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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 NOVEMBRE 2011 NUMERO 354 CULT La copertina RECALCATI E ZELLINI La rivincita dello zero Perché la scienza nasce dal “nulla” La recensione LEONETTA BENTIVOGLIO Torna Geda dai coccodrilli all’epica di un nonno All’interno L’intervista ANTONIO MONDA Lila Zanganeh “Le lezioni di felicità fatte da Nabokov” Il teatro RODOLFO DI GIAMMARCO Franco Branciaroli e il declino di un attore dietro la ribalta Il libro ALESSANDRO BARICCO Una certa idea di mondo: la piccola America di Elizabeth Strout La primavera in cui i Beatles scoprirono l’Lsd Spettacoli ANGELO AQUARO E PAUL MCCARTNEY Catastrofi d’Italia, la lunga storia che non insegna L’attualità PAOLO RUMIZ S ono nato nel 1942 nel quartiere di Corona, nel Queens. I miei genitori si erano trasferiti lì dal Lower East Side. La loro idea era lasciare il vecchio quartiere per “migliorar- si”, come dicevano. Corona mi piaceva. Condividevamo una casetta con un’altra famiglia. Sul retro c’era un cortile con un al- bero. Si poteva andare al parco: c’era qualcosa da vedere. Ma poi mio padre si mise in guai seri col padrone di casa e dovemmo ritornare a Elizabeth Street, a Manhattan. In un certo senso fu un’umiliazione: tornare praticamente nelle due stanze e mezzo in cui era nato, per stare con i miei nonni, finché trovammo un appartamento in fondo all’isolato, al 253. Nel Queens fu meraviglioso. Nick Pileggi e io ci abbiamo scritto so- pra una sceneggiatura, che vorrei girare. Ma non so se sarò mai ca- pace di portarla sullo schermo. (segue nelle pagine successive) MARTIN SCORSESE NEW YORK P arlare di Scorsese è come avvicinarsi a un mondo im- possibile da ridurre a sintesi. Perché se ha raccontato co- me nessuno l’America degli immigrati italiani — lui, fi- glio di figli di immigrati — è forse uno dei più grandi in- namorati di New York, affascinato dalla sua frenesia centrifuga in grado come nessun’altra cosa di raccontare gli elementi universali di una vita. I mafiosi di Scorsese sono raccontati nelle loro vite, più che nelle loro gesta. I comportamenti, le amanti, i vestiti e gli sguar- di, gli orologi, i club, i ristoranti. Le stanze che spuntano sempre nei retrobottega. Nei film di Scorsese, nei suoi documentari c’è tutto: musica, guerra, narrazione criminale, costruzione di comporta- menti. È un regista che ha battuto talmente tanti sentieri che non può essere toccato dalla solita accusa rivolta a chi racconta la vita, quel- la di strada: che con quei film si condizionano i comportamenti. (segue nelle pagine successive) ROBERTO SAVIANO bravo ragazzo Quel MARTIN SCORSESE “Gangs of New York non si avvicina neppure minimamente a quello che vedevo io sulla Bowery” La strada, il cinema Autobiografia di un grande regista Repubblica Nazionale

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 27NOVEMBRE 2011

NUMERO 354

CULT

La copertina

RECALCATI E ZELLINI

La rivincitadello zeroPerché la scienzanasce dal “nulla”

La recensione

LEONETTA BENTIVOGLIO

Torna Gedadai coccodrilliall’epicadi un nonno

All’interno

L’intervista

ANTONIO MONDA

Lila Zanganeh“Le lezioni di felicitàfatte da Nabokov”

Il teatro

RODOLFO DI GIAMMARCO

Franco Branciarolie il declinodi un attoredietro la ribalta

Il libro

ALESSANDRO BARICCO

Una certa ideadi mondo:la piccola Americadi Elizabeth Strout

La primavera in cui i Beatlesscoprirono l’Lsd

Spettacoli

ANGELO AQUARO

E PAUL MCCARTNEY

Catastrofi d’Italia,la lunga storiache non insegna

L’attualità

PAOLO RUMIZSono nato nel 1942 nel quartiere di Corona, nel Queens. I

miei genitori si erano trasferiti lì dal Lower East Side. Laloro idea era lasciare il vecchio quartiere per “migliorar-si”, come dicevano. Corona mi piaceva. Condividevamo

una casetta con un’altra famiglia. Sul retro c’era un cortile con un al-bero. Si poteva andare al parco: c’era qualcosa da vedere. Ma poi miopadre si mise in guai seri col padrone di casa e dovemmo ritornare aElizabeth Street, a Manhattan. In un certo senso fu un’umiliazione:tornare praticamente nelle due stanze e mezzo in cui era nato, perstare con i miei nonni, finché trovammo un appartamento in fondoall’isolato, al 253.

Nel Queens fu meraviglioso. Nick Pileggi e io ci abbiamo scritto so-pra una sceneggiatura, che vorrei girare. Ma non so se sarò mai ca-pace di portarla sullo schermo.

(segue nelle pagine successive)

MARTIN SCORSESE

NEW YORK

Parlare di Scorsese è come avvicinarsi a un mondo im-possibile da ridurre a sintesi. Perché se ha raccontato co-me nessuno l’America degli immigrati italiani — lui, fi-glio di figli di immigrati — è forse uno dei più grandi in-

namorati di New York, affascinato dalla sua frenesia centrifuga ingrado come nessun’altra cosa di raccontare gli elementi universalidi una vita. I mafiosi di Scorsese sono raccontati nelle loro vite, piùche nelle loro gesta. I comportamenti, le amanti, i vestiti e gli sguar-di, gli orologi, i club, i ristoranti. Le stanze che spuntano sempre neiretrobottega. Nei film di Scorsese, nei suoi documentari c’è tutto:musica, guerra, narrazione criminale, costruzione di comporta-menti. È un regista che ha battuto talmente tanti sentieri che non puòessere toccato dalla solita accusa rivolta a chi racconta la vita, quel-la di strada: che con quei film si condizionano i comportamenti.

(segue nelle pagine successive)

ROBERTO SAVIANO

bravoragazzo

QuelMARTIN SCORSESE

“Gangs of New Yorknon si avvicinaneppure minimamentea quello che vedevoio sulla Bowery”La strada, il cinemaAutobiografiadi un granderegista

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 32

DOMENICA 27 NOVEMBRE 2011

L’infanzia crudele nel Lower East Side degli anni Quaranta, l’asmache lo isola e gli fa scoprire la magia del grande schermo. È cosìche il grande regista italoamericano comincia a girare i suoi primissimifilm disegnando storie su foglietti di carta, come oggi raccontain una straordinaria autobiografia

La copertinaMartin Scorsese

(segue dalla copertina)

Quanto alla storia col pa-drone di casa, è una fac-cenda piuttosto compli-cata. A quei tempi se unonon era istruito e lavoravain una certa zona, doveva

stringere legami di vassallaggio con ildato gruppo. C’erano diverse famigliemafiose, e mio padre fiancheggiavauna di queste. Il capo era un suo amico.Fu lui a trovargli casa nel Queens. Miopadre aveva anche molti problemi consuo fratello, Joe. Da quello che ne so,spesso partecipava a riunioni dove cer-cava di evitare che altri mafiosi lo am-mazzassero. Il padrone di casa era unoche aveva un camion per il trasportodella verdura in un garage di fianco acasa nostra. Un giorno passò di lì miofratello. Prese una gallina che aveva lì ele tirò il collo di fronte a lui, facendoloscappare in lacrime. Dopodiché co-minciò a prendersela direttamentecon mio padre. Probabilmente il pa-drone di casa deve avere pensato chemio padre fosse una specie di gangster.Non era vero, però gli piaceva vestire inun certo modo, mentre l’altro era unpo’ uno zotico. E poi penso che mio pa-dre piacesse a sua moglie. Così il risen-timento cresceva. E a un certo punto cifu lo scontro. Tornò dal lavoro e, in cor-tile, dalle parole passarono ai pugni,finché il padrone di casa prese un’a-scia. Allora la sorella minore di mia ma-dre uscì fuori e lo spinse da parte dicen-dogli: «Piantala e molla quell’arnese.Lascia stare mio cognato». E quello sifermò. Proprio come nell’Uomo tran-quillodi John Ford: sono state le donnea fermare tutto. Solo che quella sera cifu un altro scontro. Li vidi che se le da-vano al bar. Tornai a casa e dissi a miamadre: «Stanno litigando». Lei stavastirando e mi disse: «Lo so». Subito do-po ce ne dovemmo andare.

Il Lower East Side era piuttosto duro.Quello che si vede nei film degli anniTrenta, Quaranta e Cinquanta, con iDead End Kids, non era molto lontanodal vero. I ragazzi stavano in strada,giocavano con quello che trovavano. Ilcoperchio di un bidone dell’immondi-zia poteva diventare uno scudo, e perfare la spada si staccava un’asse da unacassetta delle arance. C’era un sacco ditraffico, un sacco di gente che vivevaammassata. E molta tensione. Pratica-mente vivevo sulla Bowery, e la cosa miha molto segnato. Gangs of New Yorknon si avvicina neanche minimamen-te a quello che vedevo sulla Bowery.

Nel Queens, la casa aveva stanze piùgrandi, dove potevi sempre sparire, al-meno per un po’. Qui era impossibile.Avevo addosso gli occhi di tutti e nonpotevo dire niente, perché ero il piùpiccolo. Così presi ad andare in chiesa,e rimasi affascinato dai rituali dellamessa. L’altra cosa era che mio padre,ovviamente, non sapeva che diavolofare con me. Dopo avere lavorato tuttoil giorno nel Garment District, andavadai miei nonni, cosa che a mia madrenon andava giù. Alle undici di sera tor-nava a casa con i giornali popolari, ilDaily News e il Daily Mirror. C’era an-cora tempo per una litigata, e poi tutti aletto. E la mattina dopo usciva per an-dare al lavoro. Così non è che lo vedes-si molto. Ma era costretto a portarmi alcinema; mi portava al cinema in conti-nuazione. La mia asma in pratica miisolava da tutti. E nella mia solitudine,mi mettevano in testa l’idea di non po-ter fare nulla di fisico. Dovevo staremolto attento e in qualche modo esse-

re sempre protetto. Per questo divenneimportante per me il rito di andare al ci-nema con mio padre, non importaquale film fosse.

Frequentavamo il Loew’s Commo-dore, all’angolo tra la Sesta Strada e laSeconda Avenue. Entravamo sempre ametà film. Anche lì, come in chiesa, c’e-ra un senso di pace. Era come partireper un viaggio. Fuori dalla sala i mani-festi vendono sogni, si sa. E quando sientra in un cinema, il sogno è reale, oquasi. E poi, condividere queste emo-zioni così forti con un padre con cuinon parlavo molto, diventò il principa-le terreno di comunicazione tra noi. Miportò a vedere Il bruto e la bella, il pri-mo film che vidi su come si realizza unfilm. A mio padre piacevano i western.Ultimatum alla Terra fu una grandeesperienza: di pomeriggio, all’Aca-demy of Music, con duemila spettato-ri. O La Cosa da un altro mondodi Nybye Hawks, si apre la porta e dietro c’è Ja-mes Arness nella parte del mostro: haimai visto duemila persone balzare sul-la sedia contemporaneamente?Straordinario.

