases/2002/01/20020129-11.html, (consultato il 4/4/2017).

33 Contrariamente al padre, che riteneva Saddam Hussein un elemento unificante per l’Iraq, George W. Bush e l’inner circle dei neoconservatori decisero per la sua rimozione. Fu l’inizio di una decennale instabilità politica: la rimozione del Rais consegnò la guida del paese alla fazione sciita, provocando la reazione sunnita; lo scioglimento dell’esercito da parte di Paul Bremer III provocò la polverizzazione delle forze armate e la conseguente proliferazione di gruppi armati, che impedirono di fatto la pacificazione del territorio.

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Stato un paese che supporta il terrorismo internazionale34; iii) è uno Stato marxista-leninista, con un

governo comunista; e iv) perché partecipa al programma di armi di distruzioni di massa, in violazione

all’Arms Export Control Act, Export Administration Act del 1979, e l’Iran, North Korea, and Syria

Nonproliferation Act of 2000.35 A questo, si aggiunge la sistematica violazione dei diritti umani. Nelle

motivazioni statunitensi colpisce soprattutto quella ideologica, che porta a giustificare la sanzione per

contrastare l’orientamento politico del regime.

Se nel caso della Corea del Nord, il discrimine del “terrorismo” parrebbe non essere di

fondamentale importanza, strutturalmente lo è per altri paesi colpiti dalle sanzioni, come il Sudan, la

Siria e l’Iran, i quali sono definiti “Stati che finanziano il terrorismo”.36

Cuba, invece è stata rimossa dalla lista grazie alla piena apertura diplomatica varata

dall’Amministrazione Obama e da Raul Castro nel luglio del 2015. Sebbene l’embargo nei confronti di

Cuba permanga, Barack Obama ha cercato di attenuarne la portata, nei limiti consentitegli dai suoi

poteri, spetta tuttavia al Congresso la decisione di procedere ad una sua eventuale cancellazione.

Rimane in vigore invece, quello sulla Repubblica Islamica dell’Iran, la cui analisi è l’oggetto di

questa ricerca.

Il caso iraniano ha avuto una genesi ed uno sviluppo particolari. Negli anni Ottanta, il regime

sanzionatorio fu ideologicamente supportato e politicamente giustificato da Washington dal fatto che

l’Iran sosteneva il terrorismo contro gli Stati Uniti ed i suoi alleati, per i suoi legami con l’Al Jihad al-

Islami (Organizzazione Islamica per il Jihad) gruppo filo-sciita, che si attribuì la responsabilità

34 Il paese fu cancellato dalla lista nel 2008 dall’Amministrazione Bush, dopo che decise di collaborare nel fermare il suo programma di armi nucleari. Riconfermata la sua esclusione anche nell’ultimo Country Report on Terrorism 2015, ove si afferma che: “The Democratic People’s Republic of Korea (DPRK) is not known to have sponsored any terrorist acts since the bombing of a Korean Airlines flight in 1987. In October 2008, the United States rescinded the designation of the DPRK as a state sponsor of terrorism in accordance with criteria set forth in U.S. law, including a certification that the DPRK had not provided any support for international terrorism during the preceding six-month period and the provision by the DPRK of assurances that it would not support acts of international terrorism in the future”. Department of State, Country Report on Terrorism 2015, United States Department of State Publication, Washington DC, June 2016; pp. 72-73. Ampio e vivace tuttavia il dibattito nel 2017 sull’opportunità di tornare ad includere il paese nella lista nera, in seguito ai numerosi lanci di vettori per sperimentazione scopi sperimentali.

35 Dianne E. Rennack, North Korea: Economic Sanctions, CRS Report for Congress, Washington DC, October 17, 2006. Per una cronistoria analitica si vedano invece: Semoon Chang, “The saga of U.S. economic sanctions against North Korea”, in The Journal of East Asian Affairs, vol. 20, n. 2, Fall/Winter 2006, pp. 109-139; Suk Hi Kim, Semoon Chang (eds.), Economic Sanctions Against a Nuclear North Korea: An Analysis of United States and United Nations Actions Since 1950, McFarland, London, 2007.

36 Il Sudan fu designato uno stato sponsor del terrorismo nel 1993 per il supporto a gruppi terroristici internazionali quali l’Organizzazione Abu Nidal, il Jihad Islamico Palestinese, Hamas ed Hezbollah. Incluso nella lista nel 1984, l’Iran – secondo il Dipartimento di Stato americano – avrebbe continuato nelle sue attività correlate al terrorismo anche durante il 2015, per il suo supporto ad Hezbollah, ai gruppi terroristi palestinesi a Gaza e a vari gruppi in Iraq e in Medio Oriente. Più specificatamente si recrimina a Teheran di aver fornito assistenza a formazioni terroristiche irakeni sciite, tra le quali il Kata’ib Hizballah, nell’ambito della strategia per contrastare lo Stato Islamico in Iraq. Tace invece il rapporto sul sostegno saudita ai gruppi jihadisti in Siria in funzione anti-Assad, anch’esso inserito nella lista per il sostegno a vari gruppi che minacciano la stabilità regionale e per il supporto politico e militare ad Hezbollah. Si veda: Department of State, Country Report on Terrorism..., cit. Chapter 3.

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dell’attacco all’ambasciata statunitense a Beirut nell’aprile del 1983,37 e per il sostegno ad Hezbollah,

partito resosi responsabile della strategia dei rapimenti ai danni di inglesi ed americani.

Per reiterare tale accusa, gli Stati Uniti attribuirono anche all’Iran l’attacco alle Khobar Towers in

Arabia Saudita il 17 giugno del 1996, responsabilità smentita a livello ufficioso dalle indagini. Nella

seconda metà degli anni Novanta la legittimazione alle sanzioni fu rafforzata dal dossier nucleare, il cui

programma avrebbe “messo a repentaglio la pace internazionale e la sicurezza”, elemento accomunante

gli altri due pilastri dell’asse del Male, Corea del Nord ed Iraq. Sulla base di questo elemento,

Washington è riuscito a coagulare attorno a sé un ampio consenso internazionale, che ha visto aderire, a

sua volta, alla politica delle sanzioni applicate anche dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con

la risoluzione 1696 del 2006,38 anche l’Unione Europea a partire dal 2010.39

Dagli inizi degli anni Ottanta, nel rispetto della peculiarità della “lunga durata” di ogni regime

sanzionatorio, consolidatosi anche per il mancato regime change auspicato dagli Stati Uniti, l’embargo nei

confronti della Repubblica Islamica prosegue, ed è andato a caratterizzare non solo l’esperienza politica

interna ed internazionale del paese degli Ayatollah, ma ha avuto un profondo impatto sia sulla vita

sociale di un paese che oggi conta più di 82 milioni di persone, il 40 % de quali sotto i 24 anni, dalle

potenzialità economiche in grado di influenzare l’intera area, così come di condizionare direttamente la

sicurezza e la stabilità regionali.

Questi gli elementi che saranno oggetto d’analisi e di approfondimento dei capitoli successivi.

37 Il gruppo, con una telefonata anonima al quotidiano libanese al-Liwaa (ا�������واء), rivendicava l’attentato dichiarando: Questa è parte della campagna della rivoluzione iraniana contro gli obiettivi imperialisti in tutto il mondo. Colpiremo qualsiasi tipo di presenza imperialista in Libano, inclusa la forza internazionale”. La notizia, unitamente alla dichiarazione fu ripresa dal The Washington Post. Si veda: Herbert H. Denton, “Bomb Wrecks U.S. Embassy in Beirut”, The Washington Post, 19 April 1983, (https://www.washingtonpost.com/archive/politics/1983/04/19/bomb-wrecks-us-embassy-in-beirut/87889136-e1e9-4d5b-ad11-2e23b3f87511/?utm_term=.31566e07577b). Alla dichiarazione, fece effettivamente seguito un altro sanguinoso attentato che colpì la caserma dei Marines nei pressi dell’aeroporto internazionale di Beirut ed a quella del contingente francese a pochi chilometri di distanza. Si vedano anche le memorie dell’ex ambasciatore USA a Beirut, John H. Kelly: John H. Kelly, “Lebanon: 1982-1984”, in Jeremy R. Azrael, Emil A. Payin (eds.), U.S. and Russian Policymaking With Respect to the Use of Force, RAND Corp. Santa Monica (CA), 1996, spec. cap. 6.

38 UN Security Council, Security Council demands Iran suspend uranium enrichment by 31 August, or face possible economic, diplomatic sanctions, 31 July 2006, SC/8792. Per il testo ufficiale si veda: http://undocs.org/S/RES/1696(2006), (consultato il 12/4/2017).

39 “Council Decision of 26 July 2010 concerning restrictive measures against Iran and repealing Common Position 2007/140/CFSP, in L 195/39”, in Official Journal of the European Union, 27 luglio 2010. Per una cronologia circa l’imposizione di sanzioni verso l’Iran da parte dell’unione Europea si veda: http://www.consilium.europa.eu/it/policies/sanctions/iran/history-iran/, (consultato il 12/4/2017).

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Capitolo 2. Le sanzioni nel quadro del diritto internazionale

2.1 La responsabilità internazionale degli Stati

Laura Rachele Galeotti40

Le misure sanzionatorie fanno parte di un più ampio capitolo dedicato alla responsabilità

internazionale e alle strategie risolutive non implicanti l’uso della forza, materia che si dimostra essere

continuamente sotto l’attenzione delle cancellerie di tutto il mondo, data l’importanza del dibattito e la

frequenza con cui tali principi sono invocati.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha difatti raccomandato alla Commissione del Diritto

Internazionale di codificare il suddetto tema41 e, facendo tesoro dei precedenti, ha predisposto un

Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per fatti illeciti internazionali (Progetto 2001), declinato in tre

parti dove si distinguono: l’origine della responsabilità internazionale, il contenuto della materia – con le

relative conseguenze in caso d’illecito – e le eventuali soluzioni.

Attenendosi a una prima lettura e stando a quella che è la prassi del diritto internazionale

generale, la responsabilità di uno Stato trae origine da un comportamento illecito che viola gli obblighi,

in forza di una regola – generale o convenzionale – del codice internazionale.42

Nel corso dei lavori, la Commissione ha reso esplicito il fatto che alla base di tale definizione vi è

l’applicazione di un comportamento, da parte del primo Stato, in contrasto con un obbligo

internazionale, che coincide con la violazione di un diritto soggettivo di un secondo Stato e, nel

momento in cui tale obbligo viene a mancare, sussiste l’illecito internazionale, a sua volta distinto da

due elementi costitutivi: a) un comportamento, che può essere un’azione o una mancanza attribuibile a

uno Stato, alla stregua del diritto internazionale (elemento soggettivo) e b) una violazione del codice

internazionale (elemento oggettivo).

Dal punto di vista giuridico la responsabilità internazionale comporta l’identificazione di una

nuova relazione legale tra le parti coinvolte, dove a distinguersi vi sono lo Stato responsabile e lo Stato

leso. Tale vincolo non implica solo il dovere dello Stato reo di fornire una riparazione ma comporta

anche la sottomissione al potere di coercizione, allo scopo di ottenere l’adempimento. Sussiste altresì la

40 Laura Rachele Galeotti è Cultore della materia per la cattedra di Storia ed Istituzioni delle società musulmane ed asiatiche presso l’Università degli Studi di Bergamo e Cultore di Storia e Civiltà delle Culture Politiche presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia.

41 In larga parte, le regole pertinenti si trovano nel Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per fatti illeciti internazionali, approvato nel 2001 dalla Commissione del Diritto Internazionale delle Nazioni Unite. Al momento non vi è una forma più solenne ed impegnativa, il che porta a considerare tale Progetto largamente ricognitivo. Le norme contenute sono volutamente generali, pertanto è necessario un richiamo alle norme internazionali per i casi che il Progetto non definisce. Si veda a F. Salerno, Diritto Internazionale. Principi e norme, CEDAM, Padova, 2001, pp. 411-413.

42 M. Giuliano, T. Scovazzi, T. Treves, Diritto Internazionale. Parte Generale, Giuffrè, Varese, 1991, pp. 413 ss.

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possibilità che lo Stato leso possa infliggere un danno allo Stato colpevole dell’illecito, a titolo di

rappresaglia o di contromisura.43

Nonostante la molta attenzione dedicata alla responsabilità internazionale, si evince però che la

Commissione non abbia espressamente preso in considerazione il fatto che il danno e la colpa possano

essere altrettanti elementi costitutivi. Tuttavia, nel corso degli anni la dottrina e la sua applicazione ne

hanno comprovato il valore significativo e, sebbene nel Progetto 2001 non si parli apertamente

dell’elemento psicologico (la colpa) e dell’elemento materiale (il danno), da quanto scritto viene fatto

intendere, implicitamente, che questi due fattori posseggano un certo rilievo.44

2.2 Gli elementi costitutivi dell’illecito internazionale

Quattro sono gli elementi che caratterizzano la natura dell’illecito internazionale: il sanzionatore (a), il

sanzionato (b), l’intento delle misure (c) e i meccanismi usati per colpire il sanzionato (d). Altresì,

devono essere considerate anche le caratteristiche del soggetto che impone le restrizioni; del soggetto

che le subisce; dei meccanismi utilizzati per colpire lo Stato colpevole; e degli scopi per cui uno Stato

decide di adottare tali misure correttive.45

a) È cosa comune considerare il sanzionatore come colui che ha subito in precedenza la violazione di

un proprio diritto, e di seguito se ne distinguono quattro (macro) categorie:

• il singolo Stato che agisce separatamente;

• il gruppo di Stati che agisce in collaborazione;

• l’organizzazione internazionale che opera sulla base di uno Statuto;

• l’autorità centrale che agisce sugli individui appartenenti alla comunità internazionale.46

b) Il sanzionato è il mero obiettivo delle misure restrittive e può essere identificato da un singolo

Stato o da un gruppo di Stati, a seconda dei casi in esame. Affinché i contenimenti applicati siano

realmente efficaci dovrebbero avere un’applicabilità il più possibile circoscritta, colpendo dei

particolari gruppi di potere e non gravando sulla popolazione civile.

43 L’idea che esista una sorta di risposta d’attacco è una pratica che non viene contestata dalla dottrina, ma è applicata come un’azione consueta.

44 Tant’è che si riconosce che lo Stato che provi l’assenza di colpa, nei sensi e nei limiti indicati, possa essere esente da responsabilità. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a S. M. Carbone, R. Luzzatto, A. S. Maria, Istituzioni di Diritto Internazionale, Giappichelli Editore, Torino, 2011, p. 333.

45 Si veda R. McDonald, “Economic sanctions in the International System”, in Canadian Yearbook of International Law, Annuaire Canadien de Droit International, n°7, 1969, pp. 61-91.

46 Una volta determinata la natura del sanzionatore, si presenta il problema di determinare e allocare i costi derivanti dall’imposizione delle misure economiche-commerciali applicate. Tale problema è sicuramente un elemento di difficile soluzione perché i costi derivanti non possono essere facilmente computabili. Si rimanda a G. Clyde Hufbauer, J. Schott and K. Elliott, Economics Sanctions Reconsidered: History and Current Policy, Institute for International Economics, Washington, 1990.

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c) In merito ai meccanismi utilizzati, il sanzionatore può fare affidamento su diversi strumenti - di

tipo diplomatico, militare ed economico - e attraverso questi dispositivi possono essere attuate

particolari limitazioni, quali: il blocco dei beni del sanzionato, l’imposizione di un embargo su

determinate importazioni e esportazioni ritenute strategiche, o addirittura può essere danneggiato il

sistema finanziario dello Stato accusato, tramite particolari manovre fiscali che possono manipolare

il tasso di cambio.

d) Lo scopo di questi blocchi non è mai generalmente unico e comune, alle volte, lo Stato

sanzionatore vuol ristabilire una precedente situazione politica, in altri casi invece si trova ad

affrontare delle vere e proprie crisi internazionali. Tuttavia, secondo le norme del diritto

internazionale, le misure sanzionatorie non devono violare i diritti umani e non devono andare

contro le norme imperative del diritto internazionale, ossia quelle non derogabili nemmeno dai

trattati internazionali.47

L’art. 3 del Progetto 2001 definisce l’illecito internazionale come “L’atto che risulta da un

comportamento attivo o omissivo attribuibile ad uno Stato, quando esso costituisce la violazione di un obbligo

internazionale di uno Stato”.48

Lo Stato responsabile della violazione è internazionalmente responsabile solo e unicamente nei

confronti dello Stato leso, quindi, l’effetto primario che deriva da un illecito internazionale è,

necessariamente, la nascita della responsabilità da parte dello Stato colpevole.

Altre conseguenze che ne conseguono comportano, da una parte, la nascita di un obbligo di

riparazione imposto all’autore dell’illecito e, dall’altra, il potere dello Stato leso di infliggere una

sanzione al responsabile dell’illecito. All’offesa può seguire una riparazione o un compenso, mediante

comportamenti come la presentazione di scuse o l’omaggio alla bandiera; in ogni modo la realizzazione

delle riparazioni richiede che lo Stato colpevole dell’illecito collabori all’attività di reintegrazione degli

interessi lesi.49

Se lo Stato che si è reso responsabile di una violazione internazionale rifiuta di collaborare per la

riparazione, lo Stato leso può raggiungere gli scopi sanzionatori tramite il ricorso a misure di

autotutela.50 In questo caso l’autotutela, a fini punitivi, può essere applicata attraverso dei

47 Si tratta per esempio del diritto di autodeterminazione dei popoli, del divieto di aggressione e della violazione dei diritti umani fondamentali come il genocidio, la schiavitù, la tortura e l’apartheid.

48 Si veda il testo: “Project d’articles sur la responsabilité de l’état pour fait internationalement illicite”, Nations Unies, 2005, disponibile al sito http://hrlibrary.umn.edu/instree/Fwrongfulacts.pdf, (consultato il 10/05/2017).

49 M. L. Forlati Picchio, Le sanzioni nel diritto internazionale, CEDAM, Padova, 1990, p. 60. 50 L’autotutela è la realizzazione coattiva del diritto contestato o leso, da parte dello stesso titolare. È pertanto

opportuno notare che in tutte le branche del diritto il ricorso all’autotutela costituisce un’eccezione, mentre nel diritto internazionale, proprio perché manca un’istituzione di tipo statuale, tende a costituire la regola.

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comportamenti, altrimenti vietati, in una pena proporzionata che spingono lo Stato responsabile alla

riparazione. Oltre a quanto menzionato, vi sono altri strumenti come le rappresaglie, i comportamenti

non amichevoli e le ritorsioni, altrettanti mezzi di pressione ritenuti efficaci per far sospendere un

illecito.

2.3 Le contromisure come reazione all’illecito

Secondo l’art. 49 del Progetto 2001, lo Stato offeso può adottare delle contromisure verso lo

Stato autore della violazione, per indurlo ad adempiere gli obblighi conseguiti dall’inosservanza del

diritto internazionale. In passato la pratica internazionale ha più volte permesso il ricorso a queste

soluzioni, note anche come rappresaglie, lasciando un ampio margine di manovra alle cancellerie

coinvolte.

“La rappresaglia e la natura punitiva sono efficaci indizi del carattere della società internazionale, nella quale fa

in generale difetto una struttura istituzionale che possa infliggere sanzioni ai soggetti che hanno violato le regole e nella

quale è ammesso, entro limiti piuttosto rigorosi, una sorta di diritto di farsi giustizia da sé.51

La rappresaglia52 è un atto illecito ed è giustificata da una precedente azione commessa ai danni

dello Stato che lo adotta. In generale, solo lo Stato offeso è legittimato ad accogliere queste misure e la

decisione di servirsi della rappresaglia deve essere preceduta da un tentativo di risolvere la controversia

in modo pacifico. Tali contromisure possono essere invocate come risposta a qualsiasi violazione, non

se ne limita l’applicabilità e possono essere colpiti anche beni che non hanno un diretto rapporto con

l’illecito, ma che in qualche modo esercitano una pressione sullo Stato colpevole.

Tutte le contromisure hanno una natura protettiva, poiché fungono da sollecitazione verso lo

Stato che ha offeso, affinché questi torni a rispettare i suoi obblighi, e hanno un carattere temporale,

poiché cessano di esistere con la relativa esecuzione.

Secondo l’art. 51 del Progetto 2001, l’adozione di contromisure deve essere commisurabile al

pregiudizio subito, non è ammesso un vantaggio sproporzionato, non sono accettabili azioni che

abbiano una finalità punitiva o un contenuto “esagerato”53 e deve essere esclusa ogni forma di

51 M. Giuliano, T. Scovazzi, T. Treves, Diritto Internazionale, cit…, p. 441, si veda anche M. Panebianco, “Le sanzioni economico-politiche delle organizzazioni internazionali”, in Etude Ago, III, Milano, 1987, p. 219.

52 “Les représailles sont des mesures de contrainte, dérogatoires aux règles du droit des gens, prise par un État à la suite d’actes illicites commis à son préjudice par un autre État et ayant pour but d’imposer à celui-ci, au moyen dommage, le respect du droit”, in “Rapporteur M. Nicolas « Politis, Justitia et Pace Institut de Droit International, Régime des représailles en temps de paix”, Article Premier, Session de Paris, 1934, consultabile al sito:

http://www.justitiaetpace.org/idiF/resolutionsF/1934_paris_03_fr.pdf (consultato il 20/11/2016). 53 In particolare alle contromisure applicate al caso iraniano si veda Gianvitti, “Le blocage des avoirs officials

iraniens par les Etats-Units (Executive Order, 14 November 1979)”, in RCDIPr, 1980, p. 279 ss.

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punizione che si avvalga dell’uso della forza armata, essendo questo diritto riconosciuto solo per

legittima difesa.54

Nella prassi, nessuno Stato si è mai apertamente schierato contro la legittimità di queste misure e

l’unico precedente che ha prodotto sonore critiche è stato il caso della “crisi degli ostaggi” fra Stati

Uniti e Iran,55 che si è risolto in favore della tesi della liceità.56

In riferimento a questo precedente, va comunque fatto notare che le rappresaglie riguardanti le

immunità riconosciute agli agenti diplomatici restano uno dei capitoli più contrastati del diritto

internazionale e, ancora oggi, il suddetto esempio rimane oggetto di discussione tra gli esperti del diritto

internazionale.57

Resta comunque difficile stabilire fino a che punto queste azioni possano essere attuate senza

divenire sproporzionate rispetto al fatto illecito a cui si riferiscono. Si pensi per esempio al caso bulgaro

del 1986, quando Sofia, dopo aver affermato che le misure restrittive applicate al personale diplomatico

bulgaro, presente sul territorio statunitense, violavano il diritto internazionale. In risposta a ciò la

Bulgaria adottò restrizioni territoriali verso il personale diplomatico americano presente nella capitale,

creando una crisi diplomatica tra le due cancellerie.

54 La “Dichiarazione relativa ai principi di diritto internazionale, concernente le Relazioni Amichevoli e la cooperazione fra gli Stati, in conformità con la Carta delle Nazioni Unite” (1970) impone il dovere di risolvere le controversie internazionali con mezzi pacifici, e la “Dichiarazione di Manila” (1982) parla di una soluzione esclusivamente pacifica nelle controversie, stando agli obblighi di collaborare con la controparte.

55 Volutamente la storia ricorda il caso iraniano ma si dimentica di altre decisioni volte a limitare le libertà di movimento, come quelle deliberate contro i diplomatici sovietici negli anni Cinquanta. Nel secondo dopo guerra, i paesi appartamenti al blocco comunista hanno introdotto una serie di limitazioni ai movimenti dei diplomatici occidentali accreditati presso di loro. In risposta, gli stati occidentali hanno adottato una serie di misure dello stesso genere nei confronti di alcuni paesi dell’est Europa. In particolare il governo americano adottò, il 10 marzo 1952, severi provvedimenti di restrizione nei confronti dei diplomatici sovietici; si veda US Department of State, American Foreign Policy, 1950-55, Basis Documents, vol. II, 1957, p. 1955-6.

56 È stata ritenuta valida la liceità in base al precedente tribunale arbitrale che vedeva il caso dei servizi aerei tra Stati Uniti e Francia. Il 27 marzo 1946, il tribunale arbitrale sentenziò: “… If a situation arises which, in on State’s view, results in the violation of an international obligation by another state, the first state is entitled, within the limits set by the general rules of international law pertaining the use of armed forced, to affirm its rights through “counter-measures” , Air Service Agreement Case, France v. United States (1978), Arbitral Tribunal: Riphagen, President; Ehrlich, Reuer, 18 R.I.A.A. 416, http://www.iilj.org/wp-content/uploads/2016/08/Air-Services-Arbitration-France-v.-US.pdf , (consultato il 20/04/2017).

57 Nella sentenza emessa dalla Corte si legge: “That Iran has violated and is skill violating obligations owed by it to the United States; that these violations engage Iran's responsibility; that the Government of Iran must immediately release the United States nationals held as hostages and place the premises of the Embassy in the hands of the protecting power; that no member of the United States diplomatic or consular staff may be kept in Iran to be subjected to any form of judicial proceedings or to participate in them as a witness; that Iran is under an obligation to make reparation for the injury caused to the United States, and that the form and amount of such reparation, failing agreement between the parties, shall be settled by the Court. In its Judgment, the Court recalls that on 29 November 1979 the United States of America had instituted proceedings against Iran in a case arising out of the situation at its Embassy in Tehran and Consulates at Tabriz and Shiraz, and the seizure and detention as hostages of its diplomatic and consular staff in Tehran and two more citizens of the United States. The United States having at the same time requested the indication of provisional measures, the Court, by a unanimous Order of 15 December 1979, indicated, pending final judgment, that the Embassy should immediately be given back and the hostages released”, in International Court of Justice, Summaries of Judgments and Orders, Case concerning United States Diplomatic and Consular Staff in Tehran, Judgement of 24 May 1980; consultabile al sito: https://www.scribd.com/document/190432463/US-vs-Iran , (consultato il 5/5/2017).

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2.4 Le sanzioni e la loro efficacia

Tra le rappresaglie, le contromisure e le ritorsioni, vi sono poi delle particolari azioni, note come

sanzioni, ossia misure restrittive che non implicano l’uso della forza ma che fungono da mezzo per

garantire l’applicazione di una norma mediante l’impedimento delle sue inadempienze. Questi strumenti

possono essere impiegati anche senza l’assenso dello Stato verso cui sono diretti e, se necessario, può

essere usata la coercizione fisica.

È doveroso riconoscere che esiste un distinguo tra i termini “sanzione” e “contromisura” e non

sono da considerarsi sinonimi, giacché il primo presuppone l’esistenza di un’organizzazione

internazionale che goda di particolari poteri di provvedimento, mentre il secondo fa riferimento alle

decisioni dei singoli Stati o delle organizzazioni internazionali contro uno Stato terzo, responsabile di

un illecito internazionale.58

Sussiste poi la distinzione tra la sanzione considerata come una misura unilaterale, adottata dallo

Stato offeso per regolamentare i rapporti con lo Stato autore della violazione; e la sanzione considerata

come una misura collettiva, perché impiegata da un organo internazionale.59 Inoltre, la prassi crea un

distinguo anche tra le sanzioni diplomatiche, concernenti l’interruzione di rapporti diplomatici tra gli

Stati coinvolti, e le sanzioni economiche, riguardanti invece le limitazioni commerciali applicate su

alcuni settori ritenuti strategici, come la vendita di armi o di petrolio.

In ultimo, queste misure punitive possono essere ulteriormente riconosciute in “generali” o

“mirate”. Le prime non colpiscono alcuna specifica sezione, mentre le seconde, che ormai sono usate

da oltre trent’anni, sono indirizzate verso particolari settori o specifiche aree geografiche, ritenuti

d’interesse strategico nazionale.

Dopo la fine della Guerra Fredda, le sanzioni “mirate” si sono sviluppate sempre di più, fino a

divenire veri e propri strumenti di pressione in grado di indurre i vari governi a cambiare la propria

condotta politica. Il loro scopo è dare un avvertimento pubblico se non addirittura minacciare la

controparte e generalmente. Negli ultimi decenni, chi ha applicato queste sanzioni l’ha fatto quasi

sempre in maniera progressiva, adottando degli intervalli sanzionatori la cui intensità cresceva

periodicamente, ma altresì mantenendo aperta la possibilità di una riconciliazione attraverso il dialogo

diplomatico.

58 De Guttry, “Le contromisure adottate nei confronti dell’Argentina da parte delle Comunità Europee e dei terzi Stati e il problema della loro liceità internazionale”, in N. Ronzitti (a cura di), La questione delle Falkland – Malvinas nel diritto internazionale, Giuffrè, Milano, 1984, p. 343.

59 F. Lattanzi, “Sanzioni internazionali”, in Enciclopedia del diritto, vol. XLI, 1989, p. 536 ss.

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Sino a oggi le sanzioni sono state uno dei pochi strumenti che la comunità internazionale ha

saputo trovare per far pressione su uno Stato, per costringerlo a porre fine a un conflitto, fermare un

programma di sviluppo di armi chimiche o danneggiare un particolare gruppo di potere, ma in merito

alla loro efficacia molti esperti si sono divisi nel giudicarne la validità, facendo riemergere i dubbi che da

anni sono al centro del dibattito internazionale.

Dopo le catastrofiche conseguenze dovute dall’embargo, quasi totale, imposto dall’ONU sull’Iraq

di Saddam Hussein, si è aperta una polemica internazionale sull’opportunità di usare le sanzioni in

maniera diversa, preferendo quelle mirate a quelle indiscriminate, proprio per evitare effetti a pioggia

che possano avere gravi ripercussioni contro la popolazione civile.

Nel caso iraniano le sanzioni hanno sicuramente messo in grande difficoltà l’economica dello

Stato, ostacolando l’importazione di materiali fissili e un particolare tipo di tecnologia, necessaria per lo

sviluppo del suo programma nucleare, ma le restrizioni applicate non hanno raggiunto l’obiettivo

principale. L’isolamento internazionale e i maggiori danni sono stati inferti alla società civile, che per

oltre trentasette anni ha affrontato difficoltà importanti, come la mancanza di medicinali e attrezzature

mediche. Dal 1979, l’economia iraniana è stata sottoposta a una serie di politiche sanzionatorie, in

primis, da parte degli Stati Uniti e poi, da parte dell’Unione Europea e del Consiglio di Sicurezza delle

Nazioni Unite, per cercare di modificare le alleanze internazionali createsi dopo l’ascesa dell’ayatollah

Khomeini e bloccare il programma di arricchimento dell’uranio.

Le restrizioni hanno pesato profondamente sul settore petrolifero, il cuore pulsante

dell’economia di Teheran, ma ciononostante altri stati come la Cina, l’India e la Russia hanno

continuato a fare grandi investimenti con l’Iran, in favore di un equilibrio sempre più multipolare.

Pechino, oltre ad avere investito milioni di renminbi nei giacimenti di South Pars, con lo sviluppo di

nuovi impianti di estrazione e l’ammodernamento di quelli già presenti, ha anche adeguato alcune delle

proprie raffinerie alle caratteristiche delle filiere iraniane, in modo da assicurarsi un lungo matrimonio

d’interesse con la repubblica sciita e capitalizzarne il futuro. In questo modo l’economia degli ayatollah si

è legata sempre di più agli orizzonti asiatici, con la considerazione che la Cina e la Russia, oltre a essere

dei fidati partner commerciali sono anche due membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle

Nazioni Unite e sul tavolo delle trattative diplomatiche questo è un elemento di non poco valore.

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2.5 Casi che videro l’Iran coinvolto in questioni concernenti la responsabilità internazionale, la forza maggiore e l’estremo pericolo

1�I� cas deg�i stude�ti is�a�ici�

Un primo esempio fa riferimento al caso del Personale diplomatico e consolare degli Stati Uniti a Teheran,

quando la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 24 maggio 1980, in un primo momento,

non parlò di responsabilità internazionale dello Stato iraniano poiché, la presa degli ostaggi (avvenuta il

4 novembre 1979) fu compiuta da un gruppo d’individui che agirono in quanto privati, sequestrando i

locali dell’ambasciata statunitense e tutte le persone presenti.

Nello specifico, la Corte ritenne che il comportamento dei “militanti islamici” non potesse essere

imputato alla repubblica sciita, poiché non sussistevano prove che dimostrassero alcun legame con il

governo in carica. Tuttavia, di lì a poco, la situazione politica mutò completamente quando le autorità

iraniane decisero di mantenere sotto assedio sia l’ambasciata americana, sia gli ostaggi. Nel breve

tempo, la situazione si stravolse e i militanti divennero dei complici dello Stato iraniano, che a sua volta

fu riconosciuto come responsabile dei fatti in corso. Nonostante i numerosi appelli della comunità

internazionale rivolti a Teheran, per liberare gli ostaggi americani, il governo iraniano perdurò nel

comportamento illecito per 444 giorni, e alcuni Stati terzi appartenenti al blocco occidentale adottarono

una serie di contromisure nei confronti dell’Iran.60

2� I� cas de��’i�crciatre a�erica� Vi�ce��es�

Un secondo esempio si addice ai fatti del 31 luglio 1988, quando nelle acque del Golfo Persico la

nave da guerra statunitense Vincennes abbatté un aereo civile iraniano, uccidendo le 290 persone a

bordo. Stando alle argomentazioni del Dipartimento della Difesa americano, il comandante della nave,

sentitosi sotto la minaccia di un attacco militare, prima cercò di mettersi in contatto con la marina

iraniana, senza ottenere alcun risultato e poi, per motivi (da lui considerati) di legittima difesa, decise di

aprire il fuoco. Nel caso specifico è difficile capire se ci si è trovati di fronte a un esempio di forza

maggiore o di un estremo pericolo. Le inchieste condotte escluderebbero il caso fortuito, ma il

problema della riparazione dei danni rimane ancora oggi aperto dinnanzi alla Corte Internazionale di

Giustizia.

60 In particolare si ricordi che la CEE, dopo aver ribadito che “il protrarsi della situazione rischia di mettere la pace e la sicurezza internazionale”, il 4 novembre del 1979, stabilì che tutti i contratti conclusi dopo suddetta data sarebbero stati colpiti da un embargo, anche quelli riguardanti forniture farmacologiche.

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Figura 1. Immagini della propaganda iraniana sul Cas Vi�ce��es

3� �’pera�i�e segreta �Eag�e c�aw �

Un terzo caso viene fornito durante la summenzionata crisi degli ostaggi quando, tra il 24 e il 25

aprile 1980, l’operazione militare statunitense, nominata Eagle Claw, fallì a causa di una tempesta di

sabbia nel deserto iraniano provocando la collisione di due aerei. Washington giustificò l’attacco con la

necessità di salvare i propri concittadini, in quanto vittime di una minaccia terroristica, e si avvalse

dell’illecito internazionale compiuto da Teheran per motivare a sua volta un attacco armato, chiamando

in causa il diritto di legittima difesa.

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Capitolo 3. Il Caso Iran: le cause delle sanzioni

3.1 La Dinastia Pahlavi e lo scoppio della Rivoluzione iraniana

Laura Rachele Galeotti

Mohammad Reza Pahlavi salì al potere nel 1941, a soli ventidue anni, dopo che il padre Reza

Khan, per salvare la dinastia, fu costretto ad abdicare e ad accettare l’esilio in Sudafrica. Data la giovane

età preferì adottare una gestione moderata.61 e rompere con la linea autocratica e militarista attuata negli

anni Trenta. Mise da parte l’assolutismo, aprì l’arena politica all’opposizione, riconobbe agli scienziati

religiosi il pieno esercizio delle loro facoltà e concesse nuove libertà di espressione, permettendo così

l’apertura di una nuova epoca all’insegna del pluralismo.62 Nel biennio tra il 1951 e il 1953, il potere del

sovrano fu messo in discussione dal Primo Ministro Mohammad Mossadeq63 il quale, forte del sostegno

politico del Jabhe-ye Melli (il Fronte Nazionale), riuscì a statalizzare l’industria petrolifera del paese,

61 Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, l’Iran cercò di mantenere una posizione di neutralità, ma per via della sua posizione strategica in Medio Oriente, divenne oggetto d’interesse da parte di entrambe i blocchi. Il casus belli arrivò con la richiesta degli Alleati di espellere dall’Iran i cittadini di nazionalità tedesca. Tale pretesa fu rifiutata da Teheran e gli eserciti britannici e sovietici usarono l’evento come pretesto per invadere la Persia (il 25 agosto 1941) e mantenervi il controllo fino alla fine del conflitto. Le ipotesi riguardo all’ingresso degli Alleati sono diverse, infatti, c’è chi sostiene la causa di una paura filonazista da parte dello Shāh che si era molto avvicinato, negli anni Trenta, alla Germania di Hitler, altri invece, come Abrahamian, sostengono che gli Alleati volessero prevenire un colpo di stato filotedesco contro lo stesso Shāh, com’era già avvenuto in Iraq. Per ulteriori informazioni si rimanda a E. Abrahamian, Iran Between Two Revolutions, Princeton University Press, Princeton, 1982, p. 164-165.

62 La maggiore libertà di espressione rese possibile anche un aumento degli spazi di comunicazione e dei loro media. Un esempio interessante è dato dalle testate giornalistiche che nel 1943, a Teheran, erano 47, mentre nel 1951 se ne contavano più di 700. L’apertura politica portò inoltre a un fiorire di eventi e di movimenti culturali che diedero spazio all’estro d’intellettuali iraniani e non. In questa primavera politica, nacque, nel 1941, il partito filocomunista Tudeh (Le masse) con l’intento di unire gli ideali marxisti a quelli riformisti-islamici. Il movimento riuscì a costruire una struttura ben solida all’interno dell’opposizione, diventando uno dei principali antagonisti della monarchia Pahlavi. Si vedano A. Ansari, Modern Iran Since 1921: The Pahlavis and After, Longman, Edinburgh, 2003; A. Saikal, The Rise and the Fall of the Shah, Princeton University Press, Princeton, 1980.

63 Mohammad Mossadeq (o Mosaddegh), nacque nel 1882 da una nobile famiglia di origine qajara e dopo aver terminato un dottorato di ricerca in Scienze Politiche, in Svizzera, ritornò in patria e intraprese la carriera accademica in una delle università di Teheran. Oltre all’attività accademica si dedicò anche alla politica, sostenendo le correnti di matrice laica, ma il suo esordio in parlamento fu brevissimo, difatti, dopo pochi mesi dal suo ritorno, preferì espatriare di nuovo in Europa. Sei anni dopo, su richiesta del Primo Ministro iraniano fece di nuovo ritorno a Teheran, accettando di far parte ancora dell’arena politica. In parlamento, si contraddistinse per carisma e intelligenza e fu uno dei pochi politici ad avere il coraggio di criticare aspramente l’incoronazione di Reza Shāh, definendola un vero e proprio crimine. Durante tutto il regno di Reza Shāh, Mosaddegh rimase in una posizione secondaria, riuscendo a stendo a esprimere il proprio intento. Solo durante il regno di Mohammad Reza Shāh la sua figura divenne decisiva. Copiosa è la bibliografia in merito alla carica di Mosaddegh, in particolare si vedano S. Zabith, The Mosaddegh Era, Lake View Press, Chicago, 1982; F. Diba, Mohammad Mosaddegh: A Political Biography, Croom Helm, London, 1986.

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sottraendo alle grandi compagnie internazionali il monopolio degli idrocarburi.64 Solo nell’agosto del

’53, grazie a un colpo di Stato guidato dal generale Fazlollah Zahedie65 e ordito con il sostegno

dell’intelligence statunitense e inglese, lo Shāh riacquisì il pieno controllo del governo e con la nuova

conduzione mise fuori legge il Fronte Nazionale, avviò una politica di natura personale fondata sulla

secolarizzazione e la modernizzazione dei costumi e ripristinò il regime dittatoriale del padre.

Fu pertanto seguita una linea dura di repressione contro qualsiasi tipo di dissenso, il governo

divenne un organo puramente formale, fu applicata la censura politica verso ogni mezzo di

comunicazione e bandita ogni forma di pluralità.

Mohammad Reza Pahlavi era intenzionato a trasformare la nazione in una super potenza e, negli

anni Sessanta, Teheran arrivò ad avere il quinto esercito più importante al mondo, vantando il più

numeroso equipaggiamento navale della regione del Golfo Persico.

Il dopoguerra si dimostrò essere un periodo particolarmente florido per l’Iran, la riscossione delle

rendite petrolifere e l’incremento della produzione fece crescere la spesa di governo e la monarchia

decise si aumentare il budget destinato al settore militare, facendolo crescere di venti volte, ossia

passando da 60 milioni di dollari, nel 1954, a 5.5 miliardi di dollari, nel 1973.66

Nella primavera del 1957, fu istituita la SAVAK (Sazeman-e Ettelahat va Amniat-e Keshvar), la

famigerata polizia segreta, cui fu affidato il compito di occuparsi della sicurezza interna e dell’intelligence67

e, oltre a rafforzare l’esercito e costruire una struttura atta a difendere il potere personale dei Pahlavi, la

64 Il governo di Mossadeq riuscì a mettere da parte lo strapotere delle multinazionali straniere e sostituì l’Anglo Iranian Oil Company, fondata nel 1908 dagli inglesi, con una compagnia nazionale, la National Iranian Company. La risposta della Gran Bretagna fu durissima. Prima congelò i capitali iraniani, poi intimò tutti i cittadini britannici a lasciare il Kuzestan, la regione che ospitava i principali giacimenti e, infine, si rivolse direttamente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per una risoluzione a favore degli interessi internazionali. Dall’altro canto invece Mosaddegh si recò al Palazzo delle Nazioni Unite a New York per difendere la causa iraniana e il suo intervento fu talmente persuasivo che indusse il Consiglio a pronunciarsi in favore dell’Iran, giustificando che la nazionalizzazione era una questione meramente interna. I rapporti diplomatici tra l’Iran e il resto della comunità internazionale s’irrigidirono al punto che Mosaddegh fece esiliare il personale inglese dell’ambasciata britannica. A sua volta Londra convinse l’amministrazione Truman a bloccare ogni prestito verso Teheran, facendo pressione anche sulle altre cancellerie. Solo i giapponesi e gli italiani non si fecero intimidire. Le rappresaglie inglesi produssero forti squilibri nell’economia iraniana e gli Stati Uniti, in piena guerra fredda, preferirono sposare la causa di Churchill, piuttosto che sostenere il partito di Mosaddegh. Per ulteriori letture si vedano S. Kinzer, All the Shah’s Men: An American Coup and the Roots of the Middle East Terror, Johm Wiley Sons, Hoboken, 2003; M. Kamrava, Revolution in Iran: The Roots of Turmoil, Routledge, London, 1990.

65 A partire dal febbraio 1953, i servizi segreti inglesi e americani avviarono l’operazione “Ajax” per rovesciare il governo iraniano. La mattina del 19 agosto il generale Zahedie circondò con i carri armati l’abitazione del Primo Ministro, obbligandolo a consegnarsi alle autorità. Il golpe era compiuto e Mossadeq fu accusato di tradimento e processato. Scontò tre anni di carcere in isolamento e passò il resto dei suoi anni agli arresti domiciliari fino alla sua morte, avvenuta nel 1967. Si rimanda a M. Giasiorowski, “The 1953 Coup d’Etat in Iran”, IJMES, vol. 3, n° 19, pp. 261-86. Alcuni autorevoli autori, come Stephen Kinzer, sostengono che il colpo di Stato del 1953 inferse un durissimo colpo sia alla democrazia iraniana, sia a quella dell’intera regione, perché da quel momento in poi l’opposizione si è radicalizzata e l’antiamericanismo è diventato un’ossessione. Si rimanda a S. Kinzer, All the Shah’s men, cit…, 2003.

66 E. Abrahamian, Storia dell’Iran. Dai primi del Novecento a oggi, Donzelli Editore, Roma, 2009, p. 151. 67 Si vedano R. Graham, “Iran: The Illusion of the power”, Saint Martin Press, New York, 1979; G. de Villiers,

L’irrésistible ascension de Mohammad Reza Shah d’Iran, Paris, 1975.

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conduzione reale aumentò anche la cooperazione economica con alcuni paesi ritenuti strategici nell’area

mediorientale, tra cui Israele.68

Negli anni Settanta il paese visse una favorevole congiuntura economica, i settori industriali

emergenti, come la lavorazione del carbone, del tessile e quella delle sezioni automobilistiche, crebbero

creando nuovi posti di lavoro. La casa reale investì parte dei profitti nei servizi sociali, nell’istruzione e

nella sanità, migliorò le condizioni di vita e il tasso di crescita della popolazione aumentò

considerevolmente.

La situazione iraniana fu, inoltre, influenzata positivamente da altri eventi regionali, come la

guerra arabo-israeliana del 1973, che portò i paesi OPEC a quadruplicare il costo del greggio,69

giustificando il rialzo come un necessario allineamento delle piazze internazionali.

Tra il 1963 e il 1977, lo Shāh propose un piano di riforme che passò alla storia come Enqelab-e

sefid (دی����� ا���������ب , la Rivoluzione Bianca), il cui obiettivo era trasformare il paese in un mercato

competitivo entro la fine del Novecento e in seno a questo furono avviate una serie di manovre atte a

svecchiare il settore agricolo, privatizzare le industrie, rafforzare il settore privato, nazionalizzare le

foreste e i pascoli, applicare una diversa distribuzione della ricchezza nazionale e migliorare i

68 La scelta di avvicinarsi al blocco continentale e staccarsi dal modello sovietico e dal mondo arabo, portò l’Iran a rafforzare i rapporti con alcune cancellerie, tra cui Israele. In questo cambio di equilibri, Washington vide nell’Iran la possibilità di instaurare un solido avamposto mediorientale e di conseguenza rafforzò il suo appoggio al regime dello Shāh. In seno agli interessi geopolitici e alla collaborazione anti-araba, fu siglata tra Iran e Israele una tacita cooperazione economica per permettere la vendita del greggio iraniano allo Stato ebraico, attraverso la conduttura di Eilat. Stando alle stime del “Washington Post”, datate dicembre 1978, in quello stesso anno Israele avrebbe venduto all’Iran prodotti per un valore di 120 milioni di dollari; mentre stando alle dichiarazioni della testata “US New & World Report”, relative al gennaio 1979, il 70% del greggio importato da Israele era di origine iraniana. Molti analisti hanno visto in questo matrimonio d’interesse una duplice opposizione alla presenza araba e palestinese nella regione, che sposava perfettamente l’idea che “il nemico del mio nemico è un mio amico”. Il sentimento anti-arabo unì gli interessi politici di Teheran a quelli di Tel Aviv ma creò sgomento tra la comunità iraniana, che non vedeva con favore la nascita di qualsiasi rapporto di collaborazione con la comunità sionista. Difatti, i rapporti tra Israele e lo Shāh rimasero sempre mascherati nel buio e Mohammad Reza Shāh non riconobbe mai ufficialmente lo Stato d’Israele e sul suolo iraniano non fu mai aperta un’ambasciata israeliana. Per ulteriori dettagli si veda S. Fayamanesh, The United States and Iran. Sanctions, Wars and the Policy of Dual Containment, Routledge, London, 2008, p. 52-3.

69 Tra il 1954 e il 1973, le rendite petrolifere iraniane passarono da 34 milioni di dollari a 5 miliardi di dollari e la crescita continuò, fino a raggiungere i 20 miliardi di dollari nel 1976. Gli incassi fecero aumentare le entrate del governo più del 60% e l’Iran divenne un vero paese redditiere. Per un confronto più completo relativo ai guadagni petroliferi registrati tra il 1954 e il 1973 si rimanda a E. Abrahamian, Storia dell’Iran..., cit., p. 150.

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programmi sociali.70 In poco tempo la Rivoluzione Bianca mutò completamente la struttura economica

e sociale del paese: gli investimenti stranieri aumentarono senza alcun controllo, l’industria modificò la

sua produzione interna a beneficio dell’importazione, il paese da esportatore di derrate alimentari

divenne un importatore di beni agricoli e, i piccoli artigiani si trovarono costretti ad abbandonare la

produzione locale per cercare lavoro in qualche grande industria.

Il fascino del benessere urbano scatenò una massiccia immigrazione, proveniente per lo più dalle

zone rurali verso i grandi agglomerati. I quartieri popolari si allargarono senza alcun controllo e l’esodo

scatenò un preoccupante degrado periferico. La crescita economica amplificò enormemente la

sperequazione tra ricchi e poveri, il ristretto gruppo d’élite, che rappresentava solo l’1% della

popolazione, si arricchì notevolmente71 e le differenze tra la capitale e il resto del paese si fecero

tristemente più marcate.72 La presenza di cittadini stranieri divenne un fatto comune e l’immigrazione,

specie quella statunitense, aumentò esponenzialmente. James A. Bill calcolò che, tra il 1944 e il 1979, gli

americani che vivevano in Iran passarono da 8.000 a 50.000;73 la maggior parte di questi era impiegata

nell’industria della difesa, viveva a Teheran o a Isfahan e risiedeva in quartieri abitati solo da altri

americani, separata dal resto della popolazione.

La repentina crescita indotta dalle riforme portò a un aumento dell’inflazione, con la conseguenza

di avere troppa moneta in circolazione e pochi prodotti sul mercato. In poco tempo i prezzi

aumentarono in maniera sconsiderata a danno dei ceti meno beni abbienti e dei nuovi arrivati. La

rivolta popolare fu inevitabile, scoppiarono le prime manifestazioni di strada e la gente cominciò a

contestare apertamente la politica regia, che avvantaggiava sempre di più gli interessi stranieri a danno

di quelli statali.

Durante la dinastia Pahlavi, la monarchia strinse alleanze sempre più solide con le cancellerie

occidentali e, anche a livello sociale, incoraggiò l’uso delle mode europee e americane, talché divenne

70 Fu ampliata la linea ferroviaria che collegava Teheran a Mashad, Tabriz e Isfahan; furono finanziati impianti petroliferi, dighe, acciaierie e gasdotti. Furono abbassati i tassi d’interesse bancari, agevolate le condizioni di prestito; le piccole-medie e grandi imprese aumentarono il loro volume d’affari, specializzandosi in settori più competitivi. Furono aperte nuove scuole, la media degli alfabetizzati aumentò dell’80% e i programmi sanitari furono migliorati. Alle donne fu concesso il diritto di votare, l’età minima (femminile) per contrarre matrimonio fu portata a quindici anni e furono limitati i diritti degli uomini in caso di divorzio. Si vedano B. Devons, C. Werner, Culture and Cultural Politics Under Reza Shah: The Pahlavi State, New Bourgeoisie and the Creation of a Modern Society in Iran, Routledge, Oxford, 2013; M.R. Pahlavi, Missione per il mio paese, Rizzoli, Milano, 1961; B. Offiler, US Foreign Policy and the Modernization of Iran, Kennedy, Johnson and the Shah, Palgrave Macmillan, London, 2015.

71 Nel 1978, il processo d’accumulazione arricchì notevolmente l’élite, che arrivò ad avere oltre l’80% della ricchezza nazionale. Al centro di questo ceto vi era la famiglia reale ai cui membri si garantiva un salario annuo vicino al milione di dollari. A. Terenzoni, N. Venturi, La repubblica islamica dell’Iran. Un ideale metafisico nella realtà del XX secolo, Alkaest, Genova, 1980, p. 20-1.

72 Le ricerche di Kazemi dimostrano che tra i residenti di Teheran, uno su dieci possedeva un’automobile, nel resto del paese la percentuale era uno su novanta, si veda F. Kazemi, Poverty and Revolution in Iran, New York, 1980, p. 25.

73 Per ulteriori informazioni si rimanda a J. A. Bill, The Eagle and the Lion: The Tragedy of American-Iranian Relations, Yale University Press, New Haven, 1988.

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sempre più frequente trovare nei bar delle grandi città giovani bere Coca Cola, così come vedere per

strada le automobili francesi circolare nel traffico mattutino. Anche nella scelta dei rappresentanti

politici, lo Shāh prese come riferimento il sistema europeo: i ministri scelti erano quasi tutti funzionari

che avevano ricevuto un’alta istruzione in Svizzera o in Francia, tutti i deputati e i senatori erano

dirigenti a favore dei Pahlavi e il governo, il Majles, era composto solo da due partiti: l’Iran Novin e il

Mardom, conosciuti anche come i partiti del “Sì”, perché rispondevano solo “Sissignore” oppure “Si,

ovviamente”.74

Ma gli anni Settanta non furono solo gli anni della crescita economica e della politica in favore di

una società sempre più occidentalizzata; furono anche gli anni della lotta contro i partiti di sinistra, il

radicalismo politico e il terrorismo che univa le ideologie marxiste a quelle islamiche75.

La SAVAK, legittimata a intervenire in caso di disordine interno, divenne sempre più brutale e

violenta nei confronti degli oppositori e gli spari sulla folla, gli arresti ingiustificati, le torture e le

uccisioni cominciarono a essere una pratica comune da usare contro ogni forma di dissenso.76

A livello internazionale, Mohammad Reza Pahlavi si schierò a favore del blocco occidentale,

diventando un alleato fedele di Washington, e l’intero Paese si trasformò in un importante avamposto

mediorientale. Il sodalizio d’interessi creatosi fu però messo in discussione dall’opposizione religiosa

sciita interna e dai suoi ayatollah (ayat Allah, segno di Dio), contrari ad assecondare gli interessi delle

grandi potenze straniere. Fu così che in risposta all’introduzione dei nuovi canoni culturali, favorevoli a

un processo di laicizzazione sempre più forzato, una parte del clero insorse in difesa della tradizione

islamica e attaccò duramente le scelte della dinastia Pahlavi. Tra questi uomini di fede, si distinse per

carisma e irriverenza l’ayatollah Ruhollah Khomeini, una figura ieratica la cui interpretazione religiosa

prese le sembianze di un populismo clericale, dai toni socialisti-rivoluzionari.

Lo scienziato religioso di Qom entrò nella scena politica subito dopo l’incoronazione di

Mohammad Reza Shāh77 e fin da subito disapprovò pubblicamente le scelte del potere reale, criticando

74 E. Abrahamian, Storia dell’Iran…, cit., p.158. 75 I movimenti di guerriglia che si svilupparono in Iran devono essere contestualizzati alla realtà internazionale

in quello stesso periodo, difatti, nel resto del mondo andava a crescere l’attivismo rivoluzionario contro il potere delle monarchie e delle classi privilegiate. Si pensi per esempio alla guerriglia boliviana di Che Guevara, alla Rote Armee Fraktion (RAF) in Germania o alle Brigate Rosse in Italia. In Iran si formarono molti gruppi radicali come il Fada’ian-e Kalq, un’organizzazione d’ispirazione marxista-leninista composta prevalentemente da studenti che appartenevano alla classe media, influenzati anche dalle rivoluzioni in corso in America Latina e in Europa. Si vedano E. Abrahamian, “The Guerriglia Movement in Iran 1963-177” in Middle East research and Information Project 86, March-April, 1980, pp. 3-15; A.R. Nobari, Iran Erupts: Independence, News and Analysis of the Iranian National Movement, Stanford, 1978.

76 Nel 1975, Amnesty International accusò l’Iran di non rispettare i diritti umani, di essere uno dei paesi più violenti al mondo, di ostacolare i soccorsi della Croce Rossa Internazionale e di aver detenuto tra i 25.000 e i 100.000 prigionieri senza accuse specifiche e senza aver garantito loro un regolare processo. Si vedano il rapporto annuale di Amnesty International del 1° Gennaio 1975, pp. 128-9, consultabile online https://www.amnesty.org/en/documents/pol10/001/1975/en/ (consultato il 7/06/2017); E. Abrahamian, Tortured Confessions: Prisions and Public Recantations in Modern Iran, Berkeley and Los Angeles, 1999.

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aspramente l’appoggio e la fiducia data alle potenze occidentali e alle grandi compagnie internazionali.

Rimproverò la scelta di aver preferito i costumi europei a quelli islamici e criticò aspramente il modo in

cui furono applicate le riforme della Rivoluzione Bianca, poiché la conduzione politica preferì agevolare

la presenza straniera nel paese, piuttosto che produrre un reale cambiamento volto ad aumentare il

benessere interno.

Nel corso degli anni, i toni delle sue accuse divennero sempre più forti e sfacciati. Khomeini,

senza alcuna remora, rimproverò il regime, accusò il sovrano di essere un dittatore e un infedele, chiese

al clero di opporsi alle scelte di governo e incitò i giovani mullah alla sovversione.78 Nei suoi sermoni lo

Shāh era descritto come un traditore al servizio degli Stati Uniti e a lui si attribuivano le colpe di aver

sottratto al popolo le ricchezze della nazione per arricchire i suoi conti bancari all’estero.

La popolazione, sentitasi tradita dalle promesse della Rivoluzione Bianca e di fronte a una

situazione interna sempre più critica, si unì alle protese del chierico, sperando in un cambio di regime.

Fu in questo clima di esasperazione e d’insoddisfazione generale che Khomeini guadagnò l’appoggio di

molti e incarnò, facilmente, il ruolo di difensore della patria, pronto a battersi contro lo strapotere della

classe dirigente e la fine dell’accentramento occidentale.

Nella notte tra il 4 e il 5 giugno 1963, l’ayatollah fu arrestato per la prima volta mentre stava

eseguendo la consueta preghiera notturna, fu portato a Teheran e messo sotto sorveglianza nel club

degli ufficiali. La polizia divulgò la notizia della sua incarcerazione solo il giorno seguente, il 15 di

Khordad, e nelle grandi città migliaia di persone scesero in piazza chiedendone la liberazione. La SAVAK

77 Khomeini debuttò ufficialmente nella vita politica nel 1943, con un testo dal titolo “La rivelazione dei segreti”. L’opera fu scritta in risposta a un altro libro, anti-sciita, dal titolo “I segreti di mille anni” pubblicato da A. Hakamizadeh, un giovane studente iraniano sostenitore dell’intellettuale laico Ahmad Lasravi. L’ayatollah con questo suo primo testo pose le basi filosofiche per un ragionamento sulla legittimazione politico-religiosa dell’Imamato e sull’imminente necessità di un vicario terreno. Khomeini sostenne l’idea che tutti i governi erano artificiali (al pari di Sant’Agostino) e suggerì di ricreare il modello islamico sulla terra. Nelle sue riflessioni, criticò le forme di governo occidentali perché la maggior parte di queste erano dittature in grado di legittimare un leader a opprimere il proprio popolo e, pertanto, era impellente la necessità di ripristinare lo stato di Dio, ossia uno stato dove l’ordine fosse garantito dagli esperti di legge islamica, i Faghih. In questa opera si leggono anche le prime critiche velate alla monarchia Pahlavi, Khomeini infatti accusò Reza Shāh di aver preso il potere attraverso l’uso delle forza, delegittimando il ruolo sacro di guida e andando contro la volontà divina. Per una lettura più esaustiva del pensiero di Khomeini in merito alla conduzione di governo si vedano: H. Ansari, Il racconto del Risveglio. Una biografia politica dell'Imam Khomeini, Irfan Edizioni, Roma, 1994; N. R. Keddie, Roots of Revolution: An interpretive History of Modern Iran, Yale University Press, New Haven, 1981.

