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IL VALORE DELLA MEMORIA, LA FORZA DELLA NARRAZIONE

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a cura dell'Associazione Villaggio Insieme Collana "Abitare il Villaggio" - Vicenza, 2010

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Il valore della memoriaLa forza della narrazione

A cura di Villaggio insieme

C o l l a n aABITARE IL VILLAGGIO

Vicenza 2010

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Col patrocinio del Comune di Vicenza

Il valore della memoriaLa forza della narrazione

a cura dell’associazione Villaggio insieme

gruppo redazionaleRoberto BrusuttiLuisella Paiuscoin collaborazione conSteve Bisson

impaginazioneSteve Bisson

si ringraziano:Luciana BrunelloLuisa CeronRenata Fortunato BrunelloFranco GhirardelloErminio MarchettiRoberto MingardiCarlo MorettoGisella Pilastro SilvestriAnna Lucia QuadriAntonio RanzolinGirolamo SacchieroGiorgio SalaAngela e Giuseppe Tombolato

Associazione Villaggio insiemePresidente Roberto Brusuttistr. Biron di Sotto, 109 - Vicenzatel. 0444.564279e-mail [email protected]

Copyright © 2010 - La SerenissimaTutti i diritti riservatiPrima edizione: aprile 2010ISBN 8875260753

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CollanaABITARE IL VILLAGGIO

n° 5

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Indice

Presentazionedi Giuseppe Pupillo 7

IL VALORE DELLA MEMORIA 21

Una storia possibiledi Luisella Paiusco 23

Profili per una biografia collettivadi Lucia Petroni e altri 67

L’INA-Casa: storia e antologiaa cura della Redazione 77

Interventi di edilizia popolare nel comune di Vicenzadi Eugenio Polato 103

LA FORZA DELLA NARRAZIONE 107

Abitare i raccontidi Federico Batini 109

Il Villaggio del Sole: identità e resistenza di una piccola patriadi Paolo Tagini 117

Memoria e storia al Villaggiodi Giacomo Lanaro 133

Sfondo bibliograficoa cura della Redazione 139

Nota per il lettoredi Roberto Brusutti 143

Indice dei luoghi 153

Indice dei nomi 157

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Presentazione

Nell’Introduzione al libro Abitare il Villaggio. Memoria e storia – la cui pubblicazione, curata dall’Associazione Villaggio insieme, precede di poco più di un anno questo nuovo volume – i curatori scrivono che esso è «frutto di una intuizione iniziale», maturata nel 2005, di raccontare la storia del quartiere attraverso le storie dei suoi abitanti. Sebbene quel libro non abbia intendi-menti storiografici, il fine, valido anche per un microcosmo qua-le un quartiere, è lo stesso indicato da un grande storico, Jacques Le Goff: tramandare la storia del passato perché serva, così è doveroso sperare, nel futuro.

Abitare il Villaggio (come altre pubblicazioni che lo han-no preceduto) ha ripercorso, attraverso le memorie di persone comuni, una preziosa esperienza collettiva che è stata assai più che partecipazione alla vita del quartiere e convivenza civile, ma tenace orditura di obbiettivi condivisibili e di legami così inten-si da configurare l’insieme degli abitanti del Villaggio del Sole come comunità, qualcosa, oggi, di assolutamente raro negli inse-diamenti residenziali di qualunque città.

Nel Villaggio del Sole, accanto alla comunità parrocchiale, fatto ben diffuso nel nostro Paese in forme più o meno parteci-pate, si è formata una consapevole comunità civile il cui spirito dura, superando via via diffidenze, frizioni, ostacoli, sostanzial-mente da quasi mezzo secolo, senza essere tuttavia immune da qualche possibile rischio di sfilacciamento per molteplici cause tra le quali il fatto che gli abitanti originari sono ormai una mino-ranza mentre aumenta il numero dei nuovi residenti tra cui molti provenienti da paesi dell’Est Europa o di altri continenti.

La specificità del Villaggio, quale luogo caratterizzato da spirito di accoglienza, da impegno sociale, da intense relazioni sociali, potrebbe appannarsi e declinare verso ciò che da tempo configura la stragrande maggioranza dei quartieri cittadini, spe-cie di periferia: un insieme di condomini separati, di famiglie e di singoli abitanti che reciprocamente si ignorano e reciprocamente

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si presentano più come fuggevoli ombre che come soggetti di amicizia o comunque di non effimere relazioni.

Merito cospicuo dell’Associazione Villaggio insieme è, oggi come in altre occasioni del passato, la capacità di prevedere i problemi che si profilano all’orizzonte, di riflettere su di essi per mantenere al quartiere il carattere di comunità aperta ed acco-gliente coinvolgendo i nuovi residenti nell’amore per il Villaggio, nella condivisione non solo del ragionare e agire insieme, ma del conoscere la sua stessa storia – che ancorché breve è umanamen-te, culturalmente e socialmente assai significativa; conoscenza alla quale ciascuno può dare il proprio apporto. L’Associazione intende cioè proseguire sul cammino avviato fin dalle origini del quartiere – in particolare dal primo parroco don Sacchiero, ma non solo – di mettere in relazione tra loro gli abitanti, di stempe-rare le incomprensioni o le possibili tensioni, di indurre famiglie e singoli a partecipare alla vita sociale attraverso i vari organismi ed istituzioni presenti nel Villaggio.

Perché, allora, se il cammino è stato sagomato fin dai pri-missimi anni Sessanta Abitare il Villaggio ci parla di una nuova, necessaria, intuizione maturata nel 2005?

E qual è questa intuizione se non il porre sullo stesso piano di dignità, fatto tutt’altro che scontato come si può accertare in ogni dove, i vecchi abitanti, i nuovi abitanti e gli abitanti ultimi arrivati, in maggioranza immigrati da paesi di mezzo mondo? E di conse-guenza avviare una riflessione penetrante su come tale pluralità di etnie e di culture possa, anziché appannare l’identità del quartiere, arricchirla, mantenendo come statuto civile fondamentale la pari dignità di tutti gli abitanti e l’impegno comunitario.

Tra i tanti strumenti usati a questo fine, l’Associazione ha dato negli ultimi anni particolare rilievo alla carta stampata, di modo che ciascuno – vecchio, nuovo o nuovissimo abitante – possa raccontare di se stesso sia gli anni, spesso travagliati e ir-riconoscenti della dignità, che precedono il suo ingresso al Vil-laggio sia le aspettative e le speranze che hanno accompagnato l’acquisizione di residenza nel Villaggio. Di modo, ancora, che ciascuno abbia la possibilità di verificare che i sentimenti umani sono sostanzialmente gli stessi, nonostante le differenze etniche e culturali. Di modo che i nuovi arrivati, italiani o di altra na-zionalità, possano constatare che intessere relazioni amichevoli,

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esprimere solidarietà reciproca, condividere la cura degli spazi comuni e del verde del quartiere è stato, e sarà, il modo migliore per stemperare l’insorgenza sempre possibile di tensioni e per rafforzare la loro stessa dignità individuale.

In realtà la carta stampata è, già da ben prima del 2005, uno strumento a cui, con diverse finalità, si è fatto ricorso nel Villag-gio del Sole. E vale la pena, per comprendere meglio questo nuo-vo volume Il valore della memoria. La forza della narrazione, tracciarne, con breve sintesi, l’itinerario.

Tralascio l’esperienza, durata dal 1967 al 1970, di «Vita di Quartiere», periodico del Comitato di quartiere del Villaggio, uno dei primi in Italia, non solo perché ormai distante negli anni, ma in quanto rappresenta un periodo in cui sono stati prevalenti sia la fruttuosa ricerca di dialogo e collaborazione con il Comune sia il consolidamento delle numerose associazioni religiose, sportive, escursionistiche, ricreative, assistenziali ecc. presenti nel quartiere, per soffermarmi sulla produzione libraria che ha inizio nel 1989 con il volume, Scritti e immagini, curato da Anna Brusutti ed Anto-nio Ranzolin, pubblicato ventuno anni fa in occasione del venticin-quesimo anniversario della Biblioteca di quartiere la quale, nella vita del Villaggio, ha avuto ed ha notevole importanza.

Si tratta di una raccolta, corredata da un significativo apparato iconografico, di studi che spaziano dall’indagine geologica ed am-bientale a quella archeologica dell’ambito geografico del quartiere e dei suoi immediati dintorni; dalla ricognizione storica e artistica delle più significative emergenze architettoniche alla ricostruzione sia del progetto, nell’ambito del Piano Fanfani del 1949, dell’inse-diamento di un nuovo quartiere nella zona nord di Vicenza, il Vil-laggio del Sole appunto, sia dei suoi primi anni di vita, sia del ruolo propulsivo delle sue istituzioni e servizi (la chiesa, la biblioteca, la scuola, il Centro sociale ecc.). Ed a ragione, monsignor Reato, nella Presentazione del volume ha scritto che il Villaggio è una autentica comunità in cammino che «per l’opera intelligente delle istituzioni religiose e civili in esso operanti, sembra avere acquisito una propria fisionomia, un’identità ben definita e rappresenta qual-cosa di più e di meglio di una semplice somma anagrafica».

Anche quel primo libro dà sostanza ad una, se così voglia-mo chiamarla, intuizione, felice e importante, ovvero che ogni

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spazio geografico, per quanto limitato, è un archivio storico. La sua finalità non è l’erudizione, ma dare consapevolezza a quanti sono venuti a risiedere nel Villaggio, costruito alla fine degli anni Cinquanta in una zona che precedentemente era campagna, di non abitare un’area geografica anonima, priva di storia.

L’area ha, appunto, una storia geologica, ambientale, ar-cheologica. E non solo. Storia ha il suo paesaggio rurale, che sebbene in parte azzerato laddove è sorto il quartiere e sebbene simile a tanti altri, sollecita alla conoscenza della cultura mate-riale contadina e artigianale del passato, dagli attrezzi adoperati alle tecniche di coltivazione e fabbricazione. Storia hanno tanto le ville padronali, alcune di reale pregio architettonico, quan-to le modeste cascine sparse nella piana circostante e nei colli adiacenti, ed entrambe conservano memoria di due stili di vita, profondamente diversi, vigenti sino ai primi decenni del secolo scorso. La stessa vita quotidiana del passato ha una storia che merita di essere conosciuta e Scritti e Immagini ha inteso offri-re ai nuovi abitanti della zona un primo lascito di conoscenze e due importanti suggestioni che provo a formulare in maniera stringatissima. La prima è che occorre vivere pienamente il pro-prio tempo, ma anche saperlo travalicare, volgendo lo sguardo sia al futuro che al passato. La seconda è che la formazione di una memoria collettiva è una delle componenti essenziali nella trasmissione di cultura ad ogni livello ed in ogni campo. E lo ha fatto a tempo debito, quando il Villaggio s’era ormai consolidato, e l’interesse dei suoi abitanti non era più rinserrato nei problemi che sono primari in una fase di insediamento, ma poteva volgere altrove attenzione o curiosità, anche verso un passato del quale non sembrano, ad uno sguardo superficiale, esserci tracce o del quale appare naturale disinteressarsi. Pur con i suoi voluti limiti il libro ha rappresentato un’operazione culturale quanto mai oppor-tuna. è facile accorgersene ove si abbia in mente come, invece, l’aver presentato tanti nuovi quartieri periferici o semiperiferici, costruiti per intervento pubblico o privato, come edificati in ter-ritori vergini, privi di qualsivoglia storia, abbia favorito in chi vi andava ad abitare l’incuria per gli spazi comuni, per il verde, per il decoro urbanistico. Non è di certo questa la causa maggiore del degrado di molti di quei quartieri, ma un contributo ad esso di certo l’ha apportato.

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Tredici anni dopo viene edito Inno d’arte e parola, curato da Elisabetta e Roberto Brusutti, anche esso di più autori, dedicato alla chiesa di San Carlo, centro del Villaggio, libro che affronta, come scrive il professor Giuseppe Barbieri nella Prefazione «temi numerosi e complessi pur senza vantare la pretesa di una silloge esaustiva» che mettono in rilievo la singolare genialità e la felice sintassi compositiva del manufatto del quale, peraltro, la prima co-munità dei fedeli e il loro parroco Sacchiero furono «committenti insolitamente colti ed esigenti» ben fermi nel proposito di fare del-la propria chiesa uno vero spazio di comunione eucaristica.

Prefatore e curatori del libro convergono nell’indicarne la finalità. Per Barbieri sta nel «desiderio, sfaccettato e meritorio, di non smarrire la memoria di persone, situazioni e cose»; per Elisabetta e Roberto Brusutti nel «far memoria di quelle espe-rienze [il ruolo attivo della comunità parrocchiale] perché non siano disperse e, se possibile, siano trasformate in un patrimonio di eredità, quasi un lascito di sensibilità per l’arte e la parola».

Far comprendere il valore architettonico della Chiesa di San Carlo, la sua «magia strutturale, che pur rifacendosi alla “spirale” nota sin dall’antichità, non era mai stata adoperata fino all’epoca nostra per la costruzione di un fabbricato» e nel contempo sot-tolineare come tale struttura compositiva, nonché la sua colloca-zione, siano state volute dalla comunità dei fedeli per inverare il nuovo concetto teologico, particolarmente propugnato dal primo parroco, di «comunione tra i fedeli e con la comunità civile», sono ulteriori passi in avanti nel cammino della consapevolezza collettiva.

A considerarli insieme, i due libri sono una narrazione dello spazio, sia di quello entro cui si trova il Villaggio e di ciò che di più significativo esso ha contenuto nel passato e negli anni in cui il quartiere ha preso vita, sia degli spazi collettivi, religiosi o ci-vili, all’interno del quartiere stesso. Ma recano sottotraccia, lo ri-peto, altre due suggestioni (o intuizioni): vivere il tempo presente inserendo in esso anche i tempi del futuro e del passato; formare una memoria collettiva per radicare ed irrobustire valori e modi di vivere il Villaggio, radicare cioè la sua identità.

«Vivere è anche ricordare. Fatta di ricordi la vita individua-le. Connotata dal denominatore comune delle comuni memorie

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un’identità collettiva; artefice addirittura della consapevolezza urbana la memoria». Queste parole, scritte una ventina d’anni fa dallo storico veneziano Gino Benzoni, possono servire, a mio avviso, per chiarire l’“intuizione” da cui ha preso le mosse, dal 2006, il notevole e costante lavoro editoriale di Villaggio insieme che in gran parte utilizza le memorie degli abitanti per traman-dare l’identità del quartiere e la consapevolezza urbana di chi vi risiede oggi o vi risiederà domani.

La raccolta di storie individuali e familiari principia nel 2005 e vengono pubblicate dapprima in tre fascicoli, uno per anno a partire dal 2006, tutti intitolati Abitare il Villaggio. Storie raccon-tate e successivamente nel corposo, e maggiormente composito, volume Abitare il Villaggio. Memoria e storia edito nel 2009.

Una settantina le storie raccontate nei tre fascicoli (una ven-tina sono di immigrati stranieri), ognuno preceduto da un Rac-conto antologico che ne offre una sintesi ragionata, quasi una guida alla lettura.

Sono testimonianze umane. Non possono essere considera-te fonti storiche, ma, ad esempio, se si leggono quelle di coloro che hanno abitato il Villaggio fin dal suo sorgere, aggiungono insospettati, coloriti frammenti alla conoscenza di ciò che è stato il Novecento a Vicenza e non solo a Vicenza. Alleggeriscono le ombre che si addensano sulle microstorie del passato, non solo assai poco indagate dagli storici di professione, ma che gli stessi narratori spesso pensano non avere altra rilevanza all’infuori del vissuto personale.

Se Matilde Gianesin – ricordando l’insolita, ma ben medita-ta, composizione urbanistica del quartiere insediato dove un tem-po c’erano solo campi e qualche scarsa cascina – dice che essa ha sconfitto l’anonimato del luogo, o meglio il rischio che venisse considerato dai suoi residenti anonimo e del tutto privo di storia, altre “storie raccontate” danno di fatto maggiore completezza ai contributi apparsi in Scritti e Immagini inserendo ricordi del vec-chio paesaggio umano (i “sabionari” sulle rive del Bacchiglione, le “lavandare” su quelle delle Seriola, il passaggio dei venditori ambulanti, le scorribande dei ragazzi ecc.) nei luoghi che il libro descrive nelle loro vicende e peculiarità storico-climatiche, negli aspetti faunistici e vegetazionali o architettonici. Ricordi di ciò che avveniva nelle ville sparse e nelle dimore di pregio, nei caso-

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lari abitati da contadini in genere affittuari, nei laboratori artigia-ni, nei “magazzini” e nelle osterie frequentati nei giorni di festa da quanti abitavano nei quartieri centrali di Vicenza. Frammenti di ordinaria vita quotidiana che hanno la medesima forza sug-gestiva e capacità di seduzione delle cartoline o delle fotografie della prima metà del Novecento quando ci mostrano come erano luoghi della nostra città oggi profondamente trasformati, talora in meglio talaltra no. Piccoli squarci laddove le nebbie del passa-to tendono, col trascorrere degli anni, ad infittirsi.

Gli orizzonti si allargano con le storie degli immigrati: il Villaggio rappresenta per loro un agognato punto di approdo su cui costruire, soprattutto per i figli, una nuova esistenza profon-damente differente da ciò che hanno lasciato alle spalle. E va notato che le loro attese e speranze, insediatisi nel quartiere, ri-sultano sostanzialmente identiche a quelle dei primi abitanti del quartiere.

Le interviste sono condotte, trattate e finalizzate dai curatori dei tre fascicoli (e del successivo libro Abitare il Villaggio. Me-moria e storia) in modo che le singole storie, qualunque ne sia il punto di partenza, convergano in ciò che ha rappresentato e rappre-senta non tanto l’abitare nel Villaggio quanto l’abitare il Villaggio. Hanno quindi schemi, metodologie, scopi del tutto differenti da quelli degli storici che, nel raccogliere fonti orali, conducono le in-terviste di un particolare gruppo sociale o di singoli individui ver-so l’inserimento in una prospettiva che dia conto dei riflessi avuti nella loro vita da quegli avvenimenti economici, politici, sociali che appartengono di diritto alla “grande storia”. La ricostruzione di una identità locale sembra sovente cosa poco significativa ove non abbia elementi che la inseriscano in contesti più ampi.

Nel caso di un territorio delimitato, qual è il Villaggio del Sole, fonti archivistiche e documentarie e fonti orali sono suffi-cienti ad una ricerca volta a ricostruirne, nei suoi vari aspetti, la storia. Lo stesso sottotitolo del libro Abitare il Villaggio, che è Me-moria e storia, può essere dato all’insieme del lavoro editoriale già prodotto dall’Associazione Villaggio Insieme ed a quello del prossimo futuro. E sebbene i collegamenti con i cosiddetti “conte-sti più ampi”, nei lavori editi sino al 2009, non siano volutamente ricercati, essi comunque fanno capolino all’orizzonte, invitano ad allargare gli spazi di ricerca ed uno di essi è difatti trattato in que-

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sto nuovo libro del 2010. Lo vedremo più avanti; per il momento si può notare come riverberi, propaggini della “storia più grande” siano ben presenti nella microstoria del Villaggio.

Lo dico attraverso un paio di esempi.è comprensibile che i primi residenti del Villaggio, nei loro

racconti, non diano conto del fatto che la loro nuova situazio-ne abitativa sia stata determinata da un avvenimento di grande rilevanza nazionale come il Piano Fanfani del ’49, ma quando narrano le emozioni, i dubbi e le speranze, lo spaesamento o l’im-mediato acclimatamento, le diffidenze e le aspettative provate al-lorché si sono trasferiti da altre zone della città, da altri paesi della provincia o anche da regioni lontane nel Villaggio, le loro parole riverberano uno dei più grandi e complessi processi che ha riguardato l’Italia del dopoguerra, innestando nella mobilità di milioni di persone – da un territorio ad un altro, da una condizio-ne sociale ad un’altra – la realizzabile speranza di un futuro mi-gliore rispetto alla precedente condizione di vita. Che nel Villag-gio si concretizzava in una casa civile, in un impianto urbanistico modernamente attrezzato, nell’acquisizione di dignità.

C’è di più, perché quelle acquisizioni potevano indurre quanti avevano avuto in assegnazione la casa, a sentirsene soddisfatti ed a non preoccuparsi del futuro del quartiere, delegandone il com-pito interamente alle istituzioni pubbliche. Ed invece, fin dall’ini-zio, almeno la parte più avvertita degli abitanti ha voluto che il quartiere corrispondesse in tutti gli aspetti a ciò che avevano indi-cato i suoi progettisti, non solo per gli spazi interni ed esterni del-le abitazioni condominiali, ma egualmente, e forse ancor più, per quanto riguardava l’ampio inserimento di spazi verdi e la com-piuta presenza di strutture e servizi sociali. Sono stati interpreti attivi e intransigenti dello spirito riformista del Piano, non solo nella fase iniziale ma durante tutta la vita del quartiere. Lo hanno diffuso all’insieme degli abitanti (e tra questi ve ne erano anche di recalcitranti, di indifferenti, di abituati a pensare “faccio quel che voglio”) e tradotto in inedite forme di partecipazione collet-tiva, di autogestione, di costruzione di regole comportamentali e di codici comunicativi e relazionali. Sono stati tra i primi a dare vita alla istituzione di un Comitato di quartiere, fenomeno diffu-sosi in Italia solo nei primi Settanta dopo l’esplosione delle lotte studentesche ed operaie del cosiddetto “sessantotto”.

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Si può fare un altro, e diverso, esempio. Molti degli intervista-ti – tra quelli insediatisi per primi – ricordano con ammirazione ed affetto il primo parroco, don Sacchiero, definito con termini quali “disponibile verso tutti”, “maestro dello stare insieme”, “uomo ca-pace di unire e tenere insieme la comunità”. Ne ricordano soprat-tutto il dinamismo, il fervore nelle opere sociali e nel creare gruppi associazionistici, la capacità di stimolare amicizie e solidarietà tra gli abitanti. Raccontano quanto risulta alla loro diretta esperienza. è invece di pochi la capacità di penetrare un altro, fondamenta-le, aspetto, della figura e dell’opera del Sacchiero, che, innovan-do rispetto al mondo cattolico vicentino sino allora tenacemente arroccato su posizioni tradizionaliste, introdusse inaspettati venti preconciliari di rinnovamento teologico e pastorale nel Villaggio che così si trovò a vivere con naturalezza tutte le innovazioni intro-dotte da quell’evento epocale che fu il Concilio Vaticano II. Tutto era stato predisposto perché così fosse. A cominciare dall’inno-vativo progetto di edificazione della Chiesa, dirompente rispetto alla tradizione, con l’ampio perimetro circolare, con l’inedito sot-tostare rispetto all’altezza delle abitazioni, con la mancanza della tradizionale facciata, con la copertura a tenda che, richiamandosi a testi biblici, si configurava “come segno e simbolo di un popolo in cammino”, con la novità assoluta dell’altare rivolto verso i fedeli per consentire una partecipazione più intensa, consapevole e cora-le dei fedeli alle celebrazioni liturgiche. Una chiesa che rinunciava ai simboli del trionfo, del potere, della supremazia sacerdotale per proporsi come sede di comunione tra i fedeli e con gli abitanti del quartiere; che dichiarava come uno dei suoi compiti primari l’ac-coglienza e infondeva questo carattere distintivo al Villaggio.

Su questi spiriti che hanno animato fin da principio il Villag-gio del Sole occorre brevemente soffermarsi. Indagini, condotte con metodologie storiche, sociologiche o anche antropologiche, su quartieri cittadini edificati nel dopoguerra grazie all’interven-to pubblico, ce ne sono ormai diverse. Quelle più recenti met-tono in rilievo, dandone convincenti spiegazioni, l’affievolirsi dell’iniziale spirito di solidarietà o di comprensione reciproca tra gli abitanti, l’insorgere di tensioni tra vecchi e nuovi abitanti, tra italiani e persone provenienti dall’Est Europa o da altri continen-ti. Sottolineano come insofferenze e timori vengano amplificati ed esasperati e come molteplici forme di chiusura e separatezza

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sostituiscano il dialogo e la ricerca di nuovi valori e regole con-divisibili di convivenza civile che s’adattino alle trasformazioni della composizione sociale ed etnica. Al contrario, nel Villaggio del Sole, dialogo e ricerca – allorché si sono affacciati problemi nuovi (i nuovi costumi giovanili a seguito dei movimenti “ses-santottini”) o inquietanti (la diffusione della droga) o difficili (l’attuale forte presenza di extracomunitari) – sono sempre stati attivi e continuano ad esserlo. Il Villaggio è stato, e rimane, un reale laboratorio culturale e sociale.

E qui sta la lezione di don Sacchiero e del gruppo di fedeli a lui più vicini (senza dimenticare il contributo degli abitanti con una robusta esperienza sindacale o politica o dei parroci succes-sivi o degli animatori dei servizi sociali e delle diverse associa-zioni presenti nel quartiere) che si può riassumere nella capacità, tenendo sempre fermo lo spirito di accoglienza, di allargare gli orizzonti, giocare d’anticipo, prevedere l’insorgenza dei proble-mi, ascoltare le ragioni e i problemi degli altri, documentarsi, ridurre a ragionevolezza gli egoismi, far leva sulla parte migliore del cuore e dell’intelletto degli individui.

Così è stato possibile e naturale affrontare, da alcuni anni, in chiave positiva il problema della crescente presenza di immigra-ti stranieri nel Villaggio, con una molteplicità di iniziative, cui concorrono altre istituzioni religiose o civili come i sindacati, via via affinando la capacità di ascolto e di comprensione di ciò che inevitabilmente sarà una società multietnica e multiculturale. E non a caso nei tre fascicoli Storie raccontate e nel libro Abitare il Villaggio. Memoria e storia c’è un largo spazio di interviste, e di attenzione, a questi nuovi abitanti del quartiere.

Si comprende appieno il nuovo libro Il valore della memo-ria. La forza della narrazione, anch’esso raccolta miscellanea di saggi ed interventi di varia natura (ed anche la ragione per cui ho ritenuto necessario parlare sin qui delle pubblicazioni preceden-ti), solo considerandolo come la tappa più recente di un lungo percorso e di una continua attenzione alle sorti del quartiere e del suo fondamentale carattere di comunità accogliente.

Il nuovo libro ha diversi indirizzi ed articolazioni. Uno scritto compendia la storia dell’INA-Casa, che fu uno

degli strumenti progettuali e attuativi del Piano Fanfani del ’49

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(una delle non troppo numerose riforme reali realizzate nel no-stro paese; e, per inciso, anche il rammemorare e riflettere su cosa può realmente chiamarsi riforma è quanto mai utile giac-ché nei due ultimi decenni di questa parola si è abusato sino a conferirle una elefantiaca polisemia, comprensiva persino di quei provvedimenti e azioni che propriamente dovrebbero chiamar-si controriforme) e che badò a che i quartieri da essa costruiti fossero accoglienti, singolarmente caratterizzati e non fabbricati in serie l’uno eguale all’altro, dotati di spazi verdi e di servizi sociali tali da fare la «differenza tra il semplice abitare e abitarvi consapevolmente diventandone responsabili».

Del breve, ma denso, scritto di Federico Batini sottolineo la frase finale in quanto ha un diretto riferimento a ciò che positi-vamente ha fatto in questi anni l’Associazione Villaggio Insie-me: «raccontare e raccontarsi significa allora nuovi processi di democrazia, partendo dall’elementare bisogno di ogni soggetto e di ogni comunità di avere diritto di parola rispetto al luogo che vive». Raccontare e raccontarsi, all’interno di un determinato spazio è volontà di comunicare e stabilire relazioni con gli altri, di apportare contributi alla identificazione e comprensione del senso del luogo e della realtà in cui si vive, di agire insieme. è un modo di reagire a quei processi disgregativi, oggi quanto mai attivi, che spingono l’individuo a tenere in conto solo gli interessi propri o del proprio piccolo gruppo d’appartenenza, ignorando gli altri o, talora, rifiutandoli apertamente.

Il giovane storico Paolo Tagini, ripercorrendo alcuni mo-menti cruciali della vita del quartiere, mette in guardia rispetto a forzature artificiali del suo significato che potrebbero individuare nel sentimento di appartenenza al Villaggio un surrogato rispet-to all’indebolimento di altre appartenenze istituzionali e tradi-zionali. Per Tagini, «la storia di questo quartiere ci propone un esempio riuscito di convivenza civile, un modello che nonostante tutto resiste alle spallate e accelerazioni del mondo individualista moderno (…) l’abitare il Villaggio ha costituito, al di là delle diverse provenienze un proprio e particolare senso di collettività che permane e che si è rinnovato negli anni» del quale la co-munità locale si fa custode, proteggendo e rinnovando «valori oggi troppo spesso dimenticati che tutti noi abbiamo il dovere di ricordare».

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Giacomo Lanaro, giovane laureando in Storia contempora-nea, ragiona nel suo scritto sul rapporto tra storia e memoria e in particolare sull’uso delle fonti orali, ponendo in rilievo come il quartiere sia «una dimensione spaziale e sociale esemplare per studiare i meccanismi che intercorrono tra individualità e collet-tività» ed il formarsi di una identità collettiva, peraltro sempre soggetta a modificazioni con il variare della sua composizione sociale ed etnica.

Luisella Paiusco ricostruisce il mezzo secolo di vita del Vil-laggio come parte essenziale della storia esistenziale di famiglie, di singoli e di istituzioni locali. Lo fa dando a Una storia pos-sibile equilibrata architettura, efficace registro espressivo, ele-gante timbro stilistico, acume interpretativo. E questi sono esiti tutt’altro che scontati quando un autore lavora, in buona parte, sulle proprie memorie e su quelle di altri, e ancor di più quando è l’amore per l’oggetto raccontato (una sorta di seconda pelle) a caratterizzare la narrazione; e, lo si sa, l’amore è portato sia ad annebbiare – introducendo nel paesaggio ambientale ed umano i vapori della nostalgia o del mito – sia, al contrario a rischiarare, come è il caso delle pagine in esame.

Lo scritto è insomma un riuscito intreccio tra un amore, che pure effuso in ogni pagina, è sempre ben sorvegliato, e l’uso di disciplinati strumenti d’analisi.

Il primo consente di ridare vita tanto alle atmosfere, ai pro-fumi, ai colori dell’ambiente quanto alle mentalità, alle emozioni ed alle esigenze, diverse nello scorrere del tempo, del mutevole paesaggio umano; il secondo a tracciare – giovandosi dell’accu-rata, vissuta, conoscenza del materiale documentario e dei ruoli svolti dalle diverse istituzioni o anche da singoli dotati di forza aggregante – una sintesi convincente del lungo percorso dalla fondazione del quartiere ad oggi, ovvero, per dirlo con la sugge-stiva immagine che chiude lo scritto, da quando gli esili arbusti piantati nei primissimi anni sessanta sono diventati «i grandi al-beri che adesso formano un bosco intorno alle case».

Una storia possibile, senza mai evitare gli snodi proble-matici via via manifestatisi, a volte con un pensante carico di inquietitudini, raggiunge pienamente sia l’intento esplicito di ri-costruire sinteticamente la storia del quartiere per «cogliere in un solo sguardo ciò che allora è stato vissuto per frammenti» sia

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quello implicito di mantenere viva la memoria affinché serva per affrontare i problemi e le tensioni che anche nel futuro saranno inevitabilmente presenti.

Il percorso del racconto è nitido, consequenziale nel disporre i momenti ed i passaggi decisivi nella storia del quartiere, ma non lineare. Ed è un pregio che dà piacevole sapore alla narra-zione. Snodandosi in parte sul filo della memoria, della memoria rispetta la caratteristica fondamentale che è proprio quella di gi-rovagare nel tempo anziché procedere linearmente. La memoria, lo sappiamo, sopporta male che le siano messe le redini o venga imbracata da metodologie che ne soffocherebbero le capacità rie-vocative, non tanto dei fatti, soggettivamente selezionati, quanto delle atmosfere, delle variegate relazioni tra le persone e l’am-biente e delle persone tra di loro.

In Una storia possibile la memoria ha i propri spazi e si amalgama a ciò che, con lucida razionalità e in virtù di appro-priate metodologie di indagine, si vuole sia lo scopo del libro: evitare la perdita dei significati che hanno avuto le azioni com-piute nel Villaggio e per il Villaggio, e proiettarli in avanti come solidi punti di riferimento, testimonianze eloquenti di quanto di positivo è possibile produrre quando vi è una lucida disposizione della mente e dell’animo a comprendere e ad accogliere.

Collegato alla narrazione della Paiusco l’essenziale ricordo, in parte di Lucia Petroni ed in parte redazionale, di alcune per-sone scomparse che furono protagoniste, impegnandosi attiva-mente in questa o quella istituzione del quartiere, dei processi di animazione civile e sociale, od anche spirituale, che hanno dato al Villaggio uno connotato fondamentale. Tra esse si stagliano don Gianfranco Sacchiero, irraggiatore in molteplici direzioni dello spirito comunitario e solidaristico del quartiere, ed Anna Brusutti, capace di tradurre propositi di promozione ed educazio-ne culturale e spirituale in iniziative concrete, quali ben di rado si ritrovano nella vita dei quartieri di qualsivoglia città. Personalità entrambe, di notevole spessore umano ed intellettuale.

Ma anche le altre figure rievocate sono davvero degne di interesse. Lo dico non tanto riferendomi alla ristretta area geogra-fica del quartiere, ma perché sono rappresentative di un modo di essere e di agire che negli anni successivi alla ricostruzione post-bellica fu davvero dei molti che avvertirono come preminente la

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responsabilità sociale e che – operando per erodere i tradizionali e diffusi depositi di egoismo, indifferentismo, apatia – contribui-rono alla crescita civile e democratica del Paese. Rappresentativi, in altre parole, di comportamenti “virtuosi” e di impulsi ideali che purtroppo negli ultimi decenni si sono fortemente affievoliti.

E proprio perché tale affievolimento è dappertutto invasivo, la determinazione dell’Associazione Abitare il Villaggio di sal-vaguardare (anzi, incrementare) il patrimonio di idee, esperienze, relazioni umane e sociali accumulato negli anni è quanto mai stimolante in quanto essa, controcorrente, indica la strada giusta: è proprio una rete strutturata e partecipata di relazioni, che può meglio garantire il rispetto e la cura comune di un territorio e rispondere agli interessi ed alle aspettative di coloro che vi abi-tano.

Giuseppe PupilloPresidente Istituzione civica Biblioteca Bertoliana

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IL VALORE DELLA MEMORIA

Fare memoria è più che ricordare. Noi facciamo memoria per diventare sempre più consapevoli di ciò che abbiamo vissu-to come comunità. Ricostruiamo la storia collettiva del nostro abitare il Villaggio del Sole perché nessun altro lo farà, se non lo facciamo noi che l’abbiamo vissuta. Le storie delle persone “comuni”, infatti, non le scrive nessuno, ma noi abbiamo com-preso meglio ciò che siamo stati come comunità proprio perché abbiamo fatto memoria.

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Una storia possibile

Molti dei nostri ricordi sono entrati nelle storie che abbia-mo già raccontato. Molti altri ce ne sono che restano inespressi, «perché la memoria è labile, e perché i libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi e schegge di quanto abbiamo visto e udito», come dice N. Ginzburg in Lessico famigliare. Qui raccogliamo alcune di queste schegge, sono come le tessere di un mosaico, tutte insieme ci aiutano a ricostruire qualcosa della nostra storia, che tuttavia resta in divenire.

Traslocare, fare San Martin1, erano le parole con cui si diceva, e si dice ancora, il cambiar casa. Ma c’è un altro modo di dirlo che è ancora più espressivo: andare a star via. Vado a star via, si dice, oppure, davanti a una casa vuota: sono andati a star via. Andare a star via può voler dire andare a volte verso il meglio a volte verso il peggio. Ma era, è, sempre uno sradicamento. Stare significa sta-bilità, legami, rapporti, abitudini. Andare a stare da un’altra parte significa ricostruire tutto questo, farsi un altro bozzolo. Qualcosa si spezza e si perde ogni volta che si va a star via. E anche se si va a star meglio, in una casa più bella, qualcosa dell’ambiente in cui si viveva prima mancherà sempre, e per sempre, perché si abita non solo la casa, ma anche l’ambiente, naturale e umano, in cui la casa è inserita e respira insieme a chi la abita.

1. Il giorno 11 novembre si ricorda San Martino, c’è su di lui una bella leggenda a cui è legata la cosiddetta “estate di San Martino”. Questo era il periodo in cui, nella tradizione contadina, scadevano i contratti di affitto dei terreni agricoli e delle case. A questo punto dell’anno, infatti, i lavori nei campi erano finiti e, prima di cominciare la nuova stagione, i proprietari decidevano sui contratti di braccianti e affittuari. Potevano esserci abusi nella decisione spesso insindaca-bile, oppure motivata da regole “padronali”, come racconta Ermanno Olmi nel suo film L’albero degli zoccoli, del 1978. Certamente non si teneva conto della situazione di questi lavoratori che dovevano cercare altrove una sistemazione lavorativa e abitativa.

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Quando sono arrivati qui, quasi contemporaneamente, tra il 1959 e il 19612, tutti gli abitanti si portavano dentro l’esperienza di questa perdita, magari ripetuta, perché qualcuno aveva cam-biato casa già diverse volte. L’entusiasmo e la soddisfazione per la casa nuova non hanno mai guarito del tutto questa ferita. Per molto tempo infatti alcune famiglie, alla domenica, chiudevano la casa al Villaggio e se ne tornavano là da dove erano venute.

Poi lentamente la nostalgia si è fatta meno struggente. So-prattutto grazie ai bambini che si portano dietro un più lieve peso di ricordi. Ma ancora adesso quando si chiede a qualcuno da dove viene, dice per primo il nome del paese di origine, quello appunto da cui tanti anni fa è andato a star via. Per questo appena arrivati qui molti si sono affacciati alle finestre per guardare fuori. Hanno cercato di orientarsi nella speranza di intravedere in lontananza dei riferimenti familiari: un campanile, una collina, una mac-chia di verde, un palazzo. Non è stato facile, perché qui era tutto nuovo e niente assomigliava a ciò che si conosceva prima. Poi l’orizzonte di riferimento si è ricostituito, nuovo ma ugualmente rassicurante: Monte Crocetta, la basilica di Monte Berico, di cui si sentivano addirittura suonare le campane e, più vicino, le case intorno, le strade, alcuni spazi inizialmente vuoti al centro del quartiere, tutte coordinate che il tempo renderà familiari.