C’era un grande contrasto tra i filmche vedevo e l’ambiente in cui vivevo. Imiei venivano da un paese siciliano. Ein Sicilia, lo sa, non ci si fida di nessuno,si cresce pieni di diffidenza. E, mi spia-ce dirlo, ma questo atteggiamento mivenne inculcato a forza. I miei genitorierano brava gente, lavoratori; non era-

no né mafiosi né criminali. Ma c’eraquesto atteggiamento verso il mondo.Se vedete Nuovomondo di Crialese, imiei nonni erano così. Negli anni Cin-quanta era strano cercare di essereamericano, di acquisire certi valoriamericani. Mi era impossibile renderecompatibile l’autorità di un Ei-senhower, che giocava a golf tutto il

giorno, con la mia esperienza. Venivoda un mondo dove tutto si riassumevain un unico consiglio: “Fa’ quello chevuoi ma sta’ in campana”. Quando sta-vo girando The Departed - Il bene e ilmale, ho scoperto che alla fine la storiaparlava di queste stesse cose, di padri efigli. Stavo girando la scena con Jack(Nicholson, ndr) a tavola e Leonardo

(DiCaprio, ndr) nel locale. Erano settepagine di sceneggiatura, le avevamogirate la sera prima, ed era andato tut-to bene. Ma a un certo punto dico a Leo:«C’è qualcosa, qui, non so esattamen-te cosa, che non è ancora uscita fuoribene». Sentivo che doveva essere ilpunto di svolta del film. Sapevo che do-vevo stargli addosso e aiutarlo ad anda-

re in certe direzioni. Così dico a Jack:«Jack, domani rifacciamo la stessa sce-na. Se ti viene in mente qualcosa perrendere nervoso Leonardo...».

Il giorno dopo Jack arriva, si siede,aspetta che si sieda Leo, e la prima co-sa che fa è annusare il bicchiere e dire:«Puzza di talpa». E poi tira fuori una pi-stola. Fu fantastico. La reazione di Leo-

MARTIN SCORSESE

“Il mio cinema è la strada”

BAMBINO

Dall’alto in senso orario: Scorsese a sette mesi con la madre Catherine,

la zia e il cugino; nel Queens travestito da indiano; la strada dove viveva,

Elizabeth Street a Little Italy; con il fratello Frank. In copertina Martin

in toga e cappello neodiplomato alla junior high school

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 27 NOVEMBRE 2011

(segue dalla copertina)

Scorsese ci racconta la vita di quegli immigrati che, dopo generazioni, ancora portano l’ac-cento italiano nel loro inglese e ancora si definiscono italiani anche se non l’hanno mai vistal’Italia. Con la trilogia Mean Streets (1973), Quei bravi ragazzi (1990) e Casinò (1995) non ha

voluto costruire la mitologia del mobster, del mafioso. Un’epica positiva dell’antieroe. Ha sempli-cemente voluto raccontare la vita così com’è, come lui la percepisce e la vive, senza porsi limiti.Ho sempre creduto che un regista, un narratore, debba raccontare, fare arte, senza avere la pre-sunzione di educare. Del resto, se prescindiamo da quelle critiche sterili che mai hanno fatto delbene all’arte, non esistono film che educano al bene e film che educano al male, ma solo film dibuona qualità e film di cattiva qualità. L’emulazione e la mistificazione sono sempre esistite e se ifilm sono prodotti culturali di massa e quindi facilmente individuabili come responsabili di de-terminati comportamenti, nei secoli non possiamo ignorare che Goethe e Foscolo furono critica-ti per aver suggerito il suicidio a molti ragazzi delusi da politica e amore. Che Wagner, Nietzsche oTolkien siano stati — in maniera diversa e in epoche diverse — accusati di aver aderito o ispiratoteorie naziste.

Ma sono altre le dinamiche che portano a compiere gesti estremi, non guardare un bel film oleggere un buon libro. Del resto, questo grado di empatia tra film e società credo sia ascrivibile al-la potenza che Scorsese ha nel mostrare come le vite dei gangster non siano poi così diverse dallevite di noi comuni mortali. L’alchimia nei film di Scorsese è proprio questa: raccontare il quoti-diano, il percorso di tutti i giorni di queste persone, un percorso che si intreccia con i nostri per-corsi. Il fascino nasce dal cortocircuito dell’inesistenza, in quei percorsi, del limite. I criminali sem-bra possano tutto. E poi, presto, pagheranno tutto. Il loro essere cafoni, spesso cialtroni e ridicoliè un aspetto umano. Quei bravi ragazzie Casinòsono entrambi tratti dai romanzi di Nicholas Pi-leggi, romanzi in cui lo scrittore descrive come l’atteggiamento paesano che i nipoti di italiani as-

sumono nelle metropoli americane diventino atteggiamenti vincenti che mettono paura e crea-no soggezione nella comoda comunità Wasp trincerata dietro le sicurezze di un lavoro certo, mamonotono e noioso. Si crea epica perché si raccontano le gesta di persone senza limiti. E quell’as-senza di limiti affascina. Non si può negare, e constatarlo non significa aderire al crimine. Il docu-mentario Italoamericani (1974) è un capolavoro in cui Scorsese racconta di sua madre e suo pa-dre, di come vivevano. È la dimostrazione di come non gli stia a cuore solo l’aspetto criminale con-nesso alla presenza di immigrati italiani in America, ma di come tenda anzi a decostruire i precon-cetti che li riguardano. Troppe volte in un cognome italiano echeggia per chi l’ascolta negli StatiUniti un fascino esotico legato all’immaginario criminale. La comunità italoamericana ne è infa-stidita, ma non è con il silenzio che si risponde al pregiudizio. È raccontando che dimostriamo diessere altro dalle mafie. Nel 2010 un rapper siciliano, Izio Sklero, in un testo — Tu Vo’ Fari u Sici-liano — racconta di come si sfrutti il mito della mafia per sembrare più cattivo e di come ci si dial’aria da meridionale, magari usando lo slang per intimidire chi crede che Al Pacino sia un altroboss siculo. Ma non c’è imitazione che tenga, a quel mondo o si appartiene o non si appartiene. Iboss oggi parlano in italiano, hanno studiato, sono persone curate, dai bei fisici e dall’aspetto gra-devole.

Quindi guardiamo all’arte come a uno specchio della vita senza eccessivi moralismi. Non sonoi film di Scorsese o di Coppola, non è Scarface o Al Pacino, Joe Pesci o Robert De Niro a plasmarela realtà che ci circonda. Quando la maggiore economia del mondo è quella criminale, accade chequesti film smettano di essere solo racconti di una parte del mondo. Scorsese non sta solo parlan-do a te, spettatore che guardi i suoi film. Sta parlando di te. Del resto Martin Scorsese è quello chenel 1986 gira il videoclip di Bad e che riguardo a Michael Jackson ha detto: «L’esibizione che feceal Motown 25: Yesterday, Today, Forever è stata la cosa più bella che io abbia mai visto. Era così sem-plice, così pura, ballava da solo in scena». Sì, questo è Scorsese.

Né inni ai mafiosi, né condanne moralistesolo il nudo racconto della vita così com’è

ROBERTO SAVIANO

nardo è in tempo reale. Gli ho detto:«Devi convincerlo che tu non sei l’infa-me, anche se tu lo sei». Ero felice di co-me stava venendo la scena, e d’un trat-to ho pensato: ma io questa scena l’hogià girata. Col senno di poi, mi accorgoche questo è il tema di tanti miei film,da Mean Streetse Toro scatenato in poi.Ci sono sempre padri e figli, e ognuno

deve all’altro qualcosa. Ci sono la fidu-cia e il tradimento.

Nel mondo in cui sono cresciuto io,il tradimento era la cosa peggiore che tipotesse capitare. La caduta di un gang-ster per me è altrettanto interessante diquella di un presidente o di un cantan-te famoso. Per esempio in Casinò, pri-ma c’è il tradimento, e poi la caduta.

Parliamo di persone che, diciamo così,sono di natura diversa dalla nostra. Maper me si tratta solo di esseri umani. Iltradimento ha che fare con l’amore. Cideve essere un legame tra le personeche si tradiscono, altrimenti non fareb-be così male. Ecco perché La valle del-l’Eden è stato un film così importanteper me. Per la lotta tra padre e figlio. C’è

il fratello buono e quello cattivo. A casanostra, il conflitto era soprattutto tramio padre e mio fratello maggiore. Io inteoria ero quello buono. Ma quando vi-di La valle dell’Eden, mi resi conto chemi sentivo come il personaggio di Ja-mes Dean. Provavo le stesse cose delcattivo. Sentivo tutto ciò che sentivanogli adolescenti quando vedevano Ja-

mes Dean in quel film.Le mie radici sono ancora

lì. Non appartengo a un mondo discrittori o di artisti. Col passare del tem-po mi sono reso conto che non voglioconsiderarmi diverso da quello che so-no. Ma da piccolo, quando crescevo inquel quartiere, mi sentivo davveroschiacciato. E l’unica via di sfogo eraimmaginare storie, cose del genere. Finda piccolo. Lavoravo molto di fantasia.E disegnavo i miei film. I primi li dise-gnai in bianco e nero e nel formato 1.33,che era quello standard del cinema del-l’epoca. Un giorno mio padre mi videche ci giocavo e dovetti nasconderli.Non capiva che cosa stessi facendo, epensò che me ne stessi troppo per con-to mio. Non completai più le storie. Sta-vo diventando un adolescente, e le co-se cominciavano a cambiare.

Traduzione Alberto Pezzotta© 2011 by Richard Schickel Published by Arrangement

with Agenzia Letteraria Santachiara

© RIPRODUZIONE RISERVATA

IL LIBRO

Il testo riprodotto in queste pagine,

come le fotografie, è tratto da Martin Scorsese,

conversazioni su di me e tutto il resto,

autobiografia del grande regista italoamericano

raccolta dal critico cinematografico e filmaker

Richard Schickel. In Italia edito da Bompiani

(502 pagine, 22,50 euro), è in libreria in questi giorni

STORYBOARD

Dall’alto

a sinistra,

uno storyboard

dell’infanzia;

sul set del primo

corto (1963);

lo storyboard

per Mean Streets(1973). A lato,

all’università

(1963)

I GENITORI

Charles e Catherine

Scorsese, spesso

coinvolti in film (sotto)

e documentari

(al centro

in Italoamericani, 1974)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 34

DOMENICA 27 NOVEMBRE 2011

Le alluvioni di Genova, della Liguria e di Messina. L’Aquila ancora cittàfantasma dopo l’ultimo terremoto. E prima ancora, Vesuvio, Irpinia, Vajont,fino al Medioevo. Ecco come il nostro Paese è stato devastatodai disastri naturali. E ogni volta ha dimenticato la lezione

L’attualitàAmnesie

Nel1859 un tuono nel fon-do dell’Appennino fa apezzi Norcia, squarcia leantiche mura e inghiottecentinaia di vite. Mancaun anno all’annessione

dell’Umbria da parte dei Savoia, la cittàmedievale fa ancora parte dello Statodella Chiesa e tocca al Papa intervenire.Ebbene, alla notizia del terremoto, PioIX, l’uomo teoricamente più reaziona-rio dell’epoca, impone un’illuminatanormativa antisismica. Queste regoleindispensabili, ma impopolari per viadegli aggravi alla spesa edilizia, non sa-ranno mai applicate. Motivo: con l’arri-vo dei piemontesi l’ordine antico deca-de. Siamo in Italia, le norme danno fa-stidio. E poi il Paese ha altre gatte da pe-lare, a partire dalle rivolte del Sud. Per inorcini, neanche dire, è una festa. Il ple-biscito del 1861 è per loro un’occasioneunica per accantonare l’impopolare an-tisismica papalina, azzerare la memoriae gettare le premesse di un secolo e mez-zo di malaedilizia e conseguenti disa-stri. Ce le siamo sempre cercate, le scia-gure, ignorando scientemente la storia,e la rimozione continua anche oggi, conle celebrazioni del centocinquantena-rio dell’Unità che rimbombano di fan-fare ma evitano accuratamente i disa-

stri. Messina diventa un fiume di fango,la Liguria si squarcia sotto le grandipiogge, l’Aquila è ancora una città fan-tasma dopo l’ultimo sisma, ma nel gran-de compleanno dell’Italia i terremoti, leeruzioni, le frane e le alluvioni non han-no cittadinanza. Eppure se c’è una cosache ci fa nazione è proprio il disastro, lasua anormale frequenza, il modo concui la catastrofe naturale si riverbera suun territorio notoriamente mal costrui-to. È la nostra reazione alle avversità, lalezione che ne traiamo, e soprattutto ilmodo in cui esse vengono (raramente)elaborate o (più spesso) dimenticate.

