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1 La Crocifissione di Gesù Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Isaia 53,6-7) La Crocifissione è un tema ed un soggetto molto importante nella storia dell'arte, tale quasi da meritare studi specifici non meramente da inquadrarsi nella categoria dell'arte sacra. Molte sono state le motivazioni che hanno persuaso vari artisti ad applicarvisi e davvero cospicuo e prezioso è il patrimonio artistico tramandatoci. La rappresentazione della Passione di Cristo offriva infatti spunto per rendere una gamma di emozioni e sensazioni, e comunque di sommovimenti spirituali, che non trovano un apprezzabile paragone in altre istanze di comune immediatezza e ricevibilità. In più, come per tutta l'arte sacra, vi furono epoche (come certo il Rinascimento) in cui il mecenatismo delle varie Signorie condizionavano la munificenza all'imposizione della tematica, talvolta a fini meramente politico-diplomatici, finalizzati a preservare buoni rapporti con gli Stati della Chiesa; perciò si commissionavano in grande quantità soggetti religiosi che oggi ci restano in buona parte come capolavori. Nonostante tuttavia le si conosca per il loro valore artistico, tali opere contengono anche un importantissimo registro documentario, poiché descrivono, specialmente nella comparazione fra le varie epoche, la variazione della concezione culturale e sociale delle materie sacre (o spirituali in genere), lasciando trasparire la maggiore o minore importanza che taluni dettagli, talune presenze (o assenze), taluni contesti potevano assumere o perdere nell'evolvere delle mentalità. Dalla rappresentazione della Bibbia di Rabbula, alla surreale sintesi di Dalì, passando per diverse sfaccettature del Cinquecento italiano e fiammingo, cattolico o protestante, la Crocifissione marca con la sua costante immutabilità, una smisurata fioritura interpretativa. Il tema del resto, non era riservato ai soli cristiani, né tantomeno ai cattolici: molte opere sono di protestanti, ebrei, agnostici ed atei, mentre anche lo sporadicamente osservanteCaravaggio fu capace di una Flagellazione che tuttora è una delle più profonde e toccanti visioni dell’argomento. La Crocifissione bianca di Chagall (1938), ebreo chassidico, insieme al trittico Resistenza, Resurrezione, Liberazione segnala che il sacrificio di Cristo è divenuto patrimonio comune delle culture (almeno quelle Occidentali) come simbolo della persecuzione e lo usa quindi per dipingere un Cristo, nato ebreo, che incarna l'eterno destino di quel popolo martoriato e perseguitato da secoli.

La Crocifissione di Gesù - isr.glauco.it · Volto del Santo Sepolcro, è rappresentata dal Volto Santo di Lucca, un crocifisso ligneo che la leggenda definisce un ... Sant’Angelo

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La Crocifissione di Gesù

“Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva

la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti.

Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come

agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi

tosatori, e non aprì la sua bocca”

(Isaia 53,6-7)

La Crocifissione è un tema ed un soggetto molto importante nella storia dell'arte, tale quasi

da meritare studi specifici non meramente da inquadrarsi nella categoria dell'arte sacra.

Molte sono state le motivazioni che hanno persuaso vari artisti ad applicarvisi e davvero

cospicuo e prezioso è il patrimonio artistico tramandatoci.

La rappresentazione della Passione di Cristo offriva infatti spunto per rendere una gamma

di emozioni e sensazioni, e comunque di sommovimenti spirituali, che non trovano un

apprezzabile paragone in altre istanze di comune immediatezza e ricevibilità. In più, come

per tutta l'arte sacra, vi furono epoche (come certo il Rinascimento) in cui il mecenatismo

delle varie Signorie condizionavano la munificenza all'imposizione della tematica, talvolta a

fini meramente politico-diplomatici, finalizzati a preservare buoni rapporti con gli Stati della

Chiesa; perciò si commissionavano in grande quantità soggetti religiosi che oggi ci restano

in buona parte come capolavori.

Nonostante tuttavia le si conosca per il loro valore artistico, tali opere contengono anche

un importantissimo registro documentario, poiché descrivono, specialmente nella

comparazione fra le varie epoche, la variazione della concezione culturale e sociale delle

materie sacre (o spirituali in genere), lasciando trasparire la maggiore o minore importanza

che taluni dettagli, talune presenze (o assenze), taluni contesti potevano assumere o

perdere nell'evolvere delle mentalità. Dalla rappresentazione della Bibbia di Rabbula, alla

surreale sintesi di Dalì, passando per diverse sfaccettature del Cinquecento italiano e

fiammingo, cattolico o protestante, la Crocifissione marca con la sua costante immutabilità,

una smisurata fioritura interpretativa.

