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L’AUTOBIOGRAFISMO NEL PROGETTO LETTERARIO DI VITTORIO ALFIERI Quasi perfettamente conchiusa nella seconda metà del Settecento, l’esperienza umana e letteraria di Alfieri campeggia isolata nel panorama della letteratura italiana del tempo. Sull’uomo, sicuramente una delle figure più autenticamente originali del secolo, si modella l’opera vasta, complessa, protesa in più direzioni. Nulla le sta a confronto fra i contemporanei per spirito agonistico, severità di stile e valore artistico. La molteplicità delle scritture esplorate dà luogo a una sorta di laboratorio in costante divenire, nel quale, accanto all’opera creativa vera e propria – non tutta di ugual valore estetico, ma in ogni caso fortemente connotata e densa di spunti innovativi – sussiste il tenace e mai disatteso impegno nello studio. Fra gli aspetti caratterizzanti di tale produzione letteraria, moderna e originale appare, anche a prescindere dalla Vita scritta da esso, una robusta vena di autobiografismo, sebbene e quasi paradossalmente ciò non com- porti facili concessioni allo svelamento della propria interiorità o anche solo attitudine alla confessione profonda. Com’è ampiamente condiviso, non nel contenuto autobiografico di tanta parte dei testi alfieriani vanno cercate sia l’ammissione tout court sia la proiezione dei legami parentali complicati e sofferti – quest’ultima se mai percorre come fiume sotterra- neo tutta l’opera tragica dal Filippo alla Mirra –, sia la radice profonda del- la malinconia dell’uomo e della sua insofferenza a vivere come la saggezza consiglia e il buon senso suggerisce. Alfieri parla di sé in continuazione, si pone da solo al centro della scena, non consentendo mai a comprimari di sottrargli spazio, ma sceglie e seleziona i contenuti autobiografici in funzione di un preciso scopo letterario. Sostanzialmente sincero (ricor- diamo il patto narrativo stipulato nella prima pagina col lettore della Vita di non dir «cosa che vera non sia»), ignora con disinvolta eleganza ciò che vuol tacere o adotta l’escamotage di un dire reticente, imponendoci così un quasi costante nascondimento del proprio io segreto. Come si nota da ________________ ACME - Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano LXII - 3 - Settembre-Dicembre 2009 http://www.ledonline.it/acme

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L’autobiografismo neL progetto Letterario

di Vittorio aLfieri

Quasi perfettamente conchiusa nella seconda metà del settecento, l’esperienza umana e letteraria di alfieri campeggia isolata nel panorama della letteratura italiana del tempo. sull’uomo, sicuramente una delle figure più autenticamente originali del secolo, si modella l’opera vasta, complessa, protesa in più direzioni. nulla le sta a confronto fra i contemporanei per spirito agonistico, severità di stile e valore artistico. La molteplicità delle scritture esplorate dà luogo a una sorta di laboratorio in costante divenire, nel quale, accanto all’opera creativa vera e propria – non tutta di ugual valore estetico, ma in ogni caso fortemente connotata e densa di spunti innovativi – sussiste il tenace e mai disatteso impegno nello studio.

fra gli aspetti caratterizzanti di tale produzione letteraria, moderna e originale appare, anche a prescindere dalla Vita scritta da esso, una robusta vena di autobiografismo, sebbene e quasi paradossalmente ciò non com-porti facili concessioni allo svelamento della propria interiorità o anche solo attitudine alla confessione profonda. Com’è ampiamente condiviso, non nel contenuto autobiografico di tanta parte dei testi alfieriani vanno cercate sia l’ammissione tout court sia la proiezione dei legami parentali complicati e sofferti – quest’ultima se mai percorre come fiume sotterra-neo tutta l’opera tragica dal Filippo alla Mirra –, sia la radice profonda del-la malinconia dell’uomo e della sua insofferenza a vivere come la saggezza consiglia e il buon senso suggerisce. alfieri parla di sé in continuazione, si pone da solo al centro della scena, non consentendo mai a comprimari di sottrargli spazio, ma sceglie e seleziona i contenuti autobiografici in funzione di un preciso scopo letterario. sostanzialmente sincero (ricor-diamo il patto narrativo stipulato nella prima pagina col lettore della Vita di non dir «cosa che vera non sia»), ignora con disinvolta eleganza ciò che vuol tacere o adotta l’escamotage di un dire reticente, imponendoci così un quasi costante nascondimento del proprio io segreto. Come si nota da