Quando il Tevere invade Roma nel di-cembre 1870, sotto l’onda emozionalesi decide di dare alla città una miglioredifesa dall’acqua, ma ecco che la solitacommissione parlamentare insabbiatutto, al punto che cinque anni dopo,non essendoci ancora nulla di deciso,Giuseppe Garibaldi in persona rompegli indugi, abbandona inferocito la suaCaprera e torna nella Capitale per in-chiodare i politici alle loro responsabi-lità. Accolto da una folla immensa, tieneun memorabile discorso ai romani «conla voce dei bei giorni» e li esorta a essere«seri, seri, seri e fermi». Solo allora il Par-lamento si muove e dà via libera ai lavo-ri per i muraglioni di rinforzo alle rive del

Tevere. Se oggi Roma è al sicuro è solograzie a quell’urlo del Generale.

È un fatto che l’Italia non può più per-mettersi di subire terremoti e alluvionisenza trarre lezioni dal passato. E forseora qualcosa timidamente si muove,anche su spinta della presidenza dellaRepubblica. A Spoleto è nato un Centroeuromediterraneo che raccoglie la do-cumentazione sugli eventi estremi e i di-sastri. Il 12 dicembre il tema dell’Unitàd’Italia riletta attraverso i disastri saràaffrontato a Roma all’Accademia di SanLuca in un convegno con i massimiesperti italiani del settore. «È incredibi-le quanto si debba insistere per far capi-re cose di un’ovvietà assoluta», dice ilprofessor Domenico Giardini, nuovopresidente dell’Istituto nazionale digeofisica. «Le cose giuste le aveva giàdette Rousseau dopo il terremoto di Li-sbona del 1755. Disse che l’ecatombe èfatale se l’uomo si ostina a costruire ca-se di sei piani in zone sismiche. Ma noiormai siamo così freneticamenteproiettati sul futuro che non abbiamopiù tempo di riflettere sul passato e ognicatastrofe ci sembra un evento eccezio-nale. È un’amnesia fatale per un Paeseche ha una media di mille morti l’annoper terremoti». In confronto alla cecitàdell’oggi era quasi meglio la vecchia su-

perstizione, quando alluvioni e terre-moti erano punizioni divine. C’erano al-meno i preti a tenerci in allerta con le“rogazioni”, processioni che evocava-no il male con scongiuri, simbologie, ri-tuali e precisi anniversari liturgici.

Il Vesuvio, per esempio, chi ci pensapiù. Poi guardi la storia dei 150 anni e ve-di che non dorme affatto. Comincia pro-prio nel 1861, salutando con una bottamemorabile l’annessione al Piemonte.Poi brontola, in sequenza ininterrotta,nel 1867, 1872, 1891. Quattro anni dopoun nuovo rigurgito di lava crea il ColleMargherita e a seguire, nel 1899, unaPiedigrotta di lapilli genera Colle Um-berto. Nel 1906 un’eruzione violenta di-strugge Borgo Tre Case, poi c’è quelladel ’29 e ancora quella del ’44, descrittadallo scrittore Norman Lewis, che è aNapoli con l’esercito americano. SanSebastiano è minacciato e il paese escein processione verso la lava con la statuadel protettore. Ma la gente non si fidatroppo e chiama in rinforzo San Genna-ro, il cui tabernacolo viene però tenutonascosto fino all’ultimo in un vicolo,perché Sebastiano non abbia a offen-dersi. Da allora il pentolone tace, la me-moria del pericolo corso si attenua edecco, puntuali, i palazzinari all’assaltodella scarpata di lava. Idem per frane e

alluvioni. Palermo pare estranea a cata-strofi di tipo messinese, ma basta un’oc-chiata al passato per cambiare idea. An-drea Goltara, direttore del Centro italia-no di riqualificazione fluviale, ricordal’esondazione del 1862, quella del 1925e soprattutto quella, eccezionale, del1931. Da allora si è talmente costruito inzone allagabili che, se oggi si ripetesse lagrande pioggia di quell’anno, i danni sa-rebbero infinitamente più gravi. I disa-stri sono spesso recidivi, e quello di que-st’anno a Genova è stato preceduto daeventi analoghi nel 1945, 1951, 1953 e1970. E che dire dell’esondazione del-l’Arno nel ’66: una fotocopia di quella giàaccaduta nel 1844.

Dal Dodicesimo secolo a oggi, MarcoAmanti dell’Ispra ha registrato 480milafrane sul territorio nazionale, estese sulsettanta per cento dei Comuni. La map-pa dei terremoti dal 1861 registra nonsolo una sequenza ininterrotta di sismie quindi la necessità di un’allerta co-stante, ma mostra con evidenza che ne-gli ultimi vent’anni le scosse forti sonosemmai diminuite per cui — statistica-mente — c’è da aspettarsi un bel tuonoa tempi ravvicinati. Più che l’Aquila,preoccupa il silenzio sismico che le staattorno. L’amnesia è funzionale al ce-mento. Lo si è visto nel 2009 all’Aquila,

Storia d’Italia e di catastrofiPAOLO RUMIZ

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 27 NOVEMBRE 2011

migliore di noi». L’Unità d’Italia azzeròanche la toponomastica “ammonitri-ce”. Nello zelo cartografico dei sabaudi,piccoli nomi di luogo come Pozzallo,Pietratagliata, Trematerra, Acquapen-dente, persero il loro senso o furonofraintesi. La costa sarda di “Maluventu”fu registrata come “Maldiventre” daipiemontesi che non capivano il sardo eper parecchie navi quel pezzo di maredivenne infido perché il nuovo nomenon conteneva più l’avvertimento. Gliesempi dello stesso tipo non si contano.La frana più estesa d’Italia, quella di An-cona del 1982, avvenne su un pendiodetto “Ruina”, dove dall’epoca dei Ro-mani non s’era mai costruito proprioperché si credeva al senso dei nomi.

E che dire del Vajont, 1963, dove nellago artificiale di una diga appena co-struita cadde un monte intero detto“Toc”, che significa più o meno “qual-cosa in bilico”. L’arroganza dei signoridell’energia nell’uso del territorio e lasupponenza degli ingegneri di fronte al-la memoria dei montanari fece, in unbotto solo, duemila morti. Per un nomeignorato vennero giù trecento milioni dimetri cubi di roccia e terra, e fu la piùgrande frana di sempre. Non fu la natu-ra a essere matrigna, ma gli uomini a es-sere pessimi figli.

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CRONACHE

Dall’alto a sinistra in senso orario, Laguna di Venezia, dalla parte

delle Fondamenta Nuove, completamente ghiacciata nel 1709;

Firenze inondata dall’Arno nel 1844; maggio 1926, la Domenica

del Corriere racconta l’esondazione del Po a Mortizza (Piacenza);

disegno delle rovine della chiesa della Madonna di Loreto

a Polla (Salerno) dopo il terremoto del 1857; alluvione

del Tevere a Roma nel 1557 in una stampa tedesca

dove molti ignoravano di trovarsi in areasismica e dove, in quel vuoto di memo-ria, i pirati dell’edilizia avevano fattocarne di porco del territorio. È una ten-denza vecchia come l’Italia. Dopo il ter-remoto di Rimini del 1916, i parlamen-tari romagnoli fecero di tutto per far re-vocare le norme antisismiche e quandoci riuscirono, negli anni Venti, furonoaccolti come eroi alla stazione e portatiin trionfo dalla popolazione. Stessa co-sa in Friuli, dopo il terremoto del 1928. Ipaesi più “ammanigliati” scansarono lenorme di sicurezza che avrebbero com-portato spese edilizie maggiorate del 15per cento, mentre i periferici subirono.Risultato: nel maggio del 1976 i centriesentati come Gemona videro un’eca-tombe. Gli altri, come Pioverno, non eb-bero neanche un morto.

«Solo chi ricorda sa il pericolo che cor-re, e quindi accetta di sottoporsi a rego-le che gli salveranno la vita», sbottaEmanuela Guidoboni, storica dei terre-moti e ideatrice del centro di Spoleto.«Per salvarci dai disastri, una forte me-moria condivisa è più importante di unsofisticato tecnicismo che porta fatal-mente a delegare le soluzioni a pochi, ascelte emergenziali, verticistiche, e alloscavalcamento delle regole. Ricordareci aiuta invece a fare scelte democrati-che e condivise, e a mobilitare la parte

L’EVENTO

Si svolge il 12 dicembre a Roma all’Accademia nazionale

di San Luca la “Prima giornata per la divulgazione storica, scientifica

e culturale sui disastri naturali”. Organizzata dal Centro Eedis (Eventi

estremi e disastri) e dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia,

analizza 150 anni d’Italia unita attraverso i suoi disastri. L’ultima

pubblicazione del Centro Eedis è Il peso economico e sociale

dei disastri sismici negli ultimi 150 anni di Emanuela Guidoboni

e Gianluca Valensise (Bononia University Press)

Repubblica Nazionale

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PARIGI

Considerandola una cosa del tutto normaleper quei tempi, si misero in fila. I tempi erano esat-tamente tra il 1850, forse anche prima, e il 1930, for-se anche dopo. La fila raggiunse il miliardo e quat-trocentomila persone, forse anche di più. Erano i“civilissimi” europei che si affollavano felici tra irecinti, le gabbie, i palcoscenici nei quali eranoconfinati uomini e donne come loro, ma con un di-verso colore della pelle. Erano bambini tedeschi,francesi, americani che si divertivano nei circhi oalle feste di piazza vedendo la donna barbuta, lozulù scatenato, Toro Seduto e Geronimo impe-gnati in danze e spettacoli. Erano uomini e donneche guardavano altri uomini e donne chiusi neglizoo umani. «Il pregiudizio viene da lontano», diceLiliam Thuram, leggenda del calcio italiano emondiale, che dal 2008 presiede la Fondation edu-cation contre le racisme. Oggi Thuram parla in ve-ste di commissario generale de L’invention dusauvage, la mostra che da martedì 29 fino al 3 giu-gno, al Musée del Quai Branly, a Parigi, racconteràattraverso più di cinquecento tra oggetti, fotogra-fie, filmati e documenti la costruzione del “diver-so”, quindi la nascita del razzismo.

Tra la fine del Quindicesimo secolo e l’inizio delSedicesimo l’Occidente inventa “il selvaggio”.Uomini e donne venuti dall’Asia, dall’Africa e dal-l’Oceania intrattengono le corti reali. Sono “botti-ni umani” portati dagli esploratori, uomini chetengono al laccio elefanti e giraffe, e che finisconoper diventare animali essi stessi.

Già nel 1550 gli indiani della tribù Tupinambasfilavano a Rouen davanti a Enrico II. Il successo fuimmenso, la gente accorreva, qualcuno fiutò l’af-fare. Nacquero così gli “zoo umani”, le fiere, i cir-chi, i freak show (nel 1932, sui deformi, l’america-no Tod Browning girerà proprio Freaks, divenutofilm cult); i selvaggi, gli uomini esotici, vengonomostrati alle Esposizioni universali e coloniali. Glizulù a Londra, gli aborigeni a Parigi, i circhi Bar-num e Bailey negli Stati Uniti. La diversità diventaspettacolo, e il “selvaggio” la garanzia di un tuttoesaurito. Inizia il razzismo scientifico con unesempio per tutti: la “Venere ottentotta” dal sessosmisurato (raccontata dal bel film Venere nera diKechiche) è prima sfruttata da un sudafricano co-me lei (ma bianco); poi, morta di stenti e sifilide, se-zionata e il suo calco di gesso esposto al pubblico.