Il tema del resto, non era riservato ai soli cristiani, né

tantomeno ai cattolici: molte opere sono di protestanti, ebrei,

agnostici ed atei, mentre anche lo “sporadicamente

osservante” Caravaggio fu capace di una Flagellazione che

tuttora è una delle più profonde e toccanti visioni

dell’argomento. La Crocifissione bianca di Chagall (1938),

ebreo chassidico, insieme al trittico Resistenza,

Resurrezione, Liberazione segnala che il sacrificio di Cristo è

divenuto patrimonio comune delle culture (almeno quelle

Occidentali) come simbolo della persecuzione e lo usa quindi

per dipingere un Cristo, nato ebreo, che incarna l'eterno

destino di quel popolo martoriato e perseguitato da secoli.

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Il ruolo della crocifissione di Gesù nella cultura occidentale, al di là delle dispute sulla sua

storicità, è sicuramente fondamentale, poiché ad un tempo simbolico ed emblematico della

nascita del Cristianesimo, che rappresenta di fatto un agente culturale di enorme influenza

nella storia. Inoltre, il segno formale stesso della crocifissione, la croce, è diventato un

simbolo di cui tuttora si fa ampio uso presso le culture di derivazione cristiana.

Nel tempo, in mancanza di elementi scientificamente certi, innumerevoli discussioni sono

tuttavia ugualmente scaturite intorno al supplizio, ad esempio sulla sua appropriata

qualificabilità come martirio in senso teologico, è tuttavia accettabile che sia stata la

conseguenza di una condanna per sedizione, costituzione di banda armata, devastazione

di un luogo di culto e lesa maestà nei confronti del potere di Roma.

Il tema del Crocifisso, i cui più antichi esempi sono del IV secolo, segue

quello della rappresentazione della croce, già presente, come

raffigurazione simbolico-escatologica nelle catacombe e nei siti funerari

cristiani dei primi secoli, soprattutto durante le persecuzioni. La croce è a

volte rappresentata come ancora (Catacombe di Domitilla a Roma) o

unitamente ai pesci, una simbologia fortemente connessa con il concetto di

salvezza che il martirio portava.

Come tale la Crocifissione rimane sconosciuta all'iconografia fino a quando Teodosio il

Grande nel IV secolo non soppresse la pena della croce e l'immagine non suscitò più dei

analogie negative. La raffigurazione di Gesù crocifisso “scandalo per i giudei, stoltezza

per i pagani” secondo San Paolo (1 Cor 1,23), avrebbe potuto destare scandalo tra gli

ebrei e suscitare disprezzo nei pagani. Soppresso questo tipo di supplizio comparvero le

prime raffigurazioni.

Le più antiche rappresentazioni di

Cristo crocifisso sono quella della

scatola d'avorio del British

Museum databile al 420-430 d.C.

e il pannello di Santa Sabina a

Roma, che costituisce uno dei rari

esempi antichi di scultura

paleocristiana.

Cristo è rappresentato frontal-

mente al centro della scena, trai

due ladroni, in dimensioni

maggiori. Volto barbuto, capelli

lunghi e occhi aperti. Le braccia

sono semi distese in posizione

orante, con solo le mani inchiodate. I piedi, contrariamente alla maggioranza delle

rappresentazioni, poggiano saldamente a terra e non sono inchiodati. Il corpo di Cristo

appare senza peso ed il suo volto “vivente”. Sul retro dei tre suppliziati è raffigurato un

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paramento in mattoni scompartito in tre parti verticali da esili lesene scanalate, sormontate

da altrettanti timpani, di cui quello sinistro con una apertura.