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una lettura estesa dell’Epistolario, anche nella scrittura privata, non desti-nata alla pubblicazione, l’astigiano non dà spazio alla rivelazione di sé. La lettera alfieriana è quasi sempre inerente a fatti, eventi, azioni e decisioni che esigono di essere comunicati, o è motivata dalla necessità di adempie-re agli obblighi della vita sociale o di relazione con i familiari, e su altro versante, in casi ancora diversi, è volontaria testimonianza dell’identità in-tellettuale e del credo politico dell’autore, ma evita per lo più lo sfogo, la conversazione intima, l’effusione del sentimento personale, che quando emergono, sono quasi sempre sfuggiti alle maglie di un rigoroso auto-controllo e mai appaiono voluti e tanto meno programmati 1. per contro l’opera nel suo complesso colpisce per la propensione spinta dell’autore a raccontarsi, per il bisogno di narrativizzare il proprio vissuto e soprattutto la propria esperienza letteraria, per la volontà quasi ossessiva di lasciare un preciso esauriente ritratto ufficiale di sé.

La carica emotiva e sentimentale che colora le pagine della Vita (pubbli-cata postuma nel 1804) 2 è novità da poco comparsa sulla scena letteraria europea. negli anni ottanta, fra la rivoluzione americana e quella france-se, si colloca infatti la trasformazione che investe a tutto campo il genere autobiografico. L’opera che scardina di colpo le caratteristiche delle bio-grafie primosettecentesche e si impone come nuovo modello di riferimen-to è quella di rousseau. Con intuito da caposcuola il ginevrino riprende il titolo, Confessions 3, da quelle agostiniane e la parola conserva tutto il suo valore drammatico: anche Jean-Jacques scrive “la storia della sua anima”, ma al cospetto dell’umanità sua contemporanea piuttosto che al cospetto di dio. emerge e dilaga da qui un nuovo e diverso interesse per il sog-getto, che implica l’attribuzione di una totale autonomia, di valore e di significato, al tragitto esistenziale dell’uomo. Chi dice io, dichiara senza remore fino dall’incipit:

Je forme une entreprise qui n’eut jamais d’exemple et dont l’exécution n’aura point d’imitateur. Je veux montrer à mes semblables un homme dans toute la vérité de la nature; et cet homme ce sera moi. moi, seul. Je sens mon coeur et je connais les hommes. Je ne suis fait comme aucun de ceux que j’ai vus; j’ose croire n’être fait comme aucun

1) si segnala il particolare ruolo che nell’Epistolario spetta alla corrispondenza con l’abate tommaso Valperga di Caluso alla quale soltanto appartiene una certa pienezza di comunicazione intellettuale e affettiva. 2) La prima redazione della Vita fu stesa nel 1790: il testo giungeva fino al capitolo XiX dell’epoca Quarta. La rielaborazione iniziò nel 1798 e si protrasse fino al lavoro di tra-scrizione concluso il 2 maggio del 1803. subito dopo, fra il 4 e il 14 maggio, alfieri riprese la narrazione relativa agli anni 1790-1803, conducendola fino al momento della scrittura. 3) Le Confessioni di rousseau furono pubblicate postume a parigi tra il 1782 (prima parte) e il 1789 (seconda parte), ma la loro composizione risale agli anni 1764-1770.

