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UNIVERSITA DEGLI STUDI DI VERONA
FACOLTA DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA
TESI DI LAUREA
L’ANALISI DELLA POSTMODERNITA
NELL’OPERA DI ZYGMUNT BAUMAN
Relatore:
Ch.mo Prof. Italo Sciuto
Laureando:
Damiano Formaggio
Matr. N. FI001499
Anno Accademico
2004 - 2005
Ai miei genitori
Ringraziamenti
Desidero ringraziare innanzitutto il Professor Italo Sciuto, per avermi introdotto alla
conoscenza dell’opera di Zygmunt Bauman e per la costante disponibilità e
sollecitudine con cui ha guidato il mio lavoro. Ringrazio poi i miei genitori, per l’aiuto
ed i consigli che mi hanno fornito durante il periodo universitario, i famigliari, tutti gli
amici e quanti mi sono stati vicino.
INDICE
INTRODUZIONE.............................................................................................................1
CAPITOLO 1LA MODERNITÀ LIQUIDA, OVVERO LA POSTMODERNITÀNELL’ANALISI DI ZYGMUNT BAUMAN.................................................................11
CAPITOLO 2L’INDIVIDUALIZZAZIONE, L’IDENTITÁ E LE NUOVE FORMEDI RELAZIONI...............................................................................................................15
CAPITOLO 3IL CONSUMO................................................................................................................25
CAPITOLO 4L’ETICA E LA MORALE POSTMODERNE...............................................................31
CAPITOLO 5LA FIGURA DEL PELLEGRINO NELLA MODERNITÀ E I SUOI SUCCESSORI NELLA POSTMODERNITÀ: IL FLANEUR, IL VAGABONDO, IL TURISTA ED IL GIOCATORE................................................35
CAPITOLO 6LO STRANIERO............................................................................................................41
CAPITOLO 7IL RUOLO DELLA POLITICA NELLA POSTMODERNITÁ....................................47
CAPITOLO 8 LE DIVERSE FORME DELL’INCERTEZZA POSTMODERNA..............................55
CAPITOLO 9LA RELIGIONE NELLA POSTMODERNITÀ E LA DECOSTRUZIONE POSTMODERNA DELL’IMMORTALITÀ..................................................................65
CAPITOLO 10LE CITTÀ POSTMODERNE.........................................................................................81
CAPITOLO 11IL CORPO E LA BELLEZZA NELLA POSTMODERNITÀ.......................................95
CAPITOLO 12IL RUOLO DELL’ARTE NELLA POSTMODERNITÀ.............................................109
CAPITOLO 13LA PEDAGOGIA E L’ISTRUZIONE POSTMODERNE...........................................121
CONCLUSIONE...........................................................................................................127
BIBLIOGRAFIA...........................................................................................................133
INTRODUZIONE
Ho scelto di analizzare la tematica della postmodernità all’interno delle opere di
Zygmunt Bauman per diversi motivi. Innanzitutto, per un mio interesse nei confronti
delle problematiche sociali. Inoltre, già dalle prime occasioni in cui ho studiato tale
autore, ho ritenuto interessanti le questioni analizzate e ne ho riscontrate molte nella
realtà attuale. Per questi motivi, ritengo che le opere di Bauman siano utili per una
comprensione di tale realtà, dal momento che forniscono una efficace e dettagliata
analisi della postmodernità.
Dopo una lettura dei libri e di alcuni articoli dell’autore, e di libri riguardanti la
posizione dei suoi interpreti principali, ho privilegiato per la mia ricerca l’ultima parte
della produzione di Bauman, quella che si inserisce tra l’ultima parte degli anni ’80 del
XX secolo e i primi anni del XXI secolo, dal momento che risulta più attinente alla
tematica postmoderna. Così, ho cercato di determinare quali fossero le categorie
interpretative e le tematiche principali esposte da Bauman che potessero esprimere
questo periodo storico e di individuarle all’interno delle opere, in modo da confrontare
le differenti posizioni oppure le affinità emergenti.
E’ risultata, quindi, una serie di problemi che riguardano molti aspetti della
postmodernità. Innanzitutto, è rilevante il mutamento della concezione dell’identità
all’interno della postmodernità la quale, da condizione definitiva e raggiunta dopo una
serie di scelte, diviene mutevole e pronta ad essere dismessa quando si profilino delle
opportunità migliori, fornite pure dal mercato dei consumi. Anche le relazioni
interpersonali mutano, diventando passibili di interruzione e scioglimento con facilità.
Un aspetto della società che influenza l’intero mondo postmoderno è quello del
consumo, e ciò è testimoniato dal fatto che il passaggio dalla modernità alla
postmodernità è stato interpretato, tra le altre spiegazioni, come il passaggio da una
società di produttori ad una società di consumatori. Ecco, così, che i consumatori
postmoderni vengono in varie opere definiti da Bauman come “collezionisti di
esperienze”.
Ho ritenuto utile, poi, analizzare alcune figure proposte da Bauman, ovverosia il
pellegrino per quanto riguarda la modernità, ed il flaneur, il vagabondo, il turista ed il
giocatore per quanto riguarda la postmodernità. Trattando le figure riguardanti la
1
postmodernità, sopratutto, sono emerse le conseguenze di alcuni comportamenti sugli
atteggiamenti morali e politici degli individui, conseguenze che si concretizzano in una
assenza di responsabilità nei confronti dell’Altro.
Un altro degli atteggiamenti più rilevanti per la comprensione della
postmodernità è quello che viene attuato nei confronti dello straniero. Tale
atteggiamento è profondamente ambivalente dal momento che, essendo la
postmodernità un’epoca in cui le differenze sono considerate positivamente e come
portatrici di arricchimento culturale, lo straniero è sia desiderato per le innovazioni che
può fornire, sia temuto ed isolato per i possibili pericoli di cui è portatore per la
sicurezza individuale. In quest’ultimo caso, come afferma Bauman, lo straniero è “ante
portas”, ossia isolato nei nuovi ghetti che caratterizzano le città postmoderne. Esso,
proprio per questa ambivalenza, diviene così un “Giano bifronte”.
Da tale analisi risulta anche la descrizione delle città postmoderne, caratterizzate
da una ricerca indomita di un senso di comunità, e da una sorveglianza con ogni mezzo
per la protezione personale. Le città postmoderne sono, inoltre, caratterizzate da svariati
luoghi pubblici ma non civili, nei quali l’interazione tra le persone diviene irrilevante. A
parere di Bauman, la ricerca della comunità tradizionale è destinata a rimanere senza un
esito, poiché le città postmoderne possono essere solo dei surrogati di tale comunità.
Un’altra caratteristica riguardante gli individui postmoderni è il loro distacco
dalla politica, considerato spesso in maniera negativa. Tale distacco è spiegato da
Bauman con il fatto che, mentre il potere è sempre più globale ed extraterritoriale, la
politica rimane ancorata a livello locale e spesso non riesce a risolvere le problematiche
riguardanti il nuovo mondo postmoderno. Emerge, così, un questione aperta proposta da
Bauman, ovverosia una riprogettazione ed un ripopolamento dell’agorà, cioè di quegli
spazi pubblici/privati in cui si possano prendere decisioni influenti sulla collettività. Ciò
potrebbe consistere anche in un’elevazione delle forze politiche a livello globale.
Nella società postmoderna è onnipresente l’incertezza causata da vari aspetti, tra
cui le condizioni precarie di vita e di lavoro e le nuove pragmatiche delle relazioni
interpersonali. Tale incertezza si riflette anche nelle concezione del corpo,
contemporaneamente recettore di sensazioni e da tenere sotto controllo contro possibili
minacce. Dalla problematica del corpo emerge un’altra questione aperta, ossia le nuove
frontiere dell’ingegneria genetica e le loro conseguenze nel futuro.
2
La postmodernità, inoltre, comporta un diverso atteggiamento verso il sacro e la
trascendenza. Infatti, l’immortalità viene decostruita attraverso una serie di esperienze a
cui tutti possono accedere, come la notorietà momentanea, l’appartenenza a comunità
transitorie che possano fornire sicurezza o gli eventi artistici non duraturi. Tale fatto
porta con sé un’altra questione aperta, dal momento che questa è la prima epoca a
privilegiare l’effimero piuttosto che il duraturo, e le conseguenze di tale processo si
potranno verificare solo in futuro.
Ho analizzato le posizioni di alcuni tra i principali interpreti di Zygmunt
Bauman, ovverosia quella di Keith Tester all’interno della introduzione dell’opera di
Bauman Società, etica, politica. Conversazioni con Zygmunt Bauman, quella di Peter
Beilharz all’interno della sua opera Zygmunt Bauman. Dialectic of Modernity, e quella
di Dennis Smith all’interno della sua opera Zygmunt Bauman. Prophet of
Postmodernity. Queste tre posizioni sono importanti per diversi motivi.
Tester e Beilharz sono accomunati dal fatto che pongono la produzione di
Zygmunt Bauman in contrasto con i grandi sistemi, il primo affermando che Bauman
considera la sociologia come riguardante l’esperienza umana nella sua interezza, il
secondo sostenendo che l’opera di Bauman è differente dai sistemi di Jurgen Habermas
o di Michel Foucault. Inoltre, sia Tester che Beilharz concordano nel ritenere importante
il richiamo di Bauman all’incertezza ed all’ambivalenza presenti all’interno della vita
sociale.
Per quanto riguarda le influenze di diversi autori su Bauman, Tester rileva quelle
di Gramsci e Simmel, mentre secondo Beilharz Bauman è rappresentante della teoria
critica ed erede della Scuola di Francoforte. La posizione di Beilharz è poi importante
perché sottolinea il distacco operato da Bauman nei confronti di Martin Heidegger e, per
contro, la sua vicinanza sia ad allievi del filosofo tedesco, come Hannah Arendt ed
Emmanuel Levinas, sia ad un altro importante autore come Max Weber. La posizione di
Smith è, invece, completamente diversa da quelle considerate, dal momento che Smith
ritiene importante per la produzione di Bauman la sua biografia, e la mette direttamente
in connessione con l’assimilazione da parte di Bauman dell’esperienza postmoderna.
Analizzando in dettaglio tali posizioni, si nota che Keith Tester all’interno della
introduzione dell’opera di Bauman Società, etica, politica. Conversazioni con Zygmunt
Bauman, tratta prima della vita dell’autore, poi delle sue opere ed infine delle
3
motivazioni che lo spingono a trattare la postmodernità. Innanzitutto, Tester compie un
riferimento alla posizione di Dennis Smith, con la quale più avanti si porrà in contrasto,
e lo fa citando la biografia di Bauman pubblicata dallo stesso Smith, nella quale
quest’ultimo, dopo avere affermato che Bauman è uno dei più interessanti ed influenti
commentatori della nostra condizione umana, sostiene che i libri ed i saggi di Bauman
sono significativi per comprendere la natura del mondo in cui viviamo perché egli ha
vissuto tutte le caratteristiche principali del presente.
Tester espone, quindi, un breve riassunto della vita di Bauman. Egli nacque nel
1925 in una famiglia polacca priva di mezzi, con la quale fuggì in Unione Sovietica nel
1939, al momento dell’invasione nazista della Polonia. Dopo essersi arruolato
nell’esercito polacco ed avere combattuto sul fronte russo, intraprese la carriera
accademica nei primi anni Cinquanta e insegnò presso l’Università di Varsavia fino al
1968, quando le autorità comuniste, durante una campagna antisemita, lo esiliarono. Nel
1971 divenne docente di Sociologia all’Università di Leeds, dove rimase fino al
pensionamento, avvenuto nel 1990.
Tester passa poi a trattare le opere di Bauman. A suo parere, si potrebbe
affermare che, ad esempio, le figure del vagabondo e del turista, presenti nei libri di
Bauman sulla postmodernità, potrebbero riflettere le sue esperienze di esilio forzato.
Oppure, si potrebbe ricondurre il suo impegno nel nome di una morale solida ed
indipendente dalle volontà personali al desiderio di trovare nuove forme di radicamento
in un mondo dominato dalla vita organizzata per le esperienze del turista. Tuttavia,
Tester si pone in una posizione polemica rispetto a tutto ciò, e sostiene che ricondurre
gli interessi di Bauman a questioni biografiche, come fa Smith, comporta alcuni
problemi.
Innanzitutto, sostenendo che la produzione di Bauman è semplicemente una
conseguenza delle sue esperienze personali, bisognerebbe affermare la stessa cosa per
chiunque altro. In secondo luogo, non si comprende quello che questo sociologo
propone. Tester compie, a proposito di ciò, un’importante citazione di Peter Beilharz,
secondo la quale Bauman non è propenso a raccontare la storia della sua vita. Questo
atteggiamento si fonda sulle motivazioni morali e sociologiche descritte da Richard
Sennet all’interno di Il declino dell’uomo pubblico. In tale opera Sennet sostiene che la
cultura contemporanea ha eroso la vita pubblica ad un punto tale che il confine tra
4
privato e pubblico non esiste più. Prova di ciò sono, ad esempio, i talk show televisivi o
le biografie create apposta per il mercato. Secondo Sennet, tale tipo di cultura segna la
fine della vita pubblica, e tutto ciò è presenti anche nella trattazione di Bauman riguardo
alla postmodernità. Il rifiuto di Bauman di parlare della sua biografia è, quindi, il rifiuto
di prendere parte a tale meccanismo culturale. Afferma Tester: <<Bauman rifugge la
dimensione autobiografica in modo che sia invece possibile sostenere e praticare la vita
pubblica, l’unico tipo di vita che possa costituire il fondamento di una politica
rispettosa e dai saldi principi>>1.
E’ dunque evidente, secondo Tester, che la pratica sociale richiede di non
fondarsi sulla biografia e di considerare qualcosa di più importante sul piano pubblico.
Tale argomentazione è anche connessa agli argomenti morali che ricorrono nelle opere
di Bauman sulla postmodernità, secondo i quali il punto è vivere per l’altro. Un’altra
rilevante affermazione di Tester è quella secondo la quale Bauman è un individuo
privato che esorta a partecipare alla vita pubblica.
Egli passa poi ad affrontare la produzione di Bauman. A parere di Tester,
Bauman sintetizza quello che accade e quello che è importante riguardo la
contemporaneità e lo offre al pubblico dibattito. Qui si trova anche il punto più
importante per quanto riguarda l’analisi di Tester, ovverosia l’affermazione per cui lo
stesso Bauman non è un costruttore di sistemi. Bauman, infatti, ritiene che la sociologia
catturi ed abbracci l’esperienza umana nella sua interezza; l’esperienza umana non tiene
in considerazione i confini tra la sfera sociale, politica o economica, e la stessa cosa fa
la sociologia. Egli sostiene, così, che i confini interdisciplinari debbano essere ignorati a
vantaggio di una conoscenza più completa e pertinente del mondo sociale.
Questa posizione di Tester riguardo alla produzione di Bauman è espressa
chiaramente nell’affermazione per cui quella di Bauman è una sociologia all’insegna
dell’eclettismo e dell’universalità. Tester mostra che, secondo Bauman, si ha bisogno di
una sociologia mutevole per comprendere la mutevolezza della vita umana. Inoltre,
Bauman intende dimostrare che esiste un’alternativa a quanto oggi sembra naturale,
ovvio, inevitabile. Tale interesse, come si è già considerato, è conseguente all’influenza
esercitata su Bauman da due autori: Antonio Gramsci e Georg Simmel.
1 Zygmunt Bauman, Keith Tester, Società, etica, politica. Conversazioni con Zygmunt Bauman, Cortina, Milano, 2002, pag. 4.
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L’opera di Gramsci ha fatto comprendere a Bauman che gli esseri umani
possiedono in sé la capacità di creare il mondo, e che il “senso comune” promosso dalle
strutture dell’ordine costituito è l’unico motivo per cui nessuno utilizza tale potenziale.
Gramsci gli ha mostrato che i fatti possono cambiare e che esistono alternative. In
questo senso, la cultura diviene espressione della consapevolezza dell’esistenza di
un’alternativa.
D’altro canto, Simmel ha mostrato a Bauman che l’ambivalenza e l’incertezza
sono l’essenza di quella vita sociale di cui la sociologia cattura il flusso. Tester ritiene
essere conseguenza di ciò il fatto che Bauman non si interessi della sociologia
americana parsoniana e post – parsoniana, la quale insiste sul problema dell’ordine.
Bauman obietterebbe che questo non è tanto una questione di categorie sociologiche,
quanto un problema politico e materiale per gli uomini. Bauman fa, nella descrizione
operata da Tester, una sociologia eclettica per dimostrare che il mondo può essere
diverso da quello che è e che esiste un’alternativa.
L’analisi di Tester è poi rilevante quando si sofferma sulle motivazioni per cui
Bauman fa quello che fa. Tester, infatti, sostiene che secondo Bauman le questioni
morali non possono essere ridotte a volontà personali, a posizioni ed esperienze di
gruppi specifici o a procedure metodologiche, ma nemmeno possono essere analizzate
movendo da qualcosa di più fondamentale. La moralità, a parere di Bauman, riguarda
l’impegno verso l’altro. Egli lega la pratica della sociologia a valori che appartengono
ad altri campi oltre che alla sociologia stessa e che si rivolgono a tutti gli uomini.
Bauman è motivato da tutto ciò. Tester conclude affermando che il lavoro di Bauman è
guidato da un grande impegno verso l’umanità.
Importante per la comprensione della produzione di Bauman è l’opera di Peter
Beilharz Zygmunt Bauman. Dialectic of Modernity. Nella prefazione, Beilharz afferma
che Bauman è spesso riconosciuto come il maggiore rappresentante sociologico per
quanto riguarda l’analisi della postmodernità. Inoltre, a parere di Beilharz, l’opera di
Bauman è estesa e varia e, come si è già considerato, nega la natura sistemica o la
traiettoria relativamente chiara che caratterizza altri autori come Jurgen Habermas o
Michel Foucault. Si nota qui la vicinanza tra la posizione di Beilharz e quella di Tester.
L’interesse dell’opera di Bauman è, secondo Beilharz, dovuto ad una combinazione di
comprensione sociologica e di capacità personale. Il suo approccio non è quello del
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sociologo professionale, ed il suo esempio classico è Simmel, non Durkheim. Beilharz,
nell’affermare l’influenza di Simmel su Bauman, si pone ancora nella stessa posizione
di Tester.
La conclusione di Zygmunt Bauman. Dialectic of Modernity è importante perché
in essa Beilharz propone un confronto tra Bauman ed altri autori. Beilharz afferma che
Bauman è, tra le altre cose, un messaggero culturale tra noi ed i suoi pari, e tra noi ed i
classici della teoria sociale. Il campo più vasto in cui si inserisce è, come si è già
considerato, principalmente quella che ancora oggi viene chiamata teoria critica, la
quale comincia con Marx e prosegue attraverso le opere della Scuola di Francoforte ed i
suoi percorsi paralleli francesi, rappresentante dei quali è Foucault. Beilharz rileva che
poiché la teoria critica, nel senso principale, è una critica della modernità, di
conseguenza anche il lavoro di Bauman è necessariamente un contributo a tale critica.
La struttura e l’ordine sono tra le caratteristiche fondamentali della modernità, e,
a parere di Beilharz, vengono sottoposte da Bauman ad una critica. Tuttavia, egli rimane
ambivalente, piuttosto che in una posizione negativa, rispetto al mondo che viene
generato. La nostra, come Beilharz afferma anche nel titolo di tale opera, è una
dialettica della modernità. La modernità ed il modernismo si scontrano con
l’ambivalenza, ed anzi la favoriscono; la moderna volontà di controllo è profondamente
superstiziosa, ed in questo senso la modernità rimane tradizionalista piuttosto che
pienamente moderna.
Un altro punto di rilievo dell’analisi di Beilharz è quello nel quale si tratta del
rapporto tra Bauman ed il postmoderno, ed in cui lo stesso Beilharz mostra come, a
parere di Bauman, il postmoderno potrebbe espandere lo spazio disponibile per
l’ambivalenza. Non si tratta del fatto che la modernità non possa sopportare la
differenza, o l’ambivalenza. Piuttosto, il problema è che l’alta modernità combina la
volontà politica ed i mezzi tecnologici per rafforzare il conformismo, almeno
apparentemente. L’opinione di Bauman, esposta da Beilharz, è che gli esseri umani
sono ambivalenti, almeno sufficientemente incerti da rimanere aperti nei confronti del
mondo, sia per valutare le diverse tradizioni, sia per rimanere aperti alla possibilità del
cambiamento. L’ambivalenza umana è, quindi, la precondizione del cambiamento
sociale. Si nota anche in questo caso una vicinanza tra la posizione di Beilharz e quella
di Tester.
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Gli uomini rimangono, così, creature della propria creazione collettiva. La
seconda natura, concezione proposta da Hegel e sviluppata da Marx, diviene, attraverso
la teoria critica, qualcosa di simile alla storia o al sociale. Secondo Beilharz, in questo
caso si può notare come Bauman sia un mediatore ed alla stessa maniera un innovatore.
Beilharz opera, in questo caso, un richiamo diretto a Marx, il quale mostra in passaggi
sparsi nella Ideologia Germanica e nei Grundrisse come il nuovo problema che egli
chiama capitalismo (e che noi chiamiamo modernità) naturalizzi se stesso. L’attività
capitalista, infatti, universalizza se stessa reinventando la storia come la storia del
capitalismo e dell’individualismo, e non lasciando uno spazio pubblico nel quale i
cittadini possano cercare da dove derivino la proprietà privata o altre caratteristiche
moderne.
Negli anni Settanta del Novecento, continua Beilharz, i marxisti risposero a tale
problematica principalmente nei termini della ideologia critica. Il problema per quanto
riguarda la modernità era dunque costituito dal fatto che il capitalismo riproduceva se
stesso tramite l’ideologia. Beilharz cita in seguito anche Theodor Adorno, il quale nella
Dialettica Negativa sostenne che l’ideologia non è sovrapposta all’essenza della società,
bensì ne fa parte.
Rilevante nell’analisi di Beilharz è il rapporto, da lui esposto, tra Bauman ed
Heidegger. Come spiega Beilharz, Bauman proclama chiaramente la sua distanza da
Heidegger. Ciò è testimoniato dal fatto che, nonostante la presenza di alcuni motivi
apparentemente heideggeriani nell’opera di Bauman, l’Heidegger da lui trattato è
mediato dal brillante, ma spesso critico, lavoro degli allievi dello stesso Heidegger,
ovverosia Hans Jonas, Hannah Arendt, Emmanuel Levinas ed Herbert Marcuse.
La stima di Bauman per Arendt è notevole, per il fatto che la filosofa tedesca
mantiene sia la classica dedizione nei confronti della politica, sia l’entusiasmo
repubblicano per le forma democratiche di partecipazione politica. Il rapporto tra
Bauman e Levinas, a parere di Beilharz, si può invece notare sopratutto nell’opera Le
sfide dell’etica.
Fondamentale è il richiamo operato da Beilharz al rapporto tra Bauman e Max
Weber, il quale, nell’opera L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, discute del
“mantello leggero” che i moderni fabbricano per se stessi e del modo in cui esso diventa
una struttura dura come l’acciaio, la stahlhartes Gehause, tradotta da Talcott Parsons
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come la “gabbia di ferro”. La struttura di Weber è simile a quella di un carapace, che
protegge, se non insularizza, i moderni. Tale concetto è ripreso da Bauman in molte sue
opere riguardanti la postmodernità.
Beilharz conclude affermando che non c’è vita senza istituzioni, ma quello che
spesso viene dimenticato è che fare queste istituzioni è un’attività, non solo un risultato.
Questo, a parere di Beilharz, è un messaggio che ci viene tramandato da Bauman, il
quale incita ad interpretare come e cosa intorno a noi sia da valutare, ed a criticare cosa
ci sia di distruttivo, dal momento che nella contemporaneità tale sfida della condizione
umana è fondamentale
Il terzo interprete di Bauman, Dennis Smith, spiega il valore della sua opera
all’interno di Zygmunt Bauman. Prophet of Postmodernity. Già il titolo risulta
significativo, dal momento che Smith chiama Bauman “profeta della postmodernità”.
Innanzitutto, Smith compie un breve excursus storico per spiegare l’origine del dibattito
sulla postmodernità e per inquadrare storicamente la posizione di Bauman, ed afferma
che nel ventesimo secolo il centro di gravità per la modernità si è spostato. Utilizzando
una metafora, Smith sostiene che in Europa ciò fu paragonabile ad un terremoto che
durante le due guerre mondiali diede enormi scosse al continente, e sviluppò alcune
scosse successive. Una di queste scosse eliminò il blocco Sovietico, l’ultimo dei grandi
imperi europei, il quale collassò negli anni successivi al 1989. Questo terremoto in
Europa ha dato vita al dibattito sul postmoderno.
Si nota ora la caratteristica fondamentale dell’analisi di Smith riguardo a
Bauman, ovverosia il porre l’accento sulla dimensione biografica dell’autore. Smith,
infatti, ritiene che la teorizzazione di Bauman sul postmoderno sia importante perché
egli assimilò l’esperienza del postmoderno molti anni prima che diventasse un
argomento diffuso.
Per avvalorare tale proposta, egli espone alcune caratteristiche della biografia di
Bauman, il quale mentre in un primo tempo aveva creduto fortemente nella promessa
della modernità socialista, successivamente fu dolorosamente disilluso rispetto alla
capacità delle istituzioni polacche e dell'Europa dell’Est di realizzare tale promessa.
Venne, così, destituito dal potere comunista, dalla Polonia e dal diretto coinvolgimento
con l’esperimento socialista statale. Lui e la sua famiglia si confrontarono con la sfida
9
disorientante dell’adattamento al capitalismo occidentale, e tutto ciò accadde a Bauman
prima del 1970.
Quando la tematica della postmodernità si diffuse durante gli anni ’80 del
Novecento, continua Smith, Bauman riuscì a parlare ai suoi colleghi intellettuali
occidentali nei termini della loro esperienza di disillusione e disorientamento. Egli è,
quindi, in grado di fornire tale insegnamento agli uomini ed alle donne postmoderni, e
ritiene che siamo entrati in una nuova epoca, portata avanti dalla ristrutturazione della
modernità e dalla mutata attitudine nei suoi confronti.
Smith espone quindi alcune caratteristiche della postmodernità, la quale è la
condizione umana arrivata dopo che gli individui hanno smesso di credere alle grandi
promesse delle moderne ideologie: dopo che hanno rifiutato di accettare, ad esempio, il
fatto che il socialismo avrebbe portato uguaglianza e libertà, il fascismo purificato la
società, la democrazia dato potere alle persone e le scienze fornito al genere umano la
possibilità di assoggettare la natura al suo volere. Bauman, conclude Smith, vuole
comprendere le caratteristiche essenziali degli uomini e delle donne postmoderni e
trovare il senso dei mondi sociali in cui essi si trovano. Si nota quindi che la posizione
di Smith, proprio perché si concentra sopratutto sulla biografia di Bauman, è molto
diversa da quelle esposte in precedenza.
In conclusione, ho riscontrato nell’analisi della postmodernità operata da
Bauman una capacità da parte dell’autore di fornire differenti spunti riguardo le
problematiche o le situazioni postmoderne, e non una mera critica nei loro confronti.
Inoltre, tale analisi porta a comprendere quali siano le cause del “disagio” della
postmodernità e, in certi casi, quali possano essere le soluzioni attuabili.
Risulta essere importante, per la comprensione del passaggio dalla modernità
alla postmodernità, la descrizione delle figure del pellegrino, del flaneur, del
vagabondo, del turista e del giocatore, dal momento che esprime caratteristiche
fondamentali degli individui postmoderni. La ricerca di Bauman offre così
interpretazioni nei confronti di argomenti contemporanei molto dibattuti come, ad
esempio, la precarizzazione delle condizioni di vita, l’incertezza diffusa, il consumo,
l’atteggiamento nei confronti del corpo o la preoccupazione per la sicurezza personale,
di cui fornisce un’indagine completa ed efficace.
1
CAPITOLO 1
LA MODERNITÀ LIQUIDA, OVVERO LA POSTMODERNITÀ
NELL’ANALISI DI ZYGMUNT BAUMAN
Il concetto di postmodernità ricorre molto spesso nella produzione di Bauman
dalla fine degli anni ’80 e viene analizzato considerando molti suoi aspetti. Per
cominciare è interessante prendere in considerazione alcune definizioni generali. Una
significativa definizione è fornita in Società, etica, politica: <<”L’epoca della
postmodernità” è l'epoca in cui la posizione postmoderna è arrivata a conoscere se
stessa, e “conoscere se stessa” significa essere consapevole che il compito fondamentale
non ha limiti e non potrà mai raggiungere il punto finale; che, in altre parole, il
“progetto della modernità” non solo è incompiuto ma costitutivamente incompiuto e che
tale incompiutezza è l’essenza dell’era moderna>>2. La postmodernità risulta essere così
<<la modernità meno le sue illusioni>> 3. Più avanti nella stessa opera Bauman fornisce
altre caratteristiche del concetto quando afferma che l’epoca postmoderna non può
essere visualizzata come una freccia, dato che manca della punta, cioè della direzione
caratterizzante la modernità. Quest’ultima inoltre sradicava gli individui dai loro
ambienti prodotti dall’ancien régime per riradicarli in nuove strutture, mentre la
postmodernità sradica senza riradicamento. In La decadenza degli intellettuali emerge
un’altra peculiarità della postmodernità, ovverosia un’autoconsapevolezza del termine
della modernità. Quest’ultima può così essere considerata retrospettivamente nei suoi
vari aspetti, come la sicurezza e la superiorità rispetto a forme di vita alternative,
considerate “primitive”.
“Postmodernità” inoltre non va confusa con “postmodernismo”. Bauman opera
una netta distinzione dei due concetti all’interno di Una nuova condizione umana:
<<Nel mio vocabolario intendo per “postmodernità” un tipo di società (o, se si
preferisce, un tipo di condizione umana); mentre considero il “postmodernismo” una
Weltanschaunng, una visione del mondo, una strategia cognitiva che può – anche se
non necessariamente – derivare da una “condizione postmoderna”>>4. La postmodernità
risulta inoltre essere una condizione ambivalente, poiché è moderna nelle sue ambizioni
2 Zygmunt Bauman, Keith Tester, Società, etica, politica. Conversazioni con Zygmunt Bauman, Cortina, Milano, 2002, p.80.3 Ivi, p.81.4 Zygmunt Bauman, Una nuova condizione umana, Vita e Pensiero, Milano, 2003, p. 39.
1
e nel suo modus operandi mirante ad una modernizzazione perpetua, ma disillusa
rispetto all’illusione moderna secondo cui la fine del percorso è prossima o almeno
possibile.
Tornando a Società, etica, politica, in essa Bauman prende le distanze dalla
postmodernità intesa come “termine ombrello” per indicare le trasformazioni della
società attuale. Egli infatti confuta sia la parola postmodernità, poiché implica la fine
della modernità mentre cerchiamo ancora di modernizzare ciò che ci sta intorno, sia
alcune espressioni coniate da diversi autori, come la “tarda modernità” di Anthony
Giddens o la “seconda modernità” di Ulrich Beck, entrambe imprecise e fuorvianti.
Ecco così la sua proposta: modernità liquida, che indica allo stesso modo continuità
(fusione, sradicamento) e discontinuità (non solidificazione della massa fusa, mancanza
di riradicamento).
Per approfondire tale proposta di Bauman può essere utile considerare l’opera
che da essa trae il nome, Modernità liquida. Qui l’autore spiega come questa fase della
modernità possa essere così definita citando una definizione dell’Encyclopaedia
Britannica, secondo la quale la “fluidità” è lo stato dei liquidi e dei gas. Essi, a
differenza dei corpi solidi, producono un continuo mutamento di forma; inoltre
viaggiano con molta facilità. Questo fa sì che secondo Bauman la “fluidità” o la
“liquidità” possano essere considerate metafore dell’attuale nuova fase della modernità.
Sotto certi aspetti la modernità può essere definita già dall’inizio come un “processo di
liquefazione”, nel senso di un radicale mutamento volto alla costruzione di un nuovo
ordine.
Ciò ad esempio si può notare in un passo del Manifesto del Partito comunista,
nel quale l’espressione “fondere i corpi solidi” è usata per indicare il cambiamento di
una società ritenuta troppo statica. Scopo di tutto ciò era la fondazione di nuovi e più
duraturi corpi solidi da sostituire a quelli premoderni, ormai già in dissoluzione. Le
prime usanze da eliminare erano le varie fedeltà alla tradizione, rappresentate dai diritti
e dai doveri consuetudinari. Si venne così a formare un nuovo ordine di tipo
essenzialmente economico, esente da condizionamenti di tipo politico o etico. Max
Weber e Karl Marx tra gli altri descrissero tale svolta. Quest’ordine non fu tuttavia
ottenuto tramite un dominio dittatoriale, bensì fu il risultato dell’abbattimento degli
ostacoli ritenuti limitanti la libertà individuale. Esso comporta anche conseguenze nella
1
contemporaneità, quali deregolamentazione, liberalizzazione, “flessibilità”, apertura dei
mercati finanziari ecc. Passando a quella che Bauman definisce come modernità liquida,
si considera che in essa i corpi solidi destinati all’eliminazione sono i legami che
trasformano le scelte individuali in progetti collettivi, ossia i modelli di coordinamento
politico. Nella fase precedente della modernità, il modello eliminato venne sostituito da
quello delle classi, strutture sociali che stabilivano la gamma dei progetti di vita. Nella
modernità attuale invece i modelli di riferimento non sono più “dati”, ma vengono
assegnati all’autocostruzione delle persone secondo un modello individualizzato.
1
CAPITOLO 2
L’INDIVIDUALIZZAZIONE, L’IDENTITÁ
E LE NUOVE FORME DI RELAZIONI
Il processo di individualizzazione costituisce uno dei mutamenti principali che
coinvolgono la società all’interno della postmodernità. Bauman in Modernità liquida la
definisce in tale maniera: <<il processo di “individualizzazione” consiste nel
trasformare l’”identità” umana da una “cosa data” in un “compito” e nell’accollare ai
singoli attori la responsabilità di assolvere tale compito nonché delle conseguenze
(anche collaterali) delle loro azioni>>5.
Tale processo tuttavia non è solamente una caratteristica della postmodernità, dal
momento che fu presente anche agli inizi della società moderna. Una distinzione tra i
due differenti fenomeni è presente all’interno di La società individualizzata, in cui
Bauman sostiene che il marchio di fabbrica della società moderna consiste proprio
nell’assegnare lo status di individui ai suoi componenti. Questa attribuzione si ripete
quotidianamente, tanto quanto le attività degli individui consistono nel rinegoziare la
rete di coinvolgimenti reciproci chiamata “società”. L’individualizzazione
contemporanea assume però dei connotati ben diversi da quella verificatasi nell’epoca
moderna, epoca caratterizzata dall’emancipazione degli esseri umani dalle dipendenze
della comunità. A tale proposito Bauman si avvicina ad un’opera del sociologo tedesco
Ulrich Beck, cioè La società del rischio. Verso una seconda modernità, all’interno
della quale l’individualizzazione è presentata come storia corrente e aperta, senza una
determinazione preordinata, cui invece si sostituisce una logica incostante. La diversità
principale tra i processi delle due epoche consiste nel fatto che gli individui della
modernità classica, “sradicati” dalle precedenti appartenenze comunitarie, dispiegavano
i nuovi poteri acquisiti nella ricerca di un “ri-radicamento” principalmente nel modello
descritto qui in precedenza della divisione in classi, mentre un tale “ri-radicamento” è
del tutto assente nella postmodernità. Un punto in comune tra i due processi consiste
invece nel fatto che entrambi sono per gli individui un destino e non una scelta.
L’individualizzazione postmoderna può essere rappresentata ad esempio dal
fatto che ciò che viene detto agli uomini ed alle donne postmoderni è che se si
5 Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma - Bari, 2002, p. 23.