All’inizio le case avevano tutte lo stesso odore, uniforme e in-distinto, odore di nuovo, che veniva dai muri appena imbiancati, dai pavimenti, dai serramenti. Tutto sentiva di calce, di legno fresco, di vernice, di colla, era un odore freddo che riempiva le scale, i piane-rottoli e le stanze ancora vuote. Solo col tempo ogni casa si sarebbe impregnata degli odori della vita della famiglia, delle sue abitudini, della presenza umana di ciascuno, acquistando identità e differen-za. All’inizio si poteva confondere un appartamento con un altro, se non si stava attenti. Queste case nuove sarebbero invecchiate insieme ai loro abitanti, diventando parte della loro esistenza.

2. Le case sono state consegnate in momenti diversi, ma ci sono alcune date particolarmente importanti. Su un totale di 526 appartamenti INA-Casa, il 6 giugno del 1959 ne sono stati consegnati 192 e il 5 dicembre del 1960 ne sono stati consegnati altri 240, alla presenza di Fanfani. Il 22 ottobre del 1960 era stata inaugurata anche la scuola Colombo, che più tardi sarà ingrandita perché non era sufficiente per tutti i bambini

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Non si cambiava soltanto casa, venendo qui, ma anche modo di abitare. Così alcune delle cose che nella vecchia casa erano neces-sarie, qui non si potevano più usare, non servivano più. La cucina economica era una di queste e molti l’hanno rimpianta a lungo, per-ché era comunque un fuoco acceso dentro casa, come una cosa viva che faceva compagnia, molto diversa dalla fiamma azzurrognola della cucina a gas, pur tanto comoda e funzionale. E i grandi secchi di metallo, con cui si andava a prendere l’acqua erano fin troppo ingombranti per essere portati via, anche se qualcuno ha conservato i bellissimi secchi di rame, e li lustra regolarmente, dando un tocco di singolarità alla cucina, ancora oggi dopo tanti anni.

Per questo qualche volta, rientrando in casa un po’ soprapen-siero, si aveva come la sensazione che mancasse qualcosa e gli occhi cercavano distrattamente in giro, nella nuova cucina, come se il fantasma dei vecchi oggetti dovesse ricomparire da un mo-mento all’altro. Anche i letti e gli armadi che prima riempivano le camere, adesso sembravano più piccoli e avevano qualcosa di estraneo nelle stanze ampie e luminose con le grandi finestre. Per fortuna il tavolo di cucina su cui si mangiava era rimasto lo stesso: stava come prima al centro della stanza, con la lampadina appesa al soffitto proprio in mezzo, le sedie attorno, i soliti piatti e il pane sulla tovaglia a quadretti. E ognuno si sedeva al suo so-lito posto ed era come ritrovare ogni volta qualcosa di se stessi.

Quando le case sono state assegnate, prima ancora di ve-nirci ad abitare, le famiglie venivano a vedere gli appartamenti, anche quelli non ancora finiti. Era una gita domenicale, tutti insieme, a prendere confidenza col nuovo ambiente, con questi appartamenti grandi, pieni di aria e di luce. Ma soprattutto: “da qui non ci manda più via nessuno” dicevano i genitori ai figli. Era come la promessa di un futuro sereno, senza l’ansia dello sfratto e senza avere il fiato sul collo del padrone di casa ogni mese3. Era una conquista di stabilità e di dignità.

3. Lo sfratto era frequente, a volte anche per necessità reali dei proprietari. Il problema grave, infatti, era la mancanza di case e la pessima qualità degli alloggi. I dati del censimento del 1931 dicono che in una stanza vivevano da due a dieci persone. Inoltre circa tre quarti delle abitazioni non avevano servizi igienici e circa la metà non aveva l’acqua potabile. La seconda guerra mondiale aveva ag-gravato questa situazione perché molte case erano state danneggiate o distrutte dai

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Mettere la targhetta col nome sulla porta è stata una specie di cerimonia collettiva. Nella maggior parte dei casi dove stavano prima non c’era il nome sulla porta di casa, non ce n’era bisogno. Anche il postino conosceva tutti e sapeva chi c’era. dietro ogni porta, portone o inferriata. Qui al Villaggio invece, chiusi dentro i condomini, si diventava tutti uguali, indistinguibili, tanto più che all’inizio nessuno conosceva nessuno, bisognava mettere il nome sulla porta e le cassette per la posta in fondo alle scale. Anche così, lentamente, si è dissolto l’anonimato che avvolgeva i primissimi tempi, cominciando a conoscere almeno i nomi.

Anche alle cose e alle case è stato dato un nome, che ancora oggi resiste: la bissa, il pettine, il manico del pettine. C’era per-fino una rotonda, quando in giro se ne vedevano poche, è stata chiamata la “o” del Villaggio, e così si chiama ancora. In questo modo lo spazio esterno e indistinto dell’abitare è diventato qual-cosa di riconoscibile, con dei punti di riferimento comuni.

Chi è venuto al Villaggio del Sole da ragazzo4 ricorda quell’ambiente come un mondo magico dove si poteva giocare perdutamente, selvaggiamente, liberamente, in ogni momento libero dalla scuola. Il regno delle avventure e dei giochi comin-ciava appena usciti dalla porta, già sulla scala, ma soprattutto in fondo alle scale, nel seminterrato che c’è, c’era allora, in tutti gli edifici del Villaggio, eccetto alla Bissa. Ma la Bissa era anco-ra più interessante, perché ha i passaggi aperti da un lato all’al-tro. Nei seminterrati si portavano le biciclette, ma solo alla sera, quando i grandi tornavano dal lavoro. Di giorno erano vuoti e spaziosi, e offrivano tante nicchie e ripari. Fuori lo spazio si dila-tava per le strade, pochissimo trafficate, allora. Quelle del pettine erano ancora “innominate”, si chiamavano tutte via Colombo dal numero… al numero. Tutti dicevano semplicemente la prima, la seconda, la terza strada e così via, e non erano asfaltate, quindi

bombardamenti. Negli anni Cinquanta l’emergenza non era certo superata, anche se c’erano già state delle iniziative nel campo dell’edilizia popolare.4. I ragazzi erano molti. La scuola Colombo ha dovuto raddoppiare le aule per adeguarsi. C’erano gruppi di Prima Comunione di più di cento bambini. Nella scuola materna alla Casa del Sole c’era un centinaio di bambini e un’altra cinquantina frequentava la scuola materna aperta per un certo periodo alla Pro-duttività, nell’attuale sede degli Alpini.

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ancora più divertenti: fangose o polverose secondo il tempo che faceva. E tutto intorno, dove non era strada, era campo erboso, fino ai muri delle case: non ancora giardini, garages, parcheggi. Dalla parte dove adesso si fa il mercato del sabato, c’era un fosso. Bastava saltarlo e si era nei campi dei Rizzato. Al tempo del gra-noturco i ragazzi rubavano le pannocchie che poi abbrustolivano su fuochi improvvisati, le trovavano deliziose, qualcuno ancora se lo ricorda. Dietro il manico del pettine, verso Monte Crocetta, più o meno dove adesso ci sono tutte le case di via Marco Polo, c’erano dei vigneti. Al tempo dell’uva matura era una gara di velocità tra i contadini che li rincorrevano e i ragazzi che scappa-vano, e anche questo era un gioco.

Alla sera, quando i muratori lasciavano il cantiere della Pro-duttività, che non era ancora finito5, passando sotto la Bissa frotte di ragazzi si disperdevano in mezzo alle case in costruzione. Era un vero e proprio percorso di guerra. Ne uscivano con caviglie, ginocchia e qualche volta anche la testa ammaccata, gli strappi nei vestiti e tutto il resto, quando si era fatto veramente buio, e dalle finestre delle case le mamme chiamavano a voce alta, rivol-te verso dove sentivano i loro gridi di battaglia.

Poi c’era lo spazio selvaggio e avventuroso di Monte Cro-cetta: passaggi appena visibili nelle siepi, tracce di sentieri, zone coltivate e bosco, spine, rovi, piante enormi e arbusti sottili, cam-pi di granoturco e vigneti, fieno profumato. Un vero Far West, dove da sempre avevano giocato e giocavano i ragazzi che abi-tavano nei dintorni prima che ci fosse il Villaggio del Sole. Ci si poteva perdere per ore, nel gioco e nella fantasia, sbucando in cima a guardare il quartiere dall’alto. Quando si accendevano le luci delle case tornavano, al buio. Le mamme sapevano sempre dove erano, o almeno credevano di saperlo, e stavano tranquille.

5. Quello che chiamiamo abitualmente Villaggio del Sole è costituito da cinque nuclei: il Villaggio del Sole, INA-Casa, dell’architetto Ortolani e altri, 13 edifici con 60 scale, 526 appartamenti; il Villaggio della Produttività, dell’architetto Gardella e altri, 112 appartamenti; il Villaggio Cassa di Risparmio, 15 edifici, 84 appartamenti; le case Romita, 5 edifici, 22 appartamenti; la case dei Vigili Urbani, 2 edifici, 14 appartamenti. Questi cinque nuclei abitativi sono stati co-struiti tutti nel periodo che va dagli ultimi anni del 1950 ai primissimi anni del 1960, con finanziamenti, progetti, imprese e tempi di costruzione diversi ma sempre nel breve arco di tempo di quei pochi anni.

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Girare per le strade in bicicletta, una ai pedali e una sul ma-nubrio, portandosi dietro il mangianastri con la musica a tutto vo-lume, era la specialità delle ragazze più giovani, mentre i bambini più piccoli giocavano di solito vicino alle case, ma stavano co-munque fuori, nelle strade, dove lo spazio era ampio e tranquillo. Dalle finestre, a turno, si affacciava qualche mamma, giusto uno sguardo ogni tanto, solo quando gli strilli diventavano più forti. Oppure quando arrivava il gelataio, per buttare le monetine.

è stato magico e irripetibile per quella generazione il tempo degli inizi.

Ripercorrendo le storie degli abitanti del Villaggio si scopre che tra loro non sono nati dei soprannomi. I soprannomi hanno dietro di sé una storia familiare, professionale, magari anche una caratteristica fisica della famiglia. Qui al Villaggio sono arrivati tutti insieme, nello stesso tempo, senza conoscere le storie de-gli altri. Niente soprannomi, quindi, perché si erano lasciati alle spalle quello che erano: figlio di…, nipote di…, suo nonno faceva il… Non c’era un passato noto agli altri. Anzi qualcuno forse era contento di venire qui anche per questo, per poter ricominciare a vivere senza il peso di vecchie storie sulle spalle. Poi, negli anni, non c’è stato il tempo di creare dei soprannomi nuovi. La storia del Villaggio infatti è ancora troppo breve e dopo cinquant’anni gli abitanti italiani sono la metà di quelli arrivati agli inizi. Il futu-ro dei figli e dei nipoti è altrove, molti forse si sono sentiti come di passaggio in questo luogo, anche perché la vita lavorativa si è sempre svolta e si svolge fuori del quartiere. Anche i soprannomi degli abitanti dei Biron o della zona intorno al Villaggio, che pure c’erano, come Ponciaovi, Cementin, Cazoleta, sono destinati a scomparire nel tempo, con la scomparsa delle persone che se li ricordano. Perché nasca un soprannome che sia identificativo senza essere offensivo deve esserci un tempo abbastanza lungo e soprattutto delle vicende condivise, una confidenza che forse qui non è mai stata così piena. Qui quasi sempre si sente dire “la signora Maria, il signor …”, non si dice semplicemente il nome, c’è sempre quel “signor” o “signora” davanti, anche dopo tanti anni che si vive sulla stessa scala. Forse lo sradicamento iniziale che ha portato qui tante persone contemporaneamente ha creato e ancora mantiene questo spazio di riservatezza, quasi di estranei-tà, almeno tra quelli che sono arrivati qui già adulti.

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Per i ragazzi le cose sono andate diversamente, crescendo in-sieme hanno sviluppato un sentimento di appartenenza, una spe-cie di identità collettiva. Quando hanno cominciato a uscire dal Villaggio, per esempio per andare alla scuola media Calderari, si sono sentiti dire, con tono perentorio e lievemente spregiativo: “voi del Villaggio del Sole”. Come se fossero stati un gruppo ben definito, una categoria unica, un mondo a parte. Forse il Vil-laggio era veramente un “altro mondo”, con le sue case disposte circolarmente attorno a uno spazio comune, invito implicito a ri-trovarsi insieme, rispetto ad altri quartieri fatti di case che “non si guardano”, allineate una accanto all’altra lungo le strade, invito implicito ad andare ciascuno per i fatti suoi.

A un certo punto della sua storia il Villaggio del Sole è stato chiamato Villaggio dei fachiri, che poi voleva dire dei debiti, det-ti anche chiodi. Era una cattiveria, anche se assumeva la forma di una battuta e anche se, purtroppo, molti degli stessi abitan-ti l’hanno introiettata quasi passivamente, invece di respingerla dimostrandone la gratuità. Certo, per completare l’arredo della casa, per mandare a scuola i ragazzi, per comprare le prime auto e i primi elettrodomestici, molti si sono indebitati, hanno pagato a rate. Hanno pagato però, tutto e fino in fondo. C’era qualche donna che andava a pagare di corsa, appena aveva i soldi, prima che venissero impegnati altrove. Capitava abbastanza spesso di comprare a rate, come molti facevano in quegli anni. Ma non si è mai sentito di qualcuno che non abbia saldato i suoi debiti, piccoli o grandi che fossero. E non si è nemmeno sentito che qualcuno dei commercianti che avevano bottega al Villaggio sia fallito perché i clienti non lo pagavano, forse non avrà fatto gran-di affari, ma i debiti, magari in ritardo, venivano saldati. Pagare a rate era un po’ come scommettere sul futuro, confidando nella buona sorte: che ci fosse la salute, il lavoro allora non mancava, che i figli cominciassero anche loro a portare a casa qualcosa col primo lavoro da apprendisti, che la donna potesse fare qualche lavoretto extra. Era una scommessa, un segno di vitalità, di spe-ranza, di ottimismo, di fiducia in se stessi e nelle proprie capacità. L’assegnazione della casa è stata per queste famiglie una forte motivazione, per molti è stato un vero e proprio riscatto sociale. Nel giro di pochi anni molti sono riusciti anche a mettere da parte dei risparmi, come si può vedere andando a spulciare nei registri

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dell’ufficio postale del quartiere, che allora era un po’ la banca per gli abitanti.

Ma il nome di “fachiri” è rimasto. Qualcuno, soprattutto tra i più giovani che andavano a scuola in città, si vergognava di dire che abitava al Villaggio del Sole o negli immediati dintorni. Una ragazza che frequentava il ginnasio si è sentita chiedere se avesse frequentato le scuole in Africa, a sottolineare una impreparazio-ne, reale o presunta. Aveva frequentato la scuola Colombo e la Calderari, e si era ormai alla fine degli anni Settanta. Un giorno bisognerebbe che qualcuno scrivesse la storia di quello che sono diventati alcuni di questi “fachiri” in giro per il mondo per capire come sia stato importante essere cresciuti qui.

Ricostruire la geografia delle varie provenienze servirebbe a comprendere le molte identità che sono confluite al Villaggio del Sole in quegli anni iniziali. Quando sono arrivati qui, ogni fa-miglia veniva da un’esperienza diversa. Come ricorda bene una signora, adesso avanti con gli anni, ma allora giovane e con i figli piccoli, lei e la sua famiglia abitavano in una grande casa, con un bel cortile, in una zona storica del loro paese. Non erano poveri, perché il marito aveva un buon lavoro, ma abitavano fuori mano, in un posto scomodo per raggiungere il lavoro, i negozi, la scuo-la, la chiesa. Tutto diventava complicato, per questo hanno fatto la domanda per avere la casa. Invece un’altra non voleva saperne di venire al Villaggio. Vivevano in affitto ma avevano la casa con l’orticello e in fondo all’orto c’era il gabinetto, solo per loro. L’acqua arrivava appena fuori dalla porta con la pompa, erano soli e padroni di quel poco spazio. Proprio non voleva saperne di chiudersi in un appartamento al quinto piano. Ma il marito ferroviere aveva delle facilitazioni e il miraggio di riuscire ad avere la casa di proprietà ha superato tutte le resistenze. Anche la coppia dei suoi vicini aveva una bella casa, in paese, con tutte le comodità allora consentite, e anche le uova fresche di giornata del pollaio, ma il tutto era dei suoceri e loro volevano essere indi-pendenti. Uno, venuto qui da ragazzo, aveva vissuto da sempre in una dipendenza della villa di cui il padre era custode, guardiano e giardiniere. Un luogo splendido, ma lasciato andare in rovina da padroni sempre meno capaci di gestirlo. Suo padre lo ha rim-pianto per sempre, non si è mai adattato alla vita nel quartiere. Però qui erano vicini alla città e alla scuola per i figli, e più tardi

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al lavoro. La famiglia di una signora aveva l’unico negozio di alimentari del paese, e lei era abituata a fare la padroncina, anche nella bella casa materna. Ma aveva sposato un operaio e così se ne erano venuti al Villaggio, perché con i primi tre figli rientra-vano nelle graduatorie di assegnazione delle case.

Bastano poche storie per capire che alcuni degli abitanti del Villaggio soffrivano di una certa nostalgia perché per loro il cambio non era stato del tutto favorevole. Si sentiva nei loro discorsi questa amarezza, che rendeva difficile l’inserimento in un ambiente sentito come “inferiore” anche socialmente. Alcune di queste famiglie se ne sono andate via dal Villaggio appena è stato loro possibile.

Molti invece avevano visto decisamente cambiare in meglio la propria vita venendo ad abitare qui. Come per esempio la fami-glia che, rimasta senza casa, viveva in una soffitta, separando con delle coperte gli spazi per dormire dei piccoli e dei grandi. O quelli che avevano avuto in prestito una camera da letto nella casa del fratello quando si erano sposati. C’era qualche famiglia che viveva in promiscuità con altri inquilini per la cucina e il bagno, o con-divideva con i vicini il corridoio su cui si affacciava la camera da letto. Insomma c’era veramente di tutto alle spalle di chi arrivava al Villaggio in quegli anni. Con i mezzi di trasporto più vari usati per il trasloco, qualcuno si portava dietro i bei mobili acquistati per il matrimonio, il tavolo e le sedie per la sala da pranzo, un discreto guardaroba. Chi c’era allora può facilmente ricordare que-sto movimento di carri, camioncini, carretti, che trasportavano una “intimità” casalinga necessariamente esibita. Qualcuno tirava giù in fretta le poche cose, qualcuno ci metteva un po’ di più. Su e giù per le scale, come tante formiche, ognuno portava qualcosa, anche i ragazzi. Incrociandosi cominciavano a fare conoscenza, a capire più o meno con chi avrebbero condiviso lo spazio del condominio, sopra sotto e di fianco al proprio appartamento.

Quelli che abitavano nei dintorni, nei due Biron, in via Pe-cori Giraldi, in viale Trento o in via Pasubio6, osservando le cose

6. Gli abitanti di queste zone sono poi confluiti in gran parte nel Villaggio del Sole vero e proprio per la scuola materna e elementare, per la parrocchia, la biblioteca e i vari servizi messi a disposizione nel Centro sociale. Erano circa 650 persone, mentre i nuovi arrivati erano circa 3.400, hanno costituito quindi

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dall’esterno, senza esservi coinvolti direttamente, ricordano la preoccupazione suscitata da questa specie di “diluvio umano”, come una marea che andava crescendo e riempiva gli spazi del nuovo quartiere. Il sentimento prevalente era la curiosità, più for-te della stessa diffidenza: tutti, comunque, si aspettavano qual-cosa di nuovo che avrebbe modificato anche il loro abitare in questo luogo.

Non c’era il telefono, all’inizio, nelle case, anche se gli im-pianti erano stati predisposti. Poi ha cominciato ad averlo il par-roco, don Gianfranco, e si è affrettato a dire in chiesa che il suo telefono era a disposizione di chi ne avesse avuto bisogno. Poi lo hanno installato alcune famiglie, qua e là, e questi telefoni hanno funzionato come telefoni pubblici per un po’ di tempo. A questi apparecchi arrivavano le chiamate urgenti. Qualche volta chiamavano dall’ospedale per dare o chiedere notizie dei fami-liari, oppure era qualcuno che voleva avvertire la moglie di un ritardo, o chi lavorava in trasferta e aveva perso il treno. Perfino la notizia della morte di qualche parente è arrivata in famiglia attraverso questo “mutuo soccorso” di scala, incredibile per chi cresce adesso col telefonino incorporato.

Nella maggior parte delle case non c’era neanche la televi-sione. I ragazzi, ma anche i grandi, si riunivano in casa dei po-chi, amici o vicini, che ce l’avevano. Vedevano le partite seduti sul pavimento, perché le sedie non bastavano. Oppure i ragazzi andavano da don Antonio, il primo “cappellano”, che abitava in un appartamento in via Malaspina, e vedevano i programmi per ragazzi o quelli sportivi lì a casa sua.

Se si chiede a qualche vecchio abitante del Villaggio dove sta di casa è probabile che risponda: sulla terza scala della Bissa, o sulla seconda scala della prima strada trasversale o altro del genere. La scala infatti è stata fin dall’inizio il riferimento fonda-mentale, a cui si aggiungeva poi il piano, primo secondo, terzo... I nomi delle strade e i numeri appartengono all’ufficialità, nel quotidiano valgono le scale. La scala offre una gamma molto am-pia di possibilità di conoscersi, di parlarsi, all’inizio questo era importante. Parlavano tra loro soprattutto le donne, da un poggio-

un quartiere nuovo di più di 4.000 abitanti. Il comune di Vicenza aveva allora complessivamente 98.019 abitanti, come risulta dal censimento del 1961

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lo all’altro stendendo il bucato, o durante una sosta per le scale salendo con le borse della spesa. Questo era e resta uno dei pochi vantaggi di non avere l’ascensore: finché le gambe lo permetto-no, salire le scale è una buona opportunità per scambiare quattro chiacchiere, conoscere le storie delle famiglie e intuire molto di quello che avviene dietro la porta chiusa degli appartamenti.

La scala è stata l’ambito primario dei rapporti di vicinato e di solidarietà, quasi come un cortile su cui si aprono gli ap-partamenti. Se uno esce sul pianerottolo e chiama, qualcuno si affaccia senz’altro, sia di giorno sia di notte. Tante situazioni dif-ficili sono state risolte con questa forma di solidarietà di vicinato. Qualcuno che era bambino allora, ricorda che in casa sua hanno messo a dormire su materassi in corridoio altri bambini, vicini di casa, perché c’erano dei problemi, si sentiva gridare e bestem-miare oltre la parete. Ma è capitato anche, sempre di notte, che un bambino sia nato in casa, con la madre assistita dalle vicine, perché non c’è stato il tempo di chiamare neanche la levatrice. E il piccolo, nello splendore dei suoi quasi quattro chili, è stato coccolato a turno, finché la madre, e soprattutto il padre, si sono ripresi. Ci sono state anche disgrazie tremende, come la morte sul lavoro del capofamiglia. Per parecchio tempo, a turno, qualcuno della scala faceva la spesa e preparava da mangiare, finché la vita riprendeva faticosamente il suo ritmo. Ogni scala avrebbe tante storie, liete e tristi, da raccontare. In genere ci si aiutava, o per carità cristiana, come si diceva allora, o più semplicemente per solidarietà umana, per compassione e per vivere in pace il più possibile con tutti.

La scala è stata anche uno dei nuclei vitali della comunità più ampia che è la parrocchia, allora molto presente con le sue attivi-tà. C’è stato un tempo in cui ci si incontrava a leggere, meditare e pregare insieme, in casa di qualcuno, scala per scala appunto. Ci si riuniva in uno degli appartamenti, si parlava intorno al tavolo, davanti a un bicchiere di vino. C’era il prete e di solito anche una suora. La suora faceva un po’ da tramite. Lei passava per le case in maniera meno “ufficiale”. Ci veniva anche per trovare un malato o un vecchio. In fondo le suore dell’asilo stavano con i bambini più piccoli e già sapevano quasi tutto delle famiglie. Il resto era intuizione e semplicità del contatto umano. Tutti erano abituati a vederle, erano una presenza familiare.

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Ogni scala si è data un proprio modo di regolamentare l’or-dine interno, amministrativo e pratico. Ogni scala ha scelto il proprio caposcala. Generalmente si faceva da caposcala a turno, per un anno, qualche volta due anni, a testa. A turno tocca a tut-ti, prima o poi, quindi non conviene mettersi uno contro l’altro. Le riunioni si facevano al Centro sociale, o in casa di uno della scala, a seconda dell’importanza e del tempo richiesto dall’argo-mento. Di solito alle riunioni partecipava il capofamiglia, padre e marito, con nelle orecchie tutti i suggerimenti, avvertimenti e brontolamenti delle donne. Si decideva chi fa che cosa e in che modo, e con quanti soldi. A volte i problemi erano seri, le de-cisioni impegnative, perché gradualmente i condomini si sono assunti sempre maggiori responsabilità.

I capiscala erano anche il riferimento istituzionale, nei rap-porti col Comitato di quartiere, che contribuivano a eleggere, e col comune. Venivano convocati e consultati, riferivano e infor-mavano, assumevano impegni e vigilavano perché fossero rispet-tati. Era una buona scuola di partecipazione. Non che tutti fos-sero preparati a questo, ma hanno imparato. Più tardi in qualche caso il caposcala è stato sostituito da un amministratore, e anche questo è uno dei segni del tempo che passa e delle cose che cam-biano.

All’inizio i rapporti di vicinato sono stati piuttosto com-plicati. Erano arrivati qui tutti insieme e quasi nessuno aveva esperienza di vita di condominio. Non c’erano molti quartieri di questo tipo, era un’altra cosa rispetto ai paesi con i loro cortili e le loro contrade. Qui si sono create a volte situazioni difficili, anche perché erano persone molto diverse tra loro, per mestiere, abitudini, provenienza. I più “diversi”, a quel tempo, erano quel-li che i veneti chiamavano i “meridionali”, comprendendo con questa parola tutta l’Italia all’incirca dal Po in giù, quella che veniva chiamata “bassa Italia”. Qui si sono trovati insieme, vicini di casa, senza conoscersi, con un bagaglio di buona volontà ma anche di tanti pregiudizi e paure reciproche.

Ognuno, nella soddisfazione di avere finalmente una casa nuova tutta sua, si sentiva un po’ padrone del mondo, e si com-portava di conseguenza, anche con arroganza. Alle rimostranze degli altri rispondeva: “a casa mia faccio quello che voglio”. A volte ci sono stati episodi molto divertenti, soprattutto pensando-

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ci adesso. Nel fervore della casa nuova, messi da parte un po’ di soldi, una signora è andata dal falegname e si è fatta fare la porta di casa come piaceva a lei, con tanti bei riquadri lavorati. Ai suoi occhi era una cosa molto distinta. Fin troppo distinta, anzi diver-sa, per la sua dirimpettaia, che in nome dell’armonia “estetica” della scala è riuscita a far rimettere la vecchia porta, uguale a tutte le altre. Chi c’era se lo ricorda ancora. In genere non erano cose gravi e riguardavano la vita di tutti i giorni, le faccende di casa, come la biancheria che sgocciola, i tappeti sbattuti al piano di sopra sul bucato steso di sotto, cose lasciate in giro negli spa-zi comuni, porte lasciate sbattere e luci accese inutilmente sulle scale. A volte erano i bambini e i ragazzi che facevano baccano, in casa e fuori, o piangevano di notte, anche se più o meno di bambini ce n’erano in ogni casa, quindi era un “male” comune. C’erano orari di lavoro diversi e soprattutto abitudini diverse.

Era necessario darsi delle regole e rispettarle, ma non tutti si trovavano d’accordo su che cosa fosse veramente importante, quindi la vita di condominio ha avuto momenti di tensione. Ra-ramente si andava oltre le parole pesanti, ma è capitato che tra uomini si sia arrivati ai pugni. è partita anche qualche denuncia, e in questi rari casi è venuto fuori che qualche vicino aveva dei precedenti penali. Il caposcala che si faceva portavoce del buon senso comune, si è sentito rispondere: “Io non ho paura delle vostre denunce, in prigione ci sono già stato”. Qualche famiglia delle più “difficili”ha finito per andarsene, altre persone sono morte e, come si dice, i morti sono tutti buoni. Ma è stata una buona scuola per tutti, col tempo la convivenza è diventata meno complicata, le persone hanno imparato a stare insieme dandosi delle regole e assumendosi a poco a poco la responsabilità di far funzionare le cose nel modo migliore.

Al Villaggio del Sole è nato molto presto il Comitato di quar-tiere, uno dei primi, non solo a Vicenza7. Era stato eletto dai rap-

7. «Nel 1963 viene istituito, al Villaggio del Sole, il primo Comitato di quartiere della città composto da undici componenti, democraticamente eletti in proporzio-ne di uno ogni, circa, 150 famiglie residenti. […] Nella storia del diritto ammini-strativo c’è una data convenzionale per fissare la nascita di questi consigli; si fa risalire proprio all’anno 1963, in seguito alla delibera del consiglio comunale di Bologna, l’istituzione dei primi organi di decentramento […] Due le caratteristi-

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presentanti delle varie scale, dei due Biron e della Produttività, che erano proprio tutti gli abitanti che facevano riferimento al Villaggio. Era il 1963. A Roma il presidente del consiglio era Moro e il suo vice era Nenni. Nel 1949 il papa Pio XII aveva sco-municato i comunisti, ma dal 1958 il papa era Giovanni XXIII. Insomma tirava un’aria particolare che si respirava anche al Vil-laggio, e nel comitato c’era anche un comunista, soprannominato “il vescovo rosso”, di cui il parroco don Gianfranco diceva: “ce ne fossero tanti come lui”.

Rileggendo i verbali delle riunioni del comitato viene da chiedersi quale misteriosa alchimia riuscisse a tenere insieme persone con idee e appartenenze tanto diverse nel tentativo di risolvere problemi comuni. Alcuni aspetti della politica del tem-po hanno spesso contrapposto anche duramente gli uni agli altri, tuttavia fa impressione trovarli così assiduamente presenti, si po-trebbe dire ostinatamente impegnati. Ne viene fuori l’immagine di un gruppo di pionieri, che tende a diventare comunità. Alcu-ni erano allenati alla partecipazione nel sindacato, in fabbrica, in ferrovia, sul posto di lavoro. Altri venivano da esperienze di emigrazione da cui erano ritornati non più ricchi ma più combat-tivi e forse più arrabbiati. Nell’assegnazione delle case sembra di leggere una volontà di mescolare queste situazioni. In ogni edificio, anzi su ogni scala, si trovavano operai, artigiani, tecnici, carabinieri e altri militari, poi c’erano le case assegnate a cate-gorie specifiche, come ferrovieri, poliziotti e vigili urbani, per esempio. Un bel mosaico insomma, a cui si devono aggiungere i vari addetti ai “servizi”. Ci sono infatti piccoli commercianti, artigiani che lavorano in proprio, alcuni falegnami, qualche sar-ta, il barbiere e la parrucchiera per signora, allora ben distinti. I negozi che c’erano al Villaggio, in via Caboto e negli immedia-ti dintorni, erano in genere gestiti da persone che abitavano nel

che particolari che furono alla base di questa esperienza, la prima fu data dal ruolo innovativo che il Comitato di quartiere ebbe in seno alle strutture amministrative cittadine […] Una seconda – essenziale come la precedente – caratteristica delle esperienze di quartiere riguarda l’importanza culturale del ruolo del Comitato […] Il Comitato divenne luogo di mediazione e di rielaborazione, su base collet-tiva, di nuovi modelli di rapporti interpersonali». (Passarin Mauro in Abitare il Villaggio. Memoria e storia, Ass. Villaggio insieme, Vicenza 2009, p. 199)

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Villaggio stesso. Ne risultava un mondo variegato e multiforme e il Comitato di quartiere nasce dentro questa realtà. Se e quanto sia riuscito ad esserne l’espressione autentica è un giudizio che si può lasciare sospeso. Era una situazione complessa, non solo a livello locale. Basta ricordare che nel 19608 proprio all’inizio della storia di questa comunità, nel mese di luglio c’erano state manifestazioni con scontri violenti e morti e la caduta del go-verno Tambroni. Nel 1963 il Comitato di quartiere al Villaggio poteva giustamente essere vissuto dai più consapevoli come una scommessa vincente. Anche perché era il primo da queste parti, e l’esperienza non la insegna nessuno, bisogna farsela da sé.

Per creare una rete di comunicazione e di partecipazione più efficace nel 1965 è nato anche il giornalino «Vita di Quartiere». A guardarlo adesso sembra un’impresa facile ma non deve essere stato facile per niente. Sono poche pagine in bianco e nero, con delle foto che documentano i fatti, e poi la pubblicità degli “spon-sor”, i negozi del quartiere, quelli di via Caboto soprattutto, ma anche qualcuno esterno che stava qui vicino. Il giornalino non avrà vita facile, né molto lunga. Non c’era forse una sufficiente preparazione, non c’erano mezzi economici e la partecipazione non è stata sempre al massimo. Ma finché è durato ha contribuito a creare e a mantenere rapporti, ha costretto qualcuno a pensare, più di quanto non avrebbe mai fatto. Anche questa è stata un’im-presa pionieristica, e c’è ancora qualcuno nel quartiere che si ri-corda quando ha portato il giornalino a un convegno nazionale, come esempio di quello che si stava facendo qui.

Il Centro sociale, situato nello spazio centrale del quartiere, tra la chiesa e la scuola elementare, è stato il punto di riferimen-to dei servizi offerti dall’amministrazione pubblica, sotto varie forme. Nei quartieri edificati dall’INA-Casa era previsto questo spazio pubblico dove l’ente stesso si rendeva presente attraverso propri rappresentanti per la gestione iniziale della situazione abi-

8. Nel 1960 il presidente della repubblica Giovanni Gronchi dà l’incarico al de-mocristiano Ferdinando Tambroni di formare il nuovo governo, dopo i tentativi falliti di Segni e Fanfani. Tambroni accetta l’appoggio dei neofascisti del MSI. Si crea tensione politica e alla reazione dell’estrema sinistra che manifesta in varie città, la polizia risponde con la forza. Ci sono numerosi morti e feriti, sia tra i dimostranti sia tra i poliziotti. Il 19 luglio del 1960 Tambroni si dimette.

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tativa9. Nei locali del Centro sociale sono state ospitate anche le sedi di associazioni e gruppi, sportivi, culturali, sociali, che han-no offerto agli abitanti l’opportunità di conoscere e partecipare alle loro iniziative. Il Centro sociale ha accolto anche e soprattut-to le molte attività, culturali e ricreative, sostenute dalla genialità e dall’impegno di alcune persone che hanno scommesso sulla vitalità del quartiere e hanno contribuito alla sua crescita. Sono state così organizzate varie iniziative, pubbliche e non, che han-no coinvolto le persone a diversi livelli e con modalità diverse.

Molte delle donne del Villaggio ricordano il servizio medico specifico che offriva loro la possibilità di fare qui gli esami dia-gnostici essenziali, senza dover andare in ospedale o negli am-bulatori più lontani. Questo servizio, portato quasi sulla soglia di casa, è stato vissuto come un riconoscimento esplicito dell’im-portanza del loro ruolo. Ne parlavano insieme, convincendo an-che le più perplesse a prendersi cura di sé anche in questo modo. Collegavano a questa attenzione un senso di dignità, che diven-tava così la cifra con cui interpretare i rapporti interpersonali in famiglia, in particolare nella coppia.

Sempre nei primi anni è stata aperta al Centro sociale la biblioteca, succursale della Bertoliana10, la prima Biblioteca di

9. L’INA-Casa considerava prioritaria la presenza del Centro sociale nei quartieri che costruiva tanto che la prima pietra del Centro sociale al Villaggio del Sole è stata posta il 6 giugno del 1959, nella cerimonia di consegna del primo gruppo di 192 appartamenti. Il Centro sociale rappresentava lo sforzo di seguire l’evolu-zione abitativa anche dal punto di vista dell’integrazione sociale: «Si auspicava, in sostanza, che nei quartieri si realizzasse un modello di democrazia partecipata dal basso, incardinata sulle capacità di cooperazione e di autorappresentazione dei propri interessi da parte di piccoli gruppi a base locale. Il progetto traeva fondamento e legittimazione dall’idea di comunità. L’obiettivo autorevolmente indicato agli operatori sociali era infatti “aiutare – dal proprio specifico angolo di intervento – una collettività a trasformarsi progressivamente in comunità”. […] Rispetto alla tradizione italiana dell’assistenza pubblica, si trattava di una inno-vazione radicale: tanto la beneficenza di ispirazione cattolica quanto le politiche sociali del periodo fascista avevano privilegiato gli interventi assistenziali rivolti alle persone o al massimo alle famiglie; con il “servizio sociale di comunità”, come fu chiamato, ci si proponeva invece di intervenire sui modi di vita di gruppi sociali di consistenti dimensioni». (La grande ricostruzione. Il piano INA-Casa e l’Italia degli anni ’50, a cura di Paola Di Biagi, Donzelli ed. Roma 2001, p. 198)10. La Biblioteca pubblica di quartiere del Villaggio del Sole è stata inaugurata il giorno 8 maggio 1965. L’avvocato Guglielmo Cappelletti, presidente del Consor-

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quartiere a Vicenza. Ha avuto un ruolo fondamentale per tutte le iniziative che ha promosso, ma anche a prescindere da ciò che ha realizzato è stata importante la sua stessa presenza. Era motivo di orgoglio quando capitava di parlarne, perché si vedeva nell’aper-tura della biblioteca il riconoscimento di un’esigenza più alta, essenziale, magari inconsapevole ma autentica: leggere, ascolta-re musica, portarsi a casa i libri, adesso diventavano opportunità disponibili per tutti. La presenza della biblioteca all’interno del Villaggio è stata vissuta come promozione sociale, un “lusso” che finalmente si poteva concedersi.

La presenza di un’assistente sociale ha ulteriormente raffor-zato l’immagine del Centro sociale come stimolo alla partecipa-zione. Anche in questo caso il Villaggio ha avuto la fortuna di avere al proprio servizio nei primissimi anni una persona che ha svolto il suo lavoro con professionalità ma anche con dedizione e profonda umanità. Ha contribuito a far maturare la consapevolez-za di sé come comunità civile, non solo come insieme eterogeneo e indistinto di “abitanti”, rendendo meno confuso il gioco sempre ambiguo tra diritti e doveri.