La maggiori dimensioni del Cristo, oltre

che denotarne una maggiore importanza

rispetto agli altri due secondo una

impostazione di carattere esegetico già

vista nella scultorea romana di tipo plebeo,

ne accentuano l’aspetto escatologico

complessivo offrendone una visione oltre

che di universis imperator di primus inter

pares dell’humanitas. La tripartizione,

infatti, che funge da sfondo ai tre

costituisce un topos architettonico

bizantino e tardo antico, soprattutto negli

edifici religiosi atti ad ospitare le funzioni religiose dove prendeva parte l’imperatore o il

sovrano. Una ripartizione simile è presente, ad esempio, nei mosaici di Sant’Apollinare

Nuovo a Ravenna (505) nella raffigurazione del palatium, sede per eccellenza

dell’imperatore cristiano. Nella raffigura-zione di Santa Sabina, tuttavia, la testa del Cristo,

sedes sapientiae, è rappresentata all’interno del timpano centrale che culmi-na,

contrariamente agli altri due, al di fuori della formella, segno evidente che l’humanitas di

Cristo è già superata dalla sua stessa resurrezione; mentre l’apertura centinata posta sul

timpano sinistro ac-cenna alla salvazione del ladrone buono (Lc 23,43), alla cui anima è

permesso uscire dalle strette ed anguste mura umane, intese come prigione corporale più

che spirituale.

Nel V secolo, soprattutto in affreschi e mosaici comparirà la "Croce gemmata" , simbolo

del Cristo in gloria. Nel 451 papa Leone Magno, nel riaffermare le due nature, umana e

divina del Cristo, sostenne che era stato “appeso alla croce e trapassato da chiodi”.

Successivamente, il Concilio di Costantinopoli (696), si ordinò di rappresentare Cristo nella

sua umanità più sofferente. Da allora si ebbero dunque due tipologie di rappresentazioni: il

Cristus triunfans ed il Cristus Patiens, raffigurazioni che, in varie forme, sono giunte fino a

noi.

Una tipologia di Crocifisso, derivata forse dal cosiddetto

Volto del Santo Sepolcro, è rappresentata dal Volto

Santo di Lucca, un crocifisso ligneo che la leggenda

definisce un'immagine acheropita per secoli al centro di

una diffusa venerazione in tutta Europa fin dal Medioevo,

custodito in un tempietto a pianta centrale del 1484, nella

navata sinistra della cattedrale di San Martino a Lucca.

Per quanto riguarda questa importante scultura lignea, la

critica è concorde nel ritenere che sia una copia della

immagine originale, approntata in epoca incerta per

sostituire una croce forse gravemente danneggiata. La

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valutazione cronologica, ostacolata dallo stato attuale della scultura, coperta di nerofumo e

su cui non è pensabile di condurre indagini distruttive o restauri di grande portata stante la

grandissima venerazione ancora tributatagli, oscilla fra l' XI e il XIII secolo.

Secondo la Legenda Leobiniana, diffusasi nel secolo

XII per fornire una base documentale alla sempre

crescente venerazione tributata all'immagine, fu

redatta una Relatio de revelatione sive inventione ac

translatione sacratissimi vultus (Racconto della

creazione, scoperta e traslazione del santissimo volto)

che in realtà, secondo la critica, riunirebbe tre nuclei

leggendari diversi comunque riferibili all'epoca del

vescovo Rangerio (1097-1112). In questa relatio si

racconta dell'arrivo a Luni, poi a Lucca, nel 742, di una

immagine, contenente numerose reliquie scolpita da

Nicodemo che, con Giuseppe d'Arimatea, depose

Cristo nel sepolcro. La leggenda riporta anche che Nicodemo si sarebbe trovato di fronte

all'impossibilità di riprodurre il volto del Messia e che l'immagine sarebbe stata da lui

ritrovata già scolpita in modo miracoloso. La connotazione dell'immagine come acheropita

e per di più contenitore per reliquie, veniva così accentuata per allontanare le accuse di

idolatria, non rare nel caso di culto di immagini tridimensionali di tale grandezza. La

leggenda continua raccontando che per sfuggire alla minaccia di distruzione essa venisse

posta su una nave priva di equipaggio, lasciata libera di navigare a tutti i venti, che infine

giunse nel Tirreno, di fronte al porto di Luni. La nave avrebbe resistito ad ogni tentativo di

abbordaggio da parte dei lunensi, salvo poi approdare spontaneamente a riva dopo

l'esortazione del vescovo di Lucca Giovanni I, giunto nel frattempo nella zona dopo essere

stato avvisato in sogno della presenza sulla nave del Volto Santo. Una volta portato a

terra, il crocifisso fu ancora disputato da lunensi e lucchesi, ma altri segni divini vollero che

il Crocifisso venisse condotto a Lucca, e alla fine i lunensi furono costretti a rinunciare al

suo possesso, ricevendo in compensazione un'ampolla del Sangue di Cristo prelevata da

dentro il simulacro.