78 Khomeini, rivolgendosi al monarca durante un discorso presentato alla scuola di Feyziyye, disse: “Povero sfortunato, sono passati, ormai, quarantacinque anni della tua vita, rifletti un poco. Cerca di osservare le conseguenze delle tue azioni. Impara un poco. Prendi lezione da tuo padre. Se è vero che tu sei contrario all'Islam e al clero, il tuo modo di pensare è sbagliato. Se, invece, le idee ti vengono dettate (dagli stranieri) allora prima di esprimere, rifletti! Signor Shah! Vogliono accusarti di essere ebreo, io invece ti accuso di essere un infedele così, ti manderanno subito via dal Paese” in R. M. Khomeini, “The Shah and Israel: the root of the people's suffering (3th of June, 1963)”, in R. M. Khomeini, Kousar: An Anthology of the speeches of Imam Khomeini, The Institute for the Compilation and Publication of the Words of Imam Khomeini, Teheran, vol. I, 2002, pp. 123-124.

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attaccò i dimostranti, uccidendone e ferendone a centinaia79 e lo sdegno per la morte di quegli innocenti

si ripercosse direttamente contro l’immagine del monarca, che ormai non doveva più solo difendersi

dalle accuse di Khomeini ma anche da quelle che il suo stesso popolo gli rivolgeva. Pochi giorni dopo

l’ayatollah fu scarcerato e una volta in libertà continuò le contestazioni con toni sempre più esasperati,

dando forza a sommosse pubbliche mai viste in precedenza.

La situazione era arrivata a un punto di non ritorno. L’ayatollah infatti aveva guadagnato troppa

notorietà agli occhi della popolazione, oramai incarnava le vesti del principale nemico dello Shāh e

Mohammad Reza Pahlavi, dal canto suo, era preoccupato per l’incolumità del trono (e della sua vita). In

totale segreto decise di espellerlo dal paese. Il 23 ottobre 1964, i servizi segreti irruppero nella casa di

Jamaran, portarono il religioso direttamente all'aeroporto di Mehrabad, facendolo salire su un aereo in

partenza per Ankara e la SAVAK comunicò ai giornali la partenza di Khomeini solo il giorno seguente,

giustificando l’arresto per gravi motivi di sicurezza interna. L’ayatollah restò in esilio quattordici anni e

in tutto questo tempo non smise mai di accusare Mohammad Reza Pahlavi, screditandone il potere ed

esortando gli iraniani all’insurrezione pubblica con messaggi scritti e sermoni, regolarmente registrati su

audiocassette e fatti entrare in Iran dai suoi sostenitori.

Nel gennaio del 1978, a Qom alcuni studenti delle scuole coraniche diedero inizio a una serie di

cortei in favore dell’ayatollah.80 Lo Shāh ordinò alla polizia di intervenire con il fuoco e ci furono morti

e feriti.

Khomeini, allora in esilio in Francia, in quell’occasione rispose dicendo ai suoi fedeli di non

desistere contro la ferocia del governo despota e di combattere l’infedele. Da questa prima protesta ne

seguirono molte altre e ogni volta la SAVAK rispose sparando sulla folla.

Il 19 agosto dello stesso anno scoppiò un incendio di natura dolosa al cinema Rex, che causò la

morte di 379 persone. In molti attribuirono la colpa, senza una giusta causa, alla polizia, accusando il

sovrano di creare disordine tra la popolazione e attaccarla con una ferocia ingiustificata.

Prima di quel momento nei cortei in strada si erano riversati solo studenti universitari e alcuni

personaggi appartenenti alla classe borghese, ma dopo quel tragico episodio anche gli operai, i bazarii e

79 In merito P. Abdolmohammadi ha messo a confronto i risultati delle ricerche fatte da Abrahamian con quelle di Pollack, facendo notare che nelle ricerche del primo si parla dell'uccisione di un numero che oscilla tra le centinaia e le mille persone, mentre nelle indagini del secondo si indica un numero di vittime poco superiore a trecento. Si rimanda a P. Abdolmohammadi, La repubblica islamica dell’Iran: il pensiero politico dell’Ayatollah Khomeini, De Ferrari, Genova, 2009, pp. 105, K. M. Pollack, The Persian Puzzle. The Conflict Between Iran and America, Random House, New York, 2005; E. Abrahamian, Iran Between Two Revolutions, cit…, Princeton, 1982.

80 Presumibilmente, le proteste scoppiarono a seguito di un articolo che accusava Khomeini di essere uno straniero, poiché il padre aveva origini indiane, e di non avere un adeguato spessore religioso, perché in passato aveva scritto poesie, cosa poco apprezzata da alcuni scienziati religiosi sciiti.

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la gente più semplice, stanchi della violenza ingiustificata del monarca, si unirono alle proteste.81 I

dissensi s’intensificarono nel mese di Ramadan e Mohammad Reza Pahlavi rispose imponendo la legge

marziale. L’11 dicembre 1978, giorno che coincise con la festa dell’Ashura,82 vi furono altre processioni:

a Teheran oltre un milione di persone occupò le strade della capitale e a Qazvin, durante le reazioni,

altre 35 persone persero la vita, schiacciate dai carri armati della polizia reale.83 Le morti di questi

contestatori fecero esplodere l’indignazione pubblica (nazionale e internazionale), rafforzando la causa

di Khomeini e nelle processioni iniziarono a comparire i primi striscioni che chiedevano la cacciata

dello Shāh e il ritorno dell’ayatollah. Anche il presidente Carter, dopo le pesanti accuse rivolte all’esercito

dello Shāh, diminuì l’appoggio al governo iraniano e molti stranieri iniziarono a lasciare il paese.

Tra la fine del 1978 e l’inizio del 1979, le rivolte invasero tutti i grandi centri abitati, la gente,

esasperata dalla violenza interna e dalla crisi endemica, continuava a chiedere un cambiamento di

governo che comportasse l’instaurazione di un sistema politico e la fine “dell’intossicazione da

Occidente”.84

Quello che stava succedendo era una rivoluzione scoppiata dal basso e provocata dalla

frustrazione popolare, capace di unire tantissime anime al suo interno, ognuna con una proiezione

diversa, ma tutte canalizzate verso la fine di un potere corrotto e succube dell’egemonia straniera.

Il 16 gennaio del 1979, Mohammad, alludendo a impegni lavorativi che lo avrebbero fatto

allontanare dal paese, decise di partire con la famiglia reale, lasciando per sempre l’Iran85. La fuga del

monarca diede a Khomeini il pretesto di rompere l’esilio forzato e ritornare in patria il 1° febbraio e,

con un volo dell’Air France, ritornò a Teheran dove fu accolto da una folla oceanica, che lo celebrò

quasi fosse il nuovo redentore.

81 All’inizio del 1978, oltre ad un continuo accrescersi della repressione militare da parte della polizia di stato, la situazione divenne ancora più difficile a causa dell’aumento della disoccupazione e dell’altissimo livello di proletarizzazione, provocati dalle riforme e dagli enormi flussi di capitali stranieri. Le persistenti difficoltà economiche, unite alla precaria situazione politica spinsero le cose verso l’istaurarsi di uno stravolgimento dell’intera struttura e dell’avvio del processo rivoluzionario.

82 Tutti gli anni i musulmani sciiti ricordano il martirio dell’Imam Hussein, il figlio di ‘Alī, morto nella battaglia di Kerbala durante il mese sacro di “Moharram”, nel giorno di “Ashura” (il decimo giorno dell’anno). In quell’occasione, i fedeli rivivono la perdita del loro Imam con processioni, dove si emulano le gesta di dolore con frustate e percosse. In migliaia si recano nelle moschee per ascoltare i discorsi degli scienziati religiosi e ricordare il martirio di Hussein e la battaglia tra il gruppo maggioritario dei sunniti e gli sciiti. Per una lettura approfondita si rinvia J. Wensinck, Mohammad and the Jews of Medina, Schwarz, Friburgo, 1975; B. Scarcia Amoretti, Sciiti nel mondo, Società editoriale Jouvence, Roma, 2015.

83 M. Axworthy, Breve storia dell’Iran, Einaudi, Torino, 2007, p. 274. 84 L’espressione “intossicazione da Occidente” deriva dalla retorica dello scrittore Jajal Al-e Ahmad uno degli

intellettuali, militanti di sinistra, che contribuì a creare il movimento ideologico in sostegno della rivoluzione ideologica contro la monarchia. Si veda M. Emiliani, M. Ranuzzi de’ Bianchi, E. Atzori, Nel nome di Omar. Rivoluzione, clero e potere in Iran, Odoya, Bologna, 2008, pp. 85-86.

85 Mohammad Reza Pahlavi si ritirò prima negli Stati Uniti, dove trovò assistenza medica per il cancro allo stomaco che lo stava consumando ormai da lungo tempo, e poi ottenne asilo politico in Egitto. La notizia della malattia fu resa pubblica solo quando il male aveva raggiunto lo stadio finale e Mohammad Reza morì al Cairo nel 1980. Le sue spoglie non furono mai rimpatriate in Iran e giacciono ancora in una moschea nella capitale egiziana.

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Il rientro di Khomeini sancì l’inizio di un nuovo ordine sociale e quella che era iniziata come

un’insurrezione contro la corona Pahlavi, tiranna e corrotta, divenne una vera e propria rivoluzione

nazionale che la storiografia ricorda come “la rivoluzione iraniana”, se non addirittura come “la

rivoluzione khomeinista”.

3.2 La nascita della Repubblica Islamica dell’Iran e il cambiamento politologico portato

dagli Ayatollah

Durante il periodo in esilio, trascorso rispettivamente in Turchia, in Iraq e nella periferia di Parigi,

Khomeini si distinse al pari di un vero e proprio uomo politico, il suo linguaggio divenne mediatico,

stemperò l’austerità della sua carica religiosa e iniziò a proporsi come un personaggio pubblico, facendo

diventare la lotta contro la monarchia, un evento di portata internazionale. Con veemenza incitò gli

‘ulemā’ ad abbandonare la teoria quietista in favore di quella rivoluzionaria e chiese alla umma (il popolo

di Dio) di non piegarsi alla corruzione e al secolarismo proposti dallo Shāh,86 ma di combattere per il

ritorno di un ordine sociale islamico che rispecchiasse la vera natura del popolo iraniano. Il carisma e la

spregiudicatezza gli permisero di creare scalpore attorno a sé, attirò l’attenzione del resto del mondo e

catalizzò l’interesse di tutte società musulmane verso una restaurazione delle forme socio-politiche

edificate sul sentimento maomettano.

Nel periodo trascorso in Iraq, trovò asilo nella città santa sciita di Najaf87 e qui rielaborò il

pensiero usulita degli scienziati sciiti, riportando in auge il pensiero secondo cui il velayat-e faqih (��� , و���

il vicario del profeta) era l’unica autorità degna di sostituire il profeta Muhammad e la società islamica

86 Durante i suoi discorsi pubblici Khomeini si rivolse con toni molto sfrontati al sovrano e in più occasioni lo chiamò “Shah in Shah”, accusandolo del peggiore dei titoli, ossia di essere il re dei re, il peggiore dei sovrani e di essersi impossessato di una carica politica di derivazione puramente occidentale, che non trovava alcun valore nel mondo musulmano. Mohammad Reza Shāh oltre a essersi autoincoronato, aveva anche dato alla sua persona la medesima condizione di Dio, offendendo i principi islamici.

87 Najaf è un luogo santo per gli sciiti perché ospita la tomba di ‘Alī, cugino e genero di Mohammad, che prese il comando della comunità musulmana nelle vesti di quarto califfo. Nel corso della storia islamica, Najaf divenne sia meta di pellegrinaggio, sia un importante centro per gli studi di teologia e di giurisprudenza islamica. Quando Khomeini si trasferì in Iraq riuscì a trovare un luogo ben propenso per la sua carriera politica e qui rafforzò i rapporti con i molti iraniani che si trovavano all’estero, come Abolhassan Bani Sadr, figlio dell’ayatollah Hamadan, che si trovava a Parigi e Ebrahim Yazdi, un altro giovane iraniano che aveva studiato fisica negli Stati Uniti, molto unito a Mehdi Bazargan, un’attivista iraniano. Le attività di propaganda non furono ben viste dal governo di Bagdad che in più occasioni chiese espressamente al clerico di astenersi da qualsiasi tipo di discorso politico, ma nonostante le intimidazioni Khomeini continuò nella sua lotta contro la monarchia Pahlavi, non badando al disappunto del governo che lo ospitava. Per un approfondimento sul il periodo in esilio trascorso in Iraq si veda B. Moin, Khomeini: Life of the Ayatollah, Thomas Dunne Books, 2000; E. Corboz, “Khomeini in Najaf: The Religious and Political Leadership of an Exiled Ayatollah” in Die Welt des Islams, vol. 2, n° 55, pp. 221-48.

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doveva essere guidata da un “governo islamico”.88 Secondo la rivelazione musulmana, infatti, Dio inviò

sulla terra i profeti, di cui Muhammad era il sigillo, ovvero l’ultimo messaggero che ne completava la

profezia per riferire il messaggio celeste.

Dopo di lui, la concezione sciita duodecimana89 riconobbe un potere di infallibili successori,

composto dai “dodici imam”, l’ultimo dei quali si trova ancora in occultamento e tornerà sulla terra

solo nel grande momento escatologico della fine dei tempi.

Khomeini, in assenza di un profeta scelto da ‘Allāh, propose che il comando della umma fosse

gestito da sostituti nominati tra gli scienziati religiosi più anziani, e tra questi guardiani uno in

particolare avrebbe assunto il potere di vicario e incarnato la figura di guida spirituale nella conduzione

terrena.90 Tale figura, essendo il sostituto di Muhammad ne era al pari, le sue decisioni avrebbero avuto

un valore assoluto e nessun’altra carica, né teologica, né giuridica, avrebbe messo in dicussione il suo

giudizio. Con questa proposta l’ayatollah era intenzionato a imporre una teocrazia e replicare l’esempio

perfetto del primo Stato islamico ove la shari’ā, la legge coranica, era concepita come la fonte giuridica

primaria e la umma si doveva affidare unicamente al dettato coranico e all’esempio dei profeti.91 Non

occorreva nessun’altra figura di riferimento se non il vicario del profeta, eletto a guida politica e

spirituale.

88 L’esilio in Iraq diede a Khomeini la possibilità di sviluppare il suo progetto politico, in favore di un nuovo ordine islamico e, durante quelle che passeranno alla storia come “le lezioni di Najaf”, il chierico elaborò il suo progetto politico noto come il “governo islamico”, che trae spunto dalle riflessioni fatte da altri studiosi del passato che già avevano elaborato teorie a favore di un vicariato e di un ritorno all’età dell’oro, quel periodo in cui Muhammad e i suoi seguaci istituirono il primo stato islamico e che per molti costituisce l’esempio politico perfetto da riproporre. Per una lettura delle considerazioni fatte da Khomeini sulla gestione politica si veda R. M. Khomeini, Il Governo Islamico, o l’autorità spirituale del giureconsulto (con prefazione di F. Cardini), il Cerchio, Rimini, 2006; per una lettura commentata sul pensiero di Khomeini si vedano H. Ansari, The Narrative of Awakening: a look at Imam Khomeini’s ideal and political biography (from birth to ascension), Centro culturale specializzato nelle opere dell’Imam Khomeini, Teheran, 1994; R. Guolo, La Via dell’Imam, L’Iran da Khomeini a Ahmadinejad, Laterza, Roma, 2007, per un commento sul sistema creato dallo stesso di veda M.R. Djalili, Diplomatie Islamique: Stratégie internationale du khomeynisme, Universitaire de France, Paris, 1989.

89 Il termine Shi’a significa letteralmente fazione e indica il gruppo minoritario di musulmani che sostennero la successione di ‘Alī, perché secondo una loro interpretazione, esso fu designato dallo stesso Muhammad come il successore legittimo. Pertanto i primi tre califfi, Abu Bakr, ‘Umar e Uthman sarebbero degli usurpatori. Lo sciismo duodecimano, altresì noto come sciismo imamita in relazione alla storia dell’imamato che ne derivò, si è poi costituito in tappe storiche. La prima tappa corrisponde a quando il comando passò ad ‘Alī, la seconda tappa coincide con la battaglia di Kerbala e la morte di Hussein, da cui ne deriva la martirologia sciita, la terza tappa è quella di Ga‘far al-Sadiq, sesto imam, considerato l’iniziatore delle scienze occulte e venerato negli ambienti sufi e la quarta tappa è quella dell’occultamento del dodicesimo imam, il Mahdi. Per un approfondimento sullo sciismo duodecimano e sulle numerosi correnti si rinvia a W. Madelung, Shi’a, in EI/2, vol. IX, pp. 420 ss.; S. Mervin, L’Islam. Fondamenti e dottrine, Mondadori, Milano, 2000, pp. 87-99.

90 L’idea di istaurare uno stato islamico nasce dal bisogno di aver un reggimento politico che non sia avulso dalla realtà spirituale e dalla dimensione metafisica, eliminando la laicizzazione e i modelli culturali desacralizzati che provengono da un Occidente, colpevole di relegare Dio unicamente nel regno dei cieli. Si veda A. Terenzoni, N. Venturi, La repubblica islamica dell’Iran, cit…, p. 49-68.

91 Per una lettura approfondita sulla nascita della prima comunità islamica e i fatti che hanno caratterizzato la rivelazione e la successione di Muhammad si rinvia a I. M. Lapidus, A History of Islamic Societies, Cambridge University Press, Cambridge, 2002.

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Nonostante la teorizzazione di un governo islamico, Khomeini ben presto si rese conto

dell’astrattezza di tale paradigma e dell’irrealizzabilità del progetto. Difatto, la realtà della società

iraniana contemporanea non si prestava all’applicazione perfetta di uno modello concepito al tempo

dell’ultimo profeta e necessitava di una conduzione più strutturata. Pertanto, l’idea di istituire lo stesso

Stato islamico fondato nel VII secolo dai primi fedeli rimase una mera teoria e l’ayatollah, rifacendosi

all’esempio di alcune istituzioni europee, propose una forma che unì l’esempio repubblicano ai principi

islamici della tradizione coranica. Da tale considerazione nacque la repubblica islamica dell’Iran, che

sostituì la monarchia filo-occidentale dello Shāh e sancì un paradigma politico-religioso inedito al

panorama musulmano.92

In questo nuovo paradigma, particolare importanza fu data all'unità islamica e al ruolo dei

religiosi, i quali divennero il principale motore del cambiamento e l'asse portante della trasformazione in

corso. I poteri legislativo ed esecutivo furono affidati ai lavori di un parlamento e di un governo

moderni, la legge coranica fu subordinata a un testo costituzionale e, sopra al volere di ogni organo

repubblicano, Khomeini nominò se stesso come Guida Suprema, quale supplente del profeta. A questa

carica spettò un potere assoluto, in grado di ratificare le scelte fatte da ogni altro rappresentante politico

e gli fu riconosciuta la possibilità di consultare un gruppo di esperti, composto rispettivamente da sei

scienziati di teologia e sei dotti in giurisprudenza islamica, nominati direttamente dalla stessa Guida

Spirituale.

Per affermare la rinascita dei principi coranici e un assetto fondato esclusivamente su di essi, il

controllo passò nelle mani dei conservatori e il processo rivoluzionario fece traghettare i pricipi della

rivoluzione verso un’essenza totalmente islamica. In questo modo l’ayatollah di Qom divenne sia il

leader del nuovo potere costituito, sia il padre di un capovolgimento ideologico che scardinò gli schemi

monarchici filo-occidentali93 e in seno alla nuova realtà nacque una propaganda a favore della

riconquista islamica e contro ogni forma d’imperialismo, che seppe abilmente recuperare dai movimenti

di sinistra parte delle proprie legittimazioni, introuducendo vocaboli inediti come Enqelab (rivoluzione),

92 Nel 1979, la nascita di una repubblica islamica ebbe una fortissima eco in tutto il mondo musulmano e per molti analisti, in quello stesso periodo l’invasione dell’Afghanistan, da parte dell’URSS, fu vista come mossa costretta e volta ad arginare il pericolo rivoluzionario che si stava creando nell’area centro-asiatica.

93 La rivoluzione iraniana arrivò proprio quando l’Occidente sembrava aver imposto i suoi modelli di sviluppo, le sue ideologie e le sue regole e riuscì a schierarsi contro ogni atteggiamento imperialista. Questo capovolgimento cercò di una parte della comunità islamica da ogni condizionamento esterno e si pose come un vero e proprio punto di riferimento per tutta la umma, intendendo aprire una nuova via, rispetto a quella creata dalle potenze dominanti con i processi di decolonizzazione che assicuravano sia lo sfruttamento delle risorse e dei mercati, in alcuni paesi considerati strategici. Agli occhi di molti occidentali, tale rivoluzione apparve un evento difficile da interpretare, poiché sfuggiva dalle categorie formatesi nella modernità. “Appare anche difficile capirne l’ordine interiore, così come la validità della sua guida politica e spirituale, poiché non si tratta né di “andare avanti” né di “ritornare indietro”, i principi, infatti sono la vera regola e costituiscono un “eterno ritorno” da tradurre nella sfera esistenziale umana. La spinta interiore di questa rivoluzione non ha dunque interessi extra-islamici, e la testimonianza di ciò sta nel risveglio che ha creato tra i musulmani oltre gli stessi confini dell’Iran, a stento controllato nell’Iraq e che neppure l’ennesima invasione sovietica è riuscita a schiacciare l’Afghanistan le cui risorse spirituali trascendono ogni forza esteriore” in A. Terenzoni, N. Venturi, La repubblica islamica dell’Iran, cit…, p.10.

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Azadi (libertà), Ideoloji (ideologia) ed Esteghlal (indipendenza)94.

Per affermare il nuovo assetto istituzionale furono allontanati tutti i sostenitori della monarchia,

furono bandite le mode occidentali, alle donne fu imposto di portare l’hijab e iniziò un duro periodo di

purghe contro chi aveva difeso la dinastia Pahlavi e non accettava il riformismo islamico. Ben presto la

“rivoluzione iraniana”, scoppiata nelle strade e difesa dalle masse, si trasformò in una “rivoluzione

islamica”, in favore di un rovesciamento fondamentalista in grado di unire nazionalismo, populismo e

radicalismo politico95 e, in difesa dei suoi ideali nacquero due milizie, la prima era composta da soldati

esperti chiamati i Guardiani della Rivoluzione (Sepah-e Pasdaran), l’altra era formata dai basij, giovanissimi

volontari che si arruolarono per difendere la causa patriota.96 Questi due eserciti acquisirono particolare

importanza, durante gli anni ’80, nello scontro tra Iran e Iraq (1980-1988), quando due intere

generazioni caddero al fronte.

Questo conflitto, descritto dalla leadership in carica come uno sforzo patriottico necessario, viene

ricordato dalla stessa storiografia iraniana come una “guerra imposta” (Jang-e tahmīlī)97 o anche una

“guerra santa”, combattuta contro Saddam Hussein, un nemico che incarnava un potere laico in antitesi

con gli ideali sciiti della repubblica e quindi con esplicite rivendicazioni religiose.

Durante gli otto anni di conflitto, il proselitismo khomeinista fece leva sul sentimento patriottico

e coniò i valori di “martirio” e di “sacrificio” per convincere che dietro la carneficina bellica ci fossero

dei motivi ideologici sacri e l’opera di persuasione fu talmente incisiva che questi elementi divennero

94 L’uso di un nuovo vocabolario, la diffusione d’ideali socialisti e l’affermarsi di un sentimento a favore dei movimenti di liberazione non sono elementi introdotti dal movimento rivoluzionario scoppiato nel ’78, ma sono il risultato di un fermento intellettuale proposto da altre voci, durante gli anni Sessanta-Settanta. In particolare si prenda in considerazione la propaganda del dottor ‘Alī e l’idea di difendere un socialismo islamico. Copiosa è la bibliografia di Shariati, e in questa sede si suggerisce M. Mahdavi, “One Bed and Two Dreams? Contentious Public Religion in the Discourses of Ayatollah Khomeini and ‘Alī Shariati”, in Studies in Religion, Sage, vol. 43, n. 1, 2014, pp. 25-52; si veda anche F. Khosrokhavar, O. Roy, Iran: Comment sortir d’une révolution religieuse, Seuil, Paris, 1999.

95 Abrahamian, Storia dell’Iran…, cit.., p. 169. 96 Il rapporto che si creò tra questi bambini-adolescenti e la figura mitizzata di Khomeini diede forma a un

legame emotivo talmente forte da superare la stessa appartenenza familiare. Guolo mostra come nel caso iraniano siano evidenti le forme del totalitarismo dove la repubblica sciita si afferma su tutte le strutture sociali, compresa la famiglia stessa. Nel caso dei basiji l’appartenenza elettiva a questo gruppo militare aveva una forza dirompente nelle giovani reclute che portava a manipolare le menti di questi bambini-soldato, la cui età oscillava tra i 12 anni e i 17. R. Guolo, La via dell’Imam…, cit., pp. 52-5; E. Karsh, The Iran-Iraq: Impact and Implications, Palgrave Macmillian, New York, 1989.

97 La guerra combattuta tra Iran e Iraq, iniziò il 22 settembre 1980 con l’invasione dell’Iran da parte dell’esercito di Saddam Hussein e passò alla storia come la più lunga guerra convenzionale del XX° secolo. Le cause del conflitto non sono da considerarsi solamente territoriali, poiché dopo il rovesciamento di potere e l’ascesa degli ayatollah tra i due stati iniziò un periodo di forte tensione politica che vide opporsi il pensiero laico del generale ba’thista Hussein contro il pensiero sciita dell’ayatollah Khomeini. Si vedano S. Chubin, C. Tripp, Iran and Iraq at War, I.B. Tauris & Co.; London, 1988; S. Gieling, Religion and War in Revolutionary Iran, I.B. Tauris & Co., London, 1999.

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vere e proprie specifiche fondanti della cultura politica del nuovo Iran98. A causa della fascinazione

creata intorno al concetto di morte, la battaglia si trasformò in un sacrificio a Dio e al grido di “Allah-u

akhbar” (Dio è il più grande) migliaia di uomini e ragazzi si offrirono per aprire il varco nei campi

minati. Al collo portavano delle medagliette, conosciute come le “chiavi del paradiso” e ammaliati

dall’idea che la loro emulazione gli avrebbe aperto le porte del cielo eterno si lanciarono contro il

nemico. La convinzione giustificò la figura dello shahid (il martire), creò il mito di coloro i quali

dovevano difendere la rivoluzione in cambio della vita eterna99 e legittimò l’esportazione del modello

rivoluzionario, anche attraverso i canali del terrorismo. Tuttavia, come ha sapientemente fatto notare

Valeria Fiorani Piacentini, la guerra imposta ebbe una duplice funzione in favore del nuovo potere

costituito, polarizzare l’attenzione iraniana su un nemico esterno, distraendola dai gravi problemi che

affliggevano il paese all’interno ed eliminare completamente una generazione che era stata istruita dallo

Shāh e poteva essere politicamente scomoda alla nuova leadership100.

98 Nella guerra contro l’Iraq furono uccisi e feriti oltre un milione d’iraniani. Il gran numero di caduti fu causato, in parte, dalla strategia di guerra scelta che basava la sua tattica sugli attacchi “a onda umana”, nei quali delle forze militari, composte per lo più da volontari e da giovanissime reclute, aprivano la strada ai Guardiani della rivoluzione. Inoltre, per quanto riguarda la dotazione militare, l’Iran aveva comprato, sul mercato nero, armi, di produzione sovietica, cinese e nord coreana, di media-bassa qualità e i soldati spesso gravarono sulla loro logistica affastellandole con pezzi incompatibili. Si veda R. Redaelli, “Primo caso paese: l’Iran”, in G. Pastori, R. Redaelli, L’Italia e l’Islam non arabo. Percezioni e priorità, Milano, 1999, pp. 92 ss.

99 Dopo la fine del conflitto, il sentimento di rancore crebbe e una parte della società iraniana si destò dal sogno artefatto della rivoluzione e smise di venerare i caduti in guerra come dei santi. Sono una piccola parte invece, quella più conservatrice, ancora oggi ne ricorda le gesta, mitizzandone immagini e ricordi. Nel cimitero di Behesht-e Zahra (il Paradiso di Zahra), situato nella parte a sud di Teheran vicino al mausoleo dedicato a Khomeini e ai suoi seguaci, è stata costruita una sezione dedicata ai martiri della guerra imposta, che ospita oltre 200.000 martiri e le tombe sono continue mete di visite e pellegrinaggi. Il governo ha anche costruito un museo interattivo dedicato alla guerra santa e alla promozione culturale della resistenza a Teheran, si veda http://en.iranhdm.ir/ (consultato il 17/03/2017).

100 In quegli anni, la società iraniana si spaccò in due e si creò una netta demarcazione tra i khody, i devoti sciiti fedeli alle politiche di governo e i kheyr-e khody, gli esclusi e i critici che invece non appoggiavano il rigore della Guida Spirituale. Si veda V. Fiorani Piacentini (a cura di), Il Golfo nel XXI secolo. Le nuove logiche della conflittualità, Il Mulino, Milano, 2002, p. 82.

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3.3 Lo stravolgimento degli assetti regionali e la politica di contenimento messa in atto da

Washington: dalla crisi degli ostaggi fino all’Ira�!�ibya Sa�cti�s Act

Nell’arena internazionale la creazione della repubblica islamica rappresentò un punto di rottura

per la stabilità degli assetti regionali e con l’ascesa degli Ayatollah, Teheran smise di essere un garante

degli interessi americani. I giochi di potere delle grandi amministrazioni furono messi completamente in

discussione e, se prima del 1979, il paese poteva essere definito un’isola di stabilità in Medio Oriente e

insieme all’Arabia Saudita costituiva uno dei pilastri portanti di Washington, dopo la rivoluzione, il suo

ruolo mutò completamente e gli Stati Uniti abbandonarono le vesta di gendarme esterno, in favore di

un impegno militare diretto101. La dottrina americana dovette riformulare una nuova strategia

d’intervento, riconsiderando due delicati momenti della questione iraniana che avevano palesemente

messo in discussione le certezze di Washington. Il primo faceva riferimento al crollo dello Shāh e alla

necessità di valutare nuovi orizzonti di sicurezza102. Il secondo, invece, si riferiva alla crisi degli ostaggi,

quando un gruppo di studenti iraniani occupò l’ambasciata americana e prese in ostaggio 53 persone

appartenenti al corpo diplomatico103. A seguito di tutto ciò, si aprì una vera e propria crisi diplomatica

tra le due cancellerie e la Casa Bianca, durante i 444 giorni di sequestro, trovò il pretesto di attaccare la

controparte sciita con una serie di rappresaglie, prima di natura diplomatica e poi di natura economica,

per costringere la leadership avversaria ad abbandonare la via della resistenza e adottare una linea più

accondiscendente104.

Inoltre, per mettere in difficoltà la finanza degli ayatollah Washington bloccò parte degli

investimenti iraniani depositati nelle banche statunitensi105 ed inflisse pressioni internazionali alle altre

potenze mondiali affinché adottassero le medesime linee di aggressione.

101 L’amministrazione in carica seguì le posizioni di Brzezinski, portando gli Stati Uniti a passare da offshore balancing power a extra-regional hegemon, impegnandosi nella creazione di un quadro di sicurezza.

102 In merito alla crisi iraniana, il dibattito politico statunitense si sviluppò attorno a due poli. Da un lato il segretario di Stato Cyrus Vance difese la tesi per cui la crisi iraniana era una risposta alle dinamiche regionali e Washington si sarebbe dovuta limitare a portare avanti una politica di sicurezza per delega. Dall’altro canto invece, il consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, era convinto che gli Stati Uniti dovessero intervenite militarmente nella regione, non solo in merito alla causa iraniana, ma anche contro il pericolo iracheno. Si veda P. Wulzer, Dalla Dottrina Eisenhower alla dottrina Carter: Gli Stati Uniti e la sicurezza per delega nel Golfo Persico (1956-1980), Roma, Nuova Cultura, 2015, pp. 265- 28.

103 Il 4 novembre del 1979 un gruppo di giovani iraniani irruppe negli uffici diplomatici statunitensi e sequestrò il personale presente. La cattura durò ben 444 giorni e mise in grave difficoltà l’amministrazione Carter. Si rimanda a D. P. Houghton, US Foreign Policy and the Iran Hostage Crisis, Cambridge University Press, Cambridge, 2004.

104 Il 19 gennaio 1981 per risolvere la crisi degli ostaggi, i due paesi firmarono gli Accordi di Algeri e il giorno seguente, che coincise con l’insediamento del nuovo presidente americano Ronald Reagan, furono liberati tutti i cittadini statunitensi e dati in custodia alla diplomazia algerina a Teheran. Si veda W. Christopher et al. eds., American Hostages in Iran. The Conduct of a Crisis, New Haven, 1985.

105 Ci sono diverse discussioni ancora aperte in merito al congelamento di questi valori e Fayamanesh parla di debiti per un valore di oltre 12 miliardi di dollari, accesi dalla famiglia Pahlavi presso la banca di Rockefeller. Per un approfondimento sui depositi iraniani si vedano K. Gillespie, “US Corporations and Iran at the Hague”, in Middle East Journal, vol. 44, n° 1, pp. 18-36; S. Fayamanesh, The United States and Iran. Sanctions, wars and the policy of dual containment, Routledge, London, 2008, p. 13.

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In concomitanza alla rivoluzione khomeinista, il 17 settembre 1980, il presidente Saddam Hussein

annunciò che ed era giunto il tempo di riprendersi quello che apparteneva di diritto agli arabi106, ossia la

cruciale via d’acqua dello Shatt al-Arab e tre isole del Golfo Persico107 e, cinque giorni più tardi, ordinò

alle sue truppe di invadere l’Iran, sostenendo il dovere di difendersi da un paese pericoloso che animava

l’indipendentismo curdo, finanziava il terrorismo di matrice sciita e incoraggiava tutti i musulmani della

regione a insorgere contro i governi laici.

Durante la guerra tra Iran e Iraq,108 Washington mantenne una posizione apparentemente

neutrale, non intervenendo militarmente a favore né dell’una, né dell’altra. Tuttavia, mise in atto una

serie di strategie e misure restrittive atte a indebolire l’ascesa iraniana e favorire la controparte

106 Quando l’esercito britannico lasciò il Golfo Persico, nel 1971, l’Iran prese militarmente il posto della corona inglese, occupando il vuoto politico lasciato da Londra e rimettendo in discussione la sovranità di alcuni spazi territoriali del Golfo che erano contesi dalla comunità irachena e da quella curda. Il 6 marzo 1975, lo Shāh Reza Pahlavi e Saddam Hussein, allora vicepresidente iracheno, firmarono gli “Accordi di Algeri”, un patto bilaterale che ridefinì i confini della pianura e delle acque dello Shatt al-Arab e consegnò la legittimità territorialità dello sbocco fluviale all’Iran. Con la firma di Algeri Teheran terminò il sostegno alle forze curde e in cambio Baghdad abbandonò la retorica rivoluzionaria baathista contro le monarchie arabe del Golfo.

107 Si veda H. Dessouki, The Iraq-Iran War, Princeton University Press, Princeton, 1981. 108 Durante la guerra imposta, accaddero alcuni episodi definiti dalla stampa internazionale “poco gloriosi” che

misero in seria discussione la politica estera statunitense. Il primo fu l’Iran-Contras gate, quando alcuni ufficiali statunitensi, attraverso l’aiuto di Israele, vendettero all’Iran una fornitura di missili terra-aria Hawk e pezzi di ricambio (il carico arrivo insieme a una torta al cioccolato proveniente da una panetteria kasher di Tel Aviv e altri regali). Il secondo, datato 3 luglio 1988, ebbe come protagonista una nave da guerra americana, la USS Vincennes (CG-49), che dopo essere entrata nelle acque iraniane aprì il fuoco verso alcune cannoniere e colpì con due missili terra-aria un aereo di linea iraniano, l’Iran Air Flight 655, uccidendo i 290 passeggeri a bordo. Nonostante la gravità, l’incidente ebbe una scarsissima eco e per molti analisti questo non fu altro che la riprova dell’isolamento politico di Teheran. In merito all’accaduto l’amministrazione Reagan fornì versioni contrastati, ribadendo la causa accidentale. Il capitano avrebbe infatti confuso l’Iran Air Flight 655 con un F-14 Tomcat, ossia un velivolo da guerra. Dopo due settimane dall’incidente dell’incrociatore americano Vincennes, Iraq e Iran accettarono la Risoluzione 598 delle Nazioni Unite, che imponeva di cessate il fuoco. La repubblica sciita aveva rifiutato la stessa risoluzione l’anno precedente, perché voleva che l’ONU condannasse l’aggressione iniziale dell’Iraq, ma dopo il caso Vincennes Khomeini desisté e accettò l’ultimatum della comunità internazionale. Nel 1982 Khomeini rifiutò la prima risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU che chiedeva la fine del conflitto e il ripristino dei confini internazionali e il piano di pace proposto dalla Lega Araba. Nell’aprile dell’84 Saddam propose a Khomeini di incontrarsi in un paese terzo per negoziare la fine del conflitto, ma l’ayatollah negò ogni compromesso. Nel 1985 il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Pérez de Cuellar, propose nuove mediazioni che furono respinte dall’Iran, il quale insistette nella condanna ufficiale dell’Iraq come aggressore, chiedendo il pagamento dei danni di guerra e l’allontanamento del generale Hussein. Nel luglio del 1987, l’Iraq accettò la risoluzione Onu che decretò la fine del conflitto e l’apertura dei negoziati ma Teheran respinse la proposta perché chiedeva che fossero rispettate le sue condizioni.

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irachena.109 Il leader ba’thista, infatti, grazie al supporto delle cancellerie occidentali110 riuscì ad avere

importanti aiuti economici, diplomatici e d’intelligence e con questi armò le sue milizie con un arsenale

nettamente superiore alla controparte.

Nel febbraio del 1982, l’amministrazione Reagan, nonostante la contrarietà del Congresso, tolse

l’Iraq dalla lista dei paesi accusati di terrorismo e due anni dopo v’inserì l’Iran, con l'insinua di finanziare

gruppi terroristici (tra cui il partito libanese Hezbollah e il movimento islamico di Hamas) ed emise una

serie di ordini restrittivi contro la stessa, chiedendo alla comunità internazionale di non fornire a

Teheran alcun tipo di assistenza, vietando ogni credito finanziario e ostacolando il rifornimento di armi.

Il 20 ottobre 1987, il Presidente Reagan emanò un altro ordine esecutivo con il quale proibì a

qualunque merce di origine iraniana111 di entrare in territorio statunitense e negò la vendita di forniture

appartenente al settore militare.

Gli anni della guerra imposta coincisero con un lungo e tortuoso periodo nel quale anche il paese

degli ayatollah seppe giocare la sua guerra fredda, accettando i primi aiuti dell’Unione Sovietica112 e della

Cina popolare. Nello scacchiere internazionale divennero evidenti le geometrie relazionali e le politiche

di marginalizzazione, per cui le distinte appartenenze sciite e sunnite catalizzarono specifiche alleanze.

L’Egitto diede il suo appoggio politico all’Iraq e la Siria si mise in difesa dell’Iran. A tutto ciò si aggiunse

l’intelligence israeliana che rivelò all’opinione pubblica mondiale che Saddam Hussein stava usando

109 Alcuni analisti definirono gli anni Ottanta come una perfetta base preparatoria per quella che fu la dottrina del “doppio contenimento”, applicata in Medio Oriente dall’Amministrazione Clinton, proprio perché il non intervento militare di Washington, voluto durante la guerra imposta, coincise con una totale disfatta delle parti coinvolte, il che avvantaggiò notevolmente la posizione di forza statunitense. Secondo questa visione la Casa Bianca lasciò che il conflitto durasse il più a lungo possibile per far si che l’Iran di Khomeini e l’Iraq di Saddam si distruggessero a vicenda. Iran e Iraq possedevano enormi riserve di petrolio e di gas ed erano gli unici due paesi della regione a essere estranei all’architettura di sicurezza, creata da Washington. Inoltre come ha fatto notare R. Kaplan “l’Iran è l’unico paese che si estende dal Golfo al Caspio, ed è in grado di far convergere gli interessi di Mediterraneo, Mar Nero, Cina e Oceano Indiano”. Si rimanda a R. Kaplan, The Revenge of Geography: What the map tells us about coming conflicts and the battle against fate, Random House, New York, 2012.

110 Tra cui Francia, Cina, Egitto, Gran Bretagna, Germania, Italia e URSS. Inoltre, l’Iraq firmò nel 1972 un trattato “di amicizia e cooperazione” con Mosca, preoccupata, in particolare, a indebolire il ruolo iraniano in Asia centrale. Si veda P. Conge, G. Okruhlik, “The Power of Narrative: Saudi Arabia, the United States and the Search for Security”, British Journal of Middle Eastern Studies, vol. 36, Gulf Security: legacies of the Past, Prospects for the Future, n° 2, 2009, pp. 359-374.

111 Con l’eccezione del greggio iraniano, purché raffinato da un paese terzo. 112 Dopo la rivoluzione, Mosca, nonostante il suo rinomato ateismo scientifico, approvò il rovesciamento di

potere portato avanti dal clero sciita e la fine della monarchia Pahlavi perché venne meno la presenza statunitense nella regione.

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(ancora) armi chimiche, questa volta non solo contro le minoranze curde, ma anche contro gli iraniani

al fronte.113

Nei primi anni Novanta, con la Presidenza Clinton iniziò un’escalation di misure punitive verso

l’Iran, coordinata da una formula d’isolamento, meglio nota come la politica del “dual containment”, che

si prefiggeva l’obiettivo di indebolire direttamente ed indirettamente ora Teheran, ora Baghdad, facendo

leva sull’antagonismo religioso, etnico e settario e alimentando gli odi e i rancori mai sopiti delle due

anime. Al contempo la strategia cercava di rafforzare i rapporti statunitensi con la terza forza regionale,

l’Arabia Saudita, che avrebbe assunto il ruolo di nuovo “caposaldo islamico” nell’area, andando così a

sostituire la figura di gendarme che aveva ricoperto lo Shāh negli anni Settanta.

I consiglieri Martin Indyk ed Anthony Lake misero in atto questa strategia con il chiaro obiettivo

di rovesciare il regime iracheno ed emarginare politicamente ed economicamente la repubblica sciita e,

tutte le decisioni degli Stati Uniti iniziarono a prendere una direzione palesemente anti-iraniana. Nel

1993, quando l’Iran cercò di ottenere un prestito dalla Banca Mondiale, il Segretario di Stato Warren

Christopher accusò Teheran di essere un attore pericoloso e poco affidabile, perché sosteneva il

terrorismo di matrice islamica e stava lavorando per dotarsi di un’arma di distruzione di massa114. Nel

1994, l’Iran fu fatto rientrare nella presunta categoria degli “Stati canaglia” (rogue states)115, quei paesi

considerati pericolosi per la pace del mondo poiché legati al terrorismo e intenzionati a sviluppare armi

chimiche. Nel Marzo del 1995, con le pressioni dei Repubblicani e del Senatore Alphonse D’Amato,

Washington emise un altro ordine esecutivo che proibiva ai cittadini americani di svolgere qualsiasi tipo

di attività finanziaria o commerciale che avesse legami con i settori degli idrocarburi e dei prodotti

petrolchimici iraniani e, a maggio dello stesso anno, fu emesso un embargo totale che bandiva qualsiasi

113 Il regime iracheno iniziò a usare armi chimiche già negli anni Sessanta contro gli indipendentisti curdi. Poi, negli anni Ottanta riprese a usare le armi batteriologiche, per sedare l’indipendentismo interno e attaccare l’esercito iraniano al fronte. Il 15 aprile 1987 furono attaccati alcuni villaggi nelle provincie di Suleimaniya e di Arbil, poi il 16 e il 17 marzo fu rasa al suolo, con un composto chimico letale, la città di Halabja. Il bilancio delle vittime fu di almeno dodicimila morti. La ferocia irachena continuò, dal 25 agosto al 9 settembre1988, quando Saddam attaccò la regione curda del Badinan. L’ONU rispose con una risoluzione generica e non adottò alcuna sanzione internazionale, giustificando che si trattava di una questione interna allo stato iracheno.

114 “When Iran tried to get a loan from World Bank, Christopher branded Iran as one the principal sources of support for terrorist groups around the world and accused it of determination to acquire weapons of mass destruction”, The New York Times, March 31th, 1993, in S. Fayazmanesh, The Unites States and Iran, cit…, p. 71.

115 Durante l’amministrazione Clinton (1997-2000) si scatenò una denuncia contro i cosiddetti “Rogue States” (Stati canaglia) e, all’epoca dei fatti descritti, il consigliere di Stato Anthony Lake né indicò specificatamente cinque: Iran, Iraq, Cuba, Corea del Nord e Libia. Secondo la retorica di Washington, tale etichetta indicherebbe uno stato che non rispetta gli obblighi del diritto internazionale e che si prenderebbe beffa della comunità internazionale, per trarre un proprio beneficio. A riguardo della politica americana e dell’uso dell’etichetta di “rogue state”, Noam Chomsky sostiene che le vere canaglie sarebbero invece coloro i quali hanno pensato a tale definizione, mediando un linguaggio accusatorio e puntando a determinate conseguenze strategico-militare, ossia gli Stati Uniti. Si rimanda a N. Chomsky, Rogue States. The Rule of Force in World Affairs, South End Press, Cambridge 2000; tr. It. Di V. Segreto, Egemonia americana e stati fuorilegge, Dedalo, Bari, 2002; si veda anche J. Derrida, Stati canaglia: due saggi sulla ragione, Cortina, Milano, 2003, pp.141 ss.

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commercio tra Stati Uniti e Iran. Nell’agosto del 1996, fu ratificata una legge che approvava l’Iran

Sanctions Act (conosciuta anche come ILSA perché estesa anche alla Libia), un pacchetto di misure

restrittive contro le compagnie straniere che avessero aiutato l’Iran a sviluppare nuovi progetti nei

settori del petrolio e del gas iraniano, per investimenti superiori a 20 milioni di dollari l’anno.116

Molti paesi e grandi compagnie si opposero alle decisioni statunitensi, come la francese Total117

che continuò a fare affari con l’Iran, portando avanti importanti sviluppi e firmando importanti

commesse, ma l’ostracismo oltre oceano continuò ad inasprirsi.

Nel 1997, fu eletto come quinto presidente dell’Iran l’hojjat-ol-islam Mohammad Khatami,118 un

riformista che aprì il paese al dialogo e alla conciliazione in particolare con l’Europa.119 Questo

presidente dovette gestire la difficoltà di un effettivo dualismo, dove vi era da una parte la salvaguardia

dei principi rivoluzionari e dall’altra la necessità di superare alcuni aspetti dogmatici, tra cui l’esistenza di

un potere clericale tanto forte quanto refrattario a risolvere i problemi emergenti (come la condizione

femminile e il ruolo dei giovani).

L’Iran riguadagnò credibilità in termini di apertura economica e commerciale tra i Paesi del

Golfo, la cauta retorica della nuova leadership politica riuscì a stemperare la tensione che si era creata,

distogliendo l’attenzione su una presunta minaccia di proliferazione di armi nucleari e con questo

presidente moderato la politica estera adottò una linea più distesa, a favore delle relazioni globali. Nel

2002, sulla scia di una conduzione all’insegna del riavvicinamento, l’Iran firmò con l’Europa una serie di

accordi, sia di tipo commerciale, sia di cooperazione per la lotta al terrorismo, facendo presagire una

normalizzazione.

116 L’Iran Sanctions Act of 1996 è consultabile on line: https://legcounsel.house.gov/Comps/Iran%20Sanctions%20Act%20Of%201996.pdf (consultato il

17/03/2017). 117 Il 28 settembre 1997 la Total firmò un contratto di migliaia di dollari con l’Iran, per portare avanti lo

sviluppo dei bacini dell’area marittima di South Pars. 118 Mohammad Khatami è un seyyed, un mullah dal turbante nero discendente dalla famiglia del Profeta

Muhammad, e un filosofo, formatosi tra le scuole di teologia di Qom e Isfahan. Durante i suoi due mandati propose una visione politica in grado di coniugare l’identità storica a quella moderna e, riprendendo in auge il principio del mardom-salari, riconobbe che la validità dello stato islamico era espressamente vincolata dalla legittimazione popolare e non dallo strapotere religioso creatosi nella repubblica. In proposito parlò di “democrazia religiosa” e di pluralità, enfatizzando il ruolo del popolo e la necessità di stemperare quel fascismo religioso che si era creato. Le sue teorie e le sue concessioni in termini di libertà di stampa furono duramente criticate dai conservatori che imposero una repressione capillare. Il 1999 sarà ricordato come l’anno dei processi contro giornalisti e scrittori

119 Nei discorsi legati all’Occidente, Khatami distingue l’Occidente, in quanto struttura politica, dall’Occidente in quando paradigma di una cultura millenaria ed è a quest’ultimo che rivolge la sua attenzione e la sua stima. Si veda R. Guolo, La via dell’Imam ..., cit., pp.77-105.

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3.4 La questione del nucleare iraniano e la risposta internazionale durante le trattative per

una soluzione pacifica

Dai primi anni 2000 l’Iran è stato posto al centro dell’attenzione mondiale a causa della questione

di un processo, noto come “l’arricchimento dell’uranio”, che riguarda la fase principale della

produzione del combustibile nucleare, acconsentito e disciplinato dall’articolo IV del Trattato di Non

Proliferazione (TNP), del 1968120 in quanto necessario per la produzione di energia.

Il caso dell’uranio iraniano nacque nel 2002,121 quando un gruppo dissidente denunciò

all’opinione pubblica l’esistenza di due impianti tenuti segreti dalle autorità iraniane: un reattore ad

acqua pesante ad Arak e un impianto di arricchimento dell’uranio a Natanz.

La notizia destò un significativo allarme perché le attività di ricerca sviluppatesi in questi siti non

erano state notificate all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), come previsto dal TNP

e, quando nel febbraio del 2003, gli ispettori dell’AIEA eseguirono una serie di campionature presso la

centrifuga di Natanz ammisero di fatto l’esistenza di particelle di uranio altamente arricchito. Per reagire

al discredito internazionale122 e stemperare l’enorme tensione politica creatasi, Teheran, da prima, si

difese sostenendo che nessuna stazione iraniana era in grado di produrre uranio arricchito in quella

particolare percentuale e la fonte aveva necessariamente un’origine esterna poi, interruppe

volontariamente le attività di arricchimento e la rilavorazione dell’uranio ed infine, il 18 dicembre 2003,

firmò il protocollo aggiuntivo al TNP aprendo agli ispettori dell’AIEA l’accesso agli impianti nucleari e

120 L’Iran firmò il Trattato di Non Proliferazione nucleare (TNP) nel 1968, e lo ratificò nel 1970 accettando i tre principi relativi: al disarmo, alla non proliferazione e l’uso pacifico del nucleare. La repubblica sciita però ma non ha mai voluto firmare il protocollo addizionale, adottato nel 1993, che garantirebbe un maggior controllo da parte dell’AIEA. Va specificato che, in base all’articolo IV del TNP, un paese può gestire un intero ciclo di produzione del materiale combustibile. Inoltre va ribadito che il trattato si basa su un principio che non è mai stato rispettato poiché stabilisce il progressivo disarmo nucleare dei cinque paesi a cui era stato riconosciuto il diritto di possedere armi di distruzione di massa: Cina, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Russia. Dopo quasi cinquant’anni nessuno di questi paesi ha smantellato i loro arsenali atomici, conformandosi con l’articolo VI.

121 Nel 1983, l’AIEA offrì il suo sostegno tecnico a Teheran per iniziare la costruzione dei primi reattori e l’avvio del ciclo di combustibile. L’Iran rifiutò gli aiuti occidentali e Francia e Germania, che avevano già iniziato a fornire uranio arricchito necessario per lo sviluppo del progetto, interruppero le relazioni commerciali con il paese degli ayatollah e si rifiutarono di restituire i migliaia di dollari che Teheran aveva già anticipato. Negli anni Novanta, il governo iraniano riprese mano al progetto di costruire con la Russia una centrale elettronucleare nell’impianto di Bushehr, sulla costa del Golfo. Secondo una specifica clausola, Mosca s’impegnò a ritirate tutte le barre di combustibile esaurito, riportandolo in Russia, per garantire la non rilavorazione dell’uranio per altri scopi.

122 L’allarme di una possibile traccia di uranio arricchito scatenò quella parte di comunità internazionale che aveva già etichettato l’Iran come un paese da cui difendersi. L’Iran era stato accusato dal George W. Bush di far parte del cosiddetto “Asse del Male”, insieme a Corea del Nord e Iraq, poiché esportava terrore e negava speranza e libertà alla sua popolazione, ma va ricordato che, nello stesso periodo, la medesima amministrazione si diceva pronta a mostrare al mondo intero i legami tra il fondamentalismo islamico di Osama bin Laden e il partito laico di Saddam Hussein. Nel discorso del presidente americano, datato 29 gennaio 2002, in riferimento ai suddetti tre paesi si legge: “States like these, and their terrorists allies, constitute an axis of evil, arming to threaten the peace of the world. By seeking weapons of mass destruction, these regimes pose a grave and growing danger. They could provide these arms to terrorists, giving them the means to match their hatred. They could attack our allies or attempt to blackmail the United States.”

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ai siti militari di Natanz, Isfahan e del complesso di Kolahdouz. Tra il giugno 2004 e il gennaio 2005,

l’Agenzia svolse altre indagini nei complessi di Lavisan-Shian e di Parchin ed in entrambi i siti non

furono trovate alcune tracce di materiale nucleare altamente arricchito, ma furono scoperte delle parti di

centrifughe P2 non dichiarate.

A causa di una serie inaspettata di false prove e fuorvianti dichiarazioni da parte dell’Iran, la

situazione divenne più complessa. Il paese degli ayatollah si diceva infatti pronto a collaborare con gli

ispettori ma al contempo eludeva sull’esistenza di alcuni siti di arricchimento e forniva informazioni

contraddittorie, mettendo in chiara difficoltà ogni tipo di accertamento. Nel marzo 2004, la dirigenza

Bush decise di inasprire il regime sanzionatorio estendendo di un anno le restrizioni che erano state

varate nel 1995 da Clinton e riconfermando il divieto per le compagnie statunitensi e le loro affiliate

straniere, di stipulare accordi commerciali con la repubblica sciita e negò qualsiasi collaborazione

statunitense con le compagnie petrolifere iraniane.123

L’anno seguente, alle elezioni presidenziali del 24 giugno 2005 fu eletto come sesto presidente

dell’Iran Mahmoud Ahmadinejad,124 considerato dai ceti più poveri un modello d’integrità religiosa per

via del suo stile di vita semplice, dell’immagine di cittadino ordinario che lo distingueva e dell’austerità

morale che perseguiva.125

Con lui iniziò un’epoca all’insegna della protezione nazionale, che coincise con un triste

isolamento e le scelte politiche di questi otto anni dimostrarono quanto ancora la società iraniana fosse

legata al pensiero khomeinista, influenzata dal suo orientamento egemonico e dal mito della lotta

rivoluzionaria.

I toni conciliatori del fuoriuscente Khatami furono presto abbandonati a favore di un

atteggiamento radicale e minaccioso, che spinse il paese a una progressiva chiusura internazionale.

Ahmadinejad si distinse per una politica aggressiva e un linguaggio molto provocatorio. Minacciò

non solo i nemici vicini (in particolare Israele) ma l’intera stabilità regionale e aggravò i già tesi rapporti

con Stati Uniti. Durante i suoi due mandati, impose una linea molto conservatrice, poco propensa ad

123 L’Iran però aveva piani molto ambiziosi ed era deciso ad aumentare le sue forniture portando la produzione del petrolio a cinque milioni di barili al giorno, entro il 2010, pertanto durante il periodo sanzionatorio imposto da Washington, virò la sua attenzione verso Oriente, in particolare verso una Cina assetata di energia, Giappone, Corea del Sud e Taiwan e con loro iniziò floride collaborazioni.

124 Mahmoud Ahmadinejad è un islamico militante, formatosi nella divisione delle Guardie della rivoluzione. Si laureò in ingegneria civile, proseguì i suoi studi con un dottorato in pianificazione del traffico e dei trasporti e divenne professore presso il dipartimento d’ingegneria civile nell’Università della Scienza e della Tecnologia di Teheran. Durante gli otto anni di presidenza, nella sua retorica comparve continuamente il concetto di rivoluzione islamica e tra il 2005 e il 2013 rafforzò enormemente le relazioni con i movimenti islamici sciiti, quali Hezbollah e le componenti jihadiste in Palestina. Fecero inoltre scandalo le sue dichiarazione del 2005, quando propose la distruzione dello stato di Israele e negò l’esistenza dell’olocausto, sostenendo che era un mito inventato.

125 “Ha una Peugeot vecchia di trent’anni e durante la campagna elettorale diceva che i soldi delle mafie del petrolio dovevano finire sul sofreh (il tappeto per mangiare) degli iraniani poveri” in V. Maddaloni, A. Modini, L’atomica degli Ayatollah, cit…, p.113.