«Quando nell’Ottocento la gente vedeva questepersone, usciva dagli zoo umani pensando di ave-re davvero visto “il selvaggio”», dice Thuram, cheper due anni, accanto ai commissari scientifici, gliantropologi Pascal Blanchard e Nanette JacomijnSnoep, ha lavorato alla mostra. «Abbiamo raccol-to fotografie dell’epoca, ma anche le cartoline dei“selvaggi” molto alla moda, manifesti dei circhi edegli spettacoli, pupazzi animati, calchi di gesso,filmati. Il razzismo si formava non solo davanti airecinti, ma anche attraverso quadri bellissimi,manifesti graficamente splendidi, richiami irresi-stibili». E Thuram, uomo di origine africana, si èmai commosso, o irritato, davanti a questi ogget-ti? «Alcune cose mi hanno colpito. La prima è l’in-gresso dell’Hagenbeck Zoo ad Amburgo: attornoalla porta ci sono foto di animali e uomini venutida Africa, Asia e Oceania, messi allo stesso livello.Le hanno lasciate lì, nessuno ci fa caso. Poi la sto-ria di un uomo africano microcefalo presentatocon il nome di “What is it?”, “che roba è?”, come l’a-nello mancante tra l’orango e l’uomo. Ma anchedue deliziosi sottobicchieri: nel primo vedi unbambino bianco che dà un pezzo di cioccolato aun bambino nero chiuso in un recinto; nell’altro lostesso bambino bianco dà una mela a un elefante.Ma nella mostra non ci sono colpevoli e vittime: c’èsolo la Storia».

LA DOMENICA■ 36

DOMENICA 27 NOVEMBRE 2011

S

Aborigeni, zulù, uomini-leone,donne-giraffa. Rinchiusi ed espostial pubblico, immortalati in cartoline

e gadget.Per secoli l’Occidenteha spettacolarizzato “il nero” per inventarsiil mito della superiorità. Come rivelaora una grande mostra allestita a Parigie curata da Liliam Thuram

La storiaIdeologie

i è cominciato molto presto a “inventare” il selvaggio, e a esibir-lo, farne spettacolo. A farne oggetto di curiosità morbosa, di sfo-go alle fantasie più inconfessabili, specie quelle sessuali. A ingi-gantire il “diverso”, lo “strano”, il “mostruoso”. A farne il ricet-tacolo delle convenienze propagandistiche del momento, del-le paure e, insieme, dei desideri proibiti. Da quando gli antichiegiziani esibivano i “nani neri” provenienti dal Basso Nilo, il Me-dioevo esibì i propri “mostri”, “esseri difformi” nelle fiere, JuanBosch i suoi incubi impareggiabili nei dipinti, Cristoforo Co-lombo e poi conquistadores e pirati riempirono le corti europeecon gli strani campioni di umanità strappati al Nuovo mondo,filosofi e scrittori di viaggi suscitavano brividi nei loro lettori coni racconti sui “cannibali”. Ma solo nell’Ottocento e nel primoNovecento l’esibizione del selvaggio e del diverso avrebbero as-sunto dimensioni industriali.

Ne dà conto, in modo enciclopedico, l’esposizione pariginaL’invention du sauvage, accompagnata da un catalogo impo-nente, ricchissimo di documentazione iconografica, cui hanno

collaborato oltre settanta specialisti.«Zoo umani», il sottotitolo, è un termineconiato da Desmond Morris negli anni Ses-santa per descrivere la condizione dell’uomomoderno che, costretto a vivere nella «giungladi cemento» della città come un animale in gab-bia, svilupperebbe comportamenti animaleschilegati a questa sua condizione di cattività. Nel conte-sto dell’esposizione parigina il riferimento è invece aglioltre 35mila esseri umani “esotici” o “anomali” che dal1800 a metà 1900 furono esibiti come animali allo zoo, tal-volta letteralmente in gabbia.

Erano spettacoli da circo o da baraccone, sapientemente mes-si in scena e coreografati da impresari specializzati nello stupireed eccitare il pubblico, sollecitarne il voyeurismo. Pioniere inAmerica era stato P. T. Barnum, quello del famigerato Circo. Pio-niere in Europa fu invece il pescivendolo amburghese Carl Ha-genbeck, che dopo aver rifornito gli zoo di animali si mise ad esi-bire indigeni samoiedi o samoani. Il freak show, l’esibizione delmostro, dello scherzo di natura, e la performance con brivido dei

L’Europa in filadavanti alle gabbiedel buon selvaggio

La fabbrica del razzismoSIEGMUND GINZBERG

LAURA PUTTI

© RIPRODUZIONE RISERVATA

zooUomini

e

Repubblica Nazionale

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PARIGI

Considerandola una cosa del tutto normaleper quei tempi, si misero in fila. I tempi erano esat-tamente tra il 1850, forse anche prima, e il 1930, for-se anche dopo. La fila raggiunse il miliardo e quat-trocentomila persone, forse anche di più. Erano i“civilissimi” europei che si affollavano felici tra irecinti, le gabbie, i palcoscenici nei quali eranoconfinati uomini e donne come loro, ma con un di-verso colore della pelle. Erano bambini tedeschi,francesi, americani che si divertivano nei circhi oalle feste di piazza vedendo la donna barbuta, lozulù scatenato, Toro Seduto e Geronimo impe-gnati in danze e spettacoli. Erano uomini e donneche guardavano altri uomini e donne chiusi neglizoo umani. «Il pregiudizio viene da lontano», diceLilian Thuram, leggenda del calcio italiano e mon-diale, che dal 2008 presiede la Fondation educa-tion contre le racisme. Oggi Thuram parla in vestedi commissario generale de L’invention du sauva-ge, la mostra che da martedì 29 fino al 3 giugno, alMusée del Quai Branly, a Parigi, racconterà attra-verso più di cinquecento tra oggetti, fotografie, fil-mati e documenti la costruzione del “diverso”,quindi la nascita del razzismo.

Tra la fine del Quindicesimo secolo e l’inizio delSedicesimo l’Occidente inventa “il selvaggio”. Uo-mini e donne venuti dall’Asia, dall’Africa e dall’O-ceania intrattengono le corti reali. Sono “bottiniumani” portati dagli esploratori, uomini che ten-gono al laccio elefanti e giraffe, e che finiscono perdiventare animali essi stessi.

Già nel 1550 gli indiani della tribù Tupinambasfilavano a Rouen davanti a Enrico II. Il successo fuimmenso, la gente accorreva, qualcuno fiutò l’af-fare. Nacquero così gli “zoo umani”, le fiere, i cir-chi, i freak show (nel 1932, sui deformi, l’america-no Tod Browning girerà proprio Freaks, divenutofilm cult); i selvaggi, gli uomini esotici, vengonomostrati alle Esposizioni universali e coloniali. Glizulù a Londra, gli aborigeni a Parigi, i circhi Bar-num e Bailey negli Stati Uniti. La diversità diventaspettacolo, e il “selvaggio” la garanzia di un tuttoesaurito. Inizia il razzismo scientifico con unesempio per tutti: la “Venere ottentotta” dal sessosmisurato (raccontata dal bel film Venere nera diKechiche) è prima sfruttata da un sudafricano co-me lei (ma bianco); poi, morta di stenti e sifilide, se-zionata e il suo calco di gesso esposto al pubblico.

«Quando nell’Ottocento la gente vedeva questepersone, usciva dagli zoo umani pensando di ave-re davvero visto “il selvaggio”», dice Thuram, cheper due anni, accanto ai commissari scientifici, gliantropologi Pascal Blanchard e Nanette JacomijnSnoep, ha lavorato alla mostra. «Abbiamo raccol-to fotografie dell’epoca, ma anche le cartoline dei“selvaggi” molto alla moda, manifesti dei circhi edegli spettacoli, pupazzi animati, calchi di gesso,filmati. Il razzismo si formava non solo davanti airecinti, ma anche attraverso quadri bellissimi, ma-nifesti graficamente splendidi, richiami irresisti-bili». E Thuram, uomo di origine africana, si è maicommosso, o irritato, davanti a questi oggetti? «Al-cune cose mi hanno colpito. La prima è l’ingressodell’Hagenbeck Zoo ad Amburgo: attorno allaporta ci sono foto di animali e uomini venuti daAfrica, Asia e Oceania, messi allo stesso livello. Lehanno lasciate lì, nessuno ci fa caso. Poi la storia diun uomo africano microcefalo presentato con ilnome di “What is it?”, “che roba è?”, come l’anellomancante tra l’orango e l’uomo. Ma anche due de-liziosi sottobicchieri: nel primo vedi un bambinobianco che dà un pezzo di cioccolato a un bambi-no nero chiuso in un recinto; nell’altro lo stessobambino bianco dà una mela a un elefante. Manella mostra non ci sono colpevoli e vittime: c’è so-lo la Storia».

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DOMENICA 27 NOVEMBRE 2011

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Aborigeni, zulù, uomini-leone,donne-giraffa. Rinchiusi ed espostial pubblico, immortalati in cartoline

e gadget.Per secoli l’Occidenteha spettacolarizzato “il nero” per inventarsiil mito della superiorità. Come rivelaora una grande mostra allestita a Parigie curata da Lilian Thuram

La storiaIdeologie

i è cominciato molto presto a “inventare” il selvaggio, e a esibir-lo, farne spettacolo. A farne oggetto di curiosità morbosa, di sfo-go alle fantasie più inconfessabili, specie quelle sessuali. A ingi-gantire il “diverso”, lo “strano”, il “mostruoso”. A farne il ricet-tacolo delle convenienze propagandistiche del momento, del-le paure e, insieme, dei desideri proibiti. Da quando gli antichiegiziani esibivano i “nani neri” provenienti dal Basso Nilo, il Me-dioevo esibì i propri “mostri”, “esseri difformi” nelle fiere, JuanBosch i suoi incubi impareggiabili nei dipinti, Cristoforo Co-lombo e poi conquistadores e pirati riempirono le corti europeecon gli strani campioni di umanità strappati al Nuovo mondo,filosofi e scrittori di viaggi suscitavano brividi nei loro lettori coni racconti sui “cannibali”. Ma solo nell’Ottocento e nel primoNovecento l’esibizione del selvaggio e del diverso avrebbero as-sunto dimensioni industriali.

Ne dà conto, in modo enciclopedico, l’esposizione pariginaL’invention du sauvage, accompagnata da un catalogo impo-nente, ricchissimo di documentazione iconografica, cui hanno

collaborato oltre settanta specialisti.«Zoo umani», il sottotitolo, è un termineconiato da Desmond Morris negli anni Ses-santa per descrivere la condizione dell’uomomoderno che, costretto a vivere nella «giungladi cemento» della città come un animale in gab-bia, svilupperebbe comportamenti animaleschilegati a questa sua condizione di cattività. Nel conte-sto dell’esposizione parigina il riferimento è invece aglioltre 35mila esseri umani “esotici” o “anomali” che dal1800 a metà 1900 furono esibiti come animali allo zoo, tal-volta letteralmente in gabbia.

Erano spettacoli da circo o da baraccone, sapientemente mes-si in scena e coreografati da impresari specializzati nello stupireed eccitare il pubblico, sollecitarne il voyeurismo. Pioniere inAmerica era stato P. T. Barnum, quello del famigerato Circo. Pio-niere in Europa fu invece il pescivendolo amburghese Carl Ha-genbeck, che dopo aver rifornito gli zoo di animali si mise ad esi-bire indigeni samoiedi o samoani. Il freak show, l’esibizione delmostro, dello scherzo di natura, e la performance con brivido dei

L’Europa in filadavanti alle gabbiedel buon selvaggio

La fabbrica del razzismoSIEGMUND GINZBERG

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“selvaggi autentici” erano le due facce della stessa meda-glia. Si misero in scena gemelli siamesi, donne e bambinipelosi, uomini-leone e uomini-elefante. Tra 1800 e 1815grandi folle accorsero a Londra e a Parigi ad ammirare, sbir-ciare, misurare, persino toccare eccitati le forme ipertrofi-che della povera “Venere ottentotta”. Così come la gentecorreva a vedere gli Indiani di Buffalo Bill (che almeno era-no pagati). L’imbroglio degli imbonitori faceva parte delgioco. Andarono in scena anche uno “spaventoso guerrie-ro del Dahomey”, che invece veniva dal North Carolina, dei“cacciatori di teste del Borneo”, cresciuti però in una fatto-

ria dell’Ohio, persino bianchi trasformati in cannibali delcontinente nero con una mano di vernice.