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de ceux qui existent. si je ne vaux pas mieux, au moins je suis autre. si la nature a bien ou mal fait de briser le moule dans le quel elle m’a jeté, c’est ce dont on ne peut juger qu’après m’avoir lu. 4

Contrariamente a quanto ipotizza nel brano, rousseau fonda un genere. e una folta schiera di imitatori – ma anche di non-imitatori, figli del lo-ro tempo, che sentirono come rousseau sentiva prima ancora di averlo letto –, darà di che leggere e appassionarsi a un pubblico insofferente del principio di autorità e dei canoni classicistici del buon gusto e della misu-ra. pertanto il rendiconto informativo su modelli di pensiero, su program-mi accademici, su maestri e docenti, in cui più propriamente consistevano le autobiografie della prima metà del settecento 5, giustificate dalle norme dell’utilità sociale e della sistematicità documentaria, viene superato e ac-cantonato dal genere imposto da rousseau. Chi racconta di sé dopo di lui, lo farà personalizzando e interiorizzando la propria immagine, nel segno dell’originalità e dell’irripetibilità, e si farà primo attore davanti a un pub-blico di eguali al pari consapevoli e inquieti 6.

anche la Vita dell’alfieri risente fortemente di questo clima, ma al tempo stesso si trova in posizione del tutto eccentrica nel panorama va-riegato delle autobiografie dei suoi contemporanei. fu composta a parigi nei tumultuosi giorni del 1790, quando alfieri aveva solo quarantuno anni ma una percezione dell’età e dell’esistenza già molto avanzate, contrasse-gnate da un malinconico senso di finitezza. Vittorio poteva guardare alla sua carriera con soddisfazione e compiacimento, ma di fatto la viveva con un profondo sentimento di declino e conclusione. La consapevolezza del valore della propria opera e il lutto per una creatività che sentiva non più all’altezza di generare capolavori, lo spingono a definire e formalizzare la corrispondenza fra la propria vicenda esistenziale e il ruolo intellettuale a cui aveva aderito. si avvia così un progetto di selezione di ricordi, eventi, esperienze, che risultino significativi ai fini di inverare l’opera e l’autore. Con conseguenze determinanti sul tipo di autobiografia che va prendendo forma, poiché l’intento mitografico finisce per plasmare l’intera operazio-ne letteraria a partire dalla creazione di quel narratore-personaggio che è non solo il modello con il quale Vittorio si identifica, sullo sfondo di fatti reali e veridici, ma è l’incarnazione del mito dello scrittore esemplarmente forgiato nel Del Principe e delle lettere. un passo indietro nella genesi della

4) rousseau 1959, p. 33. 5) i modelli vigenti sono quelli del muratori nell’autobiografica Lettera a Giovanni Artico di Porcia, del 1721, o di Vico o anche, in parte, quello della Vita di giannone risa-lente agli anni 1736-37. 6) osserviamo la contiguità cronologica tra le autobiografie del secondo settecento: i Mémoires di goldoni furono composti fra il 1784 e il 1787, quelli di Casanova fra il 1791 e il 1798, le Memorie inutili di gozzi nel biennio 1797-98, mentre l’autobiografia di da ponte esce bilingue a new York nel 1807.

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sua vocazione letteraria consente di andare alle radici di un progetto così tenacemente e consapevolmente perseguito e di apprezzare l’eccezionalità delle vicende del suo itinerario intellettuale.