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assecondare le intimazioni dell’Occidente e decisa, a qualunque costo, a tutelare il diritto di portare

avanti il proprio programma nucleare.126

Nel gennaio 2006, dopo due anni di collaborazione con l’Agenzia (2003-2005), l’Iran lamentò di

aver ricevuto in cambio solo ostracismo, specie dall’amministrazione statunitense che perseguiva le

accuse di voler produrre un’arma di distruzione di massa senza alcuna prova sostanziale e in forza di

questo, con una lettera indirizzata al Presidente dell’AIEA, i rappresentanti iraniani informarono

l’Agenzia di voler riprendere il proprio programma nucleare e chiesero la rimozione dei sigilli applicati

alla centrale di Natanz.127

Nella documentazione fornita, la Repubblica Islamica si disse completamente disposta a

collaborare con i supervisori, rispettando lo statuto dell’Agenzia e il TNP, ma allo stesso tempo ribadì

di non voler rinunciare alle proprie ricerche, come previsto dalla normativa internazionale. In cambio

l’AEIA rispose con una serie di risoluzioni, dove intimò a più riprese la dirigenza degli ayatollah

d’interrompere ogni attività legata al programma nucleare per lasciare agli espettori la possibilità di

accertare che non vi fossero altri impianti di arricchimento tenuti segreti o altro materiale altamente

arricchito, come avevano dimostrato i controlli del 2003.128

Nell’ambito di un approccio integrato che abbinò impegni e pressioni, iniziarono delle lunghe

trattative che durarono oltre dieci anni e videro intervenire nella mediazione diplomatica il Consiglio di

126 Secondo le dichiarazioni di Rajab Saparov, il consigliere del parlamento russo, l’Iran sarebbe l’unico paese al mondo dove per legge è vietata la costruzione di armi di distruzione di massa e le pressioni statunitensi verso gli ayatollah non sono legate a una paura nucleare, ma sarebbero piuttosto giustificate dall’influenza che la repubblica sciita verso l’Iran, l’Asia centrale e il Caucaso. Si veda G. Kemp, Iran and Iraq, The Shia Connection, Soft Power and Nuclear Factor, United States Institute of Peace, 6 December 2005; https://www.usip.org/publications/2005/11/iran-and-iraq-shia-connection-soft-power-and-nuclear-factor (consultato il 21/03/2017).

127 Il presidente Ahmadinejad ha sempre dichiarato che il paese voleva produrre nucleare a soli scopi pacifici, come previsto dal diritto internazionale, e negò qualsiasi scopo militare. Quando l’Iran decise di riprendere le sue ricerche, il rappresentante iraniano presso l’AIEA, il 24 gennaio 2006, inviò una lettera al Presidente dell’Agenzia dove si legge il disappunto di Teheran nel confermare che da parte degli Stati Uniti, nei due anni in cui l’Iran sospese volontariamente il suo programma, è continuata una campagna politica discriminatoria contro la repubblica sciita. Nella lettera si legge: “Negli ultimi 27 anni la repubblica islamica dell’Iran ha cooperato con l’Agenzia e ha dato il suo impegno firmando il Trattato di non Proliferazione Nucleare. L’Iran è il solo stato membro che volontariamente ha invitato, negli anni ’80, gli ispettori dell’IAEA aprendo le porte dei suoi siti e facilitando ogni lavoro di controllo, anche nei siti non dichiarati dall’accordo di sicurezza. […] Dopo che gli ispettori hanno trovato particelle arricchite di uranio nel sito, l’Iran ha aperto l’accesso a 27 dei suoi siti militari agli ispettori dell’IAEA e negli ultimi due anni le ispezioni sono state effettuate in maniera costante, arrivando a superare le 1400 ore-uomo. […] Dopo più di due anni e mezzo di sospensioni volontarie, la questione della contaminazione è stata risolta e non c’è ragione per il governo iraniano di vedere privata la sua nazione del diritto inalienabile di continuare le proprie ricerche per lo sviluppo interno.” Per consultare il testo originale si veda: https://www.iaea.org/sites/default/files/publications/documents/infcircs/2006/infcirc665.pdf (consultato il 21/03/2017).

128 Le paure derivano dal fatto che l’uranio, debolmente arricchito, noto anche come LEU, servirebbe come combustibile per le centrali nucleari ma la tecnologia legata alla sua produzione è di dual use e quindi potrebbe essere impiegata anche per produrre HEU, l’uranio altamente arricchito, passando così da fini civili a scopi militari. Si rimanda a R. Redaelli, L’Iran contemporaneo, Carocci, 2009, p. 127.

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Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC),129 Stati Uniti ed Unione Europea, quest’ultimi con l’applicazione

progressiva di misure unilaterali contro il governo iraniano, perseguendo il chiaro intento di colpire i

settori nevralgici dell’economia e mettere in ginocchio la leadership conservatrice.130

Nonostante l’intenzione comune di indebolire la dirigenza di Ahmadinejad, la situazione non

appariva molto chiara e all’interno dello stesso Consiglio si evidenziarono profonde differenze tra i

cinque membri permanenti: gli Stati Uniti, infatti, erano convinti che gli ayatollah avessero uranio

necessario per costruire un’arma di distruzione di massa; l’Unione Europea voleva risolvere la questione

con la mera diplomazia, la Russia e la Cina erano contrarie a ogni misura coercitiva, tantoché Mosca

propose di trasferire l’arricchimento dell’uranio iraniano sul suolo russo131 e l’Iran era sempre più

determinato a difendere i suoi diritti alla tecnologia di arricchimento.

Il 31 luglio 2006, con la risoluzione n.1696,132 l’ONU diede all’Iran un termine di trenta giorni per

sospendere le attività nucleari e, in caso d’inosservanza, annunciò l’applicazione di sanzioni, in base

129 Solo nel biennio tra il 2006 e il 2008 il Consiglio emise quattro risoluzioni contro la repubblica islamica dell’Iran, ma la questione iraniana non riguardò solo i problemi della sicurezza internazionale perché l’attenzione fu posta anche sulle violazioni dei diritti umani e le dure restrizioni imposte alle libertà di pensiero e di stampa. Durante il regime sanzionatorio, l’attenzione statunitense si concentrò sul programma nucleare, mentre fu solo l’Europa a dare un segnale di preoccupazione per le condizioni del popolo iraniano, dal momento che giungevano continue notizie di torture e condanne verso i giornalisti e gli intellettuali contrari alla visione conservatrice della leadership. Nel rapporto 2009-2010 l’organizzazione Human Right Watch pubblicò un rapporto sull’Iran dove si evince un peggioramento delle condizioni delle libertà individuali e dei diritti fondamentali in generale nel paese. Si rimanda al sito: https://www.hrw.org/world-report/2010/country-chapters/iran (consultato il 23/03/2017).

130 Sulla liceità di tale inasprimento si è aperto un vero e proprio dibattito pubblico, talché alcuni ricercatori sono arrivati a definirlo “intrusivo” poiché avrebbe leso i diritti di sostenere lo sviluppo economico dell’Iran e avrebbe inficiato negativamente sulla popolazione. Si rinvia ad A. Orakhelashvili, “Sanctions and Fundamental Rights of States: The Case of EU Sanctions Against Iran and Syria”, in M. Happold, P. Eden, Economic Sanctions and International Law, Hart Publishing, Oxford, 2016, pp. 13-36.

131 La suddetta proposta fu rifiutata, ma va ricordato che sarebbe stata da escludere a priori poiché nega l’inviolabile diritto di uno stato sovrano, riconosciuto dal TNP. Le relazioni bilaterali tra Teheran e Mosca proseguirono su un binario parallelo, in favore di un’intesa sempre più solida, dove l’antiamericanismo divenne il primo collante. Nel febbraio del 2006, Russia e Iran stipularono un contratto per un valore di 800 milioni di dollari per la costruzione di una centrale nucleare sul suolo iraniano e per la fornitura di combustibile.

132 Per consultare la risoluzione si rimanda al sito: http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/RES/1696%282006%29 (consultato il 24/03/2017).

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all’articolo 41 del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite.133 Teheran rispose che non avrebbe

sospeso i lavori e presentò una controproposta in cui invitava il Consiglio a formulare nuove

condizioni.134

Nel frattempo però il programma nucleare continuò i suoi sviluppi e ad agosto, ad Arak, il

presidente iraniano, durante l’inaugurazione di un nuovo impianto in grado di produrre 16 tonnellate

annue di acqua pesante, dichiarò che da aprile 2006 ad agosto dello stesso anno il livello di

arricchimento dell’uranio era passato da 3,5% a 4,8%.135

Il 23 dicembre 2006, con una seconda risoluzione, la n.1737, il Consiglio adottò una serie di

misure che vietarono la vendita e il trasferimento all’Iran, di prodotti, materiali, attrezzature, beni e

tecnologie che avrebbero potuto contribuire alle attività connesse con l’arricchimento dell’uranio e il

ritrattamento dell’acqua pesante. Inoltre, impose il congelamento dei fondi finanziari posseduti da

persone o entità indicate dal Consiglio di Sicurezza, perché considerate responsabili di sviluppare

attività nucleari sensibili in termini di proliferazione ed esortò tutti gli stati membri a impedire che ai

cittadini iraniani fosse impartita un’istruzione su discipline inerenti lo sviluppo di attività nucleari e il

potenziamento dei sistemi di lancio.136

133 Nella risoluzione n. 1696 si legge che l’ONU: “Approva, a tale riguardo, la proposta di Cina, Francia, Germania, Russia, Regno Unito e Stati Uniti con il sostegno dell’Alto rappresentante dell’Unione Europea, per un accordo comprensivo di lungo periodo che permetterebbe lo sviluppo di relazioni e cooperazioni con l’Iran basate sul mutuo rispetto e lo stabilimento della fiducia internazionale sulla natura esclusivamente pacifica del programma nucleare dell’Iran […] Esprime l’intenzione, qualora l’Iran non si attenga a rispettare i termini, di adottare le misure appropriate ai sensi dell’art.41 del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite per persuadere l’Iran a rispettare le richieste dell’AIEA”. In merito all’autorità legale e all’impatto di una politica sanzionatoria, fatta di azioni diplomatiche ed economiche volte a indebolire volutamente uno Stato, con azioni dirette e indirette, si aprono interessanti riflessioni in materia di relazioni internazionali e tutela statale, specie se si considera la disparità che perdura tra la regolamentazione che fa capo al quadro del diritto internazionale e quella che invece fa riferimento al diritto nazionale. Secondo una prima interpretazione, ogni Stato ha dei diritti fondamentali e determinate agenzie internazionali, delegate alla tutela dell’ordine sovrastate, sono chiamate a decidere se gli obiettivi e le azioni di politica estera perseguiti dal singolo Stato non prevarichino i diritti di un altro Stato. Stando a una seconda interpretazione, invece, uno Stato ha dei diritti fondamentali che gli appartengono in quanto diritti legali e gli altri Stati sono tenuti al rispetto di queste libertà, nella misura in cui questi diritti non ledano le libertà degli altri Stati. Il caso iraniano è oggetto di dibattito nell’applicazione della prima e della seconda interpretazione.

134 In questa occasione la Russia si propose come mediatore tra le parti. 135 Con la considerazione che il passaggio da usi civili a scopi militari non è così semplice come si evincerebbe

dalle critiche, per arrivare ad assemblare un’arma nucleare bisognerebbe spingere l’arricchimento di uranio a percentuali molti più alte (al sopra del 90%). All’interno del contesto regionale, oggi Pakistan, India e Israele sono provvisti di un’arma nucleare, nessuno dei tre ha firmato il TNP e tutti e tre hanno impianti missilistici in grado di trasportare armi nucleari. Dal punto di vista internazionale, invece, va ricordato che anche il Brasile sta sviluppando il suo programma sul nucleare ma gli Stati Uniti non si sono pronunciati contro Brasilia e la comunità internazionale non ha sollevato alcun timore in merito. Si rimanda a V. Maddaloni, A. Modini, L’Atomica degli Ayatollah. Il ruolo strategico dell’Iran, la crisi con gli Usa, tutti i rischi di una nuova guerra preventiva, Nutrimenti, Roma, 2006, pp.63-65.

136 Per una lettura si veda la Gazzetta ufficiale dell’Unione europea consultando il sito: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32007E0140&from=IT (consultato il 24/03/2017).

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Il 24 marzo 2007, nell’intento di convincere Teheran ad ottemperare ai suoi obblighi, una terza

risoluzione (n.1747)137 inasprì ancora di più i blocchi commerciali e finanziari, interrompendo ogni

vendita di armi all’Iran. Nello stesso anno iniziò l’escalation d’incidenti avvenuti nelle centrali iraniane a

danno d’ingegneri, tecnici, scienziati e responsabili del programma nucleare (perlopiù russi e iraniani)

dove decine di persone persero la vita in circostanze alquanto sinistre.138

Nel marzo 2008, con una quarta risoluzione (n.1803) il Consiglio, dopo aver riaffermato il diritto

di sviluppare la ricerca, la produzione e l’utilizzo di energia nucleare a fini pacifici, senza alcuna

discriminazione, ribadì che l’Iran non aveva sospeso completamente le attività legate all’arricchimento,

né ripristinato la sua collaborazione con l’AIEA ed esortò tutti gli stati a controllare e limitare l’ingresso

e il transito d’individui coinvolti nelle attività nucleari iraniane.139 Alla fine del 2008, la campagna

elettorale americana pose un freno alle ostilità contro la dirigenza sciita e le accuse verso il programma

nucleare subirono un affievolimento. L’interesse geopolitico si spostò prima verso il caso Russia vs

Georgia e poi verso la crisi finanziaria che colpì tutte le economie mondiali, di conseguenza la questione

del nucleare scivolò nel dimenticatoio per alcuni mesi e Teheran non perse l’occasione di accelerare i

lavori, migliorando la sua capacità operativa e aumentando il numero delle sue centrifughe.

Nella primavera del 2009, il presidente Obama cercò di aprire un dialogo politico con la

Repubblica Islamica, con l’intento di costruire un “nuovo inizio” tra i due paesi e risolvere la crisi

passando attraverso una conciliazione diplomatica, ma i primi contatti formali si bloccarono a ridosso

delle elezioni presidenziali iraniane, tenutesi a giugno. A ottobre la disponibilità iraniana sembrava

essere diventata più concreta, tant’è che Teheran accettò di prendere parte ai negoziati che si tennero a

Ginevra (il 1° ottobre) e a Vienna (dal 19 al 21 ottobre), dove il gruppo costituito dai “P5+1” (i cinque

membri permanenti più la Germania, in qualità di rappresentate europeo) propose una formula di

controllo che permetteva alla dirigenza sciita di esportare l’uranio leggermente arricchito.

137 Si veda https://uif.bancaditalia.it/dotAsset/88c21b9a-14ac-472a-b708-94456ee74af2.pdf (consultato il 24/03/2017

138 Nel 2007, il 15 gennaio è morto Ardeshir Hosseinpour, responsabile del Centro di tecnologia nucleare presso la stazione di Isfahan, per esalazioni di monossido di carbonio presso la propria abitazione; il 7 febbraio scompare ‘Alī Reza Asgari, generale delle Guardie Rivoluzionarie, a novembre un’esplosione in una base missilistica a Teheran uccide un numero non noto di persone. Nel 2010, il 12 gennaio Massoud ‘Alī Mohammadi, un fisico esperto di particelle elementari, viene ucciso; il 29 novembre Madjed Shariari, ingegnere nucleare, viene ucciso. Lo stesso giorno viene ferito Fereidoum Abbassi Davani, un altro ingegnere nucleare. Nel 2011, a giugno un aereo che trasportava scienziati russi e iraniani si schianta; a luglio Darious Rezaeineja, scienziato nucleare, viene ucciso, il 12 novembre nella base militare di Amir al Momenin c’è un’esplosione uccidendo oltre venti militari, tra cui il generale Hassan Teherani Moghaddam, coinvolto nel programma missilistico; a novembre un’esplosione danneggia l’impianto di conversione di Isfahan e a dicembre un’altra esplosione colpisce una fabbrica di metalli, coinvolta nel programma nucleare. Nel 2012, 11 gennaio Mostafa Ahmadi Roshan, ingegnere nucleare e vice direttore della centrale di Natanz, viene ucciso da una bomba, 20 gennaio 2010 Mohammad Esmail Kosari, fisico, viene ucciso da una bomba.

139 Si veda il sito: www.aif.sm/site/home/misure-restrittive/documento50000782.html (consultato il 5/06/2017)

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Purtroppo le tensioni politiche dovute alla vittoria del secondo mandato di Ahmadinejad non

permisero agli ayatollah di avanzare un compromesso per portare avanti le negoziazioni e gli sforzi dei

democratici alla Casa Bianca caddero in un nulla di fatto.

Le attività legate al programma iraniano continuarono e nel febbraio 2010 Teheran annunciò di

poter produrre uranio arricchito al 20%. A quel punto l’amministrazione statunitense, di fronte alle

tattiche dilatorie e alla doppiezza dimostrata dalla controparte, cambiò completamente strategia e dalla

diplomazia da tavolo passò a quella del pugno di ferro, stringendo la morsa delle restrizioni già in atto.

A giugno, lo scontro tra le due cancellerie acquisì una dimensione tecnologia e un virus chiamato

Stuxnet attaccò il sistema informativo della centrale di Natanz, bloccando quasi 1000 centrifughe e

(secondo le stime americane) causando un ritardo di 18-24 mesi sul programma iraniano.140 Nello stesso

mese, l’ONU adottò l’ennesima risoluzione (n. 1929),141 aggravando la portata delle sanzioni e il 26

luglio anche l’Unione Europea si unì alle scelte del Consiglio. L’estate continuò con altre risposte forti

da parte della dirigenza iraniana che il 21 agosto, forte della cooperazione russa, riuscì ad avviare il

caricamento della centrale atomica di Bushehr, costruita con la sola collaborazione di Mosca.

Nel marzo 2011, Khamene‘ī cercò di tranquillizzare il mondo e con una fatwa ribadì la non

intenzione di dotarsi di alcun ordigno pericoloso, sottolineando che: “La nazione iraniana non ha mai

cercato e mai vorrà armi nucleari. Non vi è alcun dubbio che i decisori dei paesi che si oppongono a noi sanno bene che

l’Iran è contrario alle armi nucleari, in quanto, la Repubblica islamica, logicamente, religiosamente e teoricamente,

considera il possesso di armi nucleari un peccato grave e ritiene che la proliferazione di tali armi sia senza senso,

distruttiva e pericolosa”.142

In realtà la rivendicazione di un proprio programma nucleare non ha mai implicato la volontà di

possedere un’arma di distruzione di massa per l’Iran, bensì di ottenere la capacità nucleare, ossia la

capacità di montare in tempi brevi una testata nel caso in cui il paese si trovi sotto minaccia. Tuttavia, le

preoccupazioni dell’Occidente erano supportate dal fatto che Teheran, pur aver firmato il Protocollo

aggiuntivo, non l’abbia voluto attuare, sottraendosi dall’obbligo di dichiarare tutte le attività relative allo

140 Questo malware entrò nel sistema informatico attraverso una chiave USB e infiltrandosi nel sistema operativo colpì il software e i macchinari della Siemens usati dagli iraniani. Il virus aveva un meccanismo di “controllo logico programmato” per cui, dopo essere entrato nei programmi era in grado di cercare quelli che utilizzavano il software della Siemens e, inserendo un codice di distruzione nel sistema riuscì a modificare completamente il funzionamento dei vari macchinari. Il virus aveva la capacità di nascondere la propria presenza finché il danno non era completato. Il malware sarebbe stato creato da uno studio congiunto tra Stati Uniti e Israele, durante l’amministrazione di George W. Bush, quindi quattro anni prima della sua scoperta. In quegli stessi anni gli americani iniziarono a impiegare un tipo di drone invisibile, sui cieli iraniani, l’RQ-170, per mappare i tunnel dove si svolgevano le attività nucleari. Dall’altra parte, gli iraniani si dotarono di medesime attrezzature per attaccare, con droni che avrebbero un raggio d’azione di oltre 1000 km. Oltre a Stuxnet vi furono altri attacchi cyber, in particolare si ricorda il virus Flame, che come il precedente ritardò il programma nucleare degli ayatollah.

141 Anche Russia e Cina appoggiarono le decisioni del Consiglio. Per una lettura del testo si rimanda a: https://www.iaea.org/sites/default/files/unsc_res1929-2010.pdf (consultato il 5/06/2017).

142 In “Limes” http://www.limesonline.com/rubrica/sul-nucleare-iraniano-un-accordo-conviene-a-tutti (consultato il 5/06/2017).

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sviluppo del programma nucleare presenti sul suolo nazionale e mettendo così l’Agenzia nella difficoltà

di eseguire i controlli necessari. Pertanto, l’apprensione era legata al fatto che l’AEIA avrebbe dovuto

verificare continuamente che il materiale nucleare non venisse inviato a centrali o siti di arricchimento

non dichiarati, il che metteva seriamente in discussione l’ipotesi che tutto l’uranio fosse realmente

impiegato per sole attività pacifiche.

A giugno, Teheran continuò a spaventare il mondo con un annuncio nel quale comunicava di

voler triplicare la produzione di uranio arricchito, arrivando a raggiungere il 20% e di voler trasferire gli

impianti nel sito sotterraneo di Fordow, per difenderli da altri attacchi informatici ed aerei. Nello stesso

mese, l’AIEA in un rapporto143 mise in chiara evidenza la preoccupazione di possibili implicazioni

militari, dato che le informazioni fornite144 indicavano che l’Iran aveva sviluppato attività coerenti con

lo sviluppo di un’arma nucleare. A riguardo per molti analisti lo stesso resoconto avrebbe destato tanto

rumore per nulla145, usando termini troppo forti quali “grave preoccupazione” e “profonda e crescente

preoccupazione”, senza alcun riferimento a un deferimento di Teheran, qualora non avesse

implementato la risoluzione.

Il 22 settembre la repubblica sciita si disse pronta a fermare l’arricchimento dell’uranio al 20% se

l’Occidente fosse stato disposto a fornirglielo, ma l’amministrazione americana non accettò alcun

compromesso e, a novembre, il segretario di Stato americano, Hillary Rodham Clinton, annunciò la

firma di un pacchetto di sanzioni a danno delle persone fisiche e delle società che aiutavano lo sviluppo

del settore petrolifero e petrolchimico iraniano. Misure simili furono adottate anche dal Canada, dalla

Gran Bretagna e dall’Unione Europea, verso circa 200 persone giuridiche e fisiche legate al programma

del nucleare e al settore degli idrocarburi iraniani.

La soluzione diplomatica avrebbe dovuto passare per patteggiamenti graduali, sviluppati in un

orizzonte temporale lungo e intervallato da discussioni preliminari che creassero compromessi da

entrambe le parti, ma così non fu. Nel 2012 le minacce reciproche crearono una situazione di stallo

difficile da gestire. Oltre alle tradizionali sanzioni, che avevano colpito direttamente il traffico

commerciale tra Iran e Stati Uniti e danneggiato le compagnie americane, la comunità internazionale

aggiunse un pacchetto di decreti che miravano a nuocere anche le compagnie straniere che

continuavano a fare affari con il paese degli ayatollah. Queste misure indirette erano state messe in atto

già nel 1996, ma si intensificarono nel 2012 con il National Defence Authorization Act, che sanzionò

143 Il rapporto è disponibile in internet: https://www.iaea.org/sites/default/files/gov2011-65.pdf (consultato il 5/06/2017).

144 Come si legge anche nel dossier compilato dal servizio studi del Senato italiano: “Le informazioni provengono da un ampio ventaglio di fonti indipendenti, compresi diversi Stati membri, dalle attività proprie dell’Agenzia e da dati forniti dall’Iran stesso. Si tratta di informazioni coerenti in termini di contenuto tecnico, di organizzazioni e persone coinvolte e di tempi”, si rimanda a “Il programma nucleare iraniano e l’AIEA: recenti documenti”, Ufficio ricerche nel settore della politica estera e di difesa, novembre 2011, n. 320, p. 9.

145 Si veda http://www.limesonline.com/rubrica/le-nuove-sanzioni-contro-liran-e-il-dilemma-di-obama (consultato il 12/06/2017).

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duramente tutti i paesi che avessero avuto contatti con la Banca Centrale iraniana.146 Il 23-24 maggio ci

fu un altro tavolo di negoziati a Bagdad, dove i P5+1 chiesero la sospensione dell’arricchimento oltre al

5% e il trasferimento di tutto l’uranio arricchito al 20%;147 Teheran risposte che avrebbe accettato di

valutare la questione ma non concesse agli ispettori di visitare il sito militare di Parchin. Il 1° luglio

l’Europa reagì con un embargo totale sul petrolio iraniano e si allineò al boicottaggio verso la Banca

Centrale iraniana che era iniziato con l’amministrazione Obama, causando una riduzione significativa

delle vendite petrolifere iraniane che passarono da 2,5 milioni di barili al giorno (registrati alla fine del

2012) a 1,25 milioni (registrati alla fine del 2011), facendo aumentare il prezzo del petrolio al 18%.148

Tra ottobre e novembre, Europa e Stati Uniti posero fine agli scambi commerciali di oro, metalli

preziosi e qualunque prodotto petrolchimico, proibirono tutte le relazioni commerciali con le banche

iraniane ed esclusero la repubblica sciita dai progetti riguardanti la costruzione di una rete di gasdotti

verso l’Europa, facendo così diventare il bacino russo, un’indispensabile fonte di approvvigionamento

per i paesi del Mediterraneo.

Da gennaio 2013 le sanzioni diventarono un vero e proprio strumento di guerra economica, fu

imposto il blocco militare dei porti petroliferi iraniani e l’Unione Europea proibì ai paesi membri di

importare idrocarburi iraniani. Attraverso l’embargo, la comunità internazionale cercò di indebolire il

cuore dell’economia di Teheran ma questa superò gli ostacoli tramite la triangolazione, avvalendosi

infatti di paesi terzi che non avevano aderito ai trattati e giocavano il ruolo di intermediari per la

compravendita di merci. Ormai da anni l’Iran aveva iniziato a investire capitali in Africa, in particolare

in Ghana, Niger (uno dei principali produttori di uranio al mondo) e Benin e le compagnie russe,

nonostante i blocchi internazionali, continuarono a firmate contratti con gli ayatollah, in particolare la

Gazprom e la Gazprom Neft, interessate a espandere le loro attività nei giacimenti petroliferi nel Golfo.

Il populismo della dirigenza di Ahmadinejad ebbe pessimi risultati sull’economia del paese e, a metà del

2013, con la fine del suo secondo mandato vennero a galla tutte le fragilità di un sistema che si era

proposto obiettivi troppo ambiziosi, quali: militarizzare l’economia del paese traghettando tutte le

commesse nelle mani dei Pasdaran, diventare un paese tecnologicamente nucleare, rafforzare il ruolo del

paese nel contesto regionale e assicurare alla popolazione una crescita economica soddisfacente. Questo

sistema populistico si prefisse qualcosa d’impossibile come garantire stipendi clientelari ed enormi

sussidi, mantenendo il costo dei beni primari molto basso e, durante gli otto anni, di questo presidente

il paese non fece altro che isolarsi, cercando di controbilanciare questa tendenza con pericolose alleanze

antioccidentali come la Siria, la Corea del Nord e il Venezuela.

146 In questo modo la Banca Centrale iraniana è stata isolata dal circuito finanziario internazionale e la valuta iraniana è crollata, a causa della perdita di riserve in dollari e dell’inflazione.

147 L’arricchimento dell’uranio al 20% può avere anche fini medici ed essere indispensabile per la popolazione. 148 Ciò andò ad aggravare la già difficile situazione finanziaria di paesi come la Spagna, l’Italia e la Grecia, già

molto colpite dalla crisi economica del 2008 e fortemente dipendenti dal greggio iraniano.

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Le elezioni di giugno 2013 furono vinte da Hassan Rohani, il mullah moderato, e gli elementi a

favore della nuova leadership erano molti, dettati anche dalla stessa personalità del nuovo capo di Stato,

deciso a cambiare le sorti del paese ed offrire un sorriso a ogni occasione. Con lui finì la stagione

dell’oscurantismo e si aprì quella all’insegna del dialogo con l’Occidente, in particolare con il Vecchio

Continente. Il 27 settembre, in occasione dell’assemblea generale dell’ONU, il neo eletto ebbe una

conversazione telefonica con Barack Obama che passò alla storia come il primo contatto tra Iran e Usa

dal 1979, consegnando al mondo un inequivocabile gesto di pace e la speranza per una soluzione della

crisi in atto.

Con una lettura retrospettiva dei fatti è facile dire che i portavoce iraniani, a più riprese, si

dimostrarono enigmatici e poco collaborativi con l’AEIA, creando situazioni dilatorie e dando luogo a

scenari confusioni. Pertanto, sarebbe facile colpevolizzare Teheran, poiché avrebbe prodotto

volontariamente ritrosia e confusione, ma dall’altra parte anche gli Stati Uniti hanno sempre e solo

risposto con una severa intransigenza, negando alla controparte qualunque diritto in fatto di tecnologia

energetica.149

Oltre a ciò, va ripetuto che la questione iraniana è sempre andata aldilà della mera controversia

riguardante l’arricchimento dell’uranio. Per oltre trentasette anni l’Iran, infatti, ha ambito a un ruolo di

leader nella regione, il che ha messo in difficoltà non solo il grande gendarme statunitense, incapace di

mantenere un controllo diretto sugli ayatollah, ma ha creato fortissime tensioni con le altre

petrolmonarchie sunnite e con Israele, che invece volevano vedere l’anima sciita eclissata in un buco

nero geopolitico. Non può stupire quindi che la repubblica sciita abbia sempre cercato di allargare i

negoziati alla dimensione regionale, proprio per guadagnare una maggiore posizione e il programma sul

nucleare è sempre stata la migliore carta da giocare sul tavolo delle trattative. Altresì, la realtà politica

statunitense aveva le sue contrarietà, non ha mai seguito una sola direttrice e alcune lobby interne

hanno sempre ostacolato qualunque tipo di accondiscendenza verso la pietas sciita e, come ha già

saggiamente scritto Iannuzzi: “Un grande accordo tra Stati Uniti e Iran implicherebbe non solo una rivoluzione

copernicana, delle priorità strategiche di Washington, ma obbligherebbe Israele a fare i conti con la questione palestinese

[…] e ridimensionerebbe enormemente l’importanza delle monarchie del Golfo.150”

Questi lunghi e difficili negoziati hanno dimostrato al mondo intero quanto la mancanza di

fiducia e la non volontà di credere alla buonafede abbiano rappresentato un ostacolo insormontabile

149 Più volte nella storia della repubblica islamica, la leadership dei turbanti ha cercato aperture nei confronti di Washington e Tel-Aviv, non ottenendo alcun confronto reale. Rafsanjani e Khatami, per esempio, negli anni Novanta accennarono alla disponibilità di aprire un tavolo di dialogo sulla questione israelo-palestinese, ma Israele fece cadere nel silenzio ogni proposta. Dopo l’11 settembre, Teheran si propose di collaborare per la stabilizzazione regionale, contro i talebani, e Bush risposte proponendo la tanto discussa dottrina della guerra al terrorismo, inserendo l’Iran nel c.d. “Asse del male”.

150 R. Iannuzzi, Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale, Diwan, Roma, 2014, pp. 212.

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per ogni accordo151. E in questo caso a remare contro un’intesa c’era sia il conservatorismo di Teheran,

sia l'inflessibilità degli Stati Uniti e delle sue potenti lobby interne. Sicuramente il comportamento

enigmatico dell’Iran non ha fatto che alimentare la sfiducia dell’Occidente, ma durane le lunghe

mediazioni a pagare la posta più alta è stata la popolazione iraniana, che ha dovuto accettare le sanzioni,

pagando costi economici e sociali molto pesanti.

3.5 Il piano d’azione congiunto (&i�t C�prehe�sive P�a� f Acti�) e la firma

dell’accordo

Dopo l’elezione del nuovo presidente Rohani, tutte le parti in causa iniziarono seriamente a

lavorare su una collaborazione in grado di ridurre il programma nucleare iraniano ed alleggerire

gradualmente le restrizioni imposte alla repubblica sciita.

Il 24 novembre 2013, i “P5+1” e l’Iran, incontratisi a Ginevra per iniziare le trattative dei

negoziati, annunciarono di aver messo la prima firma sull’impostazione di quello che venne definito “il

piano d’azione congiunto”, noto come Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA, con il beneplacito

dell’allora Segretario di Stato John Kerry e del Ministro degli Affari Esteri Mohammad Javad Zarif152.

Suddetto documento aveva come obiettivo quello di bloccare alcune parti delle attività iraniane, in

cambio di un alleggerimento dei blocchi economici e commerciali e, nel particolare, prevedeva:

- il blocco del processo di arricchimento dell’uranio oltre il 5%, in modo da garantire che

la produzione dell’energia nucleare si limitasse a soli scopi civili;

- la diluizione o conversione in ossido delle riserve di uranio arricchite al 20%;

- il divieto di installare nuove centrifughe e nuovi impianti di arricchimento;con l’impegno

che in cambio la dirigenza sciita avrebbe ottenuto la sicurezza di non vedere approvate

nuove sanzioni internazionali.

Il 20 gennaio 2014, il Consiglio iniziò ad alleggerire i blocchi imposti, favorendo la riapertura di

alcuni canali commerciali e parallelamente anche l’Unione Europea ne seguì l’esempio, con diverse

proroghe a seguire.

Il 2 aprile 2015, a Losanna, vi fu un altro importante appuntamento, definito da molti giornalisti

un incontro “storico”, dove fu stilato il testo ufficiale del JCPOA che definì i parametri decisivi della

trattativa, tra cui:

151 R. Redaelli, L’Iran contemporaneo, cit…, p. 133. 152 Si rimanda al testo completo del Joint Plan of Action, disponibile al sito:

http://eeas.europa.eu/archives/docs/statements-eeas/docs/iran_agreement/iran_joint-comprehensive-plan-of-action_en.pdf (consultato il 12/06/2017).

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- la riduzione di circa due terzi del numero delle centrifughe iraniane, portando il numero

da 19.000 a 6.104, di cui solo 5.060 adibite ad arricchire l’uranio per i prossimi 10 anni;

- l’obbligo di non arricchire l’uranio iraniano, al di là della soglia del 3,67%, per almeno 15

anni e non costruire altre istallazioni adibite all’arricchimento dell’uranio per i prossimi

15 anni;

- l’obbligo di non arricchire l’uranio nella istallazione sotterranea a Fordow per almeno 15

anni, con la conseguenza che questo sito sarà convertito e usato come centro nucleare,

fisico, tecnologico e di ricerca, esclusivamente per fini pacifici;

- l’obbligo di arricchire l’uranio solo nella centrale di Natanz usando esclusivamente le

centrifughe IR-1 (di prima generazione), quelle più sofisticate vengano rimosse oppure

non usate per almeno 10 anni;

- l’obbligo di eseguire ispezioni regolari in tutte le centrali nucleari iraniane, con i controlli

dell’AIEA. Le verifiche riguarderanno anche le miniere di uranio e il reattore ad acqua

pesante di Arak sarà ricostruito per non produrre plutonio sufficientemente puro;

- le sanzioni imposte da Stati Uniti e Europa saranno rimosse dopo che l’Agenzia avrà

verificato che il governo iraniano ha preso tutte le misure necessarie per rispettare i

parametri di Losanna e nel caso di qualsiasi violazione ci sarà la reintroduzione di nuove

sanzioni153.

Il 14 luglio 2015, si è arrivati all’ultima parte della trattativa, con la firma dal vice presidente

iraniano ‘Alī Akbar Salehi a Vienna dove gli ayatollah e i “P5+1” hanno trovato finalmente un punto di

incontro stabilendo che nei prossimi anni, il programma nucleare sarà sottoposto a continue ispezioni e

gli ispettori saranno in grado di accedere a tutte le aree sospette, con il pieno potere di verificare quanto

è previsto nella road map. In caso di violazioni le sanzioni saranno reintrodotte entro 65 giorni.

A ottobre 2015, il Consiglio adottò gli atti giuridici che previdero la cancellazione delle sanzioni

economiche e finanziarie relative al programma sul nucleare, specificando che tali manovre avrebbero

avuto effetto solo dopo gli accertamenti svolti dall’AIEA. L’annuncio ufficiale della rimozione delle

sanzioni è arrivato il 16 gennaio 2016, il cosiddetto Implementation Day, quando la decisione è stata

confermata dai vertici dell’Agenzia, i quali hanno assicurato il rispetto degli impegni presi da Teheran.

Con la fine delle sanzioni, l’Iran potrà aumentare significativamente le sue esportazioni di petrolio

e questo porterà probabilmente a una successiva diminuzione dei prezzi del greggio, già oggi molto

bassi. Il paese degli ayatollah tornerà ad attirare capitali e diverse società europee, tra cui quelle italiane -

che prima delle sanzioni avevano un posto di tutto rispetto tra il novero dei partner commerciali di

153 Ovviamente i termini dell’accordo non hanno garantito che in futuro l’Iran non si doterà di un’arma nucleare, ma certamente ha reso i suoi eventuali sforzi molto complicati e difficili da nascondere alla comunità internazionale.

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Teheran – hanno già ricominciato a fare affari. Le compagnie americane invece avranno più difficoltà,

sia per le sanzioni unilaterali ancora in vigore, sia per le ostilità del nuovo presidente Donald J. Trump.

Inoltre, la sigla di un accordo sul nucleare non significa che i rapporti tra Iran e Occidente

diventeranno amichevoli nel breve periodo e ciò dipenderà da molti fattori, tra cui: la mancanza di una

struttura diplomatica che possa fare da intermediazione dei conflitti, e una dirigenza iraniana che

rappresenta solo da una minima parte del paese, ossia quella moderata aperta al dialogo, chiamata a

confrontarsi con la parte più rigida e conservatrice, rappresentata dalla Guida Suprema e dai suoi

devoti.

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Capitolo 4. L’impatto sociale e politico delle sanzioni e la risposta di Teheran

Michele Brunelli

Se la maggior parte della letteratura affronta i potenziali e possibili shock economici dovuti

all’effetto dell’embargo sull’Iran, poche ricerche in realtà ne analizzano il conseguente impatto a livello

sociale. Gli studi, infatti, si limitano a fornire una valutazione delle diverse variabili macroeconomiche,

fermandosi solo al primo livello di analisi, prettamente economico-politico. Ci si astiene soprattutto

sulla considerazione di come il blocco delle transazioni finanziarie, ad un secondo livello, vada ad

impattare sulla popolazione. Non si tratta ovviamente di una futile dimenticanza, ma di un disegno

politico ponderato, che mira ad enfatizzare due dei punti principali atti a giustificare il regime

sanzionatorio: il primo che la responsabilità della sua messa in atto debba essere ascritta al solo governo

iraniano e che solo il governo iraniano potrebbe mettervi fine; il secondo è che le sanzioni siano dei

succedanei all’intervento militare, presentate quasi fossero uno strumento semi-pacifico.

L’attribuzione della responsabilità al governo iraniano è stata più volte reiterata nei discorsi

pubblici e nelle dichiarazioni ufficiali degli Stati proponenti o sostenitori l’embargo. In questa direzione,

ad esempio, andavano proprio le dichiarazioni di un portavoce del Foreign Office, il quale sottolineava di

come:

“We’ve been clear that financial sanctions against Iran are not intended to affect humanitarian goods and payments. That's why the UK argued for and secured specific exemptions to allow humanitarian transactions to take place /.../ Whilst it is true that sanctions are having an impact on the Iranian population, this is compounded by the Iranian government’s economic mismanagement. Iran’s leaders are responsible for any impact on their people and can make the choices which would bring sanctions to an end”.154

Anche gli Stati Uniti, ovviamente, condividevano l’idea di responsabilità e su questa linea il

portavoce del Dipartimento del Tesoro statunitense John Sullivan asseriva che le: “Financial sanctions

against Iran are in place because of the Iranian government’s refusal to address the international community’s well-founded

concerns about its nuclear programme”.155

Una posizione che rifletteva un appoggio pressoché incondizionato agli sforzi messi in campo dal

Segretario di Stato Hillary Clinton, la quale ad una convention democratica nell’ottobre 2012 rimarcava: “I

spent 18 months putting together the sanctions against Iran so that we could force them to the negotiating table”,156 quasi

a riaffermare il concetto che ormai, visto l’impegno profuso, era necessario continuare acriticamente su

154 Saeed Kamali Dehghan, “Iran sanctions ‘putting millions of lives at risk’ ”, The Guardian, 17 October 2012. 155 Julian Borger, “Iran unable to get life-saving drugs due to international sanctions”, The Guardian, 13 January

2013. 156 Friday, November 6th, 2015 in a Democratic primary forum; https://wikileaks.org/dnc-

emails/emailid/23690 (consultato il 19/4/2017).

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questa linea, fino al ricorso alla extrema ratio: “I will not hesitate to take military action if Iran attempts to obtain a

nuclear weapon”, dichiarava sempre la Clinton nel settembre del 2015, nella convinzione che: “There is

absolutely no reason to trust Iran”.157

La malafede iraniana sarà un altro degli argomenti ricorrenti portati a sostegno della necessità di

mantenere il regime sanzionatorio. Un’idea che se all’indomani della stipula degli accordi di Vienna

sembrava essersi almeno in parte smorzata nella seconda Amministrazione Obama, ha avuto rinnovato

impulso con Donald J. Trump. Infatti, ancor prima di compiere i primi concreti passi in politica estera,

le nomine da lui fatte mostravano palesemente l’intenzione di una marcia indietro sull’Iran. La scelta del

falco Mike Pompeo quale direttore della Central Intelligence Agency, da sempre critico nei confronti

dell’accordo rimarcava questa intenzione, così come la nomina a Segretario alla Difesa dell’ex Generale

dei Marines James “Mad Dog” Mattis, che aveva definito l’Iran “the single biggest state sponsor of terrorism in

the world”.158

L’attribuzione delle responsabilità al governo oggetto dell’embargo è parte integrante della

politica delle sanzioni. In passato già a Saddam Hussein erano state ascritte le colpe di aver provocato il

blocco economico verso il suo paese (vedi supra). Lo scopo politico sotteso era di spingere la

popolazione a ribellarsi conto la propria élite: l’equazione banale e quanto mai ingenua era quella di

liberarsi dei propri governanti per poter tornare ad uno status quo ex ante. Tuttavia non vi sono casi

empirici che confermino l’esistenza di un nesso causale tra sanzioni e promozione della democrazia. Né

per l’Iraq, né tantomeno per l’Iran.

Anche la presentazione dell’embargo quale strumento semi-pacifico di risoluzione delle

controversie è entrato a far parte sia della narrativa attraverso la quale far comprendere ai proprio

elettori – per giustificare – la necessità della loro imposizione, sia quale strumento consolidato della

politica internazionale. Barack Obama, nonostante ricordasse che la sua Amministrazione avesse preso

in considerazione anche l’opzione militare per impedire alla Repubblica Islamica di costruire un ordigno

nucleare, richiamando l’approccio kennediano – durante la Guerra Fredda – nel perseguire “a practical

and attainable peace”, sottolineava di come avesse espresso la sua chiara preferenza per una risoluzione

157 Fred Dews, “Watch: Hillary Clinton says U.S. will never allow Iran to acquire a nuclear weapon”, 9 September, 2015, Brooking Institute speech, https://www.brookings.edu/blog/brookings-now/2015/09/09/watch-hillary-clinton-says-u-s-will-never-allow-iran-to-acquire-a-nuclear-weapon/ (consultato il 19/4/2017).

158 “Iran world's 'biggest state sponsor of terrorism,' Mattis says”, CNN Politics, 4 February 2017, http://edition.cnn.com/2017/02/04/politics/mattis-iran-us-sanctions-missile/, (consultato il 19/4/2017). Sulla stessa linea si poneva già qualche mese prima Mike Pompeo il quale dichiarava che: “I look forward to rolling back this disastrous deal with the world’s largest state sponsor of terrorism”, si veda: “Trump’s CIA nominee Mike Pompeo promises to roll back Iran deal”, Financial Times, 18 November 2016.

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pacifica e diplomatica della questione iraniana, non solo per i costi della guerra, ma perché un accordo

negoziato avrebbe offerto una risoluzione più effettiva, verificabile e duratura.159

Negli Stati Uniti, alla fine degli anni Novanta era assai diffusa la letteratura160 che cercava di

dimostrare come le sanzioni mirate (targeted sanctions) fossero un modo per esercitare pressioni

economiche al fine di evitare il più possibile “danni collaterali”. Pertanto la giustificazione era che tale

tipo di sanzione fosse diretta contro il regime al potere e contro l’élite di governo, ovvero verso quegli

attori che hanno la capacità di attuare i cambiamenti e di adempiere alle richieste elaborate dalla

comunità internazionale o dallo Stato che ha imposto l’embargo. Purtroppo, storicamente, così non è

stato. Se è in parte vero che negli anni Novanta le sanzioni indussero il regime di Pyongyang ad un

iniziale ammorbidimento delle proprie rigidissime posizioni, iniziando una “discussione diplomatica

significativa” con Washington e Seoul, fu altresì vero che la Corea del Nord sotto embargo, con la

popolazione ridotta allo stremo, fu capace di sviluppare un apparato militare che oggi potrebbe contare

su una decina di testate nucleari ed un migliaio di vettori,161 che si autoalimenta – nonostante l’embargo

in vigore – anche grazie alle esportazioni illegali di sistemi d’arma, il cui valore è stimato in “centinaia di

milioni di dollari”.162

Tutti investiti nel comparto della difesa, in accordo con il principio del Sŏn’gun Chongch'i, l’esercito

prima di tutto. A dispetto delle convinzioni che le targeted sanctions avrebbero evitato danni collaterali,

molte sono le indicazioni sull’impatto che ha avuto il regime sanzionatorio sulla popolazione: la

situazione umanitaria è andata deteriorandosi significativamente, soprattutto a causa dei tagli alle

importazioni di cibo e di fertilizzanti.163

159 The White House, Remarks by the President on the Iran Nuclear Deal, Office of the Press Secretary, August 05, 2015, discorso all’American University, Washington, D.C., https://obamawhitehouse.archives.gov/the-press-office/2015/08/05/remarks-president-iran-nuclear-deal (consultato il 19/4/2017).

160 Stephen P. Marks, “Economic Sanctions as Human Rights Violations: Reconciling Political and Public Health Imperatives”, in American Journal of Public Health vol. 89, n. 10, 1999, pp. 1509–1513; Victor W. Sidel, “Can Sanctions Be Sanctioned?.” in ivi, pp. 1497–1498; Gary Clyde Hufbauer, Barbara Oegg, “Targeted Sanctions: A Policy Alternative.” Law and Policy in International Business vol. 32, n. 1, 2000, pp. 11–20.

161 Ha-young Choi, “North Korea may have 10 nuclear warheads: think tank”, June 13th, 2016, https://www.nknews.org/2016/06/north-korea-may-have-10-nuclear-warheads-think-tank/ (consultato il 19/4/2017). L’International Institute for Strategic Studies (IISS) di Londra indica un numero “fino a 20”, si veda IISS, The Military Balance 2016, vol. 116, Taylor and Francis, London, 2016, spec. “Table 2 Global Strategic-Weapons Delivery Systems and Warheads (as at Nov 2015)”, p. 15. L’edizione del 2017 non riporta più tale numero, e specifica che: “North Korea’s ballistic missiles and obsolete H-5 (Il-28) bombers could in future be used to deliver nuclear warheads or bombs. At present, however, there is no conclusive evidence to suggest that North Korea has successfully produced a warhead or bomb capable of being delivered by these systems”. Si veda IISS, The Military Balance 2017, vol. 117, Taylor and Francis, London, 2017, spec. p. 304.

162 Christian Oliver, “Net Closes on North Korea’s Arms Exports”, Financial Times, 15 December 2009. 163 Brendan Taylor, Sanctions as grand strategy, The Adelphi Papers, vol. 49, n. 411, Routledge, London, spec. cap.

3. Con ciò non si intende affermare che la precaria situazione nella quale vive oggi la popolazione nord-coreana sia completamente ascrivibile agli effetti dell’embargo. Tutt’altro. Essa è causata dalla politica catastrofica messa in atto dalla famiglia Song. Le sanzioni hanno contribuito ad aggravare la situazione di per sé già drammatica.

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Così è stato anche per il regime di Saddam Hussein. Nemmeno il tentativo di dare sollievo alla

popolazione con il programma oil for food ebbe un ricasco positivo per gli irakeni, ma andò ad alimentare

l’élite degli al-Tikriti, unitamente a quelle di diverse imprese internazionali, fino a lambire le stesse

Nazioni Unite, con il coinvolgimento del figlio del Segretario Generale Kofi Annan nell’omonimo

scandalo.164 Nel 2007 un Rapporto della House of Lords denunciava come le sanzioni potessero infliggere

sofferenze alla popolazione civile: “damaging the economy of the target state is not separable from severe

humanitarian costs. /.../ when an economy is weakened severely, the most vulnerable, especially the poor, suffer the most.

/.../ any assault on the formal economy is therefore bound to have its effect on the ordinary people, who at the very least

will continue to suffer stagnation in their living standards and more probably a deterioration” ed ancora, in un altro

passo: “economic sanctions, general economic embargoes and trade embargoes do enormous harm to ordinary people, the

civilian population”.165

Anche l’Unione Europea, come gli Stati Uniti, ritiene che l’effettivo uso di “sanzioni” siano una

“via importante per preservare e ristabilire la pace e la sicurezza internazionale, in accordo con la Carta delle Nazioni

Unite e sulla base dei principi della politica estera e di sicurezza comune”.166 Secondo il documento del Consiglio

esse dovrebbero essere “mirate”, massimizzando gli effetti sui comportamenti di coloro i quali si

vorrebbero influenzare, riducendo così l’impatto negativo sulla popolazione civile o, più in generale

“reduce to the maximum extent possible any adverse humanitarian effects or unintended consequences for persons not

targeted or neighbouring”.167

È importante qui prendere in considerazione la terminologia impiegata negli atti legislativi

nazionali ed internazionali, come quelli citati sopra, con la quale si fa riferimento all’embargo: il termine

“sanzione” è alternativamente supportato da aggettivi quali “intelligente”, nella duplice terminologia di

“smart” o “intelligent”, o “mirata” (targeted). Viene sovente affermato che siffatte sanzioni sono varate per

fiaccare il regime, risparmiando la popolazione, conseguendo così un rafforzamento della società civile.

164 Lo scopo primario del programma oil for food prevedeva che gli introiti derivanti dalla vendita del greggio fossero impiegati per l’acquisto di beni di prima necessità e medicinali. Il Rais sfruttò questa opportunità e, aggirando i divieti imposti dalla comunità internazionale, riuscì a vendere petrolio di contrabbando a prezzi molto bassi, accumulando fondi neri, che vennero in parte utilizzati per corrompere diversi politici, opinion leaders, membri di gruppi di pressione, affinché si attivassero per organizzare una campagna contro il regime sanzionatorio imposto al paese, in parte per mantenere l’apparato clientelare necessario al sostegno del governo. Inoltre, il quinto e ultimo report della commissione ONU, pubblicato il 27 ottobre 2005, accusava quasi il 50% delle 4.500 società partecipanti di aver pagato tangenti e di aver gonfiato le fatture per conquistare i contratti, consentendo a Saddam Hussein di intascarsi 1,8 miliardi di dollari a scapito degli irakeni. Si veda: Independent Inquiry Committee, Manipulation of the Oil-for-Food Programme by the Iraqi Regime. United Nations, New York, October 27, 2005, www.iraqwatch.org/un/IIC/un_iic_final_report_27Oct2005.pdf (consultato il 23/4/2017). Sebbene il titolo lasciasse intendere che le responsabilità fossero ascrivibili al solo regime irakeno, in realtà la “manipolazione” fu anche occidentale.

165 House of Lords, The impact of economic sanctions. Second Report of Session 2006–7, Select Committee on Economic Affairs, 1. London: The Stationary Office, London, 2007, passim.

166 Council of the European Union, Basic Principles on the Use of Restrictive Measures (Sanctions), Council document 10198/1/04. Brussels, 7 June 2004.

167 Ivi, punto 6.

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Si tratta di un’idea prevalente nell’ambito delle relazioni internazionali, che è anche funzionale a

presentare alla società civile la legittimità al ricorso di tale strumento. Sulla base della presente narrativa i

paesi sanzionatori assumono un ruolo del tutto positivo, impegnati a combattere l’autoritarismo e ad

aprire la strada ad una transizione democratica. Tale rappresentazione, o meglio “idealizzazione” delle

sanzioni, ha sedotto solo l’opposizione del regime iraniano in esilio, o quella appartenente alla diaspora,

spingendo ad esempio la presidente del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI), Maryam

Rajavi a profondere tutto l’impegno della sua associazione a favore dell’embargo.168 A margine, appare

tuttavia alquanto bizzarra, se non addirittura paradossale la partecipazione alla convention annuale

parigina della CNRI, di elementi appartenenti all’establishment conservatore statunitense, quali Newt

Gingrich, già presidente della Camera dei Rappresentanti, Howard Dean, ex presidente del Partito

Democratico e Louis Freeh, il capo “bipartisan” dell’FBI, dal 1993 al 2001, forse dimentichi che il

Consiglio, figurava nella lista delle organizzazioni terroristiche, decretate tali dal Governo degli Stati

Uniti sino al 2012 – così come quelle dell’Unione Europea169 – e sulla base della quale, venivano

giustificate anche le sanzioni contro la Repubblica Islamica.170

Quello delle smart sanction fa parte di un lessico che richiama le più note “bombe intelligenti”

(smart bombs), le quali – al pari delle sanzioni intelligenti – provocano i cosiddetti danni collaterali. Come

si richiamava sopra, nonostante gli effetti dell’embargo in Iraq siano stati decisamente più devastanti

per la popolazione civile rispetto a quella iraniana, le sanzioni fecero poco o nulla per indurre i civili a

ribellarsi contro il regime di Saddam Hussein. In maniera alquanto paradossale, da un punto di vista

politico, l’embargo sull’Iran ha sortito proprio l’effetto opposto.

Le privazioni cui è stata sottoposta la classe lavorativa, l’hanno spinta verso il populismo di

Mahmoud Ahmadinejad, il quale, riprendendo i canoni della retorica pre-rivoluzionaria khomeinista dei

mostazafin (gli oppressi), ha iniziato a finanziare a pioggia le classi più deboli, aumentando il proprio

consenso politico. In questo modo il regime ha evitato quella possibile e potenzialmente perniciosa

saldatura tra la classe operaia e la classe media, scongiurando che la prima si unisse alla seconda nei

moti di piazza che caratterizzarono il 2009, nella cosiddetto Movimento Verde dell’Iran (رانز ا� (���ش

conosciuto anche come Onda Verde.

168 “Mrs. Rajavi welcomes new U.S., U.K. sanctions against Iranian regime”, Tuesday, 22 November 2011, http://ncr-iran.org/en/ncri-statements/president-elect/11464-mrs-rajavi-welcomes-new-us-uk-sanctions-against-iranian-regime-, (consultato il 13/4/2017).

169 Si veda: http://storia.camera.it/documenti/indirizzo-e-controllo/20070614-risoluzione-commissione-7-00214 (consultato il 13/4/2017).

170 Sulla rimozione, ad opera del Segretario di Stato Hillary Clinton, si veda: Si veda: Department of State, “Public Notice 8049”, Federal Register, vol. 77, n. 193, Thursday, October 4, 2012, Notices, http://www.gpo.gov/fdsys/pkg/FR-2012-10-04/pdf/2012-24505.pdf; e anche US Department of Treasury, Office of Foreign Asset Control, Anti-terrorism Designation Removals, 9/28/2012, https://www.treasury.gov/resource-center/sanctions/OFAC-Enforcement/Pages/20120928.aspx. Sul dibattito seguito alla decisione si veda David C. Speedie, “MEK: When Terrorism Becomes Respectable”, Carnegie Council, October 17, 2012, https://www.carnegiecouncil.org/publications/ethics_online/0074 (consultati il 13/4/2017).

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Di contro, la classe media urbanizzata, da sempre considerata il veicolo privilegiato del

cambiamento politico, è stata la maggiormente colpita. Già messa in estrema difficoltà dalla politica di

Ahmadinejad e rimasta esclusa dal piano di sostegno statale, in quella che era vista come un’azione

punitiva, la classe media non ha saputo reagire. Inoltre, le sanzioni hanno contribuito a ritardare quei

potenziali segnali di cambiamento che questa poteva esprimere, privandola di gran parte della

prosperità economica di cui godeva. Il suo impoverimento l’ha resa così dipendente dagli aiuti di Stato e

politicamente passiva.

Non fu un caso che i leader del Movimento Verde e dei difensori dei diritti umani in Iran si

opposero fermamente all’imposizione di sanzioni, schierandosi quindi con l’establishment, avvertendo la

comunità internazionale che l’isolamento, il duro confronto sul piano politico, ma soprattutto la

“punizione economica”, così come l’embargo era ed è effettivamente percepito, avrebbero minato lo

stato di diritto e la causa della democrazia. Lo stesso Mir Hossein Mousavi considerava l’arricchimento

dell’uranio un “diritto della nazione iraniana”, arrivando a dichiarare che le sanzioni non hanno effetti

sul governo, ma sulla popolazione. Provocatoriamente il Guardian, riassumendo in una battuta i concetti

sopra esposti, arrivava a titolare un suo editoriale: UN sanctions on Iran: A gift to the regime.171 Così anche

sua moglie, Zahra Rahnavard, rivoluzionaria della prima ora, che con lui ha condiviso le idee del

movimento verde, si opponeva alle sanzioni dichiarando che “Sanctions are only harmful for the people of Iran

/.../ The Iranian government is rich with oil money and the money is at its disposal. Sanctions would not affect such a

government”.172

L’impatto delle sanzioni sul piano interno si è anche prefigurato come uno scontro intraelitario,

soprattutto sulle allocazioni tra l’entourage dell’ex Presidente Hashemi Rafsanjani, paradossalmente

rappresentante la vecchia élite, però illuminata, grazie alla quale l’Iran è riuscito a ricostruirsi dopo la

sanguinosa guerra con l’Iraq, e la “nuova élite”, fortemente conservatrice, di Mahmoud Ahmadinejad.

Da questo scontro hanno tratto vantaggio i Sepah-e Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione. Sulla base

della particolare struttura del’economia iraniana, le targeted sanctions avrebbero dovuto essere efficaci.

Questo perché i due terzi dell’economia del paese sono nelle mani degli attori statali e parastatali.

Tuttavia le entità statali hanno tutti i mezzi e gli strumenti per accedere alle risorse pubbliche, attraverso

le quali coprire i costi risultanti dall’imposizione delle sanzioni. Alternativamente possono aggirare le

sanzioni attraverso “canali alternativi”, in una sorta di contrabbando di Stato, importando beni vietati.

Si deve ricordare che i Pasdaran, attraverso il controllo di 60 porti nel Golfo Persico ed un numero

imprecisato di aeroporti nel paese, negli ultimi anni – e grazie all’appoggio ottenuto durante

171 “UN sanctions on Iran: A gift to the regime”, The Guardian, 10 June 2010, https://www.theguardian.com/commentisfree/2010/jun/10/iran-nuclear-sanctions-mahmoud-ahmadinejad (consultato il 14/4/2017).