La messa in mostra del selvaggio si ammantò presto dirazzismo scientifico, prima ancora di dar man forte al raz-zismo popolare. Poi si trasformò in esibizione della pro-dezza civilizzatrice coloniale. Tutte le grandi Esposizioniinternazionali avevano il loro villaggio indigeno fasullo,con centinaia di “selvaggi” in carne e ossa in mostra. L’E-sposizione universale di Parigi del 1889 fu visitata da 32 mi-lioni di persone, quella del 1900 da oltre cinquanta milioni.A Chicago accorsero nel 1893 in 27 milioni a vedere eschi-mesi impellicciati, “amazzoni” a seno nudo e il “villaggioalgerino” con tanto di danza del ventre. A Glasgow nel 1888erano stati quasi in sei milioni ad accorrere per guardarebayadere e fakiri. Sono già cifre da audience tv, prima an-cora che si potessero immaginare la televisione, le veline,le abbondanze anatomiche in prime time e il Grande fra-tello o L’isola dei famosi. Ma il selvaggio di massa che si cre-de civilizzato cominciava già a rispecchiarsi in quello eso-tico e immaginato.

Anche l’Italia fece la sua parte. Si era cominciato a Tori-no a esibire, nel quadro dell’Esposizione generale del1884, i cosiddetti “assabesi” dell’Eritrea, dancali prove-nienti dal retroterra della Baia di Assab. Seguirono rico-struzioni con selvaggi “autentici” a Palermo nel 1892 e diuna “Cairo”, ovviamente fasulla, a Milano nel 1906. Furo-no portati per divertimento “selvaggi” persino al Quirina-le, ma qualcuno di loro morì prima di allietare la famigliareale. Seguirono i tempi di Faccetta nera.

Poi questo tipo di esposizione “etnica” cadde in disuso.Fino all’atroce replica del 23 giugno 1944 nel campo diconcentramento di Theresienstadt (Terezin), a nord diPraga, quando rappresentanti della Croce rossa svizzera edanese furono invitati a visitare il “villaggio ebraico” ge-stito dalle SS, con tanto di aiuole fiorite, squadre di foot-ball, cori di bambini e orchestrine di musica classica e jazz.Per evitare una cattiva impressione di sovraffollamento,giusto alla vigilia dello spettacolo 17mila “ospiti” eranostati trasferiti ad Auschwitz.

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MANIFESTI

Poster e locandine di esibizioni

di “selvaggi” alle Folies Bergère,

al circo o al museo di anatomia

A destra, il manifesto

dell’Esposizione di Milano del 1906

CARTOLINE

Foto d’epoca in bianco

e nero e cartoline

ritraggono donne,

bambini e gruppi

di “selvaggi”. In mostra

a Parigi al Musée

del Quai Branley

Repubblica Nazionale

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“selvaggi autentici” erano le due facce della stessa meda-glia. Si misero in scena gemelli siamesi, donne e bambinipelosi, uomini-leone e uomini-elefante. Tra 1800 e 1815grandi folle accorsero a Londra e a Parigi ad ammirare, sbir-ciare, misurare, persino toccare eccitati le forme ipertrofi-che della povera “Venere ottentotta”. Così come la gentecorreva a vedere gli Indiani di Buffalo Bill (che almeno era-no pagati). L’imbroglio degli imbonitori faceva parte delgioco. Andarono in scena anche uno “spaventoso guerrie-ro del Dahomey”, che invece veniva dal North Carolina, dei“cacciatori di teste del Borneo”, cresciuti però in una fatto-

ria dell’Ohio, persino bianchi trasformati in cannibali delcontinente nero con una mano di vernice.

La messa in mostra del selvaggio si ammantò presto dirazzismo scientifico, prima ancora di dar man forte al raz-zismo popolare. Poi si trasformò in esibizione della pro-dezza civilizzatrice coloniale. Tutte le grandi Esposizioniinternazionali avevano il loro villaggio indigeno fasullo,con centinaia di “selvaggi” in carne e ossa in mostra. L’E-sposizione universale di Parigi del 1889 fu visitata da 32 mi-lioni di persone, quella del 1900 da oltre cinquanta milioni.A Chicago accorsero nel 1893 in 27 milioni a vedere eschi-mesi impellicciati, “amazzoni” a seno nudo e il “villaggioalgerino” con tanto di danza del ventre. A Glasgow nel 1888erano stati quasi in sei milioni ad accorrere per guardarebayadere e fakiri. Sono già cifre da audience tv, prima an-cora che si potessero immaginare la televisione, le veline,le abbondanze anatomiche in prime time e il Grande fra-tello o L’isola dei famosi. Ma il selvaggio di massa che si cre-de civilizzato cominciava già a rispecchiarsi in quello eso-tico e immaginato.

Anche l’Italia fece la sua parte. Si era cominciato a Tori-no a esibire, nel quadro dell’Esposizione generale del1884, i cosiddetti “assabesi” dell’Eritrea, dancali prove-nienti dal retroterra della Baia di Assab. Seguirono rico-struzioni con selvaggi “autentici” a Palermo nel 1892 e diuna “Cairo”, ovviamente fasulla, a Milano nel 1906. Furo-no portati per divertimento “selvaggi” persino al Quirina-le, ma qualcuno di loro morì prima di allietare la famigliareale. Seguirono i tempi di Faccetta nera.

Poi questo tipo di esposizione “etnica” cadde in disuso.Fino all’atroce replica del 23 giugno 1944 nel campo diconcentramento di Theresienstadt (Terezin), a nord diPraga, quando rappresentanti della Croce rossa svizzera edanese furono invitati a visitare il “villaggio ebraico” gesti-to dalle SS, con tanto di aiuole fiorite, squadre di football,cori di bambini e orchestrine di musica classica e jazz. Perevitare una cattiva impressione di sovraffollamento, giu-sto alla vigilia dello spettacolo 17mila “ospiti” erano statitrasferiti ad Auschwitz.

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MANIFESTI

Poster e locandine di esibizioni

di “selvaggi” alle Folies Bergère,

al circo o al museo di anatomia

A destra, il manifesto

dell’Esposizione di Milano del 1906

CARTOLINE

Foto d’epoca in bianco

e nero e cartoline

ritraggono donne,

bambini e gruppi

di “selvaggi”. In mostra

a Parigi al Musée

del Quai Branley

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DOMENICA 27 NOVEMBRE 2011

Londra, 1° aprile 1966. John Lennon entra in una libreriae ne esce con “L’esperienza psichedelica”

dell’inventore dell’Lsd.Da quel giorno i Beatles,la loro musica, i loro vestiti e le loro copertine non sarannopiù quelli di prima. E neanche il mondo, come racconta un volumeche ripercorre l’epopea della più colorata tra le controculture

SpettacoliLucy in the Sky

NEW YORK

Vorrà pure dire qualcosa ladata. È un primo aprilequando John Lennon varcala soglia di una libreria di

Londra per uscirne con un volume al po-sto di un altro sotto il braccio: e dare vitaal più grande scherzo mai ordito ai signo-ri della cultura di tutto il mondo. Addiofumo di Londra e circoli Pickwick e grup-pi di Bloomsbury. Benvenuti sex and drugand rock’n’roll. E benvenuta, soprattutto,sorella psichedelia.

Intendiamoci: la psichedelia nonl’hanno inventata certo i Beatles come iBeatles non hanno inventato certo il pop.Ma credete davvero che la stagione deifiori sarebbe sbocciata così rigogliosa senon fosse stata innaffiata da quei quattrobravi ragazzi che fino ad allora, o quasi,cantavano in giacca e cravatta “Voglio te-nere la tua mano”?

La metamorfosi di John, Paul, George &Ringo è il primo di quegli incredibili cambidi look che ci regaleranno gli anni Sessan-ta. I ragazzini sbarbati con la frangetta riap-paiono con i capelli lunghi così e il pelo diun Neanderthal. Succederà perfino a MilesDavis: il divino trombettista che nel 1961viene eletto musicista più elegante nelmondo ora sale sul palco vestito come unosbandato. E invece del bianco & nero diFrancis Wolff, il fotografo-mito della BlueNote, inonda la copertina di Bitches Brewcon le fantasmagorie di Mati Klarwein.

Sì, nasce davvero tutto quel primo apri-le del 1966, quando John Lennon entra nel-l’Indica Books & Gallery e invece di com-prare il libro che cercava, una copia delNietzschedi Walter Arnold Kaufmann, il fi-losofo tedesco-americano che aveva resodigeribile a quei faciloni di anglosassoni ilgenio prussiano venerato da Adolf Hitler,trova L’esperienza psichedelica: un ma-nuale basato sul libro tibetano dei morti

scritto da un certo Timothy Leary con Ri-chard Alpert e Ralph Metzner.

Naturalmente oggi non la mette giù co-sì il vecchio Paul McCartney. Che in questoElectrical Banana: Masters of PsychedelicArt racconta agli autori Dan Nadel e Nor-man Hathaway della sua infatuazione perla psichedelia, certo, e ricorda quel perio-do straordinario in cui «il villaggio globalestava appena cominciando», e ammetteperfino la «forte componente visuale» re-galata da quella droga potente chiamata“Lsd”. Ma tace, e ti pareva, sul ruolo dell’al-tra metà dei Beatles. E che ruolo.

«Leary era quello che andava in giro apredicare fatelo, fatelo, fatelo» scrive John.«E noi seguimmo le sue istruzioni. Feciproprio come diceva nel libro: e fu allorache scrissi Tomorrow Never Knows, in pra-tica la prima canzone sotto effetto acido.“Abbandona ogni pensiero / arrenditi alvuoto”: e tutte quelle altre stronzate cheLeary aveva preso dal Libro dei morti». Tut-te quelle altre stronzate? Tomorrow NeverKnows è anche il titolo del bel saggio in cuiNick Bromell, che ai suoi tempi sarà statoanche flippato ma oggi insegna letteraturaamericana e inglese all’università del Mas-

sachusetts, una decina d’anni fa ha inco-minciato a fare i conti con quell’eredità:che molti allora davano seppellita nei mil-le riflussi dell’irrigidimentazione, come sidiceva in socialese, e dell’edonismo reaga-niano. «Seduto in un ristorante all’aperto,sorseggiando un bicchiere di vino bianco»,scriveva Bromell, «mi chiedo perché maidovrebbe sorprendermi di più il fatto di ri-trovarmi, oggi, un aeroporto intitolato aRonald Reagan, piuttosto che scoprire chela cameriera che mi sta servendo porta gliorecchini col vecchio segno della pace». Ilsottotesto era chiaro: non tutto è perduto,l’eredità di quegli anni rivive ancora ades-so, nell’eterno contemporaneo ormaicondizione del nostro vivere quotidiano.