1
ammalano è perché non hanno seguito degli appropriati corsi salutistici, oppure se sono
disoccupati è perché non sono riusciti ad ottenere le competenze necessarie. Essi si
comportano così come se tale fosse la realtà delle cose. Bauman cita a sostegno di tale
argomento un’efficace sentenza di Beck: <<la condotta di vita diventa la soluzione
biografica delle contraddizioni sistemiche>>6. Rischi e contraddizioni prodotti
socialmente devono essere risolti individualmente. Risulta così esserci un divario
crescente tra l’individualità come destino e l’individualità come capacità pratica di
autoaffermazione, ovvero, nella terminologia di Beck, tra l’individuo “individualizzato”
e l’”individuazione”.
Una diretta conseguenza dell’individualizzazione è poi il disinteresse verso la
cittadinanza e la pratica politica in generale. Bauman si riferisce particolarmente a
Tocqueville, secondo il quale rendere liberi può significare rendere indifferenti, e
l’individuo è il peggior nemico del cittadino. Infatti l’individuo tende ad essere
indifferente rispetto al “bene comune”, giacché ciò che gli individui possono fare
legandosi gli uni agli altri è una limitazione della loro libertà personale. Inoltre a causa
dell’individualizzazione gli interessi degli individui in quanto tali riempiono lo spazio
pubblico proclamandosene i soli legittimi occupanti. Rifacendosi al precedente tema del
“ri - radicamento”, è improbabile che le persone individualizzate possano ri – radicarsi
nel corpo repubblicano della cittadinanza.
All’interno di Società, etica, politica Bauman propone invece una precisa
descrizione di cosa s’intende per “individuo”. Il processo della trasformazione delle
persone in individui è operato dalla società, la quale per fare ciò allenta i vincoli che
ostacolavano i movimenti umani ed emancipa dalle costrizioni. Tuttavia tale processo
consiste innanzitutto nel porre il “divenire” prima dell’”essere”, poiché <<un individuo
è una creatura la cui condizione è la somma, la conseguenza o la ricompensa di una vita
di lavoro. Gli individui sono ciò che sono diventati, ciascuno è il risultato delle proprie
scelte e dei propri interessi>>7. Più avanti all’interno della stessa opera viene proposta
un’altra definizione di “individualizzazione”, secondo la quale essa <<consiste
nell’”eliminare” una a una tutte le reti di sicurezza intessute socialmente>>8. Emerge
6 Zygmunt Bauman, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 64.7 Zygmunt Bauman, Keith Tester, Società, etica, politica. Conversazioni con Zygmunt Bauman, cit., p. 109. 8 Ivi, p. 157.
1
inoltre ancora il disinteresse verso la politica, concretizzato dall’incapacità degli
individui di condividere le azioni sofferte individualmente dagli altri e di riproporle in
una causa comune. Tali individui infatti non ritengono che le loro probabilità di
sopravvivenza, o ancora meglio una soluzione definitiva, traggano vantaggio da
un’ipotetica unione delle forze, giustificando quindi il sacrificio richiesto da una causa
comune.
Per introdurre la tematica dell’identità può essere utile considerare un accenno
compiuto da Bauman alla propria biografia, presente in Intervista sull’identità. Prima di
tutto egli afferma che l’appartenenza e l’identità non sono assicurate da una garanzia a
vita, bensì sono per lo più negoziabili e revocabili. I fattori fondamentali per entrambe
sono infatti le proprie decisioni e le azioni che si intraprendono. Non si considera infatti
l’”avere un’identità” finché il proprio destino rimane un destino di appartenenza, ovvero
una condizione senza alternative. Quindi egli compie il riferimento biografico,
sostenendo di non avere dedicato attenzione al discorso dell’identità prima del 1968,
quando venne messo in dubbio pubblicamente il suo essere polacco, dal momento che
gli fu negata la cittadinanza polacca. Emerge in questa maniera uno degli aspetti
importanti per la definizione dell’identità: la nazionalità. Tuttavia al disordine del
mondo della nostra epoca, costituito da frammenti scarsamente coordinati, corrisponde
un altro aspetto problematico per la definizione dell’identità, cioè il fatto che le nostre
vite individuali sono frammentate in una serie di episodi mal collegati tra loro. Più
avanti l’identità è proposta come uno scopo, un obiettivo, piuttosto che come un fattore
predefinito. E’ qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto, oppure selezionato tra
offerte alternative; qualcosa per cui è necessario lottare e che poi va protetto con altre
lotte. Oggi inoltre l’incombenza di trovare e costruire un’identità, e di realizzare questo
compito singolarmente o a piccoli gruppi, piuttosto che congiuntamente, è lasciato ai
singoli uomini e donne. Non risulta quindi utile chiedere indicazioni ai padri spirituali
della sociologia come Weber, Durkheim o Simmel riguardo ad una questione, l’identità
appunto, che non figurava tra le problematiche della loro epoca. L’identità è invece oggi
una delle questioni all’ordine del giorno.
Sempre all’interno della stessa opera Benedetto Vecchi, il quale compie
l’“intervista” in questione a Bauman, propone una nuova allegoria per l’identità. Egli
sostiene infatti che con la globalizzazione le biografie diventano puzzle, il problema dei
1
quali non sono i singoli pezzi, bensì il modo in cui si incastrano; nasce così il concetto
di “identità-puzzle”. Bauman ritiene però che questa allegoria è solo parzialmente
valida. Infatti l’immagine finale di tale “identità-puzzle” non è fornita in anticipo,
quindi non si può riconoscere l’esattezza del lavoro svolto con i singoli pezzi che si
posseggono. Mentre la soluzione dei puzzle è così orientata all’obbiettivo e si basa su
una razionalità strumentale, nel caso dell’identità è orientata ai mezzi e si basa su una
razionalità finale, dal momento che si parte da una quantità di pezzi di cui si è in
possesso e si cerca di sistemarli.
Tutto ciò rappresenta però una situazione tipicamente postmoderna. Infatti
quando la modernità sostituì i ceti premoderni (che determinavano l’identità in base alla
nascita) con le classi, le identità sono diventate dei compiti che i singoli individui
dovevano realizzare. Bauman cita a proposito una sentenza di Jean-Paul Sartre: <<Per
essere borghesi non è sufficiente nascere borghesi, si deve vivere l’intera vita da
borghesi>>9. Ogni classe possedeva così i suoi percorsi di carriera in una traiettoria ben
definita. Tale sostituzione dei ceti con le classi venne accompagnata da una nuova
fiducia nei confronti della società, e sopratutto nell’affidabilità delle sue istituzioni.
Tuttavia, nell’attuale passaggio dalla fase “solida” alla fase “fluida” della modernità,
anche le strutture e le istituzioni sociali subiscono una “liquefazione”, perdendo così in
durata assieme ad autorità politiche, istituzioni economiche e carriere lavorative . La
società, per utilizzare una metafora, non è più un intransigente arbitro delle azioni
umane, bensì sembra essere un impassibile ed evasivo giocatore di poker. Bauman
propone come figura di riferimento per tale insieme di processi la figura di Don
Giovanni, così come viene raffigurato da Molière, Mozart o Kierkegaard. Don Giovanni
ritiene infatti che il piacere dell’amore sia costituito dal cambiamento, mentre il suo
segreto per le conquiste consiste nel finire rapidamente e ripartire da un altro inizio. Egli
colleziona sensazioni, emozioni.
Per concludere l’allegoria dell’identità-puzzle, Bauman afferma che utilizzare i
pezzi per ottenere una totalità coerente chiamata identità non è la preoccupazione dei
contemporanei, poiché un’identità di questo tipo sarebbe una limitazione alla libertà di
scegliere, e quindi una ricetta per l’inflessibilità, tanto condannata dalla modernità
liquida.
9 Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 57.
1
Altri spunti per l’identità vengono offerti da La società individualizzata. In tale
opera il passaggio del problema dell’identità dalla modernità alla postmodernità viene
esemplificato dalla figura moderna del pellegrino e da quella postmoderna del
vagabondo. Il primo infatti si domandava come arrivare a destinazione, mentre il
secondo si pone il problema di quale destinazione scegliere. L’identità diviene così una
questione di scelta, e può venire cambiata al momento di un’offerta più adatta. Bauman
fa riferimento a tale proposito ad un’osservazione di Christopher Lasch, per cui le
<<identità>> che si cercano oggi sono quelle che possono <<essere indossate e poi
scartate come un abito>>10.
Emerge poi una nuova importante tematica, ovvero il rapporto tra identità e
comunità. L’identità è infatti tenuta in una così grande considerazione nella
postmodernità proprio dal momento che è un surrogato della comunità, cioè di quella
“casa naturale” non più disponibile nel mondo individualizzato e globalizzato. La
precarietà della costruzione solitaria dell’identità spinge coloro che la intraprendono ad
unirsi quindi ad altri individui con lo stesso compito, in modo tale da formare delle
“comunità di appiglio”. Così, invece che parlare di identità, ereditate o acquisite,
sarebbe più utile parlare di un processo di identificazione.
All’interno di Il teatro dell’immortalità, Bauman propone per l’identità nella
postmodernità due alternative. O essa viene imposta da una posizione sociale senza
possibilità di scelta, assomigliando così ad una gabbia o ad una prigione; o è qualcosa
da valutare e scegliere liberamente. D’altro canto scegliendo la seconda alternativa la
vita è trasformata in una caccia continua all’identità individuale o collettiva, in cui il
solo contenuto dell’identità diviene il diritto a scegliere un’identità; tale diritto si
manifesta anche nel rinunciare ad un’identità poco appetibile e nell’assumere
un’identità momentaneamente raccomandata.
Il rapporto tra identità e consumo è invece approfondito all’interno di Lavoro,
consumismo e nuove povertà. Dato che le mode culturali si diffondono tanto
velocemente quanto impiegano a svanire, risulta più utile assumere identità provvisorie,
senza immedesimarsi troppo nel ruolo prescelto e pronti ad abbandonarlo non appena si
scelga di impersonarne uno nuovo. Bauman, per descrivere il fatto che la maggior parte
10 Zygmunt Bauman, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, cit., p. 187.
1
degli individui tende ad assumere più di una identità nel corso della vita, disfandosi
volta per volta delle vecchie abitudini, propone così la formula di “identità al plurale”.
Egli arriva poi a sostenere che probabilmente il termine stesso di “identità” è
diventato inutile, poiché occulta più di quanto illumini l’esperienza di vita comune, dal
momento che le preoccupazioni per il proprio ruolo sociale sono in genere alimentate
dal timore di identificarsi troppo in esso, col rischio di non potersene distaccare se
necessario. Ed è proprio qui che entra in gioco il mercato ed il consumo. Infatti il
desiderio di possedere un’identità ed il timore di soddisfarlo producono un’ambivalenza
subito sfruttata dal mercato, il quale con il suo carattere in continuo mutamento diventa
il luogo ideale per superare quelle contraddizioni. Le identità si affiancano così ai beni
di consumo, divenendo qualcosa che bisogna acquisire e possedere, ma solo
temporaneamente. In questa maniera non risulta necessario alcun meccanismo di
regolamentazione normativa o di controllo del mercato stesso, poiché tale controllo
limiterebbe la libertà di scelta e porterebbe così ad una riduzione del ruolo del
consumatore, producendo un grave danno per una società in cui il mercato assume una
così grande importanza.
Uno dei mutamenti maggiori nell’epoca della modernità liquida è costituito dalle
relazioni sociali, che vengano considerate sotto forma di relazioni familiari/parentali, di
amicizia oppure sentimentali. Cominciando dall’analisi svolta da Bauman all’interno di
Intervista sull’identità, egli tiene a sottolineare che noi siamo prima di tutto consumatori
all’interno di una società di consumatori, e che di conseguenza l’uso/logorio delle
relazioni umane assomiglia sempre più a quello dei beni di consumo. Per quanto
riguarda l’amicizia, secondo molti analisti essa ricoprirà un ruolo fondamentale
all’interno della nostra società individualizzata, poiché rappresenta l’archetipo della
relazione sociale per scelta. Tuttavia a parere di Bauman la realtà tardo-moderna risulta
meno lineare, dal momento che tutte le relazioni diventano una problematica ambigua:
il prezzo da pagare per una relazione è infatti la rinuncia almeno parziale
all’indipendenza.
Tutto ciò porta così a <<rapporti ad avvio istantaneo, consumo rapido e
smaltimento su richiesta>>11, i quali posseggono però un bagaglio di effetti collaterali,
dato che la velocità di consumo e la possibilità di rifiuto sono opzioni a disposizione di
11 Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, cit., p. 91.
1
entrambi i partner. Se infatti ai nostri giorni si parla sopratutto di “reti”, “connessioni” o
“relazioni”, ciò significa che le reti strettamente intrecciate, le connessioni salde e sicure
e le relazioni a tutto tondo sono terminate. Naturalmente la tecnologia viene in soccorso:
basti considerare l’apporto del telefono cellulare. Tuttavia quello di cui si sente
maggiormente la mancanza è il sistema di protezione che le reti di parentela, amicizia o
fratellanza fornivano concretamente. Sequele episodiche di mini interazioni
sostituiscono così sempre più le relazioni famigliari. Nonostante l’apporto del mercato
consumistico, i beni di consumo non possono trasformarsi in quel tipo di relazioni che
ispirano la nostra ricerca. I succedanei consumistici offrono comunque dei vantaggi:
essi promettono infatti la libertà dalle trattative e dai compromessi, ovvero dalle
concessioni e dagli accordi che prima o poi i legami richiedono. Inoltre i venditori
garantiscono una rapida e frequente sostituzione della merce. In conclusione, gli oggetti
di consumo rappresentano il punto massimo di non definitività e di revocabilità delle
scelte, facendo in tal modo sembrare che il controllo sia nelle nostre mani.
La tematica delle “reti” e delle “connessioni” è presente anche all’interno della
Prefazione ad Amore liquido. A differenza delle “relazioni”, delle “parentele” o delle
“partnership”, che si fondano sul reciproco impegno, il termine “rete” indica un contesto
in cui è possibile con pari facilità entrare e uscire, implicando momenti di relazione
intervallati a periodi di non frequentazione. Le connessioni sono inoltre adatte ad uno
scenario liquido-moderno all’interno del quale si presume che le possibilità sentimentali
si susseguano a ritmo crescente. Tuttavia la facilità del disimpegno e l’interruzione su
richiesta dei rapporti non riduce i rischi, li distribuisce solamente in modo diverso.
Ritornando a Intervista sull’identità, in tale opera Bauman esplicita un’altra
delle caratteristiche che coinvolgono le relazioni nella postmodernità, ovvero il fatto che
sono allo stesso tempo oggetto di attrazione e apprensione, desiderio e paura. La
maggior parte delle persone è infatti incerta sulle relazioni “senza impegno” descritte in
precedenza. Per rendere questa situazione, egli cita alcuni passi di Erich Fromm: <<La
soddisfazione nell’amore individuale non può essere raggiunta senza la capacità di
amare il prossimo con umiltà, fede e coraggio (...) in una cultura in cui queste qualità
scarseggino, il raggiungimento della capacità di amare è destinato a rimanere una
2
conquista rara>>12. Amare significa infatti anche instaurare un rapporto con un’altra
persona dotata di libertà di scelta e di volontà di seguire la scelta analoghe alle proprie.
Il paradosso consiste così nel fatto che il cercare l’amore per trovare soccorso,
sicurezza, incolumità, porta a trovare conflitti ed incertezze generati dall’amore stesso,
con l’aggravante costituita dal fatto che gli strumenti antirischio che la società dei
consumi ha portato a dare per scontati, come le riparazioni veloci o le garanzie di
risarcimento, nell’amore sono assenti. Di conseguenza si diventa inclini ad appiattire le
relazioni alla “modalità consumistica”, cioè a cercare il valore principale del consumo,
la soddisfazione istantanea. Bauman cita a proposito il concetto di “amore confluente”
di Anthony Giddens, una relazione che dura appunto solo fino a che dura la
soddisfazione che essa porta ai due partner. Bauman però contesta a Giddens il fatto che
quest’ultimo considera tutto ciò come liberatorio, poiché ora i partner sono liberi di
cercare soddisfazione da qualche altra parte se non riescono ad ottenerla dalla relazione
precedente. Secondo Bauman, Giddens non si rende conto che è la stessa disponibilità
di una facile via d’uscita a rappresentare un ostacolo alla realizzazione dell’amore. Ciò
infatti non rende probabile la realizzazione o la durata di un impegno a lungo termine.
Non è poi da trascurare l’apporto fornito dagli esperti-consulenti, una delle
istituzioni atte all’educazione dei consumatori, insieme alla pubblicità in ogni sua forma
o alle riviste tematiche. Essi infatti generalmente sconsigliano l’impegno in una
relazione, e sopratutto quello a lungo termine, dal momento che preclude altre
possibilità forse più appaganti. Ciò si scontra però con il fatto che il nocciolo
dell’identità può formarsi solo in riferimento ai legami che connettono le persone ed alla
affidabilità e stabilità duratura di questi legami.
I concetti di Giddens di relazione pura e amore convergente vengono ripresi
all’interno di Le sfide dell’etica, e per spiegarli Bauman cita un passo dello stesso
Giddens in cui la relazione pura è descritta come <<una situazione nella quale una
relazione sociale viene costituita in virtù dei vantaggi che ciascuna delle parti può trarre
dal rapporto continuativo con l’altro. Una relazione pura si mantiene stabile fin tanto
che entrambe le parti ritengono di trarne sufficienti benefici come per giustificarne la
continuità. (...) L’amore convergente è amore attivo, contingente...>>13. Nessuna delle
12 Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori, Milano, 1963, cit. in Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, cit., p. 104.13 Zygmunt Bauman, Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 110.
2
due definizioni fa riferimento a motivi morali o valori etici; d’altronde una delle
caratteristiche distintive dell’intimità postmoderna è proprio la tendenza a liberarsi di
quei vincoli morali che contemporaneamente motivano e limitano la relazione amorosa
io-tu.
Bauman propone in seguito un paragone tra l’esperienza postmoderna
dell’intimità e la scienza. Come infatti quest’ultima ha stabilito la propria identità
mediante la messa al bando dei termini teleologici, così l’intimità postmoderna deriva la
propria identità dall’eliminazione dei doveri e degli obblighi morali. Essa inoltre è una
riproduzione del concetto platonico di philia (una relazione che racchiude in sé ciò che
noi intendiamo per amore e amicizia), il quale presupponeva che un oggetto d’affetto
adeguato dovesse essere utile al soggetto dell’affetto, nel senso che avrebbe dovuto
fornirgli ciò di cui avesse avuto bisogno. Bauman definisce tutto ciò “fluttuazione
dell’amore”, sostenendo che la relazione pura è un’intimità de-eticizzata e liberata dai
vincoli del dovere morale, cioè dall’atto costitutivo dell’essere morale, la responsabilità
dell’Altro. La forma postmoderna dell’intimità rifiuta quindi la consequenzialità
dell’amore, e con essa le responsabilità che ne derivano.
Le relazioni pure e l’amore convergente sono poi vissuti come fuggevoli, per
quanto alla fine possano rivelarsi duraturi, e tale fuggevolezza ha come conseguenza
principale il fatto che l’essere-insieme dei partner non è “cumulativo”, bensì si compie
pienamente in ognuno dei momenti di intimità. Ciò porta ad una ambivalenza nella
fluttuazione, costituita dal combinare la promessa della libertà con l’insicurezza.
L’interesse della fluttuazione consiste tuttavia nella possibilità di ognuno dei partner di
porre termine alla relazione, e quindi di proclamare la scarsa importanza morale di tale
atto, insieme con la scarsa importanza morale dell’Altro. Bauman rileva però che da tali
forme di relazione l’io non esce assolutamente vincente, dal momento che la negazione
della consequenzialità è un doppio inganno: è infatti una finta consolazione per il
partner abbandonato e un’autoillusione per quello che abbandona. Egli conclude così
affermando che la fluttuazione elimina il legame tra stabilità e assenza di libertà,
impedendo però all’amore di sondare quelle profondità in cui altrimenti si
immergerebbe.
2
CAPITOLO 3
IL CONSUMO
All’interno di Voglia di comunità Bauman fa risalire la nascita della società dei
consumi all’incirca nell’ultimo quarto del secolo scorso, quando la teoria del valore del
lavoro di Menger/Ricardo/Marx/Mill fu sostituita da quella dell’utilità marginale di
Menger/Jevons/Walras; quando si disse cioè che quello che conferisce valore alle cose
non è l’autosacrificio necessario per ottenerle (come sostenne Simmel), bensì un
desiderio di soddisfacimento. Da quel momento in poi il surplus di valore sarebbe stato
ottenuto tramite la manipolazione del surplus di desiderio.
Tuttavia l'attuale società dei consumi possiede caratteristiche ben specifiche.
Come Bauman, infatti, sostiene in Dentro la globalizzazione, la società dei consumi non
implica solo il fatto che gli appartenenti ad essa consumano. Essa è invece tale nello
stesso senso in cui la società moderna nella sua fase di fondazione, industriale, era una
società della produzione. Tale differenza di priorità tra i due stadi della modernità
determina una grande differenza pratica per ogni aspetto della società, della cultura e
della vita individuale. Il consumatore di una società di consumatori è infatti totalmente
differente dal consumatore di una società precedente. Innanzitutto nulla dovrebbe essere
abbracciato dal consumatore in maniera definitiva; poi la sua soddisfazione dovrebbe
essere istantanea, in un duplice senso: i beni dovrebbero soddisfare nell’immediato, e la
soddisfazione dovrebbe cessare nel periodo dedicato al consumo. Tutto ciò si può
sintetizzare nel fatto che la società dei consumi riguarda piuttosto il dimenticare che non
l’imparare, ed ottiene tale risultato invertendo il rapporto tra i bisogni ed il loro
soddisfacimento: la promessa della soddisfazione precede infatti il bisogno che si
promette di soddisfare, e sarà sempre in quantità maggiore rispetto ai bisogni effettivi.
Lo scopo del consumo, secondo Bauman, non è tanto la voglia di acquisire ed
accumulare ricchezze, bensì quella di provare nuove esperienze. Una società dei
consumi di tale specie necessita di consumatori che vogliano essere sedotti, anche se
questo comportamento in realtà si manifesta come un libero esercizio della volontà. I
consumatori infatti possono rifiutare le scelte a disposizione, tranne una: la scelta di
scegliere tra quelle. Le conseguenze di tale fenomeno sono notevoli. Il mondo infatti è
2
stato trasformato in ogni sua dimensione – economica, politica o personale – secondo il
modello del mercato del consumo, e come tale è sempre pronto ad adeguarsi ad esso.
L’attività dello shopping, come viene mostrato in Modernità liquida, non
riguarda solamente i beni di consumo, bensì anche la ricerca di nuovi e migliori esempi
e stili di vita. La lista delle attività concernenti lo shopping arriva così a non terminare
mai; tuttavia il modo si dissociarsi da esso non vi figura. Bauman contesta inoltre anche
il ruolo della regolamentazione del desiderio per lo shopping, che collega il consumo
all’espressione della propria personalità; il desiderio è ormai superato dalla liberazione
del capriccio, in un capovolgimento del rapporto tra principio di realtà e principio di
piacere, a favore di quest’ultimo.
In una società dei consumi il condividere l’attività del consumo rappresenta la
conditio sine qua non della libertà individuale, tanto che l’articolo prodotto in massa è
lo strumento della differenziazione dell’individuo. Tuttavia la mobilità e la flessibilità
che caratterizzano lo stile di vita in cui il consumo ha un ruolo importante non sono
tanto veicoli di emancipazione, quanto strumenti di ridistribuzione delle libertà. E per
queste conseguenze all’interno della società sono sia desiderate che evitate.
Il rapporto tra consumo e incertezza è approfondito all’interno di La società
dell’incertezza. La privatizzazione della gestione dell’incertezza trova riscontro nel
mercato che serve a gestire il consumo privato, le cui proposte vengono accolte e scelte
liberamente. Tale libertà offerta dal mercato consiste nella non considerazione delle
responsabilità e delle conseguenze, e nella vita intesa come una serie di episodi che non
producono esiti durevoli.
La decadenza degli intellettuali propone invece una raccolta di punti riguardanti
la cultura consumistica. Quello principale consiste nella capacità del mercato di rendere
il consumatore dipendente da esso, dal momento che le nuove merci rendono più facili
alcuni compiti, ma in seguito fanno in modo che altri compiti non possano essere
realizzati se non tramite l’acquisto di altre merci. Spesso tale fatto è stato definito come
la creazione del mercato di bisogni “artificiali”, ma secondo Bauman tale nozione non è
del tutto valida, poiché ad esempio l’utilizzo dei mezzi di trasporto è necessario data la
pianta delle città contemporanee.
La dipendenza dal mercato deriva anche dalla distruzione delle capacità sociali
nella gestione dei rapporti, causata dalla precarietà dei legami temporanei. Ecco così
2
l’utilità del mercato, sia esso rappresentato da beni, consigli di consulenti o anche da
agenzie di viaggio per dirigersi in posti inconsueti che possano aiutare a risolvere i
problemi consueti. Poiché tuttavia i beni promettono più di quanto siano in grado di
fornire, nuove e migliori promesse devono sostituire le precedenti. Il ruolo dei nuovi
prodotti consiste così nel rendere obsoleti quelli di ieri e nel fare dimenticare le
promesse non mantenute. Bauman si serve di una citazione di Baudrillard, secondo cui
la moda <<realizza un compromesso tra la necessità di innovare e quella di non
cambiare nulla nell’ordinamento di fondo>>, per poi sostenere egli stesso che <<la
moda sembra essere il meccanismo attraverso il quale l’”ordinamento di fondo” (la
dipendenza dal mercato) è mantenuta attraverso una catena senza fine d’innovazioni: è
proprio la perpetuità delle innovazioni che rende i loro singoli (e inevitabili) fallimenti
irrilevanti e innocui per l’ordinamento>>14.
La cultura consumistica crea inoltre il proprio mondo autonomo ed
autosufficiente, all’interno del quale i personaggi si susseguono a vicenda, mentre
alcuni “supergrandi” sono preservati per incarnare la sua stessa continuità. Di
conseguenza anche l’informazione politica deve adeguarsi alla struttura consumistica,
per cui il notiziario diviene una catena senza determinazione dell’informazione che
segue da parte di quella che precede. Tale cultura possiede inoltre delle conseguenze nel
modo di dominio per l’integrazione sociale, e per esplicare tale mutamento Bauman si
serve di alcune proposte di Pierre Bourdieu, secondo le quali il nuovo modo di dominio
sostituisce la seduzione alla repressione, la pubblicità all’autorità e la creazione di
bisogni alla imposizione di norme. In tale maniera la condotta degli individui è resa
gestibile e presumibile.
Un ulteriore confronto tra la società moderna e quella postmoderna, per quanto
riguarda lavoro e consumo, è presente all’interno di La società sotto assedio. Bauman
utilizza a tale proposito alcuni passi di Max Weber, secondo cui lo spirito del
capitalismo si trovò a dovere combattere contro il tradizionalismo, dal momento che il
lavoratore tradizionale non desidera guadagnare di più ma solo vivere com’è abituato a
fare e guadagnare quanto necessario a tale fine. Tuttavia la capacità produttiva di una
macchina industriale andava sfruttata al massimo, e così il lavoro, per uguagliare tale
14 Zygmunt Bauman, La decadenza degli intellettuali: da legislatori a interpreti, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 188.
2
capacità, doveva essere eseguito come un fine a sé stante, una vocazione. La lotta
parallela che deve combattere il capitalismo contemporaneo è invece quella contro il
“consumatore tradizionale”, cioè una persona che agisce come se i beni di consumo
siano atti a soddisfare i bisogni.
Nella modernità il problema si risolse trasformando il lavoro in un’attività
autotelica, fine a se stessa, mentre il consumo era considerato solo un onere, un prezzo
da pagare per accrescere la produttività industriale. Nella postmodernità è invece
proprio il consumo ad essere trasformato in attività autotelica, fino a diventare una
vocazione, mentre il lavoro produttivo assume un ruolo strumentale. Quest’ultimo
inoltre deve possedere alcune caratteristiche del consumo, facendo in modo ad esempio
che in certi casi il luogo di lavoro venga abolito ed al contempo invada gli spazi del
non-lavoro.
Più avanti è approfondito il mutato rapporto tra principio di realtà e principio di
piacere all’interno del consumismo postmoderno. Bauman cita l’espressone di Freud
secondo cui il principio di realtà era il limite imposto al principio di piacere. Mentre
nella modernità i due principi erano in reciproca contrapposizione, nella postmodernità
essi divengono alleati, tanto che il piacere è trasformato nel pilastro della realtà e la
ricerca del piacere è divenuta il principale strumento di preservazione del modello. La
società dei consumi ha così arruolato il principio di piacere al servizio del principio di
realtà. Ciò però ha come conseguenza il fatto che la precarietà della vita proposta dal
mercato consumistico è stata trasformata in sostenitrice dell’ordine sociale, attraverso la
sostituzione della politica di regolamentazione normativa con la “politica di
precarizzazione”.
Questa tematica viene formulata all’interno di Lavoro, consumismo e nuove
povertà come sostituzione dell’etica del lavoro, che premia quello ben svolto, con
l’estetica del consumo. Bauman a questo proposito pone un paragone con le scuole
filosofiche platonica e aristotelica, secondo il quale mentre la società dei produttori è
per sua natura platonica, ovverosia dedita alle regole ed ai modelli ultimi, quella dei
consumatori è aristotelica, cioè pragmatica e basata sulla “phronesi”, cioè su regole
pratiche. Per gli adepti di tale estetica del consumo il mondo diventa un insieme di
sensazioni, di Erlebnisse, ossia di “esperienze vissute”, tanto che anche il lavoro è
giudicato in base a criteri estetici.
2
Infine, all’interno di La libertà viene esposto il legame tra il mercato
consumistico e la politica. Il primo è considerato un’uscita istituzionalizzata dalla
seconda, oppure un’attrattiva che dovrebbe incoraggiare i consumatori ad abbandonare
gli ordinamenti politici e burocratici. Le persone sono ad esempio disilluse
dall’inaffidabilità del servizio sanitario o di istruzione, e quindi optano per le strutture
private. Di conseguenza però più sono quelli che escono dall’ambito del politico, meno
capacità di ottenere i propri diritti e di migliorare i servizi pubblici rimane in chi non
può permettersi l’”uscita”. In tal modo prosegue il deterioramento delle strutture statali.
Il paradosso della politica nell’era del consumo consiste così nel fatto che chi può avere
influenza sulle decisioni politiche non ha stimoli per farlo, e chi ne dipende
maggiormente non ha risorse per influenzarle.
Gli individui che nella società dei consumi vivono in una condizione di povertà
per disoccupazione cronica, lavori saltuari o perché vivono nell’area disertata dal
capitale vengono definiti da Bauman consumatori incompiuti. Il loro “difetto” consiste
nella presunta inadeguatezza ad esercitare la propria libertà individuale. La povertà
diviene così una condizione sociale.
2
CAPITOLO 4
L’ETICA E LA MORALE POSTMODERNE
La trattazione compiuta da Bauman dell’etica e della morale postmoderne è
molto vasta e particolareggiata, ma in un’opera principalmente, Le sfide dell’etica, egli
considera i punti principali dell’argomento. Innanzitutto la morale postmoderna tratta
una serie di problemi affrontati dagli uomini e dalle donne del mondo postmoderno che
sono nuovi, sconosciuti o ignorati dalle generazioni passate, o vecchi, che però hanno
assunto forme nuove. Sul piano della vita quotidiana si possono considerare i problemi
morali derivanti dalle attuali relazioni di coppia, oppure la molteplicità delle
“tradizioni” in lotta per conquistarsi l’autorità necessaria per guidare la condotta
individuale, benché non si possa attuare una gerarchia universale di valori e regole. E’
presente inoltre il contesto globale della vita contemporanea, con i rischi
incommensurabili derivanti dall’intreccio di obiettivi parziali e unilaterali.
Bauman propone quindi l’asserto principale della prospettiva postmoderna,
secondo il quale nell’esito del processo in cui l’età moderna ha raggiunto la propria
autocritica, il “postmoderno” appunto, si è affacciata la possibilità di una comprensione
del tutto nuova dei fenomeni morali. A tale proposito afferma: <<Ritengo che la novità
dell’approccio postmoderno all’etica consista non tanto nell’abbandono delle
preoccupazioni morali tipicamente moderne, quanto nel rifiuto dei modi tipicamente
moderni di affrontarne i problemi morali (cioè la risposta alle sfide morali con una
regolamentazione coercitiva nella prassi politica, e la ricerca filosofica degli assoluti,
degli universali e dei fondamenti nella teoria)>>15. Le grandi tematiche dell’etica, come
i diritti umani, la giustizia sociale, la sincronizzazione di condotta individuale e bene
comune sono così ancora attuali, anche se devono essere affrontati in modo nuovo.
In seguito vengono esposte le caratteristiche principali dell’etica moderna, nella
quale l’aspetto “morale” è stato accantonato come aspetto dell’agire umano relativo alla
distinzione tra “giusto” e “sbagliato”. La libera volontà poteva solo significare la
violazione dei comandamenti di Dio, e ciò che deviava dalla consuetudine era
considerato una tale violazione. Tutto ciò mutò con l’allentarsi della presa della
tradizione e con l’ampliarsi dei contesti indipendenti in cui si svolgeva la vita degli
15 Zygmunt Bauman, Le sfide dell’etica, cit., p. 10.
2
uomini, ovverosia con la collocazione degli uomini stessi nella posizione di individui,
dotati di identità non ancora attribuite e per la costruzione delle quali era necessario
compiere delle scelte.
Per quanto riguarda la postmodernità, il “post” non va inteso in senso
cronologico, cioè nel senso di una rimozione e ricollocazione della modernità, ma in
quanto implica che gli sforzi compiuti dalla modernità sono stati fuorviati, e che sarà la
stessa modernità a dimostrare la non realizzazione dei suoi obiettivi. Un codice etico
infallibile, universale e saldamente fondato, non si troverà mai, dal momento che una
morale non aporetica, non ambivalente e un’etica universale e oggettivamente fondata è
impossibile sul piano pratico.
Bauman espone poi i contrassegni della condizione morale analizzati secondo la
prospettiva postmoderna.
1 – Le affermazioni “Gli uomini sono fondamentalmente buoni, e per agire
secondo la loro natura hanno bisogno soltanto di essere aiutati”, e “Gli uomini sono
fondamentalmente cattivi, e bisogna impedire che agiscano in base ai loro impulsi”,
sono sbagliate, dal momento che gli uomini sono moralmente ambivalenti. Tutti gli
ordinamenti sociali sfruttano tale ambivalenza come materiale da costruzione, cercando
però di eliminare il fatto stesso che si tratta di un’ambivalenza. Questi sforzi o sono
inefficaci, o causano un inasprimento del male, poiché un codice etico coerente non può
essere adatto alla condizione ambivalente della morale.
2 – I fenomeni morali, precedendo la considerazione dello scopo ed il calcolo
dei guadagni e delle perdite, non si adattano allo schema “mezzi - fini” o ad una
spiegazione nei termini dell’utilità che rendono nei confronti del soggetto morale.
Poiché inoltre non sono regolari e costanti, non possono essere rappresentati come
“guidati da regole”, e di conseguenza non possono esaurirsi in un “codice etico”. L’etica
segue infatti il modello della Legge, definendo le azioni “proprie” o “improprie”, ma
questo presupposto non considera ciò che è morale nella morale, e sposta i fenomeni
morali dall’autonomia personale all’eteronomia basata sul potere.