Pur non essendo noto il momento in cui l'attuale simulacro fu

sostituito al precedente andrebbe comunque correlato con il

vescovato di Anselmo da Baggio (1060-70),, che presenziò alla

consacrazione della nuova cattedrale il 6 ottobre 1070. Alcuni

critici ritengono che il Crocifisso ligneo non sia riferibile alla

scultura Occidentale del X-XI secolo, soprattutto perché

indosserebbe un colobium, una tunica tipica della Siria. Al

contrario, altri studiosi ritengono che non si tratti di un colobium,

bensì una tunica manicata di tipo sacerdotale. L’origine

occidentale del simulacro lucchese sarebbe altresì giustificata

da altre croci monumentali come la Gerokreuz nel Duomo di

Colonia, datata all'epoca del vescovo di Gero (969-976), o alle

grandi croci ottoniane di Pavia e Vercelli, datate rispettivamente

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ante 996 e ante 1026.

La questione tuttavia non sarebbe da ridurre

esclusivamente al fatto dimensionale, infatti tra i due

Crocifissi emergono importanti differenze di altro tipo,

come, prima fra tutte, il fatto che il Crocifisso lucchese

sia vestito, mentre quello di Colonia porti solo un

perizoma, come la gran parte dei simulacri di questo

tipo. Nonostante ciò, tuttavia occorre osservare come

in entrambi lo sguardo si rivolga al riguardante, verso

il basso, in atteggiamento tra il compassionevole e il

sofferente, un atteggiamento che presuppone la

rappresentazione del Cristo comunque vivo e non

ancora trapassato, nel quale l’aspetto ascetico risulta

preponderante, esattamente come si può osservare

nel Crocifisso del Museo Sanna, ma proveniente

dalla chiesa di San Sisto a Sassari, per il quale la

datazione al XIII secolo parrebbe troppo alta, vista la

tipologia così simile al Cristo di Tahull presso Lérida

ascritto al primo ventennio del XII secolo.

Rimanendo in ambito medievale, ma

spingendosi in epoca romanica, alla quale

forse appartiene il citato Crocifisso

sassarese, occorre sottolineare come

assuma particolare importanza, soprattutto

nei grandi cicli d’affreschi di derivazione

cassinese, la Crocifissione come momento

centrale di tutta la rappresentazione degli

episodi neotestamentari, a cominciare dal

perduto ciclo della basilica costantiniana di

San Pietro in Vaticano e di quelli superstiti di

Sant’Angelo in Formis, San Vincenzo al

Volturno, San Pere de Sorpe (oggi al Museu

Nacional d’Art de Catalunya) e San Pietro di Galtellì. Tale centralità della

rappresentazione del Calvario fu sottolineata da Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), che

la indicava come inizio della meditazione mistica. Si tratta di Crocifissioni nelle quali, pur

lasciando trasparire l’imminente morte nel volto leggermente inclinato del Cristo, come

indicava Anselmo d’Aosta, nel loro corpo non portano i segni della sofferenza terrena e,

come scriveva Ruperto di Deutz (1075-1130), risultano “conformi alla bellezza ideale”. In

effetti l’idea di un Cristo intonso sulla croce, che durante il Medio Evo fu abbastanza

diffuso fino al gotico, deriva dal Vangelo Apocrifo di Filippo, dove si legge che “chi dice ce

il Signore prima morì e poi risuscitò sbaglia, perché prima è risuscitato poi è morto, se

prima, infatti, uno non si procura la resurrezione non morirà, come Dio vive, egli sarà

morto” (21).

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I quattro bracci della croce, che

soprattutto nel gotico italiano troviamo

rinforzati e ricchi di personaggi,

rappresentano secondo il Vangelo

Apocrifo di Giovanni (25) le quattro

grandi luci, ossia le quattro grandi

potenze: charis (grazia), synesis

(comprensione), aisthesis (percezione)

e phronesys (giudizio) del divino

Antogene, che si presentano a Cristo.