172 “Iran’s defiant Green movement vows to fight on”, The Guardian, 11 June 2010, https://www.theguardian.com/world/2010/jun/11/iran-green-zahra-rahnavard-mousavi (consultato il 14/4/2017).

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l’amministrazione Ahmadinejad – sono arrivati a monopolizzare gran parte delle merci importate,

accrescendo il loro già elevato potere economico, ottenuto e gestito attraverso le cosiddette bonyads, le

fondazioni religiose. La conseguenza principale è stata la possibilità per i Guardiani di espandere

ulteriormente le loro potenzialità economico-commerciali a detrimento dell’economia civile, che non

può sfruttare gli stessi meccanismi.

Oltre a non aver provocato il cambio di regime auspicato dalle amministrazioni statunitensi,

l’embargo, almeno sino alla stipula degli accordi di Vienna, ha avuto anche un altro effetto opposto:

quello di provocare non una limitazione, ma un aumento delle centrifughe nucleari. Nel 2006, ovvero

prima dell’inasprimento dell’embargo, Teheran disponeva di circa un migliaio di centrifughe, sei anni

dopo, secondo la Casa Bianca ne aveva un numero venti volte maggiore, circa 19.000.173

Al contrario, diversi sono stati gli “effetti collaterali” delle sanzioni intelligenti, soprattutto a

danno della popolazione civile. Nonostante l’approccio teorico tenuto anche dall’Unione Europea, la

quale nel 2012 annunciava che le sanzioni avrebbero colpito anche il settore petrolifero attraverso le

transazioni bancarie,174 Bruxelles ribadiva che: “The restrictive measures agreed today are aimed at affecting Iran’s

nuclear programme and revenues of the Iranian regime used to fund the programme and are not aimed at the Iranian

people. The Iranian regime itself can act responsibly and bring these sanctions to an end”.175 La dichiarazione

sembrava andare nella direzione di trascurare che potesse sussistere un nesso tra il blocco dell’economia

ed un impatto negativo per la popolazione civile, così come forse riconobbe il Presidente Obama,

evidenziando la natura “paralizzante” dell’embargo: “We put in place an unprecedented regime of sanctions that

has crippled Iran’s economy”.176

173 Queste secondo le dichiarazioni dell’allora Segretario di Stato John Kerry e riprese anche dalla Presidenza USA. SI veda: The White House, The Iran Nuclear Deal. What you need to know about the JCPOA, https://obamawhitehouse.archives.gov/sites/default/files/docs/jcpoa_what_you_need_to_know.pdf., (consultato il 14/4/2017).

174 Il Consiglio Europeo dichiarava che: “Iran is acting in flagrant violation of its international obligations and continues to refuse to fully co-operate with the IAEA to address the concerns on its nuclear programme. In this context, and in coherence with previous European Council and Council conclusions, the Council has agreed additional restrictive measures in the financial, trade, energy and transport sectors, as well as additional designations, notably of entities active in the oil and gas industry. In particular, the Council has agreed to prohibit all transactions between European and Iranian banks, unless authorised in advance under strict conditions with exemptions for humanitarian needs. In addition, the Council has decided to strengthen the restrictive measures against the Central Bank of Iran. Further export restrictions have been imposed, notably for graphite, metals, software for industrial processes, as well as measures relating to the ship building industry”. Council of The European Union, Press release of the 3191st Council meeting, Foreign Affairs Development, 14763/1/12 REV 1, Luxembourg, 15 October 2012, http://europa.eu/rapid/press-release_PRES-12-419_en.htm (consultato il 14/4/2017).

175 Ivi. Council of The European Union, Press Release of the 3191st Council meeting, Foreign Affairs Development, 14763/1/12 REV 1, Luxembourg, 15 October 2012, http://europa.eu/rapid/press-release_PRES-12-419_en.htm (consultato il 14/4/2017).

176 The White House, Office of the Press Secretary, “Remarks by the President in a Conversation with the Saban Forum”, Willard Hotel, Washington, D.C. December 07, 2013, https://obamawhitehouse.archives.gov/the-press-office/2013/12/07/remarks-president-conversation-saban-forum, (consultato il 14/4/2017).

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Infatti le prime tangibili conseguenze si sono palesate nei tassi di cambio, i quali sono andati ad

impattare sui prezzi di beni e servizi, colpendo così direttamente gli iraniani.

Figura 2. Andamento dei tassi di cambio

Fonte: http://www.tradingeconomics.com/iran/currency

Nel febbraio 2012 un dollaro era scambiato a 12.253 Rials, ma solo diciotto mesi più tardi, nel

luglio 2013, valeva circa 25.000 Rials, toccando punte di

base della dieta iraniana, come pane, riso, pollo e carne, duplicarono o triplicarono. Forte anche

l’impatto sui consumi, soprattutto per le classi meno abbienti, così come que

la legislazione sul lavoro, il salario minimo garantito in Iran, nel 2011 era pari a 110.100 Rials giornalieri

(9 dollari secondo il cambio dell’epoca), aumentato a 162.375 al giorno nel 2013, pari a 4,6 dollari al

giorno.177

I forti squilibri dell’economia iraniana hanno prodotto effetti perversi, contrari agli obiettivi

dichiarati dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Ciò

economica. Gli effetti variano quindi da un settore all’altro, sebbene la pervasività che abbia la

possibilità di un interscambio di flussi monetari o meno giochi ovviamente un ruolo primario. Il settore

farmaceutico, per la sua struttura e proprio per le difficoltà delle transazioni monetarie è stato tra quelli

che maggiormente ha subito contraccolpi.

Uno studio recente ha preso in considerazione l’accesso ai medicinali da parte della popolazione.

Si tratta di un settore molto particolare, le cui caratteristiche precipue sono quelle di essere gestito dalle

177 Si veda: Ministry of Cooperatives, Labor and Social Welfare. (2013). Minimum wage rate in Iran. January 5, 2014, http://hormozgan.mcls.gov.ir/fa/hoghoghregolamentazione dle salario minimo si veda: https://rkj.mcls.gov.ir/fa/moghararaat/ghavanin/ghanoonkar

70

Infatti le prime tangibili conseguenze si sono palesate nei tassi di cambio, i quali sono andati ad

impattare sui prezzi di beni e servizi, colpendo così direttamente gli iraniani.

. Andamento dei tassi di cambio Rial/US$: 2007-2017

http://www.tradingeconomics.com/iran/currency

Nel febbraio 2012 un dollaro era scambiato a 12.253 Rials, ma solo diciotto mesi più tardi, nel

5.000 Rials, toccando punte di 30.000. I prezzi dei prodotti alimentari alla

base della dieta iraniana, come pane, riso, pollo e carne, duplicarono o triplicarono. Forte anche

l’impatto sui consumi, soprattutto per le classi meno abbienti, così come quello sugli stipendi. Secondo

la legislazione sul lavoro, il salario minimo garantito in Iran, nel 2011 era pari a 110.100 Rials giornalieri

(9 dollari secondo il cambio dell’epoca), aumentato a 162.375 al giorno nel 2013, pari a 4,6 dollari al

orti squilibri dell’economia iraniana hanno prodotto effetti perversi, contrari agli obiettivi

dichiarati dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Ciò è stato essenzialmente dovuto alla sua struttura

economica. Gli effetti variano quindi da un settore all’altro, sebbene la pervasività che abbia la

possibilità di un interscambio di flussi monetari o meno giochi ovviamente un ruolo primario. Il settore

o, per la sua struttura e proprio per le difficoltà delle transazioni monetarie è stato tra quelli

che maggiormente ha subito contraccolpi.

Uno studio recente ha preso in considerazione l’accesso ai medicinali da parte della popolazione.

Si tratta di un settore molto particolare, le cui caratteristiche precipue sono quelle di essere gestito dalle

Si veda: Ministry of Cooperatives, Labor and Social Welfare. (2013). Minimum wage rate in Iran. http://hormozgan.mcls.gov.ir/fa/hoghogh. Per la legislazione sul lavoro e la

regolamentazione dle salario minimo si veda: Qanun-e Kar-e Jomhurihttps://rkj.mcls.gov.ir/fa/moghararaat/ghavanin/ghanoonkar (consultati il 19/4/2017).

Infatti le prime tangibili conseguenze si sono palesate nei tassi di cambio, i quali sono andati ad

Nel febbraio 2012 un dollaro era scambiato a 12.253 Rials, ma solo diciotto mesi più tardi, nel

0.000. I prezzi dei prodotti alimentari alla

base della dieta iraniana, come pane, riso, pollo e carne, duplicarono o triplicarono. Forte anche

llo sugli stipendi. Secondo

la legislazione sul lavoro, il salario minimo garantito in Iran, nel 2011 era pari a 110.100 Rials giornalieri

(9 dollari secondo il cambio dell’epoca), aumentato a 162.375 al giorno nel 2013, pari a 4,6 dollari al

orti squilibri dell’economia iraniana hanno prodotto effetti perversi, contrari agli obiettivi

essenzialmente dovuto alla sua struttura

economica. Gli effetti variano quindi da un settore all’altro, sebbene la pervasività che abbia la

possibilità di un interscambio di flussi monetari o meno giochi ovviamente un ruolo primario. Il settore

o, per la sua struttura e proprio per le difficoltà delle transazioni monetarie è stato tra quelli

Uno studio recente ha preso in considerazione l’accesso ai medicinali da parte della popolazione.

Si tratta di un settore molto particolare, le cui caratteristiche precipue sono quelle di essere gestito dalle

Si veda: Ministry of Cooperatives, Labor and Social Welfare. (2013). Minimum wage rate in Iran. Retrieved . Per la legislazione sul lavoro e la

e Jomhuri-ye Eslami-ye Iran, (consultati il 19/4/2017).

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grandi case farmaceutiche, soprattutto europee e statunitensi, dominato dai brevetti, solitamente

ventennali, ed un mercato spesso in regime di monopolio. In Iran, il comparto è composto da 96

compagnie, tra statali, partecipate e private, che nel 2014 hanno fatto registrare un giro d’affari di 2,35

miliardi di dollari l’anno. L’85% del mercato è controllato da una trentina di queste.178 Sebbene tra il

92% ed il 96% dei farmaci sia prodotto localmente, la restante percentuale ricomprende medicinali

richiesti per trattamenti speciali e specifici, quali ad esempio insulina e farmaci antitumorali. È per

questo che solo il 55% del mercato e del fabbisogno è coperto da produttori locali, mentre il 45%

proviene da imprese estere e quindi dalle importazioni. Per ciò che riguarda i consumi quello iraniano è

il secondo mercato asiatico ed il ventesimo a livello mondiale.

Durante gli ultimi anni i pazienti iraniani hanno incontrato sempre più difficoltà nell’ottenere

farmaci, per la loro scarsa disponibilità o per l’aumento dei prezzi. Una prima risposta alla penuria è

stata l’aumento delle importazioni medicali e dei principi attivi dalla Cina e dall’India, sostituendo i

prodotti occidentali con succedanei.

Ciò ha tuttavia portato ad un aumento di effetti collaterali su molti pazienti, così come ad una

comprovata efficacia medica ridotta. Inoltre questa via non ha costituito una soluzione per combattere

malattie come tumori o sclerosi multipla.179 In alcuni casi, come per i medicinali per l’asma,180 si è

assistito addirittura ad una diminuzione del 42% per quelli importati e del 19% per quelli fabbricati in

Iran, a causa dell’impossibilità di importare taluni principi attivi.

Nonostante quello farmaceutico non fosse formalmente incluso nel regime sanzionatorio,

l’embargo è stato capace di compromettere seriamente il settore, a causa delle restrizioni sui flussi

monetari. Molte delle compagnie occidentali hanno ridotto i loro interscambi con la Repubblica

Islamica, temendo l’applicazione di sanzioni nei confronti delle loro stesse società. Tuttavia il comparto

che ha subito un contraccolpo maggiore è stato quello relativo ai macchinari medicali, le cui

componenti hi-tech rientrano nella lista delle merci proibite, poiché potenzialmente prodotti dual-use.

Anche in questo caso l’Iran ha dovuto fare affidamento a produzioni locali o, ancora, ricorrere a

macchinari importati da paesi asiatici, ma con standard qualitativi inferiori.

4.1 Le contromisure iraniane

La risposta di Teheran non si è fatta attendere ed è stata multiforme. Tra i principi base elaborati

per cercare di arginare l’impatto, non solo economico, ma anche politico e sociale dell’embargo, v’è il

178 Le quattro principali industrie farmaceutiche del settore sono la Daroupakhsh, Jaberebne Hayyan, Tehran Shimi e Farabi e detengono da sole il 20% del mercato.

179 Siamak Namazi, “Sanctions and Medical Supply Shortages in Iran”, Viewpoints n. 20, Woodrow Wilson Center, February 2013, p. 5.

180 Golbarg Ghiasi et al., “The Impact of the Sanctions Made Against Iran on Availability to Asthma Medicines in Tehran”, in Iranian Journal of Pharmaceutical Research, vol. 15, n. 3, 2016, pp. 567-571.

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ricorso all’autarchia, espresso e finemente elaborato dalla Guida Suprema, ‘Alī Khamene‘ī. Già nel 2010

il Rahbar-e mohazem aveva avuto modo di evidenziare quali fossero i valori di una “economia di

resistenza” (ا����د ���و���): un termine assai duttile che aveva insite tre linee distinte, ma tra loro

fortemente correlate. Queste linee potevano identificarsi in: i) una spinta verso l’autosufficienza e la

produzione nazionale; ii) una maggiore e necessaria propensione a massimizzare i legami economico-

commerciali con le principali economie emergenti mondiali e iii) nell’impegno ad assegnare un ruolo

centrale a talune istituzioni fedeli al regime, tra le quali i Sepah-e Pasdaran.

Da questo momento in poi l’economia della resistenza diverrà uno dei Leitmotiven della

propaganda e della narrativa anti-embargo e l’affermazione, così come la concretizzazione graduale di

tale idea darà ulteriore impulso al consolidamento del potere finanziario dei Guardiani della

Rivoluzione, che – come si è detto – proprio durante l’Amministrazione Ahmadinejad (2005-2013)

vedranno crescere in maniera esponenziale la loro forza economica e, conseguentemente anche quella

politica. Le prime due linee sono invece andate estrinsecandosi con la progettazione, ed in taluni casi

anche il varo, di una serie di riforme economiche, che ha condotto verso una ristrutturazione del regime

di sovvenzioni, privatizzando in maniera graduale ma costante, i settori chiave dell’economia e

nell’adozione di politiche macroeconomiche più conservatrici.

Quello dell’economia di resistenza era un concetto preso in prestito dall’ardore rivoluzionario di

un Iran ancora in formazione, che stava vivendo il suo punto forse più critico, quello degli anni Ottanta

del XX secolo, caratterizzati dalla sanguinosa e terribile guerra con l’Iraq ba‘thista di Saddam Hussein.181

Allora si faceva riferimento al “jihad economico”, altro concetto base che verrà ripreso più volte da

Khamene‘ī anche in tempi recenti. Nel 2011 infatti, nel suo messaggio per il nuovo anno – il 1390 – (

21 marzo 2011-20 marzo 2012) aveva sottolineato che il tema su cui concentrare gli sforzi del paese

sarebbe stato proprio quello dell’economia, arrivando a definire il 1390 l’anno del jihad economico.182

181 In termini economici, gli anni Ottanta furono un decennio drammatico per l’Iran. Secondo Robert Fisk, i costi diretti del conflitto con l’Iraq ammontarono a circa 100 miliardi di dollari, mentre secondo l’ex presidente iraniano ‘Alī Akhbar Hashemi Rafsanjani, il costo-opportunità fu di mille miliardi di dollari.

182 Per il testo del discorso si veda: ی����وروز امیپ � Messaggio) یا������������د �!�د ����ل» / 1390 ���ل آ��ز ��� ���������ت ����per Nowrouz per l’inizio dell’anno 1390: l’anno del Jihad economico), http://farsi.khamenei.ir/message-content?id=11785 (consultato il 2/5/2017).

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Dopo il discorso di Nowrouz, la Guida ritornava sul concetto parlando al Governo,

sottolineandone la dimensione più politica:

Credo che il jihad economico sia una necessità per il paese, non solo una priorità. È una necessità assoluta. In primo luogo, il progresso economico e la prosperità sono direttamente legati alle condizioni di vita delle persone, un tema che è sempre stato uno degli obiettivi più importanti di tutti i governi in tutte le parti del mondo nel corso della storia. Naturalmente, questo vale solo per quei governi che mostrano interesse per il proprio popolo, non per i governi prepotenti ed oppressivi. Qualsiasi governo che sia determinato nel rendere servigi alla propria gente deve prendere in considerazione le condizioni di vita dei suoi abitanti, come la questione più importante. Questo dipende ovviamente dall’economia del paese. Una buona, sana e fiorente economia può migliorare le condizioni di vita delle persone. Questa è la sola ragione per la quale dobbiamo impegnarci nel jihad economico.183

Tre sono i cardini ideologici su cui Khamene‘ī basa questa sua idea politica: il primo è la profonda

interrelazione esistente tra l’economia della resistenza e l’economia islamica, ove il primo è elemento

ispiratore del secondo. Il legare la resistenza all’Islam è attribuire automaticamente al primo elemento

dell’equazione un valore sacrale. Da qui discendono gli altri due, altrettanto sacri ed imprescindibili,

come il senso del sacrificio che ogni iraniano deve attuare, per far sì che si possa realizzare l’economia

di resistenza. Ancora una volta il popolo iraniano reagisce alle minacce esterne e, così come compatto

respinse le armate di Saddam Hussein, oggi contrasta gli affondi delle potenze che vorrebbero vedere il

paese strangolato dalle sanzioni. Pertanto, l’unione tra sacrificio ed economia fa sì che essa assuma un

carattere “epico”. Il terzo cardine è che l’autosufficienza sia non solo il mezzo, ma anche il fine che

consentirà alla Repubblica Islamica di sopravvivere – totem supremo della teocrazia iraniana – e quindi di

prosperare, nonostante il boicottaggio economico. L’embargo diventa quindi un elemento riunificante il

popolo, chiamato ancora una volta a combattere unito. L’economia di resistenza diverrà quindi un

punto fermo nella narrativa di regime. Ai discorsi della Guida, faranno eco a più riprese quelli dei

membri dell’élite rivoluzionaria. Tra queste, per la propaganda e per evidenziare il sentire di parte

dell’establishment, significative furono le dichiarazioni del Generale di Brigata Mohammad Reza Naqdi,

comandante dei Basij, “l’esercito della Rivoluzione ed il simbolo del sistema religioso popolare del

Governo”,184 che definì l’embargo una “benedizione”. Nel dicembre del 2012 asseriva: “se avessi un ruolo

nei negoziati, non chiederei mai la revoca delle sanzioni come condizione di base nei negoziati sul nucleare /.../ Vorrei

dire al nostro nemico di imporre il maggior numero possibile di sanzioni, perché possiamo realizzare le nostre potenzialità

nascoste in simili circostanze”185.

183 Supreme Leader’s Speech in a Meeting with President Ahmadinejad and Cabinet Members -29/08/2011, http://english.khamenei.ir/news/1517/Leader-s-Speech-in-a-Meeting-with-President-Ahmadinejad-and-Cabinet (consultato il 5/5/2017).

184 Così viene definita da ‘Alī Khamene‘ī la milizia dei Basij, corpo volontario inglobato negli ultimi anni nei Guardiani dell Rivoluzione. Si veda: http://parstoday.com/en/radio/iran-i36196-leader_we_will_not_stand_if_us_extends_sanctions, (consultato il 29/5/2017).

185 “Iran’s Basij Militia Builds 'Resistance Economy'”, Al Monitor, 19 March 2013, http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2013/03/iran-basij-militia-combat-sanctions-resistance-economy.html (consultato il 29/5/2017).

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74

Oltre all’idealismo, in Khamene‘ī prevale l’idea che l’economia di resistenza sia non solo una

risposta concreta alle sanzioni, ma anche uno strumento fondamentale per contrastare quella che ha

identificato essere una soft war186 che l’Occidente sta conducendo contro l’Iran. In quest’ottica

l’economia di resistenza può essere vista come una contromisura di soft power in chiave iraniana. Un’idea

che entrerà in maniera preponderante non solo tra i policymaker economici, ma anche a livello della

dottrina di sicurezza e nell’elaborazione della politica estera (si veda più avanti). La dottrina della

resistenza economica intende rendere l’economia nazionale “resistente” a tutti gli shock esterni che

possano colpire i settori economico-finanziari e produttivi nazionali sul lungo periodo. Fa quindi

riferimento non solo, o almeno non in maniera esclusiva, all’embargo USA-UE-ONU, ma più in

generale anche alle crisi finanziarie globali. Ciò significa che tale dottrina sarà valida anche

successivamente all’abolizione completa delle sanzioni ancora in vigore, poiché con il pieno e totale

reintegro del paese nell’agone finanziario internazionale, il suo mercato, paradossalmente, sarà

vulnerabile alle crisi economiche globali più di quanto non lo sia stato durante il periodo dell’embargo.

Ecco perché secondo Khamene‘ī quella dell’economia di resistenza deve essere una concezione

omnicomprensiva, che riguarda diversi aspetti ed approcci: da quelli contro la corruzione fino alle

misure necessarie per rendere maggiormente trasparente il sistema economico, così come stabilito

all’articolo 19 della Dottrina sull’economia di resistenza.187

Da una serie di interviste personali ed incontri condotti presso la Banca Centrale Iraniana e sulla

base dei punti principali dell’economia della resistenza si può evidenziare di come i piani economici del

paese mirino ad attrarre investimenti esteri per poter ri-ammodernare il paese, ovvero recuperare quel

gap tecnologico nei settori strategici, al quale l’Iran è stato relegato negli ultimi anni proprio a causa

186 Sul concetto di soft war, estrinsecato per la prima volta nel 2009, all’indomani delle reazioni occidentali alle operazioni di polizia contro l’Onda Verde, si veda il discorso del Rahbar ai Basiji del 25 novembre: ا����تیب in particolare ,”(Bayanat dar jam-e kasiri Az basijiya-en keshvar)“ %)������ور انیجی�����س از یری%����ث ��# دارید درKhamene‘ī dice: “Tutti oggi comprendono e sanno che lo scontro tra l’Arroganza [l’Occidente] e la Repubblica islamica non è più come quello [che si è verificato durante] il primo decennio della Rivoluzione. In quello scontro hanno esercitato il loro potere e sono stati sconfitti. Si trattò di un confronto duro. Oggi la [loro] priorità è quella che può essere definita una “guerra morbida” [soft war], una guerra che utilizza strumenti culturali, attraverso l’infiltrazione [della nostra società], attraverso menzogne, diffondendo pettegolezzi /.../ La soft war significa istillare dubbi nei cuori e nelle menti della gente...” Si veda: http://farsi.khamenei.ir/speech-content?id=8430 (consultato il 3/5/2017).

187 Si veda: تیس��� (Siasat-haye kolli-ye ‘eghtesad-e moghavemati’). Politiche Generali «ی���و���ت ا������������د» ی%����ل یھ�اdell’economia della resistenza, http://www.isna.ir/news/92113020882 (consultato il 3/5/2017).

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dell’embargo. Tra questi rientrano il settore dei trasporti – in particolare aerei e su rotaia –,188 e quello

energetico, non solo nella sua componente di estrazione/riprocessamento degli idrocarburi, ma anche il

comparto relativo alle energie alternative.189 Alla base di ciò non v’è solo la ricostruzione dei rapporti

diplomatici con Bruxelles e Washington, passando attraverso le relazioni commerciali; ma la strategia,

che vuole essere di lungo periodo, ingloba soprattutto l’idea di costruire una “economia della

conoscenza”, in particolar modo attorno al campo quanto mai sensibile e, ovviamente dual-use,

dell’informatica.

Uno degli obiettivi è sviluppare una solida economia basata sulla conoscenza attraverso lo

sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), sebbene di difficile

realizzazione se declinata sotto gli aspetti severi dell’ortodossia islamico-rivoluzionaria iraniana. V’è già

chi ha lanciato l’idea di costruire una rete internet che sia halal, conforme ai dettami etico-morali

musulmani, ma anche nell’utopico intento di contrastare l’influenza della rete “che è dominata dagli Stati

Uniti”.190 Con estrema probabilità prevarrà un approccio più pragmatico, che tenga conto delle necessità

reali e contingenti del paese, e non perseguirà anacronistiche idiosincrasie o piattaforme populiste.

Le ICT rappresentano una componente essenziale di questo tipo di economie della conoscenza,

così come sottolineato dal Knowledge Economic Index (KEI) della Banca Mondiale, e nel contempo,

rappresentano una valida soluzione per arginare gli alti tassi di disoccupazione (12,7%),191 soprattutto

giovanile, che ha superato il 30%. La forza lavoro è calcolata al 40%, ben al di sotto degli standard

internazionali. Ciò è massimamente dovuto alla bassa partecipazione femminile, stimata attorno al

188 Si vedano a tal proposito le commesse siglate da Teheran con Airbus per l’acquisto di 100 velivoli (46 A320 Family, 38 A330 Family and 16 A350 XWB; l’azienda non ha reso noto l’importo della commessa) e con la statunitense Boeing per ulteriori 80 aerei (50 737 MAX 8, 15 777-300ER e 15 777-9 per un valore di mercato di oltre 16 miliardi di dollari). Airbus Press Center, “Iran Air and Airbus seal historic aircraft order”, 22 dicembre 2016, http://www.airbus.com/presscentre/pressreleases/press-release-detail/detail/iran-air-and-airbus-seal-historic-aircraft-order/, Boeing Media Room, “Boeing, Iran Air Announce Agreement for 80 Airplanes”, 11 dicembre 2016; http://boeing.mediaroom.com/2016-12-11-Boeing-Iran-Air-Announce-Agreement-for-80-Airplanes, Ferrovie dello Stato, Comunicato Stampa, “FS Italiane costruirà due linee AV in Iran”, per 3,5 miliardi di Euro, 12 aprile 2016, http://www.fsitaliane.it/fsi/Media-ed-Eventi/Comunicati-stampa-e-news/FS-Italiane-costruir%C3%A0-due-linee-AV-in-Iran (consultati il 3/5/2017)

189 A dimostrazione del grande interesse dell’Iran per le energie rinnovabili, alla fine di aprile 2017 è stato inaugurato il più grande impianto di pannelli solari del paese. Secondo il quotidiano locale Iran Daily, l’impianto ad energia solare, che si estende su una superficie di 20 ettari presso la città di Isfahan, ha una potenza di 10 MW. La sua realizzazione è stata possibile grazie ad una joint-venture tra la compagnia iraniana Ghadir Electricity e la greca Metka, che hanno investito 15 milioni di dollari. Si veda “Iran’s biggest solar power plant inaugurated”, Iran Daily, 20 April 2017, http://iran-daily.com/News/191673.html (consultato il 3/5/2017).

190 Si veda: ADN Kronos, Iran: Tehran announces new ‘halal’ Islamic internet, 5 aprile http://www1.adnkronos.com/IGN/Aki/English/CultureAndMedia/Iran-Tehran-announces-new-halal-Islamic-internet_311908244227.html (consultato il 5/5/2017). Tra i paradossi di questa proposta, mentre si cerca di creare un’alternativa alla rete dominata dagli Stati Uniti, nel contempo l’iniziativa è ampiamente pubblicizzata proprio sulla rete (WWW) e su Twitter (@InternetHalal).

191 The World Bank, Iran Overview, updated 1 April 2017; http://www.worldbank.org/en/country/iran/overview (consultato il 7/5/2017).

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17%.192 Secondo le proiezioni demografiche si prevede che nel prossimo quinquennio saranno oltre

quattro milioni e mezzo i giovani che entreranno, o che cercheranno di entrare, nel mercato del lavoro.

Un problema non solo economico-sociale, ma anche politico, poiché rappresentano un bacino di

voti considerevole, soprattutto per i riformatori/moderati dello schieramento dell’Eslâh-Talabân

( ط���ن ا�+ح ). Non è un caso che Hassan Rohani, sebbene non espressione di quella formazione

partitica,193 abbia varato una serie di misure al fine di creare 100.000 posti di lavoro nel settore ICT

entro la fine del 2017. Nonostante ciò, quello della disoccupazione è stato uno degli argomenti

principali affrontati durante la campagna presidenziale dell’aprile/maggio 2017 e sul quale Rohani è

stato chiamato a dare conto dall’avversario ritenuto più forte, Ebrahim Raisi del fronte principalista,

l’Osul-Garâyân ( -را�ن ا�ول ) , il quale recriminando come l’accordo sul nucleare avesse avuto uno scarso

impatto economico sul paese, ritenne necessario creare dal milione al milione e mezzo di posti di lavoro

all’anno.194

Sul tema si è espresso più volte anche il Consiglio per il Discernimento, mostrando

preoccupazione per gli effetti sul lungo termine della disoccupazione. Non solo. Anche il Fondo

Monetario Internazionale sin dal 2014 si sentì in dovere di sottolineare che: “If the economy does not generate

a sufficient number of jobs, social conditions would worsen and risk political support for reforms. In turn, preserving the

economic status quo would exacerbate weaknesses in the corporate and financial sectors, undermining future growth

prospects.”195 Non deve quindi stupire il fatto che il 25% delle raccomandazioni e delle politiche

dell’economia di resistenza siano volte ad arginare e a cercare di risolvere questo problema.

Accanto a ciò si rende sempre più necessario provvedere alla crescita del settore privato,

identificato quale motore imprescindibile per lo sviluppo. Nonostante politiche di privatizzazione siano

state avviate nel 2001, ancora nel 2007 i risultati stentavano a vedersi, tant’è che, al fine di darvi maggior

impulso, scese in campo lo stesso Rahbar, il quale con un decreto emendò l’art. 44 della Costituzione,

192 International Monetary Fund, “Islamic Republic of Iran Selected Issue”, IMF Country Report, n. 17/63, Washington D.C., February 2017, p. 39.

193 L’attuale presidente fa parte dell’Associazione dei Chierici Militanti, la Jame‘e-ye Rowḥāniyat-e Mobārez ( �.��� .fondato tra gli altri da Khamene‘ī, era anche il partito nel quale militava Rafsanjani ,(رو/��ت ���رز

194 “Iran Presidential Hopeful Raisi Vows to Tackle Unemployment”, May, 08, 2017, Tasnim News Agency https://www.tasnimnews.com/en/news/2017/05/08/1401161/iran-presidential-hopeful-raisi-vows-to-tackle-unemployment (consultato l’11/5/2017). La questione sulla disoccupazione è stata oggetto di ampio dibattito nella campagna elettorale. I candidati hanno fornito soluzioni e cure diverse. Il sindaco di Teheran Bagher Qalibaf, se eletto ha promesso la creazione di cinque milioni di posti di lavoro e una sorta di reddito di cittadinanza per i disoccupati di 2,5 milioni di rial (circa 70 Euro) mensili, oltre all’accesso gratuito per l’acqua, elettricità e servizi di trasporto. Un appello del tutto populista che palesemente richiama le promesse ed i discorsi in auge nel 1979. Sull’acceso dibattito circa la disoccupazione si veda: “Iran’s conservative presidential candidates pledge more cash handouts, jobs”, Al Monitor – Iranian Pulse, 25 April 2017; http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2017/04/iran-rouhani-ghalibaf-raisi-cash-handouts-5-million-jobs.html (consultato l’11/5/2017).

195 International Monetary Fund, “Islamic Republic of Iran 2014, Article IV Consultation – Staff Report, Press Release and Statement by the Executive Director for the Islamic Republic of Iran”, IMF Country Report, n. 14/93, Washington D.C., April 2014, spec. Appendix I. Risk Assessment Matrix, p. 44

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rendendole più semplici. Anche in questo caso definì tali politiche una sorta di jihad.196 A dieci anni di

distanza dall’emendamento Khamene‘ī e a sedici dall’inizio delle privatizzazioni, i proventi sono stati

poco più di 108 miliardi di dollari, perché esse sono state in larga parte agevolate dal mercato locale

(oltre il 61%),197 che ha visto il trasferimento delle imprese statali ad enti parastatali (bonyads). Inoltre,

nella maggioranza dei casi si è trattato di operazioni di cassa ed il ricavato è stato impiegato per il

pagamento dei debiti e per i fondi pensione. Non c’è stata una politica chiara e coerente per aumentare

l’efficienza e la produttività. Alla base v’è stato il tentativo di soddisfare un particolare bacino elettorale,

quello di Ahmadinejad, il quale, grazie ai proventi delle privatizzazioni compiute sotto la sua

amministrazione ha potuto dare vita e finanziare le cosiddette sahame edalat, le “azioni di equità”, o “di

giustizia”, volte a ripartire azioni di imprese petrolifere dai rendimenti annui pari a circa 70 Euro annui,

con il fine di migliorare la redistribuzione del reddito. Tuttavia questa redistribuzione a pioggia ha

ovviamente fatto crescere l’inflazione rendendo vani i finanziamenti. Ad oggi sono ancora 200 le

compagnie che figurano nella lista della Iranian Privatization Organization (IPO). Sarà uno dei punti sui

quali la prossima amministrazione Rohani dovrà non solo dare conto, ma concentrare gli sforzi affinché

la denazionalizzazione venga portata a compimento in maniera del tutto diversa dalle precedenti,

rendendo le imprese fattivamente dinamiche, affinché possano dare un concreto impulso all’economia

del paese.198

Un terzo livello, oltre a quello politico ed economico citati prima, profondamente legato al

concetto di economia della resistenza è quello della sicurezza. Gli ayatollah non concepiscono

l’economia come qualcosa di indipendente dalla politica di sicurezza internazionale. Pur considerando la

crescita e la stabilità economica come elementi chiave, esse rimangono tuttavia subordinate alla

sicurezza nazionale e l’adozione del termine “resistenza”, che affianca proprio le politiche economiche

dello Stato, ne è una conferma.

È qui che il sostantivo riassume quella connotazione e culturale e ritorna nella sua importanza

emotiva sostanziale, che rappresenta uno dei fondamenti della rivoluzione irano-islamica, e che fa sì che

i miti fondatori della stessa Repubblica Islamica possano trovare ancora una loro collocazione ideale

con l’oggi. La politica di sicurezza iraniana – in palese coincidenza con la linea dettata dalla Guida

Suprema – rigetta con veemenza ogni compromesso con gli Stati Uniti, che incarnano l’Arroganza per

antonomasia, ed aspira a resistere alle pressioni politiche, economiche, militari e culturali degli Stati

Uniti e dei suoi alleati nel Golfo. All’Asse del Male, elaborato dal George W. Bush, l’Iran di Khamene‘ī

oppone la “catena di resistenza”, così definita dall’ex Ministro degli Affari Esteri, ora suo consigliere

196 “Privatization will lead to prosperity”, Tehran Times, 20 febbraio 2007. (http://www.shiachat.com/forum/topic/234922663-privatization-is-a-kind-of-jihad-khamenei/).

197 “Why Iran’s private sector hasn’t benefited from privatization”, Al Monitor, November 24, 2016, http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2016/11/iran-privatization-private-sector-impact-pension-funds.html, (consultato l’11/5/2017).

198 La lista delle imprese da privatizzare è disponibile al sito: http://donya-e-eqtesad.com/news/1054492.

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‘Alī Akhbar Velayati, che muterà in Asse di Resistenza (و���ت �/ور���), secondo la visione della Repubblica

Islamica, e nel concetto di “mezzaluna sciita”, per parte del mondo sunnita che la contrasta o che la

teme. Le parole di Velayati sono infatti molto esplicative, e forniscono una lettura chiara e lucida

dell’arco di crisi del Medio Oriente, così come delle sue fratture sistemiche, il cui epicentro è

rappresentato dal governo di Damasco: “la catena di resistenza contro Israele di Iran, Siria, Hezbollah, del nuovo

governo iracheno e di Hamas passa attraverso l’autostrada siriana /.../ la Siria è l’anello d’oro della catena di resistenza

contro Israele”.199

All’autostrada siriana si contrapporrà pertanto l’autostrada del Jihād, per mezzo della quale il

governo Erdoğan, nella prima fase della crisi, non fermerà in modo deciso il fluire in Siria di migliaia di

combattenti stranieri, per spezzare la catena che, non più idealmente, ma in maniera sempre più

concreta sta unendo le minoranze sciite della regione senza soluzione di continuità. Il primo a percepire

un consolidamento sciita fu l’attuale sovrano hashemita, ‘Abd Allāh II, il quale sottolineava di come “a

new ‘crescent’ of dominant Shiite movements or governments stretching from Iran into Iraq, Syria and Lebanon could

emerge, alter the traditional balance of power between the two main Islamic sects and pose new challenges to U.S. interests

and allies”.200

4.2 Il livello della politica estera. Nuove alleanze strategiche: Paesi non allineati, Russia, Cina, Corea del Nord

Come si è visto sussiste una forte interrelazione tra le dimensioni che sono state presentate in

precedenza. A queste deve aggiungersi anche quella della politica estera, strumento a cui la Repubblica

Islamica ha fatto ricorso con sapienza per cercare di arginare l’impatto delle sanzioni. Nel momento in

cui anche l’Unione Europea ha aderito all’embargo, il governo di Teheran ha immediatamente

rafforzato la cooperazione con la Cina, unica potenza economica capace di sostituire – almeno

quantitativamente – le merci che ora non affluivano più dall’Occidente. Il commercio bilaterale tra i due

paesi ha iniziato così a crescere in maniera esponenziale ed è passato da 30 miliardi di dollari nel 2012 a

53 nel 2013. A partire dal 2010 la Cina ha sorpassato i 27 stati membri della UE divenendo il principale

partner commerciale iraniano. Secondo le previsioni dei principali analisti finanziari non si è trattato di

un sorpasso temporaneo, ma v’è la volontà da entrambe le parti di consolidare sempre più questa

relazione. La rimozione parziale delle sanzioni e l’apertura di rinnovate relazioni commerciali con

l’Europa (e di nuove con gli Stati Uniti, attraverso ad esempio Boeing) non minerà il rapporto in essere

199 Discorso di Velayati ad Isfahan nell’ambito della conferenza sul “Risveglio Islamico ed il ruolo delle università”, Isfahan 29 dicembre 2011. Si veda anche la notizia “‘Alī Akbar Velayati: ‘Syria is the golden ring of the chain of resistance against Israel’,” 29 December 2011, https://www.islamicinvitationturkey.com/2011/12/29/ali-akbar-velayatisyria-is-the-golden-ring-of-the-chain-of-resistance-against-israel/ (consultato il 5/5/2017).

200 Robin Wright, Peter Baker, “Iraq, Jordan See Threat To Election From Iran Leaders Warn Against Forming Religious State”, Washington Post, Wednesday, December 8, 2004.

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con Pechino. Durante la visita di Stato, il Presidente Xi Jinping, incontrando Hassan Rohani nel

febbraio 2016 – non a caso proprio ad una settimana dall’accordo JCPOA –, ha tracciato un piano di

collaborazione strategica di medio periodo che consentirà di espandere le relazioni commerciali fino a

600 miliardi di dollari (dai 4 miliardi del 2003 ai 53 del 2013, secondo i dati dell’International Monetary

Fund) nei prossimi dieci anni.201 Asse portante degli accordi è rappresentato dalla “One Belt, One Road

initiative”, che punta a creare un corridoio tra Cina ed Europa, attraverso un’area che collegherà paesi

che costituiscono il 55% del PIL mondiale, che contano il 70% della popolazione e che possiedono il

75 % delle riserve energetiche conosciute.

Un progetto grandioso al quale l’Iran non vuole sottrarsi e cerca di giocare una carta importante:

quella di connettore tra est ed ovest.202 Ovviamente il vantaggio è mutuo.

Nel 2015 la crescita del prodotto interno lordo cinese è stata del 6,9%, facendo segnare il tasso

più basso degli ultimi venticinque anni. Allo stesso modo hanno subito un preoccupante rallentamento

il settore manifatturiero e quello dei servizi. Un maggiore coinvolgimento economico di Pechino

nell’area, oltre a ridare impulso alla sua economia, può esser letto come un mezzo per rafforzare la sua

presenza strategica in Medio Oriente, non necessariamente in chiave egemonica, ma quale elemento di

stabilizzazione. Pechino infatti è fortemente interessato a mantenere un equilibrio di potere nella

regione e l’Iran è funzionale all’interesse nazionale cinese nell’assicurarsi un contro-bilanciamento

all’influenza statunitense.

4.3 Dall’Asse del Male al Triangolo dei Vincenti: Mosca-Teheran-Ankara

La crisi siriana, che ha reso possibile, unitamente alla elezione di Rohani, l’accordo sul nucleare

con l’Occidente, ha portato anche alla concretizzazione di un asse inedito: quello che collega Mosca, ad

Ankara e Teheran. Un asse che segue e persegue obiettivi ed interessi nazionali differenti, che tuttavia

convergono verso l’esigenza di ridisegnare gli assetti del Vicino e Medio Oriente, dopo i terremoti

geopolitici provocati dalle cosiddette “primavere arabe” ed i conflitti settari che caratterizzano oggi la

regione, cercando di limitare il più possibile l’influenza ed il coinvolgimento statunitensi, il cui

interventismo è da ascriversi alle cause primarie di questo dissesto.

Il primo segmento del triangolo – Mosca-Teheran – non è inedito. E’ stato faticosamente

costruito nel corso degli anni ed ha subito l’usura degli eventi che hanno caratterizzato l’area,

minandone talvolta la solidità. Negli iraniani è ancora vivido il ricordo del tradimento ordito nel 1995

201 Golnar Motevalli, “China, Iran Agree to Expand Trade to $600 Billion in a Decade”, 23 January 2016, https://www.bloomberg.com/news/articles/2016-01-23/china-iran-agree-to-expand-trade-to-600-billion-in-a-decade (consultato il 19/4/2017).

202 Li Jinlei, “Report: Silk Road Economic Belt May Be Divided Into Three Phases; Initial Completion Predicted in 2049”, in Zhongguo Xinwen Wang, 28 June 2014, citato in European Council of Foreign Relations, One Belt, One Road: China’s Great Leap Outward, June 2015, p. 4.

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dall’allora Primo Ministro Viktor Chernomyrdin che giunse ad un compromesso con il Vicepresidente

statunitense Al Gore: Washington non avrebbe imposto sanzioni economiche alla Russia, se questa

avesse cessato la vendita di armi all’Iran.

Nonostante l’accordo con gli Stati Uniti, Mosca continuò nel trasferimento di sistemi per la

Difesa, ma la segretezza con la quale fu concluso l’accordo con gli USA aumentò la diffidenza di

Teheran nei confronti dei russi.203 Una diffidenza riconfermata anche un decennio più tardi dalla

diatriba sulla consegna di sistemi missilistici terra-aria S-300, sbloccatasi solo nel 2016.204

La ritrovata unità di intenti è data dall’alleato comune, sintesi delle diverse esigenze geopolitiche:

la Siria degli Assad. Il regime di Damasco è funzionale alla Federazione Russa quale punto d’approdo

strategico nel Mediterraneo, costante metastorica sin dai tempi degli zar, mentre per l’Iran rappresenta il

corridoio di congiunzione con Hezbollah in Libano, lo strumento di realizzazione dell’Asse di

Resistenza, (ور ���و�ت/�), in opposizione all’Axis of Evil e di mezzo di consolidamento della “mezzaluna

sciita”, consentendo all’Iran di espandere la propria influenza attraverso il Vicino e Medio Oriente

arabo. Collante di questa alleanza, sin dagli anni Settanta, è la legittimazione politico-religiosa fornita

agli alawiti da Musa al-Sadr.

Nella campagna siriana, iraniani e russi si sono trovati alleati ed hanno profuso grande impegno

nel combattere i miliziani del sedicente Stato Islamico. L’Iran ha concesso, per la prima volta nella sua

storia l’utilizzo di una sua base aerea, quella di Shahid Nojeh ad Hamadan, ad una forza militare

straniera: i russi qui vi hanno schierato i bombardieri strategici a lungo raggio Tu-22M3 e

cacciabombardieri Sukhoi. Si è trattato di una svolta epocale nella politica estera iraniana, poiché ha

contraddetto uno dei principi fondanti l’Iran rivoluzionario, che da sempre ha caratterizzato le relazioni

esterne del paese del Golfo, ovvero quello di mantenere una posizione terza rispetto sia all’Occidente

che all’Est, nel tentativo di salvaguardare la propria sovranità ed indipendenza dalle influenze dei due

blocchi: Nah Sharg Va Nah Farg. Faqat Jumuri Islami! (né con l’Est, né con l’Ovest, ma Repubblica

Islamica!)205 era uno dei principali slogan, reiterati non solo durante il corso della rivoluzione, ma anche

nelle successive ed annuali celebrazioni di piazza. Inoltre, così come denunciato da alcuni parlamentari

iraniani, tale decisione poteva configurarsi come una violazione dei dettami costituzionali ed in

203 Per un approfondimento si veda: Michael Eisenstadt, “Russian Arms and Technology Transfers to Iran: Policy Challenges for the United States”, in Arms Control Today, March 2001, https://www.armscontrol.org/act/2001_03/eisenstadt, (consultato il 19/4/2017).

204 Nel 2007 Teheran firmò un accordo per l’acquisto di S-300, funzionali alla difesa delle proprie installazioni nucleari. Ma dietro forti pressioni esercitate dagli Stati Uniti e da Israele, Mosca non spedì i sistemi d’arma in Iran. Dopo aver intentato una causa da 4 miliardi di dollari alla Corte Internazionale di Arbitrato di Ginevra, la Russia ha accettato di rispettare il contratto e nell’ottobre del 2016 ha completato la consegna dei sistemi.

205 Per un approfondimento su questo concetto si vedano: Behrooz, M. “Trends in the Foreign Policy of the Islamic Republic of Iran 1979-1988,” in N. R. Keddie & M. Gasiorowski (eds.), Neither East Nor West-Iran, the Soviet Union and the United States, Yale University Press, New Haven and London, 1990, spec. pp. 13-35; Eva Patricia Rakel, Power, Islam, and Political Elite in Iran: A Study on the Iranian Political Elite from Khomeini to Ahmadinejad, Brill, Leiden, Boston 2009, spec. pp. 151 ss.

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particolare dell’articolo 146 della Costituzione iraniana, il quale recita che “l’apertura di qualsiasi base

militare straniera in Iran, anche per scopi pacifici è vietata”.

In realtà, in punta di diritto, non si tratta di una base straniera, ma la concessione a stranieri di

strutture militari: si sottolineava inoltre il fatto che si sarebbe trattato di una concessione temporanea.

La base sarebbe servita per scopi di rifornimento e il comando effettivo sarebbe rimasto in mani

iraniane. Indipendentemente dall’interpretazione più o meno letterale dell’articolo, la presenza russa sul

suolo iraniano ha rappresentato una novità che fornisce una indicazione particolare circa la gravità della

situazione in Siria, ma anche un’apertura senza precedenti ad una stretta collaborazione militare con

Mosca.

Da un punto di vista strettamente geopolitico la presenza iraniana in Siria ed in Libano ha di fatto

spostato i confini iraniani a ridosso di Israele, facendo sì che Teheran acquisisse un potenziale

vantaggio in caso Gerusalemme decidesse di attaccare direttamente il territorio santuario della

Repubblica.

Ma la Siria è elemento di sintesi e di convergenza anche con Ankara, il terzo lato del triangolo, la

base, in termini geometrici e non etimologico o sostanziale. Per la Turchia il nuovo Iraq, così come la

Siria dissestata, potevano rappresentare l’occasione per la realizzazione del sogno neo-ottomano,

ovvero dei territori sui quali Ankara avrebbe potuto estendere la propria influenza (Iraq), se non

addirittura il controllo diretto (Siria), prevenendo così la costituzione di uno Stato curdo ai propri

confini; realizzando un obiettivo tattico; rafforzando le ambizioni di potenza regionale a detrimento

dell’Arabia Saudita e dell’Iran (le altre due potenze regionali dell’area) quale obiettivo strategico.

Potendo mantenere un certo controllo su Siria ed Iraq, Ankara avrebbe inoltre potuto realizzare

un altro obiettivo, legato alla politica energetica del paese, che ormai da anni mira a fare della Turchia

un hub di primaria importanza per il transito di oleodotti e gasdotti verso il mercato europeo. Essa si

trova, infatti, al centro del 68% delle riserve mondiali di petrolio e del 75% delle riserve mondiali di gas

naturale. Questa sua peculiare caratteristica geografica apre una serie di opportunità per la Turchia in

termini più ampi diversi rispetto al solo transito di energia, ma anche come stoccaggio, lavorazione e

raffinazione. Sin dal 2009 Erdoğan ha iniziato una febbrile attività diplomatica che lo ha portato a

visitare diversi emirati del Golfo, tra i quali il Qatar con il quale il governo di Ankara vorrebbe

realizzare un gasdotto che mirerebbe ad importare in Europa il gas del più grande giacimento del

mondo: quello del North Dome/South Pars, che il Doha condivide con l’Iran. La scelta di aderire a

questo nuovo asse è stata dettata anche da motivazioni di carattere internazionale ed interno.

La Turchia, negli ultimi anni, ha visto il completo fallimento della politica “zero problemi con i

vicini”, elaborata dall’allora Ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoğlu, trovandosi così isolata. Molte

le crisi che le hanno alienato le simpatie dei diversi stati dell’area: a partire da uno dei suoi principali e

tradizionali alleati sui generis, Israele, con il quale ruppe le relazioni diplomatiche nel 2010, all’indomani

dell’incidente che coinvolse la nave battente bandiera turca, Mavi Marmara, durante il quale perirono una

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decina di attivisti che cercavano di violare via mare l’embargo imposto da Israele contro Gaza. Nel 2013

fu la volta dell’Egitto, il cui governo accusava l’ambasciatore turco di “creare instabilità”, insinuando

così una commistione tra Ankara e l’Associazione dei Fratelli Musulmani. Convinzione questa, ripresa

ufficialmente e apertis verbis dal Presidente al-Sisi nel 2015 quando affermava che la “Turchia appoggia

apertamente i Fratelli musulmani e i loro emissari terroristi in Egitto, a Gaza, in Siria e in Iraq, che in genere operano

contro gli interessi occidentali.”206

Ibrahim Kalin, Consigliere capo per gli Affari Esteri del Premier Erdoğan dichiarava

esplicitamente che il Paese si trovava oramai in una “worthy solitude , sentimento che si rifletteva anche

sull’opinione che gli stessi cittadini turchi avevano non sono nei confronti degli Stati della regione, ma

anche verso paesi più lontani. Nel 2014, il prestigioso PEW Research Center fotografava la reazione

all’isolamento attraverso una serie di dati sviluppati attorno ad una semplice domanda: “Hai

un’opinione positiva/negativa del ...”, cui faceva seguito il nome del paese.

Figura 3. Opinione dei cittadini turchi su alcuni paesi: 2014. Dati espressi in valori percentuali

Fonte: nostra rielaborazione su dati PEW Center, “The Turkish people don’t look favorably upon the U.S., or any other country, really”, http://www.pewresearch.org/fact-tank/2014/10/31/the-turkish-people-dont-look-favorably-upon-the-u-s-or-any-other-country-really/

Da un punto di vista politico, la frustrazione di non intrattenere più rapporti cordiali con i propri

vicini si rifletteva sull’impossibilità non solo di perseguire il grande sogno di rappresentare un modello

206 Bassam Tawil, Hero of the Middle East: Abdel Fattah el-Sisi, February 23, 2015, https://www.gatestoneinstitute.org/5252/egypt-sisi-hero (consultato il 19/4/2017).

0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100

Arabia Saudita

UE

Cina

Brasile

NATO

Stati Uniti

Federazione Russa

Iran

Israele

Negativa Positiva

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politico per i paesi dell’area, ma soprattutto di assurgere al ruolo di potenza egemone tra il Golfo ed il

Vicino Oriente.

Il 2016 per la Turchia è stato l’anno di Canossa. Recep Tayyip Erdoğan si è visto costretto a

tornare sui propri passi su molte questioni, nel tentativo di riallacciare rapporti con alcuni alleati

strategici, attori fondamentali per il Vicino e Medio Oriente. Ha ristabilito i rapporti con Vladimir Putin

ed ha incontrato il presidente Rohani, riconoscendo alla Repubblica Islamica di essere stato tra i primi

paese a confermargli il proprio sostegno politico quando il tentativo di colpo di Stato sembrava potesse

ancora concludersi a favore dei golpisti. Ciò che unisce questi due vertici del triangolo è la volontà di

preservare ad ogni costo l’integrità territoriale siriana, impedendone di fatto la balcanizzazione. Un

sistema pluri-regionale autonomo, concretizzerebbe i timori turchi di vedere sorgere ai confini un

(proto) Stato curdo, che diverrebbe una ulteriore quinta colonna degli interessi occidentali nella regione.

Accanto all’identificazione di interessi comuni con la Russia e l’Iran, però, nel tentativo di

spezzare questo “oscuro isolamento”, Ankara ha volto il suo sguardo più a sud. Una prima importante

mossa è stata compiuta nell’aprile 2017 con l’Arabia Saudita, in occasione della visita di cinque giorni di

Re Salman a Istanbul, per la riunione dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, cui ha fatto

seguito quella verso Israele nel dicembre dello stesso anno. Ancora una volta il governo turco sembra

far prevalere l’ambivalenza della propria politica estera che la caratterizza – almeno negli ultimi anni. Se

da un lato ricerca nuove geometrie relazionali con Mosca e Teheran, dall’altro sottolinea la comunanza

di interessi strategici proprio con i due più acerrimi nemici dell’Iran, coalizzatisi in una alleanza atipica:

Israele ed Arabia Saudita.

Ankara ha concesso l’utilizzo della base di İncirlik ai velivoli da combattimento sauditi,

nell’ambito della guerra contro lo Stato Islamico, dicendosi pronta anche a schierare truppe di terra

qualora fosse necessario. I due paesi hanno altresì deciso di stabilire un Consiglio di cooperazione

strategica. Si tratta di un passo in avanti rispetto ad una mera alleanza bilaterale ed il suo obiettivo va

oltre il ripristino del normale equilibrio alle forze sunnite in Iraq e Siria, ma guarda verso Teheran e si

colloca perfettamente nella strategia saudita di cercare di ripristinare l’accerchiamento dell’Iran cui era

stato sottoposto sino ad almeno il 2003.

Nell’ottica di Riyadh queste mosse appaiono andare nella direzione della creazione di una sorta di

alleanza miliare, definita in maniera molto approssimativa una “NATO araba”, il cui obiettivo formale è

identificato nella guerra al terrorismo, quello sostanziale per contenere l’Iran. Si tratta di un’idea per

nulla originale, anzi vetusta, che rispolvera le strategie della Guerra Fredda. Un patto di contenimento

arabo-islamico nell’area, sebbene la dimensione confessionale non fosse presa in considerazione e in

funzione anti-sovietica, era già stato elaborato negli anni Cinquanta del XX secolo attraverso la

costituzione della METO, la Middle East Treaty Organization, meglio conosciuto come “Patto di

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Baghdad” (1955)207 e che vedeva il governo di Londra, potenza da sempre egemone dell’area, con le

ultime velleità imperiali fare gli interessi dell’Occidente (leggasi stati Uniti), e sul campo, quali fieri

alleati, la Turchia, il Pakistan, l’Iran dei Pahlavi, e l’Iraq. L’idea di contenere l’Iran (e l’Iraq) era stata poi

ripresa anni dopo, nel 1994, da Martin Indyk, assistente del Segretario di Stato per gli affari del Vicino

Oriente dell’Amministrazione Clinton. Con la dottrina del “dual containment” Indyk cercava di fornire

sostanza alla strategia del presidente democratico per il Golfo Persico dopo la Guerra Fredda ed il

forzato ritiro delle truppe statunitensi dal Kuwait.208 Secondo lo stesso Indyk, il sovrano saudita cercò di

fornire il sostegno all’iniziativa attraverso il peso economico del suo paese, avanzando la proposta di

acquistare decine di velivoli per uso civile dalla Boeing e dalla Mc Donnell Douglas. Questa mossa sortì

un duplice effetto. Innanzitutto impedì l’inizio del riavvicinamento tra Washington e Teheran. In quel

periodo IranAir, la compagnia di bandiera della Repubblica Islamica, aveva il disperato bisogno di

rinnovare la propria flotta civile ed era pronta ad investimenti per oltre quattro miliardi di dollari. Il

consorzio europeo Airbus si era fatto avanti e Bill Clinton, preoccupato per il tasso di disoccupazione

nel paese e soprattutto sulla costa occidentale, dove lo Stato della California avrebbe avuto un peso

considerevole sulle successive elezioni (1996), avrebbe consentito a Boeing di trattare con gli iraniani

quale potenziale alternativa ad Airbus. La proposta di Re Fahd di acquistare 61 aerei dagli Stati Uniti se

questi si fossero astenuti di trattare con Teheran fruttò una commessa di sei miliardi di dollari e, forse,

in una certa parte contribuì anche alla rielezione di Clinton. Il secondo effetto fu il varo della politica

del doppio contenimento, o di “contenimento attivo” dell’Iran, senza che gli Stati Uniti soffrissero di

contraccolpi economici.209

La Storia sembra ripetersi. La fobia del ritorno dell’Iran sull’agone internazionale ha indotto,

ancora una volta, la monarchia degli al-Sa‘ud a giocare la carta economica. Non è stato un caso che

durante il suo primo viaggio all’estero in qualità di presidente Donald Trump abbia rispolverato l’idea di

una nuova architettura di sicurezza regionale, che dovrebbe plasmarsi nella cosiddetta NATO araba e,

contemporaneamente, abbia annunciato la firma di una commessa per la vendita di armi a Riyadh per

“almeno 110 miliardi di dollari /.../ [volto a garantire] una sicurezza di lungo periodo per l’Arabia Saudita e la

regione del Golfo di fronte all’influenza maligna iraniana ed alle minacce iraniane correlate”.210

207 Venne in seguito rinominata Central Treaty Organization (CENTO) quando nel 1959 l’Iraq decise di lasciare l’alleanza. Sarà definitivamente sciolta il 26 Settembre del 1979.