3 – La morale è sempre aporetica, poiché solo poche scelte, e per di più in
genere quelle di minore importanza, non sono ambigue. Ciò si concretizza sia nel fatto
che la maggior parte delle scelte morali è compiuta tra impulsi contraddittori, sia nel
fatto che ogni impulso morale, se tradotto in azione, produce conseguenze immorali. Ad
2
esempio l’impulso a prendersi cura dell’Altro, se portato all’estremo, produce la
distruzione della sua autonomia. L’incertezza è così destinata ad accompagnare sempre
l’io morale.
4 – La morale non è universalizzabile. Bauman precisa però che tale
affermazione non avvalora il relativismo morale, espresso nella concezione secondo cui
qualsiasi morale è solo un costume locale e temporaneo, la quale a suo parere propone
una concezione nichilistica della morale. Essa piuttosto intende porsi in contrasto con la
versione dell’universalismo morale che nell’era moderna si tramutava in una campagna
per attenuare le differenze di giudizio morale. L’effetto complessivo di quegli sforzi
infatti non è tanto l’”universalizzazione della morale”, quanto l’incanalamento delle
capacità morali verso obiettivi socialmente determinati che possono comprendere fini
immorali.
5 – L’autonomia dell’io morale è avversata da ogni totalità sociale tesa
all’uniformità, dal momento che è considerata come fonte di anarchia all’interno
dell’ordine. Gli impulsi morali tuttavia sono importanti perché forniscono la materia
prima della socialità e dell’impegno nei confronti degli altri. L’ambivalenza è quindi
presente anche all’interno della gestione sociale della morale, poiché coloro che guidano
la società devono mantenere l’io morale nella forma desiderata, affinché da un lato non
cresca troppo, e dall’altro non si spenga la sua vitalità.
6 – La responsabilità morale, ovvero essere per l’Altro prima di poter essere con
l’Altro, è un punto di partenza e non un prodotto della società. Essa precede ogni
coinvolgimento con l’Altro, e quindi non possiede alcun fondamento.
7 – Bauman ritorna infine sul fatto che l’analisi dei fenomeni morali nella
prospettiva postmoderna non rivela il relativismo della morale. Egli sostiene che sono
invece le società moderne ad essere affette da provincialismo morale, benché in
apparenza promuovano l’etica universale. La prospettiva postmoderna mostra infatti che
la relatività dei codici etici e delle pratiche morali che essi raccomandano è il risultato
della provincialità politicamente favorita di codici etici che pretendono di essere
universali, e non della condizione morale “non codificata” che essi condannano come
provinciale. Sono quindi i codici etici a possedere un relativismo, mentre la prospettiva
postmoderna ha raggiunto la condizione morale comune che precede tutti gli effetti
diversificanti dell’amministrazione sociale della capacità morale.
3
CAPITOLO 5
LA FIGURA DEL PELLEGRINO NELLA MODERNITÀ E I SUOI
SUCCESSORI NELLA POSTMODERNITÀ: IL FLANEUR, IL
VAGABONDO, IL TURISTA ED IL GIOCATORE
Per meglio spiegare il passaggio dalla modernità alla postmodernità, Bauman
utilizza figure che caratterizzano tali periodi, rispettivamente il pellegrino per la
modernità, il flaneur, il vagabondo, il turista ed il giocatore per la postmodernità.
Cominciando dall’analisi del pellegrino compiuta all’interno di La società
dell’incertezza, Bauman spiega che tale figura non è stata un’invenzione moderna, dal
momento che era presente già agli albori del Cristianesimo; la modernità tuttavia le ha
dato una svolta. Sant’Agostino sosteneva che la Vera città dei Santi era in Paradiso,
mentre sulla terra i Cristiani vagabondavano in pellegrinaggio nel tempo, cercando il
regno dell’eternità. Per i pellegrini nel tempo la verità è quindi altrove, ed il vero luogo
è ad una certa distanza; inoltre solo le strade hanno un senso, poiché le case
rappresentano una tentazione per il riposo e portano a dimenticarsi della destinazione.
Anche le strade tuttavia possono distogliere dal giusto cammino. Così la lontananza
dalle città, il deserto, diventa per gli eremiti medievali l’archetipo della vera libertà,
della vicinanza a Dio. Il loro pellegrinaggio verso Dio era un esercizio di
autocostruzione.
Nella modernità si verificò un fatto nuovo, narratoci da Max Weber, che venne
compiuto dai protestanti. Essi infatti divennero pellegrini all’interno del mondo,
intraprendendo il pellegrinaggio senza abbandonare la casa. Ciò poteva verificarsi
perché avevano fatto in modo che il deserto si estendesse ai paesi ed alle soglie di casa,
dal momento che le caratteristiche dell’ambiente pre – moderno venivano cancellate.
Bauman cita a proposito Richard Sennet, il quale sostiene che il protestante, la figura
modello dell’uomo moderno, era tentato dalla solitudine, dalla freddezza e
dall’impersonalità. Il pellegrinaggio nella modernità non è più quindi una scelta del
modo di vivere: esso diventa il modo per dare un significato al cammino nel deserto,
dirigendosi verso una meta.
Questo “dare significato” è inteso da Bauman come “costruzione dell’identità”,
ed il pellegrino ed il mondo-deserto in cui cammina acquistano significato insieme. In
3
questo processo sia il significato che la costruzione dell’identità possono esistere in
quanto progetti, ed è la distanza che permette ad essi di esistere. Essa può inoltre essere
definita in altri termini come insoddisfazione e denigrazione del qui e ora. Il tempo
moderno del vivere verso il progetto era così direzionale, ed il pellegrino moderno
doveva scegliere il suo punto d’arrivo abbastanza giovane. Il differimento della
gratificazione forniva l’energia necessaria per la costruzione dell’identità, assieme alla
fiducia che il mondo avrebbe ripagato i risparmi con gli interessi. Il mondo dei
pellegrini – dei costruttori di identità – deve essere ordinato e determinato, e le tracce ed
i documenti devono rimanere in esso per sempre.
Passando alla postmodernità, Bauman considera che il suo mondo tuttavia non è
più ospitale verso i pellegrini. Questi ultimi si sono infatti dati da fare per costruire un
mondo flessibile, in cui l'identità possa essere costruita secondo la propria volontà.
Tuttavia, trasformando lo spazio circostante in deserto, si sono accorti che esso non
trattiene più i segni: il vero problema non è più come costruire un’identità, bensì come
mantenerla. Come si è già considerato in precedenza, le identità postmoderne possono
essere infatti adottate e scartate come i prodotti di consumo. Ciò fa in modo che la vita
come pellegrinaggio diventi difficilmente praticabile come strategia, e con poche
probabilità di essere scelta. Nella postmodernità perde così importanza il legarsi a ad un
luogo, ad una vocazione o a progetti, poiché i lavori che durano una vita sono scomparsi
e le nuove professioni che durano solo un periodo difficilmente possono essere
considerate le vocazioni weberiane. Oltre a ciò si può considerare anche l’impatto delle
nuove forme di relazioni sulla precarietà della vita postmoderna.
Ecco quindi che Bauman propone le quattro figure postmoderne: il flaneur, il
vagabondo, il turista ed il giocatore, i quali presi insieme offrono la metafora di una
nuova strategia generata dal non volere essere legati a qualcosa. Come anche la figura
del pellegrino per la modernità, tali figure erano presenti prima della postmodernità;
tuttavia quest’ultima ha dato loro una nuova importanza per due motivi. Primo: gli stili
un tempo praticati da persone marginali in periodi e luoghi marginali, sono ora praticati
dalla maggioranza, in ogni età ed in luoghi centrali. Secondo: nonostante siano in
quattro, ogni tipo trasmette solo una parte della storia.
La prima di queste figure, il flaneur, è stata analizzata da vari autori, tra i quali
Bauman menziona Baudelaire, Benjamin e Simmel. L’analisi di quest’ultimo è presente
3
all’interno di Intervista sull’identità, e mostra i flaneurs cittadini come distaccati dai
drammi delle strade urbane e non alla ricerca di una comunità con cui potersi
identificare. Tornando a La società dell’incertezza, Bauman espone prima l’analisi di
Baudelaire, il quale definì Costantin Guys “pittore della vita moderna” perché dipingeva
scene di vita cittadine secondo la concezione del bighellone, il flaneur appunto; in
seguito propone la trasformazione, operata da Benjamin, del flaneur in figura centrale e
simbolica della città moderna. Bighellonare assume così il significato di considerare la
realtà umana come una serie di episodi senza conseguenze, protagonisti dei quali sono
le vite delle persone. Di conseguenza, ciò che il pellegrino faceva non veniva nemmeno
preso in considerazione dal flaneur.
Nella postmodernità il bighellonare ha assunto una grande importanza, basti
valutare ad esempio la diffusione degli shopping malls, cioè dei centri commerciali
dove si cammina e si fanno acquisti, i quali hanno fornito un’ulteriore elevazione dello
stile di vita del flaneur. Bauman cita inoltre la concezione di Henning Bech di telecittà,
ovvero la città come ricovero del flaneur, purificata da tutto ciò che può essere ritenuto
non opportuno, in modo tale che rimanga solo l’aspetto più invitante.
Più avanti lo stesso autore viene ripreso nel suo prendere ad esempio Charlotte
Bronte, la quale nel passeggiare per Londra provava ebbrezza, piacere ed estasi di
libertà. Bauman afferma in seguito: <<La superficialità, l’appiattimento delle emozioni
e del tempo, lo smontaggio del flusso temporale in frammenti sconnessi, erano i piaceri
intensi di solito attribuiti al flaneur solitario...; quell’appiattimento e quella superficialità
sono ora alla portata della maggior parte (se non di tutti!) degli abitanti della...città>>16.
Tale separazione del valore dell’uso/piacere da ogni impegno/coinvolgimento
che riguardi amore, onore ed obbedienza secondo Bauman è il principale meccanismo
della versione postmoderna del processo di adiaforizzazione, cioè dello spogliare le
relazioni umane di ogni significanza morale, esentandole dalla valutazione etica e
rendendole moralmente irrilevanti. Il processo che conduce alla adiaforia si innesca ogni
volta che la relazione non coinvolge la persona in modo globale, cioè quando la
caratteristica della relazione è un aspetto dell’Altro. La vita di città è quindi una vita
moralmente povera e libera di essere assoggettata a criteri non morali. Le relazioni
16 Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 90.
3
urbane, sostenute da una scelta volontaria, diventano anonime e non coinvolgenti,
secondo lo spirito del consumismo.
Sempre all’interno di La società dell’incertezza è presente l’analisi della seconda
figura della postmodernità, il vagabondo. Esso, come le figure precedentemente
affrontate, era presente pure nella modernità con aspetti differenti. Era infatti il flagello
della prima modernità, il motivo per cui governanti e filosofi ordinavano e fornivano
norme. Il vagabondo era senza padroni, e proprio per questo motivo veniva temuto e
combattuto; inoltre, a differenza del pellegrino, non aveva destinazione. Per il
vagabondo ogni posto è un luogo di sosta ed egli non sa quanto vi rimarrà; è infatti
spinto alle spalle dalle speranze frustrate, e tirato in avanti da quelle non verificate.
Ovunque vada egli è così un estraneo.
La postmodernità modifica questa situazione. Infatti il vagabondo moderno
vagava attraverso luoghi organizzati, non riusciva a sistemarsi in nessun posto;
costituiva insomma una minoranza. Nella postmodernità invece sono rimasti pochi
luoghi organizzati: i posti di lavoro scompaiono, le abilità di ciascuno interessano meno,
l’esperienza professionale diventa un inconveniente e le reti di relazioni si disfano. Ora
il vagabondo è tale non per la sua riluttanza a sistemarsi, ma appunto per la scarsità di
luoghi organizzati.
Il turista, la terza figura della postmodernità, nella modernità era solito occupare
i margini dell’azione propriamente sociale, mentre oggi si è spostato verso il centro. Le
affinità tra il turista ed il vagabondo sono due: entrambi sono in movimento, e dovunque
vadano non sono mai del posto. Tuttavia vi sono anche delle differenze fondamentali.
In primo luogo il turista si muove seguendo uno scopo, costituito dal provare
una nuova esperienza, a condizione che questa nuova esperienza possa essere
abbandonata quando si voglia. Egli sceglie gli elementi in cui gettarsi in base a quanto
particolari, ma anche innocui, essi sono. Il mondo del turista è interamente strutturato in
base a criteri estetici; diversamente dalla vita del vagabondo, realtà dure e rigide non vi
interferiscono.
In secondo luogo il turista ha una casa. Infatti è necessario che per lui vi sia un
luogo dove rifugiarsi quando l’attuale avventura è terminata. Tale casa possiede tuttavia
un ruolo ambivalente, poiché se è la sua serenità che spinge il turista a fare nuove
avventure, questa stessa serenità che rende piacevole quella ricerca. Inoltre se la
3
condotta da turista diviene un modo di vita, risulta difficoltoso distinguere quale tra i
posti visitati sia la casa. Il bisogno della casa diventa quindi compresente alla paura di
legarsi ad essa.
Il rapporto tra vagabondi e turisti è approfondito all’interno di Dentro la
globalizzazione. Emerge qui che mentre i turisti si muovono perché trovano il mondo
alla loro portata (globale) attraente, i vagabondi perché trovano il mondo alla loro
portata (locale) inospitale; mentre i primi viaggiano perché lo vogliono, i secondi perché
non hanno altra scelta attuabile. La globalizzazione è volta a soddisfare i desideri del
turista, ma il suo effetto collaterale è la trasformazione di molte persone in vagabondi.
Conseguentemente a ciò, a livello politico la pressione per abbattere le ultime barriere al
libero movimento di denaro, merci ed informazioni viene accompagnata dalla spinta a
erigere nuovi muri (le leggi “sull’immigrazione” o sulla “nazionalità”) che blocchino i
movimenti di quanti vengono sradicati.
Il vagabondo arriva quindi a diventare l’incubo del turista, non per ciò che il
vagabondo è, ma per ciò che il turista potrebbe diventare. Mentre infatti il turista chiede
l’esilio o l’incarcerazione di vagabondi, mendicanti o barboni, cerca in tal modo di
esorcizzare le proprie paure. Un mondo senza vagabondi è l’utopia del mondo dei
turisti, e grazie a questa utopia agisce la politica volta a diffondere la “legge e l’ordine”,
a criminalizzare la povertà e ad attaccare il parassitismo. Tuttavia la vita del turista
perderebbe molta della sua attrattiva se non ci fosse la vita dei vagabondi come
alternativa. Infatti, nonostante l’apparenza, la vita del turista possiede varie
caratteristiche difficoltose, come l’incertezza che caratterizza qualsiasi scelta ed i rischi
connessi ad ogni decisione. Inoltre la possibilità di scegliere perde molto del suo fascino
quando scegliere diventa obbligatorio, e ciò succede anche all’avventura quando la vita
si trasforma in una serie di avventure. Tali preoccupazioni vengono accantonate proprio
quando la vita da vagabondo si presenta come alternativa.
Per la quarta figura della postmodernità, il giocatore, è utile considerare
nuovamente La società dell’incertezza. All’interno del mondo del gioco non esistono né
l’inevitabilità né gli accidenti; ciò che più importa è quanto bene uno gioca la propria
mano. Anche il “colpo di fortuna”, o di sfortuna, spartisce la condizione di non
necessità e non accidentalità delle mosse del giocatore. Inoltre nel gioco il mondo stesso
è un giocatore con le proprie mosse, e diventano quindi importanti il rischio come la
3
valutazione delle mosse. Ogni partita, nel mondo - come - gioco, possiede le proprie
regole e le proprie convenzioni, viene giocata come se in precedenza non se ne fossero
giocate altre, e in modo da non lasciare conseguenze sulle successive. Per fare ciò il
fatto che si tratta di un gioco deve essere sempre presente, anche se tuttavia lo scopo è
vincere.
Riassumendo i tratti riguardanti i quattro tipi postmoderni, Bauman afferma che
i più significativi tra essi sono gli effetti sugli atteggiamenti morali e politici delle
persone, e indirettamente sullo status della moralità e della politica nel contesto
postmoderno. Sono infatti le strategie di vita postmoderne, piuttosto che il modo
burocratico di gestire i processi sociali, i fattori principali che danno forma alla
situazione morale degli uomini e delle donne postmoderne. Tutte e quattro le strategie di
vita considerate rendono i rapporti umani frammentari e discontinui, promuovono una
distanza tra l’individuo e l’Altro, e considerano l’Altro come un oggetto di valutazione
estetica, non morale, non portando quindi ad una responsabilità verso di esso.
L’incapacità politica degli uomini e delle donne postmoderne ha la stessa origine
dell’incapacità morale. Infatti la distanza estetica sceglie come i suoi punti di
riferimento gli attributi del soggetto che distanzia, come l’interesse o la soddisfazione.
Bauman cita poi alcune frasi di Jean-Francoise Lyotard: <<gli oggetti e i contenuti sono
diventati indifferenti. L’unica domanda riguarda il loro essere “interessanti”>>;
<<l’emancipazione non è più posta come alternativa alla realtà>>17. Bauman, a
proposito di quest’ultima affermazione, sostiene che gli oggetti non vengono più
considerati come tali da avere bisogno di un miglioramento; se non soddisfano vengono
presto abbandonati.
Il compito del cittadino postmoderno diventa così quello di condurre una vita
piacevole, anche se ciò non significa che sia una vita totalmente felice. Ogni volta infatti
che irrompono fattori fuori dalla portata dell’individuo, come la chiusura di un ospedale
o di una scuola, le esplosioni momentanee di azioni solidali non alterano i tratti dei
rapporti postmoderni, cioè la frammentarietà e la discontinuità.
17 Ivi, p. 51.
3
CAPITOLO 6
LO STRANIERO
La figura dello straniero è affrontata da Bauman sopratutto ancora all’interno di
La società dell’incertezza, e più precisamente nei capitoli La produzione e
l’annullamento dello straniero e Lo straniero rivisitato e rivisitante. Per prima cosa
Bauman definisce straniero chi non si adatta alle mappe cognitive, morali o estetiche del
mondo, ed in tale maniera sconvolge i modelli di comportamento stabiliti e costituisce
un ostacolo alla realizzazione di un benessere generale. Successivamente egli afferma
che tutte le società producono stranieri, anche se con caratteristiche differenti.
Anche qui, come per le figure delineate precedentemente, è utile operare una
distinzione tra modernità e postmodernità. Per quanto riguarda la prima, in essa lo stato
era percepito come la fonte ed il garante di una vita ordinata; in questo senso lo
straniero era chi non si adeguava a tale ordine. Per combattere la guerra contro lo
straniero venivano impiegate due strategie, e qui Bauman, come anche in altre sue
opere, cita una concezione di Lévi – Strauss. La prima strategia era antropofagica, e
consisteva nell’annullare gli stranieri “divorandoli”, per poi renderli una copia perfetta
di se stessi. Questa era una strategia di assimilazione, che rendeva simile il dissimile ed
eliminava le tradizioni culturali. La seconda strategia era antropoemica, e consisteva
nell’espellere gli stranieri dal mondo ordinato. Questa era una strategia di esclusione, e
faceva in modo di confinare gli stranieri all’interno di ghetti o addirittura di eliminarli
fisicamente. Nella società moderna l’annullamento culturale e/o fisico degli stranieri era
insomma un atto di distruzione creativa, di demolizione e ricostruzione; la loro presenza
era definita come temporanea.
Per descrivere la situazione dello straniero nella postmodernità, Bauman si
riallaccia al tema dell’identità. Quest’ultima infatti, come si è già notato, nella
postmodernità assume una posizione particolare, dal momento che mentre farsi
un’identità è un’esigenza sentita, avere un’identità si rivela uno svantaggio perché limita
il percorso esistenziale. Bauman cita qui Purezza e pericolo di Mary Douglas,
un’antropologa inglese, la quale nota che ciò che percepiamo come non pulito è
un’anomalia che turba il sistema; facendo ciò ella aggiunge una prospettiva sociologica
all’analisi compiuta da Sartre del “vischioso”, una situazione in cui una persona è
3
coinvolta e compromessa e per la quale la stessa persona non è più padrone. Il vischioso
insomma limita la libertà.
Lo straniero è detestato come lo è la vischiosità e per gli stessi motivi. Afferma
Bauman: <<meno gli individui sono in grado di controllare le loro vite e le loro identità,
più essi percepiranno gli altri come vischiosi, e cercheranno in modo più frenetico di
districarsi, di staccarsi dagli stranieri...>>18. La percezione dello straniero cambia così a
seconda del tipo di popolazione; per i cittadini ricchi, ad esempio, gli stranieri sono
gradevoli individui che possono essere retribuiti per il tipo di servizi che offrono, come
ristoranti o negozi etnici. Tali stranieri non possono mai mettere in discussione la libertà
del consumatore. La rivolta contro lo straniero proviene invece da altre zone della città,
quelle più povere. Proprio perché agli abitanti di tale zone viene privata la libertà di
scelta, poiché non possiedono i mezzi necessari, essi reagiscono difendendo il territorio
con rituali e atteggiamenti come rivolte o abbigliamenti particolari. Essi reagiscono in
modo aggressivo proprio come per liberarsi da un elemento vischioso. Ecco così che
ogni parte rappresenta per l’altra lo straniero. La paura del vischioso degli individui
senza potere viene inoltre spesso strumentalizzata da chi invece il potere lo detiene.
La differenza principale che distingue lo straniero nella modernità rispetto alla
postmodernità consiste nel fatto che mentre gli stranieri moderni erano destinati
all’annullamento, gli stranieri postmoderni sono voluti proprio in quanto tali. Le loro
abilità sono infatti ritenute utili in quanto straniere. Bauman sostiene infatti che per
molti versi la nostra è l’epoca dell’eterofilia, dal momento che per i recettori di
sensazioni ed i collezionisti di esperienze la differenza è un privilegio. Gli individui
postmoderni hanno bisogno degli stranieri perché, in quanto culturalmente plasmati,
senza di essi perderebbero notevoli possibilità di emancipazione. Si tratta quindi di
trovare il metodo per convivere con l’alterità tutti i giorni.
Nella postmodernità inoltre, in discordanza con la modernità, sia la destra che la
sinistra sono concordi nel riconoscere il valore della differenza, e nell’affermare che il
modo migliore di convivere con gli stranieri consiste nel tenere le distanze e mantenere
le differenze. Per fare ciò la sinistra si richiama al concetto di “comunità”, ritenuta un
nuovo processo di autodeterminazione in cui i diversi gruppi etnici si riappropriano del
18 Ivi, p. 70.
3
loro potere. Tuttavia a parere di Bauman questo metodo non è del tutto valido, poiché in
questa maniera l’integrazione perde valore.
La situazione postmoderna non incrementa così il volume della libertà
individuale, bensì la redistribuisce secondo una modalità polarizzata; proprio tale
polarizzazione fa sì che rimanga la dualità dello status socialmente prodotto degli
stranieri, per il quale essi o sono considerati utili e fonti di esperienze gradevoli, o
“vischiosi”. Ciò accade perché la polarizzazione della libertà e della ricchezza frena un
autentico diritto all’individualità.
Bauman poi continua a spiegare le caratteristiche dello straniero introducendo un
nuovo tema, quello della città. Egli inizia elencando i punti principali dello stile di vita
di città:
- considerare più destinazioni tra cui scegliere;
- avere l’esigenza di selezionare le mete più rilevanti;
- muoversi in uno spazio popolato da altri con esigenze simili alle nostre.
La distanza tra ciò che occorre sapere per praticare la vita di città e ciò che si sa,
è definita come l’elemento di “stranezza” negli sconosciuti; questa distanza definisce
quindi gli altri come “stranieri”. La vita in città è in tale modo realizzata da stranieri tra
stranieri, e la distanza assume un ruolo ambivalente, poiché è sia il luogo del pericolo
che quello della libertà.
Il segreto per ottenere la felicità nella vita di città consiste nel sapere vivere bene
la propria esperienza, ed allo stesso tempo eliminare la minaccia proveniente dalla
condizione degli altri stranieri. I due obiettivi sono tra loro in contraddizione: poiché
infatti in città ciascuno è straniero, ogni vincolo imposto a questa condizione di
straniero limita sia una ipotetica minaccia che la libertà. I diversi progetti delle città
ideali hanno così cercato di sacrificare quel poco di libertà necessario a rendere
l’incertezza sopportabile.
Bauman propone in seguito due strategie per convivere con gli stranieri. La
prima consiste nel ridurre o nell’eliminare il carattere imprevedibile del comportamento
degli stranieri; la seconda nell’allontanare i movimenti degli estranei, in modo da non
doversi più preoccupare di loro. A tali strategie si affiancano delle altre, anche se
marginali, come quella di focalizzare l’avversione per l’insicurezza su una determinata
categoria di stranieri, siano essi immigrati, nomadi ecc.
3
Tutte le moderne utopie di progettazione urbanistica hanno seguito la prima
delle strategie proposte. L’architettura attirava tale attenzione dal momento che era
diffusa la credenza che per gli esseri umani la configurazione del mondo in cui vivevano
aveva una grande influenza sulle loro azioni; ecco così che la progettazione della città
diventava una guerra al carattere indefinito ed indeterminato degli estranei. La
pianificazione della città messa in atto dalle utopie urbanistiche riguardava
l’eliminazione di ciò che di strano vi era nell’estraneo, o addirittura dell’estraneo stesso.
Bauman, a proposito di questa pianificazione delle città moderne, cita alcuni
passi di Richard Sennet, il quale individua nello schema a griglia rettangolare
l’espressione della città come ambiente di vita uniforme. Tale schema sostituì agli
antichi centri storici una serie di incroci anonimi e ripetitivi. Per quanto riguarda le città
americane, ad esempio, Chicago presentava una serie di ostacoli naturali, come fiumi,
che non vennero neanche presi in considerazione dai progettisti; invece i villaggi che
costeggiavano Manhattan nel diciannovesimo secolo vennero inghiottiti, più che
incorporati, dal nuovo progetto urbano.
Tuttavia non si ottenne affatto lo scopo desiderato. La griglia si trasformò infatti
in una matrice di nuova eterogeneità, uno schema in cui i nuovi abitanti si dividevano il
territorio a modo loro. I nuovo sociologi della vita urbana furono così costretti a
tracciare sulla regolare mappa di Chicago delle nuove tracce che non si confacevano
affatto ad essa. Le città risultanti da tutto ciò furono aggregati di aree distinte e
differenziate, caratterizzate oltre che da differenti abitanti, anche dal tipo di estranei che
le visitavano. La libertà di movimento all’interno della città è così divenuta il principale
fattore di stratificazione.
Si presenta così la seconda delle strategie proposta da Bauman per la convivenza
con gli stranieri, nella quale la posizione sociale si connota per la misura in cui è
possibile ignorare la loro presenza. Naturalmente tale strategia è praticabile solo da
pochi cittadini, i quali possono eludere le cosiddette no go areas, ovverosia le aree ad
accesso vietato. Le arterie di grande traffico e le auto “a prova di ladro” permettono di
svolgere meglio tale compito e di evitare le zone con determinati stranieri.
La vita di città assuma insomma significati differenti per persone differenti, ed a
parere di Bauman è utile considerare questo fatto per evitare di descrivere sempre
l’esperienza della vita urbana secondo la prospettiva postmoderna e “democratica”.
4
Egli popone in seguito una nuova figura di straniero, quello “ante portas”, alla
porta. Per fare ciò inizialmente cita un’analisi di Phil Cohen dedicata allo sciovinismo
ed al razzismo contemporaneo, secondo la quale tutte le xenofobie etniche o razziste che
interpretano lo straniero come nemico assumono come metafora ispiratrice la
concezione della “dimora sicura”. Tale concezione trasforma ciò che è all’esterno come
una zona piena di pericoli, ed è un’utopia di un luogo dai confini sicuri e protetti, in cui
le “persone non familiari” diventano nemici assoluti. La vita di città rende inoltre
sempre più desiderabile una “dimora sicura”. Tale rimedio è però solo ipotizzabile e non
realizzabile.
Secondo questa concezione lo straniero è appunto sempre “ante portas”, alla
porta, e questa porta diventa concepibile solo quando uno straniero tenta di introdursi
abusivamente, o di invadere il territorio. Tale straniero è molto differente da quello che
popola lo scenario urbano di cui si è trattato in precedenza. Egli infatti è privato di
quell’ambivalenza che rende la moltitudine delle strade delle città fonte di esperienze
gradevoli per il cittadino postmoderno. Bauman definisce in tale maniera i due tipi di
stranieri: <<se lo straniero del flaneur è la sedimentazione del desiderio per la
versatilità proteiforme, lo straniero immaginato dal “difensore della casa” è il
precipitato della fobia del molteplice>>19. La realtà versatile e molteplice delle città
contemporanee propone entrambe le tipologie. Questa desiderata dimora/rifugio, sia che
venga rimpianta nel passato o proiettata nel futuro, rimane così sempre una dimora
ipotizzata.
In conclusione all’analisi sullo straniero all’interno di La società dell’incertezza,
Bauman definisce lo stesso straniero “Giano bifronte”. La città è un luogo in cui si
mischiano opportunità e minaccia, in un’ambivalenza permanente che la modernità non
è riuscita ad eliminare. Egli cita poi Jonathan Friedman, secondo cui un’offerta culturale
variegata e spesso contraddittoria, in genere allontanata dall’identità moderna, sembra
avere condizionato molto quella postmoderna. Tale diffusione provoca una scoperta di
nuove esperienze, assieme alla paura dello sconosciuto. La città postmoderna insomma
tiene insieme il giusto per un’identità multiforme e svincolata con il desiderio di una
“dimora” e di una “comunità”. Bauman cita anche Dean MacCannel, secondo il quale il
19 Ivi, p. 94.
4
problema centrale della postmodernità sarà quello di creare surrogati delle comunità, o
comunque di generare un “senso” della comunità.
L’ambiguità esperienziale della città postmoderna condiziona così l’ambivalenza
postmoderna dello straniero, il quale appunto ha due facce: una che promette
gratificazione senza alcun patto di lealtà, l’altra portatrice di un mistero minaccioso.
Secondo le parole di Bauman: <<La fobia della eterogeneità e il piacere per la
promiscuità combattono una battaglia che non può avere vincitori>>20.
20 Ivi, p. 97.
4
CAPITOLO 7
IL RUOLO DELLA POLITICA NELLA POSTMODERNITÁ
Bauman tratta il distacco della politica da parte degli uomini e delle donne
postmoderni in varie opere, tra cui La società sotto assedio. In tale opera egli afferma
che mentre è comune deplorare il cinismo, il nichilismo e l’indifferenza verso grandi
progetti esistenziali degli individui postmoderni, non si tiene adeguatamente in
considerazione il fatto che questo atteggiamento è una risposta ad un mondo in cui si
considera il futuro come una minaccia. Secondo Bauman, che riprende una proposta di
Pierre Bourdieu, tale mondo si può definire il prodotto di una economia politica
dell’incertezza.
Il principale veicolo di tale economia è la fuga del potere dalla politica, tollerata
e favorita dai governi attraverso le politiche della deregolamentazione e della
privatizzazione. Per quanto riguarda il risultato di tutto ciò Bauman cita poi Manuel
Castells, il quale afferma che ne nasce un mondo in cui il potere è sempre più globale ed
extraterritoriale, mentre la politica rimane locale e territoriale. Le società si trovano così
a dipendere dai movimenti della finanza mondiale, e non riescono ad intervenire in
situazioni quali la contrazione dei mercati del lavoro, la povertà crescente o i problemi
ambientali.
Il risultato è la perdita della “presa sul presente”, che a sua volta porta
all’indebolimento della volontà politica e allo scetticismo riguardo alla possibilità di
cambiare attivamente la condizione umana. A tutto ciò si aggiunge il fatto che le
soluzioni che di solito vengono proposte sono un aumento della deregolamentazione e
della flessibilità ed il rifiuto di ogni interferenza. Bauman a proposito di ciò cita
Cornelius Castoradis, secondo il quale il problema principale della nostra società è il
fatto che ha smesso di farsi domande. In tale maniera le persone accettano la non
possibilità di cambiare le condizioni della propria esistenza, e la società cessa di essere
autonoma, cioè di definire e gestire se stessa, divenendo eteronoma, eterodiretta.
Citando ancora Castoradis, si entra in un’”epoca di conformismo universalizzato”.
Bauman espone in seguito una proposta per la difesa della democrazia nella
società individualizzata. Egli inizia con un analisi della storia della democrazia
moderna, l’inizio della quale è fatto risalire da vari storici al rifiuto di consentire la
4
tassazione senza il consenso dei tassati. Era qui in gioco la difesa di un principio, quello
del suddito come cittadino appartenente ad un corpo politico.
Il successo della democrazia nella realizzazione di una società autonoma
dipende secondo Bauman dall’equilibrio tra libertà e sicurezza. La forza della
democrazia si attenua infatti quando vi è carenza di libertà o di sicurezza, e la storia
politica della modernità può essere interpretata come una modalità di raggiungimento
dell’equilibrio tra le due parti. Tale ricerca è in corso tuttora, e rappresenta la condicio
sine qua non del conseguimento dell’autonomia da parte della società.
In questo caso vi è però una differenza tra modernità e postmodernità. Mentre
nella prima infatti il principale pericolo per la democrazia è stato individuato nelle
limitazioni imposte alla libertà dell’uomo dal controllo delle istituzioni preposte alla
“sicurezza collettiva”, nella seconda la democrazia è minacciata dal versante opposto,
poiché è la sicurezza garantita dalla collettività ad essere sempre più abbandonata.
Mentre il deficit di libertà ha come risultato una incapacità di farsi valere, il deficit di
sicurezza produce invece l’incapacità di considerare una causa comune per la quale
migliorare la società. L’esito dei due processi è tuttavia simile, e consiste in un
indebolimento delle capacità democratiche e in una fuga dalla politica e dalla
cittadinanza responsabile.
Secondo Bauman è necessario fare qualcosa per rafforzare la capacità di
autogoverno del corpo politico attuale, e per fare in modo che gli individui riassumano
le attività di una cittadinanza responsabile. A livello “macro”, ciò dovrebbe
concretizzarsi in una elevazione delle forze politiche a quel livello globale in cui sono
situati i poteri che realmente contano nella postmodernità. Questo è ostacolato da una
sorta di nodo gordiano: infatti per limitare i poteri globali incontrollati occorre una
nuova forza politica globale, ma è proprio il fatto che i poteri globali rimangono
incontrollati che frena la formazione di forze politiche globali. Dalla soluzione di questo
problema dipendono secondo Bauman il futuro della repubblica e della democrazia.
Alcune caratteristiche di una politica che estenda le proprie influenze a livello
globale sono descritte all’interno di Società, etica, politica. Bauman afferma che spesso
la natura imprevista di certe conseguenze sconvolgenti, a livello ad esempio
ambientale, dipende da un processo decisionale di natura politica. Lo scopo delle lotte
4
per il potere è infatti costituito anche dal decidere quali sono i fini “legittimi” di
un’azione dai suoi effetti collaterali.
I mezzi crescono infatti ad un livello sempre crescente, e così le conseguenze
delle azioni. Ma tali mezzi tendono anche a polarizzarsi, aumentando così gli squilibri
all’interno del genere umano. Per gestire tutto ciò è necessaria secondo Bauman una
politica con un sistema giuridico che tuteli i diritti umani. Un altro problema derivante
dall’allontanamento degli effetti delle azioni è costituito dalla globalizzazione della
responsabilità, che si traduca in un’effettiva modifica di alcuni comportamenti. Il
risultato più frequente delle campagne mediatiche che mostrano gli squilibri a livello
mondiale è infatti una successione di “carnevali della pietà”, di esplosioni di
compassione. Tuttavia essi non sono attrezzati a formare un legame morale efficace,
permanente e solidamente istituzionalizzato, dal momento che non mostrano le vere
cause dei problemi, ovvero ad esempio i mezzi di sussistenza distrutti dal libero
commercio o le inimicizie tribali promosse ed alimentate dall’industria delle armi.