La scoperta e l’adesione alla vocazione letteraria sono emotivamente vissu-te e artisticamente interpretate da alfieri come trasposizione di un’istanza primaria, quella dell’azione eroica, che, date le condizioni oggettive dei tempi che corrono, non è purtroppo perseguibile 7. il racconto che se ne fa nella Vita potrebbe portare fuori strada chi volesse ricavarne il valore informativo perché forti, nei passi in questione, sono la tensione autorap-presentativa e lo sforzo di interpretazione esercitati dall’autore, attraverso il filtro di una memoria molto selettiva. tuttavia un tentativo di sottoporre i testi a una sorta di destrutturazione per risalire a una verità che non fini-sce ancora di stupirci, quella di una carriera d’autore che nasce fulminea e senza avvisaglie né significativi apprendistati, può sfiorare l’arbitrio. È dif-ficile infatti scegliere come e quando credere o non credere alle parole del narratore, ancor di più come distinguere la buona fede, anche se bugiarda, dalle riconosciute necessità dell’arte che quasi sempre rende indispensabi-le aggiustamenti e più o meno percettibili deformazioni sui fatti reali 8. in ogni caso occorre affrontare la vicenda della conversione alla letteratura su due piani distinti: psicologico-individuale e pubblico, tenendo comun-que presente che si tratta di una semplificazione utile a fini di studio, ma che nella realtà i due piani si frangono e si intersecano di continuo. sotto il profilo privato, almeno tre eventi sembrano significativi a determinare una svolta: la conoscenza e frequentazione dell’abate di Caluso, il banco di prova dell’Esquisse, la rovinosa relazione con la falletti di prié. tra il 1772 e il 1775 alfieri vive uno dei suoi periodi più cupi. Cerchiamo nella cronologia e sparse nell’opera, al di là delle parole, le spie dei suoi disagi. il ventiduenne conte alfieri trascorre le prime cinque settimane del ’72 a Lisbona: l’anno precedente, travolto dallo scandalo del suo amore per pe-nelope pitt, ha sperimentato il dolore del subìto tradimento e forse anche la vergogna della beffa resa pubblica. rimettersi in viaggio è un modo per riprendersi dalla delusione e dall’amarezza. a Lisbona conosce tommaso Valperga abate di Caluso di pochi anni maggiore di lui, torinese di antica aristocrazia, uomo di vastissima cultura scientifica e letteraria, conoscitore di lingue antiche e appassionato bibliofilo. La Vita, testimonia il grande affetto e la stima di Vittorio per il Caluso in molteplici occasioni, a partire dal ritratto commosso e partecipe che viene a coincidere con l’elogio di

7) per una disamina puntuale del rapporto tra situazione storica e scelte letterarie e ideologiche del poeta, si consulti il seguente saggio: n. mineo, Vittorio Alfieri nella crisi dell’Antico Regime, in Cerruti - Corsi - danna 2003, pp. 407-444. 8) per l’origine della conversione e i suoi primi sviluppi consultare Vita (epoca iii, capp. 13-15; epoca iV, capp. 1-3), in alfieri 1951a, i, pp. 135-152 e 177-199.

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una figura ideale di maestro e amico, di filosofo e di letterato 9. il Valperga che apparve agli occhi di alfieri «quell’uomo unico, che è un montaigne vivo» ebbe il merito di porsi come un socratico maestro nei confronti di chi fino ad allora si era sempre sentito privo di guida e di riferimenti culturali significativi. Così per l’astigiano la nascente amicizia col Caluso fu esperienza illuminante. L’ammirazione per la sua cultura e l’arricchi-mento spirituale che ne conseguiva, insieme alla riconoscenza per sentirsi accolto e stimato, avrà rappresentato una sollecitazione determinante per dare forma alle inquietudini intellettuali, alle idee in ebollizione, alle co-noscenze e agli stimoli disordinati che una vita da viaggiatore nevrotico e distratto ma non convenzionale, e una personalità melanconica portata al ritiro in se stessa e alla meditazione, avevano accumulato in modo caotico sebbene originale. forse il giovane alfieri accanto all’abate prese coscien-za che carattere indomito ed energie interiori, intelligenza acuta e privilegi del censo si potevano impiegare in ben altri modi che non fossero una vuota dissipazione.