208 Sulla dottrina del Dual containment, si veda anche il capitolo di Laura R. Galeotti, cap. 3.3. 209 Per un approfondimento si veda Martin Indyk, Innocent Abroad: An Intimate Account of American Peace

Diplomacy in the Middle East, Simon and Schuster, New York, 2009. 210 The White House, “President Trump and King Salman Sign Arms Deal, May 20, 2017”,

https://www.whitehouse.gov/blog/2017/05/20/president-trump-and-king-salman-sign-arms-deal, (consultato il 31/5/2017).

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Giova ricordare che all’indomani del varo della strategia del dual contaiment, v’era già chi

preconizzava che isolare sia l’Iran che l’Iraq avrebbe comportato serie ripercussioni per gli Stati Uniti:

If dual containment succeeds, even partially, in isolating Iran and Iraq, the consequences for the United States may be grave. An anti-U.S. alliance between Tehran and Baghdad is not inconceivable. And in the event of either regime’s breakdown, many forces in the gulf region will seek to exploit the ensuing chaos, making a regional war—which the United States will have little hope of avoiding—nearly inevitable.211

Nihil novi sub sole. La Storia, però, sembra non essere più maestra di vita.

Al di là dei parallelismi storici, vi sono delle profonde cause politiche che inducono a ritenere

irrealizzabile una NATO araba. Già l’attributo “arabo” risulta quantomeno ambiguo almeno per lo

stesso significato politico che ad esso si vuole attribuire. Diverse allora le domande che possono essere

poste. Se preso nella sua accezione più generale, significherebbe includere tutti i paesi propriamente di

popolazione araba, quindi anche quelli della fascia del Maghreb. Sarebbe una alleanza basata sul fattore

etnico e non esclusivamente religioso, poiché non necessariamente tutti gli arabi sono musulmani. Ciò,

di fatto, escluderebbe ovviamente ogni possibilità di accesso dell’Iran, non solo perché etnicamente non

arabo, poiché “persiano”, ma soprattutto perché proprio l’Iran è il ‘nemico’ contro il quale tale alleanza

si prefigge di contrastare. Avrebbe poi senso una struttura di difesa regionale che escluda a priori, il

paese tecnologicamente e militarmente più forte, nonché l’unica potenza nucleare dell’area, per lo più

nemico primo proprio di chi tale alleanza vorrebbe combattere? La risposta dovrebbe senza dubbio

essere affermativa prendendo a pretesto la differente componente etnica e, in maniera più realistica per

garantire la sopravvivenza politica del progetto stesso. Però dovrebbe escludere lo Yemen il quale,

sebbene popolato da genti arabe, esse professano la corrente sciita dell’Islam. Nelle più rosee

aspettative saudite la nuova architettura di sicurezza dovrebbe arrivare a ricomprendere 32 paesi, il cui

pivot centrale sarebbe costituito dalle monarchie del Golfo. Ecco quindi che il progetto appare più uno

strumento per consolidate l’egemonia saudita sull’area, che non per affrontare gli obiettivi prefissati, di

cui uno, come si faceva cenno in precedenza è l’Iran, l’altro è il Califfato, ormai vicino alla sua sconfitta,

almeno militare, che si sta realizzando proprio grazie all’impegno diretto profuso da Mosca e Teheran.

Ancor prima di vedere la luce concreta, la nuova architettura di sicurezza mostra alcune crepe: anche

all’interno del Golfo Persico le fratture sistemiche sono molte e profonde e sembrano lasciare poche

speranze alla sua realizzazione. Tra queste indicativa è stata la rottura delle relazioni diplomatiche tra

l’Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti (EAU) ed Egitto con il Qatar, nel giugno 2017, reo di

supportare i gruppi terroristici che vogliono destabilizzare la regione, attraverso il finanziamento e

211 Barbara Conry, “America’s Misguided Policy of Dual Containment in the Persian Gulf”, in Cato Institute Foreign Policy Briefing, n. 33, November 10, 1994.

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dando loro rifugio.212 Il riferimento è alle formazioni dei Fratelli Musulmani in Egitto, di DAESH e del

redivivo ‘al-Qaeda. In realtà, il peccato originale ascrivibile al governo di Doha, secondo gli al-Sa‘ud è

quello di sostenere “i terroristi” appoggiati dall’Iran nella provincia orientale saudita di al-Qaṭīf e nel

regno del Bahrein. All’interno del regno wahhabita tra il 17 ed il 20% della popolazione è sciita,

concentrata soprattutto nella regione di al-Qaṭīf e nella provincia di al-Aḥsā, significa tre milioni di sciiti

su una popolazione di 18 milioni. Una regione particolarmente importante poiché qui ci sono alcuni tra

i più importanti giacimenti petroliferi, il cui sfruttamento è, per il 70 % assicurato da mano d’opera

sciita.

In caso di ribellione, l’economia saudita sarebbe messa in grave difficoltà. Questa fu anche la

regione nella quale si trovò a predicare lo shaykh Nimr Bāqir al-Nimr, icona della causa sciita araba di

cui si ergeva a difensore dei diritti negati. Delle due regioni chiese l’annessione al vicino Bahrein,

anch’esso a maggioranza sciita, sebbene governato dalla minoranza sunnita. Accusato di sedizione fu

giustiziato nel gennaio del 2016.

Il progetto di una NATO araba si inserisce dunque in una regione dalla geografia confessionale

assai turbolenta e dagli interessi nazionali multiformi, le cui differenze non sono conciliabili facendo

ricorso al solo elemento etnico, né tantomeno a quello religioso. La decisione dei paesi arabi di “isolare”

il Qatar, “fratello arabo”, è un caso del tutto particolare: di fatto sanziona anche l’economia

dell’Emirato, colpendo la compagnia aerea di bandiera, una delle più grandi del mondo, e mettendo

anche rischio i campionati mondiali di calcio che dovrà organizzare nel 2022, un importante evento

sulla via della diversificazione economica. Azioni che si inseriscono appieno nel contesto di tale ricerca

sull’embargo.

212 Si veda Saudi Press Agency, “1�������� � ”�ط���ر دو���2 �# وا�������������������2 ا�د��و�� �������������2 ا�.+���������ت ��ط�������# ا����2�����3 / (L’Arabia Saudita taglia le relazioni diplomatiche e consolari con il Qatar), 5 giugno 2017, http://www.spa.gov.sa/viewfullstory.php?lang=ar&newsid=1637278, (consultato il 5/6/2017). Curioso rimane il fatto che la notizia sia apparsa solo sul sito in arabo della Saudi Press Agency e non anche su quello inglese.

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4.4 Cui prodest?

Molti sono stati i paesi che hanno tratto una qualche forma di vantaggio dalle sanzioni imposte

all’Iran: dai benefici di carattere politico, propagandistico, geopolitico o meglio geostrategico, a quelli di

natura economica.

Andando per cerchi concentrici, i primi ad esserne avvantaggiati sono stati i paesi limitrofi, taluni

nemici storici della Repubblica Islamica, come l’Arabia Saudita, altri già alleati di Teheran, quali la

Federazione Russa o la Turchia. Molti, pur non partecipando direttamente al regime sanzionatorio,

hanno comunque saputo approfittare della situazione.

Assente da questa lista l’Iraq. Nonostante il paese nel recente passato abbia rappresentato uno dei

nemici più giurati della Repubblica Islamica, per ragioni sia strutturalmente sistemiche (regime secolare

ba‘thista versus una repubblica che si definisce islamica, la componente etnica araba opposta a quella

persiana), che culturali, oggi Baghdad sembra essere legato a doppio filo con Teheran. Alcuni dei

dicasteri più importanti, sono nelle mani di filo-iraniani. Esplicativo è il caso del Ministro dell’Interno,

Qasim Mohammad Jalal al-Araji. Formatosi a Teheran, presso l’Università Ayatollah Motahhari,

rientrato in Iraq combatté con l’esercito di Saddam Hussein contro gli iraniani. Fu preso prigioniero.

Giurò fedeltà al regime iraniano e quindi venne arruolato nelle forze speciali Sepāh-e Qods dei Guardiani

della Rivoluzione e successivamente nelle Munaẓẓama Badr, le Brigate o l’Organizzazione Badr, milizia

del Supremo Consiglio Islamico Irakeno.213

Parteggiare per l’Iran è per Bagdad una via obbligata. Avendo il 60% della popolazione di credo

sciita, il richiamo e le affinità religiose rappresentano una variabile della quale necessariamente ogni

governo deve tenere conto. Anche perché Teheran, oggi, è l’unico paese in grado di sostenere il vicino.

Gli Stati Uniti hanno provocato la divisione del territorio e favorito indirettamente l’ascesa di DAESH

nella parte centro-settentrionale del paese, a discapito della componente curda. L’Arabia Saudita lo

considera una minaccia e la debolezza intrinseca di un governo che amministra solo parte del paese

preoccupa Ankara, nel suo sempiterno timore che possa costituirsi uno stato curdo nella parte

settentrionale del paese. Nella Dottrina di Difesa saudita si legge che l’Iraq è considerato “una minaccia

molto più grande di quella degli altri vicini settentrionali”.214

Ormai il confine nord rappresenta il ventre molle per il regime di Riyadh ed è da qui che

provengono le diverse sfide alla sua sicurezza nazionale, non solo di carattere militare, ma anche sociale.

All’indomani della caduta del regime ba‘thista nel 2003 i sauditi temettero si verificasse un’altra ondata

213 Si veda: “New Iraqi Minister of Interior: from pro-Saddam to pro-Iran”, http://english.alarabiya.net/en/News/middle-east/2017/01/31/New-Iraqi-Minister-of-Interior-from-pro-Saddam-to-pro-Iran.html, (consultato il 31/5/2017).

214 Nawaf Obaid, A Saudi Arabian Defense Doctrine: Mapping the expanded force structure the Kingdom needs to lead the Arab world, stabilize the region, and meet its global responsibilities, Belfer Center for Science and International Affairs, Harvard Kennedy School, Cambridge, MA, 2014, http://www.belfercenter.org/publication/saudi-arabian-defense-doctrine (consultato il 31/5/2017).

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di profughi, così come quella che aveva interessato il paese durante la guerra Iran-Iraq, quando giunsero

nel Regno oltre 17.000 iracheni sciiti, secondo le stime della UNHCR, cui fecero seguito altri 33.000

durante la seconda guerra del Golfo (1990-1991).215 Oggi DAESH rappresenta sicuramente un

potenziale push factor per l’immigrazione e la monarchia ha messo in atto non solo una drastica politica

di respingimento, ma anche di rimpatrio, affinché alcuni gruppi, soprattutto sciiti non costituiscano una

quinta colonna all’interno del regno.

Accanto a ciò Riyadh si è trovato a fronteggiare tutte quelle problematiche che promanano da un

failed state ai propri confini: dalla crescita di organizzazioni della criminalità transnazionale, dedita al

traffico di armi e di sostanze stupefacenti, sino a quella di diversi gruppi armati e/o terroristici, così

come sottolineato dalla dottrina strategica sopra citata. Sebbene il documento ascriva tali problematiche

provenire dall’Iraq, in realtà il traffico di esseri umani che interessa il paese arriva dall’Etiopia e dallo

Yemen, così come quello di stupefacenti, per la maggior parte costituito da amfetamine e resine di

hashish queste provenenti dal Pakistan.216 Forte è la componente politica contenuta nel documento, che

serve a giustificare determinate azioni nell’area più che a fronteggiare tutte le problematiche che

identifica.

Questi problemi sono solo marginali rispetto ai vantaggi che Riyadh ha saputo trarre dal

pluridecennale embargo, soprattutto a livello politico. Vantaggi che proseguono, paradossalmente,

anche dopo la firma del JCPOA. Ciò perché anche l’Arabia Saudita strutturalmente si oppone all’Iran:

c’è regime monarchico versus uno repubblicano. Ma al di là della dimensione politologica, la vera

contrapposizione è ideologico-religiosa, tra sunniti wahhabiti e sciiti duodecimani: due minoranze

all’interno della grande Umma islamica, entrambe con velleità di potenze regionali. Relegare l’Iran ai

margini della comunità internazionale consente Riyadh di mantenere il suo status di guida a livello

politico e religioso nell’area. Infatti, come si legge ancora nel documento strategico: “KSA [Kingdom of

Saudi Arabia] perceives Iran as the main threat to regional stability and looks to upgrade its conventional military might,

and thus its power projection, to deter future Iranian aggression”.217 Una minaccia ideale per giustificare l’aumento

delle spese militari. Geniale è stata la strategia degli Al-Sa‘ud di fare leva sui timori statunitensi legati al

terrorismo, sfruttando appieno il populismo trumpiano e coagulando attorno a sé il fronte anti-iraniano.

Una mossa volta a consolidare le posizioni di potenza egemonica regionale che intende ricoprire a tutti i

costi.

Su un piano economico, il vantaggio delle sanzioni – ovvero di far sì che Teheran rimanga uno

stato paria – si traduce nel mantenere il controllo di una quota rilevante del mercato petrolifero. Un

215 United Nations High Commissioner for Refugees, UNHCR preliminary repatriation and reintegration plan for Iraq, Geneva, April 2003, http://reliefweb.int/report/iran-islamic-republic/unhcr-preliminary-repatriation-and-reintegration-plan-iraq (consultato il 31/5/2017).

216 Secondo i dati dell’UNODC, nel 2014 (ultimi dati disponibili), l’Arabia Saudita ha sequestrato oltre 100 milioni di pasticche di ATM e 3 tonnellate di hashish, quantità pressoché irrilevanti se comparate a quelle dei paesi occidentali.

217 Nawaf Obaid, A Saudi Arabian Defense Doctrine..., cit. p. 14.

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mercato messo a dura prova dal calo dei prezzi del greggio che due anni fa iniziò a minare la stessa

economia saudita, così come sottolineato anche l’International Monetary Fund, con il prodotto interno

lordo che ha visto il calo di un punto percentuale negli ultimi anni (dal 3,6% 2014 al 2,6% del 2017).

Ritrovarsi ad avere un competitor come l’Iran sui mercati regionali non contribuisce certo a rafforzare

l’economia saudita.

Nella regione del Golfo, l’arcipelago del Bahrein ha dovuto proprio la sua stabilità ed

indipendenza, prima al conflitto che per otto anni ha bloccato le velleità di esportare i sementi

rivoluzionari nella piccola monarchia, poi all’ostracismo internazionale ed il rigido controllo sull’area da

parte degli Stati Uniti.218 La particolare composizione religiosa del paese – una maggioranza sciita

governata dalla minoranza sunnita facente capo alla Casa degli al-Khalifa – rappresenta da sempre un

elemento potenziale di instabilità. A ciò si unisce il fatto che, tra i falchi iraniani v’è ancora chi considera

il Bahrein come la quattordicesima provincia della Repubblica islamica, come ‘Alī Akbar Nateq Nuri,

l’ex presidente del parlamento.219

La riacquisizione di una certa preminenza nell’area da parte dell’Iran, anche attraverso la

cosiddetta mezzaluna sciita, ha infiammato nuovamente il regno, portando disordini di piazza iniziati

nel 2011, nell’alveo delle rivolte che hanno scosso il Vicino e Medio Oriente, in quella che viene

chiamata la rivoluzione del Bahrein (Thawrat al-Baḥrayn) e che prosegue tutt’oggi sottoforma non solo di

un conflitto settario, ma di una lotta per il riconoscimento di taluni diritti fondamentali.

Sebbene sia una rivolta di popolo, la Casa regnante ha chiesto l’ausilio militare saudita, e le

manifestazioni per le libertà sono state etichettate come eterodirette da Teheran, amplificando la guerra

per delega tra le due potenze dell’area. Ecco dunque che Teheran ha ancor più sospinto Manama tra le

braccia di Riyadh, aumentandone la capacità attrattiva, sia essa politica, che militare.

Nella regione anche il Qatar ha tratto notevoli vantaggi. Il piccolo emirato del Golfo condivide

con la Repubblica Islamica il più grande giacimento di gas del mondo, South Pars. L’embargo che non

consentiva l’accesso a tecnologie di sfruttamento molto più moderne ed avanzate ha consentito al Qatar

di sfruttare in maniera più efficiente il giacimento e quindi di guadagnare diversi miliardi di dollari in più

rispetto all’Iran. Ovviamente Teheran intende recuperare il tempo e gli introiti perduti ed il ministro del

petrolio Bijan Namdar Zanganeh ha fatto sapere che entro la fine dell’anno (iraniano, ovvero il 20

marzo 2018) la produzione di gas iraniana eccederà quella qatariota. Secondo alcune prospettive – tra le

218 A tal fine giova ricordare il tentativo di colpo di Stato che venne messo in atto nel 1981 dal Fronte Islamico per la Liberazione del Bahrein, gruppi filo-sciita supportato dall’Iran rivoluzionario. Per un approfondimento si veda: Hasan Tariq Alhasan, “The Role of Iran in the Failed Coup of 1981: The IFLB in Bahrain”, in Middle East Journal, vol. 65, n. 4, Autumn 2011, pp. 603-617.

219 Si veda il cablogramma confidenziale del 17 febbraio 2009, reso noto da Wikileaks, Viewing cable 09MANAMA91, BAHRAIN AS IRAN'S FOURTEENTH PROVINCE, http://wikileaks.velotype.nl/cable/2009/02/09MANAMA91.html (consultato il 1/6/2017).

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più rosee il giacimento dovrebbe rendere 167 miliardi di dollari in tre anni, una volta realizzate le nuove

nove raffinerie.220

Tra gli Stati confinanti, i benefici per la Turchia all’inizio degli anni Duemila sono stati

considerevoli, poiché per l’Iran essa rappresentava un importante mercato di sbocco, sia per i propri

prodotti, sia per le importazioni di quei beni altrimenti indisponibili. Nel 2004 Turkcell, la più

importante compagnia di telefonia turca, siglò un contratto da oltre tre miliardi di dollari per estendere

la sua rete in Iran. Tuttavia la commessa fu bloccata dal parlamento iraniano per le “relazioni turco-

sioniste”. In realtà il Parlamento stava cercando di mettere in difficoltà il presidente Khatami e prese a

pretesto le relazioni che Ankara intratteneva con Gerusalemme per boicottare l’iniziativa. Meno

pretestuose sembrarono invece le preoccupazioni dei Pasdaran per la costruzione dell’aeroporto

internazionale a sud della capitale, l’Imam Khomeini International Airport, costruito dal consorzio turco-

austriaco TAV, poiché sospettarono l’infiltrazione di alcune imprese israeliane. Nonostante gli incidenti

di percorso, il commercio tra i due paesi crebbe dal miliardo di dollari del 2000, ai 13,7 del 2014. Il

tentativo di trarre un vantaggio anche politico ha danneggiato seriamente i rapporti commerciali,

l’isolamento diplomatico dell’Iran, sebbene perdurasse da tempo fu preso dalla Turchia come un mezzo

per evitare che un’altra aspirante potenza egemone dell’area potesse risorgere.

Senza di essa Ankara avrebbe potuto più facilmente riproporre il suo sogno neo-ottomano.

L’opposizione di vedute sulla Siria, l’allineamento della Turchia con l’Arabia Saudita sul conflitto

yemenita e le tensioni tra Riyadh e Teheran hanno ulteriormente danneggiato le relazioni economiche

bilaterali, che hanno visto un drastico ridimensionamento del volume di affari: nonostante le sanzioni

nel 2012 era di quasi 22 miliardi di dollari, prima di diminuire a 14,5 l’anno successivo, fino a scendere a

9,7 miliardi nel 2015.221

Il brusco e imprescindibile riallineamento di Ankara con le linee russo-iraniane potrebbe iniziare a

far invertire questi trend. Tuttavia la politica versatile e soprattutto l’inaffidabilità dimostrata da Ankara

nelle relazioni internazionali degli ultimi anni fa suggerire ai prudenti Ayatollah di procedere con una

estrema cautela, sebbene essi debbano tenere in dovuta considerazione il fatto che la Turchia

rappresenti la sola via di commercio terrestre che leghi l’Iran all’Occidente.

Lo Stato di Israele è stato fin da subito tra i più duri oppositori del dialogo sul nucleare.

La dichiarazione di Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite di New York nel 2012,

accompagnata da un cartello che mostrava i progressi nella realizzazione di un eventuale ordigno

220 Si veda: “Iran’s income from South Pars gas field to hit $167bln in 2017”, http://theiranproject.com/blog/2014/12/20/irans-income-from-south-pars-gas-field-to-hit-167bln-in-2017/ (consultato il 31/5/2017). Più i generale sulla parte energetica si veda il capitolo di Fabio Indeo.

221 “How Turkey’s foreign policy may have lost it $25 billion in trade with Iran”, Turkey Pulse, Al Monitor, 8 February 2016, http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2016/02/turkey-iran-trade-deal-prove-huge-disappointment.html#ixzz4ikSCnSok (consultato il 31/5/2017).

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atomico richiamava grottescamente alla mente il discorso tenuto nello stesso consesso dall’allora

segretario di Stato Colin Powell nel 2003. Allora nel mirino c’era l’Iraq di Saddam Hussein, reo di

detenere armi di distruzioni di massa, convinzione smentita dalla Storia ed avvalorata anche dalla

commissione di inchiesta britannica Chilcot, la quale nel 2016 sottolineava di come “The circumstances in

which it was ultimately decided that there was a legal basis for UK participation were far from satisfactory”.222

Il Primo Ministro israeliano in quella occasione sottolineava di come:

The relevant question is not when Iran will get the bomb. The relevant question is at what stage can we no longer stop Iran from getting the bomb. The red line must be drawn on Iran's nuclear enrichment program because these enrichment facilities are the only nuclear installations that we can definitely see and credibly target.223

Citando il grande orientalista Bernard Lewis, sottolineava come per gli Ayatollah la mutua

distruzione assicurata – il “MAD” una delle dottrine cardini della Guerra Fredda – non fosse un

deterrente, ma piuttosto un incentivo, poiché: “Iran’s apocalyptic leaders believe that a medieval holy man will

reappear in the wake of a devastating Holy War, thereby ensuring that their brand of radical Islam will rule the

earth”.224

Questo fu il canovaccio sul quale si dipanò la strategia propagandistica israeliana per gli anni

successivi. Una strategia che vide compatto il governo ed ai continui affondi del leader del Likud hanno

fatto eco anche quelli dei partiti che sostengono il gabinetto. Nel 2015 Naftali Bennett, Ministro

dell’educazione, nonché il leader del partito di estrema destra Bayit Yehudi, avvertiva che:

Today it may be us, tomorrow it may reach every country in the form of suitcase bombs in London or New York. Israel has done everything possible to warn of danger and in the end it will follow its own interests and will do whatever it takes to defend itself /.../ Many of the restrictions that were supposed to prevent it from getting there will be lifted. Iran will get a jackpot, a cash bonanza of hundreds of billions of dollars, which will enable it to continue to pursue its aggression and terror in the region and in the world. This is a bad mistake of historic proportions.225

Tuttavia già dal 2012 il Mossad sembrava contraddire la visione apocalittica di Netanyahu,

sottolineando di come al presente stato delle cose l’Iran non sta mettendo in pratica le attività

necessarie per produrre le armi:

222 Il Chilcot Report si compone di 12 volumi; per una visione generale si consulti House of Commons, The Report of the Iraq Inquiry, Executive Summary, London, 6 July 2016, p. 62.

223 Per il testo completo del discorso si rimanda a: “PM Netanyahu addresses UN General Assembly”, Speech by Prime Minister Benjamin Netanyahu to the UN General Assembly’s General Debate, 27 September 2012, Israel Ministry of Foreign Affairs, http://mfa.gov.il/MFA/PressRoom/2012/Pages/PM-Netanyahu-addresses-UN-27-Sep-2012.aspx (consultato il 2/6/2017).

224 Ibidem. Netanyau faceva riferimento al volume di Bernard Lewis, Notes on a Century: Reflections of a Middle East Historian, Viking Penguin Book, London, 2012.

225 Netanyahu denounces Iran nuclear deal but faces criticism from within Israel, The Guardian, 14 July 2015, https://www.theguardian.com/world/2015/jul/14/netanyahu-denounces-iran-nuclear-dealcriticism-israel (consultato il 3/6/2017).

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Even though Iran has accumulated enough 5% enriched uranium for several bombs, and has enriched some of it to 20%, it does not appear to be ready to enrich it to higher levels. It is allocating some of it to produce nuclear fuel for the [Tehran Research Reactor], and the amount of 20% uranium is therefore not increasing. /.../ Bottom line: though Iran at this stage is not performing the activity necessary to produce weapons, it is working to close gaps in areas that appear legitimate such as enrichment, reactors, which will reduce the time required to produce weapons from the time the instruction is actually given.226

Dal ruolo rilevante giocato a metà degli anni Ottanta nel trasferimento di armi statunitensi

all’Iran, per mezzo dell’operazione segreta che diverrà poi lo scandalo Iran-Contras, sia per assecondare

il suo alleato, sia per far sì che il confronto tra Iran-Iraq si riequilibrasse, Israele ha palesato tutta la sua

ostilità nei confronti degli Ayatollah, percependo il rischio che la sua deterrenza nucleare diverrebbe

superflua nel momento in cui Teheran dovesse acquisire la capacità nucleare, proprio in rispetto alla

dottrina del MAD.

Ha quindi dato vita ad una alleanza inedita con l’Arabia Saudita, sulla base della comunanza di

intenti che identificano il nuovo possibile ruolo dell’Iran, svincolato dalle sanzioni, come potenza

capace di influenzare l’intera area. Il tempio del giudaismo unito al tempio dell’Islam wahhabita contro

il faro dello sciismo. Un beneficio senza dubbio politico.

Dietro a ciò la sempiterna questione palestinese: nell’ottica israeliana attraverso il recupero

dell’azione mediatrice degli al-Sa‘ud nel conflitto con i palestinesi ed il raggiungimento di un eventuale

accordo priverebbe gli ayatollah di qualunque pretesto per fornire supporto ai gruppi terroristici della

regione, quali Hamas, Hezbollah ed il Jihad islamico palestinese. Una opinione condivisa e sostenuta

anche ai massimi livelli dell’amministrazione statunitense precedente, dal Presidente Obama, al suo

Segretario di Stato Clinton, sino al Generale Petraeus, comandante prima dell’US CENTCOM, poi

dell’International Security Assistance Force (ISAF).227

Ecco quindi che il triangolo di alleanze Mosca-Ankara-Teheran mostra un pernicioso vertice in

comune con il triangolo di alleanze Riyadh-Gerusalemme-Ankara, essendo divenuto prioritario per

Erdoğan recuperare la vecchia cooperazione, soprattutto militare, con gli israeliani.

Uscendo dall’orbita prettamente geografica del Golfo Persico/Vicino Medio Oriente anche

Mosca, che in diversi momenti storici ha sostenuto l’Iran ha saputo trarre vantaggi dal regime

sanzionatorio. Con l’Iran bloccato ha potuto salvaguardare il suo quasi monopolio sull’export di energia

verso l’Europa. Ma da quando ha iniziato ad essere colpita essa stessa dalle sanzioni in risposta alla crisi

ucraina condivide con l’Iran le stesse problematiche ed ha trovato proprio nell’Iran un potenziale

226 Mossad Report 9342, 22 October 2012 “Iran/Nuclear/Program status. 227 Questa era la linea sostenuta da Barack Obama ancor prima di essere eletto presidente. In una intervista

televisiva alla NBC, il 27 luglio 2008, dichiarava: “If we can solve the Israeli-Palestinian process, then that will make it easier for Arab states and the Gulf states to support us when it comes to issues like Iraq and Afghanistan. It will also weaken Iran, which has been using Hamas and Hezbollah as a way to stir up mischief in the region. If we’ve gotten an Israeli-Palestinian peace deal, maybe at the same time peeling Syria out of the Iranian orbit, that makes it easier to isolate Iran so that they have a tougher time developing a nuclear weapon”. Jim Zanotti, Israel and the Palestinians: Prospects for a Two-State Solution, CRS Report for Congress, Congressional Research Service, Washington DC, January 8, 2010, p. 18.

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mercato di sbocco. Non fu un caso che a cinque mesi del varo dell’embargo contro Mosca nell’agosto

del 2014, il Cremlino siglava un accordo di cooperazione quinquennale con Teheran nel settore degli

idrocarburi, della meccanica e dell’agricoltura, dal valore di 20 miliardi di dollari.228 Nel 2016 le due

nazioni si accordarono per implementare ulteriormente le relazioni economiche: Mosca promise un

prestito statale di 5 miliardi per la promozione della cooperazione industriale,229 così come di riprendere

la vendita di sistemi d’arma, sebbene sottoposti ancora a regolamentazione del JCPOA, con commesse

da 10 miliardi di dollari.

In un cerchio più ampio, la Repubblica Popolare Cinese è la potenza che in termini assoluti ha

guadagnato di più dall’embargo. Una volta che l’Unione Europea ha aderito alle sanzioni decretate delle

Nazione Unite si è affettata a prenderne il posto. Già presente in maniera massiva in diversi progetti

infrastrutturali, tra i quali, oltre alla metro di Teheran, anche nel settore dell’oil&gas, il commercio

bilaterale nel 2015 è stato di 33,8 miliardi di dollari,230 per scendere nel 2016 del 7,7%, a causa proprio

della stipula di nuovi contratti con l’Europa, ove l’Italia gioca un ruolo primario,231 all’indomani della

firma del JCPOA.

La notizia che Donald Trump avrebbe varato nuove sanzioni sono state accolte positivamente dal

Governo di Pechino, a dimostrazione di quanto sia nei suoi interessi che l’Iran rimanga distante dagli

Stati Uniti, almeno sul piano commerciale. Nel caso in cui il processo di progressivo attenuamento del

regime sanzionatorio si dovesse bloccare per la politica ondivaga ed indefinita dell’amministrazione

statunitense la Cina tornerebbe ad essere, se non l’unica opzione, una delle valide alternative per la

ripresa economica del paese, anche perché sin d’ora ha dato prova di essere un partner molto affidabile,

contrariamente a ciò che ha dimostrato l’Unione Europea. Teheran considera inoltre Pechino come lo

strumento funzionale alla propria politica orientale, attraverso l’ambiziosissima iniziativa strategica

cinese che va sotto il nome di One Belt One Road, impropriamente chiamata la nuova via della seta.

La domanda di petrolio della Cina crescerà dagli attuali 6 milioni di barili al giorno (bb/d) a 13

milioni entro il 2035 e l’Iran, paese che si colloca al quarto posto per riserve petrolifere al mondo ed al

secondo per il gas naturale è considerato, a sua volta, un partner affidabile e si pone quale fornitore

228 Sulla crisi ucraina ed il conseguente regime sanzionatorio si vedano i documenti del Consiglio europeo, http://www.consilium.europa.eu/it/policies/sanctions/ukraine-crisis/. Sui termini dell’accordo si veda: “Vladimir Putin signs historic $20bn oil deal with Iran to bypass Western sanctions” The Telegraph, 6 august 2014, http://www.telegraph.co.uk/finance/newsbysector/energy/oilandgas/11014604/Vladimir-Putin-signs-historic-20bn-oil-deal-with-Iran-to-bypass-Western-sanctions.html consultati il 3/6/2017.

229 “Russian trade with Iran up 80 percent”, RT, 13 december 2016, https://www.rt.com/business/370158-russia-iran-trade-turnover/ (consultato il 31/5/2017).

230 “China-Iran trade at $31.2b in 2016”, Tehran Times, http://www.tehrantimes.com/news/410775/China-Iran-trade-at-31-2b-in-2016 (consultato il 31/5/2017).

231 “Italy major European customer of Iranian non-oil products in 9 months”, Tehran Times, January 14, 2017, http://www.tehrantimes.com/news/410041/Italy-major-European-customer-of-Iranian-non-oil-products-in (consultato il 1/6/2017).

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privilegiato per Pechino. Tuttavia Teheran è cosciente che una crescita stabile e consolidata della

propria economia non potrà mai dipendere in maniera esclusiva dagli idrocarburi, essendo un comparto

troppo volatile e vulnerabile e pertanto politiche di diversificazione diventano sempre più

imprescindibili. L’OBOR può essere uno degli strumenti atti ad alleviare l’eccessivo peso dell’oil&gas

del prodotto interno lordo iraniano. Pertanto l’alleanza con la Cina rappresenta un vero e proprio

interesse strategico per Teheran

.

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95

Capitolo 5. La fine delle sanzioni e i primi cambiamenti

5.1 Il nuovo corso di Hassan Rohani e i cambiamenti portati dall’Implementation Day

Laura Rachele Galeotti

Nelle elezioni del 2013, con 18 milioni di voti, Rohani232 è diventato il settimo presedente della

Repubblica islamica dell’Iran e con lui si è aperta una stagione storica a favore dei movimenti riformisti

e dell’apertura internazionale. Durante le precedenti esperienze politiche si era distinto come un

moderatore pragmatico e deciso e, anche per questo motivo le aspettative nei suoi confronti erano

molte.

Una volta giunto alla conduzione del paese è stato chiamato ad affrontare sfide importanti, sia dal

punto di vista interno, sia nell’ambito internazionale. Le priorità del momento chiedevano

espressamente di portare avanti le riforme annunciate in campagna elettorale, risanare i bilanci statali

interni, gravemente danneggiati dagli otto anni del governo populista che lo aveva preceduto, ridurre il

malcontento dei giovani, che rappresentava una quota sempre più maggioritaria tra la popolazione e

garantire la tanto agognata trasparenza nelle attività legate al programma nucleare.

Tra le maggiori prove, l’attenzione è andata in primis alla questione del nucleare, poiché nel 2013

si era ormai raggiunta la fase più delicata delle trattative e la tensione internazionale era diventata

particolarmente difficile.233 A remare contro una soluzione pacifica vi sono stati però numerosi elementi

ostativi, tra cui: l’intransigenza statunitense, dettata dalle lobby contrarie a qualsiasi intesa tra

Washington e Teheran; la legislazione americana, il cui impianto risultava talmente complesso da

rendere quasi impossibile l’abrogazione delle sanzioni, e la scarsa collaborazione degli Ayatollah.

Secondo le analisi di alcuni esperti, la repubblica islamica sarebbe stata spinta a sedere al tavolo

delle trattative per risanare una situazione economica al tracollo, ma in realtà, nonostante le sanzioni

abbiano gravato molto sulle finanze del paese, nel 2013 Teheran era ben lungi dal collasso. Grazie alle

232 Rohani proviene da una famiglia di commercianti e ha studiato teologia nella città santa di Qom. Durante la monarchia Pahlavi fu costretto a lasciare il paese e, insieme a Khomeini, nel 1979 tornò a Teheran per porre fine alla monarchia reggente e instaurare una repubblica islamica. Dal 1989 al 2005, ha ricoperto la carica di segretario del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale e durante la presidenza di Khatami è stato nominato responsabile dei negoziati per il nucleare. In questo periodo ha siglato il Protocollo Aggiuntivo al TNP, permettendo agli ispettori dell’Agenzia di effettuare controlli a sorpresa nei siti iraniani.

233 Secondo Chomsky, tutti gli anni spesi a parlare di una minaccia nucleare iraniana sono stati semplicemente “una mera farsa occidentale”, montata ad arte per distrarre l’attenzione pubblica mondiale da ben altre dinamiche di potere. Gli Stati Uniti (con le cancellerie alleate) per anni avrebbero continuato a sostenere che la comunità internazionale (un gruppo di potere astratto composto essenzialmente dalla Casa Bianca e dai suoi seguaci) ha voluto patteggiare con l’Iran un’intesa sul nucleare, affinché gli ayatollah rinunciassero al diritto di usare l’energia nucleare. I paesi non allineati invece, che rappresentano il 70% della popolazione mondiale, hanno sempre appoggiato il diritto di Teheran di arricchire uranio a scopi pacifici, rifiutando il regime sanzionatorio imposto all’Iran. Secondo Chomsky, la questione contro l’Iran è andata avanti per oltre 11 anni solo perché era una propaganda occidentale, voluta per screditare il paese sciita. si veda N. Chomsky, Chi sono i padroni del mondo, Ponte delle Grazie, Milano, 2015.

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sinergie strette negli ultimi vent’anni con alcune cancellerie asiatiche come la Cina e la Federazione

russa, l’Iran si è facilmente inserito in una serie di dinamiche geopolitiche multipolari, stemperando il

predominio occidentale e aprendo strade parallele molto favorevoli, sia in termini economici, che

politici.

In concomitanza, dal punto di vista internazionale la situazione in Siria si stava spostano a favore

del fronte anti-Assad, l’influenza iraniana su Damasco diventava ogni giorno più decisiva e Teheran,

rafforzando le tesi russe a favore del disarmo chimico degli insorti, e l’Iran stava diventando agli occhi

del mondo un mediatore decisivo, capace di conciliare la crisi mediorientale in corso.

Nelle trattative dedicate al nucleare, Rohani ha cercato di mediare nel migliore dei modi,

conciliando le intransigenze interne dei conservatori con le pressioni dei riformisti e ha saputo,

brillantemente, sedere al tavolo delle trattative arrivando a un decisivo dunque.

La firma decisiva è stata siglata a Vienna, nel gennaio 2016, quando gli iraniani hanno accettato di

collaborare con l’Occidente e ridurre le loro attività di ricerca. Nell’accordo sono stati messi in evidenza

molti punti, ma otto sono quelli da considerare cruciali:

• agli ispettori ONU deve essere garantita la possibilità di eseguire controlli periodici nei

siti nucleari iraniani, con la considerazione che la repubblica islamica si può avvalere

della facoltà di opporsi a determinate richieste di accesso;

• deve essere ridotta ogni attività di ricerca e sviluppo legata all’arricchimento dell’uranio;

• devono essere concluse tutte le operazioni sotto copertura per produrre materiale fissile;

• sono state annullate le sanzioni relative agli scambi di gas e petrolio, delle transazioni

finanziarie e del trasporto di merci per via aerea;

• sono stati scongelati diversi asset economici iraniani per un valore di centinaia di miliardi

di dollari,

• l’embargo sulla vendita di armi, imposto dalle Nazioni Unite, sarà attivo ancora fino al

2020,

• il meccanismo di sanzioni per lo sviluppo di missili resterà in vigore fino al 2023

• e in caso l’accordo sia violato, le sanzioni nei confronti dell’Iran verranno ripristinate

dopo 65 giorni dalla violazione.

Subito dopo la stipula dell’accordo, il Presidente Rohani ha rilasciato molte interviste alla stampa

internazionale, si è detto felice di aprire un nuovo capitolo nelle relazioni estere del suo paese e non ha

mancato di ringraziare la fede del suo popolo e di ricordare che ogni decisione presa dalla sua

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amministrazione ha sempre avuto la piena approvazione della Guida Suprema, ‘Alī Khamene‘ī.234

Quello stesso giorno la televisione iraniana ha trasmesso in diretta il discorso di Obama, cosa alquanto

singolare per i media locali abituati a replicare quasi esclusivamente programmi persiani e nella capitale,

così come in tantissime altre città, la gente è scesa in piazza a festeggiare la fine delle sanzioni e l’inizio

di un nuovo momento storico.

Ma va precisato che non tutti i blocchi sono stati rimossi, ne rimangono infatti molti altri riferiti

ad alcune specifiche categorie di prodotti e verso particolari enti, società e persone fisiche, i cui fondi

restano congelati. Il concordato ha quindi consentito il ripristino di una serie di attività, ma a

condizione che queste non abbiano nessun tipo di legame con le società, gli enti o le persone fisiche

indicate nella cosiddetta “lista nera” o identificate negli allegati del Regolamento 267. Più precisamente

sono consentite:

• le attività di import ed export dei prodotti gassosi, petroliferi e petrolchimici;

• le attività ed i servizi accessori alle suddette attività;

• gli investimenti nel settore del gas, petrolifero e petrolchimico iraniano;

• l’esercizio di attività bancarie e l’apertura di nuove succursali;

• la costituzione di Joint Ventures in Iran o con istituti iraniani;

• l’apertura di conti correnti in Iran o in Europa, per conto di soggetti iraniani, purché

questi non siano segnalati nella “lista nera”;

• l’export di attrezzature e tecnologie navali ritenute fondamentali per la costruzione,

manutenzione o l’adattamento di navi e petroliere

• l’accesso agli aeroporti in territori europei per i voli cargo operati da compagnie iraniane

• il commercio e il trasporto di metalli preziosi

• il trasporto di beni e prodotti non più soggetti a restrizioni

• e ogni attività di brokeraggio e finanziamento da e nei confronti del governo iraniano e

della Banca Centrale dell’Iran

234 Nelle interviste rilasciate, Rohani ha inoltre ripetuto che l’Iran non ha hai avuto l’intenzione di costruire nessun ordigno atomico, poiché l’Islam è contro ogni forma di aggressività e ogni paura in merito è stata pertanto sempre infondata. La Guida Suprema, qualche anno fa, aveva firmato un decreto contro la costruzione di armi chimiche e, il 17 aprile 2010, aveva emesso una specifica fatwa, nella quale di diceva: “We believe that besides nuclear weapons, other types of weapons of mass destruction such as chemical and biological weapons also pose a serious threat to humanity. The Iranian nation which is itself a victim of chemical weapons feels more than any other nation the danger that is caused by the production and stockpiling of such weapons and is prepared to make use of all its facilities to counter such threats. We consider the use of such weapons as haraam and believe that it is everyone's duty to make efforts to secure humanity against this great disaster.” Il testo originale e la traduzione in inglese sono disponibili al sito http://farsi.khamenei.ir/treatise-content?id=228#2790 (consultato il 25/05/2017).

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Permangono invece restrizioni verso:

• le attività che coinvolgono i soggetti della “lista nera” elencati negli allegati al

Regolamento 267;

• i fondi e le risorse economiche dei soggetti rientranti nella “lista nera”;

• le attività di esportazione di armi, armamenti, munizioni, veicoli militari, beni, software e

tecnologie, inclusi nelle attrezzature militari dell’Unione Europea e nell’elenco del

regime di non proliferazione missilistico e di tutti i prodotti che possano contribuire allo

sviluppo di sistemi di lancio per armamenti nucleari;

• le attività di esportazione di beni, tecnologie e software riportati negli elenchi del gruppo

di fornitori nucleari;

• le attività di esportazione di beni e tecnologie che possono contribuire ad attività

connesse con il ritrattamento, l’arricchimento o l’acqua pesante o allo sviluppo di sistemi

di lancio di armi nucleari o all’esercizio di attività non conformi al piano di reintegro

dell’economica (JCPOA);

• le attività di esportazione di beni a duplice uso;

• le attività di esportazione di grafite e alcuni metalli grezzi o semilavorati specificamente

individuati negli allegati al Regolamento 267.

Alla base dell’intesa non c’erano però mere promesse ma la dimostrazione di fatti confermati dal

vigile controllo dell’AIEA; ciononostante la maggior parte delle petrolmonarchie sunnite della regione

si è dimostrata contraria a una negoziazione pacifica e l’ostracismo è arrivato anche da una parte del

Congresso americano che, durante le trattative, ha continuato a promuovere sanzioni verso Teheran,

aumentando il numero delle aziende della lista nera e ostacolando gli sforzi compiuti

dell’amministrazione Obama235.

Il risultato a cui si è giunti è stato un consenso parziale a tempo determinato, poiché con la

sottoscrizione di Vienna non è stato smantellato l’intero impianto sanzionatorio, ne è stato avviato un

progetto che prendesse in considerazione la reale idea di eliminare tutti i blocchi imposti alla repubblica

sciita, ma si è piuttosto intrapreso un percorso in favore di una cooperazione attiva coinvolgendo Iran,

ONU, Unione Europea e Stati Uniti, in una trattativa già messa in discussione nei primi mesi del nuovo

presidente americano. Il futuro ci dirà se e come tale cooperazione potrà essere mantenuta in vita.

235 Sicuramente l’iranofobia dei repubblicani è aumentata durante le trattative, ma l’attenzione internazionale non si è concentrata solo sull’annosa questione del nucleare, dando un ampio spazio di discussione anche al comparto relativo alla vendita di armi e missili e mettendo a nudo le profonde differenze che permangono tra i membri del Consiglio di Sicurezza. Washington si è infatti opposta alla riapertura del commercio bellico con gli ayatollah, mentre Russia e Cina hanno dimostrato di avere un’opinione diametralmente opposta, favorevoli ad un Iran militarizzato. Si consideri che, secondo le analisi dello Stockholm International Peace Research Insitute (SIPRI), nel 2013, Russia e Cina erano rispettivamente il secondo e il settimo paese al mondo per vendita di armamenti, vendita che coinvolgeva anche Teheran come regolare cliente.

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5.2 Le potenzialità del mercato iraniano

In merito alle potenzialità del mercato iraniano è necessaria una glossa sulla multipolarità del

sistema economico che ha portato l’Iran, negli ultimi quarant’anni, a diversificare i suoi orizzonti

economici, creando solidi partenariati, in particolare con i paesi asiatici. Durante il periodo delle

sanzioni, le aziende iraniane sono riuscite a bypassare i canali ufficiali, eludendo i blocchi commerciali e

facendo entrare nel paese la maggior parte dei prodotti internazionali negati. Solo nel 2014, si stima che

siano entrati beni per oltre 25 miliardi di dollari, una cifra enorme se si considera che il fatturato delle

importazioni si aggira intorno ai 60 miliardi e la maggior parte di questi prodotti sarebbero entrati grazie

all’economia sommersa di Pechino e Mosca. Pertanto parlare di possibilità, significa anche considerare

l’apertura legale di alcune tratte già incorso e la ristrutturazione completa di altre piattaforme, affinché

diventino realmente operative ed efficienti.

A oggi, tra i punti a favore, la situazione mostra due elementi di spicco: l’ottima posizione

geografica, che colloca l’Iran in uno strategico punto d’incontro per gli scambi tra Europa, Asia e Golfo

Persico e un’enorme forza lavoro a basso prezzo presente nel paese.

Nell’area abbiamo un mercato di circa 350 milioni di persone, in termini dimensionali siamo di

fronte a un bacino simile a quello dell’Unione Europea, con un buon livello infrastrutturale garantito in:

kilometri di strade asfaltate, tracciati ferroviari e stazioni portuali, che consentono di poter produrre in

loco ed esportare nei paesi limitrofi, oltre ai vantaggi delle aziende locali, in termini di conoscenze del

territorio con realtà commerciali già in atto. Nel paese ci sono oltre 25 milioni di lavoratori con

un’istruzione a livello universitario il che, in termini di alta qualificazione, lo fa diventare il terzo paese

al mondo, dopo USA e Israele. E questo dato è sicuramente un vantaggio, non solo per chi vuole fare

export, ma anche per chi vuole stabilire nel lungo tempo un’azienda o un impianto. Il paese offre

manodopera a costi vantaggiosi alle aziende straniere e dopo la seconda tornata di sanzioni, nel 2012, gli

stipendi sono scesi ancora di valore e, con un salario minimo di 207 dollari al mese, l’Iran è diventato

più competitivo di Cile, Repubblica Ceca, Polonia e Argentina.

Tra gli aspetti critici invece ne vanno considerati altri: l’alta percentuale di prestiti non

performanti delle banche e il peso della burocrazia, con il relativo contenimento dei suoi costi. In

merito ai cosiddetti Non Performing Loans (NPL),236 questi rappresentano un elemento molto sfavorevole

nel mercato finanziario iraniano perché se è vero che c’è un impegno ufficiale da parte del governo di

coprire questi crediti deteriorati e ricapitalizzare gli istituti coinvolti, è anche vero che permane un alto

236 I Non Performing Loans (NPL), ossia i prestiti non performanti sono attività che non riescono a ripagare il capitale dovuto ai creditori, si tratta quindi di crediti la cui riscossione è incerta, sia in termini di rispetto della scadenza, che per ammontare.

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rischio, dimostrato dal numero di aziende che negli ultimi anni non sono state in grado di far fronte agli

impegni presi con i loro creditori. Più volte il governo si è detto pronto a ricapitalizzare alcune banche

in crisi e a sanarne altre attraverso strategiche fusioni, in modo da garantire una solidità in termini di

recupero crediti e di affidabilità del circuito creditizio, ma la situazione fatica a migliorare. Quello che

sembra urgente è una ristrutturazione completa del sistema bancario e, nonostante dal 2014 ci siano dei

piani di riforma in atto, questi non hanno ancora dato i risultati sperati.

Stando alle anali degli esperti iraniani, il sistema bancario nazionale merita la fiducia dei mercati

internazionali poiché il governo è sempre riuscito a rispettare gli impegni pressi e non ha mai lasciato

fallire nessuna banca pubblica, inoltre, tale presunta solidità verrebbe garantita dalla Banca Centrale

iraniana (BCI) che, nonostante l’alta percentuale di NPL, è sempre intervenuta per arginarne la

pericolosità di un’eventuale crisi endemica.

Ad incidere negativamente sulla capacità di fare business nel paese vi sarebbe poi la burocrazia,

con l’imposizione di lunghi tempi d’attesa per portare a termine le procedure amministrative e

chiaramente tutta una serie di costi associati. Nel 2014 è stato avviato un pacchetto di riforme per

diminuire il processo amministrativo e burocratico all’interno delle istituzioni statali, i risultati al

momento sembrano essere limitati ma persiste l’intenzione governativa di semplificare ogni iter

alleggerendo gli obblighi, specie per le aziende straniere che intendono delocalizzare in Iran. Per

l’ottenimento di una licenzia sono necessari circa 15 giorni, mentre per registrare un marchio e avere

tutti i documenti, compreso il certificato finale, serve un mese. Ci troviamo di fronte quindi a una

tempistica sicuramente meno veloce di quella di Singapore, dove tutto si fa in un solo giorno, ma a

livello mondiale la situazione non è realmente così difficile da gestire. Tuttavia, da parte delle

compagnie estere permane una scarsa conoscenza delle procedure e delle leggi iraniane, nonché una

limitata conoscenza del contesto economico, sociale e culturale dell’intera area persiana.

5.3 Le possibili sinergie economiche tra Iran e Italia

Prima del regime sanzionatorio, l’Italia aveva degli ottimi rapporti commerciali con la repubblica

sciita, rapporti che sono stati congelati nel corso degli ultimi 10 anni237 a causa dei blocchi economici.

Con la riapertura ufficiale di alcuni canali, le aziende italiane si troveranno a fare di nuovo affari con gli

Ayatollah ma riusciranno a recuperare solo una piccola parte del terreno perso. Si considera che nei

prossimi quattro anni per l’Italia il graduale ritiro delle sanzioni varrà fino a 3 miliardi di euro di

esportazioni in più, ma stando alle analisi italiane238 se le restrizioni commerciali non ci fossero state il

Bel Paese, nel periodo tra il 2006 e il 2018, avrebbe potuto cumulare esportazioni per un valore di circa

17 miliardi di euro.

237 Tra 2011 e 2014 gli scambi tra Italia e Iran sono crollati da 7,2 a 1,6 miliardi. 238 Si rimanda a http://www.sace.it/media/comunicati-stampa/dettaglio/iran-sace-firma-accordo-di-recupero-

del-credito-di-564-milioni-di-euro (consultato il 30/01/2017).

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L’Italia è scivolata al nono posto tra i paesi che esportano in Iran e riprendere le quote di mercato

perse sarà tutt’altro che facile, specie perché si dovrà affrontare la concorrenza di Cina, India,

Federazione russa e Brasile. A causa del freno sanzionatorio le vendite ripartiranno da un livello

artificialmente basso ed è probabile, che una volta che i commerci saranno liberi, le statistiche

potrebbero subire uno shock positivo con incrementi anche superiori al periodo 2000-2005, creando un

effetto illusorio.

Tra i maggiori settori di spicco vi sono quello automobilistico, dove l’Italia deve fronteggiare

l’antagonismo delle francesi Psa e Renault già presenti con joint venture; quello militare, l’esercito

iraniano infatti dispone di armamenti molto vecchi risalenti all’Unione sovietica e necessita di nuovi

corredi, ma anche in questo caso il nostro paese deve concorrere con i mercati russo e cinese; e quello

dei trasporti dove la partita viene giocata contro gli inglesi e i francesi. Tuttavia, il paese degli Ayatollah

presenta una serie di rischi che le aziende italiane non devono trascurare: l’elevata corruzione; il peso

che lo Stato riveste nei diversi comparti produttivi, che lascia sicuramente uno spazio molto limitato ai

nuovi player; le barriere doganali, si pensi per esempio ai beni alimentari i cui dazi raggiungono il 65%,

e i rischi di mancato pagamento.

In maniera preventiva, le società straniere che abbiano intenzione di trattare con soggetti iraniani

dovrebbero aver la premura di eseguire uno screening dei partner, cercando di ottenere il maggior

numero di informazioni per accertare l’assenza di legami, anche indiretti, di soggetti inseriti nella lista

nera e non dimenticare di monitorare costantemente l’evoluzione dei rapporti politici e diplomatici

perché, in caso di inadempimenti agli impegni ivi assunti, le sanzioni potrebbero essere reintrodotte,

con conseguenze drastiche.

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Capitolo 6. L’impatto economico delle sanzioni sull’Iran

Annalisa Cristini e Federica Origo239

6.1 Le sanzioni economiche e finanziarie all’Iran

Prima del 2006, cioè prima delle sanzioni ONU motivate dal programma di arricchimento

dell’uranio che l’Iran perseguiva per la proliferazione nucleare, le sanzioni economiche furono uno

strumento utilizzato nei confronti dell’Iran dai soli Stati Uniti, preoccupati dall’atteggiamento del

regime che sfidava la dominazione americana nelle aree strategiche del Golfo Persico.

Le sanzioni iniziali furono imposte nel novembre del 1979 dal Presidente Carter a seguito del

sequestro di 52 persone nell’ambasciata statunitense, che durò 444 giorni. Dopo questo avvio, molte

delle sanzioni USA rimasero in essere negli anni successivi.

Tra il 2007 e il 2012 si aggiunsero altre pesanti sanzioni economiche e finanziarie sottoscritte oltre

che dagli USA, anche da altri paesi, tra cui l’UE, motivate dal programma nucleare perseguito dall’Iran.

L’embargo sarà revocato a partire dal gennaio 2014 a seguito dell’accordo interinale (Piano d’azione

comune) convenuto tra UE+3 e Iran nel novembre 2013. A gennaio 2016 l’UE revoca definitivamente

tutte le sanzioni legate al nucleare, pur rimanendo in essere altre limitazioni; ugualmente anche alcune

delle sanzioni ONU relative al nucleare restano tuttavia ancora in vigore.

6�1�1 Un breve excursus cronologico

Nel 1984, alcuni anni dopo le prime sanzioni del 1979, che bandivano le importazioni di petrolio

dall’Iran e l’esportazione di prodotti statunitensi in Iran, Washington aggiunse la Repubblica Islamica

alla lista dei paesi accusati di sostenere il terrorismo internazionale. Vennero proibiti gli aiuti, l’assistenza

creditizia e finanziaria; vengono vietate le esportazioni in Iran di particolari prodotti, specialmente di

quelle sostanze che avrebbero potuto essere impiegate nella produzione di prodotti chimici e armi

biologiche; vennero altresì proibite le importazioni in USA di beni e servizi dall’Iran, specialmente di

greggio.

Tra marzo e maggio 1995 il Presidente Clinton emanò un ordine esecutivo che vietava alle

imprese statunitensi di investire in petrolio e gas naturale iraniani, divieto poi esteso a tutte le attività di

investimento e a qualsiasi tipo di attività commerciale con Teheran. Si trattò di sanzioni estese, per la

prima volta, a tutto il commercio bilaterale e a tutte le attività di investimento tra USA e Iran; che il

239 Le autrici ringraziano Anna Falzoni per i preziosi suggerimenti e i materiali che hanno reso possibile questo capitolo.

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Governo di Washington motivò con il sostegno dell’Iran al terrorismo, l’opposizione al processo di

pace in Medio Oriente e il tentativo di acquisire armi di distruzione di massa.240

I paesi alleati non affiancano tuttavia gli americani in questo inasprimento sanzionatorio, che

rimase unilaterale. Infatti, gli interessi economici in Iran dei maggiori paesi europei (Germania, Francia,

Italia) e del Giappone erano, in quegli anni, ben superiori a quelli degli USA.241 In realtà, fu questo un

periodo in cui gli stretti legami economici dell’Europa e Giappone con il Medio Oriente sembrarono

creare nuove opportunità per la regione europea, che si preparava a diventare un’area valutaria

paragonabile per dimensione a quella del dollaro, con la possibilità di contrastare quindi la supremazia

dello stesso come valuta internazionale.

Nel tentativo di indurre altri paesi ad appoggiare le sanzioni, nell’aprile del 1996 il Congresso

approvò l’imposizione di penalità extra-territoriali alle imprese estere che investono più di 20 milioni di

dollari all’anno nel settore dell’energia.

A partire dal 1996 il tentativo di riavvicinamento tra Washington e Teheran indotto anche dai

cambiamenti politici interni alla Repubblica Islamica, portò all’allentamento di alcune sanzioni. Tuttavia

questa fase ebbe breve durata e terminò con i fatti drammatici del 2001 e con il conseguente discorso

del Presidente Bush che include l’Iran tra i paesi rientranti nell’ ‘Axis of Evil’.

Successive intensificazioni sanzionatorie si verificano a partire dalla fine del 2006, quando il

Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che aveva chiesto invano all’Iran di terminare i programmi

di arricchimento dell’uranio, impose sanzioni al commercio iraniano di materiali e tecnologie legate al

nucleare e congelò tutte le attività e le risorse di individui e società operanti nel settore; l’interdizione

commerciale e il blocco delle attività si ampliò l’anno successivo. Nello stesso periodo anche l’UE

pubblicò una lista estesa di società e individui iraniani non graditi.

A dicembre 2007, con la decisione di escludere dal sistema finanziario statunitense tre banche

statali iraniane e le organizzazioni associate al Corpo della Guardia Rivoluzionaria Islamica (Islamic

Revolution Guard Corps, i Pasdaran) le sanzioni si aggravarono e raggiunsero il livello massimo dalla fine

degli anni Settanta.242

Tra il 2008 e il 2010 vi fu un ulteriore peggioramento che impose il monitoraggio di tutte le

banche iraniane, delle navi ed aerei cargo sospettati di trasportare prodotti vietati. Il blocco delle attività

e dei patrimoni venne ampliato, così come il numero di prodotti sottoposti all’embargo. Nel 2010 il

Congresso statunitense impose sanzioni unilaterali indirizzate al settore bancario e dell’energia, nonché

240 A. E. Torbat, “Impacts of the US Trade and Financial Sanctions on Iran”, in The World Economy, vol. 28, n. 3, 2005, pp. 407-434.