All’interno di La società sotto assedio sono esposte le due principali reazioni
politiche alla globalizzazione. La prima coincide con il comunitarismo, il quale,
cercando di risollevare un’ideale di comunità, mira ad un’uniformità di identità che
possa portare la desiderata sicurezza, eliminando diversità e molteplicità. Secondo
Bauman però tale reazione può rivelarsi pericolosa, perché il comunitarismo, da lui
chiamato anche “tribalismo”, può in casi estremi anche trasformarsi in pulizia etnica e
ghettizzazione.
Inoltre a parere di Bauman è improbabile che il comunitarismo mitighi le
sofferenze che promette di curare, dal momento che anziché contenere le forze della
globalizzazione, la frammentazione politica ed il frantumarsi della solidarietà che il
comunitarismo è capace di generare portano solo ad un dominio maggiore delle forze
globali.
Le risposte della seconda categoria intendono invece assoggettare le forze
economiche ad un controllo democratico (etico, politico e culturale), ma secondo
Bauman ciò è difficile da realizzare. Egli torna così a ripetere che una risposta alla
globalizzazione non può che essere globale, in quanto distinta da “internazionale” o
“interstatale”.
4
Tornando a La società individualizzata, si nota che in essa emerge una delle
proposte più importanti per quanto riguarda l’analisi di Bauman della politica nella
postmodernità: quella dell’agorà. Egli inizia proponendo la descrizione a riguardo di
Aristotele, il quale distingueva l’oikos, il territorio privato e familiare, dall’ekklesìa, il
luogo proprio alla politica in cui vengono prese le decisioni pubbliche. Esiste però una
terza area, l’agorà appunto, nella quale il pubblico ed il privato si incontrano e decidono
la modalità per una coabitazione.
L’agorà è lo spazio della democrazia, all’interno del quale si svolge la
traduzione tra oikos ed ekklesìa. In ciò consiste infatti il compito della democrazia, la
quale è però esposta ad una duplice minaccia: l’impotenza dell’ekklesìa, cioè dei
pubblici poteri, a mettere in pratica ciò che promulgano, e la crisi del passaggio
dall’ekklesìa all’oikos, cioè dalle questioni pubbliche ai problemi privati. Per quanto
riguarda la prima minaccia, come si è già descritto prima la politica rimane sempre più
ancorata a livello locale, mentre il potere vero e proprio è sempre più globale ed
extraterritoriale. Questo è testimoniato ad esempio dai fallimenti registrati dalle unioni
di stati sovrani per risolvere determinate questioni, oppure dall’impossibilità di
raggiungere una presa di posizione comune su temi fondamentali come l’ingegneria
genetica o la clonazione. Un altro caso rappresentativo è costituito dalla guerra nell’ex
Jugoslavia, la quale ha mostrato l’irrilevanza della sovranità statale e delle Nazioni
Unite, che proprio su tale sovranità si basavano.
La globalizzazione ha poi mostrato un altro aspetto della politica, ovvero la
disponibilità da parte di quest’ultima di spalancare le porte al libero movimento dei
capitali finanziari e commerciali, e nel rendere ospitale il proprio paese minimizzando le
regole e massimizzando la flessibilità del lavoro e dei mercati finanziari. In pratica
l’ekklesìa usa il proprio potere per rinunciarvi. Inoltre la maggioranza delle persone non
si attende grandi risultati da parte delle ekklesìai, dal momento che è consapevole degli
scarsi mezzi che hanno a disposizione.
Per quanto riguarda la seconda minaccia, ovvero il riempimento dell’agorà da
parte del privato, l’oikos, di ciò sono responsabili i mezzi di comunicazione mediante ad
esempio i talk show. Il privato in questa maniera ha invaso gli spazi che dovevano
appartenere al pubblico, ma non per interagire con esso. Infatti, nonostante l’esposizione
pubblica, il privato mantiene, se non rafforza, il suo carattere e le sue peculiarità. Il
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dilemma per la democrazia è così costituito dal fatto che l’impotenza pratica delle
istituzioni pubbliche rende meno attraenti le posizioni comuni, mentre la minore
capacità di portare le questioni private in quelle pubbliche semplifica l’operato delle
forze globali, le quali alimentano tale incapacità e si servono dei suoi risultati.
La tematica dell’agorà è ripresa in più punti di La solitudine del cittadino
globale. Bauman qui sostiene che all’interno dell’agorà si possono mettere in pratica
alcune concezioni come “bene pubblico”, “società giusta” o “valori condivisi”. Tuttavia
di questi spazi privati/pubblici oggi ne sono rimasti ben pochi. Una delle caratteristiche
della società postmoderna, per la precarietà con cui molte persone conducono le proprie
vite, è resa secondo Bauman dal termine tedesco Unsicherheit, il quale racchiude vari
significati tra cui incertezza, insicurezza esistenziale e assenza di garanzie di sicurezza
per la propria persona, precarietà. Queste afflizioni rappresentano un enorme
impedimento ai rimedi collettivi, poiché le persone che si sentono insicure tendono a
non assumersi i rischi che l’azione collettiva comporta.
Quello che in genere le istituzioni politiche fanno è il convogliare questi vari
aspetti verso l’unica componente della sicurezza personale. Vi è però un paradosso
insito in questo fatto: infatti mentre un intervento efficace per mitigare l’insicurezza
richiede un’azione comune, gran parte delle misure adottate per la sicurezza personale
producono divisione, poiché allontanano le persone. Questa è una delle ragioni
principali per cui la richiesta di spazi privati/pubblici è così scarsa, e anche quella per
cui i pochi spazi rimasti di questo tipo non sono frequentati.
All’interno di Modernità liquida Bauman sostiene che il compito della politica è
quello di trasformare gli individui de iure in individui de facto, ossia in individui
padroni del proprio destino e capaci di compiere le scelte che realmente desiderano.
Tale divario tra individui de iure e de facto è prodotto proprio dallo svuotamento di cui
si è trattato dello spazio pubblico/privato delle agorà, svuotamento causato
dall’invasione del privato nel pubblico. Inoltre i principi prediletti dalle autorità
costituite sono oggi la fuga, il distacco ed il disimpegno, ed in questa maniera gli
individui vengono spogliati della cittadinanza e delle loro capacità di cittadini. Tuttavia
a parere di Bauman l’individuo de iure non può trasformarsi in un individuo de facto
senza prima essere divenuto un cittadino; ecco perché è ancora una volta necessario
riprogettare e ripopolare l’agorà.
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Tale proposta dell’agorà è ridimensionata da Mauro Magatti, autore della
prefazione di Una nuova condizione umana e interlocutore di Bauman nella stessa
opera. Proprio in questa prefazione Magatti afferma che Bauman non riduce la
democrazia ad un insieme di regole, forme e procedure, bensì la ritiene sostenuta da una
condivisione da parte dei cittadini di un insieme di valori e di modi di vita che la
rendono possibile. Egli continua esponendo l’analisi di Bauman del cittadino globale, il
quale è spinto a cercare di risolvere da solo le diverse problematiche: ecco così che
l’individualizzazione si risolve in mera atomizzazione. Tale condizione avvantaggia le
élites mobili, le quali non devono rendere conto, mentre peggiora la condizione di chi,
ancorato ad in territorio, subisce delle decisioni.
La crisi dell’agorà è un modo per interpretare questa trasformazione. Dato che la
vita sociale legata agli stati nazionali, assieme alle precedenti forme di sovranità, non è
più presente, l’agire politico non si pone più in maniera diretta nei confronti di questa
vita sociale, e proprio questo è il fondamento della sua crisi. L’agorà ricompone invece
la diversità delle identità e degli interessi. Un’ulteriore problematica è costituita dal
mutamento dei mezzi di informazione, che dal controllo pubblico sono passati a
dipendere da forze economiche e commerciali. Anche questo processo porta ad un
indebolimento dell’agorà, dal momento che comprime gli spazi di discussione e di
confronto.
A proposito di ciò Magatti mostra come Bauman introduca una nuova
concezione, quella di “spazio estetico”, riguardante uno spazio non ordinato e con
riferimenti contraddittori. Dietro tale apparente libertà dello spazio estetico si
nascondono però nuove forme di omologazione, che impediscono di affrontare i
problemi contemporanei. Lo spazio estetico rappresenta un ulteriore fattore di
indebolimento dell’agorà, e porta a quella che Bauman definisce “adiaforizzazione”,
ovvero alla perdita del senso morale nell’età contemporanea. Ciò spiega quel senso di
apatia che caratterizza l’Io globale. A parere di Magatti Bauman si pone qui come erede
della Scuola di Francoforte, e ricorda alcune analisi della società contemporanea
compiute da Eric Fromm.
Vi sono tuttavia dei segni di reazione all’indebolimento dello spirito
democratico, come i movimenti sociali sorti negli ultimi anni o le occasioni in cui
l’opinione pubblica si riunisce; tuttavia secondo Bauman le difficoltà rimangono per
4
due ragioni. La prima è che si tratta di reazioni disorganizzate; la seconda è che rimane
una sproporzione tra le dinamiche fondamentali della nostra epoca e la capacità
d’azione sociale che si verifica.
E qui si presenta il ridimensionamento operato da Magatti per quanto riguarda
l’agorà. Egli espone prima la tesi di Bauman, cioè quella di ricreare istituzioni che
operino a livello globale e che riportino in equilibrio la dimensione individuale con la
vita sociale contemporanea, poi afferma che la costruzione di queste istituzioni rimane
difficile per due ragioni. La prima ha a che fare con la crisi motivazionale che i sistemi
democratici contemporanei devono affrontare, la quale fa sì che sia difficile passare
direttamente alle istituzioni globali, lontanissime dai singoli individui. La seconda ha a
che fare con la difficile realizzabilità del progetto, dal momento che mancano le
condizioni minime. Inoltre una sfera pubblica globale risulta difficile per le enormi
differenze culturali e per le difficoltà tecniche.
Secondo Magatti, una soluzione alla problematica esposta da Bauman potrebbe
essere quella di proporre una trasformazione degli stati nazionali sia in senso verticale,
cioè con l’introduzione di governi a livello globale, sia in senso orizzontale, favorendo
la partecipazione di gruppi e associazioni che propongano un modello decentrato ed
articolato.
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CAPITOLO 8
LE DIVERSE FORME DELL’INCERTEZZA POSTMODERNA
Il tema già considerato della Unsicherheit è ripreso da Bauman all’interno di La
solitudine del cittadino globale. Egli, innanzitutto, analizza Il disagio della civiltà di
Sigmund Freud, all’interno del quale Freud stesso sosteneva che la civiltà occidentale,
moderna, è uno scambio di valori ugualmente essenziali. La civiltà reca infatti in dono
la sicurezza, una condizione esente dai pericoli che derivano dalla natura, dal proprio
corpo e dalle altre persone. In cambio, tuttavia, essa pone restrizioni alla libertà
individuale. I malesseri ed i comportamenti devianti più comuni, asserisce Freud,
derivano appunto da questo sacrificio della libertà individuale.
Bauman propone invece una tesi opposta a quella freudiana, in questo caso
riferendosi però alla postmodernità. Egli afferma, infatti, che i problemi ed i malesseri
più comuni al giorno d’oggi derivano sempre da uno scambio, ma in questo caso è la
sicurezza ad essere sacrificata rispetto ad una libertà individuale di scelta ed espressione
in continua espansione. Riguardo a quella sicurezza promessa dalla società moderna,
Freud utilizza il termine Sicherheit, il quale sintetizza a parere di Bauman tre termini
inglesi: security (sicurezza esistenziale), certainty (certezza) e safety (sicurezza
personale, incolumità). Bauman in seguito analizza questi tre termini.
Sicurezza esistenziale. Qualunque cosa sia stata conseguita rimarrà in nostro
possesso; qualunque obiettivo sia stato raggiunto manterrà il suo valore; il mondo è
stabile ed affidabile, così come lo sono le abitudini e le abilità acquisite.
Certezza. Poiché conosciamo le distinzioni che ci aiutano nella vita quotidiana,
abbiamo la convinzione di essere nel giusto.
Sicurezza personale. Purché ci comportiamo nella maniera giusta, nessun grande
pericolo minaccia il nostro corpo, i nostri beni, la famiglia e la casa.
Le tre componenti della Sicherheit sono le condizioni della sicurezza di sé e
della fiducia in sé; l’assenza di una delle tre produce il dissolversi di una tale situazione,
portando quindi ad un’ansia e alla tendenza a cercare qualcuno da incolpare. Tale ansia,
inoltre, è generica, dal momento che risulta difficile definire se il senso di paura derivi
dalla scarsa sicurezza, dalle minacce alla certezza o dalla scarsa incolumità. Diviene
quindi evidente che le incertezze del nostro tempo sono costruite su misura, come
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Bauman afferma citando un’espressione di Antony Giddens, per cui vivere
nell’incertezza ci appare un modo di vivere. Bauman, rifacendosi ai tre termini
considerati precedentemente, analizza ora dettagliatamente come la situazione si sia
capovolta nella postmodernità.
Per quanto riguarda il primo termine, nella postmodernità si verifica una
mancanza di sicurezza. Bauman descrive la situazione attuale del lavoro, sempre più
precario e instabile, e per fare ciò cita anche l’economista francese Jean-Paul Fitoussi,
secondo il quale il volume globale di lavoro disponibile sta diminuendo; un problema,
questo, strutturale, connesso al passaggio del controllo economico dalle istituzioni di
governo alle forze del mercato. Inoltre, come si è già considerato, mentre il capitale è
globale la politica rimane ancorata a livello locale. La globalizzazione è quindi qualcosa
che ci capita per ragioni che forse arriviamo a conoscere, ma che non possiamo
controllare.
L’insicurezza delle condizioni di vita, insieme con l’assenza di una valida
istituzione che controlli tutto ciò, arreca un danno alla politica di vita, come è
testimoniato dalla già descritta situazione dell’identità postmoderna. Bauman cita in
seguito Kenneth J. Gergen il quale, per la definizione della precarietà lavorativa, conia
l’espressione di “plasticità”: infatti, spostandosi da un posto di lavoro all’altro o
considerando i cambiamenti all’interno del proprio posto di lavoro, l’individuo subisce
una sfida di differenti richieste comportamentali, per le quali è celebrata la versatilità.
Bauman si pone poi a confronto con Niklas Luhmann per il quale, data la
molteplicità dei ruoli che svolgiamo e dei contesti in cui li svolgiamo, ciascuno di noi è
ovunque “parzialmente dislocato”. Bauman modifica però tale affermazione sostenendo
che, date le molteplici opportunità in concorrenza tra loro, siamo tutti “parzialmente
deprivati”, dal momento che la nostra condizione viene misurata dalle infinite
possibilità tentatrici e non sperimentate che si presentano in ogni parte. Tutto ciò porta
ad una insicurezza endemica. Nelle parole di Bauman: <<al cuore della politica di vita
troviamo un desiderio forte e inestinguibile di sicurezza, ma agire in base a quel
desiderio rende maggiormente insicuri, e sempre più profondamente insicuri>>21.
Nel tentativo di sfuggire a questa insicurezza non si può più ricorre alla
conformità della vox populi, giacché non si può più contare sulla inoppugnabilità delle
21 Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 2000, pag. 31.
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sue asserzioni. Anche l’altra via di fuga, consistente nell’aggregazione di tutti coloro
che sono compartecipi e coinvolti, è a parere di Bauman impraticabile. Indifferenza ed
irritazione, infatti, sono caratteristiche comuni, ma l’attuale genere di insicurezza non è
il materiale di cui sono fatte le cause comuni, le posizioni unitarie e l’azione solidale.
Per quanto riguarda il secondo dei tre termini, la certezza, anch’essa risulta
carente nella postmodernità. Bauman cita a proposito un passo della pagina economica
dell‘”International Herald Tribune”, secondo cui l’adozione della moneta unica
nell’Unione europea avrebbe provocato per i paesi europei non facenti parte
dell’Unione un ridimensionamento complessivo ed un aumento della disoccupazione.
I fautori della liberalizzazione mondiale dei movimenti del capitale non parlano
infatti di certezza; i loro motti sono “trasparenza” (nel senso di un mondo che non pone
ostacoli agli operatori di mercato) e “flessibilità” (nel senso che nulla se non la
valutazione degli effetti economici può porre limiti alle decisioni degli operatori di
mercato). Trasparenza e flessibilità ridistribuiscono le certezze derivanti dalle azioni,
dal momento che promettono maggiore certezza per i “globali” per scelta, e maggiore
incertezza per i “locali” per necessità. Si verifica così una polarizzazione tra e dentro la
società, per la quale l’incertezza relativa all’esito delle azioni viene aggravata, a parere
di Bauman, da una “metaincertezza”: l’incertezza sul grado di certezza che può essere
rivendicata come propria.
L’incertezza non è, tuttavia, una condizione prettamente postmoderna; essa era
infatti presente anche nelle epoche precedenti. La vera novità consiste nell’abolizione
delle istituzioni destinate a limitare il grado di incertezza, ed a impedire la ricerca di
nuove soluzioni che consentano un suo controllo. Infatti, le istituzioni elogiano come le
forze neoliberali il libero movimento del mercato, causa prima dell’incertezza
esistenziale, cioè dell’incertezza come condizione naturale dell’uomo.
Bauman, a proposito di ciò, cita Pierre Bourdieu, secondo cui nella
postmodernità vengono rimossi uno dopo l’altro tutti gli ostacoli alla libera circolazione
del capitale: gli stati-nazione; i gruppi di lavoro, con l’individualizzazione dei compensi
e delle carriere sulla base delle competenze individuali, e quindi con la conseguente
atomizzazione dei dipendenti; i collettivi di difesa dei diritti dei lavoratori: sindacati,
associazioni, cooperative; e la famiglia che, in seguito alla ristrutturazione dei mercati
per fasce d’età, ha perso gran parte del controllo sul consumo.
5
Tutto ciò ha come conseguenza la precarizzazione delle condizioni di vita delle
persone, tramite i contratti a termine, la spinta alla competizione tra rami e settori della
stessa azienda o la minaccia costante del licenziamento a tutti i livelli della gerarchia.
Bauman riprende ad esempio di tutto ciò la dichiarazione di Margaret Thatcher secondo
cui non esisteva un qualcosa come la società.
In conclusione egli afferma che il mercato prospera sull’incertezza (chiamata di
volta in volta competitività, deregolamentazione, flessibilità ecc.) e ne produce sempre
di più per la propria sopravvivenza. L’unica uguaglianza favorita dal mercato è quindi
una condizione identica di incertezza esistenziale, condivisa tanto dai vincitori, sempre
“fino a ulteriore avviso”, quanto dai vinti.
Per quanto riguarda il terzo termine, l’incolumità, secondo Bauman essa nella
postmodernità è a rischio. Per spiegare ciò egli compie una breve digressione sulla
scoperta da parte degli esseri umani della mortalità. La creatività culturale umana, di
fronte a questa scoperta, ha messo in atto diverse strategie, e le principali sono quella
eteronoma e quella eteronoma/autonoma, secondo la terminologia di Cornelius
Castoradis. La prima è quella posta in atto dalla religione, la quale propone un’eternità
che segue la vita degli individui. La seconda si è invece verificata con l’avvento della
modernità, quando le garanzie offerte dalla strategia religiosa eteronoma entrarono in
contrasto con una vita mutevole ed instabile. Tale strategia insisteva ancora
sull’inserimento di ogni vita individuale in una catena dell’essere, ma era allo stesso
tempo autonoma, poiché insisteva sull’origine umana della totalità in questione.
Due furono le totalità che si adattarono a questa strategia: la nazione e la
famiglia. Per quanto riguarda la nazione, essa ha saputo coniugare durevolezza e
transitorietà, e ha fatto sì che si verificasse la ricerca per mescolare comunità e
tradizioni organizzate su base locale, per trasformarle in entità sovralocali.
L’appartenenza nazionale aveva il vantaggio di essere a disposizione di tutti, senza
distinzione, e necessitava conformismo, rispetto delle regole ed osservanza dei limiti.
La famiglia esibisce ancora più chiaramente della nazione la dialettica moderna
tra transitorietà e durevolezza. Con l’avvento della modernità, la centralità della
famiglia nella vita individuale venne democratizzata, trasformandosi in un precetto
culturale rivolto a tutti gli individui, indipendentemente dalla presenza di un patrimonio
ereditario.
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Bauman passa in seguito a descrivere la situazione, ben diversa, della
postmodernità. Oggi, infatti, queste totalità stanno andando in pezzi e non sono più
immuni da rischi, e contemporaneamente la loro capacità di attribuire senso sta
svanendo. Inoltre, la comunità è vulnerabile, erratica e di breve durata. La sovranità
politica degli stati, ad esempio, non è più un riparo sicuro per le nazioni poiché i
fondamenti su cui si fondava la sua autosufficienza economica, culturale e militare sono
stati eliminati uno dopo l’altro. La comunità nazionale ha quindi perso la funzione di
attribuire senso.
La famiglia si trova in una condizione altrettanto sfavorevole, per la facilità con
cui si forma e si disgrega. Bauman precisa però che ciò non significa che gli individui
postmoderni che hanno scelto l’isolamento abbiano perso l’entusiasmo per qualunque
cosa che non duri più a lungo del loro appagamento individuale; piuttosto essi, isolati
per volere della situazione generale, trovano nel loro mondo pochi o nessun elemento
che potrebbe rendere la loro passione realistica, e pochi ripari per la loro fiducia nella
longevità.
Bauman propone quindi la sua tesi per quanto riguarda la strategia presente nella
postmodernità, ovverosia quella autonoma. Essa, a suo parere, è concretizzata
nell’ossessione attuale per il corpo, per il suo benessere, la sua capacità di difendersi, la
sua integrità, ossessione intrecciata con la vigilanza contro minacce ai danni di
quell’integrità. “Autonomo” significa in questo caso autosufficiente o autoreferenziale.
Egli afferma: <<Poiché la prospettiva di costruire una comunità veramente duratura ed
extratemporale sta sfumando e appare sempre più incerta, le riserve attualmente
inutilizzate di energia continua generata dall’insicurezza endemica dell’esistenza umana
vengono trasferite nel regno dell’io (...)>>22. Ciò si concretizza nella difesa dagli
alimenti avvelenati, dalle sostanze ingrassanti o dai regimi di vita insani.
Bauman fa riferimento, a questo proposito, alle ricerche di Decca Aitkenhead
sugli incontri di Weight Watchers e di simili associazioni in Gran Bretagna, i quali sono
più di seimila a settimana. Aitkenhead nota che quello che nessuno degli appartenenti a
questi gruppi chiede è di smettere di preoccuparsi per il peso, e Bauman sostiene che ciò
non è assolutamente semplice, poiché l’aspetto essenziale della preoccupazione per il
peso è appunto il fatto che non si può fare a meno di preoccuparsi di esso. Infatti, a
22 Ivi, pag. 50.
5
parere di Bauman, gli individui postmoderni devono avere qualcosa che essi ritengano
alla loro portata e sotto il oro controllo di cui preoccuparsi
Il grasso è un campione ben scelto, in quanto dirige la propria attenzione sul
corpo. Esiste però una domanda di preoccupazioni sostitutive sempre nuove, tutte
collegate alla difesa del corpo. I pericoli che si combattono sono infatti generalmente
provenienti dall’esterno del corpo. La preoccupazione ossessiva per il corpo risulta
insomma essere un ricettacolo delle paure generate dalla privatizzazione della precarietà
dell’esistenza.
Bauman propone in seguito un paragone tra il popolo dei Weight Watchers e le
comunità. I membri di tali associazioni, infatti, si recano regolarmente alle riunioni,
partecipano ai rituali settimanali e accettano le stesse norma comportamentali. Ma la
somiglianza con la comunità modello, secondo Bauman, finisce qui. La “comunità” dei
Weight Watchers, infatti, riproduce collettivamente quegli interessi che per loro natura
possono essere gestiti solo individualmente: è quindi una comunità “non più grande
della somma delle sue parti”. Gli appartenenti, dopo ogni incontro, sono ancora più
convinti che qualsiasi miglioramento della loro condizione dipenda solo da loro. Il caso
del grasso dimostra quindi che, una volta privatizzato ed affidato alle capacità
individuali il compito di affrontare la precarietà dell’esistenza, le paure individuali non
possono essere convogliate in una causa comune.
La sola forma di comunità che si verifica in queste situazioni è definita da
Bauman “comunità-attaccapanni” o “comunità-piolo”: un gruppo che si costituisce
mediante la ricerca di un piolo al quale appendere le paure di molti individui. A volte
emergono altre problematiche che mostrano una causa comune più credibile, cioè un
problema che possa essere risolto con un agire collettivo. Tali problematiche possono
nascondere le vere afflizioni e preoccupazioni, e vengono pubblicizzate come minacce
per il benessere pubblico: ad esempio un riciclaggio di sostanze velenose nelle
vicinanze o la creazione di un campo nomadi. Esse possono generare però solo
aggregati fugaci ed effimeri, incapaci di rimandare ad una reale “comunità”.
Bauman propone in seguito una sorta di compendio di ciò che riguarda
l’incertezza postmoderna. Egli sostiene che, sia nel caso della precarietà privatizzata,
che in quello dell’incertezza o dell’insicurezza, gli individui non possono fare molto per
modificare tali situazioni, dal momento che non sanno dove dimorino le minacce in
5
questione. Tale atteggiamento a parere di Bauman non è ingiustificato, poiché gli
individui non possono fare molto se l’impresa per cui lavorano ha deciso un ulteriore
ridimensionamento, oppure se il loro know-how viene svalutato e la domanda di
mercato per le loro capacità si esaurisce. Assume così significato il rifugio in pratiche
quali, ad esempio, l’astrologia, la chiromanzia o i biglietti della lotteria.
Il trasferimento dell’ansia dall’insicurezza globale alla sicurezza personale,
mediante “legge e ordine”, può essere inoltre spiegato in vari modi. Le minacce alla
sicurezza personale hanno il vantaggio di essere materiali e tangibili, e possono essere
affrontate con una relativa facilità. Siamo, quindi, oggi di fronte ad una sorta di
“sovraccarico di sicurezza personale”, per descrivere il quale Bauman cita Ronald
Hitzler, che afferma che la nuova strategia di sopravvivenza urbana dell’individuo è
costituita dall’isolarsi tramite sistemi di sicurezza, allarmi e varie serrature.
Poi, per la distinzione già affrontata tra potere globale e politica locale, è
comprensibile che tali autorità politiche locali non possano fare molto per attutire
l’incertezza globale. Addirittura analizzando le promesse elettorali dei politici di
aumentare le flessibilità del lavoro favorendo il liberismo o creando condizioni
favorevoli per i capitali stranieri, si possono cogliere i segni di una maggiore insicurezza
ed incertezza. I poteri statali locali si spostano allora nell’ambito della sicurezza della
collettività, chiudendo le frontiere ai migranti, inasprendo le norme sul diritto d’asilo ed
espellendo gli stranieri indesiderati.
Bauman, per quanto riguarda tale xenofobia, si serve di un esempio proposto da
Phil Cohen riguardante i giovani londinesi. Egli parla di un intervistato alla ricerca di
una definizione di “britannicità” che includesse se stesso ed escludesse una categoria
cospicua di persone di diverse razze. Cohen spiega questa determinazione col fatto che
tale costruzione aiutava il giovane a sentirsi parte di qualcosa di più grande di lui.
In conclusione Bauman afferma: <<Oggi, il crimine non è più stigmatizzato e
condannato in quanto violazione della norma, ma in quanto minaccia alla sicurezza
personale. (...) E’ palese la tendenza universale a “trasferire tutti gli affari pubblici
nell’ambito della giustizia penale”: a criminalizzare tutti i problemi sociali, e in
particolare quei problemi che sono giudicati, o che possono essere costruiti, come
minacce alla sicurezza della persona, del suo corpo e dei suoi beni>>23. Per fare un
23 Ivi, pag. 59.
5
esempio, un’indagine condotta dalla televisione pubblica nel 1997 mostrava come i
danesi fossero più preoccupati per la presenza degli stranieri che per la crescente
disoccupazione, il degrado dell’ambiente o altri problemi.
Passando all’analisi compiuta da Bauman all’interno di La società
dell’incertezza riguardo a tale argomento, egli afferma che il clima attuale di assedio
della paura, espressione coniata da Marcus Doel e David Clarke, è causato da vari
aspetti, tra cui un mondo che non sembra possedere possibilità di decisione e controllo o
il non potere più calcolare le conseguenze delle azioni in base alle abitudini conseguite.
Bauman propone quattro fattori principali responsabili di tale situazione.
1) Il nuovo disordine mondiale. Egli afferma che dopo mezzo secolo di
suddivisioni nette, confini naturali e strategie politiche, il mondo è diventato privo di
ogni struttura. Inoltre i conflitti civili sono dilaganti nelle aree meno sviluppate del
mondo. Il “secondo mondo” non c’è più, dal momento che i principali paesi che ne
facevano parte si sono risvegliati “nel tunnel alla fine della luce”, secondo l’espressione
di Claus Offe. Ma, con la fine del secondo mondo, anche il “terzo mondo” esce dalla
scena politica mondiale. Il risultato attuale è che circa venti paesi ricchi, ma preoccupati
ed insicuri, si confrontano con il resto del mondo, che da un lato non rispetta più le loro
definizioni di progresso e felicità, dall’altro è sempre più dipendente da loro per
conservare una possibilità di felicità o di sopravvivenza.
2) La deregulation universale. La priorità accordata alla competizione di mercato,
la libertà garantita al capitale ed alla finanza a scapito di tutte le altre libertà e lo
smantellamento delle reti sociali di fiducia costruite collettivamente, hanno portato
avanti il processo di polarizzazione. La disuguaglianza tra continenti, nazioni e
all’interno della società ha raggiunto proporzioni che la società moderna, con la sua
capacità di autoregolazione e autocorrezione, sembrava avere superato per sempre. Ciò
porta alla grande diffusione di individui senza fissa dimora, esclusi dal mercato del
lavoro o al di sotto della soglia di povertà. Inoltre, a causa della nuova situazione del
mercato lavorativo, i mezzi di sostentamento, la posizione sociale ed il riconoscimento
delle capacità possono svanire.
3) Le reti di protezione, tradizionalmente messe a disposizione dai rapporti
familiari o dalle reti di vicinato, hanno subito una perdita considerevole d’importanza.
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Parte della responsabilità è da attribuire alla già descritta nuova pragmatica delle
relazioni interpersonali, dominate dallo spirito del consumismo.
4) Bauman cita ora David Bennet, per il quale l’incertezza radicale riguardante i
mondi sociali e materiali in cui abitiamo e le modalità di azione politica è quella che
l’industria dell’immagine ci propone. Infatti, il messaggio veicolato dai media culturali
(e facilmente fruibile dai ricettori sulla base della loro esperienza personale, sostenuta
dal principio della libertà del consumatore), propone un mondo in cui ogni cosa può
accadere, ogni azione può essere intrapresa, anche se magari non definitivamente. In
questo tipo di mondo, quindi, poche cose rimangono solide ed affidabili. A ciò si
ricollega il già descritto nuovo tipo di identità, da Bauman qui definito identità a
palinsesto. Quindi, le posizioni che nella vecchia modalità di esperienza sostenevano il
significato del mondo, nella nuova modalità esperienziale perdono molto del loro
significato. Bauman si riferisce qui a Baudrillard, il quale parla di una implosione delle
opposizioni creatrici di senso. A ciò si aggiunge anche la nuova concezione dello
straniero.
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CAPITOLO 9
LA RELIGIONE NELLA POSTMODERNITÀ E LA DECOSTRUZIONE
POSTMODERNA DELL’IMMORTALITÀ
Bauman propone una dettagliata analisi del ruolo della religione nella
postmodernità all’interno di Il disagio della postmodernità. Egli inizia citando una
concezione di Anthony Giddens, secondo la quale la nostra vita quotidiana è in uno
stato chiamato sicurezza ontologica, ossia nella convinzione dell’affidabilità delle
persone e delle cose e in una fiducia nella solidità del mondo confermata dalla
prevedibilità delle routine quotidiane. L’antitesi della fiducia ontologica è invece
l’angoscia esistenziale. Quando, in conformità al moderno spirito utilitario, si chiede
alle chiese di ogni fede di indicare le necessità umane alle quali provvedono, esse
rispondono che i loro servizi sono indispensabili all’uomo a causa del suo bisogno di
trovare una risposta alle domande fondamentali sul fine del mondo e sul destino umano.
A parere di Bauman, anche le chiese, come tutti i fornitori di beni e di servizi,
dovrebbero cominciare ad estendere i bisogni che i servizi da esse forniti devono
soddisfare, e in tal modo rendere indispensabile la propria funzione.
Bauman, a proposito del potere pastorale che la chiesa cristiana ha elaborato,
cita Michel Foucault, il quale sostiene che tutte le tecniche cristiane di confessione e di
guida spirituale hanno come scopo una svalutazione della vita terrena in confronto a
quella eterna. Così, per suscitare nelle persone il bisogno di un pastore, occorre suscitare
in esse la speranza della salvezza, inducendole a preoccuparsi della propria redenzione.
Le chiese, in questo modo, hanno fatto ciò che era in loro potere per impregnare di
timore per la propria impotenza la vita umana, e per porre agli uomini fini che non
potranno mai raggiungere da soli, rendendo la paura della propria non autosufficienza il
tema conduttore delle loro azioni.
Tuttavia, non tutte le strategie dello stare nel mondo sono di natura religiosa. In
particolare, la formula moderna dell’esistenza umana si è basata su una strategia del
tutto opposta, consistente nel fatto che gli esseri umani sono gli unici a cui è toccato in
sorte di occuparsi e di risolvere i problemi del mondo in cui vivono. Ma ancora più
essenziale del presupposto era l’effetto pratico della strategia, cioè che gli uomini
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devono occuparsi solo delle cose che è in loro potere risolvere. Ciò si risolse nel rifiuto
di occuparsi di problemi privi di significato pratico.
Bauman riprende una proposta di John Carrol, riguardante la rivoluzione
moderna, chiamata “umanesimo”. Quest’ultimo è considerato un periodo in cui la
posizione centrale occupata dall’uomo porta come conseguenza il fatto che esso dovesse
rappresentare il punto di Archimede, attorno al quale tutto ruotava. Secondo Bauman
tale descrizione necessita di alcune precisazioni. Infatti, in questo mondo che gli
umanisti intendevano creare a misura d’uomo, non tutto doveva essere soggetto alla
volontà umana: era quest’ultima che doveva rivolgersi solo a questioni che potevano
essere controllate dall’uomo al fine di aumentare la propria felicità. La concezione
umanistica aveva così trasformato la proposta di Protagora sull’”uomo misura di tutte le
cose” in un precetto pratico.
Di conseguenza, nell’elenco redatto da Carrol su ciò che, secondo gli umanisti,
l’uomo poteva raggiungere secondo la propria volontà, manca il fulcro di ogni
concezione religiosa: la vita eterna. L’umanesimo esaminava, infatti, non tanto la
possibilità di diventare qualunque cosa si desiderasse, quanto il desiderare solo cose alla
portata delle possibilità umane. L’entusiasmo degli umanisti fu quindi un segno del
collasso dell’ordine premoderno e dell’emergere del nuovo ordine moderno, diverso dal
precedente per il fatto di essere stabilito: non un ordine considerato indiscutibile perché
indipendente dalla volontà umana, ma un ordine che andava verificato su progetti
costruttivi. In questo processo la religione era di scarsa utilità.
Bauman prende poi in considerazione una proposta di Alan Touraine sugli
impieghi della religione, i quali sarebbero di tre tipi.
Primo: comportamenti di dipendenza dell’uomo in rapporto ad un ordine
considerato come immutabile ed inconfutabile. Proprio una routine del genere venne
infranta con l’avvento della modernità.