Al Villaggio del Sole anche il prete va in chiesa. Non è una battuta. Nelle vecchie chiese la casa del prete, la canonica, è col-legata direttamente alla chiesa da un passaggio interno. Invece la canonica del Villaggio del Sole si trova in fondo a via Colombo, dove la strada gira, curvandosi attorno al cuore del quartiere11.

zio per la gestione della Biblioteca Civica Bertoliana, aveva detto: «è stato scelto il Centro sociale come sede della biblioteca per favorire la creazione di un centro promozionale di cultura, risorsa per una popolazione di nuovo insediamento, oc-casione di rapporti sociali e mezzo di integrazione alla scuola per gli studenti». (Ranzolin Antonio in Abitare il Villaggio. Memoria e storia, cit., p. 216).11. Il progetto originario prevedeva la chiesa in un’altra zona, più o meno dove attualmente si trova la casa delle opere parrocchiali, oppure anche in alto in po-sizione dominante. Poi la pianta della zona centrale del quartiere è stata modifi-cata. La chiesa è stata costruita con i soldi del bilancio dello stato stanziati dalla legge Romita, del 1954. Era una legge che prevedeva la costruzione di case per eliminare le abitazioni “malsane” e prevedeva anche che nelle nuove borgate ci fossero «gli edifici di carattere sociale, come scuole, asili, chiese, ricreatori». C’è un risvolto poco conosciuto della storia: in realtà i soldi erano stati stanziati per la chiesa del nuovo quartiere che doveva sorgere a San Lazzaro. Però quel quartiere non era ancora nato, il Villaggio del Sole invece sì, e c’erano anche le case previste dalla legge Romita, tra le prime costruite sotto Monte Crocetta

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I preti devono uscire di casa e percorrere questo tratto di strada per venire in chiesa, proprio come tutti gli altri abitanti. Sembra un carattere distintivo di questa comunità, dove, come ha detto un bambino delle elementari, la chiesa è circolare, così da ogni parte tutti possono vederla uguale. Anche i preti. E poi la chiesa così isolata, lontana da tutte le altre case, è come se fosse affidata a ognuno degli abitanti, così come la scuola e il Centro sociale peraltro, cioè i luoghi pubblici, di tutti.

La chiesa del Villaggio è stata costruita quando le case era-no ormai tutte completate e abitate. è stata infatti inaugurata nei primi giorni di ottobre del 1962 ed è dedicata a San Carlo Borro-meo. E poiché all’inizio non c’erano le opere parrocchiali con la canonica, i primi due preti hanno abitato per un certo periodo in un appartamento, come tutti gli altri. Don Gianfranco stava in un appartamento della Bissa, che era anche il suo quartier generale, così era vicino alla chiesetta sistemata nella baracca degli operai, rimasta libera dopo la fine dei lavori. C’è ancora chi si ricorda di essere andato a prendere da qualche parte quanto serviva per rendere agibile come chiesa quella costruzione provvisoria: sedie, altare e anche un pavimento decente, retaggio di qualche chiesa demolita, scovato in curia. Don Antonio abitava in via Malaspina, nell’appartamento poi usato dai medici che, a giorni alterni, face-vano servizio qui. Per tutti è stato un vero inizio e anche uno dei pochi casi in cui la chiesa come comunità di persone è sorta prima della chiesa di mattoni.

La chiesa, anche se agli inizi era solo una baracca, era uno dei posti dove andavano tutti, o quasi. Venendo da tanti luoghi ed esperienze diverse, qui ritrovavano gesti e parole comuni, nel latino a cui erano abituati, anche se lo capivano poco. Il prete era nuovo anche lui, don Gianfranco. Girava in bicicletta, era giova-ne, dinamico, sempre sorridente. Andava a cercare le persone per strada e anche nelle case. Suonava il campanello, chiedeva una collaborazione, una disponibilità di tempo, una partecipazione a qualche iniziativa. Era quasi impossibile sottrarsi, anche perché faceva sentire ciascuno indispensabile per questo o per quello. All’inizio c’era da costruire tutto, anche in senso comunitario. Ogni capacità e abilità, ogni contributo materiale e di idee erano preziosi. C’era un posto e un ruolo per ciascuno, e lui sapeva far-lo emergere. Se questa è stata una comunità di pionieri, lui è stato

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certamente uno dei primi. Qualcuno ha detto di lui che è stato uno dei padri fondatori del Villaggio, non solo come parrocchia. Si sapeva che aveva “studiato tanto”.

Chi c’era si ricorda che le sue prediche avevano molto a che fare con la Bibbia12 che veniva sempre citata e spiegata accu-ratamente anche se si trovava davanti a persone che di Bibbia effettivamente ne sapevano ben poco. Ma don Gianfranco era un precursore in questo campo e frequentava a Roma ambienti innovativi, di quelle novità che poi papa Giovanni avrebbe fat-to emergere col Concilio. Anche la chiesa di San Carlo, di cui è stato ispiratore, riflette nella sua struttura una forte adesione al messaggio e alla simbologia biblica. Basta pensare alla figu-ra della tenda, alla forte valenza assembleare nella disposizione dello spazio interno, allo slancio ascensionale delle spirali della copertura, all’essenzialità dei materiali e degli arredi. Don Gian-franco spiegava ripetutamente valori e simboli dell’edificio, per dare consapevolezza ai gesti e ai riti delle celebrazioni liturgiche, momenti fondamentali della vita della comunità. Per gli abitanti del Villaggio che andavano in chiesa era semplicemente il par-roco, ma si sentiva che le sue “prediche” portavano a scoprire aspetti nuovi di quello che si credeva di conoscere già.

Quando è andato via dal Villaggio, a metà degli anni Settan-ta, ha lasciato una comunità multiforme, attiva e dinamica, pur

12. Don Gianfranco Sacchiero, ancora studente, prima di essere ordinato sacer-dote, aveva fondato insieme ad altri amici l’ABI, Associazione biblica italiana. La Bibbia era per lui oggetto di studio appassionato, tanto che nell’ambiente clericale lo chiamavano “don Bibbia”. Quando è diventato parroco al Villaggio ha continuato a coltivare lo studio della Bibbia, coinvolgendovi anche le per-sone che frequentavano, a vari livelli, la chiesa e la parrocchia. La Bibbia era il riferimento costante della formazione spirituale che cercava di realizzare nella comunità. Per capire il forte valore innovativo di questa sua passione, bisogna ricordare che fino agli anni Sessanta la Bibbia non andava in mano ai semplici fedeli cattolici nella sua integralità. Quello che se ne conosceva era una parte del Nuovo Testamento, specialmente i Vangeli, letti in latino e spiegati dal prete durante la predica, unica parte della messa che non fosse in latino. Sarà il Con-cilio Ecumenico Vaticano Secondo a cambiare le cose. Il Concilio viene aperto il giorno 11 ottobre 1962 da papa Giovanni XXIII e viene chiuso il giorno 8 dicembre 1965 da papa Paolo VI. Soltanto allora si è iniziato a celebrare i riti religiosi nella propria lingua nativa e soltanto allora è stata data la possibilità a tutti i cattolici di leggere l’intera Bibbia.

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nella diversificazione di tendenze e interessi dovuta anche alle trasformazioni ecclesiali e sociali del periodo. Inoltre era riuscito a creare delle strutture materiali, edifici e spazi disponibili per le varie iniziative13. Naturalmente ha fatto degli errori, inevitabili in ogni attività, soprattutto intensa come la sua, e non si è salvato dalle critiche. Ma questo è patrimonio comune, don Gianfran-co non ha fatto eccezione alla regola. Poi, dopo qualche anno è morto, quando era parroco a Magrè, senza fare in tempo a invec-chiare, come se avesse bruciato in fretta tutte le sue energie. Chi ha vissuto quel periodo iniziale ricorda anni intensi e costruttivi, eredità indimenticabile di questo “padre fondatore”, un tempo straordinario, come lo sono spesso gli inizi della vita di una per-sona, di una famiglia, di una comunità.

Il censimento del 1961, che ha contato tutti quelli che c’era-no allora, dice che in Italia c’erano 53 milioni di persone. Nel giro di una decina di anni due milioni di meridionali sono emi-grati a nord. Se teniamo conto che le distruzioni della guerra non erano così lontane nel tempo, si capisce subito che c’era un grande bisogno di case. Quando è stato costruito il Villaggio del Sole era una delle risposte a questo bisogno. Una eccellente ri-sposta, anche perché veniva dopo la costruzione di altri quartieri popolari edificati negli anni immediatamente precedenti, quindi aveva alle spalle l’esperienza e la possibilità del confronto14. Cer-

13. Nel 1975, quando don Gianfranco è stato trasferito, il quartiere era molto diverso rispetto agli anni iniziali. Nel 1962, a febbraio, era stata inaugurata la scuola materna e più tardi la nuova chiesa. Sempre nel 1962, nel mese di ago-sto, era stata aperta la farmacia e si era iniziato a fare il mercato, due volte alla settimana. Il 29 giugno del 1963 erano state inaugurate le “opere parrocchiali”, sede di tante attività e iniziative comunitarie. Era stata costruita anche una sala cinematografica, il campo sportivo, il parco giochi, il sottopasso pedonale di viale del Sole. La comunità aveva dato vita a vari gruppi che animavano le feste religiose e non, una per tutte la festa del geranio, già dal 1961.14. Il Villaggio del Sole è uno dei numerosi quartieri costruiti in base alla legge n. 43 del 28 febbraio 1949, detta anche INA-Casa dall’ente che ne ha curato la realizzazione, o Piano Fanfani, dal nome del ministro del lavoro che l’aveva proposta. La legge era intitolata: Provvedimenti per incrementare l’occupazio-ne operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori e il titolo mette in primo piano i due problemi fondamentali di quel momento, la disoccupazione e la mancanza di abitazioni. Fanfani cerca una soluzione in sintonia con l’articolo 47 della Costituzione italiana: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio

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tamente si è dovuto costruire in altezza per risparmiare spazio. Il sogno della casetta in mezzo al verde, tutta distesa in orizzontale, è più che legittimo, tuttavia non è compatibile con la ristrettezza degli spazi edificabili, soprattutto vicino alle città. Per questo si è costruito in altezza, anche se i condomini del Villaggio sono alti, ma non altissimi. Ancora oggi si può tranquillamente riconoscere che nel quartiere gli spazi sono distribuiti in modo che ci sia “re-spiro” tra un caseggiato e l’altro, nessuno degli edifici opprime quelli vicini e c’è tanto verde tutto intorno alle case, che d’estate sembra di avere un bosco fuori dalle finestre. Nonostante questo, all’epoca, e forse ancora adesso, si parlava spregiativamente dei condomini del Villaggio come di “casermoni” e raramente qual-cuno era disposto a riconoscere che quello del Villaggio era un buon abitare, per tanti motivi. Un po’ dappertutto a quel tempo molte famiglie vivevano ancora senza il bagno in casa, o in case riadattate alla buona, con stanzette poco luminose, col bagno mi-nuscolo, in cortili dissestati. Qualcuno si stava facendo la casetta in economia, magari lontano dal centro del paese, quindi lontano dalla scuola, dalla chiesa, dai negozi, senza comodità di mezzi per spostarsi. Quasi nessuno aveva il gas in casa per cucinare e riscaldarsi, al massimo c’era il fornello con la bombola e la stufa a legna in cucina. Così erano le case del tempo, per la maggior parte delle persone. Non c’erano molte belle case e soprattutto pochi potevano permettersele.

Al Villaggio invece gli appartamenti avevano due, tre o quat-tro camere da letto, a seconda della composizione delle famiglie, le

in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese». Nei quattordici anni di realizzazione del Piano le giornate lavorative nei cantieri INA-Casa sono state 8.649 nel 1958, 15.586 nel 1959, 11.113 nel 1960, per stare al periodo che riguarda più da vicino il Villaggio del Sole. Le case costruite dall’INA-Casa nel Veneto, dal 1951 al 1961 sono state 19.378. La casa nuova e dignitosa è segno di un riscatto socia-le, se non realizzato almeno reso possibile. Così questi quartieri entrano a far parte del paesaggio come uno dei simboli della ricostruzione anche negli aspetti problematici che trascina con sé. Pasolini legge questa realtà quando gira una parte del suo film Mamma Roma, del 1962, in un appartamento del quartiere INA-Casa di Torre Spaccata a Roma. (Fonte Fanfani e la casa, Istituto Luigi Sturzo, Rubbettino editore, Soveria Mannelli 2002).

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stanze erano ampie, luminose, la suddivisione degli spazi era mol-to funzionale, i servizi erano ben strutturati con tutto il necessario, dalla vasca da bagno alla vasca per il bucato. C’erano i poggioli su due lati della casa, uno scantinato spazioso di uso comune per tenervi al riparo biciclette e motorini, una cantina piccola, chiu-sa, dove si potevano riporre attrezzi e dove quasi tutti tenevano il vino, se potevano permettersi di averlo. La chiesa, la scuola e i ne-gozi erano al centro del quartiere, praticamente sotto casa e molto presto ha cominciato a circolare l’autobus per andare in centro e in stazione. Ogni appartamento aveva la caldaia per il riscaldamento autonomo, l’interno era ben rifinito, senza essere raffinato o di lus-so, insomma erano belle case. Ma sulla maggior parte della gente che vedeva le case dall’esterno o che ci entrava a trovare i parenti, il condominio faceva una brutta impressione, come un formicaio o un alveare sovraffollato e rumoroso, diceva qualcuno.

Non si riusciva a capire che essere in tanti sotto lo stesso tetto ha molti aspetti positivi, forse più di quelli negativi. Il con-dominio diventa un organismo vivente che ha un suo ritmo, come se la vita di ciascuno degli abitanti finisse per entrare in sintonia con quella di tutti gli altri. Al mattino escono quelli che vanno al lavoro, poi i ragazzi della scuola, i più piccoli per ultimi. Gli anziani si muovono più tardi, senza fretta. Le porte degli appar-tamenti si aprono e si chiudono quasi allo stesso tempo su questo flusso quotidiano, con variazioni festive e stagionali. Col passare del tempo si impara a riconoscere questo movimento e a sentir-sene parte. La notte è forse il momento più suggestivo, perché la vita delle persone si svolge in gran parte all’interno delle case. I rumori si assomigliano tutti, come se i ritmi vitali fossero davve-ro sintonizzati. è come se la vita di ognuno fosse legata a quella di tutti gli altri, in questa piccola comunità che, scala per scala, vive sotto lo stesso tetto. Condividere lo spazio vitale così stret-tamente, sentirsi parte, implica una faticosa reciprocità di dare e avere,ma è una buona scuola di convivenza. In fondo la terra stessa è un grande condominio.

Al Villaggio, fin dall’inizio, sono state organizzato delle fe-ste, per il gusto di conoscersi, di stare insieme e di divertirsi, un po’ come si faceva alle sagre nei paesi. In primavera c’era la festa del geranio, di cui erano protagoniste soprattutto le donne, che ci mettevano un notevole impegno per fare bella figura nella gara

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tra balconi fioriti. Ognuna aveva i suoi segreti per farli crescere meglio, qualcuna diceva addirittura che bisognava parlare ai fio-ri, dire “belle parole” perché diventassero splendidi. Ogni anno all’inizio della primavera in molte case arrivava Mario, chiamato l’uomo dei fiori, e portava in un sacco il terriccio di bosco, profu-mato di muschio e di foglie secche. Era la terra nuova per i vasi, era uno dei segnali della fine dell’inverno. E le case rifiorivano dai balconi, rivestendo il cemento a festa, la festa del geranio appunto. Altri avevano la festa delle rose, la prerogativa del Vil-laggio del Sole erano i gerani, piante domestiche, robuste e senza tante pretese, che si sporgono dai davanzali e dai poggioli con la luminosità allegra e intensa dei loro colori.

C’era anche la festa di carnevale, con le sfilate dei carri at-traverso il Villaggio. Molti abitanti lavoravano per allestire carri divertenti, dedicandovi tempo e impegno, con veri lampi di ge-nialità. Tante persone ricordano ancora il carro con un enorme Pinocchio, bellissimo, accanto a un autentico banco da falegna-me. Uno dei più attivi animatori di queste occasioni è stato, per molti anni, il “Barba”, Graziano Gennaro, “artista falegname”, come era stato definito. Sempre presente e disponibile, col suo lavoro di preparazione e anche con la sua macchina da presa, i suoi filmini hanno rallegrato tanti incontri, anche se i risultati tecnici non erano proprio da Oscar. Ma dove brillava con la sua presenza, proprio fisicamente, era nel ruolo di babbo Natale, di cui aveva gli occhi azzurri sorridenti, la barba e i capelli ormai bianchi e il pancione, come si dice il fisico del ruolo. I bambini della scuola materna del Villaggio lo conoscevano tutti. Anzi lo riconoscevano. Un giorno uno di loro ha incontrato il Barba al supermercato, con grande gioia e grande sorpresa: «Ma tu sei Babbo Natale! E la slitta dov’è?». E Graziano, serafico: «L’ho lasciata sul tetto». Adesso che il Barba se n’è andato per sempre, chi volesse salire su quella slitta sa dove trovarla.

Nel mese di dicembre del 1962 è stata promulgata la legge che rendeva obbligatoria la frequenza scolastica fino a quattor-dici anni per tutti i ragazzi, con la nuova scuola media unifica-ta15. Questa riforma ha suscitato le reazioni più diverse e anche

15. Con la legge numero 1859 del 31 dicembre 1962 l’obbligo scolastico viene portato a otto anni complessivi, cinque di scuola elementare e tre di scuola me-

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contrastanti, non solo al Villaggio del Sole. Erano ancora pochi i ragazzi che andavano a scuola dopo la quinta elementare. Se-condo il censimento del 1961, in Italia le persone che avevano la licenza elementare erano circa 27 milioni e mezzo, la licenza di scuola media inferiore circa 4 milioni e mezzo, il diploma di scuola superiore meno di 2 milioni, la laurea poco più di mezzo milione. Si può ritenere che anche gli abitanti del Villaggio del Sole fossero compresi dentro questi numeri, né sopra né sotto la media nazionale. Quindi quasi tutti gli adulti che erano venuti ad abitare qui avevano cominciato a lavorare fin da piccoli, alla fine della quinta elementare, che era allora l’obbligo scolastico. Qual-cuno che abitava nei dintorni ricorda che nella vecchia scuola, prima della Colombo, insieme ai ragazzi di quinta frequentavano anche alcuni adulti. In classe c’erano questi grandi, gli “uomi-ni”, che magari a causa della guerra non avevano potuto finire gli studi e negli anni tra il Cinquanta e il Sessanta stavano lì coi bambini per prendersi il diploma di quinta, obbligatorio per poter trovare un lavoro. Molti di quelli che avevano sessant’anni ave-vano alle spalle cinquant’anni di lavoro e cinque anni di scuola. Quando è uscita questa legge, che rendeva obbligatori otto anni di scuola, ha suscitato alcune resistenze e perplessità. Molti dei ragazzi volevano cominciare a lavorare per avere in tasca un po’ di soldi, non avrebbero voluto aspettare ancora tre anni. Anche alcune famiglie facevano già conto sulla paga, benché minima, dei ragazzi. Tuttavia tutti alla fine hanno dovuto accettare l’idea, qualcuno ha anche detto che era ora finalmente. E i ragazzi sono andati tutti alla scuola media, erano stati istituiti per legge an-

dia unificata, fino ai quattordici anni di età; non ci sono più i diversi indirizzi di avviamento professionale e non c’è più quello che veniva chiamato il gin-nasietto in preparazione al liceo. La scelta dell’indirizzo scolastico successivo, in vista del lavoro o della scuola superiore, viene spostata alla fine della scuola media, come avviene ancora attualmente. Così si cerca di attuare al meglio la Costituzione che all’articolo 34 dice: «La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per con-corso». Sull’argomento cfr. Sottil M. Cristina in Abitare il Villaggio. Memoria e storia cit., pp. 252-254.

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che dei doposcuola per chi aveva bisogno di un aiuto negli studi. Dopo è diventato più facile per molti proseguire la scuola andan-do alle superiori, ormai il clima sociale era cambiato. Abitare al Villaggio è stato anche da questo punto di vista un nuovo inizio per molte famiglie.

Prima che ci fosse il Villaggio del Sole con la scuola Colom-bo, i ragazzi che abitavano qui nei dintorni andavano a scuola da qualche altra parte. Qualcuno andava in città, dentro le mura, altri andavano alle Maddalene. La maggior parte però ha frequentato le elementari nella scuola ricavata dentro villa Rota Barbieri, la Casa del Sole16. In tempi di emergenza, sono andati a scuola an-che nella chiesetta della Trinità, a Monte Crocetta. I più grandi aiutavano i bidelli a portare la legna per la stufa e scendevano incontro alle maestre per aiutarle a portare su la bicicletta, so-prattutto una maestra piccola e minuta, chiamata affettuosamente “topolina”. Sono stati a scuola anche nel salone padronale della cascina dei Rizzato. Insomma era una vita pionieristica anche prima del Villaggio da queste parti. Quando sono arrivati quelli del Villaggio, si sono mescolati con questi ragazzi della zona, che non erano molto numerosi. All’inizio le cose non sono state fa-cili. I nuovi arrivati erano molto più numerosi, erano arrivati qui tutti assieme, condividevano l’esperienza di ritrovarsi sulle scale e per le strade in qualunque momento della giornata. Gli altri, pur andando a scuola insieme, si sentivano un po’ emarginati, come una minoranza dentro una comunità più ampia.

In realtà dire “questi e quelli” non ha molto senso. Andando indietro nella storia di questa zona, si scopre infatti che le fami-glie che stavano qui prima del Villaggio, erano anche loro “im-migrate” da altri luoghi, anche se con modalità diverse rispetto a quelle che sono venute ad abitare tra il 1959 e il 1960. Quasi

16. Villa Rota Barbieri ha una lunga storia, è infatti una villa con una torre del 1400. è proprietà del Comune di Vicenza dal 1930 e negli anni del fascismo è stata sfruttata come “solario”, Casa del Sole appunto, per la sua posizione. Qui venivano portati i bambini di salute un po’ gracile per stare al sole e all’aperto in mezzo alla folta vegetazione del parco. Li portavano al mattino con la cor-riera da San Lorenzo e li riportavano in città alla sera. Era una specie di colonia elioterapica, comoda soprattutto per la sua vicinanza alla città. Da questo uso dovrebbe essere derivato il nome di Casa del Sole. Vedi anche Quadri A. L. – Petroni L. in Abitare il Villaggio. Memoria e storia cit. pp. 234-236.

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tutte le famiglie dei due Biron, di viale Trento e dintorni erano arrivate qui tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900, altre un po’ più tardi. Venivano dalla montagna vicentina, dalle campagne del padovano, dai paesi qui intorno. Venivano ad abitare da queste parti perché nella zona a ridosso delle mura cittadine si erano svi-luppate gradualmente molte attività produttive, c’erano fornaci e fonderie, ma anche attività artigianali e commerciali. E poi c’era-no i terreni ai piedi dei colli, terra buona e abbondanza di acqua. Un tempo feudo di grandi famiglie17, poi frammentata in parti più piccole, questa terra è stata lavorata a rotazione da tanti contadi-ni, che poi sono rimasti in zona anche se i loro figli sono andati a fare altri lavori e non hanno più continuato l’attività. I contadini rimasti in zona erano già pochi allora, col passare degli anni ne sono rimasti soltanto alcuni a continuare l’attività, anche perché i terreni agricoli sono stati ridotti. I figli di queste famiglie, in gran parte, sono andati a scuola e hanno fatto altri mestieri, proprio come quelli delle famiglie nuove arrivate al Villaggio.

Ragazzi e ragazze avevano tanti punti di riferimento comuni che hanno finito col cancellare le differenze tra vecchi e nuovi. Hanno cominciato fin dall’inizio a giocare insieme nelle varie

17. L’attività costante di una popolazione attiva e dinamica trova conferma anche nella presenza in zona di numerose ville. Lungo la strada delle Cattane si trova la villa quattrocentesca delle Cattane, detta la Colombara. In Biron di Sotto, accanto al Dioma, c’è il Barco Zileri Dal Verme, una villa del 1400 anche questa, poi trasformata nel 1600. A Monte Crocetta si trova villa Rota Barbieri con elementi del 1400. Lungo la strada del Biron di Sopra, ci sono villa Checato che sembra essere del 1500, villa Zileri Dal Verme, che risale alla fine del 1600 o agli inizi del 1700 e villa Zaccaria, del 1800. In fondo alla strada di Monte Crocetta, verso Maddalene, c’è il complesso delle Case Dal Martello, molto antico e imponente. Lungo la strada delle Beregane si trova villa Panizza, del 1800 e poi villa Beregan, Ca’ Beregane, costituita da varie parti, che presenta alcuni caratteri del 1500. All’incrocio del Biron di Sopra con la Strada del Pa-subio c’è villa Ferrari, ora Chiodi, del 1700. Salendo lungo Strada vicinale di Monte Crocetta si trovano villa Repeta (ora Beretta) di origine gotica, Casa Dal Maso, forse del 1600/1700, e la chiesetta della Trinità, della fine del 1500. Non lontano dal Villaggio, in comune di Monteviale, c’è villa Loschi Zileri Motter-le. Il territorio della villa è diventato proprietà della famiglia Loschi nel 1436, in permuta dai monaci di San Felice. La storia della villa e della sua chiesetta, è intrecciata con la vita degli abitanti dei due Biron e della zona circostante. (Fonte Scritti e immagini, Biblioteca pubblica del Villaggio del Sole, Vicenza 1989, pp. 23 e ss).

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squadre, soprattutto di calcio e di pallavolo, tra di loro e con squa-dre di altri quartieri. Sono andati insieme in montagna, al cam-peggio, col prete dei ragazzi, che di solito era uno dei due vice del parroco, i cappellani, come venivano chiamati. Quella dei cam-peggi è stata un’esperienza molto importante, perché consentiva ai ragazzi di fare vacanze insieme, di stare fuori dalla famiglia, di avere altri adulti come riferimento invece dei genitori. Agli inizi era tutto molto spartano. Alloggiavano in qualche casa, solo più tardi hanno avuto le tende. Facevano lunghissime camminate che occupavano la maggior parte del tempo, e, a parte gli acquazzoni e qualche scivolone per i più maldestri, non si sono mai create situazioni rischiose, nessuno si è mai fatto male sul serio. Anche il cibo inizialmente era molto semplice, con grandi scorpacciate di pane e mortadella, pane e marmellata. Però ad un certo pun-to sono saliti in montagna insieme ai ragazzi anche degli adulti, che preparavano da mangiare, e le cose sono molto migliorate. Quando salivano anche le donne, o meglio ancora una coppia, si mangiava quasi come al ristorante. Molti ricordano che in quei primi anni saliva con loro come adulto/cuoco Gildo Maltauro, che era proprio al campeggio quando ha avuto il malore di cui poi è morto. è rimasto nel ricordo dei ragazzi di allora, insieme ad altre persone che hanno contribuito, ognuno per la sua parte, a costruire il Villaggio come comunità. Un po’ tutti quelli che erano ragazzi allora sono passati ai Fiorentini, hanno alloggiato anche nell’albergo che si trova sulla strada, quando era ancora in costruzione18. Alla domenica andavano su le famiglie, come una festa del Villaggio fuori dai suoi confini. Quando le cose si sono organizzate meglio dal punto di vista “logistico” l’esperienza del campeggio si è estesa ai più giovani, e anche a gruppi di famiglie. Alcune di queste attività continuano ancora.

18. I campeggi, sia pure soltanto con qualche gruppo di ragazzi, sono stati fatti fin dall’inizio. Qualcuno ricorda alcune date e alcuni luoghi, come per esempio nel 1963 ai Fiorentini, nell’albergo ancora in costruzione con don Gianfranco e nel 1964 nello stesso posto con don Filippo. Nel 1965 ancora con don Filippo vicino a passo Vezzena con le tende e nel 1966 a Pozza di Fassa. Nel 1967 a Campitello di Fassa con don Roberto, nel 1968 a S. Antonio di Mavignola, nel 1969 a villa Welsberg con don Pino, nel 1970 a Campitello di Fassa sempre con don Pino. Questo riguarda i primi anni e un gruppo ristretto, ma le esperienze sono state diverse.

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I ragazzi hanno attraversato insieme, nei vari gruppi che si formavano spontaneamente, ma anche nei gruppi organizzati, gli anni Sessanta e Settanta, compreso il Sessantotto. Sono gli anni in cui le “compagnie” giovanili diventano sempre più forme di appartenenza identitaria, anche in senso politico e alcuni dei grup-pi organizzati si disgregano. Qualcuno degli adulti ha provato a camminare con loro, qualcuno dei preti specialmente. Ma il loro passo era diverso, ormai, e le strade si sono divaricate19. Molti di quelli che erano arrivati qui da ragazzini avevano trovato i propri riferimenti altrove, come è accaduto un po’ dovunque, perché il clima politico e sociale generale era cambiato. Queste trasforma-zioni si coglievano anche in alcuni comportamenti diffusi, pura-mente esteriori, a cui però veniva attribuita una notevole impor-tanza come segno di qualcosa di più profondo. Molti dei ragazzi portavano i capelli lunghi e indossavano l’eskimo. Quando erano insieme sembravano indistinguibili, tutti vestiti allo stesso modo, come una divisa. Molte delle ragazze rivendicavano la possibilità di scegliersi modi di vivere inediti, sconosciuti e inaccettabili per la generazione delle loro mamme. Il tempo ha poi notevolmente ridimensionato alcuni di questi atteggiamenti, le cose sono cam-biate di nuovo, come avviene in ogni realtà viva. Ma le tracce di questi passaggi generazionali sono comunque rimaste nella vita di tante famiglie e anche nel quartiere.

A cavallo degli anni Ottanta il Villaggio ha vissuto un perio-do molto difficile, è stato colpito pesantemente dalla diffusione della droga. Qualcuno che allora era ragazzo e abitava poco lon-

19. Don Gianfranco ha lasciato su questo periodo una sofferta riflessione quan-do, lasciando il Villaggio, ha ricostruito il cammino fatto insieme alla comunità negli anni trascorsi qui: «Un momento che merita di essere letto è il dissenso nei gruppi giovanili. La tensione si è manifestata sul modo di vedere la Chiesa: i giovani volevano vedere in essa una forte accentuazione sociale. Invece le prospettive che si presentavano avevano una accentuazione più spirituale. è stata una tensione che potrebbe essere stata meglio capita se fossimo stati più attenti a coglierne il significato… Se questa esperienza è stata amara e soffer-ta, essa ha avuto una dimensione di positività. Vorrei dire a tutti i giovani che si sono stancati che sarebbe necessario un confronto, non per scontrarsi, ma per scoprire e accettare quello che di positivo si può mettere in comune».(Don Gianfranco Sacchiero, Villaggio del Sole,15 anni di vita di una comunità par-rocchiale, Vicenza 1976, p. 23).

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tano, dentro le mura in città, ricorda che in famiglia veniva assil-lato da continue raccomandazioni e aveva la proibizione assoluta di frequentare il Villaggio, proprio perché qui c’erano molti che spacciavano e si drogavano. Ed era vero, purtroppo, questa volta non era solo una maldicenza gratuita20.

Viene da chiedersi che cosa abbia determinato questa pre-senza massiccia del fenomeno della droga proprio qui, perché di droga ne girava dappertutto, non solo al Villaggio, ma qui c’è stata una diffusione più ampia, una concentrazione più intensa. Si può ritenere, anche sulla base di ragionamenti fatti tra gli stessi abitanti, che l’elemento determinante sia stata l’alta percentuale di giovani: se agli inizi questo era un quartiere pieno di bam-bini, che erano qualche centinaio nella scuola elementare, dopo vent’anni era pieno di giovani, necessariamente. Ed erano gio-vani abbastanza autonomi, indipendenti anche rispetto alla fami-glia, si muovevano con libertà in uno spazio che avevano sempre vissuto come proprio. Molti sono caduti in questa trappola, per i motivi più diversi, senza che tra loro ci fosse un denominatore comune. Erano ragazzi di cui si conoscevano le famiglie, uguali a tante altre, nel bene e nel male, fratelli di altri fratelli che pure ne sono rimasti fuori. Gran parte delle famiglie colpite si è trovata in questa situazione senza rendersene conto. Qualche mamma anda-va a chiedere informazioni dal dottore, dal prete, dal farmacista,

20. Purtroppo la droga girava dovunque, tanto che il Comune di Vicenza ha promosso diverse iniziative all’interno di un progetto di interventi per i giovani, soprattutto a partire dai primi anni Ottanta. In particolare nella circoscrizione 6 il Consiglio di circoscrizione, in una seduta del 23 novembre 1982 delibera la costituzione di un coordinamento sotto forma di gruppo di lavoro proprio sul problema della tossicodipendenza e dello spaccio di droga nei quartieri. Il 12 aprile 1983 viene costituito un gruppo di studio sulla tossicodipendenza, col compito di promuovere e organizzare iniziative per sensibilizzare la popolazio-ne e per lo studio e la prevenzione del fenomeno. Il progetto procede negli anni successivi, il gruppo assumerà poi il nome di “Gruppo di studio per le realtà socio-giovanili”, proprio perché intende affrontare il problema dei giovani nella sua complessità, di cui la tossicodipendenza è solo uno degli aspetti. Vengono coinvolti i genitori attraverso incontri che spiegano e informano. Per i ragaz-zi vengono promosse attività formative di vario genere, culturali, ricreative e sportive, partendo dalle scuole. Anche le comunità parrocchiali sono impegnate in prima persona. Si tratta soprattutto di restare uniti e di affrontare la paura di questa nuova realtà imparando a gestirla consapevolmente.

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cercando di capire. Molti si sono accorti troppo tardi di quello che stava succedendo. Tutti hanno vissuto questa tragedia, coin-volti più o meno direttamente, perché nel quartiere in quegli anni nessuno era estraneo a nessuno.

Poi, quando ci sono stati i primi morti, è stato come se qual-cosa fosse imploso. Nella disperazione delle famiglie più colpite, si è cominciato a cercare dei responsabili tra coloro che vivevano maggiormente in mezzo ai ragazzi, quelli che dovevano sapere o non potevano non sapere e non erano intervenuti in modo effi-cace. Si è vissuto un periodo teso, lacerato, di grande incertezza e paura, perché la tragedia poteva capitare a chiunque, tutte la famiglie si sentivano a rischio.

Ma proprio qui ha funzionato qualcosa che forse ha aiutato tutti a vivere questo tempo senza esserne travolti. Non ci sono stati episodi di emarginazione, di esclusione, di isolamento. I ra-gazzi hanno continuato a stare insieme, li si vedeva nei punti di ritrovo abituali, dove da sempre ci si ritrovava qui al Villaggio. Si andava a trovare quelli che erano ricoverati in ospedale e anche quelli che erano finiti in prigione. Come in una famiglia il dolore era di tutti, di tutti la volontà di portare dentro di sé il disagio, di non negarlo. Questo non ha potuto salvare tutti, ma certamente ha contribuito a tenere unite le persone. L’esperienza che il quar-tiere ha attraversato si è trasformata in una attenta riflessione e in una elaborazione di proposte, che allora non erano così scontate. Molte delle iniziative che sono nate per contrastare il fenomeno della droga sono scaturite proprio da questa presa di coscienza condivisa.

Villaggio dei fachiri, villaggio dei drogati, ci mancava solo che a qualcuno venisse in mente di occupare villa Rota Barbieri per farne un Centro sociale, o qualcosa di analogo. La maggior parte degli abitanti non ha mai capito molto di quello che è suc-cesso lassù in quel periodo, c’è come l’impressione di una certa estraneità, così ci si è affrettati a dire che gli occupanti “veniva-no da fuori”, come si dice in questi casi, prendendo le distanze. Siamo agli anni Ottanta ed è capitato anche questo al Villaggio. La Casa del Sole ha vissuto tante vite. Una volta diventata di proprietà pubblica, era stata colonia elioterapica durante il fasci-smo, scuola elementare nel secondo dopoguerra per i ragazzi dei dintorni, aveva ospitato gli sfollati del Polesine negli anni Cin-

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quanta ed era stata la prima scuola materna del quartiere. Poi era stata centro estivo per le attività ricreative. Alla fine l’occupazio-ne di questi giovani, che però non era più qualcosa del quartiere21. Quando questi occupanti sono stati sgomberati, la casa è rimasta vuota per un po’, poi è diventata centro diurno per i malati di Alzheimer. Insomma ancora qualcosa di estraneo dal punto di vista di chi abita qui: che c’entra col quartiere quello che avviene lassù, visto che tutto si svolge dietro un cancello chiuso? Quando ci salivano i bambini per l’asilo o i ragazzi d’estate la cosa ri-guardava tutti, adesso si attende solo la prossima trasformazione. Intanto la villa sta lì in mezzo al verde del suo parco e ogni tanto ci salgono i bambini della scuola elementare con le loro maestre per scoprire la vita e la storia delle sue piante.

Le piante appunto. Al Villaggio del Sole ce ne sono mol-te, ai margini del quartiere e negli spazi tra le case, al parco e nei giardinetti condominiali. Sono parte del paesaggio domesti-co, che sarebbe impensabile senza tutto questo verde. Gli alberi che circondano i condomini, in testa e in coda alla Bissa, tra le case del pettine, nel parco giochi, in via Cadamosto, accanto alla scuola, alla chiesa, alle altre case, non sono le nobili piante dei grandi parchi, sono anche un po’ disordinate nella disposizione e negli accostamenti, ma offrono tanto verde e ombra. Soprattut-to segnano le stagioni con le variazioni del fogliame e ospitano moltissimi uccelli che nidificano sui rami, riempiono di voli e cinguettii il cielo tra le case, mattina e sera, tenendo compagnia soprattutto a molti anziani che passano parte del tempo seduti sul poggiolo, d’estate. Non è sempre stata facile la vita delle piante al Villaggio, perché all’inizio i ragazzi ci giocavano, spezzavano i rami per farne archi e spade, calpestavano l’erba e gli arbusti, facevano buchi nelle siepi. A un certo punto i capiscala si sono incontrati e hanno deciso di “affidare” la custodia delle piante e

21. «Il Comitato di quartiere, in collaborazione con le varie associazioni, tentò l’autogestione della struttura. Era ormai l’epoca del “movimento del 1977”, pe-riodo di proteste e di contestazioni giovanili, ma anche di tensioni e di violenze; erano gli anni del diffondersi e dilagare dell’eroina tra i ragazzi. Nella prima-vera del 1979 la Casa del Sole venne occupata da gruppi di autonomi della città che, di fatto, espropriarono il quartiere di questo spazio». (Quadri A. L.- Petroni L. in Abitare il Villaggio. Memoria e storia, cit., p. 236).