241 Nel 1994 le esportazioni tedesche in Iran erano 4 volte quelle degli USA, quelle dell’Italia e del Giappone erano il doppio di quelle USA e quelle della Francia di poco superiori a quelle USA. Si veda Torbat, “Impact…», cit..

242 Al Jazeera (2012) Timeline: Sanctions on Iran, http://www.aljazeera.com/

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una serie di penali alle imprese che fornivano prodotti raffinati del petrolio all’Iran oltre una certa

soglia. Nel 2011 le banche statali iraniane nella lista nera salirono a 21.

Dal 2010 si intensificarono le sanzioni da parte di altri paesi occidentali: l’UE vietò la creazione di

joint ventures con imprese locali impegnate in attività petrolifere e del gas naturale, nonché la vendita, la

fornitura e il trasferimento di attrezzature e tecnologie legate alle stesse attività; vietò inoltre

l’esportazione di armi e di attrezzature legate alle attività nucleari.

A novembre 2011 il Regno Unito ordinò alle istituzioni finanziarie di chiudere ogni tipo di attività

economica con controparti iraniane. Poco dopo, a gennaio 2012, gli USA imposero sanzioni alla Banca

Centrale Iraniana; contemporaneamente l’UE annunciava un embargo del petrolio iraniano se l’Iran

non avesse fermato il proprio programma nucleare; l’embargo, che avrà effetto dal luglio 2012, si

inasprì nel corso dell’anno, quando il divieto si estese al gas naturale e alle transazioni con banche e

istituzioni finanziarie iraniane.

Nel corso del 2012 gli Stati Uniti vietarono alle banche di altri paesi di operare transazioni relative

al petrolio con l’Iran. India, Corea del Sud, Malesia, Sud Africa, Sri Lanka, Taiwan e Turchia evitarono

le possibili sanzioni economiche grazie ai tagli che apportano alle importazioni di petrolio dall’Iran.

Ad ottobre 2012 la moneta iraniana aveva già perso l’80% del valore rispetto all’anno precedente,

raggiungendo un minimo storico che secondo molti osservatori è ascrivibile alle sanzioni.

6.2 Il quadro macroeconomico dell’Iran nel periodo delle sanzioni

L’Iran è stato caratterizzato negli ultimi decenni da tassi di crescita economica significativi,

sostenuti da elevati tassi di investimento, un crescente tasso di occupazione e progressivi guadagni di

produttività. La crescita economica si è riflessa in un aumento del reddito pro-capite ed in una

progressiva riduzione della povertà, anche se la situazione sociale è ancora relativamente svantaggiata in

confronto ad altre economie ad alta intensità di materie prime, come Arabia Saudita e Turchia.243

La crescita economica ha tuttavia subito un brusco arresto a seguito del taglio dei sussidi pubblici

ai carburanti alla fine del 2010 e dell’inasprimento delle sanzioni a fine 2011. Come mostra la Figura 4, a

partire dal 2000 il tasso di crescita del PIL, per quanto relativamente volatile, è sempre stato positivo

fino al 2011, con tassi anche superiori all’8% nel 2002-2003 e 2007. Il rallentamento del 2008,

determinato dalla Grande Recessione mondiale, è stato seguito da un’immediata ripresa della crescita

nel triennio successivo. A seguito dell’inasprimento delle sanzioni del 2012, invece, si è registrata una

brusca caduta, con una riduzione del PIL reale di oltre 6 punti percentuali. In quel periodo la

produzione di petrolio ha toccato il minimo storico degli ultimi 20 anni ed alcuni settori-chiave, come

quello delle automobili, hanno sperimentato una forte contrazione. Secondo alcune stime

243 International Monetary Fund, Islamic Republic of Iran, IMF Country Report 14/93, 2014.

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105

dell’International Energy Agency, a causa delle sanzioni l’Iran ha perso circa 40 milioni di dollari solo nel

corso del 2012, determinati dal brusco calo dei proventi del settore energetico. Tali effetti negativi sono

continuati nel 2012-2013, ma gli effetti di lungo periodo possono essere ancora più ingenti, data la

riduzione degli investimenti determinata anche dall’abbandono del paese da parte delle grandi

compagnie straniere.

La riduzione del PIL reale, per quanto più contenuta (-1,9%) è proseguita nel 2013. Solo nel 2014

l’economia iraniana ha ripreso a crescere, sperimentando un’ulteriore battuta d’arresto nel 2015 (-1.6%).

Come mostra la Figura 4, la contrazione del PIL a seguito delle sanzioni è stata determinata anche

da una progressiva riduzione degli investimenti che, pur con alcune fluttuazioni, sono passati dal 38%

del PIL nel 2012 a poco più del 32% nel 2016-17.

Figura 4. Tasso di crescita del PIL e Investimenti Totali

Fonte: International Monetary Fund, Islamic Republic of Iran, IMF Country Report 17/62, 2017.

Come atteso, le sanzioni hanno prodotto effetti rilevanti sul commercio estero (Figura 5): nel 2012 le

esportazioni si sono ridotte di oltre il 28% rispetto all’anno precedente, le importazioni del 13,5%. A

queste tendenze ha significativamente contribuito la riduzione, pari a circa il 15% del PIL iraniano, delle

esportazioni di petrolio. La ripresa negli anni successivi ha interessato soprattutto le esportazioni. Le

importazioni sono cresciute a tassi più contenuti ed hanno sperimentato una significativa riduzione

anche nel 2015.

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tasso di crescita del PIL reale Investimenti totali (% PIL)-scala destra

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106

Figura 5. Volumi di importazioni ed esportazioni di beni e servizi

Fonte: International Monetary Fund, Islamic Republic of Iran, IMF Country Report 17/62, 2017.

Queste tendenze hanno determinato un relativo peggioramento del saldo delle partite correnti,

passato da oltre il 10% in percentuale del PIL nel 2011 a circa il 2,5% nel 2005, che rimane comunque

positivo in tutto il periodo considerato, soprattutto grazie alla veloce ripresa delle esportazioni di

petrolio (Figura 6). Storicamente l’Iran è un paese caratterizzato da saldi positivi delle partite correnti,

proprio per la rilevanza di questo tipo di esportazioni, ma nei prossimi anni il saldo delle partite correnti

potrebbe ridursi a seguito di una ripresa delle importazioni volte a soddisfare la domanda interna di

consumo e investimento.244

244 Si veda: International Monetary Fund, Islamic Republic of Iran, IMF Country Report 17/62, 2017.

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Variazioni percentuali sull'anno precedente

importazioni esportazioni

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107

Figura 6. Partite correnti (in percentuale al PIL)

Fonte: International Monetary Fund, Islamic Republic of Iran, IMF Country Report 17/62, 2017.

La riduzione dei sussidi pubblici ha generato anche una significativa accelerazione del tasso di

inflazione, che è cresciuto dal 13% nel 2010, ad oltre il 20% a fine 2011. L’inasprimento delle sanzioni,

insieme ad una politica monetaria accomodante volta a contenere gli shock dell’economia

sull’andamento della produzione, hanno ulteriormente accelerato la crescita dei prezzi, portando il tasso

di inflazione a toccare il 35% nel 2013 (Figura 7). Tra il 2010 ed il 2012 l’Iran ha quindi sperimentato

una severa fase di stagflazione, in cui l’aumento del tasso di inflazione è stato accompagnato da una

protratta recessione. La riduzione dell’inflazione risulta quindi uno dei principali obiettivi della politica

economica iraniana, che ha cercato di combinare misure di politica monetaria e fiscale restrittive con

riforme sul lato dell’offerta aggregata, volte a rendere più efficiente il funzionamento dei mercati del

prodotto, del credito e del lavoro.245 Effettivamente queste misure, per quanto ancora incomplete,

sembrano aver prodotto immediati effetti sul tasso di inflazione, che già nel 2015-2016 è tornato a livelli

pre-shock.

245 International Monetary Fund, Islamic Republic of Iran, IMF Country Report 14/93, 2014.

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Figura 7. Tasso di inflazione e tasso di crescita del PIL

Fonte: International Monetary Fund, Islamic Republic of Iran, IMF Country Report 17/62, 2017

Con riferimento al mercato del lavoro, è interessante osservare che la profonda contrazione del

PIL non si è tradotta in un significativo aumento della disoccupazione, che comunque permane a livelli

elevati (intorno al 10-12%) (Figura 8). L’elevata regolamentazione dei contratti rende l’occupazione

poco sensibile a variazioni del PIL (l’elasticità stimata dall’IMF è intorno allo 0,35, un valore

relativamente basso rispetto a quello della regione medio-orientale e del Nord Africa), il che comporta

anche una scarsa rispondenza della disoccupazione anche in fase di ripresa economica. Il tasso di

disoccupazione medio nasconde per altro rilevanti differenze di genere ed età, con tassi di

disoccupazione delle donne e dei giovani significativamente più elevati di quello degli uomini

(rispettivamente, intorno al 20%, 30% e 10% nel 2016). Il problema potrebbe esacerbarsi nei prossimi

anni a seguito dell’ingresso nel mercato di coorti sempre più numerose di giovani laureati. La riduzione

della disoccupazione è quindi una delle priorità nell’agenda del governo iraniano, che richiede la

realizzazione di riforme strutturali volte a ridurre le rigidità dell’occupazione e dei salari e l’attivazione di

politiche del lavoro volte a ridurre lo skill mismatch e ad incentivare le imprese ad aumentare le

assunzioni.246.

246 International Monetary Fund, Islamic Republic of Iran, IMF Country Report 17/62, 2017

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tasso di inflazione (prezzi al consumo) - scala destra tasso di crescita del PIL reale

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109

Come evidenziato anche in una recente analisi dell’Economist,247, la crescita economica da sola non

sarà, infatti, in grado di innescare una crescita significativa dell’occupazione. L’aumento delle

esportazioni nel 2016 ha riguardato soprattutto settori ad elevata intensità di capitale, come quello

petrolifero, che hanno fatto fronte alla maggior domanda grazie alla capacità produttiva in eccesso.

Inoltre, l’economia iraniana è ancora fortemente dominata da grandi imprese pubbliche o semi-

pubbliche, che, di fatto, ostacolano la crescita di piccole e medie imprese private, le quali rappresentano

il principale motore per la creazione di occupazione in fase di ripresa.

Figura 8. Tasso di disoccupazione e Tasso di crescita del PIL

Fonte: International Monetary Fund, Islamic Republic of Iran, IMF Country Report 17/62, 2017

6.3 Come quantificare l’impatto economico delle sanzioni

In linea di principio le sanzioni, imponendo un divieto al commercio internazionale bilaterale, che

può comprendere solo a particolari prodotti o estendersi al complesso dei beni e servizi commerciati,

hanno un impatto economico sia sul paese target che sul paese impositore.

I fattori essenziali da cui dipende l’entità dell’impatto economico di una data sanzione sono:

- la dimensione del paese target e del paese impositore;

247 “Why Iran is finding it hard to create jobs”, The Economist, 5 December 2016.

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tasso di disoccupazione tasso di crescita del PIL reale

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110

- l’elasticità del commercio, cioè delle importazioni e delle esportazioni al prezzo;

- la durata delle sanzioni.

Dalla dimensione dei due paesi dipende la facilità di sostituire eventuali prodotti banditi dal

commercio bilaterale con quelli provenienti da/esportati in altri paesi: per un grande paese il divieto di

esportare in un piccolo paese sottoposto a sanzioni economiche è relativamente poco costoso, dato che

potrebbe sostituire la quantità precedentemente esportata nel paese sanzionato con quella esportata in

un altro paese. Viceversa, un piccolo paese impositore, che esporta in un grande paese, subirà impatti

economici potenzialmente gravi se una quota importante del proprio mercato di esportazione viene

bloccata dalle sanzioni.

Le Figure 9 e 10 illustrano perdita di benessere causata dalle sanzioni imposte al paese target A

dal paese B. Le figure rappresentano la domanda del paese A per i prodotti provenienti dal paese B

(retta inclinata negativamente) e l’offerta da parte del paese B verso il paese A (retta inclinata

positivamente).

Le sanzioni imposte al paese A determinano una riduzione delle quantità esportate in A; l’offerta

quindi si riduce, aumenta il prezzo medio (da P* a PS) e si verifica una riduzione complessiva delle

quantità da Q* a QS (Figura 9).

L’entità di questi effetti dipende sia dalla riduzione dell’offerta in origine, com’è facile verificare

ipotizzando un inasprimento della riduzione delle esportazioni (linea tratteggiata in Figura 9), sia dalle

elasticità delle curve di domanda e offerta.

L’elasticità, cioè la variazione percentuale delle quantità offerte/domande determinata da una

variazione percentuale del prezzo, è descritta graficamente dalle pendenze delle curve di domanda e

offerta. Nella Figura 10 si ipotizza una maggiore elasticità della curva di domanda del paese target che

potrebbe essere dovuta alla presenza di prodotti sostituti provenienti da paesi non sanzionatori. La

maggiore elasticità produce, a parità di altre condizioni, una maggiore riduzione complessiva delle

quantità esportate dal paese sanzionatore. Viceversa l’elasticità sarebbe minore (e la curva di domanda

più inclinata) se non fosse facile trovare i prodotti sostituti.

Nelle Figure 9 e 10 viene anche evidenziata, in giallo, l’area corrispondente alla perdita di

benessere del consumatore determinata delle sanzioni. Tale perdita rappresenta il costo che sopporta il

paese target. Com’è facile osservare, la perdita di benessere del consumatore si riduce al crescere

dell’elasticità della domanda.248

248 La perdita di benessere del consumatore è inversamente proporzionale alla somma dell’elasticità della domanda e dell’offerta. Inoltre, al variare delle elasticità, la perdita di benessere complessiva si ripartisce diversamente tra consumatori del paese importatore (target delle sanzioni) e produttori (imprese esportatrici del paese impositore delle sanzioni).

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Complessivamente, rapportando

delle esportazioni, si ottiene il cosiddetto

lato è un utile strumento per quantificare

dalla stima delle elasticità delle curve

L’esercizio illustrato per l’elasticità

curva di offerta. Come per la domanda,

a parità di sanzione, una minore perdita

Figura 9. Effetto delle sanzioni sulle quantità

Figura 10. Effetto delle sanzioni sulle quantità

Fonte: Elaborazioni degli autori

249 G. C. Hufbauer, Economic Sanctions250 A. E. Torbat, “Impacts of the US

111

rapportando la perdita di benessere del consumatore alla

cosiddetto moltiplicatore delle sanzioni.249 Tale moltiplicatore,

quantificare gli effetti delle sanzioni, dall’altro è una

curve di domanda e offerta, difficili da calcolare con

l’elasticità della domanda, può essere analogamente

domanda, una curva di offerta più elastica, cioè meno

perdita di benessere del consumatore.

. Effetto delle sanzioni sulle quantità esportate

. Effetto delle sanzioni sulle quantità esportate con curva di domanda più elastica

Sanctions Reconsidered.... cit.. US Trade...”, cit.

alla variazione del valore

moltiplicatore, se da un

una misura che dipende

con precisione.250

analogamente svolto anche per la

meno inclinata, determina,

con curva di domanda più elastica

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112

In generale, si ritiene che le elasticità della domanda e dell’offerta siano relativamente rigide nel

breve periodo perché, da un lato, non è facile adeguare la domanda a prodotti sostituti, che

normalmente sono di diversa qualità e, dal lato dell’offerta, non è facile trovare altri paesi capaci di

soddisfare immediatamente la domanda lasciata scoperta a causa delle sanzioni imposte da uno o più

paesi esportatori. Sul più lungo periodo, tuttavia, le elasticità tendono ad aumentare e con esse

diminuisce il moltiplicatore delle sanzioni; questo processo di adattamento, in grado di ridurre l’impatto

delle sanzioni nel medio-lungo periodo era già stato analizzato negli anni Sessanta.251

Le stime disponibile del moltiplicatore calcolate ai tempi delle sanzioni all’Iran imposte dai soli

Stati Uniti sono tra 0,10 e 0,50, cioè l’impatto economico misurato in termini di perdita di benessere

corrisponde ad un valore compreso tra il 10% e il 50% del valore delle esportazioni USA in Iran prima

delle sanzioni;252 Torbat, in particolare, utilizzando un moltiplicatore dello 25% calcola che la perdita di

benessere per l’Iran dovuta alla riduzione delle esportazioni USA da 329 milioni di dollari nel 1994 a 0

nel 1996 sia quindi pari a 0,25x329 = 82,25 milioni di dollari, o circa lo 0,11% del PIL iraniano.

Il metodo basato sul surplus del consumatore stima un effetto complessivo delle sanzioni che

considera la reazione dei consumatori e di eventuali altri paesi.

Alternativamente, l’impatto economico delle sanzioni si focalizza sui soli effetti in ambito

commerciale, considerando le variazioni del flussi di beni tra i paesi. In tal caso la stima si basa molto

spesso sul cosiddetto modello gravitazionale del commercio, secondo cui le dimensioni dei due paesi e

la loro distanza sono elementi chiave e caratterizzanti il commercio bilaterale. La stima degli effetti sui

flussi commerciali basata sul modello gravitazionale utilizza l’analisi di regressione e cattura le sanzioni

tramite delle dummy temporali, distinguendo opportunamente tra sanzioni unilaterali e multilaterali.

Diversi autori trovano, a tale riguardo, che l’impatto delle sanzioni multilaterali sia molto forte sul

commercio bilaterale,253 e che le sanzioni riducono sensibilmente il commercio bilaterale tra il paese

target e il paese impositore, ma solo moderatamente quelle tra il primo e altri paesi.254

Per quanto riguarda l’Iran questo ultimo risultato è confermato da Haidar255 che, sfruttando dati

doganali a livello d’impresa dal 2006 al 2011, trova che le imprese iraniane abbiano reagito alle sanzioni

che vietavano il commercio con gli Stati Uniti e altri paesi impositori, recuperando altri mercati di

251 J. Galtung, Theories of Peace. A Synthetic Approach to Peace Thinking, International Peace Research Institute, Oslo, 1967. Dello stesso autore si veda altresì: “On the effects of international economic sanctions: with examples from the case of Rhodesia, in World Politics, vol. 19, n. 3, April 1967, pp. 378-416.

252 A. E. Torbat, “Impacts of the US Trade...”, cit. 253 R. Caruso, “The Impact of International Economic Sanctions on Trade: empirical evidence over the period

1960-2000”, in Rivista Internazionale di Scienze Sociali, 2005, pp. 41-66. 254 G. C. Hufbauer, Economic Sanctions Reconsidered...,cit. 255 J. I. Haidar, “Sanctions and export deflection: evidence from Iran”, in Economic Policy, April 2017, pp. 319-

355.

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113

sbocco nei paesi non sanzionatori, una scelta nota come deflecting. Tuttavia, ciò ha comportato una

riduzione dei prezzi e quindi una perdita di benessere rispetto alla situazione pre-sanzioni.

6.4 L’impatto economico delle sanzioni: una breve rassegna degli studi esistenti

Alcuni studi hanno indagato l’impatto delle sanzioni sull’economia iraniana, concentrandosi

soprattutto sulle sanzioni commerciali e finanziarie precedenti il 2006. In particolare, Torbat256 fornisce

una stima degli effetti economici complessivi (in termini di perdita di PIL), generati dalle sanzioni

unilaterali applicate all’Iran dagli USA da fine anni Ottanta ai primi anni Duemila, combinando diverse

fonti di dati aggregati e diverse metodologie di stima, a seconda della sanzione considerata. Dall’analisi

emerge che il costo economico complessivo dell’embargo è stato per la Repubblica Islamica di 777

milioni di dollari all’anno, corrispondenti a poco più dell’1% del PIL iraniano nel 2000. La maggioranza

di questi costi (quasi l’82%) sono stati determinati da sanzioni finanziarie, in particolare quelle che

hanno colpito le fonti di finanziamento dei progetti di investimento e sviluppo del settore petrolifero,

inclusa la possibilità per le compagnie petrolifere internazionali di scambiare petrolio con le compagnie

iraniane od utilizzare i loro oleodotti. L’analisi evidenzia inoltre che, mentre gli effetti di breve periodo

delle sanzioni commerciali in termini di riduzione delle esportazioni e volatilità del tasso di cambio sono

molto rilevanti, gli effetti di lungo periodo sono marginali. Ciò è coerente con la presenza di

cambiamenti nelle elasticità; infatti le sanzioni hanno obbligato le compagnie iraniane, da un lato, a

trovare nuovi fornitori che sostituissero quelli americani, dall’altro a cercare nuovi mercati di sbocco per

l’esportazione dei propri prodotti.

Quest’ultimo risultato è confermato dall’analisi di Haidar,257 basata su dati dettagliati a livello

d’impresa relativi all’universo degli esportatori iraniani di prodotti non petroliferi da gennaio 2006 a

giugno 2011. Dall’analisi emerge che l’imposizione delle sanzioni del 2008 ha determinato uno

spostamento di due terzi del totale delle esportazioni verso paesi che non applicavano tali sanzioni. Nel

periodo considerato, le esportazioni aggregate sono in realtà aumentate, esclusivamente a causa di un

aumento delle quantità esportate. Infatti, nel tentativo di entrare in nuovi mercati o catturare un

numero più elevato di consumatori, le imprese esportatrici hanno ridotto i prezzi quando hanno

esportato verso nuovi paesi.

La capacità di deviare le esportazioni verso nuove destinazioni aumenta con la dimensione

dell’esportatore e con la precedente presenza nel mercato di sbocco; inoltre, risulta più elevata per i

prodotti non differenziabili. Nel complesso, questi risultati evidenziano che le sanzioni commerciali in

256 A. E. Torbat, “Impacts of the US Trade and Financial Sanctions on Iran”, in The World Economy, 28 (3), pp. 407-434, 2005.

257 J. I. Haidar, “Sanctions and export deflection: evidence from Iran”, in Economic Policy, April 2017, pp. 319-

355.

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114

mercati sempre più globalizzati possono essere inefficaci nel ridurre le esportazioni aggregate di un

paese, ma possono causare perdite di welfare negando l’accesso ad alcuni mercati ed imponendo dei

costi d’ingresso in altri mercati di sbocco.

Caruso analizza l’effetto dell’intensità e dell’ampiezza delle sanzioni (i.e., unilaterali, cioè applicate

da un solo paese o multilaterali) nell’influenzare gli scambi commerciali tra gli USA e 49 paesi tra il

1960 e il 2000 sulla base dei dati OCSE. Nonostante lo studio non sia focalizzato esclusivamente

sull’Iran, quest’ultimo figura tra i mercati di sbocco considerati, anche se i dati sono disponibili dal

1979. L’analisi empirica evidenzia una serie di risultati interessanti, che possono fornire indicazioni utili

ai policy maker anche nel caso iraniano, data l’eterogeneità delle sanzioni applicate a questo paese su un

arco di tempo relativamente lungo.

In particolare, le stime ottenute con modelli gravitazionali mostrano che le sanzioni influenzano

negativamente i flussi commerciali se sono intense e applicate da più paesi, mentre producono scarsi

effetti quando sono moderate e unilaterali. Inoltre, queste ultime sembrano aumentare gli scambi con

altri paesi, a sostegno dell’ipotesi che le imprese esportatrici nei paesi colpiti sono indotte a cercare altri

mercati di sbocco.

6.5 La fine delle sanzioni economiche e finanziarie

Il processo di rimozione dell’embargo legato alla revisione del programma nucleare iraniano

avviene in modo graduale. La prima sospensione delle sanzioni si attua a gennaio 2014 a seguito

dell’accordo interinale tra Iran e UE+3 (Unione Europea, Francia, Germania, Regno Unito, Russia,

Cina e Stati Uniti) del novembre 2013. Dopo l’approvazione del piano d'azione congiunto globale

(PACG) da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, avvenuta il 20 luglio 2015, tale

sospensione viene prorogata fino al 28 gennaio 2016, per consentire il tempo necessario all’attuazione

del PACG. Infine, dopo verifica da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) che

l’Iran procedeva con le misure concordate relative al nucleare, il 16 gennaio 2016, noto come

Implementation day, l’UE revoca tutte le proprie sanzioni economiche e finanziarie relative al nucleare, pur

restando in vigore altre sanzioni.258

Il processo di rimozione prevede due altre tappe: nel 2023, a 8 anni dall’Implementation day, ovvero

una volta che AIEA avrà definitivamente sancito che gli usi del materiale nucleare in possesso dell’Iran

sono esclusivamente pacifici, saranno sospese le rimanenti sanzioni legate al nucleare. Infine nel 2025

terminerà la Risoluzione 2231 dell’ONU e ogni rimanente forma di embargo UE sarà rimossa.

In particolare, l’UE aveva imposto:

258 Unione Europea, Misure restrittive dell’UE nei confronti dell’Iran, 2017, si consulti: Consilium.europea.it

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115

- divieti di esportare particolari prodotti “armi, beni a duplice uso e prodotti che utili per

attività connesse all'arricchimento; divieto di importazione di petrolio greggio, di gas

naturale e di prodotti petrolchimici e petroliferi; divieto di vendita o fornitura di

attrezzature essenziali utilizzate nel settore energetico, di oro, di altri metalli preziosi e

diamanti, di talune attrezzature navali, di determinati software, ecc.”

- Restrizioni al settore finanziario congelando beni sia della Banca Centrale che delle

maggiori banche e introducendo dispendiosi meccanismi di notifica.

- Restrizioni di viaggio e congelamento beni di persone e enti inserite negli elenchi.

- Divieto di accesso di aerei cargo iraniani in Europa e di prestazioni di servizio europee se

trasportano materiali proibiti.

6.5.1 Le sanzioni rimosse e quelle che rimangono: i settori interessati

A partire dall’Implementation day vengono nuovamente permesse diverse attività, brevemente

richiamate di seguito in funzione del settore di appartenenza:

- Settore finanziario, bancario e assicurativo

o Si possono operare trasferimenti di fondi tra persone/entità UE e persone/entità iraniane

purché quest’ultime siano escluse dagli elenchi; possono essere stabilite in UE filiali/uffici

rappresentativi di istituzioni finanziarie iraniane, purché escluse dagli elenchi, viceversa,

istituzioni finanziarie europee potranno aprire sussidiarie e filiali in Iran, così come istituire

joint ventures.

o Viene riaperto il servizio SWIFT così come le attività di credito alle esportazioni, garanzie e

assicurazioni legate alle attività commerciali.

- Settore del petrolio, del gas naturale e il petrolchimico

o Sono permesse attività di importazione, acquisto, swap, trasporto di petrolio e prodotti

petroliferi, gas e prodotti petrolchimici dall’Iran.

o Si possono esportare tecnologie, attrezzature, assistenza tecnica e training legati al settore, così

come investire e acquisire partecipazioni.

- Settore del trasporto

o Sono permesse attività di vendita, offerta, trasferimento, esportazioni di attrezzature navali e

tecnologia per la cantieristica navale in Iran. Costruzione e design di navi, cargo, petroliere e

associati servizi.

o E’ permesso l’accesso a aeroporti UE di cargo iraniani

- Settore dei metalli preziosi, oro, banconote e monete

o Sono possibili attività di vendita, offerta da e/o verso il governo iraniano, la banca centrale

iraniana, le agenzie pubbliche di metalli preziosi, oro, banconote e monete. E’ permesso

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l’acquisto, trasferimento e trasporto di oro, metalli preziosi, diamanti; ugualmente dicasi per il

relativo servizio di brokeraggio e i servizi di sicurezza.

- Settore dei metalli

o Sono permesse attività di vendita, offerta, trasferimenti o esportazione di certi tipi di grafite e

metalli semilavorati solo previa autorizzazione

- Settore dei software

o Sono consentite attività di vendita, offerta, trasferimenti o esportazione di ERP, inclusi gli

aggiornamenti; solo se il software è progettato per scopi militari, servirà autorizzazione.

Permane l’embargo su:

- Armamenti

o La vendita, l’offerta e il trasferimento, diretto e indiretto, di ogni tipo di arma, compresi

oggetti, munizioni, veicoli, e attrezzature.

- Tecnologia missilistica

- Attività nucleari

- Misure restrittive per persone e entità ancora incluse negli elenchi.

6.6 L’effetto delle sanzioni economiche e le prospettive a seguito della loro rimozione

Dato che il processo di rimozione delle sanzioni è un fatto recente, la maggior parte degli studi

empirici esistenti considera gli effetti delle sanzioni sull’economia iraniana fino a metà dello scorso

decennio.

La cessazioni delle sanzioni avvenuta a gennaio 2016 ha però dato il via a svariati studi che

cercano di prevedere come reagirà il commercio.

Per quanto riguarda l’impatto sull’Italia, l’analisi dei dati sulle tendenze delle esportazioni

aggregate dal 2000 al 2017 evidenzia che, nel periodo pre-sanzioni (2000-2005), l’export italiano verso

l’Iran è cresciuto a un ritmo superiore a quello delle importazioni iraniane dal resto del mondo

(rispettivamente, 23,5% e 17,8%), con un conseguente incremento della quota di mercato italiana (6,9%

in media nel 2000-2005).259 L’Italia ha risentito delle sanzioni già a partire dal 2006, quando si è avuta

una contrazione delle esportazioni verso la Repubblica Islamica superiore al 19%. Un ulteriore sensibile

calo (-25%) si è registrato nel biennio 2012-2013 a seguito dell’inasprimento delle sanzioni finanziarie.

Ipotizzando che, in assenza delle sanzioni, la crescita dell’export italiano verso l’Iran fosse proceduta

ad un tasso medio simile a quello registrato nel periodo pre-sanzioni, la perdita complessiva dell’export

italiano è stimata ad oltre 15 miliardi di Euro per il periodo 2006-2013, di cui oltre il 60% concentrato

259 Si vedano: SACE, Focus on Iran, sanzioni, export italiano e prospettive, Agosto 2014, Roma; SACE, Focus on Iran, alla rincorsa del tempo perduto, Novembre 2015, Roma.

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117

dopo l’inasprimento delle sanzioni finanziarie.260 Il settore più colpito è stata la meccanica strumentale,

che costituisce oltre la metà delle esportazioni italiane verso Teheran. Tuttavia, una riduzione delle

esportazioni, seppure di diversa entità, è stata registrata in tutti i settori.

Queste tendenze si sono invertite dopo la recente cessazione del quadro sanzionatorio. Partendo

dai (bassi) livelli di esportazione dall’Italia all’Iran registrati nel 2014 (1,2 miliardi di Euro), se si ipotizza

una crescita dell’export italiano simile a quella registrata nel periodo pre-sanzioni, entro il 2018 le

esportazioni italiane dovrebbero quasi raddoppiare, raggiungendo un livello di oltre 2,5 miliardi di

Euro, tornando così a livelli simili a quelli registrati nel 2005.261 Si tratta di stime conservative: partendo

da un valore relativamente basso e rimuovendo le sanzioni, si potrebbe infatti verificare uno shock

positivo maggiore rispetto alle tendenze passate.

Ciononostante, i guadagni di breve periodo sono ancora contenuti (a seconda delle stime, tra il 15

ed il 20%), rispetto alle perdite accumulate negli anni di applicazione del regime sanzionatorio.

.

Al fine di quantificare l’impatto complessivo dell’abrogazione delle sanzioni sull’economia

dell’Iran e sul resto del mondo, Ianchovichina et al.262 propongono delle simulazioni basate su un

modello di equilibrio generale. Secondo questa analisi la rimozione delle sanzioni dovrebbe produrre un

aumento del welfare pro-capite di quasi 4 punti percentuali, determinato soprattutto dall’eliminazione

dell’embargo sul petrolio imposto dall’Unione Europea e dalla liberalizzazione degli scambi

transnazionali dei servizi finanziari e di trasporto. Questi effetti potrebbero però essere

significativamente più bassi se le esportazioni di greggio verso i paesi UE non ritornasse ai livelli pre-

sanzioni. Inoltre, tali effetti dipendono dalle riforme che l’Iran attuerà nel suo sistema tariffario sui beni

importati e sugli incentivi agli investimenti in particolari settori, come quello automobilistico. Infine, la

maggior competizione nel mercato degli idrocarburi dovrebbe portare ad una significativa riduzione del

suo prezzo (anche superiore al 10%), con conseguenti effetti negativi sui paesi esportatori netti di

petrolio, come i membri dell’OPEC. Al contrario, Stati Uniti ed Europa dovrebbero registrare un lieve

miglioramento del welfare pro-capite (rispettivamente, + 0,3% e +0,5%).

6�6�1 Le esportazioni italiane in Iran: un’analisi settoriale

L’Italia, insieme a Francia e Germania, è tra i paesi europei che tradizionalmente ha intrattenuto

stretti rapporti commerciali con l’Iran. La Figura 11 illustra i volumi di esportazione dei tre paesi in Iran

dal 1988.

260 SACE, Focus on Iran, sanzioni, export italiano e prospettive, Agosto 2014, Roma. 261 SACE, Focus on Iran, alla rincorsa del tempo perduto, Novembre 2015, Roma. 262 Ianchovichina, E., Devarajan, S. e Lakatos, C. “Lifting Economic Sanctions on Iran. Global Effects and

Strategic Responses”, in Policy Research Working Paper 7549, The World Bank, 2016.

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Dopo una rapida crescita delle esportazioni fino ai primi anni Novanta, quando i volumi

dell’Italia superarono quelli della Francia, seguì una battuta d’arresto per tutti i paesi e il 1994-95

segnano il periodo di minimo nelle esportazioni verso l’Iran. Nel successivo decennio la crescita vede di

nuovo i tre paesi proseguire in parallelo, ma dal 2004 è evidente il forte recupero della Germania, in

concomitanza con lo scatto di competitività che l’ha contraddistinta a seguito delle riforme interne.

Le esportazioni italiane rimangono complessivamente costanti fino al 2010 quando, in

corrispondenza con l’intensificarsi delle sanzioni da parte della UE, subiscono un brusco calo per

riprendersi solo dopo il 2014.

Secondo gli ultimi dati disponibili dall’UN Comtrade263 le importazioni dell’Iran sono per oltre il

28%, concentrate nel settore SITC 7 Machinery and transport equipment, per il 21% nel settore SITC 6

(Goods classified chiefly by material), per l’11% nel SITC 5 (Chimico) e un altro 11% a nei settori SITC

0 e 1 (Food, animals + beverages, tobacco).

Figura 11

Fonte: Eurostat, International Trade data, 2017 http://ec.europa.eu/eurostat/data/database

Questi settori sono anche più importanti per le esportazioni italiane, come si evince dalla Figura

11 che illustra le quote settoriali dei volumi di esportazioni italiane in Iran dal 2006.

263 UN Comtrade, Country profile: Islamic Republic of Iran, 2017.

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La Figura 12 riporta solo i settori in cui le quote di esportazione sono particolarmente rilevanti. Si

tratta appunto dei settori SITC 5, 6, 7 che costituiscono l’ossatura delle importazioni iraniane. In

particolare, il settore delle macchine e dei mezzi di trasporto sfiora il 40%, seguito dal settore dei

prodotti manufatti, dal settore dei prodotti chimici e da quello dei materiali grezzi.264

L’andamento delle quote settoriali di esportazione sul totale mette in evidenza i cambiamenti

intersettoriali nel periodo durante e post sanzioni, tra il 2006 e il 2017. I settori maggiormente

penalizzati sono stati quello della Chimica, la cui quota raggiunge il minimo nel 2012 per riprendere

successivamente e quello dei materiali grezzi, che crolla tra il 2011 e il 2012. Anche nel settore dei

prodotti manufatti le quote annuali mostrano una tendenza complessivamente decrescente, sebbene

con importanti oscillazioni; al contrario, il peso del settore delle macchine e dei mezzi di trasporto

aumenta, con quote che arrivano fino a sfiorare il 50% nel 2014.

Figura 12

Fonte: Eurostat, International Trade data, 2017 http://ec.europa.eu/eurostat/data/database

Focalizzando l’attenzione sugli anni più recenti la Figura 13 confronta i tassi di variazione delle

quantità esportate per i settori di interesse.

Si nota la variabilità relativamente elevata delle esportazioni del settore dei materiali grezzi e le

variazioni costantemente negative, negli anni dal 2011 al 2013, per il settore chimico e per quello delle

264 UN Comtrade (2017) Country profile: Islamic Republic of Iran

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macchine e mezzi di trasporto. In tutti i settori è inoltre evidente, oltre al minimo del 2012 legato

all’intensificazione delle sanzioni, l’effetto della fase ciclica negativa del 2015.

Figura 13

Fonte: Eurostat, International Trade data, 2017 http://ec.europa.eu/eurostat/data/database

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Infine, la Figura 14 riassume le variazione dei volumi totali delle esportazioni italiane in Iran negli anni

2000-2016 e le previsioni per il 2017.

Figura 14

Fonte: Eurostat, International Trade data, 2017 http://ec.europa.eu/eurostat/data/database

L’effetto della rimozione delle sanzioni è evidente: tra il 2015 e il 2016 la crescita delle quantità

esportate è stata di quasi il 24% e la previsione per il 2017 è al momento ancora più favorevole il che

porterebbe il tasso di crescita dei volumi esportati vicino ai livelli del 2010. In realtà, dopo il crollo

sperimentato nel periodo più pesante delle sanzioni il primo recupero si osserva già dal 2014, anno in

cui si intravedono gli spiragli di un’intesa diplomatica a seguito della quale le sanzioni iniziarono ad

essere rimosse.

Considerando il periodo complessivo in cui le sanzioni UE sono state in vigore, fino alla loro

formale rimozione, cioè il periodo 2006-2015, la somma cumulata delle variazioni annuali delle quantità

esportate è pari a -56%. La crescita del 2016 recupera la metà di questo calo; il resto dipenderà

dall’andamento dell’anno in corso, il 2017: se le previsioni saranno mantenute, queste saranno in grado

di rendere positiva, dopo 11 anni, la somma cumulata delle variazioni annuali.

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122

6.7 Conclusioni

Il dibattito sul ruolo delle sanzioni economiche, inizialmente promosse come possibile alternativa

alle guerre, rimane tutt’oggi aperto; da un lato, infatti, l’efficacia delle sanzioni economiche nell’indurre

il paese target a modificare le proprie scelte politiche ed economiche non è scontata e, dall’altro, gli

effetti che le sanzioni generano alla popolazione civile del paese target possono essere molto gravi e

umanitariamente discutibili.

Questo capitolo ha analizzato gli effetti economici delle sanzioni prima unilaterali e poi

multilaterali imposte all’Iran.

La rilevanza del tema è stata accresciuta dall’accordo diplomatico tra UE+3 e Iran del gennaio

2016 che ha comportato, dopo molti anni, la rimozione di gran parte delle sanzioni imposte dall’ONU e

della totalità delle sanzioni imposte dall’UE in relazione al nucleare, aprendo nuovamente un

importante mercato agli scambi commerciali e finanziari europei.

Dal punto di vista teorico l’efficacia delle sanzioni economiche si riduce con la durata delle

sanzioni stesse ,che spinge le imprese esportatrici di entrambi i mercati a ricercare mercati di sbocco

alternativi. Questo in parte è successo anche alle imprese iraniane non-petrolifere che sono riuscite ad

aumentare le quantità esportate durante il periodo delle sanzioni, pur se ciò non è stato sufficiente a

mantenere inalterati i loro profitti, ridottisi a causa di costi maggiori e prezzi di vendita più bassi.

Usando un’analisi basata sulla stima della perdita di benessere, alcuni studi hanno quantificato la

perdita di benessere dell’Iran, dovuta alle sanzioni unilaterali degli USA, dal 1979 al 2006, in circa l’1%

del PIL del 2000. Se si considera che le sanzioni legate alle decisioni del Consiglio di Sicurezza delle

Nazioni Unite sono state molto più pesanti, perché sottoscritte da più paesi e comprendenti divieti e

blocchi anche di tipo finanziario, la perdita complessiva per l’Iran è stata probabilmente, in questo

ultimo caso, molto superiore. Infatti, il PIL iraniano crolla nel 2012 a -6% e trascina con sé le varie

componenti della domanda aggregata.

Dal canto loro, i paesi che impongono le sanzioni non sono immuni da ripercussioni economiche

negative, generate dalle sanzioni da loro stessi imposte. I paesi europei, per i quali l’Iran costituiva un

rilevante mercato di sbocco, hanno subito forti ripercussioni negative nelle esportazione nei settori i cui

prodotti sono stati oggetto dei divieti commerciali. Le esportazioni italiane verso l’Iran sono diminuite,

nei volumi, del 60% nel solo biennio 2012-13.

I dati disponibili per il 2016 e le previsioni per il 2017 mostrano tuttavia una ripresa vigorosa delle

esportazioni dall’Italia che, se ritorneranno ai livelli pre-sanzioni, le riporterebbero, nel 2018, ai valori

registrati nel 2005. Una valutazione più precisa sarà possibile solo tra qualche anno, quando saranno

chiari gli effetti che il lungo periodo sanzionatorio ha avuto sulle scelte commerciali delle imprese e

sugli investimenti. In ogni caso, in un’analisi di lungo-periodo, la valutazione dell’impatto economico

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delle sanzioni all’Iran relative al nucleare non può prescindere dal risultato del Piano d’Azione Comune,

storico accordo che è riuscito a disciplinare il programma nucleare iraniano limitandolo a soli scopi

pacifici.

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Capitolo 7. Iran: la dimensione energetica

Fabio Indeo265

7.1 Il potenziale produttivo iraniano

Per entità di risorse e per posizione geografica favorevole, l'Iran possiede le potenzialità per

giocare un ruolo di primo piano nello scenario energetico globale, in qualità di esportatore di petrolio e

gas naturale.

Per quanto concerne il petrolio, l'Iran è la quarta nazione al mondo per ampiezza delle riserve

(dopo Venezuela, Arabia Saudita e Canada), stimate in 158,4 miliardi di barili, che rappresentano una

quota del 9,3% del totale mondiale.

Nel 2016 Teheran ha prodotto 4,6 milioni di barili al giorno, che testimoniano un incremento

della produzione del 18% rispetto al 2015 (3,897 milioni di barili prodotti al giorno).266

Si rileva quindi come il comparto energetico nazionale sia stato capace di recuperare i livelli di

produzione antecedenti alle sanzioni occidentali: ciononostante, la produzione iraniana risulta ancora

lontana dai livelli di nazioni come Arabia Saudita, Russia e Stati Uniti, che si connotano per una

produzione che supera i 10 milioni di barili al giorno.

L'Iran è membro di peso all'interno dell'Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio

(OPEC), detenendo le terze maggiori riserve mentre sino al 2011 la nazione persiana si poneva al

secondo posto per attività produttiva. Tuttavia, già nel 2013 l'Iran era scivolato al quarto posto in

ambito OPEC, superato dalla produzione di Arabia Saudita, Iraq ed Emirati Arabi Uniti.

Ancora prima delle sanzioni, sul potenziale produttivo petrolifero nazionale hanno influito altri

fattori: prima dell'ascesa al potere di Khomeini l'Iran aveva una produzione che superava i 5,5 milioni di

barili al giorno, raggiungendo anche i 6 dopo il 1979, ma la combinazione tra l'ostracismo occidentale e

la mancanza di investimenti, la resa inferiore di giacimenti maturi, la guerra con l'Iraq hanno avuto un

impatto considerevole sulla produzione nazionale.267

Il 70% delle riserve petrolifere nazionali è onshore, mentre non si conosce l'ammontare delle

riserve della sezione iraniana offshore del bacino del Caspio, a causa della mancanza di attività di

esplorazione, congelate per l'insoluta disputa tra Azerbaigian e Turkmenistan riguardo al possesso di

alcuni giacimenti condivisi e per l'assenza di uno status legale del bacino, che consenta alle cinque

nazioni rivierasche di sviluppare le risorse offshore secondo una disciplina comune e condivisa.

265 Analista “Central Asian Security” presso la NATO Defense College Foundation. 266 British Petroleum, BP Statistical Review 2016, June 2017, pp.12-14, disponibile online:

http://www.bp.com/content/dam/bp/en/corporate/pdf/energy-economics/statistical-review-2017/bp-statistical-review-of-world-energy-2017-full-report.pdf (consultato il 10/6/2017).

267 World Bank, Working for a World Free of Poverty, “Overview in Iran”, last up-date 1 March 2015, http://www.worldbank.org/en/country/iran/overview (consultato il 10/6/2017).

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125

Inoltre l'Iran condivide numerosi giacimenti onshore ed offshore con le petromonarchie arabe vicine

come Iraq, Qatar, Kuwait e Arabia Saudita.

Uno dei problemi principali legati al comparto petrolifero è che gran parte dei giacimenti sono

maturi ed ampiamente sfruttati - circa l'80% delle riserve sono state scoperte prima del 1965 - per cui si

rendono necessari investimenti a supporto di attività di esplorazione e prospezione per trovarne di

nuovi, ma anche di tecnologia per razionalizzare la produzione nei giacimenti più maturi.268

Il gas naturale e il petrolio sono componenti fondamentali della domanda domestica di energia,

coprendo assieme il 98% del mix energetico necessario per la produzione di energia elettrica (il gas

naturale è predominante con una quota del 60%).

L'Iran detiene le maggiori riserve al mondo di gas naturale convenzionale, stimate in 33,5 mila

miliardi di metri cubi, ovvero il 18% del totale mondiale.

Nel 2016 la produzione si è attestata sui 202,4 miliardi di metri cubi (Gmc), con un incremento

del 6% rispetto al 2015 (189,4 Gmc di gas naturale prodotti): è significativo osservare il notevole

incremento della produzione in un arco temporale decennale, in quanto nel 2006 l'Iran produceva 111,5

Gmc di gas naturale.269

Il settore del gas naturale presenta alcune pesanti distorsioni che condizionano pesantemente la

piena valorizzazione ed implementazione di questa risorsa: la totalità della produzione nazionale è

destinata a soddisfare i consumi interni – sia per la produzione di energia elettrica e sia per l'attività di

re-iniezione nei giacimenti petroliferi per per recuperare volumi aggiuntivi di petrolio - per cui

nonostante le immense riserve l'Iran non dispone di volumi sufficienti di gas da destinare

all'esportazione; l'assenza di una rete di distribuzione ed interconnessione nazionale – capace di

raggiungere ogni angolo della nazione – impone all'Iran di importare gas dal Turkmenistan al fine di

soddisfare la domanda della province nordorientali; gran parte delle riserve esistenti non sono sfruttate

e sviluppate.

South Pars rappresenta la punta di diamante delle riserve di gas naturale iraniano: questo enorme

giacimento offshore, scoperto nel 1990, detiene il 40% delle riserve nazionali stimate, che equivalgono ad

un potenziale di 12-14 mila miliardi di metri cubi di gas naturale. South Pars rappresenta l'estensione

geologica nelle acque territoriali iraniane di un enorme giacimento offshore condiviso con il Qatar, North

Dome, il più esteso giacimento di gas al mondo che contiene la quasi totalità delle riserve qatariote.

L'importanza del giacimento North Dome per il Qatar si desume dal fatto che la nazione è terza

al mondo per riserve di gas naturale (24 mila miliardi di metri cubi) e prima esportatrice mondiale di gas

naturale liquido (104,4 Gmc nel 2016).270

268 U.S Energy Information Administration, Iran, last updated June 19, 2015, p. 4, disponibile online: https://www.eia.gov/beta/international/analysis.cfm?iso=IRN (consultato il 12/6/2017).

269 BP 2016, op.cit., pp. 26-28. 270 Ibidem, pp. 26, 28, 34.

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Nelle intenzioni delle autorità iraniane, South Pars dovrebbe svolgere la funzione di volano

dell'economia energetica nazionale, sul modello del Qatar: suddiviso in 24 fasi di sviluppo, il cui costo

complessivo oltrepassa i 100 miliardi di dollari, questo giacimento dovrà supportare un incremento

della produzione capace di soddisfare sia la domanda interna che di avviare delle esportazioni sui

mercati regionali ed internazionali. Secondo le intenzioni delle autorità iraniane, la produzione delle fasi

1-10 era originariamente destinata ai mercati domestici e per l'attività di re-iniezione per massimizzare la

produzione petrolifera, mentre la produzione di gas derivante dallo sviluppo delle fasi successive

sarebbe stato allocato per l'esportazione.

Di fatto la produzione è stata avviata nel dicembre 2002, 10 Gmc all'anno, ma il progressivo

avvio delle varie fasi di sviluppo ha permesso un incremento che supera i 100 Gmc all'anno.271

Le sanzioni adottate dall'occidente hanno fortemente rallentato lo sviluppo del potenziale

gassifero di South Pars, facendo venir meno l'apporto delle compagnie energetiche internazionali (IOC)

necessario per l'implementazione dei progetti e lo sfruttamento dei giacimenti, grazie ai finanziamenti e

al supporto tecnologico. La Pars Oil & Gas Company (POGC), una società controllata dalla NIOC

(National Iranian Oil Company), gestisce l'intero progetto, ha dovuto procedere utilizzando risorse

nazionali durante il periodo di embargo.

North Pars è il secondo maggiore giacimento di gas naturale, con riserve stimate in 1,3-1,4 mila

miliardi di metri cubi. Sin dal 2007 la compagnia energetica cinese CNOOC (China National Offshore Oil

Corporation) si era impegnata per lo sviluppo di North Pars e per creare un terminal d'esportazione

LNG: tuttavia, l'insorgere di alcune difficoltà economiche di Pechino nell'implementazione del progetto

hanno portato all'abbandono nel 2012, in piena era delle sanzioni.272

Un altro importante giacimento è quello di Kish, terzo giacimento per grandezza, con riserve

stimate in 1,3 mila miliardi di metri cubi. Kish riveste una particolare importanza in quanto individuato

come fonte di approvvigionamento di un progetto infrastrutturale integrato (composto da un gasdotto

sottomarino, un gasdotto terrestre e un terminal di liquefazione) da sviluppare congiuntamente con

l'Oman, nonostante permangano disaccordi contrattuali sui prezzi.

Altri importanti giacimenti sono Tabnak (riserve per 850 miliardi di metri cubi, con una capacità

annuale di produzione di circa 20 Gmc), Kangan Nar (riserve per 670 Gmc, con una capacità annuale

di produzione di circa 35,8 Gmc), Dalan, Aghar, Forouz.273

Nel 2011 vennero scoperti altri importanti giacimenti come Khayyam (onshore), Madar (offshore,

Golfo Perisco) e Sardare Jangal (offshore, bacino del Caspio).274

271 S. Tagliapietra, Iran after the (potential) nuclear deal: what's next for the country's natural gas, Fondazione Eni Enrico Mattei, Nota di lavoro 31, 2014, p. 5, http://www.feem.it/userfiles/attach/20143281128464NDL2014-031.pdf (consultato l’11/6/ 2017).

272 Ibidem, pp. 5-6. 273 Ivi. 274 U.S Energy Information Administration, Iran, op. cit., pp. 9-10.

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127

7.2 Le sanzioni occidentali

Le sanzioni adottate da Stati Uniti ed Unione Europea hanno pesantemente colpito il comparto

energetico nazionale, congelando o ritardando importanti progetti di sviluppo e la valorizzazione delle

ingenti riserve esistenti, proibendo investimenti esteri su larga scala nel settore petrolifero e gassifero

nazionale, colpendo le esportazioni di idrocarburi.

Questa sorta di embargo ha impedito all'Iran di beneficiare del fondamentale apporto delle IOC -

in termini di investimenti, know how e apporto tecnologico – che avrebbe dovuto supportare l'auspicato

incremento della produzione nazionale legittimando l'ambizione iraniana ad ergersi come supplier

energetico globale.

In questa fase, le compagnie occidentali non hanno potuto investire e sono state costrette ad

abbandonare e congelare i loro promettenti progetti, mentre le compagnie energetiche russe e cinesi

hanno portato avanti i loro progetti, ritagliandosi delle posizioni di prestigio per il contributo fornito

allo sviluppo del comparto energetico nazionale, che acquisiranno valore geopolitico dopo il

superamento delle sanzioni.

Dal 2008 la compagnia cinese Sinopec è impegnata nello sviluppo dell'enorme giacimento

petrolifero di Yadavaran (con riserve inizialmente stimate in 12 miliardi di barili di petroli, stime

successivamente riviste al rialzo ed ora pari a 31 miliardi di barili), che nelle sue prime tre fasi - da

completare entro il 2020 - dovrebbe produrre 300 mila barili di petrolio al giorno.275

La compagnia cinese CNPC ha invece in concessione lo sviluppo del giacimento di Nord

Azadegan, dal quale nel 2016 sono state avviate le esportazioni verso la Cina per un volume di 3 milioni

di barili.276

Nel corso del biennio 2011-2013 la produzione nazionale si è ridotta di un milione di barili al

giorno (da 3,7 mbg del 2011 a 2,7 del 2013). Ad aver sofferto maggiormente delle sanzioni è stato il

settore delle esportazioni, con un crollo da 2,6 milioni di barili al giorno del 2011 - suddivise tra 600mila

barili esportati verso la UE e 1,6 mbg verso le economie asiatiche - a 1,3 milioni di barili al giorno nel

2013.277

Dalla tabella si evince come l'effetto delle sanzioni sul potenziale di esportazione iraniano abbia

danneggiato prevalentemente le economie asiatiche, costrette a trovare degli approvvigionamenti

alternativi. Di questa situazione hanno beneficiato in particolare le petrolmonarchie del Golfo – Arabia

275 China's Sinopec to develop Yadavaran oil field, in "Iran Daily", 25 July 2016, disponibile online: http://www.iran-daily.com/News/155653.html (consultato l’11/6/2017).

276 BRIEF-CNPC ships first crude cargo to China from Iran's North Azadegan project, in "Reuters", 25 October 2016, disponibile online: http://af.reuters.com/article/energyOilNews/idAFB9N1CR015 (consultato l’11/6/ 2017).

277 U.S Energy Information Administration, China, EIA, last updated May 14, 2015, disponibile online: https://www.eia.gov/beta/international/analysis.cfm?iso=CHN (consultato il 12/6/2017).

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Saudita, Oman, EAU e Iraq – che hanno incrementato le esportazioni verso la Cina, oltre ai supplier

tradizionali di Pechino come Angola, Russia e Venezuela.

Tabella 1. Effetto delle sanzioni sulle esportazioni petrolifere iraniane

Partner Media importazioni 2011278 Media importazioni post sanzioni

(2013)

Unione Europea 600 irrilevante

Cina 550 420

Giappone 325 200

India 320 200

Corea del Sud 230 130

Turchia 200 120

Taiwan 35 10

Sudafrica 80 irrilevante

Altri 200 irrilevante

Totale 2500 1087

Fonte: Focus Sicurezza Energetica Ispi-Camera dei Deputati, no.18/2014 p.48

La riduzione delle esportazioni ha inferto un duro colpo al bilancio statale, in quanto le entrate

energetiche costituiscono l’80% sul totale delle esportazioni e contribuiscono al bilancio statale per il

60%.

Nel 2011-2012 gli introiti derivanti dalle esportazioni idrocarburi ammontavano a 118 miliardi di

dollari, nel 2013 si erano ridotti del 47% arrivando a 63 miliardi, con un ulteriore riduzione del 10% nel

2013-2014 a 56 miliardi di dollari.

Altri effetti distorsivi provocati dalle sanzioni sono stati la decrescita economica ( -5,4%),

l'aumento dell'inflazione oltre il 40% e la disoccupazione oltre il 12%.279 L'adozione delle misure che

sancivano il divieto sull'assicurazione del trasporto, che gli assicuratori europei fornivano per il

trasporto marittimo via tanker, venivano di fatto bloccate le esportazioni verso i mercati asiatici.

Sino al 2012 Giappone, Corea del Sud e India hanno emesso delle garanzie statali che hanno

permesso di assicurare le petroliere che trasportavano greggio verso le raffinerie asiatiche, mentre Cina

ed India accettavano anche garanzie da parte di assicuratori iraniani. Successivamente però le pressioni

occidentali hanno spinto le economie asiatiche a cercare alternative alle importazioni dall'Iran.280

278 Valore espresso in migliaia di barili al giorno. 279 S. Bazoobandi, “Iran’s Economy and Energy: Back in Business?”, in P. Magri e A. Perteghella (a cura di),

Iran after the deal: the road ahead, ISPI, Edizioni Epoké, Novi Ligure, 2015, pp. 26-27. 280 EIA, p. 7.

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Sino all'imposizione delle sanzioni, l'Iran era il terzo fornitore di petrolio per la Cina: nel 2013 la

quota del petrolio iraniano sul totale delle importazioni cinesi crollò dall'11% all'8% rispetto al 2011.281

Ad ulteriore conferma della rilevanza della cooperazione energetica tra Cina ed Iran, nel giugno 2015 - a

seguito della revoca delle sanzioni - le importazioni cinesi di petrolio dall'Iran sono cresciute del 26%

mentre quelle dall'Arabia Saudita si sono ridotte.282

7.3 La fine delle sanzioni e il ritorno dell'Iran sullo scenario energetico globale: potenzialità e debolezze

L’accordo sul nucleare iraniano raggiunto il 14 luglio 2015 tra i cosiddetti P5+1 (i cinque membri

del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la Germania) e l'Iran ed ufficialmente implementato dal

gennaio 2016 ha di fatto eliminato il regime sanzionatorio consentendo a Teheran di far ripartire gli

ambiziosi progetti di politica energetica.

Uno dei principali problemi da risolvere era legato allo sviluppo delle riserve esistenti, che

rappresentano un potenziale enorme da tradurre però in pratica, in quanto necessita di massicci

investimenti sulla capacità estrattiva al fine di incrementare la produzione e le esportazioni,

intervenendo sia sui giacimenti maturi - per mantenere gli attuali livelli produttivi - e sia sullo sviluppo

di quelli non ancora in produzione.

Consapevole della necessità di dover attirare investimenti e tecnologia attraverso proficue

partnership energetiche con le maggiori IOC, l'Iran ha adottato un nuovo modello contrattuale - Iran

Petroleum Contract , IPC - che in sostanza consente di stipulare delle joint ventures tra la compagnia

nazionale NIOC e le IOC - vietate dalla precedente normativa - in modo da coinvolgere maggiormente

le compagnie energetiche straniere anche nella fase della produzione – e non solo in quella di

esplorazione e sviluppo come in passato - attraverso la formula del Production Sharing Agreement.