Secondo: la congregazione religiosa può svolgere il ruolo di rendere sicuri i muri
tra le differenti categorie sociali. Con l’avvento delle condizioni moderne, tuttavia, la
struttura sociale rigida è stata erosa e, quindi, il concetto religioso del “concatenarsi di
esistenze prestabilite” contrastava con l’esperienza quotidiana. Bauman qui si pone in
opposizione a Touraine, poiché sostiene che il restringersi del ruolo della religione non
era dovuto tanto al fenomeno della “scristianizzazione”, come egli suggerisce, quanto
6
alla profonde trasformazioni delle condizioni di vita e dei compiti esistenziali, che
causavano un divario tra l’interpretazione religiosa del mondo e l’esperienza quotidiana
degli individui.
Il terzo impiego della religione viene indicato da Touraine come il timore del
destino umano. Anche questa funzione subisce un progressivo isolamento rispetto
all’insieme della vita umana; ecco così che le religione diviene attività orientata e non
regolata, frutto di scelte personali.
Bauman considera poi il processo moderno che coinvolse la religione una
rivoluzione antiescatologica. Per prima cosa egli tratta della modalità premoderna del
vivere in timore di Dio, la quale focalizzò l’attenzione sulla mortalità, sulla penitenza,
sulla redenzione e sulla salvezza ultraterrena al punto di creare nel tardo Medioevo una
“cultura del peccato e della paura”, come Bauman la definisce utilizzando un’analisi di
Jean Delumeau. L’insistenza sul macabro si iscrisse quindi in una logica volta ad
insinuare nell’uomo cristiano il senso di colpa, orientandone la vita verso una salvezza
oltremondana. Tutto ciò produsse però effetti contrari alle intenzioni degli ecclesiastici.
Il primo di questi effetti fu il compiacimento fine a se stesso per gli spettacoli di dolore,
culminanti in scene di torture, esecuzioni capitali e massacri.
La modernità smontò l’imponente edificio che la Chiesa aveva costruito durante
il suo lungo regno soffocando la fascinazione per la vita oltremondana, appuntando
l’attenzione sulla vita “qui e ora”, riorganizzando il corso dell’esistenza umana attorno a
narrazioni dai contenuti terreni e tentando di neutralizzare la paura della mortalità. Tale
effetto fu ottenuto grazie a tre strategie.
Prima strategia: come tutto nella vita moderna, anche i processi connessi alla
mortalità sono stati sottoposti ad una divisione del lavoro e sono diventati un settore per
specialisti, come medici, suore di carità o altri professionisti.
Seconda strategia: come nel caso di altri “interi”, la mortalità è stata
parcellizzata in una serie di “pericoli per la vita”.
Terza strategia: la mortalità è diventata un evento vissuto in forma privata e
segreta, anche se oggi la televisione e tutti gli altri mass media la propongono
quotidianamente. Essa ha quindi subito una specie di declassamento, scendendo al
livello di un evento quotidiano e manifestandosi in una serie di fatti privi della
tradizionale irrevocabilità.
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Bauman passa ora ad affrontare la nuova situazione postmoderna. Egli inizia
affermando che la vita degli uomini e delle donne premoderni conteneva un numero
relativamente basso di fattori mutevoli ed incerti. L’unica incertezza che si notava era
quella esistenziale, cioè l’incertezza ontologica, fattore che andava a vantaggio della
narrazione escatologica. Tutto ciò cambia nella postmodernità. Ora, come si è già
considerato in precedenza, a riempirsi di incertezze è la vita di ogni persona. Gli
ostacoli alla possibilità di comprendere il mondo all’interno delle biografie individuali
sono un prodotto dell’uomo, testimonianti non tanto la debolezza umana, quanto
l’umana onnipotenza. La non autosufficienza ed il bisogno di una guida che ne derivano
hanno subito una sorta di privatizzazione: non riguardano più il genere umano in
generale, ma ogni singola persona.
Bauman si serve a proposito di una citazione di Arnold Gehlen, il quale già nel
1957 affermava: <<un numero sempre minore di persone agisce in base a propri criteri
orientativi interni (...) Ma perché sono sempre meno? E’ chiaro: perché è sempre più
difficile abbracciare intellettualmente l’atmosfera economica, politica e sociale e
assumere un atteggiamento morale nei suoi confronti, dato che essa cambia con una
velocità vertiginosa (...) In un mondo dove accadono cose del genere, nessun criterio
orientativo riconosciuto affidabile dall’uomo trova quel minimo di appoggio esterno
senza il quale esso non può sopravvivere>>24. Ciò trova una corrispondenza nel
fenomeno già affrontato della nascita dell’identità, la quale secondo Bauman è la più
importante scoperta dell’epoca moderna per quanto riguarda le conseguenze esistenziali.
Per “nascita dell’identità” egli intende l’instaurarsi di una situazione dove d’ora in poi
saranno le capacità individuali ed il potere di giudicare a decidere quale tra le forme di
esistenza individuale si debba realizzare, e in quale misura le scelte individuali debbano
colmare il vuoto lasciato dai criteri orientativi esistenti in precedenza.
L’incertezza degli uomini e delle donne postmoderni viene da essi affrontata
attraverso l’aiuto delle consulenze, le quali hanno subito una grande crescita in questo
periodo, spesso sostituendo le spiegazioni trascendenti. Ciò è incrementato anche dal
fatto che nella società postmoderna gli individui sono formati sul modello del
ricercatore di esperienze, invece che su quello dell’operaio/soldato imperante durante
24 Arnold Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica: problemi socio-psicologici della civiltà industriale, SugarCo, Milano, 1984, cit. in Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano, 2002, pag. 214.
6
l’epoca moderna. Infatti, i criteri con cui si valutano i ricercatori di esperienze ed i
collezionisti di sensazioni sfuggono ad ogni quantificazione, rendendo così impossibile
il paragone tra individui ed una loro valutazione obiettiva; tale circostanza rende
continuo il bisogno di esperti e di consulenti.
Bauman cita in seguito Abraham H. Maslow, il quale nota che i casi di
rivelazioni ed estasi nelle vite dei santi ed in seguito sperimentate, anche se in modo più
attenuato, da schiere di fedeli, possono essere intese come esperienze umane estreme ma
del tutto normali. Maslow continua affermando che la religione organizzata può essere
considerata lo sforzo di trasmettere esperienze estreme a chi non le può vivere. Bauman,
tuttavia, si pone in una posizione polemica rispetto a tali affermazioni. Egli ritiene,
infatti, che Maslow si serva di concetti tipicamente postmoderni per reinterpretare a
posteriori esperienze sperimentate da persone che non disponevano delle definizioni
teoriche necessarie a descriverle, poiché vennero create molto più tardi. Agli abitanti del
mondo postmoderno, infatti, pare sensato riconoscere nell’estasi descritta come
religiosa un antecedente delle sensazioni che i precetti dell’”economia libidinaria”
dominanti nella cultura postmoderna impongono loro di ricercare. Il punto è, a parere di
Bauman, se sia lecito accettare il procedimento inverso, ovverosia interpretare come
religiose le esperienze dei postmoderni collezionisti di sensazioni.
Bauman propone ora la sua ipotesi: <<intensificando la richiesta di “esperienze
estreme”, la cultura postmoderna ha sganciato tali esperienze dagli interessi e dalle cure
religiose e ne ha al contempo privatizzato la ricerca, affidando principalmente a
istituzioni non religiose i servizi indispensabili alla ricerca stessa. (...) La strategia
postmoderna delle “esperienze totali” si differenzia dalla strategia religiosa nel senso
che non solo non predica più l’insufficienza dell’uomo, ponendo lo stato ideale al di là
delle sue possibilità, ma incita al pieno sviluppo delle risorse psichiche e fisiche
dell’individuo celebrando l’infinità del potenziale umano e la realtà delle esperienze più
allettanti>>25.
Le organizzazioni religiose che ripetono argomenti sull’insufficienza dell’uomo
non sono le più adatte a trasmettere le “esperienze estreme”; così chiunque sostituisca
gli organi ecclesiastici in questo ruolo dovrà, secondo Bauman, in primo luogo indurre
la gente non solo a desiderare di raggiungere tali esperienze, ma anche a considerarle il
25 Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità, cit., pag. 218.
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punto di confronto per una vita riuscita. In secondo luogo, dovrà separare il sogno
dell’esperienza estrema dalle pratiche di autorinuncia religiosa, associandolo invece al
desiderio di beni materiali ed al gioire del consumismo. I modelli ed i profeti delle
esperienze estreme sono insomma rappresentati dall’élite consumista.
Inoltre, in modo più o meno esplicito, le pubblicità suggeriscono una variante
postmoderna della trascendenza, secondo la quale arrivati ad un certo punto l’aumento
quantitativo di sensazioni produrrà un cambiamento qualitativo, provocando delle
esperienze non solo relativamente più piacevoli ed interessanti, ma anche totalmente
nuove. In ciò il consumatore postmoderno può essere aiutato da beni e servizi “meta -
esperienziali”, i quali hanno il compito di sviluppare le capacità fisiche e psichiche per
renderle più adatte a svolgere i compiti richiesti.
Bauman nota però che la somiglianza tra queste istituzioni di
autoperfezionamento e le istituzioni religiose è solo superficiale. Infatti, tali movimenti
sono espressione della grande diffusione attuale di consulenze, con l’unica differenza
che essi non aiutano nel compiere scelte i consumatori postmoderni “già pronti”, ma si
applicano a fornire ai loro clienti le doti consumiste di base, a sviluppare la capacità di
scegliere, ed a preparare gli individui ad una vita impostata sulle scelte. Essi così
affermano, contrariamente alle religioni organizzate, che l’uomo è autosufficiente, o che
comunque può diventare tale grazie all’aiuto di specialisti.
Esiste tuttavia anche una forma di religione postmoderna, generata dalle
contraddizioni interne della vita postmoderna, ed è rappresentata, a parere di Bauman,
dal fondamentalismo o integralismo. Quest’ultimo è un fenomeno del tutto
contemporaneo e postmoderno, il quale ha assimilato e posto al proprio servizio le
scoperte tecniche della modernità. Esso cerca di goderne le conseguenze positive senza
pagare il prezzo che molti altri accettano giudicandolo inevitabile, ovverosia le
responsabilità individuali per le proprie scelte e per le loro conseguenze.
I responsabili degli odierni fondamentalismi sono i poveri della
contemporaneità, cioè coloro che sono stati esclusi dal meccanismo consumistico: i
consumisti imperfetti. Gli ambienti deprivati sono così un fertile terreno per le diagnosi
fondamentaliste ed una riserva di reclutamento per i movimenti fondamentalisti. Si
tratta, infatti, di movimenti adatti alle sofferenze dell’uomo postmoderno. Al pari delle
altre religioni, il fondamentalismo proclama l’insufficienza dell’ uomo; qui però si tratta
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dell’insufficienza dell’uomo in quanto consumatore. L’esperienza in questione è quella
della libertà postmoderna di scelta, la quale dimostra appunto la nostra insufficienza,
con la differenza che, contrariamente a quanto facevano gli insegnamenti ecclesiastici
tradizionali, non denuncia l’impotenza del genere umano, ma la debolezza
dell’individuo contrapposta all’onnipotenza della specie umana in sé.
Analizzato in tale maniera, il fondamentalismo svela le paure nascoste degli
uomini e delle donne postmoderni. Esso, inoltre, si limita a portare alle sue radicali
conseguenze il culto dell’expertise, cioè della consulenza e dell’autoaddestramento,
praticato sotto la guida di specialisti a tutti i livelli della cultura postmoderna. Il
fondamentalismo seduce perché promette ai suoi convertiti di liberarli dalla libertà,
proponendo un precetto incondizionatamente giusto. Esso risulta quindi essere un
rimedio radicale contro il flagello della società consumista postmoderna basata sul
mercato.
Il fondamentalismo religioso appartiene al gruppo delle soluzioni totalitarie o
quasi–totalitarie, al quale appartengono oggi i fondamentalismi etnici, razziali e tribali,
tutti costituiti in opposizione allo stato secolare ed alla categoria di cittadinanza; tali
fondamentalismi si differenziano dai loro predecessori, come il fascismo o il
comunismo, per il fatto che questi ultimi erano interamente moderni nel loro appello al
potere legislativo ed alle soluzioni garantite dal potere statale. Nella sua versione
fondamentalista, la religione non è una questione personale, privatizzata come tutte le
altre scelte individuali e praticata in privato, ma qualcosa che stabilisce le leggi che
regolano ogni sfera, scaricando la responsabilità dal singolo individuo.
All’interno di Intervista sull’identità Bauman analizza il nuovo atteggiamento
postmoderno nei confronti del sacro. Egli sostiene che il sacro è un concetto dibattuto e
sul quale è difficile trovare un accordo. Propone quindi una teoria del filosofo russo del
secolo scorso Michail Bachtin, la quale descrive la “paura cosmica”, un’emozione
umana, generata dall’ultraterrena, inumana, magnificenza dell’universo. E’ un universo
le cui intenzioni sono sconosciute: la “paura cosmica” è dunque, nella spiegazione di
Bauman, il terrore dell’ignoto, dell’incertezza. E’ anche il terrore dell’impotenza, di cui
l’incertezza è uno dei fattori costitutivi. Bauman arriva così ad affermare che il sacro è il
riflesso di questa esperienza di impotenza.
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Nell’analisi di Bachtin, la paura cosmica viene utilizzata da tutti i sistemi
religiosi. L’immagine di Dio è, quindi, plasmata sul modello della familiare emozione
di paura e di vulnerabilità che si prova di fronte ad un’incertezza. Per quanto riguarda il
sacro nella modernità, esso non è stato del tutto annullato, poiché la ricerca di prove che
“Dio non esiste” o “Dio è morto” è stata lasciata solo alle frange più radicali. Ciò che la
cultura moderna ha fatto è stato, invece, rendere Dio irrilevante per gli affari umani
sulla terra. Questa strategia ha condotto a grandi risultati nella scienza e nella
tecnologia, ma ha avuto anche ben altre conseguenze sulla vita degli esseri umani.
L’autorità del sacro, ed in generale l’interesse per l’eternità e per i valori eterni, sono
state le prime vittime di tutto ciò.
La strategia moderna consiste nello sminuzzare le grandi questioni trascendenti
il potere umano in questioni più piccole a portata dell’uomo. Le grandi questioni, in
questa maniera, vengono tolte dall’elenco delle preoccupazioni. Ad esempio, il valore
della durevolezza è nettamente svalutato dalla velocità del cambiamento: in tale maniera
“vecchio” o “durevole” diventano sinonimi di “superato”. La regola del “rinvio della
gratificazione”, nella postmodernità, non sembra più un consiglio assennato come
appariva all’epoca di Max Weber. Le cose, infatti, vengono consumate subito, prima
che il loro potenziale di gratificazione svanisca come di sicuro farà presto. A parere di
Bauman, questa è la sfida più grande che il sacro abbia affrontato nel corso della sua
storia.
Ciò deve addebitarsi al fatto che siamo stati addestrati a smettere di preoccuparci
di cose che apparentemente rimangono al di là del nostro potere, ed a focalizzare la
nostra energia sui compiti alla nostra individuale portata, competenza e capacità di
consumo. Tutto questo si concretizza anche nel fatto che chiediamo che le cose e le
tematiche, prima di ottenere il nostro interesse, ci spieghino perché dovrebbero
meritarlo, ed esse possono farlo offrendoci una prova convincente della loro utilità.
Secondo Bauman, è troppo presto per dire cosa gli uomini potrebbero scoprire o in
quale condizione potrebbero trovarsi vivendo in una tale situazione.
Anche in quest’opera Bauman riprende la tematica del fondamentalismo,
approfondendone altre caratteristiche. Egli inizia affermando che tutte e tre le grandi
religioni – cristianesimo, islam ed ebraismo – hanno i loro fondamentalismi, ed avanza
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l’ipotesi che il fondamentalismo religioso contemporaneo sia l’effetto combinato di due
sviluppi in parte collegati ed in parte separati tra loro.
Uno di questi sviluppi è l’erosione del solido canone che tiene insieme la
congregazione dei fedeli: i suoi margini si fanno, infatti, sempre meno precisi e le
commettiture si allentano. Le sette, che le Chiese considerano giustamente la maggiore
minaccia alla loro unità, si moltiplicano, e le Chiese ripiegano su posizioni di assedio o
di controriforma.
Un altro sviluppo può essere ricondotto alla già affrontata modalità di vita
postmoderna, per la quale si diventa sceglitori involontari/compulsivi in un ambiente
sociale deregolamentato, frammentato ed incontrollabile. La vita di uno sceglitore,
nonostante i suoi numerosi vantaggi, è una vita insicura che porta ad una mancanza di
fiducia nelle cose ed in sé. Il fondamentalismo, anche quello religioso, offre appunto
quella fiducia di cui si sente la mancanza, e fa ciò invalidando preventivamente tutte le
proposte concorrenti e rifiutando un dibattito con i dissenzienti e gli “eretici”. In questa
maniera, esso instilla la sensazione di certezza ed offre un codice di comportamento
semplice.
Certe varietà di Chiese fondamentaliste sono particolarmente attraenti per quelle
popolazioni svantaggiate ed impoverite che Bauman definisce consumisti imperfetti,
come, ad esempio, i Musulmani Neri negli Stati Uniti o la sinagoga orientale in Israele,
la quale raccoglie gli immigrati sefarditi in un paese governato dagli askenaziti. Per
queste persone, le congregazioni fondamentaliste forniscono un riparo che non trovano
altrove, e raccolgono i compiti ed i doveri abbandonati dallo Stato sociale in ritirata.
Esse promettono, inoltre, di difendere i fedeli dalle “identità” conferite, stereotipanti e
stigmatizzanti imposte dalla modernità liquida. In conclusione, il fondamentalismo
(anche quello religioso) non è solo un fenomeno religioso, ed attinge la sua forza da
diverse fonti. Esso va quindi inquadrato nel contesto della nuova ineguaglianza globale
e della ingiustizia che regna nello spazio globale.
La tematica della decostruzione postmoderna dell’immortalità è affrontata da
Bauman principalmente all’interno di Il teatro dell’immortalità. Innanzitutto egli
sottolinea che la modernità ha portato ad una decomposizione dell’eternità, poiché i
progetti moderni hanno decostruito la beatitudine finale in una sequela di piccoli
benefici di cui si può trarre gratificazione in breve periodo. Poi, riprendendo una
6
proposta di Lyotard, Bauman afferma che il modo moderno di vivere verso un progetto
è stato oggi del tutto abbandonato, e per fare ciò è stato sufficiente accettare che la
beatitudine promessa un tempo dal futuro – libertà, democrazia, uguaglianza, ricchezza,
sicurezza ecc. – è arrivata. Nella società nata alla fine dell’epoca moderna è così la
beatitudine ad essere decostruita in un contenitore pieno di soddisfazioni sempre a
portata di mano.
In epoca pre–postmoderna si è avuta in una filosofia orientata al progetto un
appropriato correlato della vita orientata al progetto. Ciò si nota, infatti, nell’assonanza
tra il progetto sociale (storico) dei filosofi moderni, ed il progetto individuale
(biografico) degli uomini e delle donne moderni. I progetti fornivano così un
significato. Bauman propone ancora una volta la concezione moderna dell’identità, la
quale, sia che appartenesse alla persona o ala società, era qualcosa costruita e da
costruirsi livello per livello. La storia, in questo modo, si muoveva dallo stato selvaggio
alla barbarie e dalla barbarie alla civiltà. Dall’altro lato, l’identità costruita dalla
biografia progrediva lungo la linea della carriera professionale.
Bauman riprende ora la concezione di “integrazione spaziale” di André Leroi-
Gourhan, secondo la quale nell’esperienza di vita in un habitat tradizionale si poteva
passare da un luogo all’altro soltanto seguendo un cammino continuo ed ininterrotto.
Ogni cosa che si faceva all’interno di tale cammino aveva così una sua importanza. A
tale proposito Bauman si trova anche d’accordo con Max Weber, il quale affermava che
il protestantesimo, con il suo “pellegrinaggio della vita” in cui ogni viaggio o sosta
contava in quanto avvicinamento alla meta agognata, era in armonia con la modernità in
un modo in cui il cattolicesimo non avrebbe mai potuto essere.
Più avanti egli afferma che nel mondo postmoderno il presente non lega il futuro
più di quanto esso stesso non sia legato al proprio passato; in tale maniera la vita diventa
una successione di determinazioni che si autoelidono. Quello che il presente può offrire
lo offre ora. Così, come si è già considerato, la competenze che si acquisiscono oggi
saranno del tutto inadeguate e non porteranno lontano nel mondo nuovo della tecnologia
e dello know–how di domani; alla stessa maniera il lavoro e la carriera ottenuti
potrebbero svanire in futuro. A ciò si aggiungano anche le nuove forme di relazioni.
Viene proposta in seguito un’analisi di ciò che si intende per “fare la storia”
nelle varie epoche. Ciò significa assumere una qualche importanza per degli eventi o
6
delle azioni. Nell’universo postmoderno vissuto come sequenza di episodi, ogni evento
ed ogni attore possono, a parere di Bauman, fare la storia.
Nel mondo premoderno a fare la storia erano i re, i signori della guerra ed i papi:
la storia diveniva quindi una cronaca di dinastie. Questo concetto di storia venne mutato
dalla pratica dei cronachisti, gli scribi. Fu solo con la modernità, però, che il monopolio
del fare la storia fu del tutto infranto e che il diritto di eventi e attori ad entrarne a fare
parte divenne l’oggetto di una contesa avente come oggetto, appunto, la storicità. Il
contenuto della storia arrivò così a comprendere capi eletti, assemblee legislative, folle
popolari e classi e movimenti di massa. La specializzazione funzionale e la divisione
istituzionale del lavoro significarono così anche una pluralità di storie autonome ed il
radicale allargamento delle occasioni per fare la storia.
La democratizzazione del fare la storia significò, per prima cosa, un
allentamento delle condizioni che una volta condizionavano le possibilità individuali di
accedere all’immortalità. In questo modo, più diventava universalmente disponibile, più
il fare la storia perdeva la sua capacità di conferire distinzione. Il significato della storia
(distinto dalla “non storicità”: la massa anonima, le nazioni non storiche, ecc.) risiedeva
infatti nella sua selettività: fare la storia era un privilegio che occorreva ereditare o
guadagnarsi.
Per quanto riguarda il fare la storia nella postmodernità, oggi si tengono
registrazioni ufficiali di molte aree di attività per opera di agenzie. Ad esempio, il gioco
più postmoderno, ovverosia il quiz, è uno spettacolo pubblico dell’universale ed
istantanea recuperabilità degli eventi passati. La democratizzazione dell’immortalità si
manifesta quindi nel livellamento retrospettivo del valore degli eventi, siano essi
riguardanti la politica, lo sport, lo spettacolo o altre tematiche. Come nelle altre
dimensioni dell’uguaglianza, questa nuova “uguaglianza dell’immortalità” è
un’uguaglianza di opportunità. L’assegnazione è gestita da una nuova professione di
mediatori, come pubblicitari, critici, galleristi, editori, programmatori di mass media e
redattori di giornali. Alla stessa maniera, i loro clienti possono appartenere alle più
differenti categorie, ed essere quindi politici o terroristi, scrittori o cantanti, magnati o
criminali.
Bauman tratta più avanti dei beneficiari e delle vittime della nuova strategia
postmoderna di sopravvivenza messa in atto dalla medicina. Essa possiede, infatti, una
6
valenza stratificatrice. In ogni epoca le strategie di sopravvivenza sono state generatrici
di disuguaglianza sociale. I tentativi di seguire la strategia moderna di sopravvivenza,
ossia di decostruire la morte, continuano tutt’oggi, per cui le conseguenze stratificatrici
tendono ad accentuarsi. Bauman cita a proposito Kenneth L. Vaux, per il quale l’ironia
crudele della storia consiste nel fatto che man mano che l’uomo impara ad accrescere il
proprio benessere attraverso la scienza, il numero delle persone che godono di tali
benefici si fa sempre più ridotto. La condizione per la sopravvivenza offerta dalla
medicina contemporanea è così un rifiuto della solidarietà, e dà come risultato la
decostruzione della socialità.
Emerge, inoltre, un altro aspetto provocato da questa strategia postmoderna di
decostruzione dell’immortalità, ovverosia il valore senza precedenti attribuito ora alla
“qualità della vita”. Ciò si concretizza nel fatto che nessun momento insoddisfacente
può essere giustificato sulla base della sua utilità per qualche futura realizzazione,
mentre la vita è suddivisa in una successione di “adesso”, ciascuno egualmente
meritevole di essere vissuto. Bauman sostiene, così, che la disuguaglianza delle
opportunità di vita cerca la sua compensazione nel nuovo spirito egualitario dei
momenti della vita stessa.
Tale concezione della vita ha anche delle conseguenze, come si è già
considerato, per le nuove identità postmoderne, nelle quali grande importanza hanno i
meccanismi pubblicitari. In questo caso gli esperti pubblicitari hanno colmato il vuoto
lasciato dalle identità prefabbricate e dai “progetti di vita”, e hanno fatto ciò proponendo
un’autorità che non richiede un’obbedienza a suo nome, ma che al contrario non sembra
imporre in alcun modo l’obbedienza e che dà al comando l’aspetto dell’incentivo. Il
fattore principale con cui viene costruito questo tipo di autorità è la fiducia, ma non si
può confidare a lungo che i beneficiari della fiducia mantengano le loro promesse,
poiché le stesse scelte vengono svalutate dopo poco tempo. Da qui nasce il rapporto
continuo tra autonomia ed eteronomia, tra libertà e dipendenza, tra scelta e resa ai must
imposti dalla società.
Bauman affronta poi un altro argomento: le comunità postmoderne. La vita
posteriore alla decostruzione dell’immortalità, infatti, è colma di tentativi di costruire le
collettività come rifugi della rassicurazione. Le comunità postmoderne, tuttavia, non
hanno nulla a che fare con quelle moderne, costituite ad esempio da gerarchie clericali,
7
eserciti o consigli degli anziani; esse sono comunque potenti. La facoltà di
rassicurazione che le comunità postmoderne esercitano proviene, infatti, dalla fede nelle
loro maggiore durevolezza rispetto al momento transitorio, sul quale ci si aspetta che
imprimano un nuovo significato. Esse assorbono ed esprimono quella trascendenza che
è stata estirpata e, in tale maniera, strappano questa funzione sostitutrice alla scienza;
quest’ultima in epoca moderna era deputata a provvedere alla rassicurazione surrogata
mediante la decostruzione della mortalità con l’accumulazione di conoscenze a
riguardo. Le comunità postmoderne sono isomorfe al presente che sono chiamate a
servire, mentre la loro autorità non deriva dal passato né dal futuro garantito, ma dalla
loro notorietà corrente, cioè nell’essere di moda o nel contare più seguaci degli altri
concorrenti.
La comunità postmoderna, inoltre, differisce radicalmente da quella forma di
comunità sperimentata dagli hippy, i quali, secondo Bauman, erano precursori della
condizione postmoderna. Gli hippy si prefiggevano di fare della loro comunità qualcosa
di reale, il prodotto della reciprocità, di tenerla assieme attraverso i rapporti
interpersonali. Gli appartenenti alle comunità postmoderne, invece, possono solo
credere nel carattere collettivo delle comunità stesse; quella collettività è perciò
indicativa di un bisogno sedimentato. Nelle parole di Bauman: <<La socialità della
comunità postmoderna non richiede socievolezza, la sua vicinanza non richiede
interazione, la sua unità non richiede integrazione>>26. Alcuni esempi di queste
comunità postmoderne sono il tribalismo, i festival musicali o le folle che riempiono gli
eventi sportivi. Tribù, mode e culti hanno così il compito di riparare il danno inferto alla
sicurezza.
La minore importanza attribuita dalla postmodernità alla nazione ed alla
famiglia è ripresa da Bauman all’interno di La società individualizzata. Ora, le strade
verso l’immortalità un tempo riservate a pochi eletti sono piene di persone che vogliono
guadagnarvi l’accesso. Inoltre molto spesso viene venduta l’”esperienza”
dell’immortalità anziché la cosa in sé, come succede anche per molti altri tipi di
“esperienze” che oggi vengono offerti, ad esempio, in parchi tematici o in strutture
simili.
26 Zygmunt Bauman, Il teatro dell’immortalità. Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Il Mulino, Bologna, 1995, pag. 257.
7
Al posto della fama è oggi subentrata la notorietà, la quale è un oggetto di
consumo e non un oeuvre, cioè qualcosa che si produce con laboriosità. Come tutti gli
oggetti di consumo, tale notorietà deve fornire un godimento pronto e rapidamente
esauribile. Nella corsa alla notorietà, coloro che un tempo erano i soli che si potevano
disputare la fama – scienziati, artisti, inventori, capi politici – non hanno alcun
vantaggio nei confronti di personaggi del mondo dello spettacolo, come cantanti o
attori. Il successo di ciascuno si misura, infatti, secondo indici quantitativi. Ciò si
ripercuote anche sul modo in cui la loro attività è percepita.
Bauman considera in seguito la già affrontata tematica del corpo, il quale,
essendo sia strumento di benefici che oggetto di difesa da parte nostra, è, a suo parere,
la causa principale delle più comuni problematiche della postmodernità. Egli propone,
inoltre, un riferimento alla storia artistica per spiegare altri aspetti della decostruzione
postmoderna dell’immortalità. Le opere d’arte che oggi vengono considerate
maggiormente sono quelle che fanno della caducità e della contingenza la modalità
stessa della loro esistenza. Esse manifestano quindi disprezzo o indifferenza per
l’immortalità. Spesso, ad esempio, le installazioni assemblate in occasione di una
mostra saranno smantellate il giorno stesso in cui la mostra chiuderà.
Una modalità assai diffusa nel mondo artistico postmoderno è costituita
dall’evento, il quale è ciò che accade una volta sola e non sarà mai ripetuto nella stessa
forma e nella stessa sequenza. In ciò esso si differenzia dalla rappresentazione teatrale,
la quale continua ad andare sul palcoscenico per lunghi periodi. Persino artisti illustri
come Picasso o Matisse devono farsi largo nel presente attraverso spettacoli e battage,
dal momento che le folle sono attirate dall’episodicità e dalla brevità dell’evento.
Bauman cita in seguito un’analisi di Michael Thompson sul ruolo del duraturo e
dell’effimero nella storia sociale. Tale analisi dimostra il nesso tra durevolezza e
privilegio sociale e tra caducità e privazione sociale. I potenti di ogni epoca si
circondavano di oggetti durevoli ed indistruttibili, lasciando ai poveri gli oggetti che
non possedevano tali caratteristiche. Secondo Bauman, la nostra è probabilmente la
prima epoca che ha capovolto tale relazione. Infatti, la nuova élite mobile ed
extraterritoriale non si interessa dei beni materiali, e promuove un rifiuto
dell’attaccamento agli oggetti e la facilità ad abbandonarli una volta che la loro novità si
sia esaurita.
7
In conclusione, Bauman afferma che <<La nostra è la prima cultura della storia a
non privilegiare la durata e a ridurre l’esistenza ad una serie di episodi vissuti con
l’intenzione di scongiurare le loro conseguenze durature e di evitare impegni stringenti
che renderebbero vincolanti tali conseguenze>>27. Egli precisa che quella in cui ci
troviamo oggi non è una “crisi culturale”, bensì che siamo giunti in un territorio in cui
gli esseri umani non hanno mai abitato, un territorio che la cultura umana del passato
considerava inabitabile, ed in cui la trascendenza non è più ambita. Le conseguenze a
lungo termine si potranno considerare in futuro.
27 Zygmunt Bauman, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, cit., pag. 311.
7
CAPITOLO 10
LE CITTÀ POSTMODERNE
Anche le città nella postmodernità assumono caratteristiche differenti rispetto a
quelle possedute in precedenza. Bauman analizza tale tematica, oltre che in altre opere,
in Modernità liquida. Qui egli prende ad esempio George Hazeldon, un architetto di
origine britannica residente in Sudafrica, il quale intende costruire una città diversa da
tutte le altre. Nei progetti di Hazeldon, tale città assomiglia ad una versione aggiornata
della cittadella medievale, protetta da spesse mura e fossati ed isolata dai rischi e dai
pericoli del mondo esterno. Essa è, così, qualcosa di simile a Mont Saint-Michel, che è
sia monastero sia fortezza inaccessibile.
Heritage Park, la città che Hazeldon intende costruire su circa duecento ettari di
terreno vicino a Città del Capo, sarà totalmente inaccessibile e difesa da cancelli elettrici
con corrente ad alta tensione, sorveglianza alle vie d’accesso, palizzate e guardie. A
parere di Hazeldon, lo scopo di tutto ciò è creare una comunità, e per ottenerlo egli
prende a modello la comunità londinese della sua infanzia, la quale garantiva sicurezza.
La differenza tra la comunità del passato e quella ricreata da Heritage Park è che tutto
quanto la prima otteneva in modo semplice e pragmatico, grazie ai suoi appartenenti che
si conoscevano e facevano affidamento gli uni sugli altri, nella nuova comunità è
affidato a sorveglianze ed a guardie armate.
Nella postmodernità è cresciuta di molto la preoccupazione per la sicurezza,
tanto che la presunta onnipresenza dei cosiddetti malintenzionati è divenuta un fattore
molto presente, e la paura di esserne vittime un fenomeno generalizzato. Bauman cita a
proposito di ciò Sharon Zukin, la quale descrive il nuovo aspetto acquisito dagli spazi
pubblici di Los Angeles, rimodellati dalle preoccupazioni di sicurezza dei residenti, con
polizia e sorveglianza ovunque. Secondo la Zukin, gli anni Sessanta e Settanta del
Novecento sono stati uno spartiacque nell’istituzionalizzazione della paura urbana.
Elettori ed élite avrebbero potuto scegliere di approvare politiche statali volte ad
eliminare la povertà, mentre hanno scelto di procurarsi la protezione alimentando il
boom dell’industria della sicurezza privata. La Zukin sostiene, inoltre, che uno dei
pericoli maggiori provocati dalla politica della paura quotidiana è che il timore delle
strade insicure tiene le persone lontane dagli spazi pubblici. I principali elementi
7
dell’attuale processo di evoluzione della vita urbana sono così, a parere di Bauman, la
comunità definita da confini rigidamente controllati anziché dal proprio contenuto, e la
difesa della stessa comunità intesa come assoldare guardiani armati.
Bauman cita ora una definizione di città proposta da Richard Sennet, secondo la
quale la città è <<un insediamento umano in cui è probabile che individui estranei si
incontrino>>28. Nelle città gli estranei si incontrano nel modo che è a loro consono,
ovverosia il loro incontro è privo di un passato, e spesso è anche senza un futuro. A tale
fine un ambiente urbano deve essere “costumato”, cioè dotato di spazi che la gente
possa condividere, e rappresentabile come un bene comune.
Le città odierne presentano vari luoghi definiti come “spazi pubblici”. Essi sono
di genere e dimensioni diverse, ma appartengono quasi tutti a due categorie, ciascuna
delle quali si differenzia dal modello di spazio civile per due caratteristiche. La prima
delle due categorie di spazio urbano pubblico, e tuttavia non civile, è rappresentata, ad
esempio, da La Défense, un enorme piazzale situato a Parigi sulla riva destra della
Senna. Tale luogo si manifesta innanzitutto come inospitale. I grattacieli che ne fanno
parte costituiscono un insieme di edifici imperiosi ed impervi, circondati da poche
panchine e da pochi alberi, mentre gruppi di persone entrano ed escono dalle uscite
della metropolitana per dirigersi verso i palazzi.
La seconda categoria di spazio pubblico e non civile mira a servire i
consumatori, o piuttosto a trasformare il residente urbano in consumatore. Gli spazi di
consumo sono, ad esempio, i centri commerciali o le sale da esibizione, e servono
unicamente a favorire il consumo, come si è già affrontato.