Fu forse questo il motivo per cui prima

Cimabue (Cenni di Pepi, 1240-1302),

poi Giotto reinventarono proprio i bracci

popolandoli di figure che partecipavano

più che all’ascesi mistica del Cristo, al

suo dolore corporale e alla sua morte,

resa sempre più realistica attraverso la

contorsione del corpo e gli occhi non

più aperti. Così è, per esempio, nello

straordinario Crocifisso che Cimabue dipinse per Santa Croce a Firenze (ivi, Museo di

Santa Croce) al ritorno da Roma nel 1272, dove nel rinforzo dei bracci laterali inserisce le

figure di Maria e Giovanni dolenti su fondo oro per esaltarne maggiormente l’aspetto divino

e salvifico, mentre sui lati rinforza la croce per permettere alla figura del Cristo, resa con

naturalismo, di torcersi al di fuori dell’asse centrale e trasmettere così la sensazione

dell’uomo appeso e suppliziato. Qua, come nel caso del bassorilievo di Santa Sabina a

Roma, luogo centrale della rappresentazione è la testa nimbata e reclinata seguendo la

direzione di quella di Giovanni, collocato a destra, e specularmente rispetto a quella della

Vergine di sinistra, come per sottolineare un dialogo tra madre e figlio, sposa e sposo,

padre e figlia, con una compostezza tra charis e synesis, dal forte sapore emotivo.

Se nel Gotico italiano si assiste ancora ad una

continenza verso la crudezza del dolore,

rappresentando ancora Cristo parzialmente

intonso sulla croce, come è il caso di Cimabue,

Giotto (Crocifissione, Padova, Cappella degli

Scrovegni, 1305) o Nicola Pisano, per i quali

conta più la stilizzazione della figura e il rinvio

all’antico che l’espressionismo incisivo determi-

nato dal memento mori, nel nord Europa e

particolarmente nella zona renana prevale invece

la volontà di evidenziare nel corpo del Salvatore

tutta la sua passione, con una crudezza di

dettagli che ne sottolineava tutta l’umanità. Ciò fu

forse dovuto, poco dopo il 1300, all’influsso della teologia di Anselmo di Canterbury e alla

contemplazione della croce di Bernardo di Clairvaux, per i quali il corpo di Cristo

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Crocifisso diventa sempre più l’oggetto centrale degli interessi mistici. Partendo dalla

Renania e dalla Vestfalia, anche gli altri ambiti centroeuropei dell'Austria, della Boemia e

della Silesia, di diffuse l'iconografia della nuova tipologia del crucifixus dolorosus. Il tema

del Cristo In Croce subisce un mutamento essenziale: dalla rappresentazione della vittoria

sulla morte si arriva alla consapevolezza della realtà delle sofferenze e della morte di

Cristo: un profondo naturalismo domina la composizione, al posto del nimbo, una corona

di spine cinge la testa china sul petto e Il corpo emaciato proclama a gran voce i segni del

martirio com’è retto da quelle esili braccia distese fino allo stremo. L’ossatura pettorale

pronunciatissima, il corpo ricoperto di ulcere, il sangue abbondante che corre dalle ferite,

la bocca mezza aperta che esala l’ultimo respiro.

I modelli più antichi di tale tipologia derivano si trovano

tutti in Renania: il crocifisso di Santa Maria in Kapitol a

Colonia (1304), dove anche la croce è espressa

attraverso due rami a forma di Y, e quella della

collezione Mangold di Colmar. Ma le forme si fanno

presto più miti e una moderazione naturalistica di

accenti realistici pacati subentra nella composizione

dei Crocifissi della Cattedrale di Perpignano (1307), di

San Georg a Colonia (c. 1333), di Andernach in

Renania e il cosiddetto “Ungarkreuz” forse posteriore.

La tipologia di questo stile addolcito del crucifixus

dolorosus (“Weicher Stil”), di cui esempi ulteriori sono

identificabili a Krefeld-Linn ed a San Mauritius sempre

a Colonia, troverà poi accoglienza in Italia. Proprio i

crocifissi di San Georg e di Andernach costituiscono

degli esempi notevolmente prossimi al Crocifisso della

Beata Villana a Santa Maria Novella (Firenze) e a quello detto di Nicodemo di Oristano:

a parte l'iconografia vicinissima, tali rappresentazioni testimoniano una certa affinità

stilistica e risultano animati dal medesimo moderato.