Si tratta dunque di un netto miglioramento delle condizioni offerte agli investitori internazionali,

considerato che alle IOC viene concessa una quota del petrolio prodotto, che potranno rivendere sui

mercati internazionali e la durata dei contratti è stata estesa da 7 a 20-25 anni.283

Il settore petrolifero iraniano riveste un grande interesse per gli operatori internazionali, non solo

per le dimensioni delle risorse esistenti ma anche per le caratteristiche geologiche e geografiche. Infatti

le attività di estrazione petrolifera in Iran hanno un costo contenuto rispetto ad aree geologicamente

281 U.S Energy Information Administration, China, op.cit. pp. 1, 7. 282 M. al-Asoomi, The oil conundrum that awaits Iran, in "Gulf News", 27 July 2015, disponibile online:

http://gulfnews.com/business/analysis/the-oil-conundrum-that-awaits-iran-1.1556757 (consultato il 12/6/2017).

283 F. Anselmo, L’Iran sempre più al centro degli interessi energetici, in "Geopolitica.info", Focus Energia, 19 Gennaio 2017, http://www.geopolitica.info/iran-al-centro-interessi-energetici/ (consultato il 12/6/2017).

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complesse (l'estrazione nell'offshore dell'Artico) e ai giacimenti di idrocarburi non convenzionali (il tight oil

negli Stati Uniti), che consente un elevata competitività sui mercati internazionali.284

Caratteristiche analoghe sono infatti possedute anche dalle riserve dell’Iraq, l’altro grande

produttore dell’area, dove i costi di produzione sono stimati in 5-10 dollari al barile per i giacimenti

offshore e addirittura inferiori ai 5 dollari per quelli onshore, fattore che risulta di particolare impatto in un

contesto come quello attuale caratterizzato da basse quotazioni del greggio.285

Secondo il Sesto Piano di Sviluppo Nazionale 2016-2021 l'Iran intende attrarre investimenti esteri

per un valore di 200 miliardi di dollari, per lo sviluppo del comparto oil&gas e per le industrie

petrolchimiche.

Dati questi presupposti, numerose grandi compagnie energetiche internazionali hanno

manifestato interesse ad approfondire la cooperazione energetica con l'Iran.

La NIOC ha pubblicato la lista delle compagnie straniere accreditate a contendersi le 43

concessioni per l’esplorazione e lo sviluppo di giacimenti di petrolio e gas messe a disposizione dal

governo iraniano. Risultano ammesse le maggiori compagnie energetiche mondiali - Total, CNPC,

Gazprom, Eni, Shell, Lukoil – ad eccezione di quelle statunitensi, assenza particolarmente rumorosa.286

La compagnia francese Total al momento si trova in una posizione privilegiata rispetto alle altre,

avendo siglato con la NIOC nel Novembre 2016 un accordo preliminare per l’assegnazione dei diritti di

sfruttamento della fase numero 11 di South Pars, l’ultima tra le più ingenti fasi del giacimento non

ancora assegnate dalle autorità iraniane. L’Accordo preliminare garantisce alla Total una quota del 50%

nel consorzio composto anche dalla compagnia iraniana Petropas (19,9%) e dalla cinese CNPC (30%):

tale accordo – dal valore di 4,8 miliardi di dollari - verrà finalizzato contrattualmente nel corso del 2017.

Si tratta del primo massiccio investimento occidentale in Iran dopo le sanzioni, destinato ad

aprire la strada ad una proficua cooperazione energetica tra l'Iran e le IOC287

Nel frattempo sono stati siglati una serie di Memorandum d'intesa di particolare rilievo per lo

sviluppo futuro dei giacimenti di idrocarburo iraniani.

A Dicembre 2016 la NIOC ha siglato con la compagnia anglo-britannica Shell degli accordi

preliminari per lo studio delle potenzialità estrattive dei giacimenti petroliferi di South Azadegan e

284 ISPI, Focus Sicurezza Energetica, ISPI-Camera dei Deputati, No.21, Gennaio-Marzo 2015, p. 5. 285 ENI, La fine delle sanzioni in Iran: quale impatto sull'industria petrolifera?, Eni, in collaborazione con RIE ed AGI,

12 Maggio 2016, disponibile online: https://www.eni.com/it_IT/azienda/fuel-cafe/fine-sanzioni-iran.page (consultato il 12/6/2017).

286 Pre-Qualification Public Announcement: Latest Qualified Applicants List, NIOC website, disponibile online: http://en.nioc.ir/Portal/File/ShowFile.aspx?ID=77ba1623-70e2-4d38-8f55-c29c80e339ce (consultato il 22/6/2017); D. R. Jalilvand, Iranian Energy: a comeback with hurdles, Oxford Energy Comment, The Oxford Institute for Energy Studies, January 2017, p.7, disponibile online: https://www.oxfordenergy.org/wpcms/wp-content/uploads/2017/01/Iranian-Energy-a-comeback-with-hurdles.pdf (data consultazione 12/6/2017).

287 ISPI, Focus Sicurezza Energetica, ISPI-Camera dei Deputati, No.28, Ottobre-Dicembre 2016, p. 64.

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Yadavaran, al confine con l’Iraq, e il giacimento gassifero di Kish, che detiene le terze maggiori riserve

nazionali.288

Anche la compagnia energetica italiana Eni ha siglato nel giugno 2017 un memorandum con la

NIOC che le consente per sei mesi di studiare giacimenti di gas nell'isola di Kish e il giacimento

petrolifero di Darkhovin nella provincia sud-occidentale del Khuzistan, che dovrebbe contenere 1,3

miliardi di barili recuperabili.

In sostanza si tratta di un ritorno del gigante petrolifero italiano in Iran in quanto prima delle

sanzioni Eni era impegnata nello sviluppo della fase 4 e 5 di South Pars, cosi come nel 2011 l’Eni ha

partecipato al completamento della seconda fase dello sviluppo di Darkhovin, che ora produce oltre

160 mila barili al giorno.289

7.4 Alla ricerca di nuove rotte d’esportazione e di nuovi mercati

Date le potenzialità legate alle enormi riserve di gas (le più grandi al mondo), l’Iran appare

intenzionato a legittimarsi nel nuovo ruolo di paese esportatore, sfruttando il previsto incremento della

produzione interna: come visto in precedenza, l'Iran è il terzo produttore mondiale di gas dopo Stati

Uniti e Russia ma l’intera produzione (202 Gmc nel 2016) è destinata a soddisfare la domanda interna e

per la re-iniezione nei giacimenti petroliferi. Inoltre, l’Iran è costretto ad importare gas dal vicino

Turkmenistan per approvvigionare le province nord-orientali che non sono raggiunte dalla rete di

distribuzione nazionale.

Nel 1997 venne realizzato il gasdotto Korpeje-Kurt Kuy con una capacità nominale di 12 Gmc di

gas all’anno, ribattezzato gasdotto dell'amicizia e di fatto sanciva le buone relazioni esistenti tra le due

nazioni confinanti. Nel 2010 venne inaugurato un nuovo gasdotto turkmeno-iraniano - Dauletabad-

Sarakhs-Khangiran - con una capacità di 12 Gmc stavolta alimentato dal gas estratto dal giacimento di

Dauletabad, nel Turkmenistan sud-orientale. Con questo nuovo gasdotto, il corridoio d’esportazione

verso l’Iran potenzialmente disporrebbe di una capacità nominale di trasporto pari a 24 Gmc anche se

risulta largamente inutilizzato: basti pensare che nel 2016 solo 6,7 Gmc di gas turkmeno sono stati

esportati lungo questa rotta.290

288 Shell Sign Deal with Iran to Study Major Oil Fields, NIOC website, December 2016, disponibile online: http://en.nioc.ir/Portal/home/?news/81365/71248/183497/Shell-Sign-Deal-with-Iran-to-Study-Major-Oil-Fields- (consultato il 12/6/2017).

289 IRAN. Eni sigla accordo con NIOC, ACG Communication, 20 Giugno 2017, disponibile online: http://www.agcnews.eu/iran-eni-sigla-accordo-con-nioc/ (consultato il 22/6/2017).

290 F. Indeo, “La complicata partnership energetica tra Turkmenistan ed Iran”, in Eurasian Business Dispatch, N0.1, 2017, disponibile online: http://www.eurasianbusinnessdispatch.com/ita/archivio/La-complicata-partnership-energetica-tra-Turkmenistan-ed-Iran-di-Fabio-Indeo-328-ITA.asp (consultato il 10/6/2017).

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Tuttavia, dal gennaio 2017 le forniture di gas turkmeno sono state sospese su decisione

unilaterale di Ashgabat, ragion per cui Teheran deve perseguire con maggiore efficacia una politica di

autarchia energetica per compensare la perdita di queste importazioni.

In questi mesi l'Iran ha concentrato l'attività esplorativa nella regione nordorientale di Kopet Dag,

cercando di incrementare la produzione dai giacimenti di Khangiran e Tous.291

Nel 2016 l'Iran ha importato complessivamente 6,9 Gmc di gas da Turkmenistan ed Azerbaigian

(0,2 Gmc) e ha esportato attraverso gasdotti 7,7 Gmc in Turchia e altri 0,7 Gmc in Armenia ed

Azerbaigian, nell'exclave di Nakhchivan attraverso il gasdotto Salman-Nakhchivan (mentre Baku

esporta gas alle province settentrionali iraniane attraverso il gasdotton Astara-Kazi-Magomed), per un

totale di 8,4 Gmc.292

Tuttavia le opzioni per esportare sono al momento limitate al mercato regionale (Turchia),

mentre la possibilità di esportare gnl attraverso lo stretto di Hormuz è stata vanificata dall'impatto delle

sanzioni che hanno impedito l’afflusso di investimenti e l'apporto di tecnologia necessari per sviluppare

infrastrutture complesse come i terminal di liquefazione.

L'unico progetto iraniano preso in considerazione nel periodo antecedente le sanzioni riguardava

un terminal di liquefazione con una capacità di 14 Gmc all'anno, il cui costo compreso tra 6 e 9 miliardi

di dollari appare capace di scoraggiare le manifestazioni d'interesse e gli investimenti delle IOC.

Con lo sviluppo dell'enorme giacimento di South Pars e di Kashi, nei prossimi dieci anni l'Iran

dovrebbe disporre di un potenziale aggiuntivo d'esportazione compreso tra i 10 e 20 Gmc all’anno ed

arrivare – secondo gli scenari elaborati dall'International Energy Agency- entro il 2040 a produrre 110 Gmc

di gas all'anno aggiuntivi.293

La strategia energetica adottata da Teheran per l’esportazione di gas naturale è orientata ai mercati

regionali (Turchia, Iraq, Oman), verso l’Unione Europea e l’Asia (Pakistan via tubo o i mercati dell'Asia

Orientale nell'ipotesi di sviluppo del gnl sul modello del Qatar).

La partnership energetica con la Turchia riveste un importanza strategica per Teheran in quanto

ha rappresentato l’unico mercato di sbocco durante il periodo delle sanzioni. Il gas iraniano è

importante anche per la Turchia, in quanto Teheran è il secondo fornitore dopo la Russia: un

potenziale incremento dei flussi provenienti dall’Iran rafforzerebbe la posizione della Turchia come hub

energetico, riducendo la dipendenza dalle importazioni di gas russo.

I due paesi sono collegati dal gasdotto Tabriz-Ankara - della portata di 13,5 Gmc/a, che offre

dunque solo limitate capacità di riserva per l'aumento dei volumi di gas, nonostante la volontà di

estendere la portata a 20 Gmc.

291 Iran Acts to Offset Import Cut, in "IRAN Energy News Agency", 17 January 2017, disponibile online: http://en.iranenergy.news/news/gas/iran-acts-to-offset-import-cut (data di consultazione 12/6/2017)

292 BP 2016, op. cit., p. 34. 293 International Energy Agency, World Energy Outlook 2016, IEA, disponibile online: www.iea.org (consultato il

13/6/2017).

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Un aumento dei flussi si potrebbe realizzare con il completamento della sezione n. 9 dell’Iran Gas

Trunk-line (Igat), ambizioso collegamento infrastrutturale tra Assaluyeh e Bazargan, al confine con la

Turchia, della portata di 40 Gmc/a e dal costo stimato di 8,5 miliardi di dollari.294

A seguito del disgelo geopolitico con l’Occidente, l’Iran è stato riconsiderato come uno dei

potenziali partner per l’implementazione del Corridoio Energetico Meridionale volto a rafforzare la

sicurezza energetica dell’Unione Europea e che al momento vede solo l’Azerbaigian come unico supplier.

Il potenziale transito delle esportazioni di gas iraniano potrebbe raggiungere l’Azerbaigian o la

Turchia, anche se in quest'ultimo caso i problemi legati alla sicurezza e alla stabilità dell’area – per le

operazioni di sabotaggio dei guerriglieri curdi del PKK – potrebbero minare la fattibilità del progetto.

Ancora, appare al momento irrealizzabile la proposta formulata dal vicepresidente della Commissione

europea e Commissario europeo per l'unione energetica Sefcovic, che durante il meeting di Ashgabat del

2015 dove venne siglata l'omonima dichiarazione - che sanciva il coinvolgimento della repubblica

centroasiatica nel Corridoio Energetico Meridionale - preconizzò il transito del gas turkmeno in Iran

come un alternativa realistica al gasdotto sottomarino transcaspico tradizionalmente osteggiato dalla

Russia.295

Le esportazioni di gas verso l'Iraq sono diventate realtà nel giugno 2017, dopo anni di ritardi

legati alla realizzazione del segmento in territorio iracheno. Sulla base dell’accordo siglato a Baghdad nel

2013, il gas iraniano raggiungerà la capitale irachena, mentre l'accordo del 2015 riguarda la città

meridionale di Basra. Il completamento del corridoio energetico Igat 6 e la connessione tra il

giacimento di South Pars e i mercati iracheni permetterà a Teheran di beneficiare di una capacità di

esportazione verso l’Iraq pari a 18 Gmc all'anno.296

Il progetto di convogliare le esportazioni di gas iraniano verso l'Oman risalgono al marzo 2014,

quando le due nazioni del Golfo siglarono un importante accordo venticinquennale per esportare 10

Gmc di gas iraniano all'anno a partire dal 2017. Questo progetto prevede la costruzione di un gasdotto

sottomarino che attraversi il Golfo Persico, lungo 260 km, capace di connettere la provincia iraniana di

Hormozgan con quella omanita di Sohar.

L'idea di utilizzare i terminal di liquefazione presenti sulla costa omanita per esportare gas mirano

a realizzare l'ambizione dell'Oman di porsi come hub d’esportazione.297

Nella prospettiva di Teheran, il progetto assume valore strategico in quanto sia il gasdotto

sottomarino che i terminal d'esportazione sono collocati oltre lo stretto di Hormuz, svincolando le

esportazioni iraniane dalle implicazioni connesse ad eventuali tensioni geopolitiche nella regione.

294 ISPI, Focus Sicurezza Energetica, op. cit. p. 61. 295 F. Indeo, op. cit. 296 Iran starts Gas Export to Iraq, in "Shana", 24 June 2017, disponibile online:

http://www.shana.ir/en/newsagency/277333/Iran-starts-Gas-Export-to-Iraq; Iran gas export to EU in post-sanctions era, in "Trend Az", 23 May 2017, disponibile online: http://en.trend.az/iran/business/2758313.html (consultati il 25/6/2017).

297 S. Tagliapietra, Iran after the (potential) nuclear deal: what's next for the country's natural gas, op. cit., pp. 20-21

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I tempi previsti per la realizzazione sono slittati al 2020, principalmente a causa di un contenzioso

sui prezzi.298

Lo stato di guerra civile in Siria ha invece congelato l’ambizioso progetto di gasdotto tra Iran e

Libano ("gasdotto dell'amicizia") attraverso Iraq e Siria, con una capacità di 40 Gmc: lo sbocco sul

Mediterraneo e la vicinanza geografica ai mercati europei configurava il progetto come un potenziale

corridoio alternativo per rafforzare la sicurezza energetica europea attraverso una diversificazione delle

importazioni.299

Il progetto di gasdotto Iran-Pakistan rappresenta il perno dell'attuale strategia energetica

d'esportazione iraniana, in quanto indirizzati ad un mercato con una crescente domanda interna di

energia elettrica che necessita di volumi crescenti di gas.

L'idea di questo corridoio risale al 2009, ma sulla sua fattibilità ha sempre gravato l’opposizione

degli Stati Uniti, che non volevano legittimare il ruolo dell'Iran come supplier energetico anche perché

sottoposto a sanzioni internazionali.

Questo gasdotto, lungo 1.600 km e con un costo stimato in 1,8 miliardi di dollari, dovrebbe

trasportare per 25 anni 22 Gmc di gas all'anno estratto da South Pars: la parte iraniana del gasdotto è

stata completata mentre permangono i ritardi della controparte pachistana.

Nonostante sia venuta meno l’aperta ostilità statunitense, questi ritardi incidono sulla fattibilità

del progetto, anche perché il Pakistan appare riluttante a promuovere un progetto con l'Iran

scontentando Washington, che rimane il secondo partner commerciale dopo la Cina.

Il progetto rivaleggia con il gasdotto TAPI (Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India) in quanto

prevede di fornire un analogo volume di gas naturale agli stessi mercati, compresa un eventuale

prolungamento verso i mercati indiani.

Tuttavia, il fatto che Cina e Russia non siano favorevoli al progetto TAPI potrebbe portare ad un

aperto sostegno di Pechino a favore del gasdotto dall'Iran, sia perché impegnata nello sviluppo di

diversi giacimenti e sia perché dal Pakistan questo gasdotto potrebbe essere esteso sino alla Cina lungo

il corridoio economico Cina-Pakistan e possibilità di diversificazione delle importazioni.300

7.5 Conclusioni

La disponibilità di queste immense riserve di petrolio e gas naturale, in uno scenario geopolitico

internazionale fondato sulla collaborazione e dove l'Iran rivesta un ruolo riconosciuto, faciliterebbe il

298 Iran gas export to EU in post-sanctions era, in "Trend Az", 23 May 2017, disponibile online: http://en.trend.az/iran/business/2758313.html (consultato il 13/6/2017).

299 C. Frappi, Strategie energetiche per il dopoguerra in Siria, in "Limesonline", 28 Marzo 2013, disponibile online: http://www.limesonline.com/strategie-energetiche-per-il-dopoguerra-in-siria/43385 (consultato il 13/6/2017).

300 E. Kosolapova, Expert names main obstacle for Iran-Pakistan pipeline project, in "Trend Az", 25 May 2017, disponibile online: http://en.trend.az/other/commentary/2759199.html (consultato il 13/6/ 2017).

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perseguimento dell'ambizione iraniana di sviluppare il comparto energetico nazionale e di diventare un

importante esportatore di gas naturale, non solamente di petrolio.

L'accoglimento della posizione dell'Iran durante il summit OPEC di Algeri 2016, ovvero di

rigettare le richieste per una riduzione delle quote di produzione dei paesi membri - al fine di

contrastare il crollo dei prezzi del barile – contrapponendo il diritto di incrementare la produzione per

recuperare i livelli pre-sanzioni, rappresenta un indubbio successo per Teheran ed un riconoscimento

della comunità internazionale al valore del comparto energetico nazionale.

Le numerose manifestazioni d'interesse e la volontà delle maggiori IOC di impegnarsi nello

sviluppo dell'oil&gas iraniano testimoniano il valore e le potenzialità delle risorse esistenti.

Tuttavia, il consolidamento dell'Iran nel ruolo di supplier energetico globale risulta condizionato

dall'esistenza di alcune variabili.

Il settore petrolifero presenta degli enormi margini di crescita: l'incremento della produzione e il

raggiungimento dei livelli pre-sanzioni in un periodo temporale contenuto dimostrano le enormi

potenzialità iraniane, anche se l'apporto delle IOC e degli investimenti esteri costituisce una condizione

indispensabile per mantenere elevati livelli di produzione. In prospettiva, una sostenuta ripresa dei

mercati asiatici potrebbe trainare un incremento della domanda petrolifera che l'Iran sembra in grado di

poter soddisfare. Nonostante le immense riserve di gas, il minore valore economico di questa risorsa

potrebbe sottrarre investimenti e distogliere l'attenzione degli investitori internazionali sullo sviluppo

del comparto.

Uno dei principali problemi da affrontare riguarda gli elevati consumi interni, che praticamente

assorbono l'intera produzione gassifera nazionale: di fronte ad una probabile crescita economica

nazionale innescata dalla fine delle sanzioni, questa situazione è destinata a protrarsi soprattutto se

l'incremento della produzione di gas naturale procederà a ritmi non elevati.

La piena implementazione del progetto South Pars e gli annunciati investimenti esteri su Kish

garantiranno all'Iran dei volumi aggiuntivi di gas da destinare all'esportazione, anche se il

completamento di una capillare rete di distribuzione nazionale - che raggiunga le regioni nord-orientali

e compensi le importazioni dal Turkmenistan appare una precondizione irrinunciabile.

A differenza del petrolio, una strategia energetica fondata sull'esportazione di volumi crescenti di

gas naturale risulta condizionata dalla mancanza di concreti mercati di sbocco: il mercato europeo

risulta indubbiamente appetibile ma non appare realistico il suo raggiungimento attraverso pipelines

terrestri data lo scenario d'instabilità geopolitica delle nazioni di transito. Lo sviluppo dell'opzione gnl

permetterebbe di raggiungere gli assetati mercati asiatici (Giappone e Corea del Sud sono le due

maggiori importatrici di gnl al mondo, ed anche Cina ed India importano volumi consistenti di gnl) - ed

anche quelli europei – ma Teheran si troverebbe all'interno di un agguerrita competizione con Stati

Uniti ed Australia che hanno notevolmente rafforzato la loro capacità d’esportazione.

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Capitolo 8. La dimensione militare

Michele Brunelli

A livello regionale l’Iran ha sempre avuto una potenza militare considerevole, almeno ai tempi

dello Shāh. Mohammad Reza Pahlavi aveva fatto delle proprie forze armate il quinto esercito al mondo

in termini di equipaggiamenti e modernizzazione.301 Supportato dai petrodollari e grazie all’appoggio

statunitense la sua funzione era duplice: in clima di Guerra Fredda rappresentava un bastione

importante contro l’espansionismo sovietico, sul piano interno serviva a garantire la sopravvivenza del

regime contro ogni eventuale o possibile minaccia che potesse provenire da frange autoctone.

Nonostante la potenza esprimibile da un esercito regolare e ben equipaggiato, la forza della rivoluzione

fu in grado di soverchiare lo status quo. Non si trattò ovviamente di una vittoria militare, le forze erano

indubbiamente sbilanciate in favore del governo, ma politica, complice anche il Governo di

Washington, il quale ai primi di gennaio del 1979, aveva deciso di togliere la propria “protezione” alla

monarchia Pahlavi, per evitare che le rivolte degenerassero in una vera e propria guerra civile, che

avrebbe causato centinaia di migliaia di morti, invece di alcune migliaia registrati secondo alcune fonti

ufficiali.302

All’indomani della vittoria dei rivoluzionari e con il consolidamento del potere da parte dei

religiosi, dopo la progressiva eliminazione delle altre forze politico-sociali, che della rivoluzione erano

state parte integrante, il nuovo regime iniziò la destrutturazione dell’esercito monarchico, al fine di

eliminare ogni eventuale forza contro-rivoluzionaria. Vennero istituiti tribunali speciali, gli Dadgah-ha-e

Enqelab, gli ufficiali superiori incarcerati o, più spesso condannati a morte, così come gli agenti della

SAVAK (Sāzemān-e Ettelāʿāt va Amniyat-e Keshvar, l’Organizzazione nazionale per la sicurezza e

l'informazione), la polizia segreta dello Shāh.303

Fu così che l’Ayatollah Khomeini istituì il corpo dei Sepah-e Pasdaran-e Enghelab-e Islami, il corpo

dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (IRGC), nome che contiene in sé già una definizione

programmatica degli scopi per i quali fu creato. Un Corpo che durante la storia della Repubblica

Islamica è andato evolvendo, mutando i propri compiti primigeni, aumentando esponenzialmente

301 P. Avery, William Bayne Fisher, G. R. G. Hambly, The Cambridge History of Iran, Cambridge University Press, Cambridge, 1991, vol. 7, pp. 453 ss.

302 Di queste, l’Ambasciata britannica a Teheran arrivò ad indicare in circa 1.600 le vittime. Alcuni recenti studi condotti attraverso gli archivi della Fondazione dei Martiri riducono drasticamente il numero e portano il numero tra i 744 ed gli 895. Si veda: Hazem Kandi, The Power Triangle: Military, Security, and Politics in Regime Change, Oxford University Press, New York, 2016, p. 87.

303 Secondo lo storico ed orientalista Ira Lapidus, furono migliaia gli ufficiali che vennero condannati a morte dai tribunali speciali rivoluzionari. Tra questi figurano il Generale Amir Hossein Rabii, comandante in capo delle forze aeree imperiali, ed il Generale di Brigata ‘Alī Mohammed Khajehnoori, già capo delle operazioni dello Stato Maggiore. Con loro furono condannati anche alti dignitari del regime monarchico, tra cui il Ministro del Lavoro Manouchehr Azemoun, l’ex Primo Ministro Amir Abbas Hoveyda ed Abbas ‘Alī Khalatbari, l’ex ministro degli Affari Esteri. Si veda Ira M. Lapidus, A History of Islamic Societies, Cambridge University Press, Cambridge, p. 555.

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l’influenza non solo sulla società civile, ma anche nella politica, estendendo il suo potere nei gangli

dell’economia del paese. Ed è proprio nel settore economico che i Guardiani hanno potuto sviluppare

la loro diversificazione, andando ad occupare settori strategici come quelli industriale, commerciale e

dei servizi: da quello degli idrocarburi, all’automotive, a quello militare, unitamente al controllo di mercati

che potrebbero essere definiti “opachi”.304

Dopo aver contribuito a consolidare la rivoluzione e rivestito un ruolo fondamentale nella guerra

con l’Iraq, fu nella fase della ricostruzione del paese, sotto la guida di Hashemi Rafsanjani che l’IRGC

iniziò ad ampliare il suo ruolo, che venne successivamente potenziato con Mahmoud Ahmadinejad. Già

nel 2007, nel mutato scenario interno, il suo comandante, il Generale di Divisione Rahim Safavi, in

un’intervista all’agenzia di stampa di Stato, asseriva che: “dalla fine della guerra Iran-Iraq i Pasdaran hanno

assunto tre missioni principali e due secondarie: le missioni principali dell’IRGC implicano la difesa, la sicurezza e le

problematiche culturali e [quelle] secondarie sono collegate alla costruzione del paese e a condurre operazioni di aiuto e

soccorso in caso di catastrofi naturali.305 Sebbene Safavi attribuisse al Corpo anche funzioni di protezione

civile, taceva, per evidenti motivi di opportunità politica internazionale, sul ruolo di controllo del

programma nucleare che la Guida aveva attribuito loro.

Nel giro di due anni il contesto interno cambiò radicalmente, a causa della seconda elezione che

confermò alla presidenza Ahmadinejad e le conseguenti proteste che investirono il paese. Il Governo

Ahmadinejad (2005-2013) pagò la fedeltà assoluta dei Guardiani della Rivoluzione consolidando la loro

preminenza e supremazia militare nei confronti delle altre armi; ampliando a dismisura il loro margine

d’azione politica e rafforzandone la dimensione economica, rendendoli de facto un attore economico-

finanziario di primaria importanza.

Oltre a permettere di incrementare il ruolo e l’influenza delle loro “fondazioni caritatevoli”, tra

cui la potentissima e ricchissima Bonyad-e Mostazafan va Janbazan, Mahmoud Ahmadinejad fece sì che i

Pasdaran potessero penetrare una parte consistente dell’economia del paese, al fine di legarli a doppio

filo al governo, alle sue scelte, ed alla sua stessa sopravvivenza. Un modello ampiamente collaudato, che

ebbe nell’Egitto di Mubarak un esempio riuscito. Tutto ciò, in cambio di una fedeltà assoluta ed

incondizionata. Talmente incondizionata da far sì che, in caso di crisi interna, qualora ordinato,

sarebbero stati pronti anche a fare fuoco sui loro stessi compatrioti. E così fu, durante l’ondata di

rivolte che scosse il paese nel giugno del 2009.

La strategia sottesa messa in atto da Ahmadinejad fu quella, non solo di ribadire il ruolo di questo

corpo paramiliare quale controbilanciamento alle forze armate regolari, ma anche e soprattutto nei

confronti dei Niruy-e muqavemat-e Basij, la Forza di Resistenza Mobilitata – i Basij –, la milizia volontaria

304 Per uno studio abbastanza esaustivo, sebbene datato, si veda Frederic Wehrey et al., The Rise of the Pasdaran. Assessing the Domestic Roles of Iran’s Islamic Revolutionary Guards Corps, RAND, National Defense Institute, Santa Monica, 2009.

305 IRNA, “Iran: Guards Commander Says Change in Guards Strategy Necessary,” FBIS, IAP20070817950094, 17 August 2007.

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composta in prevalenza da civili, e creata dall’Imam Khomeini nel 1979, con il nome di Sazman-e basij-e

Mostazafan, Organizzazione per la Mobilitazione degli Oppressi. Il rafforzamento politico-militare dei

Pasdaran e quello militante dei Basij, unitamente ad un ripensamento del loro utilizzo, si rese necessario

quando si constatò che il 73% dei membri dell’IRGC e degli stessi Basij, durante le elezioni del 1997

avevano votato per il “riformista” Mohammad Khatami. Da allora venne messo in atto uno specifico

piano di formazione politico-ideologica, nel tentativo di infondere loro gli originari ideali rivoluzionari,

che andavano perdendosi. Infatti, molti degli ufficiali inferiori e dei sottufficiali non avevano preso

parte né alla rivoluzione khomeinista, né alla guerra contro l’Iraq e, pertanto, non erano più permeati di

quella ideologia nazional-rivoluzionaria che iniziava ormai a caratterizzare solo gli ufficiali superiori.

Nonostante durante il corso delle elezioni successive (2001, 2005) i Basij avessero votato compatti per il

candidato “conservatore”306 – Ahmadinejad –, alla prova dei fatti dimostrarono di avere al loro interno

una forte frammentazione, non percepita dall’Occidente, che considera, da sempre la Forza di

Resistenza Mobilitata come un’organizzazione monolitica che si muove all’unisono. Durante la rivolta

guidata dalla cosiddetta “Onda Verde” nel 2009, molti dei “membri speciali dei Basij”, chiamati anche

“Guardie Rivoluzionarie onorarie”, si rifiutarono infatti di prendere parte alle violente repressioni che

ne seguirono. Alcuni gruppi Basij presenti nelle università di Stato, avevano in parte solidarizzato con i

compagni di università, evitando in molti casi di segnalare ai propri capi-sezione i nomi di coloro i quali

presero parte alle manifestazioni anti-governative.

I Basij, nel primo mese delle proteste, incontrarono addirittura grandi difficoltà nel mobilitare

anche solo qualche migliaio di sostenitori del governo, a Teheran. Secondo alcuni testimoni, che

presero parte in maniera diretta ed indiretta alle proteste del giugno 2009, i Pasdaran si mostrarono

invece molto compatti nel reprimere le manifestazioni di dissenso, dimostrando al Presidente, così

come alla Guida di essere i soli capaci a controllare la piazza, ipotecando così ulteriori benefits e leggi ad

hoc per il Corpo.

Da questo momento in poi, oltre a rivedere i programmi d’addestramento ed adattarli alle

possibili nuove minacce interne, inglobarono la milizia volontaria dei Basij e l’intervento pubblico in

politica si fece sempre più pressante, soprattutto durate l’amministrazione successiva, quella di Rohani

(2013-2017), perché l’aumento del potere politico di cui godettero e consolidarono tra il 2005 ed il 2013

iniziava ad essere messo in discussione dalla nuova compagine governativa iraniana.

8.1 Il governo Rohani

La nuova amministrazione dovette iniziare a confrontarsi con questa realtà sin da subito. Il

Governo Rohani si trovò stretto tra una serie di sanzioni economiche – per la prima volta nella storia

306 Categorie non troppo pertinenti e di difficile applicabilità alla compagine politica iraniana, in quanto si tratta essenzialmente di categorie occidentali che non hanno la stessa valenza in questo contesto.

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degli embargo – sempre più efficaci,307 e quindi necessariamente portato a trovare una soluzione politica

che ne allentasse la morsa; e dai Pasdaran, custodi fittizi dell’ortodossia rivoluzionaria, in realtà più

interessati a far sì che il loro potere economico non fosse eroso dalle aperture promesse e proposte.

Non fu quindi un caso che, a poco più di un mese dal suo insediamento, il 20 settembre 2013,

Hassan Rohani chiese ai Guardiani “di rimanere attivamente impegnati nell’economia, al fine di aiutare il paese nel

rendere vane le sanzioni” e “chiediamo ai Pasdaran di prendere sulle loro spalle parte del carico che grava sul governo”.

Fu questo un primo tentativo di rimarcare che, anche il nuovo governo riconosceva l’importante

ed imprescindibile ruolo economico dei Guardiani della Rivoluzione.

Il Presidente cercava senza dubbio di accattivarsi, se non le loro simpatie o il loro supporto,

almeno una loro “non opposizione” alla sua piattaforma politica, tentando anche di porre rimedio alla

dichiarazione rilasciata tre giorni prima (17 settembre 2013), in preparazione alla fase distensiva della

politica iraniana, quando, parlando agli alti ufficiali dell’IRGC, aveva asserito che i “Pasdaran non

dovrebbero essere coinvolti nei giochi politici, poiché il corpo appartiene alla nazione iraniana”. Una frase certamente

rilevante, in quanto si trattava di una citazione di un discorso fatto da Ruhollah Khomeini negli anni

Ottanta, ma le parole pronunciate dal chierico non facevano riferimento alla sola sfera interna.

Proseguendo nel discorso, ebbe anche a dire che “i Guardiani non devono cercare di instaurare il predominio

militare nella regione /…/ e chiunque i cittadini siriani voteranno per guidare il loro paese, noi saremo d’accordo con

loro”. Parole che di fatto tendevano a limitare il ruolo politico interno ed esterno del Corpo, ma anche la

loro influenza e raggio d’azione militare in Siria.

Parte dei Guardiani, fedeli comunque alla linea della Guida Suprema, che ha “accolto”

favorevolmente l’elezione di Rohani alla presidenza della Repubblica, si sono mostrati abbastanza

benevolenti nei suoi confronti. Una benevolenza in parte data anche dalla nomina del nuovo

responsabile del dicastero della Difesa: un membro degli stessi Pasdaran, il Generale di Brigata Hossein

Deqhan (Dehghan). Nonostante il tentativo di rimediare al discorso sulla limitazione dell’ingerenza

politica dei Pasdaran con la riaffermazione e riconoscimento del loro ruolo economico, l’apertura a

livello internazionale fatta dallo stesso Presidente della Repubblica dalla sede delle Nazioni Unite di

New York il 24 settembre, provocò molti malumori interni, tanto da indurre il Generale Mohammad

‘Alī Jafari, comandante del’IRGC, a dichiarare che Rohani avrebbe fatto meglio a rifiutare la telefonata

del presidente Obama, seguendo la scia di critiche originata dal ‘Alī Khamene‘ī. Un j’accuse all’azione di

governo, una presa di posizione chiara e netta che, tra le righe, sottolineava di come i Pasdaran non

volessero rinunciare ad influenzare il governo stesso, ma significava anche produrre una frattura tra la

base (i Guardiani) ed il vertice, nella fattispecie verso il neo-ministro della Difesa, considerato un

307 Si veda a tal proposito il capitolo sull’impatto economico di Cristini ed Origo.

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moderato, nonostante un passato di militare in prima linea, con un suo sospetto coinvolgimento negli

attentati di Beirut del 1983.308

Moderato perché Deqhan fu viceministro della Difesa con ‘Alī Shamkhani – contrammiraglio

delle forze marittime dell’IRCG, nel governo riformista di Khatami.309

Con la riassunzione di posti di primaria importanza di alcuni elementi di spicco dei Pasdaran

(Deqhan e Shamkhani, tra gli altri) si sono riacutizzate le lotte di potere interne. Uno dei primi e più

rilevanti atti di opposizione a Rohani venne portato avanti dallo stesso Jafari a pochi mesi

dall’insediamento alla presidenza: “Il militare, i sistemi e procedure che disciplinano il sistema amministrativo del

paese sono le stesse di prima, [ma] sono stati leggermente modificati e purtroppo [il sistema è stato] contagiato dalla

dottrina occidentale, e pertanto deve avvenire un cambiamento radicale /…/ La principale minaccia per la Rivoluzione

risiede nell’arena politica e le Guardie non possono restare in silenzio di fronte a tale situazione.” (11 dicembre 2013).

Da un punto di vista formale, la critica di ‘Alī Jafari, che istituzionalmente fa parte del Consiglio

di Sicurezza Nazionale Supremo, va contro non solo al Presidente, ma anche al Segretario del

Consiglio, Shamkhani, sottolineando nuovamente le fratture interne e le opposizioni tra gli alti gradi dei

Guardiani. Fu senza dubbio una risposta politica diretta al discorso sopracitato di Rohani del 17

settembre. Rifiutando di essere emarginati dalla vita politica del paese, i Pasdaran per voce del loro

comandante, si riappropriavano del loro ruolo istituzionale, di guardiani, custodi e garanti della

Rivoluzione, dei suoi ideali e della sua ortodossia. Accusando direttamente il governo di essere

sovraesposto e troppo permeabile alla dottrina occidentale si dimostrano ad essere pronti a giocare il

loro ruolo fino in fondo. Per il momento il braccio di ferro rimane limitato ai soli proclami. È tuttavia

un dato di fatto che sotto l’apparente unità dei Guardiani la frattura tra il comandante del Corpo e il

Governo sia una realtà ormai conclamata che non può essere ignorata.

Al momento si tratta chiaramente di una valutazione delle forze da parte dei due gruppi

contendenti. In questo clima di transizione e di consolidamento del potere, sia il gruppo “governativo”,

sia quello più radicale stanno cercando di valutare:

i) le effettive forze del potenziale avversario;

ii) le prese di posizione della Guida, in appoggio ora agli uni, ora agli altri;

iii) le mosse e le reazioni della comunità internazionale soprattutto nei confronti del

mantenimento di alcune parti delle sanzioni, in particolare quelle inerenti le transazioni finanziarie.

308 Shimon Shapira, “Iran’s New Defense Minister: Behind the 1983 Attack on the U.S. Marine Corps Barracks in Beirut”, Jerusalem Center for Public Affairs, 18 November 2013, http://jcpa.org/irans-new-defense-minister-behind-the-1983-attack-on-the-u-s-marine-corps-barracks-in-beirut/ (consultato il 22/6/2017); Shaun Waterman, Iran’s new Defense minister: Hezbollah chief who planned 1983 Marine barracks attack, The Washington Times, 13 August 2013, http://www.washingtontimes.com/news/2013/aug/13/irans-new-defense-minister-hezbollah-chief-who-pla/ (consultato il 22/6/2017).

309 Un altro elemento chiave del sistema di sicurezza e difesa iraniano è senza dubbio Shamkhani, già consigliere militare di Khamene’ī, il 10 settembre 2013 fu chiamato da Rohani a ricoprire il ruolo di Segretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale Supremo (CSNS), che fu del falco Saeed Jalili.

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Il clima di dissenso entro gli stessi Pasdaran; la valutazione del livello non solo di fedeltà al regime

dei Basij, ma anche la loro compattezza interna, l’efficacia e le potenzialità di controllo e di intelligence

che possono sviluppare attraverso il loro (supposto) controllo e presenza capillare entro la società civile,

sono indicatori che dovranno essere valutati attentamente nel medio periodo, per cercare di fornire un

quadro che sia il più realistico ed attinente possibile alla complessa realtà politica multilivello iraniana.

Da un lato v’è quindi la necessità, da parte del governo di consolidare il proprio potere all’interno,

in modo da poter proseguire nella politica di apertura verso l’esterno, necessaria a che l’economia possa

riprendersi dagli shock generati dall’embargo. Dall’altra, la frangia estremista dei Pasdaran, guidata da

‘Alī Jafari, oltre a cercare di mantenere intatti l’influenza politica, ma soprattutto il potere economico,

deve consolidare a sua volta la propria forza in vista di quello che sul breve/medio periodo potrebbe

essere un cambiamento fondamentale nella leadership del paese: la successione di ‘Alī Khamene‘ī.310

Accanto al ruolo preminentemente politico interno, i Guardiani giocano anche un indubbio ruolo

militare, arrivando a costituire il nerbo stesso delle forze armate della Repubblica Islamica. Secondo i

dati riportati dall’International Institute for Strategic Studies (IISS), l’Iran oggi può contare su una forza

militare attiva di 523.000 uomini, di cui 350.000 nell’Esercito, 125.000 in Marina e 18.000

dell’Aeronautica, ai quali vanno aggiungersi 125.000 Pasdaran e 40.000 uomini delle forze paramilitari.

A loro volta, i Pasdaran sono suddivisi in forze di terra (100.000), Marina (20.000 uomini, inclusi

5.000 marines) e Aeronautica (5.000), cui è affidato il controllo dell’appartato missilistico. Un esercito

nell’esercito, molto meglio addestrato ed equipaggiato. I Basij supportano l’apparato della difesa con

una milizia di circa un milione di uomini, con capacità di combattimento. La forza militare che possono

esprimere, unitamente alla loro pervasività politica rendono il Corpo un attore di primaria importanza,

imprescindibile da ogni tentativo di riforma strutturale e duratura del paese.

Il principale problema risiede, oggi, come nel recente passato, nell’ammodernamento dei mezzi e

degli equipaggiamenti, a cui ha cercato di dare una risposta il comparto industriale, le cui potenzialità

sono state tuttavia bloccate dal regime delle sanzioni.

8.2 L’industria bellica: dalla dipendenza all’autosufficienza

L’industria militare iraniana nacque per volontà di Reza Pahlavi agli inizi degli anni Settanta del

secolo scorso. Essa era, in realtà, la risultanza delle sinergie espresse dalle esigenze di politica interna,

con le necessità dettate dalla situazione geopolitica e geostrategica internazionale.

Si trattava di una industria non specializzata, né ad alta tecnologia, le cui funzioni erano

sostanzialmente di manutenzione ed assistenza ai fornitori esteri.

310 Si veda cap. 9.

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Il primo tentativo di razionalizzazione del settore ebbe luogo nel 1963, quando lo Shāh volle che

tutte le imprese a produzione militare venissero raggruppate in un unico organismo: l’Organizzazione

delle Industrie Militari (MIO), posta sotto il diretto controllo del Ministero della Difesa. Questa fase di

riorganizzazione favorì un primo timido sviluppo dell’industria bellica, grazie anche ad una serie di

accordi stipulati con l’Occidente, sulla base dei quali l’Iran ottenne il permesso di produrre su licenza

alcuni modelli di armi leggere su progetti forniti dalla Germania Occidentale. Sebbene la maggior parte

della produzione consistesse ancora in un mero assemblaggio mediante kit di montaggio, (soprattutto di

elicotteri, jeep e camion ai quali andavano ad aggiungersi la fabbricazione di fucili e mitragliatori), fu

comunque il punto di partenza dal quale prese forma un primo embrione di quella che sarà il nucleo

portante dell’industria bellica iraniana di oggi. Durante la fase monarchica, in realtà l’Iran non

necessitava di un apparato produttivo bellico di alto livello, poiché i sistemi d’arma complessi gli

venivano forniti “chiavi in mano” dai suoi principali suppliers, in primis dagli Stati Uniti. Inoltre, in molti

casi, agli iraniani veniva negato l’accesso alle competenze tecnologiche e quindi erano impossibilitati ad

operare in maniera autonoma ed indipendente sui mezzi ad alta tecnologia venduti da Washington.

Caduto nell’isolamento internazionale con l’avvento al potere degli Ayatollah, la nuova

compagine governativa diede inizio ad una politica fortemente e necessariamente autarchica per

l’acquisizione degli armamenti. Venuto meno il sostegno statunitense, la creazione di un’industria

moderna nazionale diventò una priorità, parte integrante dell’interesse nazionale iraniano. L’embargo

del 1981, se da un lato privava quasi totalmente di fornitori primari l’Iran, dall’altro funse da

catalizzatore per la riorganizzazione e l’espansione di un’industria militare autonoma ed indipendente.

La congiuntura fra il continuo e sempre più crescente fabbisogno di armi e le sanzioni sul materiale

bellico, associata al necessario aumento esponenziale dei costi dei sistemi d’arma sul mercato

internazionale e clandestino, costrinsero l’industria della difesa a puntare verso la costruzione autoctona

di sistemi che fossero più economici e, conseguentemente, meno complessi, o verso fornitori, che non

aderivano alle sanzioni, le cui industrie non erano però in possesso di tecnologia militare all’avanguardia

come quella occidentale.

Taiwan, Singapore e Corea del Nord fornirono supporto tecnologico, Pakistan, Cina e Libia

continuarono nella loro fornitura di parti di ricambio, alla quale si associò la “cannibalizzazione” dei

mezzi in possesso della Repubblica Islamica, per garantire il mantenimento in efficienza dei sistemi.

Venne varato un programma autarchico, un piano di medio-lungo periodo che cercava di sopperire alla

carenza cronica di mezzi e parti di ricambio e per soddisfare le esigenze di un esercito uscito dalla

rivoluzione, privato dei suoi quadri più alti e che aveva appena subito le prime sconfitte militari sul

campo da parte dell’esercito di Saddam Hussein.

Alla luce delle sopraccitate esigenze, nel 1981 il governo rivoluzionario decise di riunire le

fabbriche militari in un’unica istituzione e fondò l’Organizzazione delle Industrie per la Difesa

(Sazemane Sanaye Defà – SaSaD - Defense Industries Organization – DIO), organo di supervisione e controllo

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delle attività produttive belliche, inquadrandola nell’ambito delle competenze spettanti al Ministero della

Difesa. Generalmente non si tratta di produzioni su progetti originali, ma di rielaborazioni o

aggiornamenti di sistemi d’arma già in dotazione alle Forze Armate iraniane, acquisite durante la

campagna di riarmo varata negli anni Settanta. Nel 1986, però, le imprese riunite sotto il controllo del

SaSaD fabbricano già, a livello locale, un alto numero di armi leggere, di mortai e di munizioni. Ma il

salto di qualità avviene l’anno successivo quando Teheran annuncia di aver prodotto un “certo numero i

razzi Oghab”, sul modello degli Scud sovietici, a riprova che il paese era in grado di costruire sistemi

sempre più complessi, pur tuttavia limitatamente alla rielaborazione di sistemi esistenti.

La SaSaD controlla numerose imprese o gruppi sussidiari che si possono dividere in divisioni.

Esse comprendono i dipartimenti per la (i) costruzione missilistica (Dipartimento 140); (ii) produzione

aeronautica (AIO e sue controllate); (iii) Ricerca e Sviluppo; (iv) meccanica. Il fatturato totale del SaSaD

non è noto, ma fonti aziendali hanno dichiarato che il 10% degli utili è reinvestito nella ricerca

tecnologica militare.311 Oltre ai principali gruppi industriali militari del paese, che a loro volta sono

composti di numerose sussidiarie, l’Organizzazione è responsabile anche direttamente alcuni importanti

centri di ricerca, come il Defense Technology and Science Research Center di Karaj ed il Gostaresh Research Center,

entrambi grandi centri di R&S di ingegneria missilistica.

Le varie aziende della difesa vennero installate su tutto il territorio nazionale. A livello strategico il

vantaggio era di non offrire ad un potenziale nemico, nella fattispecie Israele e Stati Uniti, la possibilità

di distruggere grandi centri industriali, bloccando così la produzione. Dal punto di vista finanziario

questa decisione ebbe il pregio di aiutare le economie locali a crescere tecnologicamente, nell’intento di

creare una situazione di sviluppo diffuso.

Il monopolio delle Forze Armate regolari sulla produzione militare durò fino al 1983, quando il

Consiglio Superiore di Difesa Nazionale312 autorizzò i Pasdaran a costituire una propria industria

militare. Ciò faceva parte di una strategia che mirava a rafforzare il potere dei Guardiani della

Rivoluzione, corpo speciale istituito dalla Costituzione per la “salvaguardia della Rivoluzione e delle sue

conquiste”313. La prima fabbrica posta interamente sotto il controllo dei Pasdaran divenne operativa nel

1984 per la produzione mortai da 120mm, granate, equipaggiamenti contro la guerra chimica, missili

controcarro e razzi. Accanto alle industrie a produzione militare, l’IRGC iniziò a sviluppare anche dei

centri di ricerca, quali l’Istituto per la Ricerca e lo Sviluppo Industriale, nel quale agli inizi degli anni

Duemila, fu progettato l’elicottero Shahed-274,314 e successivamente realizzato dalla Iranian Helicopter

311 Reuters 29/8/1994 e Military Arms Transfers News, 9/9/1994. 312 Secondo la costituzione iraniana, la formazione del Consiglio Superiore di Difesa Nazionale è una delle

prerogative spettanti al Capo della Rivoluzione (art. 110, comma c). A tale istituzione, che ha la funzione di “proporre la dichiarazione di guerra e di pace e la mobilitazione”, partecipano il Presidente della Repubblica, Primo Ministro, Ministro della Difesa, Comandante Supremo delle Forze Armate e da due consiglieri nominati dal Capo della Rivoluzione. Si veda Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran, Sezione IV, art. 110, comma c; e.

313 Si veda Costituzione della Repubblica Islamica dell'Iran, Sezione III, art. 150. 314 Jane’s Defence Weekly (JDW), 14 March 2001, vol. 35, n° 11.

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Support and Renovation Company (PANHA), sussidiaria della Aviation Industries Organisation (AIO). Nel

1989 venne formato il Ministero della Difesa e della Logistica delle Forze Armate (MODAFL), che raccoglieva

gli elementi della Guardiani della Rivoluzione e del Ministero della Difesa. Si trattò di un ulteriore

accorpamento delle attività produttive e dell’accentramento della politica logistica per la difesa.

Secondo una stima proposta da Jane’s, sin dalla metà degli anni Novanta, il paese aveva raggiunto

l’autosufficienza, grazie ad una industria militare composta da almeno 250 stabilimenti dedicati alla

produzione bellica.315 Il tema dell’autosufficienza è stato riproposto più volte, sia in seguito ad analisi di

osservatori occidentali, sia attraverso dichiarazioni ufficiali del Governo, comprovate dalla vasta gamma

di prodotti per la difesa costruiti in Iran, presentate anche alle diverse fiere nazionali ed internazionali

del settore. Le principali linee di fabbricazione contemplano la realizzazione di sistemi missilistici di

vario tipo (missili balistici a medio raggio – IRBM; o tattici); artiglieria e mezzi corazzati; armi leggere;

munizionamento e parti aeronautiche, anche complesse. Per la componentistica aeronautica avrebbe

raggiunto la fabbricazione di circa 14.000 parti diverse. La maggior parte dei prodotti si basa su progetti

stranieri, principalmente russi o cinesi, talvolta occidentali, ma anche alcuni sviluppati interamente in

Iran, soprattutto nel corso dell’ultimo decennio.

La produzione militare cercava di soddisfare due esigenze: la prima di reintegrare i mezzi persi

durante la guerra Iran-Iraq e di provvedere alla modernizzazione di quelli obsoleti, acquistati ancora

durante il regime dello Shāh, la seconda di dare alle forze armate gli strumenti necessari per far fronte a

numerose situazioni potenzialmente pericolose per lo Stato. Ancora agli inizi degli anni Novanta, la

Repubblica Islamica si sentiva esposta a potenziali minacce che potevano attuarsi su due fronti: l’uno ad

ovest, proveniente da un Iraq, indebolito dalla guerra del 1991, ma non sconfitto, l’altro dai suoi confini

meridionali, rappresentato dall’Arabia Saudita. In questo caso la minaccia percepita e paventata da

Teheran era quella del lancio di missili a medio raggio di fabbricazione cinese DF-3 (CSS-2 East Wind

nella classificazione NATO), acquistati proprio da Riyadh dalla Repubblica Popolare Cinese.316 Tali

sistemi, nelle intenzioni di Riyadh, non celavano velleità di trasformare il regno in una potenza

nucleare,317 ma dovevano fungere da potenziale azione deterrente nei confronti di una eventuale

iniziativa espansionistica di Teheran. Da parte iraniana, l’acquisto di tali sistemi suscitò grande timore:

315 “Iran claims it is self sufficient”, Jane’s Defence Weeky, 14 October 1995, p. 21. 316 La prima concreta manifestazione di interesse nel stringere accordi di cooperazione militare tra Arabia

Saudita e Repubblica Popolare Cinese ebbe luogo nel 1985, ben cinque anni prima dell’inizio delle relazioni diplomatiche ufficiali tra i due paesi. L’accordo, rimasto segreto fino al 1988, prevedeva la vendita di 36 missili CSS-2 e di nove lanciatori.

317 Lo stesso Generale Khaled bin Sultan bin Abdulaziz, che ottenne il titolo onorifico di “padre dei missili sauditi” e che negoziò la vendita, era conscio del fatto che questo missile, se dotato di testata convenzionale fosse molto impreciso. Alcuni membri della famiglia reale, tra cui lo stesso generale, avevano quindi contemplato la possibilità di armarlo di testate atomiche, forti dell’idea che il Regno non avrebbe avuto ispezioni da parte della comunità internazionale e, pertanto non vi sarebbero state proteste, né possibili sanzioni. Tuttavia in quel momento accantonarono tale ipotesi. Per un approfondimento si veda Richard L. Russell, “A Saudi nuclear option?”, in Survival, vol. 43, n. 2, Summer 2001, pp. 69-79.

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erano ancora impresse nella memoria della popolazione le devastazioni e gli orrori che la “guerra delle

città”, scatenata da Saddam Hussein con il lancio dei suoi missili SCUD aveva comportato, portando la

guerra sin dentro i grandi agglomerati urbani, distanti centinaia di chilometri dal fronte.

Oltre a ciò, l’Iran doveva anche affrontare una serie di minacce interne, tra cui:

- un’agguerrita opposizione condotta dai Mogiaheddîn-e Khalq (MEK);

- da una forte presenza di curdi, a nord del paese, militanti del Partito comunista curdo

dell’Iran (KOMALA) e del Partito Democratico del Kurdistan Iraniano (DPIK) forti di circa

10.000 uomini;

- dall’Esercito di Liberazione Nazionale, formato da circa 4.000 guerriglieri, organizzati in

brigate, con basi in Iraq.

Sebbene l’Iran rimanga essenzialmente un importatore di armi, nel 1995 si calcolava che avesse

esportato i propri prodotti militari in 14 paesi, per un totale di 310 milioni di dollari.318 Tale somma a

metà degli anni Novanta, non era per nulla trascurabile, soprattutto se si calcola che tra i primi dieci

principali fornitori di armi di allora la Cina e l’Iran erano i soli paesi “in via di sviluppo” presenti,

secondo la classificazione data dall’ente statunitense.319 V’è da tener presente la possibile volontà

politica della US Arms Control and Disarmament Agency (ACDA) di sovrastimare o per lo meno di

sottolineare il ruolo dell’Iran nel commercio delle armi, al fine di enfatizzare la necessità di mantenere,

se non di inasprire il regime sanzionatorio.

Nel 1994 l’Agenzia Reuters riprese alcune dichiarazioni di alti funzionari iraniani riguardo la

produzione autonoma di sistemi d’arma. Nel corso di un’intervista, pubblicata dalla rivista Military Arms

Transfers News,320 si dava notizia della nuova politica intrapresa, orientata sempre più verso la

fabbricazione di prodotti ad uso civile. Nel 1989 questa era, infatti, pari all’11% della produzione totale,

percentuale che era salita al 45% nel 1994 e che, secondo le stime, sarebbe arrivata addirittura al 75%

alla fine del 2000. Analizzando l’ampia gamma di prodotti militari in costruzione ed i numerosi progetti

per la realizzazione di nuovi sistemi, tale percentuale sembrava in verità essere un’affermazione

propagandistica, fatta più per tranquillizzare i paesi limitrofi (tra cui, per primo l’Arabia Saudita, che

proprio in quegli anni proseguiva nella sua intensa campagna di riarmo), che sintomo di un rinnovato

spirito pacifista. L’aliquota produttiva militare continua infatti ad occupare una parte rilevante

dell’industria pesante iraniana, sempre però destinata ad uso interno.

Oggettivamente l’Iran non può definirsi un “grande esportatore di armi”, sia per il basso livello

tecnologico dei propri sistemi, sia per l’embargo in essere. Secondo lo Stockholm International Peace

318 Fonte: US Arms Control and Disarmament Agency (ACDA, World Military Expenditures and Arms Transfers (WMEAT) 1998, Washington DC, 1999, Table II. Dato espresso a valori correnti.

319 Si veda anche ACDA, WMEAT 1996, p. 19. 320 Reuters 29/8/1994 e Military Arms Transfers News, 9/9/1994.

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Research Institute (SIPRI), sin dalla sua fondazione, la Repubblica Islamica ha avuto rapporti costanti di

fornitura di armi con Hezbollah: tra il 1984 ed il 2006 avrebbe fornito armi per un ammontare di circa

22 milioni di dollari. Negli ultimi anni i mercati principali di sbocco per i sistemi iraniani sono stati la

Siria e l’Iraq: dal 2006 al 2014, il regime di Damasco ha ricevuto armi per un ammontare di 310 milioni

di dollari, mentre l’Iraq, nel biennio 2014-2015, per 42 milioni.

Nel dettaglio, i sistemi venduti all’Iraq riguardano 20 lanciarazzi multipli (Type-63) da 107mm

quale forma di aiuto per le milizie sciite impegnate nel contrastare lo Stato Islamico e due Su-25KM

Skorpion usati, provenienti forse dalla Georgia o dal Turkmenistan, le due nazioni che l’hanno

attualmente in uso. Il SIPRI annovera nella commessa anche 7 Su-25, versioni non modificate come

quella citata in precedenza. In realtà più che di vendita si tratta della restituzione dei Sukhoi che nel 1991

erano fuggiti dall’Iraq all’inizio della Guerra del Golfo per non essere distrutti dalla soverchiante forza

della coalizione internazionale ed avevano trovato rifugio in Iran. Qui erano stati confiscati dal governo,

quale forma di riparazione per i debiti della guerra del 1980-1988.