Bauman propone, in seguito, quattro categorie di spazi pubblici all’interno delle
città postmoderne: i luoghi emici, i luoghi fagici, i nonluoghi e gli spazi vuoti. Egli
inizia, però, riprendendo la descrizione degli spazi di consumo. Qualunque cosa possa
accadere all’interno di essi, non ha alcuna importanza sulla vita quotidiana che scorre
nella città al di fuori. I viaggi nei luoghi i consumo differiscono poi dai Carnevali di
Michail Bachtin, i quali trasformavano la città per alcuni giorni. Infatti, il tempio del
consumo può trovarsi fisicamente in città, ma non ne fa parte; ciò che lo rende diverso è
un tipo di vita che la quotidianità non presenta. Esso è anche uno spazio purificato, in
28 Richard Sennet, The Fall of Public Man: On the Social Psychology of Capitalism, New York, 1978, pp. 39 sgg.,cit. in Zygmunt Bauman, Modernità liquida, cit., pag. 103.
7
cui le differenze interne vengono addomesticate. Nelle parole di Bauman: <<I luoghi di
shopping/consumo offrono ciò che nessuna “realtà reale” esterna può dare: un equilibrio
pressoché perfetto tra libertà e sicurezza>>29. All’interno dei loro templi gli
acquirenti/consumatori possono trovare, inoltre, un sentimento di appartenenza ad una
comunità, la quale viene ad essere un’aggregazione fatta di pura e semplice
uguaglianza. Tale comunità, poi, non richiede nessuna contrattazione.
Bauman riprende in seguito le già citate due strategie di Lévi-Strauss per
convivere con lo straniero, ovverosia quella antropoemica e quella antropofagica. La
prima, come si è già considerato, consisteva nel vietare con lo straniero qualsiasi
rapporto sociale o commercium; le sue versioni attuali sono i ghetti urbani, l’accesso
selettivo agli spazi, fino ad arrivare alle forme estreme come l’incarcerazione, la
deportazione o la soppressione fisica. La seconda strategia consiste, invece,
nell’”ingerire” i corpi estranei in modo da renderli identici e non più distinguibili dal
corpo che li ingerisce. Tale strategia è rappresentata da crociate culturali, guerre a
costumi, calendari, culti o dialetti locali. Afferma Bauman: <<Se la prima categoria
mirava all’esilio o alla distruzione degli altri, la seconda puntava all’annullamento o
distruzione della loro diversità>>30.
Ed ecco che si presentano le quattro categorie di spazi pubblici. Bauman
dimostra la similitudine tra la dicotomia delle strategie di Lévi-Strauss e quella delle
due odierne categorie di spazi pubblici non civili. La Défense di Parigi, insieme ad altri
tipi di “spazi di interdizione”, secondo la definizione di Steven Flusty, è
un’interpretazione architettonica della strategia “emica”, mentre gli spazi di consumo
rappresentano la strategia “fagica”.
La terza categoria è rappresentata da quelli che Marc Augé definisce i
“nonluoghi”. Questi ultimi condividono alcune caratteristiche della prima categoria, dal
momento che scoraggiano l’intenzione di insediarvisi. Tuttavia, a differenza della
Défense, il cui unico scopo è essere attraversata, o degli altri spazi di interdizione, i
nonluoghi accettano l’inevitabilità di una loro frequentazione o di un loro soggiorno da
parte di elementi estranei, e dunque fanno il possibile per rendere la loro presenza
29 Zygmunt Bauman, Modernità liquida, cit., pag. 109.30 Ivi, pag. 112.
7
irrilevante sotto il profilo sociale. Esempi di tali nonluoghi sono gli aeroporti, le
autostrade o le stanze d’albergo.
Della quarta categoria fanno parte i cosiddetti “spazi vuoti”, cioè quei luoghi,
secondo la definizione, ripresa da Bauman, di Jerzy Kociatkiewicz e Monika Kostera, ai
quali non viene attribuito nessun significato. Essi sono luoghi non colonizzati, i posti
“restanti” dopo che è terminata l’opera di strutturazione degli spazi più appetibili. Per
esemplificare tali spazi vuoti, Bauman prende ad esempio un suo viaggio compiuto in
una città non specificata dell’Europa meridionale, all’arrivo del quale venne a prenderlo
una docente. Tale docente avvisò che il tragitto per raggiungere l’albergo sarebbe stato
abbastanza lungo, poiché si sarebbero dovute attraversare le trafficate vie del centro
cittadino. Per il ritorno all’aeroporto Bauman si servì di un taxi, e notò come il tempo di
percorrenze fosse notevolmente diminuito, poiché il tassista passò per una serie di
quartieri fatiscenti. Questo fatto mostra la diversità delle mappe cittadine varianti a
seconda delle persone, mappe che, perché abbiano senso, devono escludere determinate
aree delle città come prive di senso.
Bauman sostiene quindi che <<L’elemento distintivo dei “luoghi pubblici ma
non civili” – tutte e quattro le categorie di luoghi elencate in precedenza – è
l’irrilevanza dell’interazione>>31. Essi permettono di non avere niente a che fare con gli
estranei che circolano, però non possono impedire l’incontro con l’estraneo. Ecco
perché il liberarsi della compagnia degli estranei appare una prospettiva migliore, più
sicura. Questa soluzione può apparire preferibile, ma certamente non è immune da
pericoli. Bauman riprende ancora Richard Sennet, il quale afferma che negli ultimi
vent’anni le città americane sono cresciute in modo tale che le aree etniche sono
divenute relativamente omogenee; egli collega poi questo fatto alla paura dell’estraneo,
cresciuta nella misura in cui tali comunità etniche sono state isolate.
A parere di Bauman, l’incapacità di fare fronte alla pluralità degli esseri umani si
perpetua da sé: quanto sono più forti i tentativi di promuovere l’omogeneità e di
eliminare la differenza, tanto più difficile è convivere con gli estranei. Il progetto di
sfuggire alla varietà urbana e di trovare rifugio nell’uniformità comunitaria è quindi
autoperpetuantesi. Infatti, la ricerca della sicurezza in un’identità comune, anziché in un
accordo su comuni interessi, diventa il modo più sensato di procedere in un mondo in
31 Ivi, pag. 116.
7
cui la negoziazione degli interessi comuni non viene praticata, e le concezioni di “bene
comune” o di “buona società” non vengono prese in considerazione. Tuttavia, i timori
legati all’identità ed alla sua difesa dalla contaminazione rendono la concezione di
interessi comuni negoziati ancora meno perseguibile e probabile.
Bauman cita nuovamente Sharon Zukin, la quale afferma che il venire meno
della proposta di un destino comune ha rafforzato la diffusione della cultura, intesa
però, nel significato americano, come “etnicità”. Ciò si concretizza nell’operare una
separazione territoriale e, poiché lo scopo della separazione territoriale è l’omogeneità
di chi occupa quel territorio, l’”etnicità” risulta essere la migliore delle identità.
L’omogeneità che si presume caratterizzi i gruppi etnici è eteronoma, ovverosia
non è un prodotto dell’uomo. Inoltre, altre presunte comunità sono sempre pronte a
denigrare la nozione stessa di etnicità e a inventarsi proprie radici, tradizioni, storia
comune e futuro comune. Bauman sostiene che anche l’attuale avatar del comunitarismo
è una risposta alla reale crisi di “spazio pubblico”, e dunque di politica, la quale ha la
sua naturale origine proprio nello spazio pubblico.
Da tale discorso Bauman prende spunto per proporre una nuova analisi della
politica, la quale è sempre più ridotta ad una serie di confessioni pubbliche, mentre la
questione della credibilità delle persone pubbliche si sta sempre più sostituendo
all’analisi di cosa dovrebbe essere l’arte della politica. Lo spettacolo postmoderno della
politica, come gli altri spettacoli pubblicamente rappresentati, si trasforma così in un
messaggio della priorità dell’identità sugli interessi. Allora, come afferma Sennet,
preservare la comunità diventa un fine in sé.
Il tentativo di tenere a distanza l’altro, l’estraneo, diventa la risposta più
utilizzata all’incertezza radicale derivante dai nuovi legami sociali. Tale tentativo si
trasforma nella politica della separazione etnica, ed in particolare nella difesa contro
l’afflusso di estranei. Nelle parole di Bauman: <<si tratta (...) di una patologia dello
spazio pubblico risultante in una patologia della politica>>32. Uno dei pochi compiti che
i governi attuali svolgono è, quindi, quello di costituire un fronte unito contro gli
immigrati, il quale promette di fare il possibile per accorpare gli individui postmoderni
in una “comunità nazionale”. Ritornando alla descrizione di Heritage Park, Bauman
32 Ivi, pag. 122.
7
afferma che la desiderata purezza della sua comunità può essere conquistata solo
mediante il disimpegno e lo scioglimento di qualsiasi legame.
All’interno di Amore liquido, Bauman affronta nuovamente la descrizione degli
spazi di interdizione, ma prima di fare ciò prende San Paolo del Brasile, nella
descrizione di Teresa Caldeira, come esempio delle nuove città postmoderne. Essa è la
seconda città del Brasile, dinamica ed in espansione, e viene descritta in questa maniera:
<<San Paolo è oggi una città piena di muri. Ovunque sono state costruite barriere
fisiche – intorno a case, edifici residenziali, parchi, piazze, complessi per ufficio e
scuole (...) Una nuova estetica della sicurezza modella tutti i tipi di costruzione e
impone una nuova logica della sorveglianza e della distanza (...)>>33.
Chi se lo può permettere si compra un residence in un condominio, il quale
diventa una sorta di eremo: fisicamente dentro la città, ma socialmente e spiritualmente
fuori. Le comunità chiuse di questo tipo diventano, così, mondi separati. Tutt’intorno al
condominio vengono situati recinti e muri, guardie armate agli ingressi e una gamma di
strumenti e servizi per tenere lontane le persone indesiderate. I residenti dei condomini,
in questo modo, si pongono fuori dalla pericolosa vita di città, e dentro la zona di
sicurezza. Alla stessa maniera, però, essi chiudono tutti gli altri fuori dai luoghi sicuri
che intendono difendere, e dentro i quartieri pericolosi che tentano di isolare. Il recinto
separa, così, il ghetto volontario dei ricchi e potenti dai numerosi ghetti coatti dei
poveri.
Bauman precisa che a San Paolo la tendenza segregazionista ed esclusionista si
manifesta nella sua forma estrema, ma il suo impatto è riscontrabile, in forma minore, in
quasi tutte le grandi metropoli. Paradossalmente, infatti, le città originariamente
costruite per dare sicurezza ai loro abitanti, sono oggi spesso associate al pericolo. La
presenza di pericoli, reali o presunti, alla sicurezza personale e dei propri beni sta
diventando uno dei principali elementi di valutazione nella scelta del posto in cui
abitare, così com’è arrivata al primo posto nelle strategie di commercializzazione degli
immobili. Infatti, come si è già considerato, l’incertezza del futuro, la precarietà della
propria condizione sociale e l’incertezza esistenziale tipiche della condizione
postmoderna tendono ad essere convogliate verso questioni di sicurezza personale. Ciò
33 Teresa Caldeira, Fortified enclaves: the new urban segregation, in Public Culture, 1996, pp. 303 – 328, cit. in Zygmunt Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Roma - Bari, 2004, pag. 148.
7
si concretizza, quindi, negli impulsi segregazionisti/esclusivisti che conducono a guerre
per lo spazio urbano.
Ecco che Bauman riprende la tematica degli spazi di interdizione, proposta dal
critico architettonico/urbanistico americano Steven Flusty. Secondo Flusty, il
conformarsi alla guerra per lo spazio urbano, ed in particolare l’inventare modalità per
tenere distanti i presunti avversari, costituisce l’elemento sempre più diffuso di
innovazione architettonica e di sviluppo urbano nelle città americane. Le nuove
costruzioni sono appunto gli <<spazi di interdizione>> - << progettati per intercettare,
respingere o filtrare i potenziali utenti>>34. Nelle parole di Bauman: <<Il fine dichiarato
degli “spazi di interdizione” è dividere, segregare ed escludere, non quello di costruire
ponti, passaggi facili e punti di ritrovo, di facilitare la comunicazione e di avvicinare tra
loro, in qualunque altro modo, gli abitanti della città>>35.
Le invenzioni architettonico/urbanistiche descritte da Flusty sono, a parere di
Bauman, gli equivalenti tecnologicamente aggiornati dei fossati attorno ai castelli e
delle cinte murarie attorno alle città d’epoca premoderna. Tuttavia, vi è una differenza:
mentre nelle città premoderne quei mezzi servivano per difendere gli abitanti dal
nemico esterno, nella postmodernità gli spazi di interdizione sono costruiti per tenere
isolati i residenti della città e per difenderli gli uni dagli altri, poiché è stato loro affidato
lo status di avversari. Tra questi spazi vi sono lo “spazio sdrucciolevole” (uno spazio
impossibile da raggiungere per via di sentieri troppo contorti o assenti); lo “spazio
frastagliato” (spazio che non può essere confortevolmente occupato, difeso da utensili);
e lo “spazio presidiato” (spazio monitorato da parte di pattuglie e/o tecnologie di
controllo collegate a stazioni di sicurezza).
Lo scopo di tali spazi di interdizione è quello di porre enclave extraterritoriali al
di fuori dell’area urbana, ed erigere delle fortezze dentro le quali questi appartenenti
all’élite globale extraterritoriale possano abitare in isolamento dalla città. Bauman
conclude, così, affermando che <<Nel paesaggio della città gli “spazi di interdizione”
diventano pietre miliari della disintegrazione del modo di vita locale, condiviso,
comunitario>>36.
34 Steven Flusty, Building paranoia, in Nan Elin (a cura di), Architecture of Fear, Princeton Architectural Press, Princeton, NJ, 1997, pp. 48 – 52, cit. in Zygmunt Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, cit., pag. 151. 35 Zygmunt Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, cit., pag. 151.36 Ivi, pag. 152.
8
Tale tematica è ripresa da Bauman all’interno di Dentro la globalizzazione. Qui
egli fa nuovamente riferimento a Richard Sennet, il quale è stato, a suo parere, il primo
analista della vita urbana contemporanea a testimoniare l’incipiente “caduta dell’uomo
pubblico”. Sennet, molti anni fa, aveva notato la continua erosione dello spazio
pubblico urbano e la fuga degli abitanti dalle poche agorà rimaste all’interno delle città.
Più recentemente, egli parla degli sconvolgimenti che si provocano nelle vite delle
persone per realizzare piani astratti di sviluppo o di rinnovamento urbani. Nei casi in cui
si sono attuati piani del genere, i tentativi di “omogeneizzare” lo spazio urbano o di
renderlo “funzionale” si sono tradotti nella disintegrazione delle reti protettive che i
legami umani creano, con conseguenze come solitudine ed analfabetismo morale
nell’affrontare scelte autonome e responsabili.
Infatti, in un ambiente concepito come artificiale, destinato ad assicurare
l’anonimato e la specializzazione funzionale dello spazio urbano, gli abitanti delle città
devono affrontare un notevole problema d’identità. La monotonia dello spazio costruito
artificialmente li priva dell’opportunità di dare un senso alle cose, e quindi delle
conoscenze necessarie a risolvere le diverse problematiche. Lo spazio progettato alla
perfezione si rivela, secondo Bauman, un terreno non proficuo per il senso di
responsabilità umana, la quale è a sua volta la fondamentale condizione della moralità
nei rapporti umani. Di conseguenze, l’eticità non cresce assolutamente in uno spazio
privo di sorprese, ambivalenze o conflitti, poiché solo coloro che riescono ad agire in
una situazione di ambivalenze ed incertezze, nate dalla diversità e dalla varietà, possono
affrontare le proprie responsabilità.
Afferma Bauman: <<L’esperienza delle città americane analizzata da Sennet
mette in luce regole quasi universali: il sospetto verso gli altri, l’intolleranza per la
diversità, l’ostilità per gli estranei e la pretesa di separarsene e di bandirli, e la
preoccupazione isterica, paranoica, per “la legge e l’ordine” sono fattori che tendono ad
acutizzarsi nelle comunità locali più uniformi, che praticano con più durezza la
segregazione razziale, etnica e di classe, insomma in quelle più omogenee>>37. Infatti,
in una località di situazioni omogenee è molto difficili acquisire quelle capacità e quelle
abilità necessarie per affrontare le diversità e le incertezze.
37 Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma – Bari, 2001, pag. 54.
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Bauman torna a ripetere, facendo anche riferimento a Nan Elin, che la città,
costruita in origine per ragioni di sicurezza, cioè per proteggere i cittadini dal nemico
esterno, oggi viene associata più al pericolo che alla sicurezza. Nell’età postmoderna il
fattore paura è sicuramente cresciuto, come sta a testimoniare il numero sempre
maggiore di sistemi di sicurezza, delle comunità “recintate” e “sicure” per ogni gruppo
di età e di reddito, oltre ai segnali di pericolo diffusi dai mass media.
Così, come si è già considerato, le paure urbane contemporanee, a differenza di
quelle che portarono originariamente alla costruzione delle città, riguardano innanzitutto
il nemico che è all’interno. Sostiene Bauman: <<Questo tipo di paure porta a
preoccuparsi meno dell’integrità e della solidità della città nel suo complesso – cioè
come forma di proprietà collettiva e collettiva garanzia delle condizioni di sicurezza
individuale – che non dell’isolamento e della “fortificazione” del proprio ambito
privato, casa e annessi, all’interno della città>>38. Ciò è testimoniato ad esempio dai
quartieri controllati da guardie, dagli spazi pubblici sorvegliati ad accesso riservato e
dalle guardie armate ai cancelli, i quali sono tutti mezzi di sicurezza che riguardano quei
cittadini con cui non si vuole avere a che fare.
Un’ulteriore caratterizzazione delle città postmoderne è fornita da Bauman
all’interno di Voglia di comunità, dove egli compie una descrizione dei ghetti. Per fare
ciò prende a riferimento una definizione di Loic Wacquant, secondo la quale il ghetto è
“una combinazione di limitazione spaziale e chiusura sociale: potremmo dire che il
fenomeno del ghetto riesce a essere, al tempo stesso, geografico e sociale, mischiando la
prossimità/distanza fisica con la prossimità/distanza morale (nella terminologia di
Durkheim, esso unisce densità morale e densità fisica)>>39.
Tuttavia, Bauman compie una precisazione: i fenomeni di limitazione e di
chiusura, a suo parere, significherebbero poco se non fossero accompagnati da un terzo
elemento, ovverosia l’omogeneità di chi è all’interno rispetto all’eterogeneità di chi è
all’esterno. In tutta la storia del ghetto, compreso quello odierno archetipico dei neri
americani, questo terzo elemento è stato alimentato dalla divisione etnico – razziale, ed
assume una forma simile nei “ghetti di immigrati” presenti nelle città europee ed
americane. Infatti, solo la divisione etnico – razziale dà alla contrapposizione
38 Ivi, pag. 55.39 Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Roma – Bari, 2001, pag. 113.
8
omogeneità/eterogeneità la capacità di fornire ai muri del ghetto quella durabilità di cui
hanno bisogno.
Una categoria speciale di ghetti è rappresentata dai cosiddetti “ghetti volontari”,
i quali, ovviamente, non sono ghetti nel senso proprio del termine, dal momento che
sono abitati da residenti volontari. La differenza principale tra i ghetti volontari e quelli
reali consiste nel fatto che mentre i ghetti reali sono luoghi dai quali non si può uscire (e
qui Bauman cita nuovamente Wacquant, il quale spiega che i residenti dei ghetti neri
americani non possono certo entrare nei quartieri bianchi limitrofi, in quanto verrebbero
inseguiti, fermati e vessati dalla polizia), scopo principale dei ghetti volontari è, invece,
vietare l’ingresso agli estranei e fare sì che i loro residenti siano liberi di uscirne a
proprio piacimento.
Naturalmente, le persone che desiderano abitare nei ghetti volontari per il
privilegio del “confinamento spaziale e della chiusura sociale” giustificano
l’investimento descrivendo ciò che accade all’esterno come estremamente pericoloso,
proprio come potrebbe essere per gli involontari abitanti dei ghetti reali. Così,
paradossalmente, i ghetti reali significano privazione della libertà, mentre i ghetti
volontari intendono servire la causa della libertà. Il loro effetto si è già preso in
considerazione, ed è il fatto che quanto più sicuri gli abitanti dei ghetti volontari si
sentono all’interno di essi, tanto più minacciosa appare loro la situazione all’esterno.
Così, una caratteristica comune ai ghetti reali e a quelli volontari è la capacità di fare sì
che il loro isolamenti si autoperpetui.
Nelle parole di Bauman: <<Incanalare le emozioni generate dall’incertezza
esistenziale nella frenetica ricerca della “sicurezza nella comunità” produce gli stessi
effetti di tutte le altre profezie che si autorealizzano: una volta avviato, tale processo
tende a sostanziare le sue motivazioni originarie e a produrre sempre nuovi “validi
motivi” e giustificazioni a loro difesa. In breve, aggiunge a posteriori nuove e più
convincenti prove a sostegno dei motivi che l’avevano scatenato e del suo perpetuarsi.
Alla fine, questo stesso perpetuarsi finisce col diventare la prova intrinseca della propria
validità e correttezza, l’unica prova di cui abbia ormai bisogno>>40.
Tuttavia, Bauman avverte che non bisogna lasciarsi ingannare dall’apparente
omogeneità degli impulsi alla “sicurezza nella comunità”, dal momento che essa
40 Ivi, pag. 114 – 115.
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nasconde profonde differenze nelle condizioni di vita sociale. Egli, a proposito di ciò, fa
riferimento a Max Weber, il quale sostiene che esistono molte differenze tra l’indossare
una “mantellina” e ritrovarsi rinchiusi in una gabbia di ferro. Chi indossa la mantellina
può trovarla confortevole, ma ciò che la rende così piacevole è la certezza di potersene
liberare quando se ne abbia voglia. E’ la situazione senza alternative da “vietato uscire”
che caratterizza, invece, l’abitante del ghetto, la quale fa sentire la “sicurezza
dell’uguaglianza” come una opprimente gabbia di ferro.
Bauman, in seguito, cita ancora Loic Wacquant, che ha rilevato il meccanismo
istituzionale della segregazione e dell’ aggregazione risultante in un livello
notevolmente più alto di frustrazione e povertà nel ghetto. I ghetti reali non sono tutti
uguali, e per dimostrare ciò vengono poste a confronto le situazioni dei ghetti dei neri
americani con le banlieues o cités francesi, le ex aree operaie ad alto tasso di
immigrazione. I ghetti dei neri americani rappresentano la sedimentazione di una doppia
forma di rifiuto – classe e razza – e proprio la razza garantisce ai residenti il fatto che
rimarranno in questi ghetti. Dall’altro lato, le banlieues presentano una popolazione
razzialmente mista in cui i ragazzi si spostano anche nelle ricche aree borghesi della
città o nei centri commerciali.
Tuttavia, sia gli uni che gli altri vengono classificati come abitanti un’area
ritenuta una “discarica” per persone povere, famiglie operaie immiserite e gruppi di
individui marginali. Il meccanismo comune della segregazione e dell’esclusione ha,
così, caratteristiche comuni: essere poveri in una società ricca significa avere lo status di
una anomalia sociale ed essere privati del controllo sulla propria rappresentanza
collettiva. Sia gli abitanti dei ghetti americani che quelli delle banlieues francesi
subiscono una spoliazione simbolica, in modo tale da diventare dei reietti della società.
La ghettizzazione diventa, in questa maniera, parte organica di un meccanismo
già considerato, ovvero quello di rimozione dei poveri messo in moto nell’epoca
postmoderna, nella quale i poveri non servono più come “esercito di riserva dei
produttori” e sono diventati consumatori incompiuti. La ghettizzazione, inoltre,
accompagna ed integra la criminalizzazione della povertà, e ciò è testimoniato dal fatto
che vi è un continuo scambio di popolazione tra i ghetti ed i penitenziari, ciascuno dei
quali serve come bacino di alimentazione per l’altro. In un mondo in cui mobilità e
facilità di spostamento sono divenuti i fattori principali di stratificazione sociale, tale
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strategia è lo strumento di definitiva esclusione e degradazione, utilizzato per inserire le
classi inferiori ed i poveri in una sottoclasse, una categoria esclusa dal sistema di classi.
Bauman fa poi riferimento ad un’altra analisi di Wacquant, nella quale
quest’ultimo rileva il nesso tra criminalizzazione della povertà e istituzionalizzazione
della condizione di precarietà generata dal lavoro “flessibile”. Lo Stato, avendo abdicato
al proprio ruolo di legislatore per le relazioni di lavoro ed alla sua funzione economica,
ricorre ad una strategia “penitenziaria” (questa è la definizione di Neil Christie, ripresa
da Bauman, per la politica penale basata sopratutto sulla detenzione carceraria) come
mezzo per riconciliare i poveri alla loro nuova condizione.
Secondo Bauman, le carceri sono ghetti dotati di mura, mentre i ghetti sono
carceri senza mura. L’unica funzione che la consumatrice società liquido – moderna ha
concesso di svolgere alle persone costrette ad abitare in questi posti è quella di aiutare
gli altri a sopportare la condizione di vita precaria, dal momento che le alternative sono
le abitazioni – ghetto o i penitenziari di Stato.
Bauman sviluppa poi un’altra tematica, ossia il rapporto tra ghetto e comunità,
iniziando subito col dire che il ghetto non crea una comunità. Infatti, il condividere una
vita del genere non trasforma quegli abitanti in “fratelli”, ma, al contrario, fomenta il
disprezzo reciproco e non alimenta una condizione di rispetto. Inoltre, anche se gli
odierni luoghi di segregazione hanno ereditato il nome dai ghetti tardomedievali, tra essi
vi sono alcune differenze. Bauman cita nuovamente Wacquant, il quale sostiene che
mentre il ghetto nella sua forma originaria agiva in parte da protezione contro
l’esclusione razziale, l’iperghetto ha perso il proprio ruolo positivo di difesa collettiva e
si è trasformato in una macchina la cui unica funzione è quella della segregazione
sociale.
Nei ghetti contemporanei non si può creare una difesa collettiva, poiché
l’esperienza del ghetto distrugge ogni senso di solidarietà e di fiducia ancora prima che
esse possano svilupparsi. Il ghetto, invece che essere fonte di sentimenti comunitari, è,
quindi, un laboratorio di disintegrazione sociale, atomizzazione ed anomia. Infatti, per
guadagnare una dignità e riaffermare la legittimità del proprio status, i residenti delle
diverse forme di ghetto, siano essi quelli americani o quelli delle banlieues, tendono a
porre l’attenzione sulla loro rettitudine morale in quanto individui (o appartenenti ad
una famiglia) e a denunciare quanti si approfittano immeritatamente dei programmi
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sociali. Essi cercano, così, di acquistare valore svalutando il loro quartiere ed i loro
vicini, e si impegnano a perseguire strategie di distinzione e di distacco sociale che
contribuiscono a minare la coesione sociale. Tutto ciò dimostra che ghetto significa
impossibilità di creare una comunità.
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CAPITOLO 11
IL CORPO E LA BELLEZZA NELLA POSTMODERNITÀ
Il confronto tra la concezione del corpo nella modernità e quella nella
postmodernità, assieme al passaggio dalla nozione di salute a quella di fitness, sono
analizzati da Bauman sopratutto all’interno di La società dell’incertezza. Innanzitutto,
Bauman esplica le caratteristiche del corpo moderno. Quest’ultimo, il corpo del
lavoratore/soldato, era regolamentato e diretto da forze esterne, come accadeva nella
catena di montaggio di Taylor nella quale era costretto a compiere movimenti stabiliti
da condizioni ambientali progettate dall’uomo. L’unico contributo richiesto al fisico era
l’essere in grado di provvedere alle forze indispensabili per rispondere agli stimoli. Tale
capacità si definiva “salute”, mentre “malattia” significava “incapacità”. Il dispendio
necessario a salvaguardare la salute e ad allontanare la malattia si riduceva ad un
problema di alimentazione, ovverosia alla quantità di cibo sufficiente a fornire l’energia
richiesta. Eccedere in questa quantità era considerato un lusso, uno spreco.
Tutto ciò muta radicalmente nella modernità liquida. Il punto attorno al quale
ruota il mutamento postmoderno riguardante il corpo è costituito dal fatto che oggi il
corpo stesso è considerato principalmente un corpo che consuma, e la misura della sua
buona condizione sta proprio nel consumare ciò che la società dei consumi ha da offrire.
Afferma Bauman: <<Il corpo postmoderno è prima di tutto un recettore di sensazioni:
assorbe e assimila esperienze, e la sua attitudine e capacità ad essere stimolato lo
trasforma in uno strumento di piacere. La presenza di una tale attitudine/capacità è
chiamata “benessere” (fitness)>>41.
Non è tanto la performance fisica che conta, quanto la qualità delle sensazioni
ricevute. Poiché, però, l’intensità di tutto ciò non è misurabile come nella performance,
un effetto di tale mutamento è la svalutazione della nozione, un tempo basilare, di
“normalità”. La medicina moderna, infatti, intendeva tracciare una linea di
demarcazione tra salute e malattia e, quindi, stabilire la distinzione tra normale ed
anormale era divenuto il suo impegno principale. Passando alla postmodernità, Bauman
rileva che ogni esercizio di fitness, per quanto soddisfacente, anticipa sempre un
presagio di un malessere latente costituito dalla perdita del piacere atteso. La ricerca
41 Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, cit., pag. 113.
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della perfetta forma fisica è, in questa maniera, afflitta da un inquietudine difficile da
evitare. Le cure mantengono la loro desiderabilità fintanto che sono ricercate, ma
vengono svalutate al momento della loro applicazione, dovendo poi essere sostituite da
ulteriori rimedi.
Un’altra differenza tra le concezioni del corpo moderna e postmoderna è
costituita dal fatto che, mentre l’esercizio fisico del lavoratore/soldato tendeva ad unire
gli intenti, le autoesercitazioni del recettore di sensazioni li divide e li separa. Bauman
ritiene che, ad esempio, la proposta del National Health Service fosse una conseguenza
naturale del modo in cui il concetto di salute è socialmente costruito, poiché i servizi
nazionali erano concepiti per prendersi cura della norma e dell’anormalità. Invece, un
National Fitness Service sarebbe solamente una contraddizione. Nell’epoca in cui
l’interesse per il benessere diventa prioritario rispetto alla preoccupazione per la salute,
inoltre, anche la presenza di un “servizio nazionale per la salute pubblica” sembra meno
ovvia di quanto lo fosse in precedenza.
Il corpo è diventato una proprietà privata, ed è compito del proprietario averne
cura. Come si è già considerato, Bauman ritiene che questo esito della “privatizzazione
del corpo” e delle agenzie di produzione sociale del corpo sia la rappresentazione più
efficace dell’ambivalenza postmoderna. Egli fornisce nuove spiegazioni per tale
affermazione. Innanzitutto, ciò fornisce alla cultura postmoderna la sua energia e la sua
continua pulsione al movimento. In secondo luogo, costituisce un motivo cruciale per
l’inquietudine della stessa cultura postmoderna, con il suo ritmo di mode, desideri e
paure. Bauman propone, quindi, un’efficace metafora, secondo la quale la creatività
della cultura postmoderna può essere paragonata ad una matita con gomma incorporata ,
la quale cancella ciò che scrive e quindi non riesce a fermare il suo continuo
movimento.
L’ambivalenza primaria assume poi diverse forme. Una delle forme cruciali, a
parere di Bauman, è l’ambiguità aporetica tra la fobia del mutevole e la fobia del
definitivo, cioè tra la paura di non giungere mai alla mèta più elevata e la paura di
riuscire a raggiungerla. La paura del mutevole e quella del definitivo si sostengono e si
nutrono a vicenda.
Egli espone, in seguito, la situazione postmoderna del “corpo sotto assedio”.
L’ambivalenza generata dal progetto del “Corpo ideale” rende il compito di delimitare i
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confini del corpo (un compito che appare permeato di ambiguità in ogni epoca, come
Bauman sostiene citando ancora una volta Mary Douglas) particolarmente assillante. La
maggior parte delle sensazioni che il corpo del “collezionista di piaceri” può ricevere
richiede stimoli provenienti dal mondo esterno, e tale interazione con il mondo esterno
influenza il controllo individuale sul benessere fisico. Infatti, lo scambio con il mondo
esterno, finalizzato alla ricerca di sensazioni, si tramuta in una potenziale minaccia per
il benessere e quest’ultimo, a sua volta, è la condizione che garantisce la capacità del
corpo di recepire le sensazioni.
Per esemplificare la condizione di questa ricerca del operata dagli individui
postmoderni per il proprio corpo, Bauman rileva che ci sono due categorie di libri
sempre in testa alle classifiche di quelli più venduti: i manuali di cucina e i libri delle
diete. I primi sono in maggioranza collezioni di ricette sempre più sofisticate, esotiche e
ricercate, e sono sempre accompagnati dalla loro controparte, i libri sulle diete.
Nella modernità l’ideale di perfezione del corpo era influenzato dallo stile
armonico del Rinascimento, ispirato dal principio della moderazione e dell’equilibrio.
Anche le scienze sociali definivano i bisogni umani come impulso a placare e rimuovere
le tensioni, e la soddisfazione dei bisogni come una condizione priva di tensioni. Al
contrario, a parere di Bauman, la pratica postmoderna dell’esercizio fisico risulta una
costruzione in stile gotico, composta di elementi ridondanti e tenuta insieme da un
bilanciamento delle pressioni e delle tensioni. Il problema non è, quindi, come evitare le
tensioni, bensì come passare dall’una all’altra in modo armonico.
Oltre a ciò, l’individuo che è proprietario del corpo ne possiede anche la
custodia. La difficoltà di questo compito, aggravata anche dalla sua ambiguità, genera
quella che Bauman definisce “mentalità da assedio”, secondo la quale il corpo ed il suo
benessere sono minacciati da ogni parte. Tuttavia, non è possibile rendere le proprie
difese impenetrabili, proprio perché lo scambio con il mondo esterno è desiderato: il suo
livello di intensità rappresenta uno degli scopi primari del “mantenersi in forma”. Ecco,
così, che si forma una condizione di assedio permanente, destinato a durare per tutta la
vita.
Una delle conseguenze di tutto ciò è il fatto che la mentalità dell’assedio si
traduce, di tanto in tanto, in brevi e forti esplosioni di panico. Bauman precisa che in
varie epoche il pericolo di avvelenamento era sospettato in vari generi di cibo, e la
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presenza di effetti patogeni era ipotizzata in determinate attività fisiche. Tuttavia,
tipicamente postmoderna risulta essere l’accumulazioni di tali sospetti in sporadiche
lotte di protesta contro certi prodotti alimentari, o in campagne di sensibilizzazione
verso certi modi di agire poco salutari. Afferma Bauman: <<L’impegno profuso nelle
lotte di protesta e sensibilizzazione genera un sentimento confortante e
temporaneamente rassicurante: “il nemico alle porte” è stato sconfitto e non occorre più
preoccuparsi. Poiché l’insostenibile ideale del benessere non può mai essere raggiunto
(per non parlare dell’impossibilità di realizzare il sogno dell’immortalità, la cui versione
postmoderna, o piuttosto la sua dissimulazione, è proprio il “mantenere il fisico in
perfetta forma”) nessuna campagna e nessuna lotta è in grado di ottenere risultati
definitivi>>42.
Bauman, più avanti nella stessa opera, espone le differenti funzioni possedute
dalla biologia nei contesti moderno e postmoderno. Per quanto riguarda la modernità, in
essa un caso descritto come biologicamente determinato era considerato fuori da ogni
possibilità umana di intervento. Tale formula stava a significare un individuo immune
da modifiche e correzioni perseguite tramite l’educazione e la persuasione: se non si
riusciva a porre rimedio a tale situazione, l’unica soluzione era considerata la
separazione dell’individuo “difettoso” da quelli “regolari”. L’argomentazione biologica
sta, a parere di Bauman, al polo opposto della speranza liberale di conformare gli esseri
umani ad una società equilibrata tramite la rieducazione.