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del verde alle famiglie, che ne diventavano così responsabili. La guerra dei ragazzi con le piante è finita. Sono state adottate, da allora fanno parte dello spazio familiare.

Alcune le hanno piantate gli abitanti stessi. Nei giardinetti sotto casa qualcuno ha messo giù tanti anni fa un piccolo abete natalizio. Era stato acquistato per i bambini e passate le feste era ancora così vivo e vitale che sembrava uno spreco lasciarlo morire. Una volta piantato è stato così felice di crescere che si è dovuto tagliargli la cima quando si è affacciato alle finestre del quarto piano, ma sarebbe andato ancora più su, se si fosse la-sciato andare. Era un’abitudine, tanto che, negli anni degli inizi, molti degli alberelli usati per Natale, alla fine delle feste veniva-no recuperati, portati ai padri saveriani di viale Trento e piantati nello spazio ampio che c’era allora all’interno dell’istituto, fino a formare un bel boschetto.

I giardinetti attorno ai condomini sono molto curati, quasi sempre sono gli abitanti a occuparsene. Qualcuno si prende cura anche degli alberi che sono negli spazi pubblici. La responsabile per il comune del verde pubblico, in uno dei suoi giri per stabilire gli eventuali interventi da programmare, ha visto un uomo su una scala molto alta, che stava potando con cura un grosso albero. Quando gli ha fatto notare che era un lavoro pericoloso e che comunque era compito degli incaricati, si è sentita rispondere che lui aveva sempre curato questa pianta, come fosse perfetta-mente normale occuparsi di ciò che si trova fuori della propria porta di casa ma dentro il proprio quartiere. Così quando un tratto della siepe di recinzione nella zona del mercato è rimasto vuoto e quelli del comune sono venuti a vedere, qualcuno ci aveva già piantato un piccolo abete, proprio come si farebbe nel giardino di casa propria.

C’è anche chi brontola perché in qualche spazio di verde sono state piantate le verze o i pomodori, a seconda delle sta-gioni, e queste non sono propriamente piante ornamentali. Però forse fa parte del nostro retaggio contadino il piacere di veder crescere qualcosa dalla terra. Anche per questo le donne del Vil-laggio, all’inizio, hanno riempito i balconi di vasi di fiori.

I moltissimi bambini degli inizi hanno fatto come le piante: sono cresciuti e si sono trovati benissimo qui, con molti com-pagni di giochi e di avventure a portata di… campanello. I loro

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fratelli maggiori invece, quelli che avevano qualche anno di più, venendo ad abitare al Villaggio, avevano dovuto abbandonare amici e amiche, relazioni appena sbocciate e interrotte dal tra-sloco familiare. Non c’erano molte macchine, allora, e non ave-vano nemmeno il telefono per mantenere vivi dei rapporti con le persone lontane. Per fortuna qui si sono incontrati con tanti altri della stessa età, con aspettative comuni e condivise. Anda-vano a scuola insieme, uscivano per il quartiere, frequentavano gli stessi ambienti, all’inizio soprattutto la parrocchia, ma poi an-che il Centro sociale, i vari gruppi, la biblioteca. C’era un gran movimento di giovani, alla sera dopo cena e alla festa, perché il quartiere offriva uno spazio aperto e protetto a tutti, comprese le ragazze. Soprattutto c’erano attività comuni che coinvolgevano senza distinzioni e creavano occasioni continue per stare insie-me. Di quei primi anni si può allora ricordare anche che al Vil-laggio sono nate tante nuove coppie e famiglie, e nella chiesa di San Carlo sono stati celebrati molti matrimoni, era una ricorrenza frequente, quasi come adesso i funerali, come dice malignamente qualcuno. Così le famiglie che abitano nel quartiere si sono impa-rentate fra loro e i legami si sono rinsaldati. I consuoceri abitano magari sulla stessa scala o nel condominio vicino. Se si tirassero dei fili a collegare tra loro le case legate da questa nuova paren-tela si formerebbe una rete che ricopre e avvolge gran parte del Villaggio, compresa la Produttività, via Marco Polo, i due Biron e le altre strade dei dintorni.

Queste nuove coppie e famiglie, che erano nate qui, raramente sono rimaste al Villaggio, perché non c’erano case per tutti. Qui non c’è stata espansione edilizia. Fuori dal Villaggio sì, ma al suo interno no, quindi i giovani sposi, le famiglie nuove, se ne sono andate, si sono sistemate altrove, eccetto pochi casi per circostanze fortuite. Qui sono rimasti i genitori, ormai nonni, il ceppo su cui tutto il resto è cresciuto. Quelli che se ne sono andati vivono altro-ve, di qualcuno si sa, della maggior parte si sono perse le tracce. Chissà cosa succederebbe se si lanciasse un appello per fare una grande rimpatriata, forse le nostre strade non basterebbero a con-tenere tutti, perché i quattromila, circa, degli inizi, si sono molti-plicati nel tempo. Certo molte delle persone anziane sono morte e mancherebbero a questa “conta”, ma la loro memoria fa parte della vita di tutti gli altri, è la loro presenza nell’assenza fisica.

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Nelle vicinanze del Villaggio c’è stata, fin dagli inizi, la presenza di un gruppo di rom22, ormai divenuti stanziali, nel campo di via Diaz e in fondo al Biron di Sopra.. A mano a mano che i figli si sono sposati e sistemati quasi tutti altrove, sono rimaste solo alcune famiglie. I loro ragazzi hanno frequentato e frequentano tuttora la scuola elementare Colombo e poi le medie alla Calderari. Negli ultimi anni qualcuno dei ragazzi è andato anche alla scuola superiore. Uno dei più anziani, un po’ il patriarca del campo di via Diaz, era frequentemente al Villaggio, con la sua bicicletta. Era diventato una figura fami-liare e quando è morto qualcuno della comunità è andato al suo funerale, che è il modo più riconoscibile per farsi “vici-ni”, così come qualcuno di loro viene ai funerali quando muore una persona del Villaggio che hanno conosciuto. Molti dei loro morti sono sepolti al cimitero di Settecà. Le loro tombe sono in mezzo a tutte le altre ma sono riconoscibili per la cura con cui sono tenute.

I rom, o zingari come vengono generalmente chiamati, sono stati per molto tempo gli unici “stranieri”, così sono considera-

22. In Italia ci sono attualmente circa 150.000 cosiddetti nomadi, divisi tra Rom, Sinti e Camminanti. In realtà sono quasi tutti stanziali, a parte alcuni gruppi di giostrai e calderari. Sembra che siano popoli di antica origine indiana e sono arrivati in Europa, nella zona dei Balcani e del Danubio, intorno al 1000, dopo aver attraversato Afganistan, Persia, Siria, Armenia. Vari gruppi sono passati in Egitto. Parole di lingue diverse presenti nella loro lingua, aiutano a ricostruire le tappe di questa infinita migrazione. In Romania sono resi schiavi o servi della gleba dalla fine del 1300 fino a tutta la prima metà del 1800, questa schiavitù viene abolita nel 1855/56, ben oltre l’Illuminismo e la rivoluzione francese. Sono presenti in tutta Europa, quasi sempre messi al bando oppure annullati come popolo attraverso forme di assimilazione e di cancellazione del-le loro identità. In Italia li troviamo a Bologna, nel 1422, e a Forlì, in cammino verso Roma. Da allora si sono diffusi in tutto il territorio italiano, non senza reciproche difficoltà di convivenza con gli abitanti. Insieme agli ebrei sono stati l’unico popolo vittima di sterminio razziale nel periodo del nazifascismo, tra il 1938 e il 1945. Deportati nei campi di sterminio o massacrati nei paesi occupati dai nazisti, sono morti in 500.000 circa, in quello che gli ebrei chia-mano “olocausto” e loro chiamano “porrajmos”, distruzione. (Fonte Virginia Donati, Porrajmos. La persecuzione razziale dei Rom-Sinti durante il periodo nazi-fascista, Istituto di Cultura Sinta, Mantova 2003; Pinuccia Scaramuzzetti, Gruppo ecclesiale veronese fra i Rom e i Sinti, Ando Bura. Un popolo fra noi: i Rom e i Sinti, Centro Missionario Diocesano, Verona 1999).

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ti, anche se in realtà molti di loro sono italiani. La loro presen-za è stata una delle poche occasioni di contatto con la diversità per molti anni, per generazioni. Quando tutti si viaggiava poco, questi che si spostavano con le loro “carovane” erano veramente qualcosa di strano e inquietante per la nostra capacità di com-prensione. Evocavano lontananze indefinibili, non si riusciva a collocarli con precisione dentro i limiti del mondo conosciuto, come se venissero da un’altra dimensione, suscitavano curiosità e sospetto. Su di loro circolavano un tempo tante dicerie, come su tutto quello che è considerato strano e diverso. Qui al Villaggio i loro figli sono stati in classe con i ragazzi del quartiere, alcuni, cattolici, hanno frequentato anche la parrocchia per i sacramenti e forse si è capito o imparato qualcosa di più sul loro mondo e sul loro modo di vivere. Le maestre delle elementari e le catechi-ste hanno fatto da tramite in questo cammino di avvicinamento reciproco. Raramente qualcuno del Villaggio si è lamentato di questa presenza diversa ai “confini” del quartiere, forse perché sono qui fin dalle origini, o forse perché anche gli abitanti del Villaggio sono stati considerati come “diversi” in alcuni momenti della loro storia.

Da qualche anno, in modo particolare dagli anni Novanta, al Villaggio sono arrivati altri “diversi”, questa volta stranieri per davvero, di quelli che vengono da altre nazioni del mondo. Molte delle case sono rimaste vuote, alla morte dei vecchi, dato che i figli sono ormai sistemati altrove. Così, piano piano, sono entrati nei condomini questi nuovi vicini. Se si guardano i nomi sui campanelli si può fare il giro del mondo con la fantasia, perché ce ne sono di tante provenienze diverse, come quando da bambini si faceva questo gioco con le targhe delle macchine e dei camion che passavano sulle nostre strade più trafficate. Da alcune “postazioni” fisse sui grossi paracarri di pietra, si scriveva la sigla delle targhe e poi si mettevano tutte in fila per contare quante macchine di Milano, di Padova, di Vicenza, erano passate. Con le targhe straniere c’era qualche problema di identificazione, ma si riconosceva senza incertezze la Francia, la Germania e la Svizzera. Forse perché erano le stesse sigle impresse sulle lettere che arrivavano dagli emigrati italiani che vivevano in quei posti. Anche così si imparava a conoscere il mondo grande e straniero.

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Gli stranieri sono attualmente più del trenta per cento de-gli abitanti del Villaggio23. Vengono dall’altra sponda del mare Adriatico, da paesi dell’Europa dell’Est, dell’Asia, dell’Africa, dell’America meridionale. Sono disseminati nei vari condomini, ormai sono una presenza familiare di cui non ci si stupisce più come avveniva all’inizio.

Arrivano generalmente con le loro famiglie, acquistano l’ap-partamento col mutuo, molto spesso vengono da lunghi periodi di difficoltà nella ricerca di una sistemazione, hanno i figli da tirar su al meglio, lavorano per questo, proprio come è capitato ai primi arrivati qui tanti anni fa. Si riapre con loro un ciclo ormai chiuso per quasi tutti i vecchi abitanti del Villaggio.

Se si osserva l’uscita dei ragazzi dalla scuola elementare si vedono genitori di varie provenienze, che si distinguono per il di-verso colore della pelle e per i diversi modi di vestire, soprattutto le donne. I bambini escono tenendosi per mano, in fila per due, e si lasciano mettendosi d’accordo per ritrovarsi qua o là a giocare. Fa impressione sentire l’accento veneto in un ragazzino nero o asiatico. Cominciano a sbocconcellare la merenda appena fuori dal cancello, così quando tutto è tornato tranquillo arrivano gli uccelli a beccare le briciole. C’è un tempo e uno spazio proprio per tutti al Villaggio.

Da quando sono arrivati questi stranieri, sembra che il mondo si sia come rimpicciolito. Ogni volta che si sente in te-levisione che c’è stato un incidente ferroviario in India, un’al-luvione nel Bangladesh, un terremoto in America Latina, o una delle tante rivolte o guerre in qualche parte del mondo, si pensa che l’indiano, il cinese, il bengalese, il cingalese, l’africano, che abitano nei nostri condomini o che incontriamo per le nostre strade, possono avere dei familiari e degli amici coinvolti in queste tragedie, e magari riconoscono i posti mentre stanno ve-

23. Secondo i dati dell’Ufficio Anagrafe del Comune di Vicenza, aggiornati al 31 dicembre 2008 gli stranieri nel quartiere sono 809, su una popolazione totale di 3.256 abitanti, cioè il 24,85%. Sono distribuiti un po’ dovunque ma abitano soprattutto nei condomini INA-Casa, dove sono 441 su 1.238 abitanti, cioè il 35,63%. In base alla loro provenienza sono: 232 da 13 stati dell’Africa, 25 da 8 stati delle Americhe, 237 da 5 stati dell’Asia, 278 da 9 stati dell’Europa che non fanno parte dell’Unione europea e 35 da 7 stati dell’Unione europea.

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dendo anche loro la televisione. Il mondo tutto intero è dentro al Villaggio ormai.

«Anche noi all’inizio non avevamo la macchina, porta pa-zienza, te la comprerai anche tu un giorno», ha detto una signora anziana al suo giovane vicino di casa africano che si lamenta-va del freddo andando via in bicicletta. Lo ha detto con affetto, come un incoraggiamento, c’era la sua esperienza dentro queste parole.

Una ragazza nordafricana racconta che ha voluto a tutti i co-sti lasciare il suo paese per cercare delle opportunità migliori per il suo futuro. Nella scuola che ha frequentato fino a diciotto anni, si è innamorata di un giovane insegnante europeo e ha creduto di poter venire in Europa con lui. Ma poi è arrivata la moglie del professore e se lo è riportato via. Lei ha dovuto trovare un’altra strada per venire in Europa, e siccome era molto determinata ci è riuscita. Ne parla con orgoglio, come di una conquista. Persone come questa hanno veramente una marcia in più.

Un cinese, piccolo commerciante, si è presentato a vedere un appartamento in vendita, in via Marco Polo, in un condominio con l’ascensore, un bell’appartamento, spazioso e luminoso. Ma ha detto di no, non lo compera, perché ci sono troppi extracomu-nitari su questa scala, dice il cinese, dopo aver osservato i nomi sui campanelli. C’è da chiedersi chi sia straniero rispetto a chi, o forse bisogna dire che, su questo punto, tutto il mondo è paese, Cina compresa.

Una brava ragazza africana aveva sposato l’uomo scelto dal-la sua famiglia, secondo tradizione. Era un uomo buono e bravo, gran lavoratore, tutto casa e lavoro, e le voleva bene,le garantiva una vita veramente dignitosa. Ma lei lo ha lasciato ed è venuta in Italia da sola, dapprima come clandestina e poi regolarizzata. Adesso lavora, guida la macchina e si è comprata la casa, col mutuo. «Mio marito non aveva sogni», dice semplicemente.

Un bengalese che abita a poca distanza dal Villaggio, con mo-glie e bambini, è venuto in Italia alcuni anni fa, da clandestino, poi regolarizzato. In Bangladesh era studente all’università, adesso lavora in fabbrica come operaio metalmeccanico e si trova bene. Della sua difficile esperienza iniziale ricorda con angoscia soprat-tutto che, non sapendo la lingua italiana, non riusciva a farsi capire. Dice: «Non ero capace di spiegarmi. Non potevo neanche dire di

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che cosa avevo bisogno. Ero come chiuso dentro di me, con i miei pensieri imprigionati». Dice che questa è stata la sofferenza più pesante da sopportare, tanto che quando ha imparato a parlare ita-liano è stata per lui come una seconda nascita.

C’è anche qualcuno che impara a comprendere quasi tutto quello che sente dire intorno a sé, anche se non parla ancora bene la nostra lingua. Come è capitato a un immigrato marocchino, che a un certo punto ha capito quello che il suo datore di lavoro diceva di lui: «Quello lì è stupido ma lavora come una bestia, per questo lo tengo». Lui ha taciuto, perché le uniche parole che gli venivano in mente in quel momento erano parolacce, le prime che era riuscito a imparare dai suoi compagni di lavoro italiani.

Un africano, sull’autobus numero cinque, non capiva quello che il controllore gli diceva in dialetto. Una signora anziana ha fatto gentilmente da interprete “traducendo” in italiano. L’africa-no ha capito e ha risposto correttamente in italiano, con un forte accento meridionale. Sono veramente molte le sfumature della lingua su questo fazzoletto di terra che si chiama Italia.

Una signora asiatica esce sempre e solo accompagnata dal figlio più grande. Non per essere protetta, il figlio più grande infatti è un bambino di dieci anni, e anche mingherlino. Però lui va a scuola e sa perfettamente l’italiano, le fa da interprete. Il medico, che se lo è trovato di fronte, era un po’ a disagio, l’ultima volta, quando gli ha dovuto spiegare qualcosa sulla gravidanza della madre. Ma il bambino, attentissimo alle sue parole, si è fatto ripetere bene la faccenda e poi con tranquillità l’ha tradotta per la madre. Nessuno sa come sarà il futuro di questi bambini, che vivono nella “terra di mezzo” tra due mondi, ma certo sarà ricco di questa doppia appartenenza.

Un nordafricano che vive qui da parecchi anni, affronta l’en-nesima traversia perché l’azienda per cui lavorava ha dichiarato fallimento. Ha fiducia nonostante tutto, perché ormai ha espe-rienza di queste situazioni. Ma anche perché è convinto che tutto sia già scritto e quello che deve accadere accade: «Questo caffè che sto bevendo – dice – era riservato a me da sempre, anche se io non lo sapevo».

C’è un africano della Costa d’Avorio che da quando è in Ita-lia, da più di dieci anni, ha continuato a studiare, prima le supe-riori a scuola serale, adesso l’università come studente lavora-

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tore. Lavora in un’industria, fa i turni anche di notte per poter andare a lezione. «Voglio capire studiando la vostra storia cosa ha reso così dominante la vostra civiltà in tutto il mondo», dice. Forse alla fine degli studi avrà capito o forse no, ma poco impor-ta, perché uno così è già cittadino del mondo.

Una signora anziana, alla Bissa, dice che ha paura, perché ha visto sul pianerottolo gli stranieri che abitano di fronte, ma non erano gli stessi di qualche settimana prima. Ecco uno dei problemi che abbiamo noi, dice, perché io avevo appena impa-rato a conoscerli e sono già cambiati. Noi qui quando siamo ar-rivati siamo stati insieme per tanti anni, anzi, qualcuno è andato via solo quando è morto. Certo, è veramente un problema per chi vive sul filo dell’abitudine affrontare il cambiamento con-tinuo fuori dalla porta di casa. Così come può essere fastidioso il vociare dei bambini e la confusione dei loro giochi sulle scale o nell’appartamento vicino. Al pettine una signora che vive qui fin dagli inizi protesta con gli africani del piano di sopra, troppo rumorosi, «Sono maleducati», dice. Forse può essere istruttivo ricordare quante volte questa stessa cosa è stata detta dei ragazzi che abitavano qui dagli inizi: erano anche loro maleducati, bat-tevano i piedi, ascoltavano musica a tutto volume, vedevano in-sieme le partite, giocavano a carte con gli amici fino alle due del mattino. C’era sempre qualcuno del piano di sotto che picchiava col manico della scopa sul pavimento. E c’era sempre qualche mamma che si alzava in camicia da notte a brontolare perché di là in camera non si riusciva a dormire. Se i più giovani, italiani o stranieri, hanno sempre disturbato i più anziani, forse non dipen-de solo dal colore della pelle.

Una vecchia signora è rimasta sola dopo la morte del marito. D’estate stava sul poggiolo fino a tardi a osservare il movimento giù per le strade interne, prima di ritirarsi a malincuore nella casa vuota. Usciva a fare la spesa e ritardava al massimo il rientro in casa perché ogni volta quella solitudine le pesava sempre di più. Lo raccontava quasi piangendo nel negozio dove si incontrava con le sue conoscenti. Poi un giorno nell’appartamento sopra il suo è venuta ad abitare una famiglia di africani, con due bambini. Nel giro di una settimana la femminuccia, di circa otto anni, era già affacciata al balcone nella casa della vecchia signora, ride-vano insieme, insieme uscivano a fare la spesa. Qualche volta i

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due bambini stanno con la “nonna” mentre la mamma ha da fare. E presto, vicino alle fotografie dei nipoti ormai grandi e lontani, sulla credenza sono state messe in bella mostra le foto dei due “moretti”. Anche così, infatti, si allarga la famiglia.

Qualche volta gli “stranieri” si scontrano tra di loro, come è successo in un condominio, dove alcuni stranieri hanno litigato pesantemente, e manescamente, per divergenze di punti di vista, come capita tra condòmini. E per offendersi reciprocamente di-cevano “voi africani…voi slavi…” Qualcuno sulla scala ha com-mentato che anche gli stranieri sono stranieri tra loro, e questo è vero, anche se si tende a farne una categoria unica dicendo “noi” e “loro”. Qualcuno dei nostri emigrati nel nord della Francia, dopo la guerra, si è trovato a lavorare nella ricostruzione insieme ai fran-cesi e a molti altri che venivano da varie parti dell’Europa. Erano muratori, carpentieri, falegnami, e gli stranieri alloggiavano tutti in baracche costruite apposta, quindi a stretto contatto fra loro. Erano tutti lontani da casa allo stesso modo e per lo stesso motivo: tirarsi fuori dalla miseria. Tuttavia si erano stabilite come delle graduato-rie di differenti gradi di “miseria” e di dignità, e in fondo a questa scala, sul gradino più basso, stavano i portoghesi. Erano più poveri, forse, certamente più derelitti, bevevano di più, erano più attacca-brighe, la loro miseria sembrava più grande. Erano più “stranieri” insomma. «E invece eravamo povera gente allo stesso modo, tutti “compagni”», commenta qualcuno che c’era.

Un sabato mattina al mercato del Villaggio uno degli asiatici che vendono scarpe parlava con una donna rom, in italiano, con accenti diversi, ma si capivano perfettamente. Il Villaggio asso-miglia sempre più a un porto, un approdo, un luogo di sosta e di incontro di tante diversità. Fin dall’inizio è stato così, ma adesso è ancora più evidente.

Il mercato del sabato era e resta un particolare momento di vita sociale. Adesso può sembrare incredibile, ma all’inizio il mercato si faceva su Viale del Sole, tra la Bissa e il Gardella, perché la strada finiva in via Granatieri di Sardegna, e si faceva mercato due volte alla settimana. Nei primi anni del quartiere i negozi di via Caboto24 servivano per il quotidiano, pane, latte,

24. All’inizio dentro il Villaggio non c’erano negozi, il latte si acquistava da un lattaio che passava col suo biroccino e la frutta e verdura da un ambulante che

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frutta e verdura, mentre i banchi del mercato costituivano un’al-ternativa e un completamento, vi si faceva la spesa un po’ più “all’ingrosso”. Fuori invece, verso via Pasubio, c’erano altri ne-gozi: il “polastraro”, il macellaio e il fornaio erano tra quelli dove si andava più spesso. Ma il mercato era un’occasione settimanale che tutte le donne del Villaggio sfruttavano. Di prima mattina, quando ancora si stavano allestendo i banchi, arrivavano le prime clienti, quelle che non volevano trovare confusione. Andavano dritte ai soliti banchi, erano clienti ormai conosciute e organizza-te, non cambiavano mai e in pochi minuti avevano finito il giro, con molta efficienza. Arrivavano in bicicletta, che serviva per tornare a piedi, con le borse appese al manubrio. Poi arrivavano le altre che si prendevano il tempo per guardarsi intorno e trova-vano sempre qualcosa di interessante da farsi mostrare. Facevano la spesa con calma, con qualche bella chiacchierata tra un banco e l’altro.

A seconda delle stagioni i banchi cambiavano aspetto. Il ban-co delle scarpe d’inverno vendeva i “noni”, le pantofole chiuse da una cerniera lampo, d’estate invece vendeva zoccoli e sandali; allo stesso modo il banco dei vestiti: si andava dalle maglie pesanti, di lana o felpate, alle camicie, magliette e canottiere e qualche costu-me da bagno. La solita biancheria per la casa invece c’era sempre, così come i casalinghi: coltelli, tazze, bicchieri, cavatappi e tutto il resto. Qui si trovava spesso qualche oggetto curioso, scovato in qualche magazzino, introvabile nei negozi veri e propri.

Ma il ciclo delle stagioni era segnato dai banchi dei frutti-vendoli, sempre carichi di colori e di profumi. D’inverno c’erano le arance, i mandarini, i cachi, i cavoli, le verze, la catalogna e i vari radicchi di stagione, c’erano anche le “code”, radici amaris-

arrivava con un carretto trainato da un mulo. Poi sono stati aperti diversi negozi, molti dei quali condotti da abitanti del Villaggio. In via Caboto c’era una carto-leria, il negozio di generi alimentari della cooperativa ACLI, un fruttivendolo, un lattaio e anche un caffè. Aveva lì il suo negozio anche una parrucchiera per signora. All’angolo di via Brigata Granatieri di Sardegna con Viale del Sole, nella casa dove allora finiva la strada, c’era un altro negozio di alimentari con tabaccheria, una merceria, un calzolaio, una panetteria, una macelleria una polleria e anche un negozio di barbiere. Altri negozi erano presenti anche nei dintorni in viale Trento e via Pasubio, ancora prima che ci fosse il Villaggio del Sole, e lungo l’attuale via Pecori Giraldi e via Liguria.

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sime che, secondo una convinzione diffusa, si mangiavano bollite e servivano a purificare il sangue. Naturalmente c’erano anche le mele, quasi sempre, la frutta secca, soprattutto i famosi “bagigi”, e i limoni. Quando passava il freddo, arrivava il tempo delle fragole e delle ciliegie, insieme all’insalatina fresca, giusto per Pasqua. Le albicocche e le pesche, insieme alle prugne, le “brombe”, arrivava-no con l’inizio dell’estate, che esplodeva in pieno con le angurie e i meloni. C’era il trionfo dei pomodori, delle melanzane e dei pe-peroni, che erano in gran parte verdi. Poi arrivava l’uva e di nuovo il ciclo del freddo, con le arance e le verze. Adesso le cose stanno un po’ diversamente, al mercato sono comparse tante cose nuove e i banchi della frutta e verdura non sono più così segnati dalle stagioni, ci sono i pomodori, le zucchine e l’uva quasi tutto l’anno. Qualcuno dice che le verdure dell’inverno, e tutta la famiglia dei cavoli e dei radicchi, non piacciono più. Forse sono cambiati i gusti o forse sono cambiati i fruttivendoli.

Di uomini al mercato se ne vedevano pochi nei primi anni. Erano tutti a lavorare, si lavorava anche al sabato, quasi sempre. E poi la spesa la facevano comunque le donne. Le donne invece non andavano in altri posti, per esempio al bar o all’osteria, come si chiamava allora. Di solito qui si ritrovavano gli uomini, alla sera o alla domenica pomeriggio. Da Tullio c’erano i campi di bocce, c’erano molti appassionati e si sentiva gridare da lonta-no. Qualcuno non ci andava volentieri perché si giocava troppo sul serio, arrabbiandosi per quello che voleva essere soltanto un passatempo. Giocavano a carte soprattutto nel bar del prete, dove potevano stare per delle ore bevendo un bicchiere di vino o un caffè. Erano compagni fissi, se ne mancava uno era un problema. Erano partite fatte proprio per gioco, un modo come un altro per stare insieme.

Agli inizi qui c’erano pochissimi vecchi. La maggior parte degli adulti era tra i trenta e i cinquanta anni e pochi avevano i nonni in casa, almeno nelle famiglie arrivate al Villaggio. Ades-so quei primi arrivati hanno tutti cinquant’anni di più, una vita praticamente. Qualcuno si lamenta, un po’ per scherzo un po’ sul serio, perché c’è un funerale ogni settimana, pressappoco. Ma tutti sanno che questo è il ciclo della vita, e il Villaggio è un organismo vivente che si rinnova. L’inizio è stato tumultuoso, un’ondata di energia che ha riempito il quartiere in tempi molto

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brevi, poi tutto si è sgranato in modo naturale, col ritmo della vita: i grandi alberi che adesso formano un bosco intorno alle case erano arbusti esili quando questa storia è cominciata.

Luisella Paiuscoabitante del Villaggio del Sole

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Profili per una biografia collettiva

L’esperienza del Villaggio del Sole nasce dal coesistere di due aspetti fondamentali: una struttura architettonica particola-re (progettata, pensata) e le persone che in quell’ambiente (per cause del tutto fortuite) sono andate ad abitare.

L’ambiente è determinante: le case sono disposte a raggiera a contenere un grande spazio pubblico, una “piazza”, nella qua-le le persone si incontrano, le esperienze precedenti si confronta-no, si mescolano, nuove esperienze prendono forma.

In questa grande piazza ci sono i luoghi della comunità: la Chiesa, il Centro sociale, la Scuola, le Opere Parrocchiali. I luo-ghi della sfera religiosa, spirituale procedono in quelli del laico, del civile. Forse da questa contiguità spaziale nasce l’esperien-za originale del Villaggio del Sole: la continuità dell’impegno nel territorio, senza contrapposizioni e barriere, ma nel dialogo costante. Ciascuno poteva vivere il proprio impegno nel Centro sociale oppure nelle Opere Parrocchiali, oppure in entrambi i luoghi. È questo “essere senza barriere” che ha permesso ad una comunità di crescere e svilupparsi.

In questa comunità alcune persone hanno lasciato il loro segno intangibile. Vogliamo in queste pagine ricordare quanti di loro non sono più tra noi e, per farlo, abbiamo scelto di collo-carli nel luogo che li ha visti maggiormente impegnati, proprio perché le loro figure sono intrecciate in modo indissolubile con il loro operare.

Protagonisti al Centro sociale

Posto al centro del Quartiere, il Centro sociale è il polo “civico” di aggregazione del Villaggio del Sole. Un dépliant del 1963 ne chiarisce gli scopi: «Il Centro sociale è la sede ove le persone si incontrano per discutere i loro problemi e le possibili soluzioni

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trovando motivo di collaborare per la soddisfazione di interessi comuni. Il C.S. sviluppa le sue molteplici iniziative con l’attiva partecipazione delle persone».

Il Centro sociale, inizialmente collegato con l’“Istituto Ser-vizio Sociale Case per Lavoratori”, ospitava un Assistente Socia-le, che curava ancha l’organizzazione e funzionalità del Centro.

Fautore di un più diretto coinvolgimento dei cittadini nella gestione del Centro sociale e dunque di una maggiore accessibi-lità allo spazio, fu Flavio Sasso.

Come molti dei giovani migliori della sua generazione, par-tecipò alla Guerra di Liberazione Partigiana. Questa esperienza diede un segno incancellabile alla sua formazione ed alla sua vita: egli rimase infatti sempre aperto alle novità e alle diversità, all’idea del confronto rispettoso con gli altri come esercizio della ragione, per poter capire meglio e più a fondo.

Iscritto nel dopoguerra al Partito Comunista (fu il primo ope-raio eletto nel Consiglio Comunale di Vicenza), sindacalista (mi-litante attivo del Sindacato Ferrovieri-Officine della CGIL), fu tra gli animatori del primo Comitato di quartiere, eletto nel 1963. Portando la sua competenza politica, contribuì a rendere più ef-ficace l’azione del Comitato stesso. Propose che il Comitato in-dividuasse ambiti di intervento e, all’interno di questi, priorità; richiese che le assemblee si dessero un ordine del giorno e che il voto democratico impegnasse tutti i partecipanti a perseguire l’obiettivo individuato insieme prima di affrontare nuove proble-matiche.

Questo metodo di lavoro gli fece scrivere nel 1967: «Finora abbiamo portato avanti in maniera soddisfacente la prima parte del nostro compito (completare le strutture civili del Villaggio), che quattro anni fa pareva irrealizzabile. Ora dobbiamo intraprendere una seconda fase di azione, che rivolga il suo interesse alle fina-lità sociali». Nel tratteggiare il programma futuro, Sasso esprime i valori di riferimento – partecipazione diretta dei cittadini, con-fronto tra diversi nel rispetto delle individualità, promozione del progresso sociale per le generazioni future, mobilitazione a difesa degli spazi di democrazia – di un impegno durato tutta una vita: «Una cerchia sempre più ampia di cittadini del Villaggio deve es-sere responsabilizzata nell’uso dei beni della nostra comunità; tutti gli abitanti devono essere interessati alle attività che maggiormente

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permettono a ciascuno di esprimere la propria personalità e nessu-no deve essere semplice utente, tutti devono sentirsi animatori par-tecipi, dotati della facoltà di discussione e del potere di partecipare alle decisioni. Il primo strumento per questa azione viene fornito dal Centro sociale. Esso è la nostra casa comune. […] è perciò necessario difenderlo e potenziarlo».

Il primo Comitato di quartiere, come Sasso racconta e come descritto dettagliatamente da Mauro Passarin in Abitare il Villag-gio. Memoria e storia avviò la risoluzione di molti problemi con-creti legati alla struttura dell’abitato ed iniziò la seconda fase, quella di promozione di attività destinate alla aggregazione degli abitanti.

Nel 1974 venne eletto il secondo Comitato di quartiere, che rimase in carica per oltre dieci anni, ma che perse ben presto la natura di organismo elettivo, trasformandosi in gruppo spontaneo caratterizzato dalla presenza di un nucleo consolidato e stabile di persone; a questo si aggregavano di volta in volta, a seconda del-le tematiche affrontate, altri soggetti e gruppi interessati.

Molti gli argomenti trattati da quel Comitato e le soluzioni proposte, alcune realizzate, altre rimaste sulla carta, nonostante la loro attualità.

In collaborazione con i Vigili Urbani si fece uno studio del traffico in Via del Sole, elaborando la proposta di utilizzo del tratto di Autostrada Vicenza Ovest-Vicenza Est come tangenziale sud.

Ancora al centro dell’attività del Comitato la questione della casa, in particolare la richiesta dell’estensione a tutti gli asse-gnatari degli alloggi del diritto di riscattare l’appartamento (in origine alcuni erano stati dati a riscatto, altri solo in affitto); le Assemblee pubbliche indette dal CdQ su questo tema erano dav-vero affollate e partecipate; la grande mobilitazione ottenne infi-ne il risultato sperato.

Risale a quegli anni la massiccia raccolta di firme che permi-se che il cinema Apollo non diventasse discoteca; anche se oggi, alla luce dei fatti, quello fu più un ritardare che un bloccare.

Grazie al lavoro del CdQ, che si fece ancora una volta por-tavoce delle istanze delle persone, si impedì l’abbattimento di villa Rota-Barbieri, al posto della quale sarebbe dovuta sorgere la nuova scuola materna.

Proprio durante le discussioni, nel comitato emerse la ne-cessità di uno spazio ricreativo e aggregativo per gli anziani. Ciò

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si tradusse in una proposta che, grazie anche alla collaborazione della Parrocchia, venne approvata in Consiglio di Circoscrizione, trovando realizzazione concreta nel Centro Diurno di Via Grandi. Sempre in favore degli anziani – l’età media degli abitanti stava aumentando – si promosse una iniziativa per permettere l’instal-lazione di ascensori nelle case di cinque piani.

Nel tratteggiare le personalità delle figure che si sono im-pegnate proficuamente in questo secondo Comitato di quartie-re, non possiamo non partire dal “Presidente”, Giorgio Brunel-lo. Portavoce del Comitato, egli possedeva un carattere aperto e generoso, ed era inoltre in grado di cogliere e comprendere i problemi del quartiere, ascoltando le persone e i loro bisogni. Per Brunello, la ricerca e il dibattito erano gli strumenti da privile-giare per trovare le soluzioni più adeguate. Sempre disponibile al confronto, non si faceva intimorire nemmeno dai più ostici rappresentanti delle istituzioni, con i quali spesso si incontrava e che spesso erano interessati ad affermare esclusivamente il pro-prio punto di vista.

Non aveva potuto, da giovane, formarsi una cultura scola-stica “ufficiale”, ma la sua curiosità intellettuale portava Giorgio ad interessarsi di numerosi argomenti, come la storia, la religione (rimase sempre profondamente laico), la letteratura. Anche per questo, egli era solito proporre attività culturali, come conferen-ze, cineforum e teatro, allargando l’offerta di partecipazione a nuovi gruppi e istituzioni

Il suo non essere iscritto a nessun partito si spiega, non solo con il fatto che per Brunello qualsiasi etichetta partitica sarebbe risultata “stretta”, ma anche perché in questo modo egli avrebbe perso il carattere di imparzialità necessario per il suo ruolo, in particolare quando egli si doveva confrontare con rappresentanti comunali.

Luciano Pilastro, altro esponente del Comitato del Quartiere, andava invece molto fiero della sua appartenenza al Partito So-cialista Italiano, «il partito di Filippo Turati!», ricordava talvolta orgoglioso.

Per il suo carattere riservato e la sua indole riflessiva, Pila-stro era colui che, nelle discussioni più accese, invitava con le sue parole alla moderazione; anche se, talvolta, proprio i suoi contri-buti e i suoi dubbi contribuivano ad infervorare maggiormente

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il dibattito, arricchendolo comunque notevolemente. Per la sua esperienza di genitore single dimostrava particolare attenzione alle problematiche del mondo giovanile, cercando di dare voce ai ragazzi che si avvicinavano al Comitato, sostenendo e promuo-vendo le loro proposte.

Ebbero dunque ospitalità al Centro sociale, aggregazioni di giovani, quali il Gruppo Fotografico e Urlo, redazione di un giornale rivolto ai coetanei del quartiere. Essi promossero anche l’organizzazione di Corsi di Musica, in collaborazione con la Bi-blioteca.