rientrato in patria nel maggio 1772, Vittorio elude le pressioni del cognato a intraprendere la carriera diplomatica per amore della propria in-dipendenza e a partire dal ’73 dà vita alla società letteraria dei Sansguignon che si riunisce settimanalmente nell’appartamento di piazza san Carlo. Qui ha modo di inebriarsi del suo primo successo di pubblico con l’Esquisse du jugement universel, testo che forse lo rivela a se stesso molto più di quanto le inevitabili incertezze di un’opera prima lascino supporre e più di quanto, cercando di minimizzare, traspaia dalla Vita 10.

in effetti l’Esquisse rispondeva già a quelle esigenze di drammatiz-zazione ed eroicizzazione della figura del letterato, non prive di rispec-chiamenti e riflessioni ironiche, che caratterizzeranno, o che saranno co-munque obiettivo, anche della sua opera più matura. In nuce nell’operetta c’è già molto, e alfieri lo sa: con l’Esquisse ha provato l’ebbrezza di una composizione progettata, realizzata e presentata davanti a un pubblico ri-stretto di fedeli, ma sufficientemente composito per poter simulare un pubblico vero e più vasto.

ma l’esperienza con i Sansguignon non si svolge tutta sotto il segno della scrittura e del confronto: molto è ancora troppo mondano e fuor-

9) «Quest’uomo, raro per l’indole, i costumi e la dottrina, mi rendé delizioso codesto soggiorno […]. Con esso io imparava sempre qualche cosa, e tanta era la di lui bontà e tolleranza, che egli sapeva per così dire alleggerirmi la vergogna ed il peso della mia igno-ranza estrema, la quale tanto più fastidiosa e stomachevole gli dovea pur comparire, quanto maggiore ed immenso era in esso il sapere» (alfieri 1951a, i, p. 131). 10) «io ebbi la sorte d’introdurre varie carte nel ceppo, le quali divertirono assai la brigata […]. e fra gli altri uno ne introdussi, e tuttavia lo conservo, che fingeva la scena di un giudizio universale […] e questo ebbe molto incontro perché era fatto con qualche sale» (alfieri 1951a, i, p. 137).

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viante. il giovane alfieri, in balia di una vita ancora oziosa, non è abba-stanza forte per sottrarsi alla fatale trappola «dell’odiosamata» gabriella falletti di prié. La «terza ebrezza d’amore veramente sconcia» è il cataliz-zatore di una crisi che è nell’aria forse dal tempo della deludente fine della storia con la Ligonier. pochi mesi dopo l’inizio della relazione, un’acuta malattia di stomaco 11, misteriosa, pericolosissima, porta Vittorio in punto di morte, sintomo forse anche di una ribellione del corpo, sotterranea, inconscia, violentissima a una vita il cui senso non può più essere eluso.

guarito, nel 1774 riprende a scrivere cimentandosi nei versi del pri-mo nucleo della Cleopatra e, a partire dal mese di novembre, nella stesura dei Giornali. La genesi della primissima tragedia ci viene narrata nell’au-tobiografia secondo le stesse modalità con cui, giocando volutamente al ribasso, descrive i suoi studi in accademia: il registro è comico 12, la realtà probabilmente essendo diversa: più impegnativo e drammatico lo sforzo dell’inesperto autore, più segretamente significante la scelta dell’argomen-to, proiezione di un legame che, come quello di antonio e Cleopatra, in un’esasperata sensualità presagiva un catastrofico destino. i diari, invece, ai quali affida la registrazione di se stesso al guado della propria vita – operazione di scrittura in re – cominciano a delineare il ruolo in grado di indirizzare in senso unitario la molteplicità e la contraddittorietà dei suoi pensieri e delle sue esperienze. importante il cambio di prospettiva che si realizza fra il diario francese e quello italiano: nel primo si persegue roussovianamente una maggior conoscenza di sé, con il Giornale italiano invece al «salutare esame di me stesso» si affianca la nuova funzione di «formarmi ad un tempo stesso lo stile».