Si tratta di modelli che pur nella

loro ristretta diffusione costi-

tuiscono un topos caratteristico

dell’espressività nordica che,

anche in tempi molto recenti, ha

continuato a maturare nell’opera

di Munch, ma che ha riscontri

anche in ambito rinascimentale,

dove alla tragedia con-sumata e

drammatica della Crocifissione

dell’Altare di Issenheim (1512-

16) commissionato a Grünewald

(1480-1528) dal siciliano Guido

Guersi (Colmar, Musée di Unterlinden) o quelle, dello stesso artista, della National Gallery

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di Washington (1508) e del Kunstsamm di Basilea (1510) si contrappone l’aspetto

caricaturale e grottesco di Bosch o Bruegel. “A Grünewald non interessano che

l'espressione e il movimento. La norma, la misura, le proporzioni della figura umana (che

Dürer perseguì per tutta vita) non lo hanno certamente interessato molto. le sue forme

fisiche sono per lo più brutte, malaticce, impossibili o almeno fuori dall'ordinario, anche

quando non si sacrifichi niente all'espressione. I volti sono asimmetrici, quasi in ogni

dipinto si riscontrano arbitrii di disegno che hanno una giustificazione artistica; oppure

tralascia il modellato, come avviene negli schizzi. Già questo fatto, e l'arbitrarietà delle

proporzioni, dimostrano che l'artista non si è lasciato turbare da ciò che è anormale” (H. A.

Schmid).

Evoluzione contraria ebbe il naturalismo

italiano dove la composizione era comunque

commisurata a proporzioni precise e gamme

cromatiche chiare che delineano paesaggi

bucolici, degni di una istantanea scattata

riprendendo i lievi e verdeggianti paesaggi

umbri o marchigiani, certo diversi rispetto a

quelli più aspri di Galilea. Così Antonello da

Messina, muovendosi dalla Sicilia a Napoli,

secondo quanto riferì Pietro Summonte, poi

a Venezia, passando per la verde Umbria, e

tornando quindi nella sua terra natia,

espresse attraverso la divina proporzione, o

proporzione aurea, quella bellezza ideale di

ascendenza ellenica, degna più che di un

uomo crocifisso e torturato, di un Apollo di

Belvedere. La misurata proporzionalità del

corpo che, come in epoca romanica, diviene

intonso è tema centrale, assieme alla

prospettiva, del rinascimento italiano, dove

alla forza espressiva germanica si sostituisce

una visione del mondo scientifica e

perfettamente commensurabile. Così alle

crocifissioni antonellesche di Sibiu (ivi,

Muzeul National Brukenthal), Anversa (ivi,

Koninklijk Museum voor Schone Kunsten) o

Londra (ivi, National Gallery), seguiranno quelle di Perugino e Raffaello, rappresentate col

medesimo sentimento estatico verso quel Parnaso ideale che andava a sostituire il più

drammatico ed oscuro Monte Calvario dove l’esperienza umana di Cristo si era interrotta.

Già prima di Antonello, tuttavia, l’attenzione dell’arte italiana di era concentrata sulla

questione matematica sia proporzionale che prospettica, come se tutto il mondo potesse

essere misurato col raziocinio, compresa la visione ottica. In ciò Masaccio a Firenze e più

tardi Piero della Francesca ad Urbino ebbero un ruolo determinante, soprattutto nella

9

definizione delle norme prospettiche. Nel caso di

Masaccio, una così forte attenzione alla

razionalità sembra contrapporsi con quanto

Vasari, biografo che ne documentò la vita oltre

un secolo dopo, racconta: “Fu persona

astrattissima e molto a caso, come quello che,

avendo fisso tutto l'animo e la volontà alle cose

dell'arte sola. Si curava poco di sé e manco

d'altrui. E perché è non volle pensar già mai in

maniera alcuna alle cure o cose del mondo, e

non che altro al vestire stesso, non costumando

riscuotere i danari da' suoi debitori, se non

quando era in bisogno estremo, per Tommaso

che era il suo nome, fu da tutti detto Masaccio.