Quest’ultima costituiva il centro culturale per eccellenza, come racconta Antonio Ranzolin in Abitare il Villaggio. Memo-ria e storia. Infatti, oltre ad essere punto di prestito di libri e pro-motore di iniziative, la Biblioteca, tramite un Comitato di Gestio-ne particolarmente attento alle istanze del territorio, raccoglieva proposte e suggerimenti e metteva a disposizione la propria ef-ficiente organizzazione, il personale, gli spazi. Questo avveniva anche grazie alla preziosa presenza di Anna Mandelli Brusutti, per anni presidente del Comitato. Anna portava al Centro sociale la sua gentilezza, la sua cultura, il suo sorriso, la sua fantasia creativa, la sua capacità di collaborare con le persone e con le istituzioni al di là di ogni distinzione. Tra le iniziative realizzate grazie al suo impegno ricordiamo le esperienze di lettura e di ascolto della musica, le attività di sostegno allo studio scolastico, i primi parchi Robinson estivi alla Casa del Sole, la prima ludo-teca in città, così come la pubblicazione del libro Scritti e Imma-gini, il primo che racconta la storia del Villaggio del Sole. Ma gli interessi di Anna non si limitavano al mondo della cultura: la comunità della parrocchia e il mondo della scuola, allora in fase di profonda trasformazione, l’hanno vista impegnata; insieme ad altre donne del Comitato di quartiere diede vita al Gruppo Donne del Villaggio del Sole, associazione che discuteva sul ruolo della donna nella famiglia e nella società ed organizzava iniziative sui temi della salute per le abitanti del quartiere e che ebbe anche parte attiva nelle manifestazioni organizzate in favore dell’istitu-zione dei Consultori Familiari a Vicenza.

Anna era molto discreta nel proprio operare e non amava rendere pubblico quanto andava facendo in favore della comunità o delle persone che incontrava. Per esempio, per anni ha aiutato

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nello studio cinque ragazzi, facendosi carico delle loro difficol-tà scolastiche e familiari, sostenendoli giorno dopo giorno nello svolgimento dei compiti, tenendo personalmente i contatti con le maestre delle elementari e poi con gli insegnanti delle medie. La sua azione non solo è stata un aiuto concreto a quei ragazzi e alle loro famiglie, ma anche uno stimolo ed una sensibilizzazione dei docenti allo svantaggio culturale di partenza di alcuni alunni e alla necessità di azioni concrete in loro favore.

Tra le iniziative promosse dalla Biblioteca, grazie ad una felice intuizione di Anna, fu l’organizzazione di Corsi di Anima-zione Teatrale. Erano gli anni in cui veniva riscoperto il teatro di piazza, quale modalità allo stesso tempo antica e nuova, di vivere i momenti di festa, come ad esempio il Carnevale. Questa espe-rienza fornì anche l’occasione per i giovani di “riappropriarsi” dei luoghi che avevano visto i loro giochi di bambini, in quanto il Villaggio era la piazza ideale in cui poteva agire una azione teatrale.

Al Centro sociale trovavano ospitalità anche gruppi atti-vi nella promozione di iniziative umanitarie di rilievo, come il Gruppo dei Donatori di Sangue. L’azione di Duilio Gregori, il coordinatore, in favore del dono del sangue – periodicamente ve-niva organizzata la raccolta con la presenza al Villaggio di una autoemoteca – fu preziosa non solo a livello locale, ma anche a livello provinciale.

Nel quartiere Gregori viene anche ricordato per la sua pas-sione per la musica: organizzò infatti parecchi concerti in chiesa, effettuando una reale promozione culturale.

Altre Associazioni coltivavano interessi culturali di parti-colare livello, come il Gruppo Speleologico Proteo. Questo non solo forniva la propria competenza come Nucleo di Soccorso Speleologico ma anche, allestendo in occasione della Festa del Geranio mostre di fossili o di fotografie, puntava ad incuriosire ed incoraggiare giovani e meno giovani ad interessarsi al mondo misterioso delle grotte.

Esperienza più accessibile alla maggioranza degli abitanti del Villaggio era invece la montagna, grazie anche all’opera del G.A.V. (Gruppo Alpinistico Vicentino). Questo gruppo, il primo ad essere ospitato al Centro sociale e l’unico ad esservi ancora pre-sente, organizzava non solo gite ed escursioni, ma anche proiezioni

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di diapositive e racconti di viaggio. Tra gli animatori di quella as-sociazione non si può dimenticare Graziano Gennaro, il “Barba”; egli infatti non solo amava le camminate in alta quota ma anche conservare memoria dei viaggi e degli eventi, registrandoli con la telecamera, la macchina fotografica o la cinepresa. Questa attività divenne con il tempo una vera e propria passione, tanto che i do-cumenti raccolti costituiscono oggi un piccolo patrimonio di storie della comunità. Con la sua abilità di artigiano falegname e il suo ingegno estroverso e duttile ha inoltre contribuito alla creazione di figure del carnevale e di altre feste, come il grande carro di Pinoc-chio e la ricostruzione della “Rua”. Si è sempre prestato anche a “interpretare” ruoli e personaggi, tra cui un indimenticato Babbo Natale, svolgendo in modo spontaneo il ruolo di animatore dei di-versi momenti di festa o di serena condivisione.

Il moltiplicarsi delle iniziative in ambito culturale, ricreati-vo, sportivo rese necessaria l’istituzione di un gruppo che si oc-cupasse di coordinare le attività. Promotore del Centro di coordi-namento delle attività ricreative e culturali fu Adriano Silvestri. Sedici gruppi aderirono alla proposta e sottoscrissero lo statuto, praticamente tutte le realtà operanti all’epoca, era il 1968, nel quartiere. «Questo lo Statuto – scrisse Adriano – auguriamoci ora che la volontà di tutti sia sempre rispettosa di quello spirito che ne ha animato la stesura: collaborazione nella libertà di ciascuno, ricerca di porre le attività al servizio della propria e altrui eleva-zione culturale e sociale, comprensione tra tutti per ottenere un efficace modo di operare insieme».

Silvestri era un uomo profondamente credente, che traduce-va la propria fede nella vita familiare, nell’impegno per la difesa dei diritti dell’uomo, nella vita civile e nell’ambiente di lavoro. è stato infatti membro attivo della vecchia Democrazia Cristiana ed elemento di spicco della CISL vicentina; la sua attività sinda-cale si svolse prevalentemente nell’Azienda Zambon, nella quale lavorava.

Al Centro sociale ebbe sede inizialmente anche il Consiglio di Zona e poi il Consiglio di Circoscrizione, gli organi del decentra-mento amministrativo che dovevano avvicinare le Istituzioni locali ai cittadini. Poiché il territorio della Circoscrizione comprendeva anche altri quartieri, il Centro sociale del Villaggio del Sole diven-ne anche spazio per il confronto con realtà diverse.

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Proprio dalla collaborazione tra il Consiglio di Circoscrizio-ne, i Comitati di Quartiere del Villaggio del Sole, di San Laz-zaro e “Cattane-San Giuseppe” con la Parrocchia del Villaggio del Sole venne istituito il “Gruppo di Studio sulle Tossicodipen-denze”, che ebbe l’importante risultato di richiamare l’attenzione generale sui problemi delle dipendenze, in particolare quella da eroina.

In questa attività emerse in modo evidente una caratteristica saliente dell’esperienza elaborata al Villaggio: il saper convive-re e dialogare di istituzioni e gruppi diversi, che concorrevano, ciascuno con la propria specificità e nel rispetto del ruolo altrui, alla formazione della persona nella sua interezza e dunque della Comunità stessa.

Attorno a quei tavolini azzurri, nelle stanze giallo limone quante discussioni, quante attese, quante speranze! Uomini e donne, giovani e anziani hanno condiviso momenti importanti della propria vita al Centro sociale del Villaggio del Sole. Il ri-cordo di quanti abbiamo nominato, ma anche di tutti gli altri che hanno contribuito alla crescita sociale e culturale del quartiere, testimonia che una comunità si sostiene solo con l’impegno e la collaborazione di ciascuno.

Lucia Petroniabitante del Villaggio del Sole

Protagonisti della Parrocchia

L’altro polo della vita comunitaria, la parrocchia, ha una vita alimentata costantemente dalle energie delle persone che ne fanno parte e che la scelgono come proprio riferimento anche valoriale. Così è stato per Anna Mandelli Brusutti, per Grazia-no Gennaro e per Adriano Silvestri, persone che hanno scelto di vivere il loro impegno in più ambiti sociali. Come istituzione ha una sua struttura che mantiene le proprie caratteristiche pur con i cambiamenti indotti dal tempo e dai tempi; è infatti anche at-

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tualmente una realtà vitale, punto di incontro e crogiolo di varie esperienze.

Al Villaggio del Sole è stata fin dall’inizio un riferimento imprescindibile, soprattutto grazie alla determinante presenza del primo parroco, don Gianfranco Sacchiero. In realtà ancora adesso Don Gianfranco è sentito come “il” parroco del Villaggio del Sole perché era qui già nel 1959 e vi è rimasto fino al 1975: era quindi già presente a mano a mano che arrivavano i primi, spaesati abitanti e la parrocchia è nata con lui.

Ha dedicato le sue notevoli qualità umane, energie e capa-cità a un impegno fondamentale: fare comunità, senza aggettivi, collaborando per questo con tutte le persone che a vario titolo si sentivano responsabili e si mettevano a servizio di questa real-tà che stava nascendo, praticamente dal niente. Andava perso-nalmente in cerca delle persone, senza aspettare che si facesse-ro avanti, perché la comunità aveva bisogno del contributo di ciascuno. Tutto era importante, la formazione dei catechisti e la scuola professionale, l’Azione Cattolica e i gruppi sportivi, la scuola materna e il campeggio, ma anche la partecipazione alle attività della Biblioteca pubblica di quartiere e alle iniziative del Comitato di quartiere al Centro sociale. Chi frequentava la parrocchia veniva spinto e motivato a farsi attivamente presente nelle varie iniziative, a non considerare estraneo niente di quello che legava insieme le persone e rispondeva alle loro esigenze. La formazione spirituale dei singoli e dei gruppi era strutturata solidamente per il servizio della comunità, anche la preghiera era prevalentemente quella comunitaria, liturgica, non intimistica o devozionale.

Molto è stato detto di lui nel nostro primo libro perché le persone lo hanno più volte ricordato. Se ne è parlato giustamente nella storia del quartiere come di un “padre fondatore”. A più riprese anche in questo libro, è stata richiamata la sua figura di animatore e catalizzatore di energie, fin dalla presentazione e in diversi altri momenti della ricostruzione e della narrazione della storia collettiva. Anche per lui l’esperienza vissuta al Villaggio del Sole è stata determinante, come lascia scritto nel saluto alla comunità: «Per me sono stati gli anni vissuti con più impegno e dedizione e, nello stesso tempo, anni in cui meglio ho scoperto il mio essere prete e, attraverso voi, ho maturato la mia persona e

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la mia fede». Come è già stato detto nella nostra Storia possibile, don Gianfranco è morto qualche anno dopo aver lasciato il Vil-laggio del Sole, come se in questo impegno e dedizione nel mo-mento fondamentale e fondativo della storia di questa comunità avesse consumato non alcuni anni ma l’intera esistenza che gli è stato dato di vivere.

La comunità parrocchiale ha avuto molti protagonisti, alcu-ne persone sono le stesse ricordate per la loro attività nel Centro sociale, molte altre sono fissate nel ricordo vivo di quelli che le hanno conosciute. Tra i molti ricordiamo “il maestro” Romano Bassanello, maestro nella scuola Colombo e organista e maestro del coro della parrocchia, fino ai suoi novanta anni. Presente nella comunità per moltissimi anni: «da uomo illuminato, con qualcosa che niente ha di evanescente perché la sua fede ha il vigore e l’ostinazione di chi è sostenuto dalla Grazia», come dice di lui Carlo Moretto, che si è fatto custode di una lunga parte della memoria collettiva. Egli aggiunge: «Chi ha vissuto i primi anni di vita di questo Villaggio del Sole e di questa Parrocchia nati dal confluire di uomini di provenienza, educazione e condi-zioni diverse, con grosse difficoltà materiali, con comprensibili problemi di reciproca comprensione, non può dimenticare coloro che hanno raccolto l’invito di Cristo». A questa memoria è affi-dato anche il ricordo di un’altra persona molto a lungo presente nella comunità, Luigi Zuanon, che ha collaborato a varie attività della parrocchia fin dall’inizio. Il suo ricordo è tuttavia affidato in modo particolare alla sua figura raccolta in preghiera a fianco dell’altare, come dice lo stesso Carlo Moretto: «Sei stato innan-zitutto un uomo di preghiera… la preghiera più alta e più pura che ha in sé un’energia dirompente, capace di fermare il male del mondo». Questa dimensione di interiorità, accanto all’impe-gno fattivo nelle varie opere realizzate, finora ha consentito alla comunità parrocchiale di “permanere” e di procedere, in tempi di rapide trasformazioni, sia pure con alti e bassi come tutte le realtà umane.

La Redazione

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L’INA-Casa: storia e antologia

Nel mese di dicembre del 1960 alla cerimonia di inaugura-zione del Villaggio del Sole, non ancora del tutto completato, è presente Amintore Fanfani, allora capo del governo per la terza volta. La sua presenza è doppiamente significativa, perché è sua l’idea iniziale da cui hanno avuto origine i quartieri INA-Casa, come il Villaggio del Sole, costruiti in molte regioni italiane a partire dal 1949.

Erano gli anni iniziali della repubblica italiana, nata alla fine della monarchia e del fascismo subito dopo la seconda guerra mondiale. Il 18 aprile del 1948 c’erano state le prime elezioni politiche, vinte con il 48% dei voti dalla Democrazia Cristiana (DC) di Alcide De Gasperi (1881-1954). Il 23 maggio viene in-sediato il governo presieduto da De Gasperi, per la quinta volta, dopo le prime esperienze dell’immediato dopoguerra. Fanfani (1908-1999), già ministro del Lavoro dal 31 maggio del 1947, viene riconfermato nello stesso Ministero, che si chiama pro-priamente del Lavoro e della Previdenza sociale. Il 23 giugno, a un mese esatto dall’insediamento del nuovo governo, Fanfani in Consiglio dei Ministri fa il punto sulla situazione del lavoro e della disoccupazione in Italia e il 6 luglio riesce a fare approvare il primo disegno di legge della nuova legislatura, in cui vengono affrontati due dei problemi più gravi del momento: la disoccupa-zione e la mancanza di alloggi. Verrà chiamato “Piano Fanfani” e inizia a questo punto il suo percorso parlamentare.

La situazione economica e sociale dell’Italia in questo imme-diato dopoguerra è leggibile nei dati del censimento del 1951. Gli italiani sono 47,5 milioni e la loro attività economica principale è l’agricoltura, in cui è occupato il 42% della popolazione in età la-vorativa. Molti, circa un quarto di tutti gli abitanti, vivono in picco-le frazioni o in casolari isolati, dove spesso manca ancora l’energia elettrica. è una popolazione giovane: il 26% ha meno di 15 anni, solo l’8% supera i 65 anni, gli altri sono tutti compresi nella fascia

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di età tra questi due estremi. Le famiglie sono piuttosto numerose, mediamente di quattro persone, ma spesso i nuclei familiari sono di sei o più componenti e vi convivono diverse generazioni e di-versi gradi di parentela, padri, madri,figli, ma anche nonni, zii, cu-gini, nipoti, cognati. Le abitazioni sono inadeguate, sovraffollate. Nel suo libro Esperienze pastorali don Lorenzo Milani, noto prete fiorentino (1923-1967), riporta una serie di dati significativi sulle condizioni di vita degli abitanti della parrocchia di San Donato a Calenzano dove è viceparroco. Sono dati raccolti durante la bene-dizione pasquale delle case con la data del 17 marzo 1951. Come riferimento per il sovraffollamento delle abitazioni vengono presi in considerazione il numero dei letti e il numero delle persone: il risultato è che ci sono molte più persone che letti, con tutte le conseguenze che si possono immaginare. Il libro viene letto con interesse da Luigi Einaudi (1847-1961), allora Presidente della Repubblica, che, in una lettera a don Milani datata 5 marzo 1959, si sofferma proprio su questo particolare: «Lei ha evidentemente l’occhio per vedere e non solo per curiosare. Chi ha mai, fuor di lei, elevato il “letto”, in congiunzione col numero delle stanze e delle persone, ad indice di affollamento, a causa dell’uso successivo del medesimo letto da diverse persone? Per lo più si parla di stanze, di metri quadrati, di tante cose pertinenti o futili, ma lei scopre che la vera unità, il “letto”, è nozione rappresentativa illuminante. […] Solo chi conosce uomini e donne, ne sa la vita e i veri problemi, sa interrogare e vedere»25.

Negli anni tra il 1951 e il 1952 viene fatta una Inchiesta par-lamentare sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla. La reale dimensione della povertà, della disoccupazione e delle ma-lattie era stata volutamente nascosta durante gli anni del fascismo per non intaccare l’immagine di efficienza del regime. L’indagi-ne è fatta solo in alcune zone, le più depresse. I commissari alla fine dell’inchiesta parlano di un tenore di vita che, soprattutto dal punto di vista abitativo, è addirittura difficile da immagina-re. Già il censimento del 1951 aveva evidenziato dei dati molto inquietanti: solo il 7,4% delle abitazioni aveva acqua potabile e bagno, ma l’11% delle case non aveva né l’una né l’altro, sen-

25. Fallaci Neera, Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Mila-no libri edizioni, Milano 1974, p. 513.

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za grandi differenze fra centri storici, periferie e campagne. Una borgata con 5.000 abitanti, in una grande città italiana, aveva 25 gabinetti, tre lavatoi pubblici, niente acqua nelle case, niente far-macia, niente negozi, strade non asfaltate. Ai dati del censimento si aggiungono quelli dell’inchiesta parlamentare che ha rilevato quanto fossero gravi la miseria diffusa e il sovraffollamento in-sostenibile delle abitazioni, condizioni di vita che favoriscono la forte diffusione della tubercolosi. Anche i dati sulla disoccupa-zione sono allarmanti, i disoccupati sono infatti circa 1,3 milioni su 19,4 milioni di persone che costituiscono la forza lavoro. Nel settore dell’edilizia la percentuale è superiore a quella di altri settori più dinamici e innovativi, meglio capaci di adeguarsi alle trasformazione legate anche alla riconversione industriale.

Fanfani aveva dichiarato in un’intervista: «il piano per la costruzione di case per lavoratori è nato per la preoccupazione, in me vivissima fin dai primi mesi dell’assunzione del ministero del Lavoro di recare un contributo al riassorbimento dei troppi disoccupati italiani», affrontando contemporaneamente il pro-blema della disoccupazione e quello degli alloggi: il suo dise-gno di legge si chiama infatti Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per i lavoratori.

Il ministro del lavoro aveva allora quarant’anni ed era all’ini-zio della sua carriera politica all’interno della Democrazia Cri-stiana, dopo essere stato per alcuni anni docente all’Università Cattolica di Milano. Non era dei giovanissimi usciti dalla guerra e dal fascismo poco più che ventenni, magari dopo l’esperienza della resistenza, ma si muoveva nello stesso ambito di idee e di ideali dei gruppi giovanili cattolici, soprattutto quelli che si ag-gregavano nell’Azione Cattolica e nella Federazione Universita-ria Cattolica (FUCI) di cui era animatore e punto di riferimento monsignor Montini, futuro papa Paolo VI, all’epoca influente uomo di curia. Un episodio significativo e importante anche per le sue conseguenze politiche e sociali, è il convegno che si tiene dal 18 al 23 luglio del 1943 nel monastero di Camaldoli, Arezzo, a cui partecipa una cinquantina di giovani di queste due orga-nizzazioni per tracciare alcune linee guida del futuro sviluppo dell’Italia in vista della fine della guerra. I principi base stabi-liti in questo incontro diventeranno poi i 99 punti di quello che

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sarà chiamato Codice di Camaldoli, un programma articolato che ispirerà alcune importanti scelte legislative sul piano economico. Di questo gruppo fanno parte alcuni dei politici più in vista nei decenni successivi.

Tutte le forze politiche che tornavano a esprimersi libera-mente dopo il fascismo partecipavano allo sforzo di rinnovamen-to del paese, nei partiti preesistenti di area comunista, socialista, liberale ma anche nel tentativo di far crescere un partito moderno e laico, fuori da appartenenze dichiarate. Luigi Meneghello in un suo scritto del 1989, Nel prisma del dopoguerra, in cui par-la del suo libro Bau-sète, dice: «devo dire – “debbo dire”come diceva La Malfa – che uno dei propositi a cui tenevo di più era proprio quello di rievocare (suggerendo piuttosto che descriven-do) la straordinaria intensità dell’impegno e della passione po-litica che si espresse per noi nel Partito d’Azione: quello strano tentativo dell’intellighenzia italiana di organizzarsi in un partito moderno, per rifare dai fondamenti la nostra società devastata dal fascismo. A volte l’idea di base, almeno sul piano elettora-le, veniva espressa in forma semplificata nel motto “Né rossi né neri” (che pare un po’ autolesionistico a pensarci oggi, vista la schiacciante prevalenza degli italiani che s’intestavano – e avreb-bero continuato – a votare proprio per i “rossi” e per i “neri”). Ma l’ispirazione centrale del partito era semplicemente moder-nizzare l’Italia: volevamo vederla diventare un paese veramente moderno, non solo in senso tecnologico e industriale, ma in fatto di costume, di istituti, di vita civile, di impianti amministrativi: e naturalmente di strutture politiche. Era – oggi è ovvio, ovvio a tutti – il tema giusto. Senonché noi eravamo convinti che la mo-dernizzazione del nostro paese si potesse realizzare soltanto in un assetto di pluralismo progressista (uso deliberatamente le parole che hanno corso oggi: allora si usavano altre parole) e che questo in Italia potesse essere garantito solo dalla presenza di un forte partito di laici illuminati, liberi da condizionamenti confessionali e dottrinali. La modernizzazione è poi avvenuta invece per altre strade…»26. Il clima era di aspettativa e di una diffusa tensione positiva nei confronti di un presente difficile e di un futuro tutto

26. Meneghello Luigi, Opere scelte, Arnoldo mondatori Editore, Milano 2006, p. 1457.

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da “guadagnare”. Nell’Assemblea Costituente e nei primissimi governi del dopoguerra hanno dato il loro contributo tutte le for-ze politiche nuove e rinnovate presenti in quel momento. Ma poi le cose sono cambiate anche e soprattutto sul piano dei rappor-ti internazionali. A maggio del 1947 De Gasperi scioglie il suo terzo governo, sostenuto dalla democrazia cristiana, dal partito comunista e dal partito socialista. Nel definire le alleanze per un nuovo governo si trova a fare i conti con la politica estera degli Stati Uniti d’America nei confronti dell’Unione Sovietica. Il pre-sidente americano Truman conferma il suo appoggio all’Italia e a un governo italiano che escluda i comunisti. De Gasperi, che riceverà dagli Stati Uniti un prestito di 100 milioni di dollari, forma il suo quarto governo senza le sinistre. Alcuni studiosi del periodo dicono che per bilanciare in qualche modo questa scelta decide di affidare il ministero del Lavoro a un democristiano “di sinistra” e offre il ministero a Giorgio La Pira che però rifiuta l’incarico, così rientra in gioco Fanfani che era già stato Ministro del Lavoro. La Pira, grande amico di Fanfani di cui condivide idee e aspirazioni, sarà il suo sottosegretario.

Fanfani aveva affrontato l’argomento della povertà dal pun-to di vista economico, sociale e politico nei suoi corsi all’univer-sità, ma anche in alcuni scritti che esprimevano la sua personale riflessione in quanto cristiano. Nel 1942 era uscito a Milano, per l’editrice Vita e pensiero, un suo libro dal titolo Colloqui sui po-veri, ristampato più volte negli anni successivi. Parlando della miseria dice: «deve essere considerata un grave problema da tutti i punti di vista (giustizia, ragione, sentimento)». Un passaggio in particolare risulta interessante in vista del suo futuro “piano casa”: «Quando osservo le belle case moderne, tutte dotate di ser-vizi meravigliosi, spesso doppi e tripli, non mi affliggo e vedo in ciò un processo che mi piacerebbe universalizzato; ma non posso restare dal domandarmi se chi ha pensato tanto bene ai propri comodi ha in parte provveduto almeno contemporaneamente alle necessità di chi non ha casa, o l’ha con una camera che contiene tutto». Non si ferma tuttavia a un richiamo al senso cristiano del-la vita o a un sentimento di solidarietà, ma propone modalità di intervento: «L’invito a dispensare il superfluo ai poveri non scon-siglia di investire beni risparmiati in nuove imprese produttive. Infatti, si sostiene il povero dandogli il pane ma anche dandogli

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lavoro, si userà socialmente la ricchezza, impiegando il risparmio in nuove imprese capaci di dare lavoro ed agiatezza agli operai». La società ha dei doveri precisi: «Prevenire la miseria prevenibi-le, soccorrere la miseria irriducibile sono i due principali doveri della società in questo campo […] ideare ed attuare programmi di lavoro per la massima occupazione possibile o programmi di previdenza per migliorare la sicurezza sociale. In particolare i dirigenti la cosa pubblica devono avere a cuore le cause della miseria»27.

L’itinerario della proposta di Fanfani passa per i tempi obbli-gati dei lavori parlamentari, iniziato nel mese di luglio del 1948, in un periodo pieno di tensioni sociali, politiche e sindacali. Dopo le elezioni politiche del 18 aprile, le prime della storia della re-pubblica, comincia un periodo di pesanti scioperi nell’agricoltu-ra, nei servizi e nei trasporti. All’interno di queste rivendicazioni sta crescendo la spaccatura che porterà alla divisione del sinda-cato e alla nascita della CISL. Fanfani durante il Consiglio dei ministri del 6 luglio in cui presenta il suo disegno di legge, insiste sul carattere di urgenza del suo provvedimento per combattere la disoccupazione agevolando la costruzione di alloggi per i la-voratori, perché questa è una delle emergenze in quel momento. All’inizio del percorso legislativo si inserisce un avvenimento che segnerà pesantemente tutta questa stagione politica e sociale, l’attentato a Togliatti del 14 luglio. Lo sciopero generale imme-diatamente attuato crea gravissime preoccupazioni nel governo. Qualcuno ipotizza l’esistenza di un piano dei comunisti per in-staurare una dittatura, è anche il timore avanzato da De Gasperi in consiglio dei ministri la mattina del 15 luglio. Alla fine della mattinata Giuseppe Di Vittorio, segretario della CGIL, incontra De Gasperi, che si mostrerà meno preoccupato nel consiglio dei ministri del pomeriggio. Nella tarda serata dello stesso giorno è Fanfani, ministro del lavoro, a chiedere a De Gasperi di ricevere i rappresentanti della CGIL, che vogliono incontrarlo per mette-re fine allo sciopero. La CGIL diventerà uno degli interlocutori privilegiati nella discussione sul disegno di legge, anche se ini-

27. Istituto Luigi Sturzo, Fanfani e la casa. Gli anni Cinquanta e il modello italiano di welfare state. Il piano Ina-Casa, Rubbettino Editore, Soveria Man-nelli 2002, p. 359.

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zialmente Fanfani non era orientato in questo senso perché non voleva riconoscere ai comunisti la rappresentanza esclusiva degli interessi dei lavoratori che questi rivendicavano. Tra l’inizio e la conclusione dell’iter parlamentare c’è il faticoso e paziente lavoro di mediazione, discussione, revisione, modifica su ogni singolo aspetto e nessuna forza politica è estranea a questo in-tenso sforzo.

La presentazione del piano in parlamento viene affidata a Mariano Rumor (1915-1990). Ricordando nella sua biografia questa circostanza, Rumor dirà che è stata per lui l’occasione di uscire dall’ambito provinciale del vicentino in cui era nato e cre-sciuto, per entrare nel mondo più grande della politica nazionale della Democrazia Cristiana. La sua presentazione del Piano Fan-fani ottiene un’accoglienza positiva, lo stesso De Gasperi si con-gratula con lui. In quell’estate del 1948 così carica di tensione, il progetto per le case ai lavoratori, pur non essendo la soluzione di tutti i problemi, era un segnale positivo di speranza perché affrontava un aspetto emblematico della condizione di povertà e così viene recepito.

Le precarie condizioni abitative e la carenza di alloggi per la parte più povera della popolazione sono da sempre presenti nella storia che noi conosciamo. Visitando le antiche rovine tra i resti di palazzi, templi, teatri non si trovano tracce delle case della pove-ra gente, completamente scomparse perché costruite con materiali deperibili, come rifugi precari e provvisori. La grande Roma impe-riale aveva i suoi quartieri popolari di edifici a più piani, le insulae, veri e propri condomini sovraffollati e indaffarati, in gran parte di legno, con le botteghe a piano terra, i primi a bruciare negli incendi frequenti che devastavano la città. Ma anche quando le case dei poveri si sono conservate, perché fatte di materiale più resistente, testimoniano di un grande squallore abitativo: i borghi medievali sono affascinanti adesso, ma erano in gran parte costituiti di abita-zioni malsane, scomode, buie, strette, fumose, umide. Le case dei paesi di montagna non erano molto diverse, così come i grandi ca-scinali abitati dai braccianti nelle campagne e le case delle cinture industriali dei secoli scorsi, più o meno dal 1700 in poi, quando in pochissimo spazio si ammucchiavano famiglie numerose per la-vorare nelle industrie che stavano allora sviluppandosi. La povera gente ha sempre abitato in povere case.

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Quando lo sviluppo industriale ha avuto bisogno di manodo-pera il più possibile efficiente, si è capito che una casa più sana avrebbe favorito la salute e la robustezza dei lavoratori e un loro maggiore rendimento. Da questa convinzione parte l’iniziativa di costruire case decenti per i lavoratori e sono gli stessi datori di lavoro a farlo. La casa resta legata al rapporto di lavoro nella fabbrica: il datore di lavoro è anche il proprietario della casa, che resta alla famiglia finché qualcuno della famiglia lavora nella fabbrica, perché anche il posto di lavoro passa di padre in figlio. Marzotto e Rossi sono gli imprenditori più noti da questo punto di vista nel vicentino, dove hanno costruito quartieri o addirittura interi paesi insieme alle loro fabbriche. Agli atti delle delibere del Comune di Vicenza del 21 maggio 1885 c’è una convenzione tra il Comune e gli industriali Gaetano e Francesco Rossi per impiantare una loro industria tessile nello spazio comunale tra il Bacchiglione e il Retrone e in quella zona sono state costrui-te anche la case per gli operai. Altre case del genere sono state costruite anche vicino ad altre industrie. Qualche anno prima, il 28 marzo del 1882, si trova la notificazione che il Comune ha acquistato cento azioni della Società delle case operaie, nominate proprio così nella documentazione.

A livello nazionale risale al 31 maggio1903 la legge n. 254 sull’edilizia popolare, che porta il nome del suo promotore, Luz-zatti. Da questa legge nascono gli Istituti per le Case Popolari ICP (che più tardi diventeranno IACP). La legge Luzzatti si propone di combattere la speculazione privata e di offrire modalità utili per investimenti di capitali, senza chiedere contributi allo Stato. Saranno costruite case per operai, artigiani, piccoli proprietari terrieri, impiegati di vario livello, insegnanti: tutte persone che singolarmente non avrebbero la possibilità di costruirsi una casa, ma possono concorrere ad acquistarla con facilitazioni alla cate-goria. Altri interventi sull’edilizia popolare sono documentati nel Testo Unico (TU) sull’edilizia economico-popolare del 30 no-vembre 1919 e nel TU n. 1165 del 24 marzo 1938, che ridefinisce il riordino, su base provinciale, degli IACP.

Anche a Vicenza all’inizio del 1900 si trovano agli atti va-rie delibere comunali riguardanti la costruzione di case popolari, l’acquisto di terreni come aree fabbricabili, avvisi d’asta per gli appalti di costruzioni tra il 1904 e il 1908: si tratta di zone a San

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Felice, sulla strada del Volto, a San Bortolo nel 1910 e poi nel 1911 il piano del quartiere di case economiche per i ferrovieri. Dal 1914 al 1919 tutto si ferma a causa della prima guerra mon-diale. Subito dopo la guerra nel 1919 e nel 1921 viene delibe-rata la costruzione di case popolari, ancora a San Bortolo. Nel periodo del fascismo, tra le due guerre, vengono costruite altre case popolari nel 1924, addirittura con la sistemazione di alcuni alloggi in una parte della Caserma Cialdini; nel 1925 viene ap-provato il progetto per costruire case popolari nel quartiere 28 ottobre, in via dei Mille e a San Rocco. Nel 1926 c’è un progetto di costruzione di case popolari da cedere in proprietà e nel 1931 è prevista una assegnazione a premi per coloro che inizieranno la costruzione di nuove case popolari. Poi ci sono i bandi di concor-so per il Piano Regolatore Generale, che tuttavia entrerà in vigore soltanto nel 1959. Dal 1939 al 1946 la seconda guerra mondiale non lascia spazio alla vita civile, c’è solo questo impressionante salto di anni nelle date di una storia che sembra tornare indietro: infatti quando si torna a parlare di edilizia nel 1949 sarà per il piano di ricostruzione, cioè per ricominciare.

Uno dei momenti forti di questo nuovo inizio è, nel 1949, la promulgazione della legge n. 43, proposta da Fanfani. Era pas-sato meno di un anno da quando il Consiglio dei ministri aveva discusso e approvato il disegno di legge di Fanfani, il 6 luglio del 1948. Il 12 luglio, con carattere di urgenza, il disegno di leg-ge viene presentato in parlamento. Il 26 luglio Mariano Rumor presenta la relazione di maggioranza, Giuseppe Di Vittorio è re-latore di minoranza, il 28 luglio comincia la discussione alla Ca-mera. L’esame dei singoli articoli inizia il 1 agosto e il 4 agosto la Camera vota il disegno di legge con 248 voti favorevoli e 55 contrari. Il 10 agosto il disegno di legge passa al Senato. Il testo viene esaminato e presentato il 10 dicembre con una relazione di maggioranza di Leopoldo Rubinacci e una di minoranza di Carlo Cerruti. Il 20 dicembre il Senato approva il testo che torna così alla Commissione della Camera e poi viene ripresentato il 14 febbraio 1949 con una nuova relazione di maggioranza, ancora di Mariano Rumor e una di minoranza di Matteucci. La Camera vota il 24 febbraio e approva il testo che diventa la legge n. 43 del 28 febbraio 1949, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 7 marzo 1949. Tutti questi passaggi successivi sono caratterizzati da mo-

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menti di forte discussione: il semplice elenco di date non dice niente delle posizioni espresse dalle varie parti coinvolte, dentro e fuori il Parlamento, nei partiti, in Confindustria e nel sindacato, ma tutto è documentato e può essere ricostruito.

L’iter parlamentare ha modificato notevolmente la proposta iniziale che contiene già dalla sua titolazione una notevole com-plessità: Provvedimenti per incrementare l’occupazione opera-ia, agevolando la costruzione di case per i lavoratori: mentre nessuno mette in dubbio che i problemi del lavoro e della casa per i lavoratori siano fondamentali e urgenti, molti invece hanno da obiettare, per motivi diversi, sulle modalità con cui vengono affrontati. Anche perché il piano di Fanfani viene subito messo a confronto con altri piani, elaborati precedentemente. Annetto Puggioni, militante del Partito Popolare fino allo scioglimento del 1925, poi iscritto alla DC, nominato presidente dell’INA nel 1946, dopo una lunga carriera nell’Istituto dove era entrato nel 1929, aveva elaborato un suo piano per la casa, che era noto sia a De Gasperi sia a Di Vittorio e il segretario della CGIL gli aveva assicurato l’appoggio del sindacato. Un altro piano dal titolo La casa a chi lavora, era stato formulato nel 1945 da Piero Botto-ni, architetto, iscritto al PCI dal 1944, rappresentante della ca-tegoria degli ingegneri e architetti nella Consulta nazionale, un organismo di cui fanno parte antifascisti e personalità politiche del periodo precedente il fascismo, che ha un compito di valu-tazione e di controllo sull’operato del governo. Il piano è noto alla direzione del PCI e depositato nella biblioteca della Camera, Bottoni intende farlo discutere in Parlamento. Altri progetti per case popolari risalgono agli ultimi anni del fascismo e sono noti a molti di quelli che entreranno nella vita politica dopo la guerra. Fanfani aveva convocato proprio Puggioni, insieme ad altre emi-nenti personalità del mondo economico e politico, per parlare del suo piano, e con Puggioni mette a punto uno schema del decreto da presentare. Lo stesso Bottoni riconosce nel piano di Fanfani aspetti simili al suo. Insomma, quando Fanfani presenta il suo piano si trova di fronte delle persone che hanno una effettiva competenza, non solo posizioni ideologiche precostituite.

Il disegno di legge viene modificato prima di tutto per quanto concerne il sistema di finanziamento. Il progetto iniziale prevede che la costruzione di case per i lavoratori sia finanziata da un fon-

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do costituito con il contributo dei lavoratori, dei datori di lavoro e dello Stato. Ai lavoratori, esclusi quelli agricoli, viene detratta obbligatoriamente una quota della tredicesima mensilità. Questo contributo obbligatorio è un prestito ‘forzoso’, compensato con buoni casa in vista della futura assegnazione, mentre i non asse-gnatari avranno un graduale rimborso. Ai datori di lavoro viene chiesto un contributo a fondo perduto e l’anticipazione delle quo-te della tredicesima in rate mensili. Allo Stato viene assegnato il compito di pagare gli interessi su quanto viene accantonato e di partecipare al piano di ammortamento di 25 anni versando un contributo variabile per i singoli vani edificati.

Nella legge che viene approvata le modalità di finanzia-mento vengono così definite: il contributo dei lavoratori resta, non come prestito bensì a fondo perduto e la percentuale passa dall’1,47% allo 0,6%, che diventa 0,4% per i lavoratori capifa-miglia con tre o più persone a carico. Sono esclusi dalla con-tribuzione i lavoratori più “precari” o con redditi molto bassi, e quelli sopra i 59 anni di età. Lo Stato versa il 4,3% di quanto accantonato con il contributo dei lavoratori. Imprenditori e enti pubblici, escluse le pubbliche amministrazioni, verseranno un contributo pari all’1,20% della retribuzione mensile dei propri dipendenti. Le aziende e le cooperative formate da dipendenti possono tuttavia costruire direttamente la case, trattenendo i con-tributi ma assumendosi l’obbligo di anticipare i capitali, fornire il terreno, seguire la progettazione e la costruzione con tutte le spese relative.