Ma se oggi, appunto, nel metrò di NewYork o di Roma nessuno fa più caso a chi siveste strano è (anche) perché i Beatles de-cisero di trasformare in business quellacultura che inizialmente si chiamava gio-vanile — ricordava all’alba degli anni Set-tanta William O’ Neill nell’ormai classicoComing Apart — ma fu subito ribattezzata“controcultura” proprio per il successotrasversale che tracimò tutti i bordi del-l’età. Sono sempre loro, i Beatles, a decide-

Il grande scherzodei Fab Four

ANGELO AQUAROYELLOW SUBMARINE

Sopra, disegno

preparatorio per il film

Yellow Submarine (1968)

e, a sinistra, il retro

della copertina del disco

After Bathing At Baxter’sdei Jefferson Airplane

del 1967

IL LIBRO

Electrical Banana: Masters

of Psychedelic Art di Dan Nadel

e Norman Hathaway (Damiani editore,

208 pagine, 150 illustrazioni, 29 euro),

da cui sono prese le immagini

che illustrano queste pagine,

è in libreria da martedì 29 novembre

Lo stesso giorno alle 18 il libro, che ripercorre

la storia della cultura psichedelica,

viene presentato in anteprima nazionale

a Bologna alla Libreria Coop Ambasciatori

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 27 NOVEMBRE 2011

“Lui diceva fatelo, fateloE noi seguimmo le sue

istruzioni.Fu allora che scrissiTomorrow Never Knows, la primacanzone sotto effetto acido”

re di aprire all’incrocio tra Baker e Pad-dington un negozio di dischi, vestiti equant’altro (antesignano dei vari Fioruccie Urban Outfitters e Antropology che ver-ranno) che chiamano Apple Boutique. Echi invitano a rianimare le grigie pareti diLondra con un bell’affresco — come si fa inogni nuova chiesa che si rispetti? Una ra-gazzotta semisconosciuta che qualcheanno prima è scappata da scuola, e dallasua Amsterdam, e insieme a un paio diamici fuori di testa ha fondato un gruppodal nome “The Fool”: il Pazzo. I FavolosiQuattro sono così colpiti da Marijke Kogerche le chiedono di realizzare la copertinadi Sgt. Pepper’s, che poi però viene affidataa Peter Blake sotto la supervisione di Ro-bert Fraser. E lei si accontenta, si fa per di-re, di disegnare i vestiti a loro, ai Beatles incarne e ossa — oltre a dipingere di multi-colore il piano di John e soprattutto la suaRolls Royce («Maiale, maiale» gridano perla strada a Lennon che ha svergognato in

quel modo l’auto simbolo della potenzabritannica: e che oggi, pensa com’è anda-to il mondo, è esposta in un museo di SuaMaestà).

E dici sempre Beatles quando dici HeinzEdelmann, l’art director di quell’altro vi-sionario capolavoro che fu Yellow Subma-rine: la pop art spiegata ai bambini. E dicisempre Casa Beatles quando dici MartinSharp, il disegnatore di Disraeli Gears, il se-condo e più famoso album dei Cream diquell’Eric Clapton che nel White Albumfa-ceva gentilmente piangere la sua chitarra(“While My Guitar Gently Weeps”) per l’a-mico-fratello George Harrison.

Questa è la storia. Poi, per carità, gliesperti tireranno le loro belle genealogie,riportando l’origine dell’arte psichedeli-ca nientemeno che ai ghirigori dorati diGustav Klimt e della Secessione Viennesee dei Preraffaeliti: e allora perché no dellostesso Botticelli e della sua Venere — cheinfatti Andy Warhol ripresentò riveduta epsichedelicamente corretta? E i moralisticontinueranno a chiedersi come sia statopossibile vedere bruciare, nei fumi dell’L-sd, le menti migliori di più di una genera-zione: e solo, letteralmente, per bellezza.Ok. Ma pensate che pesce d’aprile se il no-stro John, quel giorno, fosse davvero usci-to dalla sua libreria, invece che con leistruzioni di viaggio del dottor Leary, colbignamino di quel pazzo di Nietzsche.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Per me che ho sempre disegnato è stato davvero stupendo poter commissionare ope-re ad artisti che all’epoca ammiravo perché facessero le copertine dei nostri dischi.Che occasione fantastica! Quel che voglio dire è che noi spingevamo sempre le cose

più in là, alla ricerca del Mago di Oz… Ce n’erano tanti tra noi che amavano l’arte: moltimusicisti inglesi avevano frequentato scuole d’arte o avevano un interesse preciso per l’ar-te (e questo era il mio caso) ma non avevano frequentato scuole apposite. Così iniziammo,e fummo fortunati da un certo punto di vista perché avevamo a disposizione quei magni-fici, grandi 33 (e 1/3) giri, gli ellepì, che costituivano una tela fantastica, grande abbastan-za da poterla tenere in mano e grande abbastanza per un artista per farci stare qualcosa.

All’inizio fu Klaus Voormann. Nostro carissimo amico sin dai tempi di Amburgo, venneda noi con la cover per Revolver. Sinceramente credo che quello fu il momento preciso incui iniziammo a prendere sul serio le cover degli album. In precedenza, i dischi di jazz ave-vano qualche illustrazione, ma credo che il nostro fu davvero il primo disco ad avere la co-pertina illustrata da un artista.

Poi arrivò Yellow Submarine, non parlo del disco ma del film. Fu girato di fronte all’edi-ficio nel quale avevo il mio ufficio a Londra. Avevamo avuto alcuni colloqui con i creativi:erano i King Features a volerlo girare. Così pensai: «Wow! Fantastico! Potremmo fare unaspecie di film fantastico in stile Disney, pieno di magìa e di questo e di quello». Ma loro —credo giustamente — decisero che il film avrebbe dovuto riflettere lo spirito dei tempi. Vo-levano fare qualcosa di un po’ più avventuroso. Misero insieme un team di animatori clas-sici e tra loro ce n’erano davvero di molto innovativi. Il loro capo era Heinz Edelmann. Da-to che lavoravano proprio di fronte al mio ufficio, ogni tanto capitavo lì e andavo a trovar-li. Mi sedevo con lui alla sua scrivania. E ricordo di aver visto nascere così, pian piano, BlueMeanies...

Traduzione Anna Bissanti(dall’introduzione a Electrical Banana:

Masters of Psychedelich Art. Damiani editore)

Così i nostri giganteschi 33 giridiventarono tele per gli artisti dei fiori

PAUL MCCARTNEY

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COVER

Da sinistra, la locandina del film Sho wo Suteyo Machi e Deyo(Throw Away Your Books, Rally in the Street!) di Shuji Terayama

(1967); il poster di Mister Tambourine Man e una copertina del ’67

della rivista satirica Oz, pubblicata a Londra tra il 1967 e il 1973

SAVILLE THEATRE

A destra,

un’illustrazione

del Saville Theatre

di Brian Epstein,

manager dei Beatles

(1967)

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 40

DOMENICA 27 NOVEMBRE 2011

1961ODISSEA NELLO SPAZIO

Primo esempio di interazione uomo-computer

è in 2001: Odissea nello spazio. Arthur C. Clarke,

autore del libro da cui è tratto il film, aveva visto

nei Bell Labs un computer che sintetizzava

la voce e lo riproduce nel suo Hal 9000

1968SPEAK AND SPELL

La Texas Instruments introduce

uno strumento di assistenza

all’apprendimento: Speak & SpellIl chip vocale è tra più simili

alla voce umana

1978

ERNESTO ASSANTE

L’EVOLUZIONE

Finora riconoscevano comandi semplici: manda un messaggio,chiama questo numero, segna questo memo. Adesso un nuovo motore tecnologico ha dotato smartphone, pc ed elettrodomestici di una scintilla di intelligenza in più. Non ubbidiscono: capiscono e ci rispondono.Così tastiere e “touch” diventano un ricordo

Erano gli anni Sessanta quando suglischermi dei nostri televisori vedevamoil Capitano Kirk sulla sua Enterprisepronunciare la parola «computer» e poiiniziare a parlare con la macchina perottenere dati, risposte, suggerimenti.

Per ascoltare la voce di un computer abbiamo dovu-to aspettare qualche anno, quando nel 1968 Hal 9000dialogava con gli astronauti di Kubrick in 2001: Odis-sea nello spazio. Certo, se Kirk arrivasse oggi sulla Ter-ra resterebbe sorpreso dallo scoprire che con i com-puter ancora non ci si può parlare. Alcuni ascoltano,ma nessuno rispondecon la propria voce perché nes-suno ha una propria voce. E nessun computer ha unapropria voce perché nessun computer ha un propriopensiero. Le macchine non hanno imparato a parla-re. Fino a oggi. Perché da qualche mese nelle mani dimolti nel mondo è arrivata l’ultima generazione dismartphone: macchine in grado di risponderecon lapropria voce alla nostra voce perché dotate di un bar-lume di “intelligenza” aggiunta.

Dallo scorso ottobre, quando è arrivato sul merca-to l’iPhone 4S della Apple, abbiamo fatto conoscen-za con Siri, un personal assistant computerizzato,che ascolta quello che chiediamo, lo capisce e ci ri-

NextHal 9000

Macchine che imparano a parlare

Tu parli Il computer ascolta

1 2

COME FUNZIONA L’ASR(AUTOMATIC SPEECH RECOGNITION)

Quando parliamo un dispositivo

elettronico divide la nostra voce

in segnali per interpretarla

COMPUTER PARLANTE

Nei laboratori Bell, compagnia telefonica Usa,

i fisici John Larry Kelly Jr e Louis Gertsman

usano un computer Ibm 704 per sintetizzare

la voce umana. Finalità dell’esperimento,

progettare un sistema di risposta automatica

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 27 NOVEMBRE 2011

I sistemi software in grado

di “ubbidire” ai comandi

dettati da un utente. Scrivono

testi, chiamano numeri telefonici,

tengono appuntamenti in agenda,

trovano località sulle mappe

Sono i telefoni “intelligenti”,

che si collegano alla Rete,

scaricano software dedicati

(le app) e svolgono moltissime

mansioni: come i computer

ma in mobilità

SMARTPHONE

PERSONAL DIGITAL ASSISTANCE

SMARTPHONE

Android e Apple sono tra i primi a introdurre

negli smartphone un sistema di controllo vocale

in grado di leggere, scrivere e-mail, gestire

l’agenda. Può costruire relazioni complesse,

per esempio: ricorda di prendere l’ombrello

2011IN AUTO

Nella Renault 11 Message una voce

sintetizzata comunica quando si entra

in riserva, quando fare manutenzione

o non si allacciano le cinture. Gli avvisi risultano

fastidiosi. Il nuovo modello è un insuccesso

1983DETTATURA AUTOMATICA

Dragon presenta un sistema vocale di 5.000

parole per pc e introduce Dragondictate,

sistema speech-to-text per la dettatura

Ciò permette il controllo del pc usando comandi

vocali ma richiede lunghe pause tra le parole

1990IL CELLULARE

Il Philips Genie è il primo cellulare Gsm

che permette di chiamare pronunciando

il nome della persona a cui si vuole telefonare

Il numero dei contatti attivabili è limitato,

errori frequenti con l’esaurirsi della memoria

1999

TELEFONO

I sistemi di risposta

automatica (ASR) dedicati

alla telefonia risultano

efficienti al 100%

PERSONAL COMPUTER

I sistemi di dettatura

automatici efficaci

sono comparsi

nei primi anni Novanta

SMARTPHONE

Un’evoluzione

dell’ASR

consente

di comprendere

ciò che diciamo

La vocalità cambierà il rapportotra noi e loro, farà sparire molte barriereche oggi rendono soprattutto le personepiù anziane degli analfabeti digitali

parole utilizzate in media da una persona

FONTE: WWW.GEEKY-GADGETS.COM

parole utilizzate da un software di sintesi vocale

parole utilizzate dal traduttore automatico di Google

‘‘

sponde con la sua voce. Siri può dirci che tempo fa,è in grado di cercare su Internet la risposta che ciserve, fissa o cancella appuntamenti . Siri non è so-lo un sistema di riconoscimento vocale (il buonvecchio Asr, “automatic speech recognition”, si-stema funzionale ma basico che ci ha consentito didettare semplici memo o chiedere al telefono di fa-re al nostro posto un numero) ma qualcosa in più:è un sistema intelligente che comprende il linguag-gio naturale. Si può chiedere: «Ho bisogno di met-tere l’impermeabile domani?» e Siri, basandosi sul-la nostra localizzazione e sulle previsioni del tem-po, ci risponde illustrandoci le condizioni atmosfe-riche del giorno dopo. È in grado di svolgere funzio-ni più complesse di quelle che i sistemi di ricono-scimento vocale ci hanno consentito.

È l’inizio di una rivoluzione? Probabilmente sì.Perché indica quale sarà la strada per l’interazionetra noi e le macchine. Le tastiere, vecchio e solidostrumento di comunicazione tra noi e “loro”, ab-biamo già iniziato a mandarle in pensione con l’av-vento dei touch screen, che ci hanno consentito unacomunicazione più immediata, fisica. Ora ci avvia-mo verso l’interazione vocale. Non sarà più possi-bile dire «non so come funziona», perché tutti noisappiamo parlare e le macchine del futuro saran-no in grado di comprenderci e di rispondere.