La biologia occupava, perciò, fin dall’inizio un posto contrastato ed impregnato
di controversie di genere ideologico e politico. Alla biologia, ed alle biotecnologie ad
essa collegate, veniva assegnato lo status speciale di alter ego della trasformazione
culturale che stava alla base del processo moderno, la quale possedeva al suo interno
una notevole ambivalenza.
Ma questo era solo uno dei differenti status attribuiti alla biologia. Un altro dei
motivi era rappresentato, come si è già considerato, dagli sforzi moderni di decostruire
la mortalità in una grande quantità di malattie e infermità, mutazioni patologiche e
disturbi, che potevano essere singolarmente affrontati e risolti. La vita moderna, come
afferma Bauman citando Daniel Pick, portava con sé una serie di minacce e
preoccupazioni mai affrontate in precedenza. La percezione che i pericoli imminenti
42 Ivi, pag. 120 – 121.
9
fossero numerosi era essa stessa una conseguenza del nuovo stato di incertezza. Ecco
perché la diffusa concezione di dégénérescence non fu mai ridotta con successo ad un
assioma o ad una teoria. Essa, piuttosto, fu un termine definito più volte nel passaggio
dalle scienze umane alla narrativa, ai commenti socio – politici. Non vi era, quindi,
nessun referente stabile che avesse attinenza con la concezione di “degenerazione”.
Le scienze biologiche e le tecnologie si unirono per portare avanti due strategie
mutuamente complementari: il miglioramento della salute e l’eliminazione della
malattia. Le scelte di vita, per chi aveva la possibilità di scegliere, erano medicalizzate,
preselezionate e controllate da una serie di conoscenze di carattere medico. Il
proprietario del corpo si era, così, trasformato in manager, supervisore ed operatore, e la
professione medica si offriva di aiutarlo a svolgere tali funzioni mediante strumenti
tecnologici. Bauman cita a proposito di tale processo la definizione di
“industrializzazione del corpo” proposta da Lion Tiger. Nelle parole di Bauman: <<La
libertà di controllare il proprio corpo e di manipolare le sue reazioni cresceva insieme
alla dipendenza dalla tecnologia e dai suoi mezzi; il potere dell’individuo era
strettamente intrecciato alla dipendenza dalle indicazioni degli esperti e alla necessità di
consumare prodotti tecnologici>>43.
La guerra contro la malattia, o meglio contro quella cattiva – salute a cui si
riferisce il termine “degenerazione”, era un complemento indispensabile per la
costruzione e la salvaguardia della salute. La professione medica era determinata a
dimostrare che ogni malattia aveva la sua causa, e che, attraverso la sua identificazione
ed eliminazione, poteva essere debellata. La strategia utilizzata a tale fine era
identificare il nemico, descriverlo o etichettarlo e isolarlo. Bauman, citando un passo di
Stephan L. Chorover, afferma che <<la logica intrinseca della strategia era una “cornice
sociobiologica” su cui “si fondavano in fondo le giustificazioni dei genocidi>>44. Il
programma di sterminio nazista era, infatti, un’estensione delle concezioni
sociobiologiche e delle dottrine eugenetiche che si erano diffuse in tutte le parti del
mondo moderno prima del Terzo Reich.
L’eliminazione dei portatori di infermità diveniva un’esperienza di riscatto e di
liberazione, non un gesto distruttivo ma costruttivo, un servizio reso alla causa della
43 Ivi, pag. 136.44 S.L. Chorover, From Genesis to Genocide: the Meaning of Human Nature and the Power of Behaviour Control, Cambridge, Mass., MIT Press, 1979, pp. 109, 80 – 81, cit. in Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, cit., pag. 137.
9
salute e del benessere della nazione. Bauman cita a proposito la sequenza di Raoul
Hilberg che inizia con “definizione”, procede attraverso “segregazione”, “isolamento” e
“deportazione” e termina con l’Olocausto; a suo parere essa può riferirsi sia
all’Olocausto, sia al combattimento, sperimentato precedentemente, contro batteri, virus
e sostanze contaminanti. Non è chiaro se il ruolo che la biologia e le tecnologie
associate hanno assunto nel processo della modernità possa avere condotto al genocidio,
ma la possibilità che una tale conseguenza si verificasse era certamente radicata in quel
ruolo, così come era stato definito e voluto dalla società moderna. In questa maniera, la
biologia ed i suoi sviluppi bio – tecnologici dovevano offrire il proprio contenuto alla
modernità, ma nello stesso contesto essa rivelò la sua potenzialità disastrosa.
Bauman passa, quindi, ad affrontare il ruolo assunto dalla biologia all’interno del
contesto postmoderno. In quest’epoca di privatizzazione del controllo dei confini, la
collocazione della biologia non risulta più rassicurante di quanto lo fosse nell’epoca
moderna. Come nella modernità, anche ora si è preoccupati della cura dell’igiene, ed
intenti a rilevare nuove sostanze nocive da isolare ed allontanare. Ma gli sforzi sono
indirizzati in una serie di direzioni dispersive e contraddittorie, cosicché ogni conquista
dell’igiene può essere paradossalmente interpretata come produzione di nuove sostanze
tossiche e nuovi pericoli. Bauman cita a proposito Hans Jonas, secondo il quale lo stesso
impulso che ci ha dotato delle capacità che devono ora essere regolate da norme ha per
complementarietà eroso i fondamenti da cui le norme dovrebbero derivare.
La modernità si è sempre connotata per un eccesso di mezzi rispetto ai fini,
mentre nell’epoca postmoderna i mezzi sono gli unici strumenti di potere rimasti sul
campo abbandonato dai fini. Infatti, come si è già considerato, oggi le capacità
potenziali sono globali, ma la loro realizzazione è lasciata all’iniziativa individuale, per
cui mezzi e strumenti dalle conseguenze generali sono utilizzati sulla base di scopi
programmati e stabiliti in privato. Bauman cita un passo di Jonathan Raban, secondo cui
nella ricerca del sé scomparso il corpo fisico diventa un simbolo centrale e diventa
oggetto di una premurosa cura. Ecco perché l’esercizio fisico, si tratti di jogging,
aerobica, yoga o maratona, è divenuto così praticato. Altrettanto diffusa è la
preoccupazione per le ultime novità della cura del corpo e per i pericoli più recenti alla
salute; questo dimostra, a parere di Bauman, la dipendenza postmoderna dalle bio –
tecno – scienze.
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L’impatto della biologia e delle tecnoscienze correlate non si ferma alla
colonizzazione della vita privata. Infatti, la maggioranza della politica postmoderna è
un’estensione della preoccupazione per il corpo, una cura del corpo attraverso altri
mezzi. L’azione comune è, dunque, una battaglia contro un rischio consolidato ed
assodato per la salute. Il consolidamento implica cercare delle cause precise ad alcuni
mali, come, ad esempio, un’impresa ritenuta più inquinante di altre, oppure attribuire la
colpa ad una categoria di persone con determinate caratteristiche: forestieri, viaggiatori,
o persone che sono sia forestieri che viaggiatori, come gli zingari, oggetto privilegiato
delle paure diffuse sullo sporco, la corruzione morale, il contagio.
Attorno alla battaglia contro i rischi consolidati per la salute sorgono movimenti
politici che fanno assegnamento solo sul loro zelo alimentato dalla paura e, per questo
motivo, non agiscono influentemente sulla società se non con azioni limitate ma molto
spettacolari. I loro attivisti sono in genere gli elementi più instabili e marginali della
società. Anche se le loro schiere non sono numerose, questi attivisti agiscono come
avanguardie per un insieme di gruppi e di individui molto più esteso.
Bauman tratta in seguito del discusso tema dell’ingegneria genetica. Esistono,
infatti, anche gli strumenti per modellare i corpi che la bio – tecno – scienza mette a
disposizione. Testimonianza di ciò è il fatto che nella nostra parte di mondo i bambini
nel grembo delle loro madri sono ritenuti estensioni del corpo materno, e come tali di
dominio privato. L’ingegneria genetica si basa anche sull’assunto che anche i genitori
sono nel loro diritto quando decidono quale tipo di bambini desiderano mettere al
mondo.
A parere di Bauman, almeno in teoria questa situazione crea due possibilità
complementari. La prima è rivolta a quella minoranza che si può permettere di
“modificare secondo le proprie esigenze” la prole. La seconda, invece, si rivolge alla
maggioranza che non ha i mezzi e le risorse per avvalersi di tale ambito di medicina.
Come in altri casi, le conquiste individuali dell’élite verranno replicate
nell’impersonalità collettiva delle politiche di massa. E’ conseguente allora, secondo
Bauman, la tentazione di esercitare pressioni politiche al fine di obbligare le istituzioni
per la salute nazionale a purificare la nazione futura dalle contaminazioni e la premura
ostentata dai partititi politici di legiferare ciò che la nazione chiede.
9
Ciò che si riteneva il risultato del destino potrebbe, così, diventare una scelta, dal
momento che, nell’attuale mondo multiculturale, la questione della razza viene
affrontata per la prima volta dopo averla trasformata da mito politico (o costrutto
culturale) a realtà biologica. Conclude Bauman: <<La dissoluzione dell’ordine socio –
politico che ha permesso alle bio – tecno – scienze di assumere la loro ben nota e
sinistra tendenza genocida, ha cancellato alcuni pericoli dall’ordine del giorno, o
almeno ha reso improbabile la loro replica nell’epoca della postmodernità. Ma i nuovi
tempi e i nuovi assetti socio – politici, hanno procurato nuovi rischi – per ora solo intuiti
e inesplorati. (...) Il problema di come impedire loro di trasformarsi in realtà,
configurerà probabilmente il contenuto dell’agenda politica del futuro>>45.
Il mutamento che la concezione della bellezza ha subito nella postmodernità è
affrontato da Bauman all’interno dell’articolo Bellezza: ovvero un sogno da cui
abbiamo paura di svegliarci. Prima di affrontare tale argomento, egli compie una
digressione sulle tradizionali concezioni filosofiche riguardanti la bellezza, ed inizia
affermando che desiderio e piacere sono gemelli, ovverosia si definiscono
reciprocamente. Infatti, ciò che desidero dev’essere un piacere ed il piacere, a sua volta,
è ciò che desidero. A proposito di ciò Bauman cita un passo della Critica del giudizio di
Immanuel Kant, secondo il quale il piacevole è connesso al sentimento di piacere o
dispiacere.
Ma altrettanto vale per il “buono” ed il “bello”, poiché ogni qualvolta che
vogliamo riferire una situazione di piacere, usiamo generalmente una di questi tre
termini. Tale abitudine, a parere di Kant, è sbagliata. I tre nomi del piacere dovrebbero
essere tenuti separati, dal momento che ognuno si riferisce ad un modo differente per
arrivare al piacere stesso e a sue caratteristiche diverse. Nelle parole di Kant, citate da
Bauman: <<Ognuno chiama piacevole ciò che lo diletta; bello ciò che gli piace
senz’altro, buono ciò che apprezza, approva, vale a dire ciò cui dà un valore
oggettivo>>46.
Tuttavia, secondo Bauman, sappiamo in cosa consistano esperienze come quelle
di “piacere”, “diletto”, “bellezza”, “bontà”, “felicità” o “amore” solo fintanto che non ci
viene chiesto di definirle. L’Estetica per secoli ha cercato di coniare una concezione di
45 Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, cit., pag. 147. 46 I. Kant, Critica del giudizio, traduzione di A. Gargiulo rivista da V. Verra, Laterza, Bari, 1970, pp. 46 e segg., cit. in Zygmunt Bauman, Bellezza: ovvero un sogno da cui abbiamo paura di svegliarci, C.P.E. – Centro Programmazione Editoriale, 2003, pag. 4.
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bellezza alla quale tutti darebbero il proprio assenso. Per l’amore, come per la bellezza
o ogni altro tipo di piacere, ciò che dà piacere a me può essere assolutamente spiacevole
ad un altro e viceversa.
Tornando a Kant, Bauman afferma che il filosofo tedesco riteneva che
l’esperienza della bellezza non fosse, però, come qualsiasi altro piacere, ossia come i
piaceri puramente soggettivi esperiti solo privatamente. Questi ultimi riguardavano,
invece, il piacevole, del quale Kant, citato da Bauman, afferma: <<Per ciò che riguarda
il piacevole, ognuno riconosce che il giudizio che egli fonda su di un sentimento
particolare, e col quale dichiara che un oggetto gli piace, non ha valore se non per la sua
persona (...)>>47. Kant proibisce, invece, l’uso del termine “bello” se qualcosa piace
semplicemente solo a chi se ne giova, mentre tale termine può essere attribuito a
qualcosa o qualcuno solo se possiamo pretendere dagli altri lo stesso piacere che noi
proviamo per la presenza del “bell’oggetto”.
La questione, tuttavia, non finisce qui. Infatti, Bauman riferisce come Kant
spieghi che non si può dare alcuna regola secondo la quale ognuno sarebbe obbligato a
riconoscere bella qualche cosa. Sarebbe pertanto appropriato affermare che la
supposizione di universalità implicata dai giudizi di tipo estetico si riferisce non tanto
alle qualità degli oggetti sottoposti a giudizio, ma a chi ha espresso il giudizio su tali
oggetti. La supposizione di universalità significa in questo caso aspettativa di un
eventuale accordo universale. Nelle altre questioni relative ad esperienze di piacere,
d’altro canto, non ci si preoccupa di accordi universali; basta solo che tali esperienze
siano nostre, erlebnisse esperite privatamente, soggettivamente. Il giudizio estetico è,
pertanto, un invito sempre valido alla conversazione e, come Bauman sostiene
riprendendo Kant, anche se non si possiede l’ideale del bello, si cerca sempre di
produrlo.
Bauman espone, in seguito, i riferimenti più spesso utilizzati nel dibattito intorno
al “bello”, ossia l’armonia, la proporzione, la simmetria, l’ordine ed altri affini. Tutti
convergevano verso l’ideale formulato da Leon Battista Alberti, cioè l’ideale di uno
stato nel quale ogni cambiamento può essere solo un cambiamento per il peggio, stato
cui Alberti dette il nome di perfezione. La bellezza, in questo caso, è perfezione. Molti
47 I. Kant, Critica del giudizio, cit., pp. 46 e segg., cit. in Zygmunt Bauman, Bellezza: ovvero un sogno da cui abbiamo paura di svegliarci, cit., pag. 7.
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grandi artisti hanno cercato di evocare tale stato di perfezione, e tra gli altri Bauman
menziona Mondrian, Matisse, Arp o Rothko. Quando un oggetto ha acquisito una forma
“perfetta”, ogni cambiamento futuro è indesiderabile e sconsigliabile.
Successivamente viene fornita da Bauman una definizione di “ideale”, secondo
la quale esso è la parte di mondo che sopravanza la nostra esperienza vissuta. Gli ideali
ci guidano in territori inesplorati e per i quali non esistono mappe. La “bellezza” è,
appunto, uno degli ideali che ci guidano al di là del mondo già esistente. Il suo valore
risiede nel suo potere di guida, e se mai si arrivasse al punto segnato dall’ideale di
bellezza, essa perderebbe il suo potere, ed il viaggio arriverebbe al termine. Non ci
sarebbe più nulla da trasgredire o da trascendere. Di conseguenza, si definiscono “belle”
molte cose, ma di nessuna cosa che si definisce in questo modo si può dire che non
possa conoscere un progresso. Ecco perché la “perfezione” è sempre un “non ancora”.
Tuttavia, tale situazione del “lavoro incompiuto” non possiede solo lati positivi.
Bauman passa ora alla analisi della contemporaneità e mostra ancora una volta
alcuni tratti della condizione postmoderna, il principale dei quali è, come si è
considerato, l’incertezza. Egli cita il sociologo Alberto Meucci, secondo il quale si è
afflitti dalla fragilità del presente, la quale richiede solido fondamento dove non ne
esiste alcuno. Quando si contempla il cambiamento, si è in una condizione tra desiderio
e timore, aspettativa ed incertezza. A ciò si riferisce anche il rischio di Ulrich Beck. La
scelta, oggi, è divenuta un destino.
Viene precisato da Bauman che la condizione della scelta ha riguardato gli
uomini da sempre, e quindi non è specificamente di proprietà della modernità liquida.
Tuttavia, la necessità di compiere quotidianamente delle scelte in condizioni di
incertezza, con i timori di rischi ignoti pronti a colpire gli uomini, non è mai stata
percepita così diffusamente come adesso. Egli afferma: <<Ciò che separa l’agonia
contemporanea della scelta dai disagi che hanno tormentato l’homo eligens in ogni
epoca è che oggi non esistono regole chiare e obiettivi affidabili, universalmente
approvati, capaci di liberare completamente, o almeno in parte, chi sceglie dalla
responsabilità delle conseguenze delle proprie azioni. Non esistono sistemi di
orientamento affidabili né criteri infallibili>>48.
48 Zygmunt Bauman, Bellezza: ovvero un sogno da cui abbiamo paura di svegliarci, cit., pag. 13.
9
Per esemplificare ciò Bauman tratta ancora della odierna situazione lavorativa,
caratterizzata tra gli altri aspetti da aziende che durano brevi periodi di tempo. Egli fa
quindi riferimento ad una sentenza di Robert Louis Stevenson, secondo la quale
viaggiare con speranza è meglio che arrivare, e sostiene che essa non è mai stata così
adatta ad un’epoca come lo è per la modernità liquida, nella quale “come fare” è più
importante rispetto a “cosa fare”. Elemento distintivo dell’attuale politica della vita, e
attributo di una “buona condotta” nella postmodernità, risulta impedire che ciò che si fa
divenga un’abitudine, non farsi vincolare dalle eredità del passato, respingere gli
insegnamenti del passato e abbandonare le competenze con facilità. Per quanto riguarda
la cultura della modernità liquida, essa non è più una cultura dell’apprendimento e
dell’accumulazione, come le culture che vengono descritte da storici ed etnografi. E’,
invece, una cultura del disimpegno e della discontinuità.
Emerge qui la tematica della bellezza postmoderna. In questo tipo di cultura, e
nelle strategie di politica della vita che essa approva e promuove, non vi è più lo spazio
precedente per gli ideali. Né c’è spazio per un ideale di perfezione che derivi la sua
desiderabilità dal fatto di porre fine alla scelta, al cambiamento, al progresso. Bauman
precisa che tale ideale può esistere nel mondo degli uomini e delle donne della
modernità liquida solo come sogno. Ecco perché la bellezza, nel suo significato
ortodosso di ideale, non è nella postmodernità in una buona condizione.
Per essere ammessi a quella che Bauman, riprendendo George Steiner, definisce
“cultura dell’azzardo”, si deve essere onnivori, provare tutto ciò che viene offerto ed
evitare di essere stabili nelle proprie selezioni. Respingere il nuovo è diventato segno di
cattivo gusto, tanto quanto la fedeltà al vecchio. Anche il significato della “bellezza”,
quindi, subisce un notevole cambiamento. Negli attuali usi del termine i filosofi non
riconoscerebbero le concezioni da loro stabilite, e sopratutto non vi troverebbero il
legale tra bellezza ed eternità, tra valore estetico e durevolezza. Nonostante le dispute
esposte in precedenza, infatti, tutti i filosofi hanno concordato che la bellezza si eleva al
di sopra dei desideri individuali. Essi non vi ritroverebbero nemmeno la pretesa di
“validità universale” che, a loro giudizio, era attributo indispensabile di ogni giudizio
estetico. La cultura dell’azzardo ha pertanto rimosso questi due aspetti dagli usi attuali
del termine “bellezza”.
9
Il mercato dei consumi ed i modelli di condotta che esso richiede si adattano a
tale cultura dell’azzardo, la quale, a sua volta, si adatta alle indicazioni del mercato.
Entrambi, in questa maniera, si alimentano a vicenda. Il mercato dei consumi, inoltre,
offre prodotti rivolti al consumo immediato ed il cui valore estetico, eterno ed
“oggettivo” non è considerato aspetto di cui preoccuparsi. Il luogo proprio della
bellezza diviene, quindi, la moda attuale. Nelle parole di Bauman: <<Il mercato
possiede la stupefacente capacità di imporre alle scelte dei consumatori, ostentatamente
individualistiche e quindi potenzialmente casuali e sparse, un modello regolare, per
quanto di breve durata, senza il quale essi si sentirebbero completamente disorientati e
perduti>>49.
Così, solo la quantità può salvare dal caos. La bellezza arriva a risiedere, ad
esempio, negli alti ritorni delle vendite, nei record cinematografici o discografici, negli
indici televisivi e massmediatici. Perfino gli Antichi Maestri, la cui reputazione si
suppone non sia scalfibile grazie alle prove superate nel corso dei secoli, non possono
sottrarsi alle nuove regole postmoderne. Come in tutti gli altri casi, la bellezza non
risiede nella qualità delle loro tele, ma nella qualità, quantitativamente misurata,
dell’evento.
Bauman riassume tutto ciò in una sentenza ossimorica: <<L’unico attributo
permanente del bello è l’impermanenza>> e continua affermando: <<Nella nostra
società della modernità liquida la bellezza è andata incontro al medesimo destino subìto
da tutti gli altri ideali che in passato hanno alimentato l’irrequietezza e lo spirito di
ribellione. La ricerca di armonia totale e di durata eterna è stata riscritta, puramente e
semplicemente, nei termini di un impegno frutto di cattivi consigli. I valori sono tali fin
tanto che si prestano al consumo istantaneo e sul posto. I valori sono attributi di
esperienze momentanee. Così è la bellezza>>50.
Come conclusione viene proposta da Bauman una citazione da Il disagio della
civiltà di Sygmund Freud, secondo la quale bellezza, pulizia ed ordine occupano un
posto particolare tra i requisiti di civiltà. Bauman nota che tutti e tre gli obiettivi
proposti da Freud come “obiettivi di civiltà” sono orizzonti del processo di
49 Ivi, pag. 18.50 Ivi, pag. 19.
9
civilizzazione, e sostiene che sarebbe meno fuorviante riferirsi a estetizzazione
(beautification), purificazione e ordinamento.
Ciò si spiega poiché oggi appare palese che il “processo di civilizzazione” non è
una fase transitoria e limitata nel processo conducente alla civiltà, ma ne rappresenta,
invece, l’autentica sostanza. Infatti, a parere di Bauman, la proposta di una civiltà che
abbia raggiunto l’obiettivo di civilizzarsi (che abbia posto un termine al lavoro di
pulizia, di ordinamento e di ricerca della bellezza) è incongruente.
9
CAPITOLO 12
IL RUOLO DELL’ARTE NELLA POSTMODERNITÀ
Bauman, all’interno di Il disagio della postmodernità, descrive diversi aspetti
riguardanti il ruolo dell’arte nella postmodernità. Innanzitutto egli afferma che la
postmodernità porta con sé l’impossibilità dell’avanguardia e, per spiegare questa
argomentazione, compie una digressione sul significato del termine”avanguardia”. Tale
termine (in senso letterale: guardia anteriore) può riferirsi ad un reparto avanzato che
precede il resto dell’esercito, ma al solo scopo di aprirgli la strada. Ciò che conferisce
all’avamposto la sua frontalità è il presupposto che dietro a lui verranno gli altri. La
concezione di “avanguardia” trae, dunque, il suo significato dal presupposto di uno
spazio e tempo ordinati, e di una fondamentale coordinazione tra i due ordini.
E’ proprio per questo motivo che, secondo Bauman, non ha senso nel mondo
postmoderno trattare di “avanguardia”. Infatti, il mondo postmoderno è un mondo pieno
di movimento, ma di un movimento disordinato. A proposito di ciò egli cita una
sentenza di Leonard B. Meyer del 1967, il quale segnalava che l’arte moderna si trovava
in uno stato di “stabile mobilità” o di “stasi mobile”; i suoi frammenti non stanno mai
fermi, ma è un’agitazione senza sistema o logica, nella quale i moti delle particelle non
si sommano. In seguito Bauman propone una metafora di Jurij Lotman, secondo la
quale invece di un’energia concentrata nella corrente di un torrente alpino, cha scava
nella roccia il letto dove scorreranno le acque, qui si ha un’energia sparpagliata,
l’energia di un campo minato dove avvengono esplosioni qui e là.
L’arte di fine secolo viveva il suo essere innovativa come una posizione
d’avanguardia grazie al modernismo, movimento che credeva nelle promesse e nelle
speranze proposte dalla modernità, e che accettava senza riserve i valori, tra i quali vi
era il progresso, che la civiltà moderna aveva posto in cima alla graduatoria. Bauman
espone un inventario, redatto da Stefan Morawski, delle caratteristiche che
accomunavano le frazioni dell’avanguardia artistica: tutte erano guidate da uno spirito
pionieristico, disprezzavano l’arte del passato, erano inclini ad agire collettivamente
fondando partiti e consideravano l’arte stessa come un avamposto del progresso sociale.
I maggiori rappresentanti dell’antitradizionalismo moderno traevano ispirazione
dalla scienza e dalla tecnica: gli impressionisti dall’ottica antinewtoniana, i cubisti
10
dall’anticartesiana teoria della relatività, i surrealisti dalla psicoanalisi, i futuristi dalle
catene di montaggio delle fabbriche. Senza la civiltà moderna, i modernisti non erano
nemmeno concepibili. I modernisti aspiravano ad educare gli individui a loro parere
arretrati, ma veniva considerata deprecabile l’eventualità che tale lezione si rivelasse
inaspettatamente facile per gli allievi. Il paradosso dell’avanguardia è quindi, a parere di
Bauman, quello di accogliere il successo come una dimostrazione di sconfitta, e la
sconfitta come riprova della bontà della propria causa. La paura del consenso del volgo
genera una ricerca di forme artistiche sempre nuove e più difficili da recepire.
Il mercato impiegò poco tempo per individuare le chance stratificatorie dell’arte
“incomprensibile”, e Bauman cita a proposito di ciò Peter Burger, per il quale il colpo
principale all’avanguardia è stato inferto dal successo commerciale, cioè
dall’incorporazione dell’arte d’avanguardia da parte del mercato artistico. Il paradosso
dell’avanguardia ha reso l’arte moderna un simbolo di distinzione.
Ma tutto ciò arrivò ad un punto di svolta. Il limite dell’epopea avanguardista,
come sostiene Umberto Eco citato da Bauman, è stata la tela vuota o carbonizzata, il
disegno di De Kooning cancellato con la gomma da Rauschenberg, la galleria deserta al
vernissage di Yves Klein, il foglio di carta senza niente sopra. Il limite dell’arte come
rivoluzione è stato, insomma, l’autodistruzione. A parere di Bauman, l’avanguardia si è
rivelata moderna nelle intenzioni, ma postmoderna nei risultati.
Egli passa quindi a trattare dell’arte nella postmodernità. In questo periodo tutti
gli stili, vecchi e nuovi, devono ottenere il proprio diritto di esistere con gli stessi mezzi,
soggiacendo alle leggi che governano l’insieme delle produzioni artistiche calcolate,
secondo la definizione di George Steiner citata da Bauman, per produrre il massimo
effetto possibile e subito dopo sparire. Infatti, in un mercato sovraccarico il compito più
difficile è quello di attirare l’attenzione del cliente, però è necessario anche fare posto a
nuove merci da sottoporre. Quindi, in tale situazione dove regna la concorrenza, non vi
è posto per una unione come poteva essere quella rappresentata dall’avanguardia. La
forza stratificatrice che una volta ha portato al trionfo/disfatta dell’avanguardia è oggi
posseduta non tanto dall’opera d’arte, ma dal luogo in cui la si è acquistata e dal prezzo
pagato per possederla. Ecco che le opere d’arte assumono lo stesso valore degli status
symbol del mercato. La postmodernità per quanto riguarda l’arte è dunque, secondo
Bauman, l’era della postavanguardia.
10
L’avanguardia ha vissuto la propria creatività come un’attività rivoluzionaria, e
ciò è testimoniato dal coinvolgimento della maggior parte dei suoi artisti in moti politici
rivoluzionari, di sinistra o di destra, nei quali essi riconoscevano affinità e comunanza di
intenti. L’arte di oggi, invece, si interessa poco della realtà. Essa, in questo senso,
condivide la sorte della cultura postmoderna che, secondo la definizione di Jean
Baudrillard, è la cultura della simulazione e non della rappresentazione. L’arte diventa
così una delle tante possibilità della realtà.
Sostiene Bauman: <<L’arte postmoderna ha acquisito un’indipendenza dalla
realtà non – artistica quale i suoi predecessori neanche sognavano. Ma tale libertà senza
precedenti è stata pagata con la rinunzia al sogno di indicare la strada al mondo>>51.
Egli precisa che non si tratta del fatto che l’arte abbia perso la sua effettiva o supposta
“utilità sociale”. Bauman cita a proposito di ciò Schoenberg, il quale ha radicalizzato il
motto di Gautier “l’arte per l’arte”, sostenendo che niente di ciò che è utile può essere
arte.
A parere di Bauman, neanche questo postulato radicale afferra la situazione
dell’arte nel contesto postmoderno, dove la stessa concezione di “utilità sociale” perde
ogni senso, in quanto sul terreno dove opera l’arte non è chiaro che cosa possa portare
vantaggio e che cosa danno alla vita sociale. Come dice Baudrillard, ripreso ancora da
Bauman, oggi la grandezza dell’arte si misura dalla sua diffusione: più grande è l’opera,
maggiore è il numero delle persone che ne fruiscono. Andy Warhol incarnò tale
situazione nella sua arte, inventando tecniche che eliminavano la concezione di
originalità mentre producevano solo copie. Importante era non che cosa si copiasse, ma
quante copie se ne vendessero.
Bauman tratta, in seguito, dell’eventuale significato dell’arte postmoderna. Egli
inizia citando un incontro, avvenuto nel 1983, tra due conoscitori e sperimentatori della
cultura moderna, Michel Foucault e Pierre Boulez, in cui si discuteva del senso della
nuova musica e della sua ricezione da parte del pubblico. Foucault sostenne che ormai
non era più possibile discutere di un rapporto della cultura moderna con la musica in
quanto tale, ma al massimo di una tolleranza nei confronti del pluralismo musicale.
Veniva riconosciuto il diritto di esistere a qualsiasi tipo di musica, e tale diritto veniva
considerato un segno di equivalenza.
51 Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità, cit., pag. 112.
10
Boulez da una parte si trovava d’accordo rispetto a questa posizione, dall’altra
aggiunse che essa, per quanto liberatoria nelle sue intenzioni, finiva suo malgrado per
consolidare le mura dei ghetti, dando alla gente la consolazione di visitare ogni tanto i
ghetti altrui. Boulez, inoltre, aggiungeva che mentre nella musica classica o romantica
esistono schemi, generalmente riconosciuti, che si possono seguire indipendentemente
dalle caratteristiche particolari di una data opera, questi riferimenti che offrivano un
appiglio sicuro sono gradualmente scomparsi dalla musica “seria”.
A parere di Bauman, per quanto riguarda l’arte contemporanea si nota che ogni
artista, spesso in ogni sua opera successiva, cerca di costituire un suo linguaggio
privato, con la speranza di farne una lingua di comunicazione ed uno strumento per
intendersi. Egli cita in seguito Jean – Francois Lyotard, per il quale l’artista
postmoderno cerca di fare dell’inesprimibile un elemento del quadro. Tale ricerca
comporta delle conseguenze. Infatti, lo scrittore e l’artista postmoderno si trovano nella
situazione del filosofo: l’opera creata non segue nessuna regola prestabilita e non può
essere giudicata in base a categorie prestabilite, dal momento che le regole e le categorie
sono appunto ciò che l’opera stessa ricerca. Le regole che hanno determinato il sorgere
di un’opera si possono scoprire – ammesso che siano scopribili – solo ex post facto. Tali
regole, inoltre, non dipendono da norme precedenti e non vincolano le future
attribuzioni di significato.
L’attività dell’artista postmoderno consiste, così, in una ricerca per mostrare
l’ineffabile, ma anche nel dimostrare indirettamente (attraverso il rifiuto dei significati
tradizionalmente convalidati) che non esiste una sola forma. Bauman precisa che già
l’arte moderna aveva accantonato fin dal primo momento le regole ed i simboli ereditati,
cercando nuovi codici e nuove tecniche creative. Facendo ciò, tuttavia, l’arte moderna
non metteva in discussione che il compito dell’arte fosse la rappresentazione della
realtà.
Nella modernità liquida, invece, l’arte assume un atteggiamento di indifferenza
nei confronti della problematica della rappresentazione. La verità che l’arte esprime non
è presente nella realtà non – artistica o pre – artistica, in attesa che la si sveli e che le si
fornisca un’espressione artistica. Eliminato, dunque, il giudizio della “verità del reale”,
l’artista rivendica il medesimo status del resto dell’umanità.
10
Afferma Bauman: <<Così dunque l’arte e la realtà non artistica si incontrano
sullo stesso piano, volta a volta come fonti o come portatrici di significati; (...) In questo
mondo, ogni significato ha esclusivamente uno status di proposta, di invito alla
discussione, al contrasto, alla formulazione di interpretazioni alternative. Nessuno dei
significati proposti ambisce a diventare il senso definitivo, e nessuno di essi lo diventa.
(...) Si potrebbe dire che il senso dell’arte postmoderna consiste nello stimolare il
processo della creazione di senso e nel prevenire il pericolo che esso venga frenato; nel
sensibilizzare all’innata polifonia dei significati>>52. Il senso dell’arte postmoderna
consiste così nell’impedire che le tendenze artistiche divengano dei canoni che
blocchino l’afflusso di nuove possibilità.
Tale caratteristica, a parere di Bauman, fa dell’arte postmoderna una forza
diversiva rispetto alla realtà esistente, sebbene vari autori, tra cui Habermas, la accusino
di conservatorismo. Habermas, infatti, utilizza come metro della qualità della vita
l’ordine e l’accordo generali, mentre l’arte postmoderna non crede assolutamente nella
speranza di mettere fine ai dissidi e di instaurare un accordo generale. Quando metro
della qualità della vita diviene la libertà, anziché l’ordine e l’accordo generale, l’arte
postmoderna merita testimonianze di approvazione.
Si tratta, quindi, della mancanza di metodi accettati ed affidabili per costituire
nuovi significati e di mezzi per esprimerli che siano riconoscibili a tutti. La pratica
generata dall’azione dell’artista postmoderno non esiste come “fatto sociale”, né
tantomeno come “valore estetico”. Si può considerare il futuro con fiducia solo quando
il passato possiede un’autorità rispettata dalla contemporaneità. Ma non essendo questa
una caratteristica della modernità liquida, agli artisti rimane solo una possibilità: la
sperimentazione.
Bauman cita, a proposito di ciò, una proposta della massima filosofa dell’arte
polacca, Anna Zeidler – Janiszewska, secondo la quale tale sperimentazione, che è il
destino dell’artista odierno, condivide la sorte dei significati, dei modi d’espressione e
dei metodi creativi: destabilizza e ribalta radicalmente tutti i concetti di sperimentazione
istituzionalmente ereditati. Il compito dell’arte postmoderna, come una volta quello
dell’arte moderna, continua ad essere un’opposizione contro il mondo esterno che si
esprime nel rimuovere il consenso e nell’allargare sperimentalmente le possibilità della
52 Ivi, pag. 118.
10
politica culturale vigente. Tuttavia, alla speranza di una futura riconciliazione si è
sostituita una definitiva differenziazione.
Sostiene Bauman: <<In sostanza, l’”avanguardismo” dei modernisti consisteva
nel tracciare piste che portassero a un “nuovo e migliorato” consenso, mentre invece
l’”avanguardismo” degli artisti postmoderni si esprime non solo nello scalzare il
precostituito consenso che risaliva a quei tempi, ma anche nel minare la stessa
possibilità di un qualsiasi canone universale e quindi automaticamente
imbarazzante>>53.