Uno dei punti più controversi è la partecipazione dei lavo-ratori al finanziamento con un contributo obbligatorio preleva-to da un salario appena sufficiente, che l’opposizione vorrebbe sostituire con una tassa sui redditi più alti. Un altro punto for-temente problematico è la modalità di assegnazione delle case, che Fanfani propone per sorteggio, mentre alla fine verrà istitu-ita una graduatoria sulla base di un punteggio determinato con criteri ben definiti. Si discute molto anche sulla alternativa tra assegnazione in affitto e assegnazione in proprietà. Su questo punto emergono contrapposizioni molto forti non solo tra mag-gioranza e opposizione, ma anche tra il ministro Fanfani e il presidente di Confindustria Costa, secondo il quale la proprietà della casa non è un diritto di tutti ma una conquista dei più ca-

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paci, con buona pace del principio di uguaglianza delle oppor-tunità. A Fanfani che parla di giustizia anche come ispirazione cristiana della politica, Costa replica che Dio ha fatto le persone disuguali su moltissimi aspetti, non si vede perché dovrebbero essere uguali proprio su questo punto. Invece l’opposizione ri-tiene che dare queste case in proprietà, sia pure dopo 25 anni, sia un’ingiustizia di fronte ai più poveri che non potranno avere nemmeno questa opportunità. Alla fine sarà stabilito che le case siano assegnate parte in affitto e parte a riscatto, prima al 50% e poi per i 2/3. A distanza di 50 anni, per fare un esempio, i 526 appartamenti INA-Casa del Villaggio del Sole di Vicenza sono tutti di proprietà, eccetto 16.

A conclusione dei lavori parlamentari l’opposizione ribadisce il voto contrario al provvedimento, dividendosi tuttavia sulle moti-vazioni di fondo. Mentre il PCI con Di Vittorio dichiara la propria opposizione alle modalità di realizzazione del piano, ma non al piano stesso, il gruppo socialista, con De Martino, esprime una contrarietà di fondo. Mentre Di Vittorio dichiara: «Noi abbiamo tentato di ottenere dal governo e dalla maggioranza che i contributi fossero richiesti non ai lavoratori ma alle classi abbienti, in modo da rendere il disegno di legge allettante per quei lavoratori che, in condizioni di minor disagio economico, avessero potuto volon-tariamente acquistare dei buoni casa, e ottenere così il concorso volontario della parte meno disagiata dei lavoratori italiani alla re-alizzazione di questo progetto», De Martino accusa il governo di: «porre sullo stesso piano i datori di lavoro e i lavoratori; e quando dovete scegliere dei provvedimenti o dei piani contro la disoccu-pazione, non chiamate le classi possidenti a fare quei sacrifici che hanno il dovere di fare, ma chiamate i lavoratori a fare quei sacri-fici… Noi siamo contrari a questo piano, perché riteniamo che non contribuisca all’elevazione delle classi lavoratrici».

Fanfani difende l’imposizione del contributo come una for-ma di solidarietà tra i lavoratori e afferma: «Fin da ora mi sen-to autorizzato, a nome di tutti i colleghi di governo, a dire che non indietreggeremo mai di fronte a nessuna novità, se questa novità sarà capace di accrescere il pane e il lavoro per tutti gli italiani»28.

28. Fanfani e la casa cit., pp. 126-127

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Uno degli argomenti di discussione per l’attuazione del Pia-no è la gestione del patrimonio accumulato con il contributo dei lavoratori, dei datori di lavoro e dello Stato, quello che Fanfa-ni aveva espresso così: «come e da chi i fondi raccolti vengono tramutati in case». I due enti ritenuti idonei sono INPS e INA che hanno caratteristiche analoghe di stabilità e di diffusione sul territorio, ma la presenza sindacale nell’INPS evoca un futuro di possibili conflitti e questo, insieme ad altri criteri che hanno il loro peso in quel momento, fa scegliere l’INA.

L’INA è preesistente al fascismo, e durante il fascismo era cresciuto notevolmente di importanza. Aveva già operato in am-bito edilizio anche con la costruzione di case “convenzionate”, a Roma e in altre parti d’Italia. La scelta suscita comunque mol-te perplessità, che si possono riassumere in quello che scrive il presidente Einaudi a De Gasperi: «L’Istituto Nazionale delle Assicurazioni è l’ente più adatto a costruire case? A ciascuno il suo mestiere. L’Istituto ha molto da fare per mettere in ordine il suo bilancio. Se il suo bilancio è incerto, ciò vuol dire che esso ha una burocrazia pesante e cara, che non terrà probabilmente basso il costo della casa»29. Viene quindi creata una gestione se-parata, l’INA-Casa, dalla “burocrazia” meno pesante, e al suo interno vengono istituiti due organismi, il Comitato di attuazione che svolge la funzione di indirizzare e deliberare, e la Gestione INA-Casa con funzioni tecniche e di gestione. Il Comitato ha il compito di sviluppare le direttive generali stabilite dalla legge e il potere di deliberare sulla loro attuazione. In particolare predi-spone il piano tecnico-finanziario per l’uso dei fondi, stabilisce i criteri e le norme per la costruzione delle case, per l’assegnazio-ne e per il successivo piano di ammortamento, sceglie gli enti che devono costruire le case stesse, esercita il controllo sulla corretta attuazione e sulla applicazione delle normative. La Gestione è l’organo esecutivo e predispone tutte le operazioni necessarie all’attuazione, perciò sceglie i progettisti, assegna l’esecuzione dei lavori di costruzione, stabilisce le clausole contrattuali, as-sume la direzione dei lavori e i collaudi, direttamente oppure at-traverso Enti già operanti nel settore sul territorio, si occupa del

29. Ibidem, p. 77

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pagamento dei lavori. Inoltre ha il compito di preparare i bandi per l’assegnazione degli alloggi e di stipulare i contratti con gli assegnatari. Il Piano si realizzerà concretamente attraverso Piani di costruzione, elaborati dal Comitato: un Piano di sette anni, che stabilisce quante case devono essere costruite nell’arco di tempo dal 1949 al 1956, poi dei Piani annuali, che vengono elaborati per ogni anno successivo, con i fondi versati dagli assegnatari del primo settennio insieme al contributo dello Stato.

Alla scadenza del primo settennio, esattamente il 31 marzo del 1956, il Piano Fanfani secondo l’idea iniziale avrebbe dunque avuto un seguito, ma naturalmente con ritmi più lenti, perché i fondi raccolti dagli assegnatari e la percentuale dello Stato non avrebbero consentito di continuare con lo slancio iniziale. Invece prima della scadenza del settennio, visti i risultati conseguiti, il Parlamento approva una nuova legge, la n. 1148 del 26 novembre 1955, che proroga per altri sette anni il Piano stesso, con alcune modifiche che tuttavia non intaccano l’impianto fondamentale. Il secondo settennio si chiuderà il 31 marzo 1963. Il Piano aveva funzionato, e alcuni dati sia pure parziali lo testimoniano. Per quanto riguarda l’incremento dell’occupazione operaia, dal 1950 al 1962 i cantieri del piano sono stati 20.000 con l’impiego di 102 milioni di giornate-operaio, il 10% del totale per il periodo considerato, cioè hanno creato occupazione stabile per 40.000 lavoratori edili l’anno. Questo è avvenuto su tutto il territorio ita-liano, infatti i cantieri INA-Casa sono stati aperti in più di 5.000 comuni su un totale di circa 8.000 comuni allora esistenti. Per quanto riguarda la costruzione di case per i lavoratori, anche qui alcuni dati significativi. In quattordici anni sono stati costruiti 355.000 mila alloggi (1.920.000 vani), l’importo complessivo è stato di 936 miliardi di lire. La percentuale di alloggi INA-Casa sul totale di quelli costruiti dal 1951 al 1961 è di circa il 15%30. Il 70% di queste case è stato assegnato a riscatto, favorendo così la proprietà della casa anche per i lavoratori.

La direzione del Comitato di attuazione viene affidata a Fi-liberto Guala, (1907-2000), ingegnere elettrotecnico piemonte-se, che aveva già ricoperto importanti incarichi manageriali, un

30. Fonte: La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni Cin-quanta, a cura di Paola Di Biagi, Donzelli Editore, Roma 2001, p. 17

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intellettuale cattolico vicino a Montini, a Dossetti, a La Pira e a Fanfani. Questi, che lascerà il Ministero del Lavoro nel 1950, ha in Guala un uomo di fiducia, in piena sintonia con l’ispirazione di solidarismo cristiano che anima il progetto. La direzione della Gestione INA-Casa viene affidata a Arnaldo Foschini, (1884-1968), architetto, che ha fatto parte della Corporazione fascista dell’edilizia, docente alla facoltà di Architettura di Roma, di cui diventa Preside nel 1945, con vari incarichi associativi di tipo professionale, vicino all’INA e ai suoi dirigenti, in particolare al direttore generale Annetto Puggioni.

Il Comitato di attuazione e la Gestione INA-Casa hanno fun-zioni normative, di stimolo e di controllo, di distribuzione dei fondi e degli incarichi, mentre i compiti esecutivi vengono affi-dati a Stazioni Appaltanti costituite da enti pubblici preesistenti, come l’IACP, o le Amministrazioni provinciali o comunali, ma anche Consorzi e Cooperative, evitando così la creazione di un nuovo organismo centralizzato e appesantito dalla burocrazia. Per rendere effettivo il decentramento vengono incaricati degli Ispettori Tecnici che mantengono i contatti con i vari enti e in-tervengono localmente a risolvere i problemi che si presentano. Inizialmente è finanziato dall’INA-Casa, che anticipa gli stanzia-menti prima che affluiscano i contributi stabiliti dalla legge.

I progettisti che lavoreranno per l’INA-Casa vengono se-lezionati con una serie di concorsi, il primo viene bandito nel mese di ottobre del 1949, e lavoreranno in gruppo, condividendo esperienze e competenze diverse. Il Piano diventa così per questi professionisti un importante catalizzatore di energie creative ma anche un ambito di crescita professionale e di consapevolezza del proprio ruolo sociale. Dai dati del periodo si calcola che tra i libe-ri professionisti uno su tre sia stato coinvolto nella realizzazione del Piano Fanfani31. Il livello “qualitativo” della progettazione viene indicato in quattro fascicoli, due pubblicati nel 1949 e nel 1950 per il primo settennio di attività e due pubblicati nel 1956 per il secondo settennio. Sono testi che offrono suggerimenti e raccomandazioni che, pur non avendo forza normativa, sono tut-tavia regole a cui attenersi per ottenere l’incarico. Scopo dichia-rato dei fascicoli è quello di orientare i professionisti, perché,

31. Fonte: Fanfani e la casa cit. p. 92

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come dirà Bruno Zevi, per progettare case popolari: «occorre non solo l’architetto ma l’architetto colto», che abbia: «una speciale preparazione tecnico-architettonica ed una notevole conoscenza degli studi e delle realizzazioni effettuate in Italia e negli altri paesi»32.

Il modo di costruire è sostanzialmente quello che si usava in Italia in quel periodo di dopoguerra, tradizionale, non inno-vativo nelle tecniche e nei materiali, che esclude, per esempio, il ricorso ai prefabbricati e ad altre forme di industrializzazione. Le imprese edili che lavorano nei cantieri INA-Casa sono imprese locali, a livello artigianale, non grandi concentrazioni di impren-ditori del settore. Anche l’indotto segue la stessa regola, ricor-rendo alle realtà locali, prevalentemente medio-piccole. Questa scelta è coerente con l’obiettivo primo del Piano, che è quello di «incrementare l’occupazione operaia», creando numerosi posti di lavoro. Questo non significa arretratezza, infatti la mescolanza di muratura e cemento armato che viene adottata è recente ma, nei limiti del possibile, tutto viene realizzato “in opera”. D’altra parte sarebbe stato uno sforzo immane e frustrante attuare una pratica innovativa proprio in questo settore e in questa particolare situazione. L’Italia in quel periodo inizia la sua “rivoluzione in-dustriale”, che, secondo qualche storico, avviene proprio a caval-lo tra il 1950 e il 1960, quindi notevolmente in ritardo rispetto al resto d’Europa, per di più uscendo da una guerra ma soprattutto da un lungo periodo di autarchia33.

Le indicazioni che vengono date ai progettisti sono minuzio-se e riguardano ogni aspetto, esterno e interno, delle abitazioni e del quartiere nel suo insieme, perché è proprio il concetto di quartiere a determinare le scelte urbanistiche e architettoniche. I nuovi complessi devono inserirsi nell’ambiente preesistente, cen-tri urbani e paesaggio naturale, valorizzandone le caratteristiche. La necessità di restare nei limiti dei costi stabiliti, 400.000 lire a vano compreso l’acquisto del terreno, impone di tener conto del piano regolatore comunale per seguirne le linee di sviluppo sfruttando le infrastrutture già esistenti, per quanto è possibile. La “composizione urbanistica” dei quartieri deve essere artico-

32. La grande ricostruzione cit. p. 10033. Ibidem p. 114, nota 5.

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lata, varia, per creare spazi abitativi accoglienti e riconoscibili, non anonimi e “seriali”. Una particolare attenzione viene dedi-cata all’ambiente esterno che circonda le abitazioni: deve offrire «vedute in ogni parte diverse», dicono i manuali per i progettisti, che sottolineano l’importanza del verde intorno alle case. Il ver-de deve servire a creare, appunto, belle vedute, ma anche a fare da schermo tra le abitazioni, per salvaguardare la riservatezza degli abitanti. Ogni appartamento deve avere degli spazi ester-ni, balconi, terrazzini, logge che sostituiscono in qualche modo l’orto e il giardino. Sull’altezza dei palazzi la raccomandazione è sempre di non superare un certo numero di piani, tre o quattro, anche se poi le realizzazioni concrete sono anche in questo diver-se. L’importanza tuttavia è sempre nell’insieme, bisogna fare in modo che il terreno risparmiato costruendo in altezza sia messo a disposizione degli abitanti negli spazi pubblici come strade, marciapiedi, spazi di verde tra la case, parchi e giardini. La posi-zione reciproca degli edifici a più piani è accuratamente studiata perché nessun edificio faccia ombra agli altri. Ogni piano di ogni edificio deve ricevere il sole, anche a piano terra e anche, viene precisato, «nel solstizio d’inverno», e ogni appartamento dovrà avere due esposizioni alla luce e all’aria, possibilmente oppo-ste. Gli spazi interni della casa sono accuratamente progettati, fino ai vani per armadi a muro, con una razionale suddivisione della zona giorno dalla zona notte e dalla zona di ‘disimpegno’, prevedendo anche lo spazio per lavare e stendere la biancheria: non c’era ancora la lavatrice, perlomeno non in queste famiglie. Le camere da letto hanno come misura di riferimento il letto, appunto, «non più di due letti per adulti» in ognuna e lo spazio per una culla nella camera matrimoniale. Viene studiato anche il possibile arredo-tipo per i singoli alloggi, con i mobili per le va-rie stanze, senza trascurare alcun elemento utile e funzionale. Gli spazi comuni, scale, scantinati o mansarde, offrono possibilità di usi molteplici, ma ci sono anche gli spazi privati chiusi, piccole cantine/ripostigli nel seminterrato.

Nella progettazione dei singoli quartieri nel corso dei due settenni successivi ci sono state delle variazioni, legate anche al progredire dell’esperienza e alla diversità di temperamento, di capacità e di formazione dei singoli gruppi di progettisti, ma gli orientamenti generali sono rimasti sempre gli stessi, tanto che i

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quartieri INA-Casa sono riconoscibili a uno sguardo sufficien-temente attento. Questa “identità” che li distingue è il risultato della “cura” con cui i singoli elementi e il loro insieme sono stati pensati e collocati nel contesto.

I criteri di assegnazione hanno cercato di stabilire gradua-torie sulla base dei bisogni delle famiglie, come il numero dei componenti, le condizioni economiche, la distanza dal posto di lavoro, la situazione abitativa. Anche l’intreccio con altri fattori ha contribuito a dare precedenza a una domanda rispetto ad un’al-tra, come è avvenuto quando i comuni dovevano svuotare edifici fatiscenti dei centri storici per la ricostruzione del dopoguerra, oppure quando qualche settore della pubblica amministrazione doveva offrire un alloggio a propri dipendenti trasferiti da un luo-go all’altro. Le variabili sono state numerose, ma in generale si può ritenere che l’assegnazione abbia risposto a necessità reali e dimostrate, così gli abitanti dei nuovi quartieri, pur con le loro di-versità, avevano in comune l’esperienza del percorso fatto e degli ostacoli superati, ma anche la soddisfazione di avere realizzato una profonda aspettativa.

Nei quartieri INA-Casa anche gli spazi e i luoghi della vita sociale sono parte del progetto, infatti nascono come realtà au-tonome, con tutti i servizi indispensabili: scuole materne e ele-mentari, chiesa, parco giochi, spazi predisposti per i negozi, il mercato e il Centro sociale. Il Centro sociale ha una funzione molto importante nei quartieri e Guala, che presiede il Comita-to di attuazione, se ne fa carico personalmente e “arruola” fin dall’inizio delle Assistenti sociali fresche di diploma. Hanno il compito di aiutare la nascita e la crescita della comunità, per-ché il quartiere non è solo un insieme di abitazioni ma un nuovo modo di abitare. Le Assistenti sociali raccolgono e incanalano le richieste degli abitanti, fanno da tramite con le istituzioni, con l’amministrazione pubblica, con lo stesso INA-Casa. Inoltre facilitano l’avvio di iniziative di tipo culturale, come la nascita della Biblioteca di quartiere o di associazioni culturali, benefi-che e ricreative, favoriscono l’organizzazione degli abitanti nella gestione autonoma delle abitazioni e dei servizi anche attraverso la nascita dei Comitati di quartiere, promuovono l’attivazione di servizi igienico-sanitari soprattutto per le donne e i bambini, sup-portano la collaborazione tra le varie realtà attive nel quartiere

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stesso, come parrocchia, scuola, gruppi sportivi. Si può dire che il servizio sociale nei quartieri INA-Casa sia quello che ha fatto la differenza tra il semplice abitare in un quartiere e abitarvi con-sapevolmente, diventandone responsabili.

I palazzi INA-Casa sono contrassegnati da formelle di ce-ramica policroma che raffigurano animaletti stilizzati e portano ben evidente la scritta “INA-Casa”. Queste piastrelle sono state commissionate a importanti artisti, come Burri, Cambellotti, De Laurentiis, Dorazio, Cascella e sono state collocate prima del collaudo, come la firma dell’autore sulla propria opera. Questi palazzi non sono anonimi ‘casermoni’, ma case con una dignità, un’identità e una storia che abbiamo cercato di raccontare.

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Aggiungiamo una breve antologia di testi di esperti e profes-sionisti sull’INA-Casa e sulla sua attività, che ne sottolineano il valore e l’importanza esemplari nel tempo, come è bene espresso in questo passo: «L’architettura dell’INA-Casa, non solo desta ancora vivo interesse, ma, visti gli sviluppi dell’architettura ita-liana dei decenni successivi, suscita anche una certa nostalgia: ci appare come l’ultima occasione in cui in Italia si è costruito sulla base di progetti completi». (Sergio Poretti, in La grande ricostruzione, cit., p.127).

«La vastità del programma edilizio di questo piano richiede un particolare senso di responsabilità […] Si tratta di evitare qual-siasi spesa superflua pensando che ogni vano che si riesca a costruire in più del previsto andrà ad alleviare il disagio di un lavoratore privo di abitazione; si tratta d’altra parte, di studiare gli ambienti e gli spazi in maniera di non far risultare la pre-occupazione economica del progettista e di riuscire nello stesso tempo a dare all’abitazione un aspetto lieto ed accogliente, oltre ad una perfetta funzionalità; si tratta infine di contribuire con i complessi edilizi che verranno creati, a raggiungere quell’armo-nia architettonico-urbanistica che è sempre stata vanto del nostro paese nei secoli scorsi, quando si curavano in sommo grado non soltanto i centri monumentali, ma anche i centri più modesti». (Arnaldo Foschini, Ibidem p. 14).

«L’aspetto saliente del Piano Fanfani, che già si delinea nell’espe-rienza della casa popolare, è lo sviluppo delle molteplicità regio-nali e comunali della storia italiana, che tanta varietà racchiude nella sua unità nazionale e della tradizione fortemente urbana, anzi cittadina della vita sociale e di tutta la civiltà italiana che si riflette nella sua fattura fino dei suoi borghi più umili». (Ludovi-co Quaroni, in Fanfani e la casa, cit. p. 153).

«è stato concordemente realizzato un programma in cui gli scopi sociali – occupazione operaia e produzione di case per i lavora-tori – sono stati raggiunti attraverso l’integrazione di una appro-fondita visione urbanistica e di una elevata qualità architettonica.

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L’INA-Casa ha realizzato non solo costruzioni funzionalmente ed esteticamente pregevoli, ma interi quartieri residenziali, dotati di servizi collettivi: nuovi centri di vita impostati con intelligenza sociale e politica e illuminati dalla genialità creativa dei più valo-rosi progettisti italiani». (Adriano Olivetti, Ibidem p. 398).

«L’intesa tra Filiberto Guala e Arnaldo Foschini, preside della Facoltà di Architettura di Roma e presidente del Consiglio di am-ministrazione dell’INA-Casa (due personalità molto diverse che si stimarono reciprocamente) consentì il rinnovamento urbanisti-co e architettonico rispetto alle realizzazioni del regime fascista, con l’apporto di liberi professionisti e docenti universitari tra i più qualificati di quegli anni. Con tale piattaforma l’INA-Casa riuscì non solo a imporsi nel controllo delle gare d’appalto, evi-tando il pericolo di una tangentopoli, ma anche a ottenere com-plessi residenziali che mantengono ancora oggi la loro validità e funzionalità. Infatti Filiberto Guala, con la sua sensibilità socia-le, si adoperò con finanziamenti e cessioni delle aree necessarie affinché i quartieri più vasti fossero dotati dei servizi collettivi essenziali: chiese, scuole, centri commerciali, attrezzature spor-tive, aree per i bambini, ecc. Il servizio sociale, che nel tempo era venuto sempre meglio qualificandosi, contribuì a sviluppare nuovi rapporti interpersonali tra gli abitanti e conseguentemente i quartieri INA-Casa divennero strumento di integrazione tra la città e la periferia». (Franco Franceschetti, in Filiberto Guala. L’imprenditore di Dio, Testimonianze e documenti, a cura del Monastero di San Biagio, Edizioni PIEMME-Spa, Casale Mon-ferrato 2001, pp. 66-67).

«Il livello dell’edilizia sovvenzionata – per tradizione inferiore alla media – è stato portato dall’INA-Casa vicino al massimo assoluto che l’architettura italiana era in grado di raggiungere; i migliori architetti italiani hanno lavorato per l’INA-Casa e hanno fatto per l’INA-Casa alcune fra le loro esperienze più impegnati-ve […] Se l’edilizia popolare era prima un prodotto scadente, pa-ragonato alle punte della produzione architettonica italiana, ora è un prodotto buono, il migliore che la classe professionale italiana è in grado di dare al giorno d’oggi». (Leonardo Benevolo, in La grande ricostruzione, cit., p. 17).

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«Gli architetti, nella nuova società democratica che emergeva dalle immani distruzioni belliche, sentivano l’urgenza di non agi-re più alla periferia dell’industria edilizia […] Erano alla ricerca di una nuova clientela […] Ma dov’era questa nuova clientela? Come si poteva servirla? Era evidente: questa clientela di operai, di contadini, di impiegati non aveva né cultura né possibilità fi-nanziaria di rivolgersi alle classi professionali; voleva una casa, qualunque casa […] Erano clienti, sì, ma clienti inafferrabili, anonimi, inarticolati, personaggi in cerca di autore. Chi potevano essere gli autori? […] Gli autori dovevano essere gli architetti, i liberi professionisti, questa grande riserva di energia e di compe-tenza […] La mediazione tra burocrazia e clientela non poteva essere fornita che dagli architetti. Inserire l’anello professiona-le nella catena dell’industria edilizia, era dunque il problema. L’INA-Casa lo ha risolto». (Bruno Zevi, Ibidem, p. 17).

«La forma architettonica dell’INA-Casa ha saputo interpretare, chiarificare e rendere esteticamente valide le condizioni di un popolo: ciò non vuol dire affatto che le migliaia di edifici ormai costruiti dall’INA-Casa siano capolavori, ma vuol dire, intanto, che all’intellettualismo prezioso e pericoloso di tanta architettura problematica del nostro tempo si è contrapposta una varia, rea-listica, duttile e spesso felice architettura per il popolo. E questo non è avvenuto attraverso una imposizione massiccia di un tipo di squallida costruzione utilitaria ma nella libera interpretazione delle esigenze funzionali attraverso il gusto e la fantasia di mi-gliaia di architetti». (Valerio Mariani, in Fanfani e la casa, cit., p. 211).

«In quanto progettista per l’INA-Casa, una delle autrici di questo testo, può affermare che progettare quelle case popolari seguen-do quelle norme e quelle tecniche, aveva una importante valenza formativa. Prima di tutto quel lavoro portò a scoprire il dettaglio, i particolari, le cose piccole ma è più esatto dire a scala di mano. Quale competenza del progettare e per il progettare ti avevano dato i corsi universitari? Certo, lì dove i corsi erano buoni, ti ritrovavi ad aver sviluppato la capacità di essere attento alla vi-sione d’insieme, al gioco (proprio così) dei volumi, allo spartito dei prospetti, al rapporto pieni/vuoti, alla sezione aurea (!) tra alto

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e largo, ecc. Ma quello che non c’era o c’era poco, e comunque c’era solo in astratto, erano i perché di tutto questo e più che mai i perché delle cose singole, e quindi dei particolari (ma l’insie-me non è poi un insieme speciale di particolari?). Progettare per l’INA-Casa comportò l’applicare a cose che poi sarebbero state realizzate nel paese x entro y mesi, quelle regole del come si fa di cui avevi letto o che avevi sentito enunciare. Gli edifici mai più larghi di corpi doppi, se erano edifici in linea mai più di due appartamenti per piano per scala, aerazione trasversale e alloggi biesposizionali, attenzione alla distanza tra edifici paralleli: non scendere sotto una volta e mezza l’altezza e attenzione a sole e luce per i piani terreni; l’attacco a terra dei fabbricati, con isola-mento e aerazione; attenzione agli angoli dei corpi di fabbrica, per evitare introspezione e ascolto delle voci; l’attenzione alla distribuzione degli apparecchi e degli arredi nei bagni e in cucina (scoprire praticamente il senso della “cucina di Francoforte”), e a come far spiegare una porta, la sua distanza dal muro e l’ingom-bro delle mostre e delle maniglie; e fare in modo che le ante di un armadio, i suoi cassetti interni possano veramente essere aperti senza sbucciarsi le mani o le ginocchia. Studiare una pianta e le sezioni al cinquanta, e i particolari al venti, quando non ancora più grande. E perché dico scoprire praticamente il senso di una stanza? Perché quel progettare lì ti portava non tanto e non solo a guardarlo il lavoro che stavi facendo per vederne l’insieme, per imparare ad apprezzare l’effetto visivo di questo e di quello. Ma ti induceva ad usarlo. A entrare in quella casa, salirle quelle scale, aprire quella porta, affacciarti a quella finestra, usare quel bagno, quella cucina, quello stenditoio e qualche volta camminare su quel marciapiedi, sederti su quella panchina. Non mi pare che questo tipo di attenzione trovi molto spazio nella odierna cosid-detta cultura del progetto». (Costanza Caniglia e Amalia Signo-relli, in La grande ricostruzione, cit., p. 203, nota 31).

«Piano occupazione operaia è la qualifica del piano e ne indica la finalità sociale. La costruzione di case è l’attività scelta a tale scopo e che nel contempo, affronta uno dei problemi più assil-lanti del dopoguerra. Ma la conseguenza di questo piano, quella più inaspettata e forse di maggior interesse sul piano del vivere civile e della cultura, è l’inizio di una concreta ed importante at-

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tività urbanistica: la creazione di numerosi e nuovissimi quartieri residenziali». (Adalberto Libera, Ibidem, p. 21).

«Un nucleo, un quartiere, un’unità residenziale autonoma, sono qualcosa di più, o meglio molto di più, della semplice somma dei singoli addendi: essi sono unità sociali, nelle quali la vita individuale, di famiglia e associata si può svolgere con mino-ri costrizioni, minor peso, più libertà e più ricchezza che non nell’indistinto agglomerato urbano. Ma per raggiungere questo […] occorrono […] piani urbanistici che non siano un semplice tracciato geometrico, ma il risultato dello sviluppo coerente di un pensiero sociale. Il fatto che le aree siano periferiche o esterne non nuoce, se le nuove unità residenziali hanno carattere vera-mente autonomo, ché anzi queste, sorgendo in zone libere svin-colate dalle maglie di preesistenti vecchi piani regolatori, hanno potuto essere caratterizzate con una maggiore libertà di impianto da parte dei progettisti, ed inoltre, essendo distaccate dal centro abitato, non sono ad immediato contatto con l’anonima edilizia dei sobborghi. La scelta di aree esterne contribuisce al decentra-mento urbano ed è quindi, come tale, fondamentalmente sana». (Giovanni Astengo, Ibidem, p. 22).

«[La casa deve] contribuire alla formazione dell’ambiente urba-no, tenendo presenti i bisogni spirituali e materiali dell’uomo, dell’uomo reale e non di un essere astratto: dell’uomo cioè che non ama e non comprende le ripetizioni indefinite e monotone dello stesso tipo di abitazione fra le quali non distingue la propria che per un numero; non ama le sistemazioni a scacchiera, ma gli ambienti raccolti e mossi al tempo stesso. Saranno dunque le condizioni del terreno, il soleggiamento, il paesaggio, la vege-tazione, l’ambiente preesistente, il senso del colore a suggerire la composizione planimetrica affinché gli abitanti dei nuovi nu-clei urbani abbiano l’impressione che in questi sia qualcosa di spontaneo, di genuino, di indissolubilmente fuso con il luogo sul quale sorgono». (Piano incremento occupazione operaia, Ibidem, p. 24).

«Certamente queste parti della città contemporanea mostrano come ciò che più si presta a essere ridefinito e risignificato attra-

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verso l’intervento progettuale è lo spazio non costruito, pubblico e collettivo e l’insieme di relazioni che esso stabilisce con gli spazi edificati, gli individui e i gruppi sociali che li abitano. Infat-ti, ciò che, fin dalla fase progettuale, ha contraddistinto i quartieri da altre limitrofe espansioni urbane del Novecento è il ruolo che nel loro disegno assume lo spazio aperto. […] I quartieri possono divenire in futuro punti dai quali può prendere avvio un processo di riqualificazione che si espanda e più complessivamente coin-volga lo spazio periferico. La ridefinizione dello spazio aperto, l’unico forse in grado di stabilire nuove relazioni tra le parti urba-ne e tra le persone, rende particolarmente importante oggi l’inter-vento pubblico entro il paesaggio eterogeneo della città contem-poranea, laddove l’assenza di relazioni significative tra le cose rende estranei tra loro i soggetti sociali e le loro attività. L’in-tervento pubblico, dopo un lungo periodo nel quale ha immesso nello spazio urbano quantità rilevanti di nuove idee sull’abitare e di loro rappresentazioni fisiche, deve forse oggi confrontarsi col grande tema del “senso” e del ridisegno di questo tipo di spazio». (Paola Di Biagi, Ibidem, pp. 30-31).

«Quanto al Piano Fanfani si può dire, a distanza di anni dalla sua scomparsa, che esso è stato l’unico Ente del dopoguerra ad avere un obiettivo, una struttura, un programma finanziario e una rego-lamentazione tali da farne la vera, unica e apprezzabile novità del dopoguerra nel settore dell’edilizia. […] Quello che oggi risul-ta interessante constatare è il fatto che la massiccia produzione edificatoria di quell’Ente ha sviscerato sul piano teorico e speri-mentale il tema della casa, dalla cellula abitativa al quartiere, dal problema progettuale a quello costruttivo, dal costo unitario delle singole componenti a quello dell’insieme territoriale. […] qua-lunque sia il giudizio complessivo che ognuno ne possa ricavare, resta il fatto che l’esperienza INA-Casa ha aperto vie prima ine-splorate di conoscenza del problema abitativo». (Federico Gorio, in Fanfani e la casa, cit., pp. 268-269).

A cura della Redazione

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Fonti:

Leder F.-Saccardo U., Vicenza. Ottocento e Novecento: piani, progetti e modificazioni, Ergon Edizioni, Vicenza 1996.Di Biagi P. (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni ’50, Donzelli Editore, Roma 2001.Monastero di San Biagio, Filiberto Guala. L’imprenditore di Dio, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 2001.Istituto Luigi Sturzo, Roma, Fanfani e la casa. Gli anni Cinquan-ta e il modello italiano di welfare state. Il piano INA-Casa, Rub-bettino Editore, Soveria Mannelli 2002.Il Codice di Camaldoli, Edizioni Lavoro, Roma 2005.Rumor Mariano, Memorie (1943 – 1970), a cura di Reato E. e Malgeri F., Neri Pozza editore, Vicenza 1991.

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Interventi di edilizia popolare nel Comune di Vicenza(fare riferimento alle mappe allegate)

Il Villaggio del Sole è un quartiere dell’INA-Casa, che a sua volta si pone nel solco di un tradizionale impegno dell’am-ministrazione pubblica ai vari livelli nell’edilizia popolare, convenzionata, sovvenzionata, agevolata di cui troviamo nu-merosi esempi anche nel comune di Vicenza. Indichiamo qui la collocazione sul territorio di alcuni di questi interventi, che riguardano case costruite dal comune e da altri enti pub-blici senza tener conto di forme di edilizia agevolata e degli eventuali cambiamenti o passaggi di proprietà e di gestione. Ci limitiamo a collocare la storia del Villaggio del Sole nel contesto più ampio e complesso in cui è nato, senza pretese di completezza.

Abbiamo cercato sulla mappa di Vicenza, suddivisa in 22 zone, gli edifici costruiti con il contributo del Comune, quelli costruiti con il contributo di altri enti pubblici e le zone PEEP (Piano Edilizia Economica Popolare) dal 1962. Sono interventi distribuiti nel tempo a partire dai primi anni del 1900, per esem-pio nella zona di San Felice, di San Bortolo, di Santa Croce, altri risalgono al periodo tra le due guerre e altri agli anni del secon-do dopoguerra, fino al 1960: San Pio X e Villaggio del Sole tra questi ultimi. Ci limitiamo e una rilevazione che non distingue le diverse profondità temporali ma dà l’idea della densità di in-terventi, con l’elenco delle zone e delle vie lungo le quali questi edifici sono oggi presenti.

Nella zona del centro storico si trovano edifici costruiti dal Comune in viale D’Alviano, tra cui il ‘Casermon’, in via Mure Corpus Domini, via Bonollo, via Cornoleo, piazzetta San Biagio, contrà Mure Carmini, contrà Pedemuro San Biagio, contrà Stalli, contrà Canove Vecchie, contrà Porta Santa Lucia e contrà Mure Santa Lucia, nel quartiere Barche, in contrà Santa Caterina e in

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via Pacinotti. Edifici costruiti da altri enti pubblici si trovano in contrà di Porta Padova.

Nella zona di San Felice-Cattane ci sono due aree PEEP, quella di Cattane su via Cavalieri di Vittorio Veneto e strade adia-centi, e quella del Mercato, su via Adenauer e adiacenti.

Edifici costruiti dal Comune si trovano in via Divisione Julia (PP9, Piano Particolareggiato 9), corso San Felice, via dei Mille (dove i primi interventi risalgono agli inizi del 1900, quando la stra-da si chiamava del Volto di San Felice), via Btg. Val Leogra, via Za-nardelli, via Carso. Edifici costruiti da altri enti pubblici si trovano in strada Biron di Sopra (Case Romita), nelle vie Colombo, Malaspina, De Conti, Usodimare, De Gama, Verrazzano, Cadamosto, Caboto e Vespucci (Villaggio del Sole-INA-Casa), nelle vie Bgta Regina, del-la Produttività, B. Buozzi, Bgta Toscana (Villaggio della Produttivi-tà), in via Mameli, via Cariolato, via Costantini, via Divisione Julia.

Nella zona di Capitello c’è un’area PEEP detta Maddalene, edifici costruiti dal Comune lungo S.P. 46 Pasubio e edifici co-struiti da altri enti pubblici in via Valles.

A Polegge si trovano edifici “comunali” in strada comunale di Polegge.

Laghetto: l’intero quartiere è area PEEP. Edifici costruiti dal Comune si trovano in via Lago di Garda, via Lago di Alleghe, via Lago d’Iseo, via Lago di Toblino. Edifici di altri enti pubblici sono in via Lago di Fusaro.

Nella zona di San Bortolo, dove già nel 1909 l’Azienda per le case popolari aveva completato 42 alloggi tra San Bortolo e Santa Croce, si trovano edifici costruiti dal Comune in via La-marmora, via Settembrini, via Tommaseo, viale Grappa, via Me-dici. Nuclei di edifici costruiti da altri enti pubblici sono nelle vie Mentana, Sorio e Pastrengo. Altri si trovano in via Sant’An-tonino, via Montebello della Battaglia, nelle vie Monti, Pellico, Leopardi e Gioberti e in via Sartori.

A Saviabona si trovano edifici costruiti dal Comune in viale Fiume e in viale Astichello.

Nella zona di via Quadri ci sono edifici comunali in via E. di Velo e edifici di altri enti pubblici in via Legione Gallieno.

In zona Stadio si trovano edifici costruiti da enti pubblici in via Schio, Lonigo, Trissino, e via dello Stadio, via Bassano e adicenti, via Borgo Casale.

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Nella zona di San Pio X c’è un’area PEEP San Pio X, edifici costruiti dal Comune si trovano in via Giorgione e in via Pale-mone, edifici costruiti da altri enti pubblici in via Dalla Scola e Giorgione, via Casermette, via Gonzati, via Zuliano, via Sale e adiacenti, via del Cavalcavia.

Nella zona di Bertesinella c’è un’area PEEP Bertesinella. Edifici costruiti dal Comune si trovano in via Maurisio, via Gen. Dalla Chiesa, via Paradiso e via Ca’ Balbi, via G. Rossa, via Set-tecà, via Schiavo/Della Paglia. Edifici costruiti da altri enti pub-blici si trovano lungo alcune di queste stesse vie: via Gen. Dalla Chiesa, via G. Rossa e strada della Paglia.

A Casale c’è una presenza di case ristrutturate dal comune sulla S.P. 11 verso Padova, in località Settecà.

Nella zona della Riviera Berica c’è un’area PEEP Riviera Berica. Edifici costruiti dal Comune si trovano in via Orlandi, via Turati, via Salvemini e in S.P. Riviera Berica, edifici costruiti da altri enti pubblici sono in strada del Tormeno, ancora in via Salvemini e Turati, e in via dell’Opificio.