Non già perché è fusse vizioso, essendo egli la

bontà naturale, ma per la tanta strac-

curataggine.” Pare incredibile infatti che uno con

un temperamento simile sia stato il maggior

artefice del razionalismo prospettico e misurato

del rinascimento italiano. Simbolo di tale estrema

attenzione verso la misura delle cose è senza

dubbio l’affresco della Trinità in Santa Maria

Novella a Firenze. Dipinta tra il 1426 e il 1428,

rappresenta il dogma trinitario inserito in una

cappella ispirata agli archi di trionfo romani, con

volta a botte cassettonata sostenuta da colonne

ioniche, vede al centro la figura di Cristo,

sostenuto da Dio Padre, unica figura sottratta

alle rigide regole prospettiche, in quanto essere non misurabile e sotto la croce Maria e

Giovanni. Più in basso i due committenti, secondo una recente identificazione Berto di

Bartolomeo del Banderaio e la sua consorte Sandra, assistono inginocchiati alla scena

sacra. Con funzione di base è infine collocato un altare marmoreo, sotto il quale si trova

uno scheletro giacente con la scritta “Io fu già quel che voi sete: e quel chi son voi ancor

sarete”.

L’opera può essere letta verticalmente dal basso verso l’alto come ascesi verso la

salvezza eterna: in primo piano il sarcofago con lo scheletro, che ricorda la transitorietà

della vita terrena, in secondo piano, le due figure inginocchiate che pregano dei

committenti, alla base del triangolo che le figure formano (rappresentano la preghiera,

mezzo di salvezza), in terzo piano la cappella con sulla soglia la Vergine e Giovanni

(rappresentano l'intercessione), dietro ai quali c’è la Croce, sorretta da Dio Padre, al

vertice del triangolo. Sopra il Cristo si trova la colomba dello Spirito Santo (Salvezza). La

cappella è rappresentata secondo una rigorosa prospettiva che viene data dai lacunari

della volta a botte, dalle lesene e dai capitelli corinzi sullo sfondo. I personaggi sono

monumentali, ben definiti spazialmente dal chiaroscuro.

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Alle forme corpose e naturalistiche di

Masaccio si rifece Michelangelo (1475-

1564), che attraverso la rottura con le rigide

regole prospettico-ottiche e proporzionali

del primo rinascimento italiano, inventò il

manierismo. Nel 1504 lavorando al cartone

della Battaglia di Cascina per il salone di

Palazzo Vecchio reinterpreta l’espressività

nordica innestandola nella misura italiana

attraverso il disarticolarsi anamorfico dei

corpi che non assumono più posizioni

predefinite, ma si muovono come in una

scena in divenire. A questo cartone

guardarono varie generazioni d’artisti, ma

soprattutto quelli della prima maniera come

Pontormo, Rosso, Beccafumi, nonché gli

spagnoli Machuca e Berruguete, affascinati

questi ultimi anche dalle istanze nordiche di

Dürer, soprattutto per quanto riguarda lo

studio dal vivo del paesaggio, e Grünewald

per le tonalità livide che segnano quel

confine tra compostezza e dramma. Fu nel 1541, quindi quasi quarant’anni dopo, che

Michelangelo conobbe la marchesa di Pescara Vittoria Colonna, poetessa sconsolata che

cantava il suo sconforto amoroso in un canzoniere dal forte sapore petrarchesco, che lo

introdusse al circolo viterbese del cardinale Reginald Pole, frequentato, tra gli altri, da

Vittore Soranzo, Apollonio Merenda, Pietro Carnesecchi, Pietro Antonio Di Capua, Alvise

Priuli e la contessa Giulia Gonzaga. Quel circolo culturale, poi accusato di Nicodemismo,

aspirava ad una riforma della Chiesa Cattolica, sia interna, sia nei confronti del resto della

Cristianità, attraverso la quale avrebbe dovuto riconciliarsi. Queste teorie influenzarono

Michelangelo proprio nella composizione della Crocifissione realizzata per la sua amica

contessa, forse dispersa o forse mai dipinta. Di quest'opera restano alcuni disegni

preparatori non tutti di certa attribuzione. Il più famoso è senz'altro quello conservato al

British Museum, mentre copie pittoriche sono conservate nella Cattedrale di Logroño

(Spagna) e a Casa Buonarroti. Queste opere ci danno un'idea di come Michelangelo

avrebbe progettato il dipinto della Crocifissione nel quale un giovane e sensuale Cristo

stava a simboleggiare un'allusione alle teorie riformiste cattoliche che vedevano nel

Sacrificio del sangue di Cristo l'unica via di salvezza individuale. È l’inizio della visione

ormai post tridentina che diede avvio alla grande epopea del barocco.