Bauman cita ora Michel Foucault, il quale ha distinto due varianti di strategia
critica, e quindi potenzialmente liberatoria. Foucault sostiene, infatti, che ci si può
schierare dalla parte di una filosofia critica che si ponga come filosofia analitica della
verità in quanto tale, oppure dalla parte di una strategia critica che assuma la forma
dell’ontologia del contesto odierno. A parere di Bauman, gli artisti postmoderni si
trovano dentro le correnti di entrambe le strategie. Per avvalorare tale tesi, egli mostra
qualche esempio tratto dalla manifestazione Artscape intrapresa per opera di Jaukkuri e
realizzata da scultori da lei scelti in un territorio della provincia di Norland, nella
Norvegia settentrionale.
Bauman inizia trattando di un gruppo di blocchi rocciosi sparpagliati da Tony
Cragg in mezzo al paesaggio del golfo di Bodo. L’artista ha perforato ogni blocco
utilizzando dei trapani, formando passaggi che si intersecano in ogni direzione.
All’interno del blocco roccioso si forma così un paesaggio con forme simili a catene
montuose, valli, gole e viottoli che si inerpicano intorno ai pendii. Secondo Bauman, ciò
rappresenta il paesaggio dentro l’arte e il paesaggio fuori dall’arte e, in questo modo,
l’ontologia della verità e l’ontologia del contesto si sono incontrate. Si pongono a
confronto, così, due verità: quella del mondo e quella dell’opera.
Come altro esempio, Bauman propone Quattro esposizioni di Gediminas
Urbonas, scolpite nel fianco di una montagna vicino a Saltdal. Per tale opera sono stati
collocati quattro recipienti, in tre dei quali è presente un oggetto, mentre il quarto è
vuoto. Secondo Bauman, è proprio quest’ultimo recipiente a svelare il senso degli altri
tre, dal momento che ora lo spettatore è indotto a ritenere che gli altri oggetti fanno
derivare il loro senso dal fatto di essere esposti. Anche qui l’ontologia della verità e
53 Ivi, pagg. 121 – 122.
10
quella del contesto si incontrano. Conclude Bauman: <<Il senso dell’arte postmoderna
(...) sta nello spalancare davanti all’arte la porta del senso>>54.
Più avanti sempre all’interno di Il disagio della postmodernità, Bauman pone un
confronto tra la verità della scienza e quella dell’arte. Egli, a proposito di ciò, cita
Richard Rorty, la cui opera è interpretata da Bauman come l’affermazione che la
narrazione liberal – progressista (whig) della storia (che rappresenta la storia come un
percorso dall’errore verso la verità) è stata concepita dai cosiddetti “preti ascetici”.
Rorty, attingendo a Milan Kundera, tratta, infatti, delle opere dei teologi e dei filosofi
come opere il cui fine è fornire una situazione dotata di senso all’esistenza umana.
Tali opere appartenevano sia a coloro che si schieravano dalla parte dell’utopia
del progresso, sia ai loro oppositori in quanto autori di moderne distopie: per esempio
Adorno, Horkheimer o Heidegger, il quale riduceva la storia della civiltà ad un’ascesa
della tecnologia sospinta dalla brama di potere, ascesa che lasciava dietro di sé un
deserto morale.
Alla volontà di tali preti ascetici di mostrare in questa maniera la storia della
civiltà occidentale, Rorty oppone una differente concezione di essa, la quale riconosce
che sono accaduti i fatti descritti dai filosofi ascetici, ma non solo quelli. Egli ritiene che
la cultura occidentale sia effettivamente razzista ed imperialista, ma anche allarmata dal
fatto di esserlo altrettanto quanto di essere eurocentrica ed intollerante. Secondo Rorty,
oggi è sopratutto questo secondo aspetto della civiltà occidentale ad emergere.
Egli, rifacendosi ancora a Milan Kundera, sostiene che tale aspetto è emerso nel
romanzo, o nella finzione letteraria. A parere di Bauman, se questa affermazione di
Kundera/Rorty corrisponde a verità, ci si trova di fronte ad un paradosso: la verità della
civiltà occidentale, della modernità, trova la sua espressione nelle opere di fiction.
Afferma Kundera, citato da Bauman: <<Il Settecento non è solo il secolo di Rousseau,
di Voltaire, di Holbach, ma anche (e forse sopratutto!) il secolo di Fielding, di Sterne, di
Goethe, di Laclos>>55.
Afferma Bauman in seguito: <<Da questo ruolo attribuito da Kundera all’arte e
accettato da Rorty, consegue che la vocazione della finzione artistica è stata, ed è, il
servire da ironico e irriverente contraltare alla cultura scientifico – tecnologica della
54 Ivi, pag. 124.55 M. Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano, 1988, pp. 221 – 222, cit. in Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità, cit., p. 147.
10
modernità, questa cultura della passione ordinatrice, delle divisioni nette, della severa
disciplina e della linda univocità>>56. Nella modernità l’arte diventa, così, una lezione
di convivenza con l’ambivalenza, una prova di tolleranza nei confronti di fenomeni non
classificati ed un invito a riconciliarsi con le differenti verità.
Bauman esamina ora una diversa e quasi opposta opinione sulla finzione
artistica, espressa da Umberto Eco all’interno di Sei passeggiate nei boschi narrativi.
Secondo Eco, i romanzi propongono un mondo in cui la nozione di verità non può
essere messa in discussione, mentre il mondo reale sembra un luogo più vario.
Indipendentemente dal fatto che accettiamo la verità del romanzo o quella del mondo, in
entrambi i casi dobbiamo accettare un gruppo di premesse. Tuttavia, le premesse che si
accettano per essere certi della storia di un romanzo sono poche, semplici ed
incontestabili, mentre per stabilire la verità delle cose nel mondo reale è necessario
prendere una serie di decisioni circa il grado di fiducia da accordare a certe informazioni
e da negare ad altre. Nei romanzi, a parere di Eco, si cerca quella sicurezza e quella
certezza che il mondo non fornisce.
Così, più profonda è l’incertezza che affligge il mondo reale, più alto è il valore
di certezza del romanzo. Bauman ritiene anche che Eco accetterebbe di rovesciare tale
rapporto: più il mondo reale è condizionato da effettive o presunte certezze, maggiore
risulta la desiderabilità del romanzo. A parere di Bauman, dunque, le due opinioni di
Kundera ed Eco non contrastano tra loro, bensì si completano. Insieme esse sono in
grado di spiegare i rapporti tra arte, mondo e certezza.
Inoltre, Bauman ritiene che tale differenza tra i due autori si possa spiegare
meglio con la differenza tra le esperienze generazionali piuttosto che con i contrasti tra
scuole filosofiche. Attraverso la teoria del romanzo di Kundera emerge l’esperienza di
una generazione cresciuta nel conteso dello stato totalitario. Fu proprio lo stato
totalitario, infatti, a conferire una capacità emancipatrice e liberatoria al romanzo.
Eco, invece, è il rappresentante di una generazione cresciuta nel “deregolato” e
polifonico mondo postmoderno. In tale contesto, il romanzo può fornire un terreno
solido di fronte alle identità mutevoli ed a storie che non si ancorano nel passato né
continuano nel futuro. Esso, inoltre, può aiutare a trovare significati in un mondo dove
l’attribuzione di senso è divenuta problematica. Bauman precisa che non vi è nulla di
56 Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità, cit., pp. 147 – 148.
10
specificamente postmoderno, né nulla di nuovo, nel trovarsi quotidianamente di fronte
alle differenze e di dovere convivere con la loro presenza: né il mondo moderno né
quello premoderno erano omogenei. Tuttavia, gli uomini e le donne premoderni
avevano i loro sistemi per fare fronte alla presenza di così numerose possibilità.
A proposito di ciò, egli prende a riferimento una descrizione, operata da José
Ortega y Gasset, dell’accoglienza offerta dagli abitanti della cittadina spagnola di
Briviesca a Bianca di Navarra nel suo viaggio per andare sposa al figlio del re di Spagna
Giovanni II. In tale corteo sfilarono sia gli artigiani delle varie professioni e
corporazioni, sia, dietro di loro, gli ebrei con la Torah e gli arabi con il Corano. Nella
realtà del quindicesimo secolo gli arabi e gli ebrei avevano, quindi, un rango ed un
posto definito nella pluralità gerarchica del mondo. Poco tempo dopo, cioè alle soglie
del secolo seguente, gli ebrei e gli arabi vennero scacciati dai territori governati dal re
spagnolo. Secondo Ortega y Gasset, tale esilio fu una concezione tipicamente moderna;
era l’uomo moderno, infatti, che riteneva di potere escludere determinate realtà e di
costruire il mondo secondo un proprio programma.
L’uomo premoderno era educato a considerare le differenze e ad accettare le
diversità degli esseri come parte integrante della creazione divina. Tuttavia, aggiunge
Bauman, se di tolleranza si trattava, essa si riduceva al fatto che ognuno si attenesse al
proprio genere e che i generi si mantenessero ad una distanza appropriata l’uno
dall’altro. Un simile modo di convivere con le differenze poteva durare solo finché
esisteva un numero limitato di generi ai quali attenersi, quindi finché non arrivò la
modernità.
Per l’uomo premoderno verità e realtà si fondevano in un unico costrutto:
entrambe erano opera della volontà divina, incarnata nella forma del mondo creato. La
situazione muta nel mondo moderno, descritto da Bauman, utilizzando una definizione
di Ilya Prigogine, come il mondo della “creazione permanente”. Quando il proprio posto
nel mondo diventa un compito individuale, qualcosa da conquistare e da difendere, la
realtà secolare non può più essere considerata come qualcosa di “dato” da un intento
superumano.
Il re Ferdinando, per tornare all’esempio precedente, decretando il bando per i
seguaci di altre fedi, inaugurò una strategia di distruzione creativa che, con maggiore o
minore successo, sarebbe stata applicata in tutto il corso della storia moderna e in ogni
10
territorio raggiunto dal processo di modernizzazione. Tuttavia, questa o altre battaglie
possono essere state vittoriose ma, secondo Bauman, nel complesso la guerra moderna
contro la differenze e l’omogeneità non si è conclusa con una vittoria.
Egli passa ora ad affrontare la postmodernità, e sostiene che l’aspetto più
specificamente postmoderno, e senza precedenti, del pluralismo del mondo odierno si
trova nelle fragili radici istituzionali delle differenze, e quindi anche nella breve durata
dell’identità delle differenze stesse. Mentre dal periodo del “disancoramento totale” e
nel corso di tutta la moderna epoca dei “progetti di vita” i problemi di identità sono stati
principalmente costituiti dal come costruirsi un’identità e dal come fornirle una forma
socialmente adatta ad essere riconosciuta, gli odierni problemi di identità consistono nel
non considerare un’identità solidamente strutturata e non trasformabile quando il
riconoscimento sociale venga a mancare e compaiano nuove e migliorate proposte
riguardanti l’identità.
Bauman compie ora un passaggio verso il mondo dell’arte, e nota che le
caratteristiche costitutive di ogni arte, tra cui la finzione artistica, sono l’artificiosità e la
derivatività delle esistenze, il condizionamento e la convenzionalità del loro status e la
loro precostituita contingenza. Egli afferma che nelle condizioni postmoderne il mondo
in quanto tale, la realtà, acquista sempre più i tratti tradizionalmente attribuiti al
contesto dell’arte. Infatti, come si è già considerato, il mondo si manifesta sempre più
come un gioco, o piuttosto come una serie di partite episodiche che si succedono in una
successione priva di struttura, senza lasciarsi dietro conseguenze che condizionino le
partite seguenti. Il mondo, nella sua condizione di giocatore, si comporta come tutti gli
altri giocatori, in una situazione in cui si verifica un flusso di eventi né necessari né del
tutto accidentali, come Bauman afferma utilizzando un’espressione di Georges Perec.
In un mondo del genere, l’opera del romanziere perde molto della sua capacità
emancipatoria e redentrice attribuitole da Milan Kundera. Nella modernità, l’arte del
romanzo offriva una valvola di sfogo alle scontentezze descritte da Freud all’interno di
Das Unbehagen in der Kultur, ovverosia ai disadattamenti tipici di una società che offre
ai suoi appartenenti una vita sicura in cambio di una parte della loro libertà. Bauman,
parafrasando il titolo dell’opera freudiana, sostiene che Das Unbehagen in der
Postmoderne, cioè le scontentezze tipiche del mondo postmoderno, trovano la loro
10
origine in una società che offre un’espansione della libertà personale in cambio della
diminuzione della sicurezza individuale.
A parere di Bauman, sono quindi le altre qualità della finzione artistica, quelle
citate da Eco, ad essere adatte alle preoccupazioni del mondo postmoderno, come la
mancanza o l’insufficienza di senso, l’incoerenza delle conseguenze o la fragilità delle
autorità. Tali qualità sono la capacità di semplificare il mondo, il ridurre la realtà a
situazioni comprensibili e rappresentabili ordinatamente ed il presentare il corso degli
eventi in una trama strutturata.
L’arte diviene così una fabbrica di verità, solo che, a differenza della verità che
veniva fornita dalla scienza, questa verità dell’arte nasce assieme ad altre verità. La
verità dell’arte considera positivamente il plurale e non interpreta la presenza di altri
come un ostacolo al proprio senso. Essa sa che ci sono molti sensi e aggiunge ad essi
qualcosa di suo.
In seguito, Bauman cita Jean Baudrillard, secondo il quale nel mondo
postmoderno grande importanza assume la simulazione (simulacrum). La simulazione è
differente dalla finzione, ossia dal fingere qualcosa che possiede attributi che in realtà
non ha, dal momento che il fingere non inficia il principio di realtà, mentre il simulacro
inficia la differenza tra “vero” e “falso”. Bauman espone, quindi, il compito dell’arte
nella postmodernità: <<Oggi è alla finzione artistica che tocca tirare furori la “verità
dell’esistente” dallo specifico nascondiglio postmoderno. Un compito che la finzione
artistica può assolvere mettendo in mostra appunto ciò che la realtà simulante e simulata
tiene nascosto: i meccanismi che eliminano dall’ordine del giorno la distinzione tra vero
e falso rendendo la ricerca di senso un’attività inutile, irrilevante, improduttiva e sempre
meno attraente>>57.
Egli conclude sostenendo che le verità che trovano una collocazione nell’arte
non hanno niente a che fare con quelle moderne. Le verità nate grazie alla finzione
artistica, rinsavite dopo le amare esperienze del moderno meccanismo totalitario,
consapevoli della propria contingenza, non più aspiranti al monopolio e senza
considerare il consenso come la testimonianza del proprio valore, possono aiutare
l’esistenza umana nel risolvere le problematiche poste da una realtà che cerca di essere
57 Ivi, pagg. 155 – 156.
11
difficile nei confronti dei suoi abitanti e che li scoraggia dal cercare il senso delle
situazioni.
11
CAPITOLO 13
LA PEDAGOGIA E L’ISTRUZIONE POSTMODERNE
La pedagogia e l’istruzione postmoderne sono trattate da Bauman all’interno di
Il disagio della postmodernità. Egli inizia citando Margaret Mead la quale, riassumendo
svariate analisi sulle abitudini di popolazioni vicine e lontane, è giunta ad una
conclusione. Secondo tale conclusione, la struttura sociale ed il modo in cui
l’apprendimento è strutturato, cioè il modo in cui l’insegnamento passa da colui che
insegna a colui che apprende, determinano, al di là del contenuto dell’apprendimento,
come possa venire utilizzato e condiviso il bagaglio di conoscenza.
L’autrice, a parere di Bauman, si riferisce qui alla concezione del deutero –
learning (deutero – apprendimento, o apprendimento di secondo grado), forgiato da
Bateson. Infatti, Mead colloca al primo posto nel processo di apprendimento e di
insegnamento il contesto sociale, il modo di trasmettere capacità e conoscenze. Mentre
il contenuto dell’insegnamento, ossia il contenuto di ciò che Bateson chiama il
protolearning (proto – apprendimento, o apprendimento di primo grado) può essere
controllato e pianificato, l’insegnamento di secondo grado è indipendente dalle
conoscenze trasmesse.
Bateson ritiene che l’insegnamento di secondo grado sia molto importante, ed
aggiunge ad esso un apprendimento “di terzo grado”, consistente nell’acquisire la
capacità di modificare l’insieme delle alternative che la persona tratta
nell’apprendimento di secondo grado. Tale apprendimento di terzo grado, secondo
Bateson, può avere anche conseguenze dannose.
A parere di Bauman, gli individui postmoderni necessitano di questo terzo grado
di apprendimento. Infatti, ad essi non è richiesto di cercare un ordine in una situazione
varia, mentre il loro successo dipende dalla loro capacità di liberarsi dai modelli,
piuttosto che dall’acquistarne. Paradossalmente, la consuetudine acquisita durante
l’insegnamento di terzo grado è quella di non utilizzare le consuetudini.
Mead ha tratteggiato il processo di apprendimento come un processo “da – a”.
L’unica condizione a non essere considerata è quella in cui non siano definiti i ruoli
dell’insegnante e dello studente, oppure in cui non si sia stabilito quale siano le
conoscenze degne di essere trasmesse rispetto a quelle evitabili. E’ Cornelius
11
Castoradis, citato da Bauman, a descrivere una situazione di tale genere. Castoradis,
dopo avere affermato che la democrazia è una istituzione pedagogica e di continua
autoeducazione dei cittadini, sostiene che nella postmodernità si verifica una situazione
opposta, nella quale sono i mass – media, le pubblicità e gli spettacoli a fornire (o a non
fornire) un’educazione ai cittadini. Ciò può portare, come ultima conseguenza, alla
svalutazione della nozione di cittadinanza com’era intesa nel corso della democrazia
tradizionale.
Bauman espone, quindi, alcuni aspetti dell’esistenza postmoderna a suo avviso
responsabili dei disagi della pedagogia. Egli inizia trattando dell’aprirsi di ogni
ambiente pedagogico e del reciproco mescolarsi degli ambienti. Nel periodo
premoderno e per la maggior parte di quello moderno l’ambiente pedagogico era,
considerando l’”oggetto dell’educazione” ed ogni categoria di oggetti, delineato e
distinto dagli altri.
Infatti, solitamente l’ambiente pedagogico rimaneva nell’ambito del villaggio o
del quartiere cittadino e non vi era una grande quantità di comunicazioni
interambientali. Un’eccezione era rappresentata dai libri, i quali erano però accessibili
solo ad una minoranza. Per la maggior parte delle persone, il prete ed il maestro erano
gli unici fornitori di informazioni extrambientali e di cultura. Ogni programma
educativo poteva, quindi, avere il suo destinatario ed assumere un atteggiamento
monopolistico.
I mezzi di trasmissione di massa cambiarono tutto ciò. Afferma Bauman a
proposito di essi: <<Le pareti divisorie tra le enclaves pedagogiche crollarono, e
assieme a esse sparì la possibilità di dirigere il processo di studio, la scelta pianificata
degli influssi educativi e dei programmi di insegnamento guidato. (...) svanì la
possibilità di controllare efficacemente l’ambiente da educare, quella possibilità che
finora era stata alla base di ogni teoria e strategia pedagogica>>58.
Un esempio della moderna strategia di controllo sociale è rappresentato, secondo
Bauman, dai legislatori della rivoluzionaria Convenzione francese, decisi ad eliminare
tutto ciò che avevano trovato riguardante le leggi. Le varie leggi sull’educazione
nazionale venivano promulgate in continuazione, una più radicale dell’altra. Ciò che in
tale situazione è interessante, a parere di Bauman, è la mancanza di riferimenti rispetto
58 Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità, cit. pag. 161.
11
al contenuto dell’insegnamento: gli autori delle leggi si occupavano soltanto delle
condizioni in cui tale insegnamento avveniva.
Il progetto educativo nazionale, presentato alla Convenzione da Robespierre,
intendeva, infatti, che tutto ciò che riguardasse gli allievi fosse tenuto in considerazione.
Bauman, riferendosi alla proposta di Bateson, sostiene che agli autori delle leggi
importava soprattutto l’insegnamento di secondo grado, cioè l’influsso educativo di un
ambiente pianificato dove le conoscenze venivano trasmesse, piuttosto che le
conoscenze stesse.
L’ideale concepito per la nazione repubblicana come insieme, e realizzato nella
scuola, si esprimeva sopratutto nella regolamentazione. L’educatore, amministratore
delle regole vigenti, doveva essere anche l’unica fonte delle conoscenze. L’educazione
delle abitudini, la trasmissione delle conoscenze e la produzione delle capacità
confluivano così in un processo gestito dagli insegnanti.
Bauman, citando Jean – Marie Benoist, sostiene che i legislatori della
Convenzione rivoluzionaria volevano attuare un cambiamento totale, avevano un fine
determinato ed erano indifferenti rispetto ai costi. Ma questi principi proposti dalla
Convenzione avrebbero poi guidato quasi tutta la pedagogia moderna. Anche certe loro
scoperte sono rimaste parte del moderno patrimonio: per esempio, il fatto che gli esiti
pedagogici vengono determinati dal sistema nel quale gli individui praticano
l’apprendimento.
Egli passa ora ad analizzare la situazione nella postmodernità, nella quale è
proprio la condizione che regola l’effetto educativo dell’ambiente a non essere fornita.
Nella postmodernità, infatti, la conoscenza è extraterritoriale; le stesse informazioni,
trasmesse nello stesso modo, sono accessibili a tutti, indipendentemente dal luogo di
residenza e dall’appartenenza di gruppo. Sostiene Bauman: <<Le fonti del sapere sono
ovunque e in nessun luogo; in nessun luogo, nel senso che sono venuti a mancare i
luoghi privilegiati provvisti del monopolio della conoscenza affidabile e degna di essere
posseduta; ovunque, nel senso che, in questa mancanza di fonti privilegiate del sapere
(o, in altre parole, di fonti del sapere privilegiato), ogni unità di informazione,
indipendentemente dal contenuto e dalla provenienza, vale quanto le altre >>59.
59 Ivi, pag. 164.
11
Bauman torna ora a prendere a riferimento Bateson, il quale, trattando della
pratica dell’educazione moderna, concordò con Mead sul fatto che esiste una
discrepanza tra l’”ingegneria sociale”, cioè la manipolazione delle persone allo scopo di
raggiungere una società programmata, e gli ideali della democrazia, intesa come valore
superiore e responsabilità morale dell’individuo. Infatti, l’oggetto dell’educazione e il
modo in cui essa veniva trasmessa, assieme all’ambiente nel quale veniva trasmessa,
spesso erano differenti.
Scopo stabilito dell’educazione moderna era formare un uomo adatto alla vita
“repubblicana”, come sostenevano i legislatori della Convenzione, o alla vita
“democratica”, come sostenevano quelli che da loro avevano ereditato il potere. Per
vivere in quel mondo, all’uomo veniva insegnata la capacità della libera scelta,
l’assumersi la responsabilità delle proprie azioni ed un atteggiamento propositivo nei
confronti del mondo.
Tuttavia, le esperienze delle circostanze in cui tali insegnamenti si diffondevano
fornivano nozioni opposte. Tali circostanze insegnavano alle persone a schierarsi dalla
parte delle scelte degli uomini di potere, a cedere ad essi le responsabilità e a cercare la
sicurezza nella routine. Da qui, appunto, nasceva la divergenza trattata da Mead e
Bateson.
Secondo Bauman, la situazione pedagogica postmoderna possiede a sua volta
alcune contraddizioni, anche se di genere diverso, le quali sono in rapporto con le aporie
caratterizzanti la società dove si volge l’educazione. La situazione pedagogica globale
postmoderna, infatti, non solo induce alla libertà di giudizio e di scelta, ma la rende
necessaria. Agli uomini ed alle donne postmoderni viene così insegnato di assumere
decisioni sotto la propria responsabilità. D’altro canto, la stessa situazione pedagogica
rende problematico l’approfittare di tale libertà per costituire una personalità
autoguidata ed autoregolata.
Egli torna, più avanti, a trattare delle concezioni di “relazione pura” e di “amore
convergente” proposte da Anthony Giddens, nelle quali assumono importanza
l’”adeguatezza” e l’”efficienza fisica”, due degli ideali sui quali si fonda l’esperienza
del collezionista si sensazioni. Tali relazioni costituiscono, secondo Bauman, una
“spersonalizzazione” delle relazioni interpersonali, ed hanno a che fare con i problemi
affrontati nella postmodernità da insegnanti e da educatori e per i quali operano i
11
pedagogisti. Infatti, tali cambiamenti riguardanti le relazioni rappresentano le
caratteristiche dei cambiamenti postmoderni nel contesto sul quale i pedagogisti non
esercitano la loro attività, contesto che determina il corso e gli effetti
dell’apprendimento di “secondo” e di “terzo” grado. Così la pedagogia, basata
sull’unione tra educazione ed insegnamento, svolge un compito contrario rispetto a
quello fornito dalla società postmoderna e dal mercato.
11
CONCLUSIONE
In conclusione alla mia ricerca riguardante la postmodernità nell’analisi di
Zygmunt Bauman, espongo quali sono, a mio parere, i punti principali attraverso i quali
si possa comprendere la posizione dell’autore sull’argomento. Essi sono la dimensione
onnipresente dell’incertezza, l’aspetto del consumo e la ricerca della comunità, e
incidono su molti aspetti della vita postmoderna.
Innanzitutto, un ruolo rilevante all’interno della modernità liquida analizzata da
Bauman è assunto dalla dimensione dell’incertezza. Tale dimensione è onnipresente
nelle condizioni di vita e di lavoro degli individui postmoderni, ed in questo caso è
rappresentata dalla precarizzazione e dalle nuove forme di lavoro “flessibile”. Risulta
importante, come figura rappresentativa di tutto ciò, quella proposta da Bauman del
“vagabondo”, il quale è tale a causa della scarsità di luoghi organizzati per favorire
buone condizioni di vita e di lavoro, e perché per lui il mondo locale in cui si trova è
inospitale. Tali condizioni lavorative e di vita fanno sì che, al contrario di quanto
avveniva nella modernità, l’equilibrio tra sicurezza e libertà sia sbilanciato a favore
della seconda.
Qui si inserisce anche l’analisi di Bauman sulle tre dimensioni della sicurezza,
intesa nel senso del termine tedesco Sichereit, le quali vengono a mancare nel passaggio
dalla modernità alla postmodernità. Tali dimensioni sono definite dai termini security
(sicurezza esistenziale), certainty (certezza) e safety (sicurezza personale, incolumità).
Tale incertezza si concretizza anche nel clima di assedio della paura, i cui quattro
fattori responsabili sono il nuovo disordine mondiale, la deregulation universale, la
perdita d’importanza delle reti di protezione tradizionali (ad esempio familiari o di
vicinato) ed i modelli proposti dai media culturali.
L’incertezza, sotto forma di ambivalenza, si inoltra anche in altre problematiche,
come quella dell’identità, la quale viene ad essere temporanea e pronta ad essere
dismessa e, di conseguenza, rende le vite personali frammentate in episodi. Per rendere
questa dimensione postmoderna dell’identità è di valore la proposta di Benedetto
Vecchi, citata da Bauman, dell’”identità–puzzle”, nonostante Bauman distingua in parte
l’identità postmoderna da essa per il fatto che la stessa identità postmoderna, nel
processo della propria costruzione, è orientata dai mezzi che l’individuo possiede e non
11
ad un obiettivo che egli voglia raggiungere. Inoltre, la precarietà della costruzione
individuale dell’identità spinge gli individui che la praticano ad unirsi mediante
comunità che risultano essere solo surrogati delle comunità tradizionali.
Una forma di incertezza è presente anche all’interno del rapporto con lo
straniero, il quale è alla stessa maniera desiderato, poiché nella postmodernità vengono
enfatizzati l’eterofilia ed il valore delle differenze, e temuto, dal momento che può
portare conseguenze dannose per l’incolumità personale. Si inseriscono qui i riferimenti
di Bauman alle moderne strategie antropofagica ed antropoemica, ovverosia di
assimilazione o di eliminazione degli stranieri, ed alle modalità di convivenza con gli
stranieri, costituite dal ridurre il loro carattere imprevedibile, come ci si proponeva di
operare tramite le moderne utopie di progettazione urbanistica, oppure dall’allontanarli
in zone specifiche delle città, in modo tale da farli diventare quelli che Bauman
definisce stranieri “ante portas”.
Infine, pure la concezione postmoderna del corpo riflette una condizione di
incertezza e di ambivalenza, dal momento che esso è considerato sia recettore di
sensazioni, sia da tenere sotto controllo per via di possibili minacce. Il corpo diventa
così “sotto assedio”. Inoltre, risulta importante il fatto che Bauman colleghi tale
privatizzazione della gestione del corpo all’ambiguità postmoderna tra la fobia del
mutevole e la fobia del definitivo, cioè alla paura di non possedere una méta unita alla
paura di raggiungerla.
In secondo luogo, un altro aspetto che influenza molte situazioni all’interno della
realtà postmoderna è rappresentato dal consumo. La società consumistica postmoderna
produce un’inversione del rapporto tra i bisogni ed il loro soddisfacimento e non
condiziona solamente il consumo di merci, poiché, coma Bauman ci dimostra, l’attività
dello shopping si rivolge anche alla ricerca di nuovi e migliori stili di vita. Tutto ciò si
concretizza in una dipendenza degli individui postmoderni dal mercato. A proposito di
ciò, è rilevante la analisi di Bauman secondo la quale nella realtà postmoderna il
principio di piacere diventa il pilastro della realtà, capovolgimento di una delle
teorizzazioni di Sigmund Freud. Inoltre, il mercato si propone anche come uscita
istituzionalizzata dalla politica, poiché in esso vengono spesso ricercate quelle soluzioni
che le organizzazioni politiche, rimaste ad un livello locale e distanti dal nuovo potere
globale, non riescono a fornire.
11
Le pragmatiche di comportamento che caratterizzano il consumo, inoltre, si
estendono nuovamente alla concezione dell’identità, dal momento che i modelli
proposti dal mercato divengono fondamentali per quelle che Bauman definisce le
“identità al plurale” postmoderne. Anche il corpo postmoderno recettore di sensazioni è
modellato in base alla proposte del consumo, e prova di ciò è il fatto che, per la
valutazione della sua efficienza, non si utilizza più il termine “salute”, bensì quello
“benessere” (fitness), implicante l’adattabilità del corpo al fine della ricezione delle
sensazioni e delle esperienze fornite dalla società dei consumi.
Aspetti pertinenti al consumo si riscontrano, inoltre, nelle attitudini degli
individui postmoderni verso le relazioni, ed in questo caso è interessante la citazione di
Bauman dei concetti, proposti da Anthony Giddens, di “relazione pura” e di “amore
convergente”, i quali definiscono relazioni facilmente scioglibili ed improntate ai
benefici che se ne possono trarre. Tali relazioni sono racchiuse da termini quali “reti” o
“connessioni”, e testimoniano la ricerca di una soddisfazione simile a quella portata dal
consumo, soddisfazione alla quale gli individui postmoderni sono abituati. Per una loro
migliore gestione, poi, spesso vengono utilizzati gli aiuti forniti dagli esperti –
consulenti, modalità anch’essa che ripropone le pragmatiche consumistiche. Bauman
sottolinea, inoltre, una conseguenza fondamentale di questo tipo di relazioni, ovverosia
la scarsa importanza morale dell’altro, considerato come oggetto di valutazione
mediante determinati parametri.
Una proposta di Bauman originale e degna di nota è quella secondo cui nella
postmodernità il consumo arriva ad influenzare persino l’ambito religioso, dal momento
che i fondamentalisti religiosi appartengono alla schiera dei “consumisti imperfetti”,
ossia agli esclusi dal meccanismo consumistico postmoderno, ai quali le organizzazioni
fondamentaliste offrono una liberazione dalla libertà di scelta, proposta spesso come
uno degli assiomi del mercato. D’altro canto, le “esperienze estreme” generate dal
consumo si pongono in contraddizione rispetto alle organizzazioni religiose che
predicano l’insufficienza dell’uomo.
Anche l’arte postmoderna risente del consumo e del mercato, tanto che Bauman
sostiene che nella postmodernità gli artisti tradizionalmente considerati come
fondamentali perdono importanza rispetto all’evento artistico che li coinvolge, il quale
è, appunto, gestito dal mercato. Inoltre, la bellezza nella sua concezione tradizionale di
11
ideale, la quale implicava stabilità e mirava alla perfezione, nella postmodernità non è
più presente con tali caratteristiche, bensì risiede all’interno delle mode consumistiche e
possiede l’impermanenza tra i suoi attributi principali.
Per descrivere tale presenza diffusa del consumo nella postmodernità divengono,
così, fondamentali le figure, proposte da Bauman, del “flaneur” e del “turista”. Il primo,
da figura marginale descritta da diversi narratori moderni, diventa nella postmodernità
diffuso e rilevante, e considera i nuovi shopping malls (i centri commerciali) e le città
postmoderne luoghi adatti al suo “bighellonare”. Il secondo intende provare le differenti
esperienze proposte dal mercato consumistico, praticando quella libertà di scelta già
considerata in precedenza.
In terzo luogo, la ricerca della comunità accomuna diverse problematiche
postmoderne. Per la comprensione di tale problematica risulta utile l’analisi di Bauman
delle “comunità-piolo”, le quali sono comunità transitorie costruite intorno ad un
interesse che i loro appartenenti momentaneamente condividono, al fine di ricomporre
quell’equilibrio tra libertà e sicurezza che, nella postmodernità, è sbilanciato a favore
della prima. Esempi di tali “comunità-piolo” sono le nuove forme di tribalismo,
costituite dai festival musicali o dalle folle che accorrono per gli eventi sportivi, e le
mode ed i culti che sfociano, ad esempio, nei Weight Watchers citati da Bauman, gruppi
che assumono nuovamente il corpo come oggetto di controllo.
Tuttavia, la comunità è anche cercata all’interno delle città postmoderne, le quali
sono caratterizzate da una forte richiesta di sicurezza personale. Ecco che Bauman cita,
a proposito di ciò, il progetto della città di Heritage Park in Sudafrica composto
dall’architetto George Hazeldon, città modellata, per la stessa ammissione
dell’architetto, sulla comunità londinese della sua infanzia, e protetta con ogni tipo di
mezzo tecnologico contro possibili minacce all’incolumità personale. Bauman, riguardo
a tale tematica, propone anche l’esempio di San Paolo del Brasile.
Di rilievo è anche l’analisi di Bauman delle nuove forme di ghetto presenti in
tali città, i cui abitanti sono ostili e diffidenti gli uni verso gli altri ed in questa maniera,
ancora una volta, non portano alla realizzazione di una comunità. A fianco di questi tipi
di ghetto, modellati in base al principio della divisione etnico–razziale, sussistono anche
i cosiddetti “ghetti volontari”, abitati da individui facoltosi e gestiti in modo tale da
vietare l’ingresso agli estranei. Tutto ciò ha come conseguenze meccanismi di
12
criminalizzazione della povertà e di segregazione sociale. Anche gli spazi di consumo,
come, ad esempio, i già citati shopping malls, rappresentano surrogati di comunità,
poiché forniscono ai loro fruitori una appartenenza comune ed una comunanza di
interessi, seppure momentanea e transitoria.
Per questi motivi, l’incertezza, il consumo e la ricerca della comunità sono, a
mio parere, tra gli aspetti principali che costituiscono l’analisi di Zygmunt Bauman
riguardo alla postmodernità. Questa analisi, in un’epoca come quella della
postmodernità in cui le problematiche moderne lasciano il passo ad un nuovo insieme di
questioni, spesso trattate in dibattiti presenti nei principali mass – media e in diverse
pubblicazioni, costituisce una valida modalità di interpretazione e di comprensione di
tale realtà.
12
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