Nella zona di Campedello si trovano case costruite dal Co-mune in via Porciglia e in via Bertolo, su quest’ultima si affac-ciano anche case costruite da altri enti pubblici.

In Gogna ci sono case costruite dal Comune in viale Fusinato.In zona Ferrovieri ci sono due aree PEEP, Sant’agostino e

PP3. Si trovano case costruite dal Comune in via De Ferretti e case costruite da altri enti pubblici si trovano nel Quartiere dei Ferrovieri, in via Baracca, in via Beroaldi, via Malvezzi, via Ca-regaro Negrin, via Rossi e via Ferretto De Ferretti.

In zona San Lazzaro c’è un’area PEEP San Lazzaro. Edifici acquisiti dal Comune si trovano in viale San Lazzaro, mentre edifici costruiti da altri enti pubblici si trovano in via Rossini, via Piccoli, via Albinoni, via Bellini, via Onisto.

Nelle zone di Maddalene (vecchie), Ospedaletto, Bertesina, San Pietro Intrigogna e Monte Berico non sono stati rilevati in-terventi di edilizia pubblica popolare dei tre tipi che noi abbiamo preso in considerazione.

Eugenio Polatogeometra

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LA FORZA DELLA NARRAZIONE

Narrare una vicenda è più che darne notizia. La narrazione che facciamo agli altri passa attraverso la nostra esperienza e la nostra sensibilità: non raccontiamo solo un fatto ma anche la sua interpretazione, con le sfumature che appartengono a ciascuno. La narrazione che gli altri fanno a noi ci aiuta a capire meglio ciò che sappiamo già e a conoscere ciò che ancora non sape-vamo. Noi abbiamo compreso meglio ciò che siamo stati come comunità perché la narrazione di storie diverse ha arricchito la comprensione di ciascuno.

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Abitare i raccontia Bruno Benci

In ogni luogo di questa città si potrebbe volta a volta dormire, fabbricare arnesi, cucinare, accumulare monete d’oro, svestirsi, regnare, vendere, interrogare oracoli.

(Italo Calvino, Le Città invisibili)

Le motivazioni

Ho ricevuto un bell’invito per un contributo, quando ho chiesto lumi sull’attività e soprattutto sul perché potesse essere utile un mio contributo ad un’attività già ben strutturata e con motivazioni forti, riscontri e pubblicazioni alle spalle ho ricevuto questa risposta: «La relazione è esistita prima del racconto e non è stata applicato alcun tecnicismo a freddo. Poi è stato importante mettere a tema l’abitare che comprende il lasciare le precedenti abitazioni per le nuove (3.500 persone sono venute nel 1960 ad abitare il nuovo quartiere dell’INA-Casa in periferia di Vicenza dove le contrade limitrofe – campagna – contavano 650 persone costrette a fare riferimento alla Città – 4 km). Il tema focalizza i racconti, impedisce la raccolta di ricordi slegati o di soli aned-doti, mette insieme la popolazione già residente (650 persone), quella arrivata nel 1960 (3500 persone) e gli immigrati che oggi rappresentano il 33% (un terzo) del quartiere senza che si deb-ba lamentare grosse difficoltà di convivenza. è stata usata una modalità “transitiva” scrivendo Il Villaggio per alludere al fatto che la nuova popolazione si è impegnata subito nel darsi regole interne di convivenza e un organo rappresentativo per ottenere dal comune il completamento dei servizi (marciapiedi, asfaltatu-ra strade, autobus, alberi). I ricordi si sono dispiegati in racconti orali e in memorie con un comune riferimento al luogo, alle per-sone di riferimento, alle ricorrenze, alla comunità. Nel processo ci sono stati scambi e arricchimenti reciproci e la memoria è or-mai un prodotto collettivo».

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La risposta è stata di quelle che non consentono di eludere un invito.

Il tema dell’abitare un luogo e del dargli identità attraverso il racconto mi è molto caro ed ha accompagnato le mie ricerche sul-la narrazione per molti anni, mi sollecita, tra l’altro il ricordo di un amico precocemente scomparso da pochi mesi: Bruno Benci.

Bruno Benci, persona di umanità e gentilezza traboccante, valente architetto, presidente dell’Ordine degli Architetti del-la Provincia di Arezzo sino alla sua improvvisa e precocissima scomparsa mi ha introdotto, anni fa, a questi temi. Devo a lui la capacità di mettere insieme due versanti della mia attività sul campo e di ricerca: la partecipazione e la narrazione. Bruno Benci mi ha offerto la possibilità di lavorare alla ricostruzione dell’identità di un paese nella Provincia di Arezzo con metodi partecipativi: l’obiettivo era quello di partire dalla ricostruzione di un’identità locale per progettare degli spazi pubblici insieme alla popolazione. è stata un’esperienza felice, ancora una vol-ta voglio ricordarlo e ringraziarlo, persone così riescono a dare senso a molte cose, a molti legami, a intere comunità, spiace lo spreco di tanta umanità, tanta intelligenza, tanta cultura, tanta ca-pacità di saper far dialogare gli altri.

Luoghi e comunità

Gli studi più recenti definiscono le comunità come sistemi plurali, la cui identità, fluida, si attualizza in determinati momenti storici e su particolari problemi, non sarebbero dunque cristal-lizzabili in forme definite vista la loro continua propensione a mutare. Non vi sono quindi oggi, o meglio sono progressivamen-te minoritarie, comunità date, esse prendono forma e coscienza dell’esistenza in relazione ad eventi o necessità particolari. Un consenso piuttosto diffuso si trova, invece, attorno al concetto di comunità locale: un sistema complesso composto da un’uni-tà territoriale con tutte le caratteristiche che la denotano. Que-ste caratteristiche sono quelle ambientali, di servizi, istituziona-li, relazionali, economiche, relative ad attività, di connessioni e relazioni formali ed informali, culturali, valoriali, normative…: la comunità locale è allora un insieme di persone che intessono

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relazioni in uno stesso spazio geografico-territoriale (un paese, un quartiere, un distretto, un sottoinsieme dei precedenti). All’in-terno di questo spazio possiamo reperire attività, scambi (mate-riali e immateriali), interdipendenze, riflessioni, trasformazioni e affetti: quindi una comunità non si riferisce semplicemente alla somma delle sue componenti, ma è una sorta di “lettura” della somma delle interazioni (diversa e maggiore della somma delle singole parti) come un tutto unico.

Tuttavia oggi vanno scomparendo tutti quei fondamenti dell’esperienza di comunità che la rendevano ben identificabile in passato: non esiste più nemmeno la certezza che ci rivedre-mo, che continueremo ad incontrarci spesso e a lungo in modo da presumere che il modo in cui oggi ci comportiamo l’uno nei confronti dell’altro comporterà domani disagio, sofferenza o sol-lievo e benessere. Eppure proprio in un orizzonte di disgrega-zione la comunità si rivela come luogo accogliente, capace di suscitarci sensazioni di fiducia e protezione, uno spazio familiare nel quale muoversi diventa possibile e relativamente semplice; oppure, all’estremo opposto, la comunità può essere il paradig-ma del controllo sociale, della chiusura e della coesione “contro” qualcuno o qualcosa, del rifiuto del diverso, del “non membro”. La comunità è comunque esigenza e bisogno irrinunciabile, per i singoli soggetti (appartenenza, relazioni significative), per la de-mocrazia (affermazione delle necessità condivise, rafforzamento reciproco della decisionalità, sperimentazione di forme di demo-crazia diretta).34

Luoghi e identità

Dove sta l’identità di un luogo? L’identità di un luogo è co-struita dalla comunità che quel luogo vive, si connotano simbo-licamente gli spazi, si attribuiscono i significati, si socializzano

34. La sociologia classica distingue tra le comunità spaziali e quelle aspaziali: entrambe accomunate dal vincolo che lega i membri in un’interdipendenza le prime hanno come caratterizzazione la contiguità spaziale dei membri della comunità, le seconde il vincolo non è dato dalla contiguità (che non esiste) e dunque i membri sono legati dalla condivisione di interessi, valori, ideali.

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simboli e significati attraverso la memoria comune, attraverso la condivisione dei racconti, delle memorie, dei significati prodotti. Ciascuno di noi, come ci dice non soltanto la letteratura scientifi-ca (Bruner, 1990, Smorti, 1994), ma anche l’esperienza comune, vive più il significato delle azioni e degli eventi piuttosto che una supposta realtà oggettiva, l’interpretazione più dell’evento stesso, il senso che attribuisco ad un luogo, piuttosto che delle caratteristiche oggettive di un luogo.

I luoghi sono abitati da comunità e le comunità sono costi-tuite da persone che intessono relazioni e, visto che le persone si modificano, si modifica anche l’identità di un luogo. Gli scambi, materiali ed immateriali, che definiscono una comunità finiscono così per incidere sull’identità non soltanto dei soggetti ma anche dei luoghi. Una delle modalità più efficaci per conoscere e nego-ziare i significati attribuiti a degli spazi comuni, a dei luoghi è quella del racconto. Attraverso il racconto condividiamo e nego-ziamo i significati: Siamo una specie narrante (Jedlowski, 2000, p. 194), perché abbiamo bisogno di assegnare un senso alla nostra esperienza – un senso che arriva post factum – e il solo modo che abbiamo per dare un senso alla complessità delle azioni umane è il racconto, l’atto di narrare. Siamo esseri desideranti, che una volta esauditi i bisogni di base, legati alla sopravvivenza fisica, sentiamo il bisogno sociale di essere accettati e riconosciuti dagli altri. Solo così – attraverso la comunicazione – possiamo riuscire a costruire la nostra identità. In particolare, «il pensiero narrativo può funzionare come metodo “veloce” di attribuzione dei signi-ficati e come guida nell’azione e nel giudizio sociale» (Smorti, 1994, p. 121): raccontando a noi stessi e agli altri incrementiamo la nostra comprensione, creiamo le condizioni per continuare a comprendere, all’interno di un circolo di tipo ermeneutico.

Dalla pedagogia all’educazione degli adulti e alla formazione e orientamento scolastici e professionali, muovendo dalle acqui-sizioni della psicologia culturale di Bruner, quindi dalla rivalu-tazione del pensiero narrativo e, in generale, dall’avanzata delle metodologie qualitative in ambito educativo, si è cominciato a pensare alla narrazione come ad una fondamentale risorsa iden-titaria, capace di facilitare l’apprendimento di strumenti narrativi e di contribuire alla costruzione e alla presa di consapevolezza di un patrimonio culturale condiviso. Da lunghe sperimentazioni e

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riflessioni è scaturita la metodologia dell’orientamento narrativo (Batini e Zaccaria, 2000; 2002; Batini e Del Sarto, 2005), sorta ad opera di pedagogisti e professionisti dell’orientamento italiani che hanno affrontato con strumenti narrativi il problema dell’orienta-mento scolastico e professionale, ovvero dello sviluppo di compe-tenze progettuali e di capacità di scelta in soggetti “disorientati”.

La narrazione è motivata da un profondo bisogno di confe-rire senso alla realtà, la quale – secondo il paradigma costruttivi-sta – acquista significato proprio attraverso i racconti di ciascun narratore.

La comunicazione, in un’ottica costruttivista, è un’azione creativa, nel senso che è attraverso la comunicazione che cre-iamo la realtà stessa. La narrazione è una modalità del pensiero – il pensiero narrativo descritto da Smorti (1994; 2007) – mossa dalla volontà di conferire senso alle azioni umane.

Abitare le storie

Funzioniamo così: dentro una precisa cornice culturale noi ci muoviamo, incontriamo persone, agiamo, ovvero prendiamo delle decisioni spinti dai bisogni (bisogni fisiologici, bisogni di sicurezza, e poi, su un altro livello: di appartenenza, di stima, di autorealizzazione e bisogni spirituali, secondo la piramide di Maslow). Sono le azioni che compiamo grazie alle decisioni a costruire le situazioni e a dare un senso a ciò che facciamo. Costruiamo così i nostri valori, sulla base dei quali strutturiamo le successive decisioni. Siamo dentro un circolo di tipo erme-neutico: abbiamo dei pre-giudizi sul mondo, delle immagini del mondo, dei valori che ci consentono di scegliere, scegliamo dan-do un significato all’azione e creando i presupposti per scegliere ancora.

Interpretare il significato delle azioni umane vuol dire met-tere le azioni in connessione con altre azioni. Il che significa pro-priamente collocare la singola azione dentro una storia. Siccome le nostre azioni ci sfuggono, abbiamo bisogno di intepretarle, as-segnando loro un senso. Per farlo costruiamo delle storie.

Le storie consentono senso, permettono la produzione e co-produzione di significati, per questo trovo che questo progetto non

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soltanto esprima benissimo, al di là di ogni tecnicismo una modali-tà di ricerca azione... ma che sia davvero un’azione politica.

Raccontare e raccontarsi significa allora facilitare nuovi pro-cessi di democrazia, partendo dall’elementare bisogno di ogni soggetto e di ogni comunità di avere diritto di parola rispetto al luogo che vive.

Federico Batini

Federico Batini, ricercatore all’Università di Perugia e fondatore del-la metodologia dell’orientamento narrativo è direttore di Pratika www.pratika.net www.pratika.net e di Nausika. Scuola di Narrazioni. Arturo Bandini. www.narrazioni.it. Autore di oltre 100 pubblicazioni su orien-tamento, educazione, formazione dirige la rivista «Lifelong lifewide learning» ed è Presidente nazionale di COFIR www.cofir.net. Tra le ultime pubblicazioni si segnalano: F. Batini, B. Santoni, L’identità ses-suale a scuola: educare alla diversità e combattere l’omofobia, Liguori, Napoli 2009; F. Batini, G. Del Sarto, M. Perchiazzi, Raccontare le com-petenze, Transeuropa, Massa 2007 (ristampa 2008).

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Il Villaggio del Sole: identità e resistenza di una piccola patria

Le cose viste da vicino

Fino a poco tempo fa conoscevo il Villaggio del Sole da vi-centino “foresto”. Occasionale passante lungo le trafficate strade prospicienti, ho spesso osservato con curiosità il lungo profilo ondulato dell’edificio che segna verso est il limite del quartiere con il viale del Sole. Intravisto tra il verde compatto degli albe-ri, ho giudicato questo particolare condominio, soprannominato famigliarmente dagli abitanti “Bissa” (appunto per la sua forma a serpente), un vecchio esempio di architettura popolare ormai ingrigito dagli anni e dallo smog, disturbato dal traffico e abitato soprattutto da famiglie di immigrati, come dimostra il proliferare di antenne satellitari sui vari balconi. Va da sé, l’immagine che ho riconosciuto nella “Bissa” si è riflessa per il resto degli edifi-ci del Villaggio del Sole e così mi è sembrato logico ipotizzare quest’ultimo un luogo residenziale di Vicenza dove l’abitare non è forse cosa molto desiderabile.

Non so se, e quanto, tale “automobilistico” modo di vedere il quartiere può essere comune. L’apparenza non sembra lasciare spazio a diverse considerazioni in proposito quando, invece, die-tro ad essa si nasconde tutt’altra realtà.

Grazie ai materiali e alle informazioni fornitemi dall’as-sociazione Villaggio insieme, in occasione di questo studio, ho avuto la possibilità di conoscere approfonditamente la storia del Villaggio tanto che ora, anche a un’occhiata non più così fuga-ce, le pareti sbiadite degli edifici, «i marciapiedi dissestati, le panchine un po’ arrugginite», appaiono solo come conseguenze abbastanza insignificanti dello scorrere del tempo e dell’incuria quasi inevitabile presente in ogni periferia urbana. Perché, al di là da queste naturali “rughe”, il Villaggio del Sole rimane simbolo di un “bel” e ancora per certi versi “nuovo”, abitare come infatti ho scoperto soffermandomi sui ricordi e sulle considerazioni di chi ci ha vissuto e che ci vive tutt’ora:

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Il Villaggio del Sole è bello, e non lo diciamo soltanto noi che lo abitiamo, ma lo dicono anche dei professionisti che di queste cose se ne intendono. Noi che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi le sue strade con le auto parcheggiate ovunque, i suoi marciapiedi dissestati, le sue panchine un po’ arrugginite e altri aspetti meno piacevoli, facciamo fatica a vedere la sua bellezza. Ma chi guarda con occhio esperto la vede perché sa vedere il progetto iniziale, rimasto intatto, dietro questi particolari dovuti anche al passare del tempo. E se sappiamo guardare noi tutti possiamo capire ciò che rende unico e originale il nostro quartiere35

Bellezza e novità

Tutto il nuovo che avevo intorno me lo gustavo: le stanze ariose con una bella vista sui campi del signor Griggio e del suo vigneto, […] il Monte Crocetta si vedeva bene, e tutt’intorno un bel verde che rasserenava! Ho avuto un altro figlio nel ’65, avevamo una casa bella grande e in cinque si stava bene. I nostri figli hanno potuto sfogarsi a giocare a pallone, correre nelle strade che erano sicure perché non passava quasi una macchina e avere tanta com-pagnia36.

Una decina di anni dopo la fine del secondo conflitto mon-diale, il progetto di costruzione di un complesso insediamento popolare nell’immediata periferia ad nord-ovest di Vicenza, an-nunciò lo spirito nuovo che da lì a qualche anno avrebbe portato un periodo di benessere economico mai prima d’allora raggiunto in Italia. L’arrivo quasi in un sol colpo, in una zona fino ad allora assai poco urbanizzata di Vicenza, di circa 3500 persone distribu-ite nei 5 nuclei abitativi di nuova costruzione (l’INA-Casa – Città del Sole, villaggio satellite di Vicenza – che ha poi dato nome all’insieme dei villaggi; il villaggio Produttività – cioè del Comi-tato della Produttività – detto “case Gardella” dal nome del suo architetto; il villaggio Romita così chiamato perché costruito con i soldi dell’omonima legge edilizia; le due case dei vigili urbani

35. Associazione Villaggio insieme (a cura di), Abitare il Villaggio. Memoria e storia, Vicenza 2009, p. 194.36. Ivi, p. 98.

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per un totale di 14 appartamenti; le case “Cassa di Risparmio”, 84 appartamenti suddivisi in 3 fabbricati costruiti dal Comune in collaborazione con tale banca)37, descrive bene quella che per lo storico Paul Ginsborg, è stata la maggiore peculiarità del «boom economico» italiano: un’occasione «per un rimescolamento sen-za precedenti della popolazione italiana»38.

Secondo i ricordi degli abitanti “autoctoni”, prima della co-struzione del Villaggio, in tutta la zona a sud del Monte Crocetta, in particolare, tra le vie del Biron di Sotto e Biron di Sopra, città e campagna si mescolavano vicendevolmente. L’arrivo di un tal numero di nuovi abitanti e di così varia provenienza, rappresentò comunque un problema: nonostante il Villaggio fosse stato pen-sato in una località già di per sé aperta allo scambio fra diversi modi di vita, l’integrazione di un assai eterogeneo e numeroso gruppo di persone non era da darsi per scontata. Come potesse essere stata complicata l’unione fra nuovi e vecchi abitanti, si può immaginare magari osservando le fotografie aeree del quar-tiere appena costruito: tanto le strutture moderne staccavano net-tamente con l’ambiente intorno, dominato ancora in gran parte da campi coltivati e vigneti, tanto sarebbero state lontane le consue-tudini di chi viveva intorno alle recenti costruzioni e di chi invece si apprestava ad abitarci:

Quando è stato costruito il Villaggio del Sole la popolazione del nuovo quartiere, inizialmente non legava molto con i contadini del Biron che rimasero molto più soli: altra mentalità, altra cultura, altra scolarizzazione. Andando in chiesa e a scuola si incontravano questi “foresti”. I ragazzi del Biron avevano il Monte per crescere, quelli del quartiere giocavano sulle strade interne tra di loro39

L’iniziale separatezza era però destinata ad annullarsi, un po’ perché i nuovi abitanti non disdegnarono le consolidate tradizio-ni del luogo (come la frequentazione della trattoria da “Tulio” o il “fare Magasin” della famiglia Rizzato), un po’ perché anche chi risiedeva nei dintorni del quartiere ebbe beneficio dei servizi

37. Dati sul Villaggio del Sole, nota a cura dell’Associazione Villaggio insie-me, Vicenza 31 ottobre 2008.38. P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino 1989, p. 295.39. Ass. Villaggio insieme (a cura di), Abitare il Villaggio cit., p. 42.

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che il quartiere portava con sé (la chiesa di San Carlo, la scuo-la, l’ufficio postale, i negozi). Il Villaggio, secondo gli intenti dei progettisti doveva fungere da polo gravitazionale per tutti gli insediamenti preesistenti e per quelli che successivamente sareb-bero stati costruiti in quell’area di Vicenza40. E nel processo di amalgama non deve essere sottovalutata la comodità di avere a disposizione vicino casa servizi che fino ad allora poteva offrire solo il centro città.

Il Villaggio del Sole che doveva possedere una sua autono-mia di fondo rispetto alla città era un esempio significativo di edilizia popolare e di architettura. Infatti, in altri contesti urba-nistici del nord Italia, se da un lato tra la metà e la fine degli anni ’60 le imprese private avevano costruito sufficientemente tanto da permettere alle famiglie bisognose di spostarsi in un ap-partamento, dall’altro la quantità delle nuove costruzioni andava a scapito della qualità e dell’estetica del costruito. Comunque, rispetto che abitare nelle soffitte o alle «coree»41 entrare in pos-sesso di un appartamento con riscaldamento centralizzato, bagni, porte, finestre e pavimenti decorosi, significava cominciare senza dubbio una nuova e più dignitosa vita42.

I primi inquilini del Villaggio furono grandi nuclei famigliari che per la maggior parte lasciavano condizioni abitative precarie della città oppure famiglie che, attirate dal recente dinamismo industriale dei centri urbani (situazione questa propria soprattutto delle città settentrionali), cercavano di abbandonare le difficoltà consone ad un mondo contadino che rimaneva pressoché immu-tabile.

La testimonianza di chi per primo ottenne un qualsiasi appar-tamento del Villaggio, ci chiarisce quanto questa casa costituisse una novità assoluta, un qualcosa che fino a quel momento poteva solo essere fantasticato; era stata troppa, infatti, l’abitudine a fare i conti con una casa disagiata:

40. Si veda la nota dell’Ingegnere Paolo Grazioli sul Villaggio del sole, Vicenza 18 giugno 2009.41. Erano chiamati così gruppi di case edificate di notte senza nessun permes-so urbanistico su terreni agricoli periferici forse perché apparvero durante la guerra di Corea.42. Si vedano le riflessioni in P. Ginsburg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., pp. 304-307.

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Noi eravamo in sei. Abitavamo a pochi chilometri dalla città. Aveva-mo una casa con cucina e due camere, più un sottoscala e un portico in comune con altre due famiglie. Anche la scala per salire alle ca-mere da letto era in comune con un’altra famiglia e per salirci si at-traversava il portico. La casa dava sul cortile, in fondo al quale c’era il gabinetto comune, che si puliva con secchiate d’acqua. L’acqua non era in casa ma si prendeva con secchi alla colonnina dell’ac-quedotto che passava lungo la strada principale. Il bucato si faceva lavando la roba nel fosso che passava vicino […] C’era il secchiaio in cucina e il vaso da notte in camera. Il bagno si faceva in mastelli di legno. Non c’era riscaldamento. Ci si scaldava in cucina con la stufa e a letto con le braci nello scaldaletto. C’era la radio ma non la televisione, né il telefono, né il frigorifero. Ma si era più o meno tutti nelle stesse condizioni, quindi si viveva tutto questo come nor-malità. (Noi facevamo parte del gruppo entrato al Villaggio nel 1960 […]). Ci è stata data una casa con tre camere e tutti i servizi, inclusi naturalmente l’acqua e il gas. Era come un sogno che diventava real-tà e prima di tutto l’abbiamo fotografata da tutte le parti per renderci conto che era proprio vera e che avevamo in mano le chiavi.43

Per una famiglia bisognosa a cavallo tra anni ’50 e ’60 far-si assegnare una casa popolare, per quanti requisiti potesse pos-sedere, era una cosa tutt’altro che ovvia. Seppur era vero che a Vicenza l’edilizia popolare fece crescere come mai prima la disponibilità di abitazioni, il numero di richieste restava comun-que abbondantemente superiore rispetto all’offerta di locali. Non tutti, per la verità, lasciavano condizioni abitative pesanti, non tutti erano poveri; per queste persone meno indigenti i tempi per il conferimento di un’abitazione popolare erano molto lunghi e più incerte le possibilità. Tutte le situazioni personali potevano facilmente evolvere in senso negativo in caso di ritardo o in caso di una mancata assegnazione della casa al primo bando promosso dal comune:

Nel 1957 abbiamo trovato casa a Borgo Casale, erano due stanze umide e fredde con i servizi fuori, come si usava a quel tempo. Mio marito ed io ci siamo attivati a fare molte domande per poter avere un appartamento al Villaggio del Sole, ci sono voluti sette lunghi anni di attese perché il nostro desiderio fosse esaudito. Mi ricordo che ho avuto dei problemi fisici perché nel sorteggio del 1959 non

43. Ass. Villaggio insieme, Abitare il Villaggio, cit. p. 62.

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siamo usciti sicché si è dovuto rifare la domanda. Ci dicevano di non preoccuparci perché le case ne avrebbero fatte per tutti ma io finché non ho avuto questa casa rimanevo in ansia. E finalmente il 10 dicembre del 1960 abbiamo preso possesso dell’appartamento; ho ancora dentro di me la gioia che ho vissuto entrando nella no-stra nuova casa, è stato un sogno che è diventato realtà44.

L’esasperazione trovava pace non appena qualsiasi nuovo inquilino, entrando nell’appartamento finalmente assegnatogli, si rendeva conto di quanto, da quel preciso momento – che rimane indelebile nella memoria («E finalmente il 10 dicembre del 1960 abbiamo preso possesso dell’appartamento»45) –, la qualità della sua vita avrebbe fatto un deciso passo in avanti:

Fui molto fortunato, dopo sette anni di vita militare, a trovare occu-pazione – tra i primi – alla Società Tramvie Vicentine, il primo giu-gno 1946. Mi sono sposato il primo di ottobre 1949 con una ragazza dell’Alto Vicentino e siamo venuti ad abitare in un appartamento di ripiego e molto precario in viale Trento a Vicenza. Ai bandi di concorso per assegnazione di alloggi ho partecipato ben diciassette volte, a riscatto o in affitto, per case costruite dal comune di Vicenza o dall’ente sorto in seguito, INA-Casa. […] Nel 1958, con due figlie, cominciavo a “bollire”, ad essere stanco e irritato anche perché il bussare agli uffici interessati non aveva dato alcun risultato. Presi una decisione […] Andai alla ricerca dell’indirizzo dell’abitazione del Presidente del Consiglio del Governo italiano, Amintore Fanfa-ni. Con una raccomandata mandai un mio esposto e descrissi un po’ il mio passato. […] Il Presidente del Consiglio mandò il mio esposto al prefetto di Vicenza. Questi mi mandò una risposta protocollata informandomi che per il momento non aveva a disposizione appar-tamenti da assegnare. Fui soddisfatto successivamente, ad un nuovo bando di concorso per assegnazione di case. Scrissi al prefetto con copia della risposta da lui inviatami. Nel giro di quindici giorni mi furono notificati due inviti per l’assegnazione di un appartamento in due luoghi diversi. Scelsi il Villaggio del Sole e mi trovai bene.[…] Fui molto soddisfatto dell’appartamento. Mia moglie quando si presentò all’entrata, sbottò con questa espressione: “Andiamo via! Abbiamo sbagliato, non vedi quante porte?”46

44. Ivi, p. 98.45. Ibidem.46. Ivi, p. 76-77.

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Le comodità offerte dalle nuove case sollevarono tanto l’ani-mo degli inquilini che spesso alcuni soprassederono alle occasio-ni di diverbio che, per i più svariati motivi, potevano nascere con gli altri condomini:

La casa qui al Villaggio ci è stata assegnata solo perché altri han-no rinunciato. Questa era una casa grande e ricordo che mio papà quando è entrato ha osservato con stupore che qui c’erano ben due bagni! I miei erano talmente felici che, anche se non sempre i rap-porti fra condomini erano facili, lasciavano correre…47

Se grande importanza era stata data al confort delle abitazio-ni e dunque al benessere di ogni famiglia, la struttura stessa con cui erano stati progettati gli edifici del Villaggio favoriva la socia-lizzazione fra i nuclei famigliari, i quali oltre ad essere coinvolti direttamente nella gestione condominiale, furono uniti da vincoli solidali. In questo senso piccoli e speciali ponti fra le persone, si dimostrarono i tantissimi bambini che ricamavano amicizie gio-cando nelle strade sicure e nei cortili interni del quartiere:

Sono arrivata qui con la mia famiglia l’11 giugno 1960. Subito la casa mi è sembrata una reggia! Venivamo da San Lazzaro dove abi-tavamo in una sola stanza che dava direttamente sulla strada. Erava-mo in sette: mio marito, cinque figli (l’ultima aveva un mese) ed io. Ricordo che di sera, quando arrivava l’ora di abbassare le saracine-sche, mi sembrava di vivere in un labirinto e i bambini mi seguivano stanza per stanza come per fare un viaggio… Mia mamma mi tele-fonava e io le dicevo che era come stare in un paradiso: i bambini potevano giocare fuori, sotto le finestre e potevo vederli in qualsiasi momento. Prima per giocare dovevano andare per la strada, ma qui dietro, dove ora c’è il parco della scuola, c’era solo un grande spazio verde a disposizione di tutti. Qui era tutto pieno di bambini[…]48.

è vero che la presenza di così numerosi bambini poteva es-sere fonte di confusione e fastidio per qualcuno, ma ciò non ne-cessariamente ostacolava la concordia fra i condomini:

Solo in questa scala, in sei famiglie si contavano 20 bambini…Ricordo che alcuni abitanti di altre case dicevano che la nostra era la peggior scala appunto perché, a causa dei tanti bambini, c’era

47. Ivi, p. 102.48. Ivi, 89-90.

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sempre chiasso… Ma noi siamo sempre andati d’accordo...[…] Nessuno qui era ricco e ci sono stati momenti di difficoltà: mio marito faceva l’ambulante e non sempre le cose andavano bene, ma in qualche modo non è mai mancata la solidarietà che veniva da persone conosciute qui, anche al di fuori del condominio49.

Un nuovo quartiere per giovani abitanti: questa è stata pre-sumibilmente una delle formule per la buona convivenza fra le persone. La giovane età favorì sia l’aggregazione in gruppi, sia lo sviluppo di opere e di attività (non solo ricreative) all’interno del villaggio, offrendo la possibilità ai residenti di sviluppare nel generale contesto cittadino, un particolare, “micro”, senso di ap-partenenza per il luogo di domicilio. Probabilmente ancor più che agli aspetti materiali – che rimangono indubbiamente importanti – si deve ringraziare proprio l’organizzazione sociale, la solida-rietà, il senso civico maturato nel quartiere del Sole se ancor oggi i suoi abitanti ricordano il quartiere con molto affetto e, a distan-za di tanti anni, anche con un po’ di nostalgia. Ma quest’ultimo è forse un sentimento umanamente inevitabile se pensiamo che il Villaggio, con il suo “bel” e “nuovo” abitare, per molti è stato il palcoscenico della propria giovinezza.

I mattoni dell’identità

Con molta probabilità nel Villaggio del Sole non si sarebbe radicato un forte senso di appartenenza senza l’opera delle “isti-tuzioni” del quartiere, in particolare, il Comitato di quartiere, la Parrocchia di San Carlo guidata dal primo parroco del Villaggio, don Gianfranco, e la scuola elementare Colombo.

Non ripercorrerò nei dettagli ciò che è stato in precedenza ben delineato da altri50, ma, limitandomi negli esempi, cercherò di evidenziarne ulteriormente il fattore aggregante che queste tre “istituzioni” hanno saputo infondere affinché gli abitanti del nuo-vo quartiere potessero riconoscersi in una comunità.

49. Ivi, p. 89-90.50. Si vedano i saggi di M. Passarin, M. C. Sottil e R. Brusutti, sempre nel volume curato nel 2009 dall’Associazione Villaggio insieme.

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Don Gianfranco Sacchiero, trentunenne sacerdote che a quel tempo il Vescovo di Vicenza, monsignor Carlo Zinato, propose per l’affidamento della parrocchia del Villaggio, ricordando il primo quinquennio del suo operato (1960-1965), ha posto l’ac-cento sul fatto che nel periodo iniziale della sua presenza al Vil-laggio, più della cura dello spirito dei parrocchiani, si impegnò a stabilire e a coltivare al meglio i rapporti umani fra le persone:

L’abitare in mezzo a voi significa per me vivere in mezzo alla gen-te nel modo più umano possibile. Il primo tempo è stato quindi costruire rapporti umani, rapporti di fiducia e di sostegno a livello di fede e a livello umano51.

Questo atteggiamento del parroco si rivelò un approccio cor-retto poiché in un tale ambiente di reciproca non conoscenza i le-gami fra gli abitanti, per forza di cose, dovevano essere costruiti dal nulla. Egli si dimostrò «maestro dello stare insieme»:

Sapeva trascinare e coinvolgere e anche se può aver fatto qualcosa di sbagliato, come tutti, è stato capace di fondare questa comunità che era proprio agli inizi52.

La disponibilità fu una delle maggiori qualità di don Gianfran-co. Per fare qualche esempio, egli in caso di urgenze mise a disposi-zione di tutti la macchina appena acquistata come allo stesso modo il telefono della canonica, tutto ciò quando macchina e telefono non erano ancora beni comuni; inoltre organizzò molte attività per i più giovani come ad esempio il campeggio estivo in varie località montane. Proprio verso i giovani il sacerdote rivolse la sua massima attenzione: spesso pur di incentivarne l’incontro don Gianfranco ac-colse presso il suo appartamento, che condivideva con la madre alla “Bissa”, le riunioni serali dei ragazzi dell’azione cattolica quando ancora non erano state costruite nel quartiere le opere parrocchiali:

Mi ricordo del parroco don Gianfranco che cercava di coinvolgere tutti: le famiglie, i ragazzi per fare conoscenza e creare gruppi as-sociativi. è stato molto buono e bravo ha fatto tanto per i giovani, sapeva ascoltare e dava consigli53.

51. R. Brusutti, La parrocchia di San Carlo, in Ivi, p. 271.52. Ivi, p. 100.53. Ivi, p. 98.

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La comunità che l’azione sacerdotale via via stava cercando di costruire, trovò su di un altro fronte un fondamentale momento di rappresentanza e autorappresentazione nel momento in cui, in forma spontanea, una parte degli abitanti decise di dare vita a un Comitato di quartiere. Questa assemblea si dimostrò essere, con-giuntamente a quella religiosa, la guida degli abitanti del quartiere nell’affrontare problematiche comunitarie. Se si legge il verbale del Comitato del 9 aprile 1969, si può notare come anch’esso dopo sette anni di esperienza, avendo avuto il ruolo di «raccogliere-stu-diare e risolvere insieme alla popolazione e con gli enti locali i pro-blemi del quartiere» avesse preso piena coscienza d’essere oramai divenuto una vera e propria espressione della comunità54.

Essenza e obiettivi del Comitato del Villaggio del Sole rima-sero fedeli nel tempo. Quando nel 1974 si rinnovarono le cariche e si riformulò lo statuto, esso fu basato su alcuni punti fondamen-tali quali l’azione apartitica, la democraticità, l’impegno di tutti i componenti e la collaborazione con la popolazione del quartiere e le varie forze sociali55. Fra gli articoli dello statuto approvati il 18 ottobre di quell’anno, l’articolo 4 elencava le funzioni che si prefiggeva il Comitato:

Raccogliere e studiare i vari problemi civili e urbanistici del quartiere; presentarli alle autorità competenti; collaborare con le autorità per le soluzioni più adeguate; promuovere la collaborazione fra gli abitanti del quartiere onde assicurare un tranquillo vivere della collettività56.

Il Comitato pur non essendo espressione “universale” dell’intero Villaggio (non tutte le famiglie partecipavano infatti alle elezioni dei componenti), risultò una chiave importante nel rapporto diretto tra gli stessi abitanti e pure tra quartiere e autorità cittadine poiché, come è stato ricordato, la sua azione si svolse sempre a partire da considerazioni propositive «e mai di rottura con i tradizionali canali burocratico-amministrativi e con le vec-chie e consolidate strutture di parrocchia e di partito57».

54. Verbale del Comitato di quartiere del Villaggio del Sole (CdQ), anno 1969, 9 aprile.55. CdQ anno 1974, 9 dicembre.56. CdQ, Articoli dello statuto approvati in data 18 ottobre 1974.57. M. Passarin, L’esperienza storica del Comitato di Quartiere, in Ass. Villag-gio Insieme (a cura di), Abitare il Villaggio, cit. p. 200.

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Un paio di esperienze possono chiarire meglio tale parti-colare modo di intendere l’azione politica perseguita dal Co-mitato.

La già citata riunione del 9 aprile 1969, vide la partecipa-zione dei rappresentanti del Gruppo Giovani del Villaggio: essi dichiaravano la necessità da parte del Comitato di affrontare non solo i problemi concreti di carattere materiale ma anche dei problemi spirituali e umani per addivenire a una comunità «viva, famigliare e sociale». Nella seduta, dopo aver discusso a lungo su quelle che dovevano essere le funzioni peculiari del Comitato e le relative competenze di altri organismi a trattare i problemi morali e spirituali della comunità, fu comprensibile a tutti che per riuscire negli intenti sperati fosse necessaria una reciproca collaborazione, «sia per non disperdere inutilmente certi sforzi, sia per lavorare maggiormente nel quartiere». Poi-ché però il gruppo giovanile non possedeva ancora proposte concrete su come operare, si decise nel frattempo di proseguire il reciproco scambio, mantenendo vivo il rapporto di collabora-zione anche attraverso la partecipazione di adulti alle settima-nali riunioni del Gruppo.