Quello siriano è invece un mercato più composito, segno anche della stretta alleanza politico-

militare che caratterizza i due Stati. L’Iran ha fornito al regime di Damasco diversi sistemi d’arma navali:

tra questi 25 missili C-802/CSS-N-8 Saccade di fabbricazione cinese, per la difesa costiera; 15 sistemi

similari, ma modificati dall’Iran (versione Noor) in funzione antinave e montati sulle unità litoranee

d’attacco (Fast Attack Craft – FAC) Tir II anch’esse di fabbricazione iraniana, oggetto di una fornitura

alla marina di Damasco del 2006; 5 UAV Ababil-3, tra i primi ad essere prodotti dalla Iran Aircraft

Manufacturing Industries Co (HESA) nel 2000,321 in dotazione anche agli Hezbollah libanesi e da questi

ampiamente utilizzati nel conflitto contro Israele del 2006 (la cosiddetta “guerra di Luglio”), e 5 Yasir,

droni della Iran Aviation Industries Organization (IAIO).

La collaborazione con il regime di Assad si è concretizzata anche attraverso la costruzione di una

fabbrica per la costruzione di sistemi missilistici, così come esplicitamente dichiarato dal Generale Amir

‘Alī Hajizadeh, comandante delle “forze aerospaziali” dei Pasdaran.322

Le capacità missilistiche siriane permettono al regime di realizzare alcune variati del Fateh-100,

missile a corto raggio a propellente solido della IAIO, oggi prodotto in Iran su vasta scala. Anche in

questo caso, sebbene non rientri nelle statistiche del SIPRI, l’Iran, secondo l’intelligence israeliana,

avrebbe fornito ad Hezbollah, attraverso la Siria diverse “centinaia” di questi sistemi.323

Tra i clienti “occidentali” di Teheran figura la Bosnia Erzegovina, con una commessa da un

milione di dollari nel 1996, che prevedeva la vendita del sistema lanciarazzi Nazeat N-10; mentre tra

321 “Iran builds Ababil UAV variants”, in Jane’s Defence Weekly, 1 March 2000. 322 Si vedano: Nick Gillard, Daniel Salisbury, “Iran’s use of illicit procurement methods”, in Jane’s Intelligence

Review, vol. 27, n. 9, September 2015 e Nick Hansen, Ian J. Stewart et al., “Iranian missile development defies restrictions”, in Jane’s Intelligence Review, vol. 28, n. 1, January 2016.

323 Si veda ad esempio: “Syria Gave Advanced M-600 Missiles to Hezbollah, Defense Officials Claim”, Haaretz, 5 May 2010, http://www.haaretz.com/news/syria-gave-advanced-m-600-missiles-to-hezbollah-defense-officials-claim-1.288356 (consutlato il 26/6/2017).

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quelli sudamericani il Venezuela (un milione nel 2013), a cui sono stati venduti sistemi UAV Mohajer-3

per il controllo marittimo.

Il Sudan rappresenta invece il mercato principale africano con vendite per 28 milioni, avvenute

tra il 2003 ed il 2008. Il governo di Khartum ha acquistato mezzi terrestri, tra i quali veicoli per

trasporto truppe Boraq e 10 tank T-72, probabilmente trasformazioni degli obsoleti T-54/55 o 59

sudanesi.

Nonostante ancora oggi si continui a sottolineare il livello di autosufficienza raggiunto nel

comparto militare, questo continua ad essere pesantemente dipendente dal materiale che deve essere

acquisito all’estero, soprattutto per il settore missilistico. Il principale fornitore, secondo Jane’s Intelligence

Review, sarebbe la Corea del Nord, la quale avrebbe fatto pervenire all’Iran parte della tecnologia che

oggi è impiegata per la realizzazione del missile balistico a medio raggio (MRBM) Shahab, così come,

nel 2005, 18 missili BM-25.324

L’industria bellica iraniana oggi è in grado di produrre circa 50 tipi diversi di armi leggere,

munizionamento per artiglieria tank e missili a corto e medio raggio (controcarro, superficie, antiaerei e

navali),325 così come di provvedere all’ammodernamento di vecchi carri T-54/55 e M47. La Vehicle &

Equipment Industries Division della Shahid Kolah Dooz è il maggior centro di produzione di mezzi corazzati

del paese. Questa divisione è responsabile della costruzione di MBT, blindati leggeri e veicoli corazzati

e, probabilmente anche degli obici semoventi Thunder-1 e Thunder-2. Nello stabilimento principale,

situato a sud est di Teheran, vengono realizzati i Boragh (APC) e gli Zulfiqar (MBT). Sin dalla fine degli

anni Novanta, gli ingegneri della Kolah Dooz hanno iniziato a sviluppare un nuovo pacchetto di corazza

reattiva (ERA - Explosive Reactive Armor), che può essere rapidamente fissato sui T-54/55/72, per

migliorarne la sopravvivenza in battaglia contro gli attacchi condotti con proiettili ad energia chimica

(CE) o cinetica (KE). Il pacchetto è simile a quelli di fabbricazione sovietica, montati sui loro T-80BV.

La produzione di armi è tuttavia oggi insufficiente a contrastare una minaccia che proviene da più

fronti. Se la posizione geografica consente all’Iran di sfruttare la propria centralità per accrescere il suo

peso economico e la funzione di ponte tra la direttrice est-ovest, per le merci e soprattutto per una

potenziale serie di oleodotti e gasdotti che, grazie alla cosiddetta mezzaluna sciita potrebbero un

domani portare il gas iraniano direttamente nel Mediterraneo, da un punto di vista geopolitico, quella

stessa posizione geografica non le è certo favorevole. I quasi mille chilometri che condivide con il

Pakistan e gli altrettanti con l’Afghanistan mettono a diretto contatto la Repubblica Islamica con una

serie di problematiche enormi: dal traffico di stupefacenti a quello di esseri umani; l’Afghanistan è un

failing state, nel quale le infiltrazioni degli uomini di DAESH si sono fatte sempre più preoccupanti; il

324 Nick Gillard, Daniel Salisbury, “Iran’s use of illicit procurement methods”, in Jane’s Intelligence Review, vol. 27, n. 9, September 2015.

325 “The Gulf States,” Jane’s Sentinel Security Assessment, July 7, 2015, http://www.sentinel.janes.com.

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Pakistan ha rappresentato per lungo tempo il luogo di asilo per Osama bin Laden, con il beneplacito e

la benedizione dell’Inter-Services intelligence (ISI), i Servizi di Sicurezza pakistani. Il nord-est del paese è a

diretto contatto con le regioni instabili del Kurdistan, le quali saranno senza dubbio il prossimo fronte

bellico, all’indomani della sconfitta definitiva del sedicente Stato Islamico, oggetto dell’influenza turca

da un lato, territori sul quale fondare uno Stato sovrano da parte dei Peshmerga dall’altro. Nel nord, il

Caspio con le sue contese per le acque territoriali. A sud, anche il Golfo è protagonista di contese

territoriali, soprattutto con gli Emirati Arabi Uniti per le isole dalla grande valenza strategica di Tunb e

Abu Musa.

Il massiccio riarmo cui l’area arabica del Golfo è stata soggetta negli ultimi vent’anni ha dato alle

monarchie locali un enorme vantaggio in termini non solo di difesa, attraverso sistemi d’arma

tecnologicamente avanzatissimi. La corsa agli armamenti, a causa dell’embargo che ha colpito l’Iran e,

contemporaneamente dalla volontà statunitense di assegnare agli arabi la supremazia miliare, è stata

vinta dagli Stati della penisola.

La vendita dei recenti sistemi antimissile THAAD all’Arabia Saudita, con una commessa da 2,5

miliardi di dollari o i sistemi antimissile Patriot, di cui sono equipaggiate le forze kuwaitiane, emiratine,

qatariote,326 sono un sufficiente e chiaro esempio della capacità di difesa ad un eventuale decisione di

Teheran di utilizzare i propri missili contro la sponda araba del Golfo. A questa soverchiante capacità di

difesa passiva, si uniscono le potenzialità di condurre attacchi in profondità sul territorio iraniano,

attraverso le aeronautiche dei membri del GCC.

Gli Stati del Golfo arabo possono infatti esprimere una superiorità aerea decisiva, sia in termini

quantitativi, ma soprattutto qualitativi degli aeromobili da combattimento, così come qualitativamente

elevati sono gli standard di Aircraft Control & Warning. Tale vantaggio è ulteriormente implementato

dalla protezione offerta dagli Stati Uniti che possono, in caso di conflitto, impiegare, attraverso le loro

basi nel Bahrein e nel Qatar, tecnologia stealth e capacità di precisione nel colpire gli obiettivi. La

capacità di contrasto iraniana, attraverso sistemi di contraerea o di missili antiaerei è fortemente limitata

ed inadeguata alla tecnologia ed i mezzi esprimibili dagli avversari.

Questa enorme forza di opposizione all’Iran, insita nella supremazia tecnologica dei sistemi

d’arma in possesso dai paesi della sponda sud-occidentale del Golfo è però in parte virtuale, ovvero non

pienamente esprimibile – almeno nella situazione attuale che vede una forte tensione così come sul

medio periodo, poiché non sembra che possa sfociare in un conflitto armato diretto. Diverse sono le

problematiche di natura politica del Gulf Cooperation Council che impediscono di fatto un fronte

compatto di fronte alla supposta minaccia iraniana.

326 Il Qatar ha acquistato dieci rampe di lancio che avrebbero dovuto essere consegnate entro il 2019 per un controvalore di 7,8 miliardi di dollari. La crisi diplomatica del giugno 2017 con il conseguente stato di tensione con Riyadh sembra mettere in discussione questa fornitura importante.

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V’è innanzitutto da sottolineare il fatto che il GCC non sia stato in grado di raggiungere un livello

di standardizzazione ed interoperabilità tra i suoi membri. Spesso i sistemi d’arma, che provengono da

paesi fornitori diversi ed equipaggiano gli eserciti del Golfo, sono tra loro incompatibili. Permane

l’incapacità di attuare strutture di comandi, di pianificazione delle forze effettive all’interno del

Consiglio stesso, nonostante nel 1981 fosse stato creato proprio per fronteggiare le sfide poste alla

sicurezza dalla guerra Iran-Iraq e dall’espansionismo ideologico della rivoluzione islamica; questioni che

avrebbero richiesto un comune approccio, soprattutto condiviso. Tale fallimento non è tuttavia

riconducibile ad una incapacità organizzativa, ma alla volontà politica del principale membro

dell’organizzazione, l’Arabia Saudita, reale perno attorno al quale ruota l’intera alleanza. Della

primigenie supposta unità attualmente rimane ben poco. Sebbene ancora il Consiglio sia ancora attivo,

essi prediligono alleanze bilaterali (con gli Stati Uniti), piuttosto di guardare uniti alla potenziale

minaccia iraniana.

Nonostante tali problematiche, l’equilibrio di potere nel Golfo resta pericolosamente sbilanciato

verso la costa sud-occidentale. La presenza navale statunitense e le basi in ogni emirato della penisola

araba, ad eccezione dell’Arabia Saudita327, tengono l’Iran sotto costante minaccia. Ed è qui che si

suggerisce un cambio di prospettiva.Necessario.

La maggior parte della letteratura militare internazionale che abbia come oggetto di studio la

Repubblica Islamica, identifica l’Iran quale soggetto attivo della minaccia, l’attore dal quale promana

l’instabilità regionale, se non addirittura velleità che un tempo sarebbero state definite “imperialiste”.

In molti documenti ufficiali dell’Amministrazione statunitense e dei principali think tanks

nordamericani si legge sovente della minaccia missilistica rappresentata dall’Iran, della minaccia chimica,

o chimico-batteriologica, si scrive sulla sfida agli interessi statunitensi nell’area – quasi che l’area del

Golfo Persico debba essere necessariamente posta sotto l’influenza di Washington –, si parla della

cooperazione essenziale tra gli Stati Uniti ed il Gulf Cooperation Council contro le attività regionali

dell’Iran. Eppure un documento del Dipartimento della Difesa statunitense sulla potenza militare

dell’Iran asserisce che: “there are no indications of any significant changes in Iran’s core foreign and defense

policies”.328 Si tratta di un giudizio tranchant, ma basato sul fatto che le politiche estera e di difesa iraniane

continuano ad essere “regolamentate” da una serie di risoluzioni delle Nazioni Unite, come la 2231 del

327 A fine aprile del 2003, il Segretario alla Difesa Rumsfeld annunciò il ritiro delle truppe statunitensi dal regno degli al-Sa‘ud, sulla base di quanto dichiarato qualche tempo prima dal suo vice Paul Wolfowitz. Egli aveva sottolineato che il ritiro si era reso necessario perché la presenza statunitense in Arabia Saudita “avrebbe messo in pericolo le vite degli americani”. Non era ben chiaro se si riferisse a quella dei militari nella penisola, oggetto di potenziali attacchi da parte di sedicenti gruppi terroristici operanti nel Regno o se fosse riferito anche agli statunitensi in patria, obiettivi di una eventuale ritorsione per la loro permanenza in Medio Oriente. Le forze vennero riposizionate nella base aerea da un miliardo di dollari di Al Udeid, in Qatar, costruita nel 1996. I costi furono interamente sostenuti da Doha.

328 Si vedano: Congressional Research Service, Iran’s Foreign and Defense Policies, CRS Report, Washington DC, December 21, 2016, p. 56, e Department of Defense, Unclassified Executive Summary. Annual Report on Military Power of Iran, Washington DC, January 2016.

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16 gennaio 2016, che prevede, tra le altre restrizioni, anche quella relativa all’importazione ed

esportazione di armi, al divieto di sviluppo di missili balistici, così come la Risoluzione 2216, che vieta

l’invio di armi nelle aree di conflitto come nello Yemen o in Libano (Risoluzione 1701).

Quella della modernizzazione delle forze armate iraniane è ormai una necessità. Nonostante la

pluralità di sistemi che oggi l’industria bellica nazionale è in grado di realizzare, la priorità è data alla

componente aeronautica e missilistica, i pilastri sui quali poggia la dottrina militare strategica, che è

andata modificandosi. Il tradizionale impatto potenziale della forza corazzata ha, nel corso degli anni

perso di importanza. Avendo tratto lezioni importanti dalle varie campagne militari che si sono

susseguite nella regione (invasione irakena del Kuwait – 1990 e la conseguente campagna di liberazione,

l’anno successivo, la guerra in Afghanistan dal 2001 in poi, l’invasione dell’Iraq nel 2003) contro il

Kuwait del 1991, Teheran ha correttamente concluso che anche avendo a disposizione diverse divisioni

corazzate ciò non assicurerebbe una vittoria sui nemico, ove si intenda la forza statunitense. Saddam

Hussein, forte di tre divisioni corazzate della Guardia Repubblicana,329 fu sconfitto con facilità dalle

truppe della coalizione internazionale.

Gli iraniani sono altresì coscienti che – allo stato attuale delle risoluzioni ONU – non saranno

mai in grado di raggiungere una precisione ed una cadenza di fuoco comparabili a quelle dei carri

americani, né capacità di interoperabilità e di manovrabilità, così come di non poter dotare le proprie

forze corazzate di un’adeguata copertura aerea, elemento imprescindibile per uno scenario

convenzionale. Pertanto, hanno deciso di far ricorso ad una tattica che preveda l’impiego di armi

controcarro usati in imboscate al posto di affrontare il nemico in una battaglia campale.330 Questo

approccio si inserisce nella più ampia dottrina della “difesa a mosaico”, adottata nel 2005 e basata

sull’idea di un insieme di tattiche di guerra asimmetrica, irregolari, passive, hit-and-run, più che di attrito.

In caso di invasione, gli iraniani non opporranno una resistenza massiccia ai confini, ma

lasceranno penetrare il nemico all’interno del paese, nelle aree urbane, per poi attirarle in imboscate

condotte da formazioni indipendenti o semi indipendenti con l’impiego di RPG o IED (Improvised

Explosive Devices, ordigni esplosivi improvvisati), mortai o cecchini.

L’impatto ai confini sarebbe sicuramente retto dalle forze convenzionali, il cui compito sarebbe di

ritardare l’avanzata del nemico verso l’interno, lasciando alle truppe dei Pasdaran ed alle forze

paramilitari il compito di condurre operazioni asimmetriche. Ancora una volta Teheran ha tratto una

lezione magistrale da ciò che è successo in Afghanistan e soprattutto in Iraq a partire dal 2003. L’incubo

329 Queste erano la al-Nida, schierata nel Governatorato di Amara, a Qal’at Saleh, al-Hammurabi, a Nassiriya, parte del “Corpo Meridionale”; al-Fatah al-Mubeen e la al-Medina del “Corpo Settentrionale” Allahu-Akbar ad Al-Rasshidiya. Secondo gli standard ufficiali dell’esercito irakeno, le divisioni avrebbero dovuto essere composte da 112.400 uomini. In realtà si pensa che esse fossero costituite da 80.000 uomini, 14.000 dei quali stanziati nella capitale. Le tre divisioni corazzate erano equipaggiate con circa 500 T-72, il “Leone di Babilonia”, versione modificata dall’Iraq dell’MBT sovietico, le altre avevano in dotazione dei T-62.

330 Anthony H. Cordesman and Martin Kleiber, Iran’s Military Forces and Warfighting Capabilities: The Threat in the Northern Gulf CSIS, Washington DC, 2007, p. 67.

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di ripetere un nuovo Vietnam, paventato nel 1991 ed allora evitato, si è inesorabilmente riproposto

nell’area del Golfo, dove gli Stati Uniti, ormai, nonostante già diverse volte abbiano proclamato la frase

“War is over”, stanno combattendo le guerre temporalmente più lunghe della loro poco più che

bicentenaria storia. L’opinione pubblica statunitense, come nella maggior parte delle democrazie, è

particolarmente sensibile alle proprie perdite in guerra e di questo ne sono perfettamente consapevoli

sia gli Ayatollah di Teheran che le forze dei Taliban afghani, i quali, ricordano alle truppe della NATO

che queste hanno gli “orologi”, mentre gli afghani hanno il “tempo”.

La logica conseguenza dell’adozione della dottrina della “difesa a mosaico” è stata la completa

revisione della struttura stessa delle forze armate, articolate ora su trenta comandi regionali ed uno per

la capitale.331 Questa decentralizzazione fornisce l’opportunità di avere una maggiore flessibilità e libertà

di azione: in caso di conflitto le province e le regioni sarebbero quindi in grado di condurre azioni in

piena autonomia, anche nel caso in cui Teheran fosse occupata. Oltre a ciò, anche l’esercito ha subito

una trasformazione radicale in vista della conduzione di un conflitto asimmetrico, e si struttura ora su

brigate e non più su divisioni, seguendo l’esempio tracciato dagli Stati Uniti e ora diffuso anche a livello

NATO.

La base ideologica che sostiene la dottrina è prettamente difensiva e di deterrenza, sebbene

permanga la volontà di riaffermarsi quale potenza egemone della regione, a livello politico, religioso-

dottrinario, e culturale e risale ben prima dell’elaborazione della dottrina a mosaico.

I principi di base e strategici furono infatti codificati e formalizzati nel 1992,332 quando la

drammatica presa di coscienza della carenza di tecnologia e dell’impossibilità di entrare in possesso di

tecnologia avanzata per la difesa lasciava ristretti margini di manovra. Profondo era ancora il ricordo

della lunga guerra di logoramento sula catena dei Monti Zagros o nelle paludi dello Shatt el-Arab, così

come dell’influenza che il pensiero di Khomeini, scomparso solo tre anni prima, aveva ancora sull’élite

politica e militare. Quest’ultima, soprattutto, rese la dottrina iraniana ancorata a principi religiosi, a

concetti teologici e a narrative rivoluzionario-populiste, che l’hanno resa talvolta oscura e poco

comprensibile nella sua totalità, ovvero traducibile e comparabile secondo i dettami occidentali.

Le linee guida del 1992, che sono rimaste tali anche per quella del 2005 pongono l’accento sulla

base essenzialmente difensiva, di protezione dell’indipendenza nazionale, dell’integrità territoriale, degli

interessi regionali, del modello teocratico che caratterizza la struttura politica del paese, in osservanza

alla legge coranica, e delle “nazioni oppresse”, con un malcelato riferimento alla questione palestinese.

La scelta di far ricorso ad una dottrina di deterrenza e di distensione sembrava poter realizzare

331 Michael Connell, “Iran’s Military Doctrine,” citato in Robin Wright, The Iran Primer. Power, Politics, and U.S. Policy, U.S. Institute of Peace, 2010, pp. 71-73.

332 “Iran: Complete Regulations of the Islamic Republic of Iran Armed Forces”, in Near East and South Asia Supplement, FBIS-NES-94-208-S, US Foreign Broadcast Information Service, October, 1994.

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l’obiettivo di creare un contesto strategico e politico-internazionale che potesse essere favorevole allo

sviluppo dell’Iran. L’elezione di Mohammad Khatami alla Presidenza della Repubblica ed i suoi

conseguenti tentativi di riallacciare le relazioni diplomatiche non solo con l’Occidente – sue le visite

diplomatiche a Roma, alla Santa Sede ed a Parigi, le prime di un presidente dall’avvento della

Repubblica Islamica – ma anche con l’Arabia Saudita e gli emirati satelliti, diedero maggiore impulso

alla détente. Lo stesso Khatami nel 1998 riaffermava che “né la nostra nazione, né le sue forze armate sono

espansioniste”.333 Nell’ottica dell’allora Ministro della Difesa, ‘Alī Shamkhani, l’obiettivo era di legare gli

sviluppi della dottrina militare agli sforzi diplomatici per mettere in sicurezza l’equilibrio di forze nel

Golfo. Così come accuratamente riporta Steven Ward, Shamkhani

/.../ told Iranian television in early 2000 that Iran’s defense policy, military doctrine, training and education, structural

organization, and defense industry “are dependent on our policy of détente”. Such statements were matched by action as Tehran

steadily worked to improve relations with Saudi Arabia, the smaller Arabian Peninsula states, and even Iraq through the start

of the new century.334

All’amplissimo dibattito in lingua inglese sulla natura del pericolo posto dall’Iran, al quale

corrisponde una risposta appropriata, che nel corso degli anni è andata variando dal contenimento, alle

pressioni economico-militari, sino alla minaccia di intervento armato, corrisponde una linea di dibattito

mantenuta in lingua araba nella quale si evidenzia un grande consenso sul fatto che in effetti, Teheran,

rappresenti un pericolo, ma anche che la risposta elaborata dai governanti arabi, in primis quelli della

Casa degli al-Sa‘ud, sia legittima ed incontestabile, almeno sul piano della politica interna.

Una linea alla quale pare si sta sempre più spostando l’amministrazione Trump, così come

confermato dal suo viaggio nel Vicino e Medio Oriente nel maggio del 2017. Molto più complesso

l’approccio tenuto da Israele, ambivalente, talvolta più asservito alla politica ed alla propaganda interna

che non alla realtà dei fatti. Si è già fatto cenno alla linea tenuta da Benjamin Netanyahu alle Nazioni

Unite, dove cercava di avvalorare la sua tesi che l’Iran sarebbe stato prossimo alla realizzazione di un

ordigno non convenzionale. Per il Primo ministro israeliano, l’Iran convalida la sua visione della

sindrome dell’accerchiamento e quindi che debba sussistere uno stato di guerra permanente. Israele –

secondo questa visione – ha la necessità politica di mantenere viva la minaccia alla sua sopravvivenza,

che poteva provenire, separatamente o in maniera congiunta dagli Stati arabi, dai gruppi terroristici

(HAMAS, Jihad islamico ecc.. ); da Hezbollah, il quale ha ancora nella sua carta costituente la

distruzione dello Stato ebraico, dalla Siria e dall’Iran. Soprattutto se quest’ultimo dotato di un’arma

atomica. Tuttavia, nel maggio del 2016 il Ministro della Difesa del suo gabinetto, si dimise in aperta

333 Anthony Cordesman, Iran’s Military Forces in Transition: Conventional Threats and Weapons of Mass Destruction, Praeger, 1999, p. 15.

334 Steven R. Ward, “The Continuing Evolution of Iran’s Military Doctrine”, in Middle East Journal, vol. 59, n. 4, Autumn, 2005, pp. 559-576, spec. p. 562 e nota 8.

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polemica con Netanyahu, il quale avrebbe esagerato la portata della minaccia iraniana. Dopo poco più

di un mese il Ministro dichiarava che il programma nucleare iraniano “non rappresenta(va) una minaccia

immediata essenziale per Israele”.335

Per far fronte alla minaccia posta dai paesi del Golfo, percepita dall’Iran, il Parlamento di Teheran

all’inizio del 2017 ha approvato un incremento del 5% delle spese militari. Il piano prevede anche

l’ulteriore sviluppo di missili a lungo raggio, di droni armati e delle capacità di cyber war, della quale il

regime degli Ayatollah si è mostrato sempre molto sensibile, avendo subito diversi attacchi negli ultimi

anni.336

Il bilancio della difesa iraniana sale così a 16,8 miliardi di dollari, quanto le spese militari del

Qatar, – con la differenza che quest’ultimo ha un esercito di 11.000 uomini contro i 523.000 dell’Iran –

e rimane poca cosa in confronto ai 56,7 miliardi dell’Arabia Saudita.

La risposta alla minaccia del GCC e degli Stati Uniti risiede anche nelle importazioni di armi,

ancora fortemente reggimentale dalle sanzioni.

La Repubblica Islamica si è avvalsa, sin dalla sua fondazione, nel 1979, di diversi paesi fornitori. I

principali sono stati la Repubblica Popolare cinese e l’URSS/Federazione Russa, i quali hanno

continuato a mantenere rapporti di interscambio al livello militare anche durante la fase acuta delle

sanzioni, ovvero nell’ultimo decennio. Dal 1981 il Governo di Pechino ha esportato sistemi d’arma per

un valore di quasi 4,3 miliardi di dollari, Mosca per 5,4 miliardi.

La Repubblica Popolare fu il paese che più aiutò l’Iran durante la “Guerra Imposta”. Durante gli

otto anni del conflitto Pechino fornì diversi sistemi, tra cui 300 carri armati Type-59 e 500 Type-69,

probabilmente attraverso una triangolazione con la Corea del Nord, ed oltre 500 pezzi d’artiglieria da

133 mm (Type-59-1), forniture che sono continuate anche nel recente passato, soprattutto nel settore

missilistico, con 1.100 SAM QW-1 Vanguard. Questo ausilio, in uno dei momenti più drammatici nella

storia repubblicana iraniana, ha fatto sì che i cinesi fossero – e siano tuttora considerati alleati affidabili.

Nel novembre 2016 la visita del ministro della difesa cinese a Teheran è stata l’occasione per

siglare un accordo di cooperazione in diversi settori della sicurezza, che vanno dall’addestramento alle

operazioni antiterrorismo.337 Le relazioni con il Governo di Pechino hanno registrato un netto

miglioramento nel corso degli ultimi due anni inaugurate dalle prime manovre sino-iraniane nelle acque

del Golfo Persico,338 una collaborazione che era stata preceduta dalla visita del cacciatorpediniere

iraniano Sabalan e dalla unità portaelicotteri Kharg nel porto di Zhangjiagang nel 2013. Oltre a rafforzare

335 Ben Hartman, “Ya’alon Pans Netanyahu as Fear-Monger, Announces Run in Next Elections”, Jerusalem Post, June 16, 2016.

336 Per un approfondimento si veda: Laura R. Galeotti, “The CyberWare in the Persian Gulf”, in GeoPolitica, vol. 44-45, 2012, pp. 84-88.

337 “Iran, China sign defense cooperation deal”, Tehran Times, 14 November 2016. 338 “China and Iran’s Historic Naval Exercise”, The Diplomat, http://thediplomat.com/2014/09/china-and-

irans-historic-naval-exercise/ (consultato il 23/6/2017).

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le relazioni con la Cina, queste azioni confermavano la volontà della marina militare di Teheran di

ricoprire un nuovo ruolo, non più limitato alle acque del Golfo Persico o a quelle immediatamente

prospicienti, ma di avere la capacità tecnologica e politica di coprire spazi internazionalmente più vasti.

A cavallo dell’esperienza cinese, vanno ricordate le missioni out-of-area al largo dello Sri Lanka, per

contrastare la minaccia dei pirati somali e nel Mediterraneo raggiunto attraverso il Canale di Suez339

Un passo successivo fu fatto nell’ottobre 2015 con l’intenzione di ampliare la cooperazione anche

a livello di forze di terra. Le forniture cinesi all’Iran hanno riguardato in prevalenza sistemi missilistici e

di difesa aerea e marittima. Pechino ha aiutato il regime degli Ayatollah nell’implementare le proprie

capacità A2/AD Anti-Access and Area Denial con la vendita di HY-2 nella duplice versione di difesa

costiera (CDS) ed antinave (SY-A1 - CSS-N-2; C-704; C-810) e di catamarani C-14 CAT Fast Attack.340

Nel 2015 l’Iran ha espresso la volontà di acquistare 24 Chengdu J-10 dal valore di circa un miliardo di

dollari. Teheran tuttavia sembrerebbe aver concesso alla Cina il controllo ventennale del giacimento

petrolifero di Azadegan in cambio dei velivoli.341 Le relazioni sempre più strette tra i due paesi lasciano

intendere che il flusso di armi tra Pechino e Teheran potrebbe subire una forte accelerazione nei

primissimo anni, viste le indispensabili esigenze di ammodernamento dell’esercito iraniano. Dopo

l’annuncio della commessa da 100 miliardi di dollari con gli Stati Uniti, pare remota la possibilità che il

governo di Riyadh possa porsi come mercato alternativo di Pechino in sostituzione di quello iraniano.

L’altro principale fornitore di armi dell’Iran è Mosca. Attiva sia sotto il regime dello Shāh, che

durante i primi anni della Repubblica, alla fine degli anni Novanta/primi anni Duemila ha ridotto il suo

supporto al regime, per tornare oggi ad essere un punto di riferimento per Teheran. Attraverso la

condivisione di taluni obiettivi di politica estera, tra i quali spicca ovviamente lo scenario siriano, ed il

forte impulso alla corsa agli armamenti che sta caratterizzando oggi la parte araba del Golfo hanno fatto

sì che la Federazione Russa stia cercando di supplire al gap tecnologico e numerico dell’Iran attraverso

339 “Iran warships enter Mediterranean via Suez Canal”, 18 February 2011, BBC News, http://www.bbc.com/news/world-middle-east-17083791 (consultato il 23/6/2017).

340 Per i dettagli tecnici dei sistemi d’armamento montati a bordo, si veda: https://www.usni.org/combat-fleets-2012-iranian-frigates-and-patrol-craft-0 (consultato il 23/6/2017).

341 “Oil for Jets? China Could Win Iran’s Largest Oil Field in $1Bln Arms Deal”, Sputnik, 6 August 2015, https://sputniknews.com/business/201508061025459491/ (consultato il 22/6/2017). “Experts say J-10s would benefit Iran, China Daily”, 17/8/2015, http://www.chinadaily.com.cn/china/2015-08/17/content_21617827.htm (consultato il 23/6/2017). Diverse fonti statunitensi ed israeliane riportano invece la possibile vendita di 150 velivoli, contrariamente ai 24 dichiarati ufficialmente. Si veda in particolare: “Iran orders from China 150 J-10 fighter jets that incorporate Israeli technology”, Debrka File, http://www.debka.com/article/24771/Iran-orders-from-China-150-J-10-fighter-jets-that-incorporate-Israeli-technology- (consultato il 23/6/2017).

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la fornitura di missili S-300, così come in passato a metà degli anni Duemila aveva venduto a Teheran i

sistemi TOR-M (SA-15 Gauntlet).342

Agli inizi del 2017 si sono svolti colloqui ad alto livello che hanno permesso di perfezionare un

accordo di cooperazione che è andato ampliandosi nei successivi incontri tenutisi nel trimestre seguente

e che cercherà di portare negli arsenali di Teheran sistemi sempre più avanzati, in funzione di

deterrenza nei confronti del paesi arabi.

Quale nota a margine nella storia delle importazioni di armi della Repubblica Islamica, il SIPRI

correttamente annovera tra i fornitori anche gli Stati Uniti. Nonostante l’embargo unilaterale decretato

da Washington e le reciproche accuse di rappresentare il male supremo sulla terra, in piena “Guerra

Imposta”, gli Stati Uniti nel 1986 facevano arrivare in Iran 250 missili terra-aria MIM-23B HAWK e

1.000 missili controcarro BGM-71 TOW. Facevano parte dell’Accordo Iran-Contra, che diverrà lo

scandalo Irangate (o Iran-Contras-Gate) nel novembre del 1986, dopo che un giornale libanese rivelò la

vendita.

Si trattò tuttavia di una dimostrazione esemplare di come, talvolta la Realpolitik trovi dimensioni

carsiche per realizzare i punti cardine degli interessi nazionali, anche a discapito della retorica della

politica pubblica, della diplomazia ufficiale e della propaganda.

342 “Iran Buying SA-15/Tor M-1 SAM Systems from Russia”, Defense Industry Daily, 5 December 2005, http://www.defenseindustrydaily.com/iran-buying-sa15tor-m1-sam-systems-from-russia-01572/ (consultato il 22/6/2017).

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Capitolo 9. Gli Stati Uniti e la vittoria di Rohani

Michele Brunelli

La storia si ripete e consolida le proprie tradizioni. Hassan Rohani nelle elezioni del maggio 2017

conferma la consuetudine non scritta che vive e si perpetua nella Repubblica Islamica, secondo la quale

ogni presidente, ricandidandosi per il secondo turno vinca le elezioni. Almeno da Khamene‘ī in poi. Le

eccezioni storiche riguardano i primi due presidenti laici del nuovo corso repubblicano. Abdol Hassan

Bani Sadr, che rimase in carica poco più di un anno, dal febbraio del 1979 al giugno 1980 quando fu

esautorato e costretto all’esilio in Francia e Mohammad ‘‘Alī Rajāi, già Primo Ministro sotto Bani Sadr,

fu presidente per soli sedici giorni, quando l’attentato portato a termine dai Mojahedin e-Kalq mise fine

alla sua vita, insieme a quella di Mohammad-Javad Bahonar, suo primo ministro, il 30 agosto 1981.

Al primo mandato Khamene‘ī fu eletto con una percentuale bulgara (95,5%)343. Ma era il periodo

dell’ardore rivoluzionario. Deciso a non riproporre la propria candidatura per un secondo mandato si

piegò al volere di Khomeini e venne riconfermato. Dopo di lui anche ‘Alī Akhbar Hashemi Rafsanjani,

recentemente scomparso, Mohammad Khatami e poi fu ancora una volta il turno di un laico, il

controverso (e non solo all’estero) Mahmoud Ahmadinejad. Fino ad oggi. Con Rohani, il Mullah

sorridente.

Ad essere votata è stata la continuità politica, impressa durante il quadriennio precedente, messa

sotto accusa da una campagna elettorale molto dura, durante la quale molteplici sono state le occasioni

per rimarcare di come fosse palese il mancato ricasco economico sulla popolazione che il Joint

Comprehensive Plan of Action sul nucleare (JCPOA) avrebbe dovuto comportare. Accuse portate dal

blocco conservatore, capeggiato da un altro ayatollah, Ebrahim Raeisi, che era riuscito nell’intento di

compattare l’ala dura della politica del paese. Tuttavia i prossimi quattro anni di Rohani al potere non

potranno necessariamente ricalcare pedissequamente le linee perseguite durante il suo primo mandato.

Più che continuità, queste elezioni marcano la necessità di muovere un ulteriore affondo, di imprimere

una maggiore accelerazione, soprattutto politica, al peso macroregionale che l’Iran è (e vuole essere)

chiamato a ricoprire. Perché è da questo che dipende in gran parte la capacità di produrre ricaschi

economici positivi interni. Un indice di affidabilità politica maggiore, così percepita dalla comunità

internazional-occidentale, implica per Teheran l’avere una maggiore libertà economico-finanziaria, che

deve iniziare a riverberarsi sin dalla Banca Centrale Iraniana e da qui, allargarsi a macchia d’olio nei

diversi istituti bancari e di credito nazionali, ai quali è ancora preclusa la possibilità di eseguire

transazioni di carattere finanziario, bloccando de facto, i diversi contratti multimilionari che lo stesso

Rohani ha siglato sin dal suo viaggio in Europa e, successivamente, anche con gli stessi Stati Uniti,

dando involontaria dimostrazione di appoggiare alcune delle linee politiche di Trump. L’accordo tra

343 Si veda: http://irandataportal.syr.edu/second-1981-presidential-election (consultato il 22/5/2017).

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IranAir e la Boeing del dicembre 2016, dal valore di 16,6 miliardi di dollari, al quale si aggiunge quello

dell’aprile 2017 con la Iran Aseman Airlines, consentiranno di mantenere o di creare 118.000 posti di

lavoro negli Stati Uniti, supportando accidentalmente le idee contenute nel discorso di insediamento di

Trump, tra le quali emergeva, in modo chiaro e netto, lo slogan We will bring back our jobs, stante a

promettere un miglioramento dell’occupazione negli States. Questa potrebbe essere la leva con la quale

scardinare le molte diffidenze insite nella stessa amministrazione statunitense verso la Repubblica

Islamica. Diffidenze che sono state fatte proprie dal direttore della CIA, Mike Pompeo e dal Segretario

alla Difesa James “Mad Dog” Mattis, e da quest’ultimo sintetizzate nell’ascrivere alla Repubblica

Islamica una diffusa responsabilità destabilizzante: “Everywhere you look, if there’s trouble in the region, you find

Iran”. Uno slogan che ignora ed evita accuratamente di ascrivere le colpe politiche di ciò che è successo

nel Vicino e Medio Oriente nell’ultimo decennio a chi, in questo lasso di tempo, ha contribuito al

disfacimento del vecchio ordine e la crescita di gruppi jihadisti militanti, che sono andati ad ingrossare

le fila di DAESH e di ‘al-Qaeda.

Le ombre sull’Iran – di cui proprio l’amministrazione statunitense sembra essersi fatta carico di

gettare, danneggiano l’immagine di un paese stabile e soprattutto trustable, che negli ultimi anni è

realmente diventato quella island of stability erroneamente vaticinato da Jimmy Carter nel lontano 1978.

Fu quella non un errore di profezia, ma un mero errore temporale. Oggi nell’area l’Iran è uno dei paesi

politicamente più stabili, se paragonato ai propri vicini, Arabia Saudita incluso. Ne è a dimostrazione la

recente sostituzione alla carica di principe ereditario Mohammed Bin Nayef con il più giovane

Mohammed Bin Salman, sovvertendo così l’ordine di successione e dando una impronta meno filo-

occidentale al futuro prossimo del Regno.

In fondo gli americani hanno fatto per l’Iran più di quanto Khomeini poté fare in politica estera

per il suo paese: eliminando i nemici storici di Teheran, prima il regime del Talebano ad est del paese,

poi quello ba‘thista di Saddam Hussein ad ovest, destrutturando così l’Iraq, Washington ha aperto l’area

all’ascesa ed al consolidamento degli sciiti, dal Libano meridionale sino allo Yemen, lambendo anche le

coste orientali saudite. Inoltre le tensioni con Mosca, sulla questione ucraina, che hanno portato

all’isolamento economico della Russia, hanno ravvivato una relazione non sempre lineare tra i russi e gli

iraniani, coagulatasi oggi attorno alla questione siriana.

Sebbene anche Rex Tillerson condivida l’idea di Mattis che l’Iran rimanga tra i principali

sostenitori del terrorismo, sembrerebbe essere, all’interno della compagne governativa statunitense, la

persona dotata di maggior pragmatismo e senso del reale. Rohani rappresenta un elemento di stabilità

nella politica iraniana: ha appreso molto dagli errori del suo predecessore Khatami, fatti soprattutto

durante il secondo mandato (2001-2005), quando entrò in diretto contrasto con il Rahbar. La prudenza

ed il realismo che lo contraddistinguono e che lo portano a perseguire una strategia win-win hanno fatto

sì che potesse superare anche le critiche mossegli proprio da Khamene‘ī in piena campagna elettorale,

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leggendo in esse un avvertimento sulla condotta futura che dovrà tenere.344 Tuttavia il suo tallone

d’Achille è proprio l’economia, non perché sia incompetente, come lo fu Ahmadinejad, ma perché deve

realizzare un compito assai arduo che consiste nel far emergere – o se si vuole – nel regolarizzare i

grandi flussi economici che sono oggi nelle mani delle bonyad e dei Sepah-e Pasdaran, i quali figurano sulle

black list europea e statunitense. E di questo gli Stati Uniti ne sono ben consci. Solo in questo modo

Rohani potrà soddisfare un’altra grande esigenza: quella di rimettere in moto un’economia che deve

diversificarsi, che sia svincolata dalle distorsioni economiche tipiche dei rentier states. Il presidente

iraniano ha però un vantaggio rispetto agli Stati Uniti, e si chiama Europa, la quale, almeno fino al 2006

ha continuato a mantenere rapporti economici senza la concorrenza statunitense, contribuendo in

maniera significativa ad alleggerire il peso dell’embargo unilaterale decretato da Washington nei lustri

precedenti e sulla quale oggi può contare per l’interscambio commerciale.

Le future relazioni tra Stati Uniti e Iran, o meglio tra Donald Trump ed Hassan Rohani si giocano

sulla comunanza di punti dei singoli interessi nazionali e sono essenzialmente due. Uno che si dipana

proprio sul piano economico, l’altro su quello della sicurezza e della stabilità regionali. Elementi tra loro

profondamente correlati e, nel contempo, condivisi sotto diversi aspetti. Il rafforzamento

dell’affidabilità dell’Iran quale attore regionale passa inevitabilmente dalla partita economica, le cui

redini sono ancora una volta tenute da Washington, attraverso l’embargo ancora in vigore sui flussi

finanziari. Questo sarà il primo nodo da sciogliere. La convenienza per Washington è molto concreta,

oltre alla possibilità di riaprire e quindi di accedere ad un mercato lucroso, come quello iraniano, con 77

milioni di potenziali consumatori di un paese che, secondo le stime dell’Economist Intelligence Unit,

crescerà in maniera costante del 5,6% nel prossimo quinquennio,345 potrebbe assicurarsi una fonte

alternativa energetica, ora che il fracking oil risulta non essere più così conveniente come qualche anno

fa, a causa del crollo del prezzo del petrolio.

Dal punto di vista politico c’è un Medio Oriente completamente da ricostruire e da ripensare e

sarebbe un errore escludere l’Iran, dato il suo peso specifico nell’area. La conseguenza potrebbe essere

di lasciare il futuro di parte di questa regione nelle mani dell’asse Mosca-Ankara-Teheran. Cosa che

Washington non vuole. Così come il primo riavvicinamento USA-Iran avvenne in funzione anti-ISIS,

anche oggi la minaccia rappresentata dal sedicente Stato Islamico potrebbe costituire un punto di

contatto fondamentale. La visione deve essere necessariamente di medio periodo e guardare all’area una

volta che DAESH sarà sconfitto. L’incognita dei curdi pesa come un macigno sul futuro della regione,

così come quello del futuro della Siria, ormai data irrimediabilmente persa dagli USA. Per i curdi ci si

domanda come reagiranno gli Stati Uniti, alla eventuale richiesta di ricompensa – leggasi indipendenza –

344 Si veda: Iran: l’ayatollah Khamenei s’en prend au Président Rohani, https://fr.sputniknews.com/international/201704301031165793-khamenei-critique-rohani-detente-occident-accord/ (consultato il 18/5/2017).

345 Si veda: Economist Intelligence Review, Country Report Iran, October 2016, London, 2017, p. 2.

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per aver consegnato loro Saddam Hussein e per essersi battuti tenacemente contro il sedicente

Califfato. Se Trump si schierasse in loro favore, dovrebbe dire addio alle relazioni con la Turchia, la

quale, in questo scenario, potrebbe addirittura lasciare la NATO, decidendo di far pendere

definitivamente il pendolo della sua politica estera verso l’Asia, rispolverando il vecchio mantra del neo-

ottomanesimo. Se si opponesse, perseguendo l’ipotesi di mantenere l’unitarietà dello Stato irakeno,

instillerebbe ulteriori fratture etnico-religiose nel già martoriato paese dei due fiumi e forse favorirebbe

il regime di Teheran. Una terza ipotesi sarebbe quella di portare a compimento uno stato federale, che

forse potrebbe lasciare meno scontenti tutti i principali attori. Se prevarrà la Realpolitik, oggi ancora

opaca, dell’Amministrazione Trump, allora ci si accorgerà di quanto l’Iran sia un attore di

stabilizzazione necessario.

Tuttavia due sembrano essere le incognite che pesano sulle possibili e future relazioni.

La prima è tutta interna agli Stati Uniti. Il Russiagate e le conseguenti prime minacce di richiesta di

impeachment, le forti difficoltà nei rapporti di Donald Trump con il suo stesso partito e con il Congresso,

i problemi nel tracciare una linea della politica nazionale sul quadriennio, la “superficialità e l’impulsività

con la quale Trump minaccia l’economia e lo stato di diritto”, come osservava l’Economist all’indomani

dell’intervista al Presidente, tanto da indurre il prestigioso settimanale ad asserire che la Trumponomics

non farà l’America grande,346 potrebbero indurre lo stesso presidente statunitense a cercare di

tamponare la crisi interna con una crisi esterna, ed in questo caso l’Iran potrebbe esserne la vittima

sacrificale. Nonostante gli aspetti di convenienza sopracitati ad oggi sembra che Trump sia intenzionato

a mantenere un certo grado di pressione sull’Iran, perseguendo nella politica di carrot and stick. Ed è

soprattutto sulla parte inerente il bastone che si dipana la seconda incognita, rappresentata dai due più

fedeli – sebbene un tempo tra loro contrapposti – alleati degli Stati Uniti nell’area: Israele ed Arabia

Saudita. Entrambi profondamente critici nei confronti del JCPOA, sarebbero ben lieti di vedere, ancora

una volta l’Iran relegato ai margini della comunità internazionale, magari anche attraverso un conflitto

armato, uno a garanzia della propria sicurezza nazionale, l’altro per riconsolidare la propria egemonia

sunnita nella regione. Certo è che la riconferma di un riformista alla presidenza non offre né a Trump,

né ai suoi alleati israelo-wahhabiti la giustificazione per denunciare gli accordi di Vienna e di restaurare

la parte dell’embargo abolita.

Gioverebbe forse ricordare a Trump, qualora durante sua visita a Riyadh nel maggio 2017 gli

fosse sfuggito, di come una componete importante dell’élite saudita condivida il pensiero estremista di

Ibn Taymmiya, – i cui prestiti ideologici sono la base fondante di DAESH –, anche attraverso le

rielaborazioni di al-Wahhab. Ma, ancora una volta la partita si giocherà sull’economia. Inseguendo l’idea

346 “Courting trouble. Why Trumponomics won’t make America great again”, The Economist, 13 May 2017, http://www.economist.com/news/leaders/21721904-impulsiveness-and-shallowness-americas-president-threaten-economy-well-rule (consultato il 18/5/2017).

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di una NATO araba, Trump ha siglato una commessa di 110 miliardi di dollari in armamenti, che

potrebbe arrivare ai 350 miliardi in dieci anni.

Le motivazioni, rese note dalla Casa Bianca reiterano la narrativa della pericolosità e della

minaccia poste dalla Repubblica Islamica, in una dichiarazione che arrivava nel giorno stesso in cui i

moderati iraniani riconfermavano il loro potere per il prossimo quadriennio: “This package of defense

equipment and services supports the long-term security of Saudi Arabia and the Gulf region in the face of malign Iranian

influence and Iranian related threats.”347

L’importo e la portata di tale commessa non solo riconfermano la volontà saudita di perseguire

una politica egemonica, ponendola al terzo posto a livello globale per spese militari, ma è la

concretizzazione di parte dei contenuti della stessa Trumponomics, che, oltre ad un aumento

considerevole del budget della difesa,348 si pone in continuità con l’Amministrazione Obama, che già

aveva visto la forte espansione delle esportazioni militari.349

L’Iran non potrebbe fare certamente di meglio sul piano economico, ma da un punto di vista

politico sì. Teheran deve continuare ad essere cosciente di essere un “sorvegliato speciale”, i suoi

detrattori sono in attesa di un suo eventuale passo falso. Ma gli ayatollah, sembrano aver dato più volte

prova della loro prudenza e lungimiranza politica, così come gli iraniani che hanno accordato a Rohani

una discreta maggioranza.

Una ulteriore incognita, dal peso rilevante, che ipoteca il futuro dell’Iran e di conseguenza le

relazioni con gli Stati Uniti è insita nella stessa Repubblica Islamica e riguarda direttamente la carica più

alta del paese, ovvero la sua successione. Molti quotidiani nel 2005, nel 2007 e ancora nel 2015 avevano

dato per morto Khamene‘ī. Notizie apparse su taluni blog e rilanciate anche da grandi testate

internazionali come il Jeuralem Post e la Pravda avevano fatto il giro del mondo. L’impatto allora fu

minimo e le smentire arrivarono tempestivamente. Tuttavia la questione rimane aperta: classe 1939, la

Guida Suprema secondo alcune voci soffrirebbe di un cancro alla prostata. Indipendentemente dalla

veridicità o meno di quello che più volte è stato tacciato come pettegolezzo – sebbene nel 2014 abbia

effettivamente subito un’operazione, visto il potere che la Costituzione gli attribuisce,350 la scelta della

nuova Guida potrebbe avere conseguenze epocali. Se la scelta ricadesse su un conservatore, identificato

dallo stesso Khamene‘ī prima della sua dipartita, così come fece Khomeini, prevarrebbe la linea del

347 President Trump and King Salman Sign Arms Deal, May 20, 2017 at 1:30 PM ET by The White House, https://www.whitehouse.gov/blog/2017/05/20/president-trump-and-king-salman-sign-arms-deal (consultato il 20/5/2017).

348 Nel suo primo discorso al Congresso, nel febbraio 2017 Trump dichiarava che: “I am sending the Congress a budget that rebuilds the military, eliminates the Defense sequester, and calls for one of the largest increases in national defense spending in American history. Si veda: The White House, Office of the Press Secretary Remarks by President Trump in Joint Address to Congress, 28 February, 2017, https://www.whitehouse.gov/the-press-office/2017/02/28/remarks-president-trump-joint-address-congress (consultato il 20/5/2017).

349 “U.S. arms export boom under Obama seen continuing with Trump”, Reuters, 9 November 2016, http://www.reuters.com/article/us-usa-election-arms-idUSKBN1343I0 (consultato il 20/5/2017).

350 Per i poteri attribuiti alla Guida si rimanda alla Costituzione iraniana, capitolo 8, artt. 107-112.

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mantenimento dello status quo. Tuttavia molto è cambiato dal 1989, ovvero da quando egli fu eletto, sia

in termini di società, sia a livello di clero militante. I vecchi leoni della rivoluzione non ci sono più351 o

sono oggi ottuagenari, come Mohammad Yazdi (1931) o Mohammad Taqi Mesbah-Yazdi, (classe

1934). Tra gli eleggibili più giovani, sulla base anche delle qualifiche costituzionali potrebbero essere il

sessantanovenne Grand Ayatollah Mahmoud Hashemi Shahroudi o il giovane secondogenito

dell’attuale Guida, Mojtaba Khamene‘ī, allineati sulla corrente degli hardliners. La successione potrebbe

però essere un’occasione di svolta epocale qualora alla suprema carica acceda uno dei membri della

schiera moderata, anche se ciò appare oggi assai improbabile, visto il potere d’influenza ed economico

detenuto dai Guardiani della Rivoluzione. Sarà sicuramente una transizione delicata, sia sul piano

interno, che su quello regionale. In fondo, già in passato i vicini dell’Iran sfruttarono – più o meno

sapientemente – le vulnerabilità del paese durante il cambio di regime.

Sul piano interno, la popolazione delle grandi città ha vissuto negli ultimi anni una profonda

secolarizzazione, diversamente dall’immagine stereotipata che la stampa occidentale da del paese,

ricalcando una sorta di Iranofobia diffusa. Ciò non è solo dimostrato dal basso tasso di partecipazione

alla preghiera del venerdì, l’al-ṣalāt al-jum‘ah, la preghiera congregazionale, ma anche dai costumi. Molti

erano i video sul web che ritraevano i sostenitori del vittorioso Rohani all’indomani della vittoria il 20

maggio 2017 ballare nelle vie e nelle piazze di Teheran, di Isfahan e della santa Mashhad, roccaforte

dello sfidante Raeisi, sfidando il divieto di simili manifestazioni. Non è un elemento nuovo. Già la

campagna elettorale che vide opposti Rafsanjani ad Ahmadinejad nel 2005 aveva dei tratti

“americaneggianti”, con ragazzi e ragazze nelle vie della città a distribuire spille e bandiere a sostegno

dell’ex presidente. Date le potenziali difficoltà nel convergere su un unico nome, secondo alcune

indiscrezioni raccolte nelle ultime esperienze di viaggio in Iran, a colloquio con alcuni politologi, una

delle ipotesi che si fa avanti è quella di costituire un duumvirato o un triumvirato, ovvero una guida

collegiale del paese, elemento altrettanto inedito, così come inedita era l’innovazione politologica del

velāyat-e faqīh (� .elaborata da Khomeini nel lontano 1963 e portata a compimento solo nel 1979 (و5ت �4

Tornando all’oggi, da parte statunitense prevarrà quindi un approccio ambivalente: dal punto di

vista mediatico proseguiranno i continui richiami sull’inaffidabilità degli Ayatollah, dal punto di vista più

pragmatico, avanti con i punti degli accordi di Vienna, il cui rispetto continuerà ad essere certificato ed

avallato dal Segretario di Stato. Accanto alla strategia della carrot and stick, si dipanerà però anche quella

messa in atto dallo Shāh Mohammad Reza Pahlavi già in passato nei confronti dei Bazaris: let sleeping dogs

lie. Ed un siffatto approccio risponderebbe alle aspettative di entrambe. In attesa di ulteriori prove di

affidabilità da parte degli iraniani.

In fondo i pragmatici ayatollah hanno molto più tempo di Donald Trump.

351 Tra i papabili c’erano Mohammad Reza Mahdavi Kani, scomparso nel 2014 e Hashemi Rafsanjani, morto nel 2017.

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BIBLIOGRAFIA

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Genova, 2009

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6, n. 4, 2000, pp. 791-795

Russell, R. L., “A Saudi nuclear option?”, in Survival, vol. 43, n. 2, Summer 2001, pp. 69-79

Sidel, V. W., “Can Sanctions Be Sanctioned?.” in American Journal of Public Health vol. 89, n. 10, 1999,

pp. 1497–1498

Torbat, A. E., “Impacts of the US Trade and Financial Sanctions on Iran, in The World Economy, vol.

28, n. 3, 2005, pp. 407-434

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173

Ward, S. R. “The Continuing Evolution of Iran’s Military Doctrine”, in Middle East Journal, vol. 59, n. 4,

Autumn, 2005, pp. 559-576

World Bank, Working for a World Free of Poverty, “Overview in Iran”, 1 March 2015

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NOTA SUL Ce.Mi.S.S. e NOTA SUGLI AUTORI

Ce.Mi.S.S.352

Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) è l'Organismo che gestisce, nell'ambito e per conto del

Ministero della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico.

Costituito nel 1987 con Decreto del Ministro della Difesa, il Ce.Mi.S.S. svolge la propria opera

valendosi si esperti civili e militari, italiani ed esteri, in piena libertà di espressione di pensiero.

Quanto contenuto negli studi pubblicati riflette quindi esclusivamente l'opinione dei Ricercatori e non

quella del Ministero della Difesa.

BIOGRAFIA AUTORI

Michele Brunelli

Docente di Storia ed Istituzioni delle società musulmane ed asiatiche nell’ambito del Corso di Laurea Magistrale

in “Diritti dell’uomo ed etica della cooperazione internazionale”, dell’Università degli Studi di Bergamo

e di Storia delle civiltà e delle culture politiche presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia. Si

occupa di tematiche inerenti la storia, le relazioni internazionali e la geopolitica del Vicino e Medio

Oriente, Golfo Persico e Caucaso, con particolare riferimento alla sicurezza, alla stabilità regionale, alla

criminalità transnazionale e terrorismo, ed ai conseguenti impatti sulla sicurezza europea e nazionale.

Collabora con varie riviste internazionali, tra le quali Jane’s Intelligence Review e Storia Urbana. E’

presidente del Centro Studi sul Caspio, per il quale segue le problematiche di carattere economico,

politico e geostrategico della regione.

Laura Rachele Galeotti

Laura Rachele Galeotti è Cultore di Storia e Istituzioni delle Società musulmane e asiatiche presso il

Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bergamo e Cultore di Storia e Civiltà delle

Culture Politiche presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia. Da alcuni anni collabora con

il Centro di ricerca sulla Cooperazione Internazionale e il Centro sulle dinamiche economiche, sociali e

della cooperazione di Bergamo, nell’ambito del quale ha partecipato a una serie di progetti di ricerca.

352 http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pagine/default.aspx

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Fabio Indeo

Fabio Indeo, dottore di ricerca in geopolitica con una tesi sulla competizione geopolitica in Asia

Centrale e il ruolo delle potenze esterne. Attualmente è ricercatore (non residente) presso il Center for

Energy Governance and Security (EGS Korea) ed analista "Central Asian Security" alla NATO Defense College

Foundation.

Annalisa Cristini

Professore ordinario di Politica economica, ha ottenuto il Master of Philosophy e il Dottorato in

Economia all'Università di Oxford. Si occupa di temi legati al mercato del lavoro, alla politica

economica dell'eurozona, al legame tra ricchezza, reddito e mercato immobiliare. È Presidente del

Corso di Laurea Magistrale Economics and Global Markets dell’Università degli Studi di Bergamo, dove

dirige anche il Centro di Ateneo sulle dinamiche economiche, sociali e della cooperazione (CESC).

Collabora con l'Università di Oxford e pubblica su riviste internazionali.

Federica Origo

Professore associato di Social Institutions and Labour Market e di Economia del Lavoro nel corso di

Laurea di Scienze aziendali, economiche e metodi quantitativi, presso l’Università degli Studi di

Bergamo e docente di Lavoro ed impresa nella società della conoscenza presso l’Università Cattolica del

Sacro Cuore di Milano.

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NOTA SUL Ce.Mi.S.S. e NOTA SUGLI AUTORI

Ce.Mi.S.S.353

Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) è l'Organismo che gestisce, nell'ambito e per conto del Ministero

della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico.

Costituito nel 1987 con Decreto del Ministro della Difesa, il Ce.Mi.S.S. svolge la propria opera valendosi si

esperti civili e militari, italiani ed esteri, in piena libertà di espressione di pensiero.

Quanto contenuto negli studi pubblicati riflette quindi esclusivamente l'opinione dei Ricercatori e non quella del

Ministero della Difesa.

353 http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pagine/default.aspx