È già così, anche se in uno stadio iniziale, con Si-ri e l’iPhone 4S: noi parliamo e il telefono esegue gliordini, cerca, organizza, risponde, cerca nel Web,segnala le strade, prende appuntamenti, ci aiuta, ètutto quello che abbiamo immaginato dovesse fa-re un computer ma che un pc non era abbastanzaintelligente per fare. Come fa? Il cuore di Siri è Wol-fram Alpha, un “motore computazionale di cono-scenza” creato dallo scienziato e matematico in-glese Stephen Wolfram nel 2009, un software chedecodifica ed elabora, intrecciando i dati a sua di-sposizione, eseguendo calcoli e confronti a secon-da dei casi, invece di cercare nel Web e restituireuna lista di collegamenti ipertestuali. E, comequando si parla con un amico, il modo in cui si po-ne la domanda influenza l’efficacia della risposta.

«È l’inizio di un’era completamente nuova», di-ce il professor Nelson Morgan dell’università diBerkeley, in California, uno dei più grandi espertinel campo, «e spingerà verso infinite innovazioni.La vocalità cambierà il nostro rapporto con le mac-chine, renderà più semplice il loro uso, farà sparirebarriere che oggi rendono soprattutto i più anzianidegli analfabeti digitali». Del resto, i comandi voca-li sono già tra noi, non si comunica a parole solo conil cellulare ma anche con i navigatori e i sistemi hi-fi che abbiamo nelle automobili, ci sono applica-

zioni nel campo della domotica ovvero già si parlacon alcuni modelli di frigoriferi, si comunica a vo-ce anche con alcune console per videogiochi. Mal’avvento di Siri modifica decisamente lo scenario.

Quello che sembra solo un gioco per ragazzini èin realtà il pezzo finale di un piano più grande e vi-sionario, quello che da qualche tempo chiamiamol’era post pc. Un’era fatta di macchine mobili, leg-gere, portatili, intelligenti, che sono sempre colle-gate al Web o al cloud. Macchine senza fili, perso-nalizzate, una diversa dall’altra perché modellateda noi a seconda delle nostre esigenze. Macchineche non fanno solo quello che sanno fare, come ac-cadeva con i computer, ma che fanno quello chenoi vogliamo facciano. Macchine fotografiche e te-levisori, telefoni e computer, strumenti musicali eautomobili, con le quali dialogheremo parlando.Che sarebbe accaduto, prima o poi, lo avevano det-to in molti. Ma Bill Gates, nel 1996, aveva addirittu-ra predetto che nel 2011 avremmo avuto «compu-ter in grado di riconoscere la nostra faccia e parlar-ci». Non è esattamente così, la nuova era vocale èappena iniziata, ma di certo la strada è aperta e nonsi tornerà indietro. Anche perché, come sottolineaStephen Wolfram, «se le macchine impareranno aparlare, non smetteranno più di farlo».

È la scienza che si occupa

dello studio delle tecnologie

che migliorano la qualità della vita

nella casa e ha applicazioni

pratiche come i comandi vocali

per gli elettrodomestici

È un “motore computazionale

di conoscenza” che comprende

le domande in linguaggio naturale

e offre risposte specifiche

Anziché: “Che tempo fa?”

“Devo prendere l’ombrello?”

È il sistema che fa funzionare

i “personal assistant”, riconosce

la voce e consente per esempio

ai word processor di scrivere

testi o agli smartphone

di chiamare un numero

GLOSSARIO DOVE SI UTILIZZA L’ASR

WOLFRAM ALPHA

DOMOTICA

IL VOCABOLARIO

© RIPRODUZIONE RISERVATA

I segnali sono divisi in fonemi

Il computer ricompone

i fonemi utilizzando il calcolo

statistico per determinare

la parola esatta

il segnale suddiviso

è ora fonema

4

5Il software misura le onde,

normalizza la velocità,

rimuove i rumori

3

AUTOMATIC SPEECH RECOGNITION

Nelson Morgan

Direttore dell’International Computer

Science Institute, UC Berkeley

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DOMENICA 27 NOVEMBRE 2011

Carote-piselli-broccoli,maccheroni bolliti, fish&chipsLa tavola di Gran Bretagnanon gode certo di buona famaMa ora, stufa di farsirappresentaredal melting pot,rispolvera in chiavemoderna due vecchi

ricettari.Per dimostrareche in fatto di arrosti, cremee dolci non è seconda a nessuno

I saporiOld style

Sopra, la copertina

di “The Book

of Household

Management”

di Isabella Beeton

(edizione del 1923)

da cui è tratta la ricetta

qui a fianco

Ingredienti per 4 persone

225 gr di zucchero di canna

225 gr di grasso di rognone tritato

225 gr di uva sultanina

225 gr di uva a pezzi

120 gr di ribes disidratato

120 gr di scorzette candite

120 gr di farina

120 gr di pangrattato

60 gr di mandorle pelate e spezzettate

la buccia grattugiata di un limone

3 uova

1 cucchiaino da sale di noce moscata

1 cucchiaino da the di sale

140 gr di latte

1 bicchierino di brandy

Preparazione:

Sbattere bene le uova, aggiungere latte e brandy

Mescolare gli ingredienti asciutti e incorporarli al liquido

Versare in due stampi unti e cuocere a vapore per 5 ore

Nella ricetta originale, latte bollito zuccherato, acqua e burro, miscelati con farina, sale, lievito di birra

Doppia lievitazione prima di cuocere in padella

Uvette, mirtilli, scorzette candite, pane raffermo grattugiato e grasso di rognone, legati con uova e brandy

Pressatura nello stampo, cinque ore di bollitura

Mix di pesce bianco (merluzzo) pastellato in acqua, farina e bicarbonato, servito con patatine fritte nel cartoccio

Nella ricetta originale, frittura in strutto

La ricetta tradizionale prevede il taglio di manzo “on the bone”, con l’osso (almeno tre coste). Si serve

con patate al forno, salsa al rafano e verdure al vapore

LA RICETTA

LICIA GRANELLO

«To be born with a silver spoon in one’smouth», dicono gli inglesi. Nascerecon un cucchiaio d’argento in boc-ca equivale al nostro «nato con la ca-micia». Ma se da noi venire al mon-do vestiti significa aver già risolto il

problema primario (il nuovo nato mangerà bene co-munque, povera o ricca che sia la famiglia) in Gran Bre-tagna fortunato è chi nasce da genitori capaci di garanti-re su quel cucchiaio pasti ottimi e abbondanti. La cucinainglese è così, sospesa tra limitazioni oggettive — le ma-terie prime — e successo di libri e trasmissioni dedicateal cibo. Un percorso punteggiato di spezie e cibi esotici fi-gli del colonialismo, ancorato all’orgoglio del principedei cibi di strada (fish&chips), in costante avvicinamen-to ai piani più evoluti della gastronomia internazionale.

In questi giorni, un anniversario e due libri — The Sil-ver Spoon e The Book of Household Management —stanno accendendo il dibattito intorno alla cucina bri-tannica, alla sua ambivalenza alimentare e culturale.Da una parte, la nuova edizione inglese del Cucchiaiod’argento, che in Inghilterra ha venduto oltre un milio-

ne di copie, forte di un adattamento intelligente delle ri-cette tradizionali italiane. Dall’altra, le celebrazioni peri centocinquant’anni della bibbia delle casalinghe in-glesi: mille pagine tra consigli, spiegazioni e ricette,scritte a metà Ottocento da una giornalista londinese,Isabella Mary Mayson, conosciuta come Mrs Beeton(cognome del marito, che editò il libro). Difficile imma-ginare due tomi più distanti per ispirazione e contenu-ti. Se il Silver Spoon snocciola duemila ricette calibratealla perfezione, il libro di Mrs Beeton alterna prepara-zioni da passerella gourmand, come il Christmas Pud-ding, a prescrizioni sbilenche, come i maccheroni dabollire per un’ora e mezzo o le carote per più di due ore.

Ciò che rende grande l’opera della Beeton è l’impo-nente ricerca sugli alimenti e sulle modalità di lavorazio-ne, da come si trancia un carré alle differenze tra i tipi diburro. Così, se in tema di ortaggi è difficile andare oltre latriade piselli-carote-broccoli, altre parti del menù vanta-no piena dignità gastronomica, che siano arrosti o stufa-ti, creme o paste lievitate. Il tutto, senza passare sotto si-lenzio i due appuntamenti quotidiani più attesi, colazio-ne e merenda, dove la pasticceria inglese dà il meglio disé, in un trionfo di dolci da nirvana dei golosi.

Se avete tempo, organizzate una gita tra le fattoriedella foresta di Sherwood, nel Nottinghamshire, dove siproduce lo Stichelton, versione a latte crudo dello Stil-ton (il tradizionale formaggio erborinato), oppure cer-catelo sui banchi dei mercati alimentari di Londra, traun boccone di rognone in casseruola e una pinta di bir-ra. In caso di indigestione, dopo una tisana allo zenze-ro da Fortnum&Mason, prenotate un tavolo da Zuma eregalatevi la miglior cena anglo-giapponese dell’anno.Prodigi del british melting pot.

Orgoglioe pregiudizio

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DOMENICA 27 NOVEMBRE 2011

Sulla strada

LONDRA

n tempo gli inglesi si vantavano dinon avere una cucina: all’epoca delBritish Empire, l’impero più grandedella storia, ritenevano che la buo-na tavola fosse un’abitudine perpopoli rammolliti, come i «mangia-rane» (francesi) e i «macaroni» (ita-liani). In realtà ce ne avevano unaanche loro. E oggi che la multietni-ca Londra ospita tutte le gastrono-mie della Terra, con l’opportunitàdi mangiare italiano meglio che inItalia o thai meglio che in Thailan-dia, nelle strade della capitale (o po-co distante) è possibile scoprire pu-re le prelibatezze della cucina na-zionale. Esplorarle, anzi, è un modoper capire meglio l’Inghilterra, pae-se in cui gli stereotipi valgono “up toa point”, fino a un certo punto, co-me il grande Evelyn Waugh facevadire a un personaggio di un suo ro-manzo.

Cominciamo da Covent Garden,quartiere di borseggiatori, prostitu-te e mendicanti, quando lo frequen-tava Charles Dickens, oggi piazzaluccicante il cui ex-mercato orto-frutticolo è diventato una fiera dellevanità. E all’angolo della piazza ec-co Rules, il più antico ristorante diLondra, aperto nel 1798, monu-mento nazionale: non esiste una cu-cina inglese più classica di così. Se-conda tappa, poco più in là: a St. Ja-mes, storico nido dell’aristocrazia adue passi dai palazzi reali, nella stra-da dei camiciai e di Lord Brummelsorge Wilton’s, eleganza, tradizio-ne, compostezza, cacciagione, so-gliole che si sciolgono in bocca, uo-mini politici e businessmen che leg-gono silenziosi il giornale (ma ci hoincontrato anche l’attore HughGrant che portava a cena i genitori).E dopo il passato, un ritorno al futu-ro: a Bray-on-the-Thames, idilliacovillaggio sul Tamigi a meno di un’o-ra da Londra, trovate il celebrequanto caro The Fat Duck, dove He-ston Blumenthal ha inventato la«cucina molecolare». E reinventatoa suo modo quella inglese.