Mutuo ascolto e dialogo: come si evince da questo caso, le esigenze che nascevano nel quartiere, erano discusse aper-tamente e approfonditamente tra tutte le parti in causa secondo una prospettiva costruttiva. Quest’ottica era mantenuta anche con le autorità comunali. Ad esempio, quando a metà degli anni ’70 il Comune di Vicenza progettò di deviare il traffico pesante proveniente dal casello autostradale di Vicenza Ovest, utilizzando una strada del Villaggio (via Brigata Granatieri di Sardegna), il Comitato si oppose fermamente per via dei gravi turbamenti della tranquillità pubblica che avrebbe causato tale provvedimento se attuato. Il 25 ottobre 1975, in una nota invia-ta al Sindaco di Vicenza, si fece presente la necessità di riesa-minare la situazione affinché la Giunta modificasse il proprio orientamento questa volta «ispirandolo a una politica urbani-stica a misura d’uomo» che tenesse conto «per ogni soluzione, della assoluta priorità della difesa dei motivi sociali che hanno ispirato la destinazione di talune zone della città a centri resi-denziali, il cui carattere popolare li rende non solo più rispetta-bili ma soprattutto da difendersi ad ogni costo, contro soluzioni

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meramente tecnicistiche» che alla prova dei fatti ne avrebbe-ro sconvolto le peculiarità58. Oltre a denunciare il tradimento d’intenti di qualsiasi piano basato solo su soluzioni tecniche, il Comitato fece presente con una serie di argomentazioni do-cumentate e propositive (attraverso il ricorso di soluzioni più pertinenti come l’installare impianti semaforici per regolare il traffico e rendere sicuro il passaggio dei pedoni59), che il pro-getto in questione non poteva dare i risultati auspicati. Alla fine l’intervento del Comitato si risolse positivamente convincendo, l’Amministrazione Comunale a ricredersi60.

Indubbiamente se la Comunità riuscì a far ascoltare le sue esigenze espressione dei suoi valori, molto si deve a quella «po-sizione dialettica e dialogica»61 essenziale distintivo dell’operato del Comitato verso qualsiasi interlocutore.

Altro “cemento” della comunità si rivelò la scuola elemen-tare del Villaggio:

Nei cinque anni trascorsi alla Colombo rivedo come in un film le mie amiche e compagne di classe, con alcune siamo sempre legate e ci rivediamo spesso, tanto che ci piace dire ancora oggi: «nei momenti belli e brutti della vita… noi ci siamo sempre!»62

La scuola Cristoforo Colombo, inaugurata con una grande cerimonia il 21 ottobre 1960, era una scuola moderna e funziona-le ideata per servire i figli delle famiglie che andavano ad abitare il nuovo quartiere.

La scuola è, in genere, il primo luogo di incontro per i bambi-ni al di fuori dell’ambiente famigliare: per le elementari Colom-bo però l’elemento aggregativo non toccò solo i più piccoli. Qui gli alunni e i genitori si sono trovati tutti insieme a partecipare attivamente alla vita scolastica. A tal proposito una delle maestre che lavorarono nella scuola del quartiere ha ricordato come fosse cosa abbastanza normale per parecchi genitori collaborare con

58. CdQ, Traffico nel Quartiere del Villaggio del Sole, Vicenza 25 ottobre 1974.59. CdQ, Documento del Comitato di Quartiere per l’incontro con l’Assessore al Traffico Ing. Stimamiglio, Villaggio del Sole 19 novembre 1974.60. CdQ, Nota 9 dicembre 1974.61. M. Passrin, L’esperienza storica del Comitato di Quartiere, cit. p. 204.62. M. C. Sottil, La scuola elementare Colombo, in Ass. Villaggio Insieme (a cura di), Abitare il Villaggio, cit., p. 239.

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la maestra durante alcune lezioni nelle materie in cui avevano particolari competenze:

Essi si rendevano utili in modo spontaneo ed autonomo, affian-cando le maestre in alcune loro iniziative. Ricordo per esempio la visita al castello Colleoni di Thiene: si decise di andare per ferro-via, perché tutti avevano esperienza di macchina o di corriera, ma quasi nessuno era salito in treno. Per gli scolari fu una simpatica esperienza. I genitori provvidero alle prenotazioni e alcuni venne-ro ad accompagnare le classi. Così per le gite culturali a Venezia, dove entrammo anche all’Arsenale o a Parma dove al Regio ascol-tammo musica in diretta per noi. Quando andavamo in visita al teatro Olimpico o al museo Chiericati, i ragazzi accompagnavano poi i genitori nel fine settimana a vedere ciò che avevano imparato. Ricordo con simpatia e ammirazione quei genitori…63

La scuola Colombo aperta da poco e non aveva una conso-lidata tradizione eppure, a dispetto dell’eterogeneità delle prove-nienze, «tutti erano sempre disponibili alla collaborazione»64.

Oggi la scuola è composta per una nutrita percentuale da alunni di origine non italiana: sono i figli di immigrati giunti da tutto il mondo, alcuni dei quali hanno trovato casa al Villaggio a partire da almeno vent’anni. Nonostante tutte le diffidenze e difficoltà che ogni giorno in Italia investono gli extracomunitari provenienti dai paesi più poveri, questi ragazzi non vivono emar-ginati dalla comunità. In campo educativo la scuola Colombo dà sempre primaria importanza alla mediazione culturale affinché l’integrazione, soprattutto dei arrivati avvenga attraverso l’inter-culturalità:

Insomma i bambini della Colombo, facenti parte di una realtà territoriale modificata in questi ultimi anni, sia per la presenza di nuove famiglie di cittadinanza non italiana, sia per il progressivo invecchiamento della popolazione del Villaggio del Sole, hanno una miriade di opportunità per crescere sereni ed educati in una comunità in cambiamento e multiculturale.65

63. Ass. Villaggio Insieme (a cura di), Abitare il Villaggio, cit., p. 261.64. Ibidem.65. M. C. Sottil, La scuola elementare Colombo, cit., pp. 258-259.

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Al servizio di una piccola patria

Come si è potuto notare fin qui, si è fatto molto uso delle testimonianze degli abitanti del Villaggio. Giunti a questo punto, non vorrei però che la volontà odierna di recuperare la memoria degli abitanti per ricostruirne una storia e quindi per affermar-ne l’identità, sia sintomo di uno spaesamento riconducibile, in quest’epoca di globalizzazione, alla generale crisi di identità ci-vile e nazionale che ha coinvolto la popolazione italiana a partire dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso.

Mi sia perdonata una breve parentesi storico-politica. L’Italia, alla vigilia del 1989 appariva agli occhi dello storico

Renzo de Felice66 un paese senza radici storiche, nel cui animo dei propri abitanti sembrava prossimo ad estinguersi (o si era già estinto) il mito nazionale e il sentimento d’appartenere tutti a una patria comune. Nel 1993, poi, le vicende giudiziarie legate a tan-gentopoli scossero le istituzioni dello Stato ormai incancrenite, segnando la fine della cosiddetta Prima Repubblica. Smarriti o, per meglio dire, traditi i vecchi riferimenti ideologici dei partiti di massa, che fine aveva fatto a quel punto il sentimento nazio-nale degli italiani? Allora non fece in tempo un altro storico, a metterci in guardia sulle conseguenze del Se cessiamo di essere una nazione67 che qualche tempo dopo comparirono sulla ribalta nazionale, o è meglio dire, scesero in campo nuove compagini politiche, fra le quali la lega Nord che, facendo presa sul territo-rio, in contrasto con la centralità statalista, arrivò a proclamare ordini secessionisti.

Ora, non vorrei che l’esigenza di evidenziare oggi il par-ticolare senso di identità micro geografica, di quartiere, (sulla quale peraltro ha insistito questo testo) potenzialmente risponda ad un intimo bisogno di appartenenza che non riesce a trova-re un naturale approdo nel senso civico cittadino o nazionale, come sembrerebbero suggerire alcune recenti indagini. Secondo uno studio statistico di Ilvo Diamanti che, tra le altre cose, co-

66. Si vedano in particolare le considerazioni in R. De Felice, Rosso e nero, Baldini & Castoldi, Milano 1995.67. Cfr. G. E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione. Tra etnodemocrazie regionali e cittadinanza europea, Mulino, Bologna 1993.

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nosce bene la realtà vicentina, l’appartenenza territoriale degli italiani negli ultimi dieci anni è cresciuta seguendo tre direzio-ni: due rilevano il calo dell’appartenenza a identità istituziona-lizzate a livello locale, nazionale e continentale (regione, città, stato, unione europea), mentre la terza registra l’affermarsi di un’appartenenza che oscilla da quella cosmopolita a, «quella nordista»; sottolinea Diamanti, «fra gli italiani, nell’ultimo de-cennio, si sono imposte soprattutto le patrie virtuali, i riferi-menti territoriali dotati di forza simbolica elevata, ma fondati su basi istituzionali fragili, se non inesistenti. Come la Padania e il mondo. […] Sul piano delle identità, in altri termini, “le patrie artificiali” sembrano contendere spazio e rilievo a quelle istituzionali e tradizionali»68.

Si può ritenere il Villaggio del Sole alla stregua delle “patrie artificiali” indicate da Diamanti? No, il Villaggio non può cre-do sopperire alla mancanza di una patria istituzionale. Tuttavia la storia di questo quartiere ci propone un esempio riuscito di convivenza civile, un modello che nonostante tutto resiste alle spallate delle mutazioni e accelerazioni del mondo individualista moderno. Il Villaggio del Sole è una piccola patria nel senso che lo è in quanto proposta di vita.

Questo quartiere di Vicenza, che a un occasionale, “foresto” passante può apparire uno sbiadito esempio di architettura popo-lare (e non certo un posto “incantato” dove vivere), è stato ed è, in verità, sia per gli abitanti che ci abitano ancora, sia per quelli che non ci abitano più, un luogo “unico”. Le memorie raccolte fra i vecchi e i nuovi abitanti ci insegnano questo: l’abitare nel, o meglio, l’abitare “il” Villaggio, ha costituito al di là delle diverse provenienze, un proprio e particolare senso sociale di collettività che permane e che si è rinnovato negli anni.

I racconti e la memoria, le attività svolte nel quartiere in pas-sato ci testimoniano quanto il Villaggio possa rappresentare forse un luogo quasi ideale dove ritrovare se stessi e gli “anni miglio-ri”: sicuramente, un posto a cui essere fieri d’appartenere.

68. I. Diamanti, L’Italia è la nostra famiglia, in «Limes» n. 2, anno 2009, pp. 25-27.

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Il Villaggio del Sole, dunque, come piccola patria, Heimat69, in cui si sono intrecciati e sviluppati i racconti di vita di migliaia di persone; dove “La Bissa” è il limes all’interno del quale una comunità si fa custode e protegge valori oggi troppo spesso di-menticati e che tutti noi abbiamo il dovere di ricordare.

Paolo Tagini

Paolo Tagini (Bassano del Grappa, 1980). Laureato in Storia all’Uni-versità Ca’ Foscari di Venezia nel 2005. La Tesi di Laurea “Le po-che cose”. Gli internati ebrei nella provincia di Vicenza 1941-1945 ha vinto il primo premio dell’Accademia Olimpica di Vicenza per tesi di Laurea, nella sezione umanistica e nel 2006 è stata pub-blicata con il titolo medesimo dalla casa editrice Cierre Edizioni (Sommacampagna, VR). Attualmente è dottorando in scienze sto-riche e antropologiche presso l’Università degli Studi di Verona. è membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Storico della Resisten-za e dell’Età contemporanea della provincia di Vicenza «Ettore Gallo». Oltre al tema dell’internamento della deportazione ebraica si interessa dell’uso pubblico della storia nel Novecento.

69. Heimat è una parola tedesca che indica il luogo in cui ci si sente a casa propria.

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Memoria e Storia al Villaggio

La Storia

Avevo pensato di iniziare questo scritto provando a dare una definizione di ‘Storia’, ma subito mi sono reso conto che sarebbe risultato troppo difficile non essere approssimativo e avrei finito con il tralasciare il tema centrale del discorso. Almeno per il mo-mento quindi, preferisco lasciar perdere. Mi si perdoni se cerco di sfuggire a questo impegno, ma sono fermamente convinto che una scienza in continuo mutamento e di difficile delimitazione com’è questa meriti qualcosa di più di una semplice definizione da dizionario. L’occhio meno allenato potrebbe dire che la Storia riguarda la raccolta di informazioni riguardo dei fatti passati e la loro successiva narrazione. Tuttavia la realtà, purtroppo o per fortuna non l’ho ancora capito, è molto più complessa di così. Limitiamoci allora a dire solamente che nell’incessante e vastis-simo percorso che porta verso la conoscenza, la Storia compie un tragitto particolare, serpeggiante, incrociando spesso e volentieri il cammino delle altre discipline. Dare una corretta definizione di Storia è sempre stato d’altronde uno dei grattacapi più impegna-tivi per chi abbia a che fare con questa scienza tanto affascinante quanto sfuggente. Difficilmente si è giunti a una conclusione che fosse definitiva, sia per quanto riguarda l’oggetto di studio che per quanto concerne il metodo d’indagine. E come se tutto ciò non bastasse, bisogna sempre tener conto che la Storia cambia di continuo e questa sua perenne metamorfosi è inarrestabile.

In questa ricerca di identità, una grande rivoluzione fu quella che investì lo statuto della Storia e di tutte le altre scienze negli anni a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo. Il dibatti-to filosofico tra positivismo e idealismo si era progressivamente spostato in campo epistemologico e per gli uomini di scienza era ormai impossibile disinteressarsene. In questo contesto comun-que non sono queste annose questioni filosofico-scientifiche più generali ad interessarci, bensì quelle riguardanti la Storia. Essa d’altronde fu una delle discipline che subì maggiori cambiamenti.

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Fino ad allora questa era stata considerata in certi ambienti acca-demici per lo più un passatempo inutile, in alcuni casi addirittura dannoso, quindi se si devono ricercare il senso della storiografia contemporanea e l’origine della sua attendibilità scientifica, che ad oggi non è ancora del tutto accettata, bisogna guardare allora al prezioso lavoro svolto da Marc Bloch e Lucien Febvre, fonda-tori di quella scuola di pensiero delle Annales che ebbe un’im-portanza fondamentale nel ridefinire la disciplina storica e che influenzò profondamente anche l’approccio delle altre scienze, umane ma non solo.

Fino ad allora gli storici si erano occupati prevalentemente di stilare cronologie e di ordinare gli avvenimenti più importanti che si verificavano a livello politico, economico e militare. In un certo senso non ci si era discostati molto dalla scuola di Tucidide e dal metodo annalistico utilizzato in età classica. Era ancora una Storia che si occupava per lo più di leggi, accordi diplomatici ed eserciti. Cresciuti in un ambiente gravido di novità e cambiamen-ti intellettuali e affiancati da un nutrito gruppo di collaboratori e maestri più o meno influenti, nella prima metà del Novecento Marc Bloch e Lucien Febvre ebbero il merito di aprire la strada a una Storia nuova, che non si interessasse solamente di ciò che riguardava gli ambiti per così dire ufficiali della società umana ma che alla cosiddetta macrostoria affiancasse la microstoria. Le novità dell’approccio della scuola delle Annales furono anche molte altre, è vero, ma la ridefinizione delle possibilità di ricerca, nello studio e nella ricerca delle fonti, fu senza dubbio una delle più significative e comunque è quella che in questo momento ci riguarda più da vicino.

Le unità di misura della ricerca storica uscivano da questo confronto completamente rinnovate, il rapporto tra universale e individuale non sarebbe più stato lo stesso. La Storia non veniva più solamente calata dall’alto ma diventava possibile compiere il percorso inverso e ricongiungersi a fenomeni di ampia portata prendendo piede anche da un singolo caso. La Storia, come le altre scienze umane, era tenuta a ricordare sempre il contrasto tra particolare e generale e a ricercare i legami tra queste due grandi categorie. Da ciò conseguirono grandi novità sia dal punto di vista metodologico che da quello dell’oggetto di ricerca. Sotto la lente dello storico cominciarono ad entrare allora anche fonti

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inedite, insolite, come la cultura, il sesso e le questioni di genere, i sentimenti e molto altro. Tutto o quasi diventava di interesse storico e per questo motivo gli studiosi del campo cominciarono una proficua collaborazione con scienziati di diversa estrazione accademica come economisti, psicologi, sociologi. Il rapporto con queste ultime due attività scientifiche, sociologia e psico-logia, fu particolarmente importante nella progressiva scoperta dell’analisi critica delle fonti, che per l’appunto si erano diversi-ficate e ampliate sempre di più nel corso degli anni.

Le fonti orali

Una delle novità più importanti in questo senso fu la sco-perta delle fonti orali, le quali ponevano tutta una nuova serie di questioni teoriche e pratiche sul loro utilizzo nell’analisi sto-rica. A questo proposito Alessandro Portelli ha scritto un saggio fondamentale intitolato Sulla diversità della Storia orale, nelle cui pagine affronta con grande lucidità i benefici e le difficoltà di questa disciplina. Una delle più spiccate, sia in un senso che nell’altro, è il dover far ricorso alla memoria delle persone, og-getto di indagine quanto mai evanescente e mutevole. I ricordi, si sa, tendono a cambiare incessantemente nel corso del tempo e vengono necessariamente filtrati con la coscienza del presente. Quale potrà essere quindi la soglia di credibilità che essi posso-no avere agli occhi di uno storico che si prefigge di indagare la realtà in maniera scientifica? Sapendo analizzare ciò che ci viene detto, quella orale si rivela essere una delle fonti più ricche pos-sibili, nelle sue mille e più sfaccettature. Per fare un esempio, il più “semplice”, anche se questa parola non andrebbe mai usata quando si tratta di argomenti come questi, basti pensare che spes-so una persona non riporta ciò che è avvenuto veramente, ma il suo personale punto di vista. Quest’ultimo potrebbe essere stato falsato già al tempo dell’avvenimento narrato e di sicuro si è mo-dificato nel corso delle settimane, dei mesi, degli anni successivi. Ma non è davvero importante se ciò che ci viene raccontato non corrisponde per filo e per segno a quanto è successo, perché co-munque la percezione individuale che una persona ha riguardo un fatto, un luogo o un individuo sarà per essa la sua realtà ed è

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proprio questo uno degli aspetti più preziosi della Storia orale. Inoltre ognuno riveste i propri ricordi di un significato che neces-sariamente varia nel tempo e anche questi cambiamenti si pos-sono considerare fattore di interesse per questo particolare ramo della storiografia. Riuscire a individuare le pulsioni che hanno portato a tali modifiche, individuare lo stacco tra i fatti e la loro diversa narrazione, cogliere ciò che non viene detto, intenzio-nalmente o meno. Quando si riesce a cogliere queste sfumature, allora l’analisi della fonte orale sarà degna di essere oggetto di studio.

La ricchezza della memoria individuale di una persona non si esaurisce qui. Secondo il sociologo Maurice Halbwachs, essa può essere considerata come il punto di incontro dei flussi mne-monici collettivi. Ricordare allora significa riattualizzare la me-moria di un gruppo sociale a cui si appartiene o a cui si è ap-partenuto e seguendo questa teoria si possono rintracciare nella memoria del singolo le tracce di gruppi o fenomeni sociali di più ampia portata. Come dicevamo qualche riga fa, dal particolare si può passare al generale. La tesi di Halbwachs, sebbene sia piut-tosto categorica e tutto sommato datata in alcune sue conclusioni, viziate dal contesto in cui questa fu elaborata, conserva tuttora parte della propria validità e il merito di aver aperto la strada ad alcune riflessioni importanti. In un capitolo di La memoria col-lettiva, il suo libro più celebre, egli parla del rapporto tra la me-moria collettiva e lo spazio e nel trattare questo tema, Halbwachs fa ricorso all’esempio del quartiere come uno dei luoghi ideali di formazione ed evoluzione della memoria collettiva.

Il quartiere

Questa analisi si presta particolarmente non tanto nelle gran-di città, dove l’andirivieni delle persone che abitano in una zona è a volte troppo veloce per far sì che queste si lascino infuenzare dai luoghi in cui risiedono e che questi ultimi a loro volta su-biscano l’influsso della loro popolazione, quanto piuttosto negli agglomerati urbani più ristretti, com’è il nostro caso. Il quartie-re, specialmente quelli un po’ più periferici rispetto alla città di cui fanno parte come il Villaggio del Sole, situato ai margini di

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Vicenza e crocevia tra la città e la campagna, è un’unità di mi-sura abitativa che si lega particolarmente al gruppo sociale che lo abita. Il vicinato interagisce continuamente con i luoghi che si trova ad occupare e l’influenza che deriva da questo rapporto è reciproca.

Per le sue peculiarità storiche, sociali e urbanistiche, il Vil-laggio del Sole può essere considerato un esempio lampante del profondo legame che può instaurarsi tra un quartiere e i suoi abitanti. Essendo stato edificato tra la fine 1959 e l’inizio del 1961 con l’obiettivo di dare in proprietà degli alloggi a coloro che fino a quel momento non ne avevano avuto la possibilità, il Villaggio si configurava come un punto di ripartenza per molte famiglie. Nel giro di un paio d’anni centinaia di gruppi familia-ri, per la precisione 526, si ritrovarono a convivere in un luogo completamente nuovo, dove non c’erano precedenti reti sociali entro cui inserirsi ma che si dovevano creare pressoché dal nulla. L’identità collettiva del Villaggio del Sole prendeva forma man mano che le famiglie arrivavano ad abitare i nuovi appartamenti, così come questi, venendo occupati, assumevano progressiva-mente una propria personalità rispetto alla loro condizione ini-ziale, quand’erano uno uguale all’altro. La stessa disposizione delle abitazioni poi, negli edifici progettati circolarmente intorno a dei luoghi comunitari, era un invito a prendere coscienza della propria identità collettiva, cosa che non tardò ad arrivare. Già nel 1963 infatti vi nasceva il Comitato di quartiere, organo democra-tico rappresentativo della collettività del Villaggio. Si trattò di un’importante novità che apriva la strada al fenomeno di decen-tramento amministrativo tutt’ora in corso nell’universo politico italiano e che rappresenta al meglio l’idea di identità collettiva formatasi al Villaggio in quegli anni.

Il quartiere si presenta quindi come una dimensione spaziale e sociale esemplare per studiare i meccanismi che intercorrono tra individualità e collettività. Per questo motivo anche in ambito storiografico le storie di quartiere hanno guadagnato sempre più importanza negli ultimi venticinque anni. La progressiva affer-mazione di strumenti d’indagine come la storia orale poi hanno reso ancora più stimolante lo studio del quartiere come luogo di incontro, di transizione, dove l’identità collettiva si forma ma allo stesso tempo si modifica in base al flusso di coloro che vi ri-

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siedono. Il lavoro dell’associazione Villaggio insieme si inserisce così in questo prolifico filone di studi e in particolare il libro Abi-tare il Villaggio, documenta anche e soprattutto tramite testimo-nianze orali le evoluzioni vissute dal quartiere del Villaggio del Sole e di coloro che lo hanno abitato, lo abitano e probabilmente lo abiteranno in futuro.

Giacomo Lanaro

Giacomo Lanaro è laureando in Storia dal medioevo all’età contempo-ranea all’università Ca’ Foscari di Venezia. Si occupa prevalentemente di Storia sociale, fonti orali e forme di comunicazione.

Bibliografia

AAVV, Abitare il villaggio, Associazione “Villaggio Insieme”, Vicen-za, 2009.

Bloch, Apologia della storia, Einaudi, Torino, 1998.

M. Halbwachs, La memoria collettiva, Edizioni Unicopli, Milano, 2001.

L. Passerini, Storia e soggettività, La nuova Italia, Firenze, 1988.

Portelli, Storie orali, Donzelli, Roma, 2007.

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Sfondo bibliografico

1. Sul contesto storico-sociale del periodo iniziale del Villaggio del Sole

Foucault M., Le parole e le cose, Rizzoli Editore, Milano 1970.

Lévi-Strauss C., Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1971.

Freire P., La pedagogia degli oppressi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1972.

Freire P., L’educazione come pratica della libertà, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1973.

Fanon F., I dannati della terra, Giulio Einaudi Editore, Torino 1972.

Illich I., Rovesciare le istituzioni, Armando Armando Editore, Roma 1973.

Illich I., La convivialità, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1978.

Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fio-rentina, Firenze 1973.

Documenti del processo di don Milani, L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1971.

Milani L., Esperienze Pastorali, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1958.

Scuola 725, Non tacere, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1971.

Rossetti Pepe G. (a cura di), Questo lo dice la gente di Corea, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1974.

Lodi M., Il paese sbagliato, Giulio Einaudi Editore, Torino 1971.

Calvino I., Il sentiero dei nidi di ragno, Garzanti Editore s.p.a., Milano 1987.

Meneghello L., I piccoli maestri, Feltrinelli, Milano 1964.

Comunità dell’Isolotto, il mio ’68, Centrolibro, Scandicci (FI) 2000.

Hobsbawm E.J., Il secolo breve, BUR, Milano 2000.

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Paiusco L., La pedagogia della liberazione: confronti e analogie di al-cune esperienze italiane con l’esperienza di Paulo Freire, tesi di lau-rea in pedagogia, relatore prof. Anna Maria Piussi, anno accademico 1977/78, Università degli Studi di Padova, facoltà di Magistero, sede staccata di Verona.

2. Memoria e narrazione

Bloch M., Apologia della storia, Einaudi, Torino 1998

Calvino I., Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988.

Eco U., Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano 1994.

Borges J.L., L’invenzione della poesia, Mondadori, Milano 2001.

Gordimer N., Scrivere ed essere, Feltrinelli Editore, Milano 1996.

Bernardinis A., M. Itinerari, F.lli Fabbri Editori, Milano 1976.

Borgonovo G., La memoria fondatrice, in SC n° 2 – anno CXXXIII, rivista teologica del Seminario arcivescovile di Milano, pp. 323-350.

Liverani M., Oltre la Bibbia, storia antica d’Israele, Edizioni Laterza, Bari 2004.

Le Goff J., Memoria, in Enciclopedia Einaudi, vol. 8, pagg.1068- 1109.

Bonaccorso G., Il tempo come segno, EDB, Bologna, 2004.

Reato E. (a cura di), Diocesi di Vicenza, Gregoriana Libreria Editrice, Padova 1994.

Barbieri F. e De Rosa G. (a cura di) Storia di Vicenza, IV/2, Neri Pozza Editore, Vicenza, 1993.

Stefani P., Le radici bibliche della cultura occidentale, Paravia Bruno Mondadori Editore, Milano 2004.

Sclavi M., L’arte di ascoltare e mondi possibili, Paravia Bruno Monda-dori Editore, Milano 2003.

Marquard O.- Melloni A., La storia che giudica, la storia che assolve, Laterza, Bari 2008.

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Zerubavel E., Mappe del tempo, memoria collettiva e costruzione so-ciale del passato, Il Mulino, Bologna 2005.

Wells P. S., Barbari – L’alba del nuovo mondo, Lindau, Torino 2008.

Audinet J., Il tempo del meticciato, Queriniana, Brescia 2001.

Duquoc C., Cristianesimo, memoria per il fututo, Queriniana, Brescia 2002.

Corti M., Introduzione a I piccoli Maestri, Mondadori, Milano 1999.

Corti M., L’ora di tutti, Garzanti, 1972.

La Cecla F., Perdersi, l’uomo senza ambiente, Laterza, Bari 2005.

Gentiloni F.. Il silenzio della parola, Claudiana, Torino 2005.

Scateni S. (a cura di), Periferie, Editori Laterza, Bari 2006.

Calvino I., Le città invisibili, Giulio Einaudi Editore, Torino 1972.

3. INA-Casa

Di Biagi P. (a cura di), La Grande ricostruzione, il piano INA – Casa e l’Italia degli anni ’50, Donzelli Editore, Roma 2001

Istituto Luigi Sturzo, Fanfani e la casa, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2002.

Istituto Luigi Sturzo, Il codice di Camaldoli, Editrice Lavoro, Roma 2005.

Monastero di San Biagio (a cura di), Filiberto Guala, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (AL) 2001.

A cura della Redazione

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Nota per il lettore

Con il libro Abitare il Villaggio. Memoria e storia del 2009 e questo volume, Il valore della memoria. La forza della narra-zione, la nostra associazione ha voluto raccontare la storia collet-tiva della comunità del Villaggio del Sole avvalorandola di una collocazione nel tempo e nello spazio. In particolare si è ritenuto di soffermarsi sulla volontà politica, della quale spesso ci si di-mentica, che ha prodotto in Vicenza, dagli inizi del XX secolo, l’edilizia economica e popolare di cui abbiamo tentato di fare una mappatura, raccontando anche in modo breve ma articolato la storia dell’INA-Casa, di cui fa parte il Villaggio del Sole, e il ruolo importante che vi hanno avuto uomini politici e ammini-stratori della nostra Città.

Sono due volumi che riflettono uno sguardo sul quartiere, dall’“interno” il primo, che riporta parole e storie degli abitanti, “da vicino” il secondo, con le riflessioni dell’associazione e di altri in sintonia con questo progetto.

Quanto alla scrittura abbiamo adottato la forma più adeguata al nostro “statuto” di narratori, al nostro punto di vista. Questo ci ha permesso di dare voce ad autori molto diversi tra loro e di inserirci con brevi interventi che legano insieme le varie parti. è un linguaggio familiare, adatto sia a mettere in luce umanità na-scoste sia a dare conto di fatti accaduti, di idee e di progetti.

Un altro libro sarà pubblicato a fine 2010. Rappresenta un terzo sguardo, dall’‘esterno’, di professionisti e docenti universi-tari. I loro testi, mentre sono delle letture e delle idee progettuali sul quartiere complete in se stesse, insieme completano anche la testimonianza dell’associazione sulla singolarità del luogo, del suo progetto e della sua comunità

Roberto Brusuttipresidente dell’associazione “Villaggio insieme”

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Caboto, via 36, 37, 63, 104Cadamosto, via 53, 104Calderari (scuola) 29, 30, 56Camaldoli (monastero) 79, 80Campedello 105Campitello di Fassa 49Capitello (località) 104Caregaro Negrin, via 105Cariolato, via 104Carso, via 104Casa Dal Maso 48Casa del Sole 26, 47, 52, 53, 71Casale/Via Borgo Casale 104, 105,

121 Case Dal Martello 48Caserma Cialdini 85Casermette, via 105Castello Colleoni 129Cattane (strada e località) 48, 74, 104Cavalcavia, via105Cavalieri di Vittorio Veneto, via 104Chiesa della Trinità 47, 48Cina 59Colombo ( via e scuola) 24, 26, 30,

39, 46, 47, 56, 76, 104, 124, 128, 129

Contrà Canove Vecchie 103Contrà Mure Carmini 103Contrà Santa Lucia 103Contrà Stalli 103Cornoleo, via 103Costa D’Avorio 60Costantini, via 104

D’Alviano, viale 103Dalla Scola, via 105Danubio 56De Conti, 104De Ferretti, via 105Dei Mille, via 85, 104

Indice dei luoghi

Villaggio del Sole è il quartiere di Vicenza che sta alla base di tutti i saggi contenuti nella presente pubblicazione e non viene inserito nell’indice in quanto ricorrente. Per lo stesso motivo si è scelto di non indicizzare la città di Vicenza.

Adenauer, via 104 Adratico (mare) 58Afganistan 56Africa 30Albinoni, via 104America meridionale 59 Arezzo 78, 110, 114Armenia 56Asia 59Astichello, viale 104

Bacchiglione 12, 84Balcani 56Bangladesh 58, 59Baracca, via 105Bassano, via 104Beregane (villa/strada) 48Beroaldi, via 104Bertesinella 105Bertolo, via 105Bgta Regina, via 104 Bgta Toscana, via 104 Biron di Sotto e di Sopra, via 48, 119Bissa (edificio) 26, 27, 32, 40, 53,

61, 62, 117, 125, 132Bologna 35, 56Bonollo, via 103Btg Val Leogra, via 104Buozzi B., via 104

Ca’ Balbi, via 105

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Di Velo E., via 104Diaz, via 56Dioma (fiume) 48 Divisione Julia, via 104

Egitto 56Europa 7, 15, 56, 59

Fiorentini (albergo/località) 49Fiume, viale 104Forlì 56Francia 57, 62Fusinato, viale 105

Gen. Dalla Chiesa, via 105Germania 57Gioberti, via 104Giorgione, via 105Gogna 105Gonzati, via 105Granatieri di Sardegna, via 62, 63,

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India 58Italia 9, 14, 34, 42, 46, 56, 59, 60,

77, 78, 80, 92, 96, 118, 120, 129

La Colombara (villa) 48Laghetto (località) 104Lago d’Iseo, via 104 Lago di Alleghe, via 104Lago di Fusaro, via 104Lago di Garda, via 104Lago di Toblino, via 104Lamarmora,via 104Legione Gallieno, via 104Leopardi, via 104Liguria, via 63Lonigo, via 104

Maddalene (località) 47, 48, 104, 105Magrè 42Malaspina, via 32, 40, 104Malvezzi, via 105Mameli, via 104Marco Polo, via 27, 55, 59

Maurisio, via 105Medici, via 104Mentana, via 104Milano 57, 79, 81Monte Berico 24, 105Monte Crocetta 24, 27, 39, 47, 48,

118, 119Montebello della Battaglia, via 104Monteviale 48Monti, via 104Mure Corpus Domini, via 103Museo Chiericati 129

Onisto, via 105Opificio, via 105Orlandi, via 105Ospedaletto (località) 105

Pacinotti, via 104Padova (città/via/porta) 57, 104, 105Palemone, via 105Paradiso, via 105Parma 129Pastrengo, via 104Pasubio, via 48, 63, 104Pecori Giraldi, via 31, 63Pellico, via 104Persia 56Piccoli, via 105Po (fiume) 34Polegge (località)104Porciglia, via 105Pozza di Fassa 49Produttività 26, 27, 36, 55, 104, 118 Quadri, via 104Quartiere Barche 103Quartiere Ferrovieri 105Quartiere Mercato 104

Retrone 84Riviera Berica 105Roma 36, 41, 43, 56, 83, 89, 91, 97Romania 56Rossa G., via 105Rossi A., via 105Rossini, via 105

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Sale, via 105Salvemini, via 105San Biagio (via/piazzetta) 103San Bortolo 103, 104San Carlo (chiesa) 11, 40, 41, 55,

120, 124San Donato a Calenzano 78San Felice (via/monastero/località)

48, 103, 104San Lazzaro (viale/quartiere/località)

39, 74, 103, 123San Pietro Intrigogna 105San Pio X (quartiere) 103, 105San Rocco (località) 85Sant’Agostino (località) 105Sant’Antonino, via 104Sant’Antonio di Mavignola 49 Santa Caterina (località) 103Santa Croce (località) 103, 104Sartori, via 104Saviabona (località) 104Schiavo, via 105Schio, via 104Seriola (fiume) 12Settecà (via/località) 56, 105Settembrini, via 104Siria 56Sorio, via 104Stadio, via 104Stati Uniti d’America 81Strada del Tormeno 105Strada del Volto 85, 104Strada della Paglia 105Svizzera 57

Thiene129Tommaseo, via 104Torre Spaccata (località) 43Trento, viale 31, 48, 54, 63, 122Trissino, via 104Turati, via 105

Unione Sovietica 81Usodimare, via 104

Valles, via 104Veneto 43

Venezia 129Verrazzano, via 104Vespucci, via 104Vezzena 49Villa /Barco Zileri Dal Verme 48Villa Checato 48Villa Ferrari Chiodi 48Villa Loschi Zileri Motterle 48Villa Panizza 48Villa Repeta Beretta 48Villa Rota Barbieri 47, 48, 52, 69Villa Welsberg 49Villa Zaccaria 48

Zanardelli, via 104Zugliano, via 105

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Indice dei nomi

Astengo Giovanni 100

Barbieri Giuseppe 11Bassanello Romano 76Batini Federico 17, 114Benci Bruno 110Benevolo Leonardo 97Benzoni Gino 12Bloch Marc 134Bottoni Piero 86Brunello Giorgio 70Brusutti Elisabetta 11Brusutti Mandelli Anna 9, 19, 71, 74Brusutti Roberto 11, 143Burri Alberto 95

Cambellotti Duilio 95Caniglia Costanza 99Cappelletti Guglielmo 38Cascella 95Cerruti Carlo 85

De Felice Renzo 130De Gasperi Alcide 77, 81, 82, 83,

86, 89De Laurentiis Pietro 95Di Biagi Paola 101Di Vittorio Giuseppe 85, 86, 88Diamanti Ilvo 130, 131Don Antonio 32, 40Don Filippo 49Don Pino 49Don Roberto 49Donati Virginia 56Dorazio Piero 95Dossetti Giuseppe 91

Einaudi Luigi 78, 89

Fanfani Amintore 24, 37, 42, 77, 122 Febvre Lucien 134

Foschini Arnaldo 91, 96, 97Franceschetti Franco 97

Gardella, architetto 27, 62, 118Gennaro Graziano, ‘Barba’ 45, 73,

74Gianesin Matilde 12Ginsborg Paul 119Giovanni XXII, papa 36, 41Gorio Federico 101Gregori Duilio 72Gronchi Giovanni 37Guala Filiberto 90, 91, 94, 97

Halbwachs Maurice 136

La Malfa Ugo 80La Pira Giorgio 81, 91Lanaro Giacomo 18Le Goff Jacques 7Libera Adalberto 100Loschi, famiglia 48Luzzatti Luigi 84

Maltauro Gildo 49Mariani Valerio 98Meneghello Luigi 80Milani Lorenzo 78Montini, monsignore 79, 91Moretto Carlo 76Moro Aldo 36

Nenni Pietro 36

Olivetti Adriano 97Olmi Ermanno 23Ortolani, architetto 27

Paiusco Luisella 18, 65Paolo VI, papa 41, 79Pasolini Pier Paolo 43

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Passarin Mauro 36, 69Petroni Lucia 19, 74Pilastro Luciano 70Pio XII, papa 36Polato Eugenio 105Poretti Sergio 96Portelli Alessandro 135Puggioni Annetto 86, 91Pupillo Giuseppe 20

Quadri Anna Lucia 53Quaroni Ludovico 96

Ranzolin Antonio 9, 39, 71Reato Ermenegildo 9Rizzato , famiglia 27, 47, 119Rossi Gaetano e Francesco 84Rubinacci Leopoldo 85Rumor Mariano 83, 85

Sacchiero don Gianfranco 8, 11, 15, 16, 19, 41, 50, 75, 125

Sasso Flavio 68, 69Scaramuzzetti Pinuccia 56Segni Antonio 37Signorelli Amalia 99Silvestri Adriano 73, 74Sottil M. Cristina 46, 124, 128, 129

Tagini Paolo 17, 132Tambroni Ferdinando 37Togliatti Palmiro 82Truman Harry S. 81Tucidide 134

Zevi Bruno 92, 98Zinato Carlo 125Zuanon Luigi 76

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Questo volume è preceduto da tre quaderni, Storie raccontate 2006, 2007 e 2008

e dal libro Memoria e storia.è nelle previsioni che sia seguito da altri.

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