Colazioneda Wilton’sENRICO FRANCHESCHINI

Base pasta sfoglia, farcitura a base di cubi di manzo e rognone d’agnello rosolati in olio e cipolla,

cotti nel brodo profumato con pepe e Worcester sauce

La patata “ingiacchettata” (con buccia) va bucherellata,unta d’olio, cosparsa di sale grosso,

infornata un’ora e mezza, poi incisa a metà e imburrata

Una dozzina di arance amare (dette “di Siviglia”) bio, due limoni e 1.250 grammi di zucchero scuro. Le scorze a bagno nel succo per una notte, poi lenta sobbollitura

Per la crema inglese, latte, panna e bacca di vaniglia fino a sobbollire, poi a filo sui tuorli sbattuti con zucchero

Di nuovo sul fuoco fino a che si addensa

© RIPRODUZIONE RISERVATA

U

THE SANCTUARY

HOUSE HOTEL

(con brasserie)

33 Tothill Street

WestminsterTel. (+44) 020-

77994044

Doppia da 140 euro

colazione inclusa

CLUB

QUARTERS

(con brasserie)

8 Northumberland A.

Trafalgar SquareTel. (+44) 020-

78710577

Doppia da 150 euro

colazione inclusa

LONDON CITY

SUITES

(con ristorante)

52 Chiswell Street

BarbicanTel. (+44) 020-

73742988

Doppia da 185 euro

colazione inclusa

THINK

TOWER BRIDGE

APARTMENTS

37 Tanner Street

BermondseyTel. (+44) 020-

34659100

Monolocali

da 140 euro

THE SQUARE

6-10 Bruton Street

MayfairTel. (+44) 020-

74957100

Sempre aperto

Menù da 45 euro

HIBISCUS

29 Maddox Street

Oxford CircusTel. (+44) 020-

76292999

Chiuso domenica

Menù da 40 euro

SCOTT’S

20 Mount Street

Green ParkTel. (+44) 020-

74957309

Sempre aperto

Menù da 42 euro

ZUMA

5 Raphael Street

KnightsbridgeTel. (+44) 020-

75841010

Sempre aperto

Menù da 45 euro

DOVE DORMIRE

DOVE MANGIARE

DOVE COMPRARE

BOROUGH

MARKET

8 Southwark Street

City of LondonTel. (+44) 020-

74071002

ALLEN & CO.

(carni)

117 Mount Street

MayfairTel. (+44) 020-

74995831

LEADENHALL

MARKET

Gracechurch Street

City of LondonTel. (+44) 020-

7929107

NEAL’S YARD

DIARY (formaggi)

17 Shorts Gardens

Covent GardenTel. (+44) 020-

72405700

ILLUSTRAZIONE DI CARLO STANGA

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 44

DOMENICA 27 NOVEMBRE 2011

“Sono quarant’anni che medito,potrei anche andare in pensioneIn questo momento provo un rifiutoistintivo, totale della violenzaSono allergico alla politica

Non temola mortee mi ricordodi continuo che siamoimpermanenti”

Mentre esce la sua opera “Telesio”e prepara un film su Händel,il compositore-cantautore si confessa

MILO (CATANIA)

Il maestro impartisce ordini se-veri. Lì si fa a modo suo. Non so-no ammesse repliche. Il ragazzoentra nello stanzone, si sistema

sul pavimento. Il guru protesta: «Cosasta facendo?». Il ragazzo obietta chequella è la posizione in cui meglio riescea rilassarsi e (forse) a meditare. Luisbraita: «Come si permette?», poi si ab-bandona a un ingiustificato, eccessivoattacco d’ira che lascia i presenti sba-lorditi e dubbiosi. Altro che santone, unimbroglione. Il ragazzo Battiato avràavuto allora vent’anni o poco più. «Eroa Milano. A quell’età non avevo idea dicosa sarei diventato né mi aspettavouna carriera di questo tipo», raccontal’artista immerso nella quiete della ca-sa di Milo, alle pendici dell’Etna. «Il mioimpulso era scappare, lasciarmi allespalle le lamentele degli adolescenti:“Non c’è niente in questa isola di mer-da!”. A sedici anni già leggevo qualcosadi cibernetica e di Freud, poi una valan-ga di letteratura mitteleuropea. Eranoavvisaglie, sarei diventato uno struttu-ralista. Il sapere è infinito, ma puoicrearti i mezzi per esplorarlo. È quel chediceva Stravinsky prima di cominciarea comporre: “Se non mettessi dei palet-ti mi spaventerei all’idea di essere com-pletamente libero”».

Quarantacinque anni e molte ore dimeditazione dopo, Franco Battiato sa-rebbe capace di smascherare un falsoprofeta ancor prima di trovarsi al suocospetto. «Come meditante dovrei già

andare in pensione, sono quarant’anniche pratico», scherza. «In questo mo-mento mi trovo nella stessa condizionedel poeta e mistico persiano Sana’i, vis-suto nel Dodicesimo secolo, che hascritto Viaggio nel regno del ritorno, unasorta di Divina Commediain cui il Dan-te della situazione confessa al suo Virgi-lio una totale avversione per la violenzache li circonda nelle valli (i gironi) chevanno esplorando. Io mi trovo esatta-mente in questa fase, un rifiuto istinti-vo, totale della violenza. C’è un incon-tro di pugilato in tv? Cambio canale. Hotrovato insopportabili anche alcunescene di Gomorra».

Sulla tv scorrono silenziose le imma-gini di Telesio, opera in due atti su li-bretto di Manlio Sgalambro che arrivanei negozi in cd e dvd il prossimo mar-tedì. «Una fortunata commissione delTeatro Rendano e del Comune di Co-senza», precisa Battiato. «Non mi sa-rebbe mai venuto in mente un’opera suTelesio, ero totalmente preso dall’ideadi un film su Händel... Con tutti i libriche ho letto negli ultimi due anni so piùdel Settecento e di Händel che di mestesso. In fondo anche di Telesio a scuo-la leggevamo quattro righe, invece poiscopri che è un filosofo di grande attua-lità. Ha intuito una sensibilità umananegli animali — cosa sacrilega per l’e-poca — e che il seme non è immesso daDio. Confesso che quando ho letto il li-bretto di Sgalambro ho immediata-mente esclamato: non è musicabile! Misbagliavo. In questo caso, anzi, le paro-le hanno “attirato” un certo tipo di mu-sica che altrimenti non sarebbe venutafuori, mi hanno costretto a pescare inzone (metafisiche) che non sono con-genite. Abbiamo già una decina di of-ferte per rappresentarlo in teatro l’annoprossimo. E forse questa volta potrem-mo mischiare ologrammi e scene reali.A Cosenza, nonostante il pubblico fos-se scettico, in scena c’erano solo olo-grammi. L’illusione era perfetta. Quan-do ho visto i primi risultati sono rimastodi stucco: ma siamo anche noi degli olo-grammi? Sono nostri fratelli? L’entratain scena di Giulio Brogi all’inizio dell’o-pera è impressionante».

Il tavolo tra i due divani è colmo di li-bri. Dipinti di arcobaleno. L’essenza deltantra di Urgyen Tulku; Il mistero delfiore d’oro di Lu-Tzu, la bibbia del taoi-smo operativo; La mente oltre la mortedel tibetano Dzogchen Ponlop; L’essen-za della vitadi Willigis Jäger, ex monacobenedettino e maestro zen. «Anche i

mistici occidentali sono fantastici»,commenta Battiato. «Jäger ha 85 anni evive in Germania. Da monaco era con-siderato un eretico. Ratzinger volle leg-gere il suo libro e gli intimò di non pub-blicarlo, pena la sospensione dalla ce-lebrazione e dall’insegnamento, chepuntualmente arrivò. Perché la Chiesanon ha mai capito che una cosa è la teo-logia altro è l’esperienza. Se come mi-stico non hai una vita pratica — lo so-steneva anche Jung — non vali niente.Non basta una vita per liberarsi dal cat-tolicesimo e dal romanticismo di cui lenostre esistenze sono infarcite».

Non c’è spazio per l’amour fou inquesta vita di Battiato. Né per il com-piacimento e l’autoindulgenza. I senti-mentalismi, banditi. La nostalgia, oltreil giardino. «Forse all’inizio della carrie-ra, quando con Gaber si giocava a pokerfino all’alba e poi un cornetto un cap-puccino e a letto, le mie canzoni aveva-no qualche coinvolgimento romanti-

co. Mai sentimentale però. L’amore,l’innamoramento e quel che ne derivasono state cose facili per me da supera-re. Puoi amare una persona senza queltipo di coinvolgimento, diventa tuttomagnifico, non hai più controindica-zioni. Si può ammazzare un altro per-ché non ti vuole più? Spengo la tv quan-do raccontano queste storie di stalking,di delitti passionali; quando l’amoreperpetua il trauma diventa il regno de-gli equivoci. Sono possibili altri tipi diamore, ma se ne parlassi, ah quanteambiguità, quante polemiche. Sarebbecome parlare di Dio. Ecco perché io nonparlo mai di Dio».

La psicanalisi? Scettico: «Sarà che hoavuto un’infanzia tribale. Da bambinosono cresciuto in strada dove vigevauna legge che non era quella di casa. Enessuno di noi tornava mai la sera a rac-contare quel che succedeva là fuori.Chi ci conosce meglio di noi? I traumigravi si possono risolvere solo se li guar-di in faccia». La politica? Allergico, co-me alla violenza: «Mi sento male quan-do ascolto le sue (di Berlusconi, ndr)bugie, mi viene il voltastomaco. Spen-go la tv». Il cinema? Sì, ma senza com-promessi: «Un produttore americanosi è interessato al film su Händel; “Fac-ciamone una bella storia d’amore, unnuovo Amadeus”, mi ha detto. Ma se ioavrei strozzato Forman per come hatrattato il povero Mozart!». Debolezze?Pochissime. «Se conosci te stesso sca-teni gli anticorpi che tengono a bada li-miti e fragilità». Il mondo? I giovani?«C’è in giro gentaglia che non è degnaneanche di appartenere al genereumano. Ma sono sicuro che non siamodentro un nuovo medioevo. E poi l’Ita-lia non è il mondo. Non tutti i giovanisono sprovveduti e indifferenti a quelche accade, si fidi. Vedo in giro ragazzisvegli, più ventenni che trentenni».

Paure? «Di quali paure parla, dellamorte? Non vorrei dire di aver risolto ilproblema e poi quando arriva non es-sere all’altezza, ma poco a poco mi stoconvincendo che non sarà così dram-matico. I momenti brutti che ho avutonella mia vita sono stati solo di naturacosmologica. Una volta durante la not-te mi sono alzato, sono venuto in que-sta stanza e ho guardato in faccia la miapaura, con attenzione, e la crisi si è ri-solta. Non è facile, perché in quel mo-mento ti senti un essere sbattuto nelnulla, non ha legami con niente. È lanotte oscura di San Giovanni della Cro-ce, sofferenze che sembrano insor-

montabili, insopportabili, e che invecepuoi superare in un batter d’occhio.Basta ricordare che siamo imperma-nenti. Noi pensiamo di essere eterni,questa è la nostra disgrazia. A scuolanon c’insegnano a morire; sulla morteinvece gli antichi egizi hanno costruitouna civiltà».

Canzoni? «Non ho altri progetti cheHändel in cantiere. Il resto deve aspet-tare, anche il prossimo disco. Se il filmva in porto mi prenderà almeno dueanni. Non ho canzoni sulla punta del-la lingua, lavoro a progetto, forse per-ché sono più un compositore che uncantautore. Né ho mai scritto una can-zone mosso dall’urgenza del momen-to, anzi se di notte mi viene un’ispira-zione improvvisa mi giro dall’altraparte; se domattina ci sarà ancora be-ne, altrimenti addio».

Said appare sulla soglia a ricordareche la pasta (integrale) è in pentola. At-traversando il soggiorno con vista sulgiardino l’artista fa scivolare le dita sul-la tastiera del magnifico Steinway a co-da che si è appena regalato; il primosuono della giornata. C’è un’aria incan-tata sotto il vulcano nel primo pomerig-gio. Quando il cancello si chiude e ti re-stituisce all’asfalto, immagini che im-provvisamente lì dentro tutto magica-mente si ricomponga come in una per-fetta, preziosa miniatura persiana, do-ve i cipressi sono smeraldi aguzzi, i fiorirubini e diamanti e zaffiri incastonati suun prato di malachite, il cielo una tavo-la di acquamarina e il pennacchio di fu-mo levigata madreperla. Ogni cosa asuo posto. Divina e impermanente.

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L’amoree l’innamoramentosono state cose faciliper me da superarePuoi amareuna personasenza un fortecoinvolgimento

Franco Battiato

GIUSEPPE VIDETTI

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