il fatidico 1775 si apre con la rottura definitiva del legame con la prié. L’analisi dell’Epistolario, presenta per l’anno in esame solo due reperti, tuttavia altamente significativi proprio nel confronto della loro diversa peculiarità. il molto agitato e melodrammatico testo del biglietto 13 indi-

11) L’alfieri nella Vita così come nell’Epistolario si dilunga con dovizia di particolari sui propri malanni, talvolta con risultati estetici infelici, sicuramente privo di quella sorta di pudore che concede di parlare più facilmente di alcuni disturbi fisici piuttosto che di altri: forse ipocondriaco, certamente cagionevole, e sofferente di malattie che oggi classifichiamo come psicosomatiche, dà l’impressione di sapersi curare anche parecchio male, sebbene convinto sempre di esser il miglior medico di se stesso, come quando si riduce drastica-mente la dieta obbligandosi a pasti sempre uguali e privi di principi nutritivi essenziali. 12) «guarì poi la mia signora di codesta sua indisposizione; ed io senza mai più pensa-re a questa mia sceneggiatura risibile, la depositai sotto un cuscino della di lei poltroncina, dove ella si stette obbliata circa un anno; e così furono frattanto, sì dalla signora che vi si sedeva abitualmente, sì da qualunque altri a caso vi si adagiasse, covate in tal guisa fra la poltroncina e il sedere di molti quelle mie tragiche primizie» (alfieri 1951a, i, p. 142). 13) «Je vous ai donné ce soir la dernière preuve de ma faiblesse, mais quand je devrois en crever, ce sera la dernière assurément. Vous verrez, par ce que je vous envoye ici, que je suis bien résolu de ne pas retourner en arrière; il est assez humiliant pour moi de n’avoir rien pu obtenir de ma fermeté, qu’en m’interdisant les moyens de manquer à ma résolution.

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rizzato all’amico arduino tana, ad accompagnamento dell’involto con-tenente la sua rasata capigliatura, gesto plateale e ambivalente con cui si costringe ad abbandonare l’amante e inaugura simbolicamente nel corpo la livrea dell’uomo nuovo, è scritto, a stretto giro di settimane se non di giorni, con la missiva inviata a paolo maria paciaudi 14. Questa, dietro lo scudo di una disinvolta e settecentesca autoironia, sottopone al giudizio del raffinato cultore di letteratura teatrale il primo atto della rimaneggia-ta Cleopatra, appellata «infelice» mentre auspica che: «Questa mia figlia primogenita spero non sia l’erede di tutte le mie sostanze poetiche» 15. in precedenza paciaudi aveva già espresso un giudizio nel complesso lu-singhiero sul sonetto Ho vinto al fin, sì non m’inganno, ho vinto, altro piccolo saggio incentrato sulla rottura dei lacci d’amore che l’avevano in-catenato alla falletti, giudicato «buono, sentenzioso, vibrato e corretto bastantemente» e la lettera di risposta all’esame della seconda e più impe-gnativa prova della tragedia, sembra rilevare con uguale obiettività pregi e difetti. Così sancisce che «spicca l’ingegno, l’immaginazione feconda, e il giudizio nella condotta […]» ma anche che «i versi sono mal torniti, e non hanno il giro italiano. Vi sono infinite voci, che non sono buone, e sempre l’ortografia è mancante, e viziosa». e chiosa: «bisogna saper bene la lingua in cui si vuol scrivere».

Queste poche note danno l’idea dei contrastanti, travolgenti primi mesi del 1775, in bilico fra il naufragio a cui si era sentito irrimediabil-mente spinto dall’ultima passione amorosa e il rischio di un altro possibi-le fallimento, ugualmente penoso per il proprio smisurato amor proprio: quello di una carriera poetica agognata e da lui stesso annunciata, anche fra i molti scetticismi – possiamo supporre – di coloro che ne avvertiva-no la sregolata genialità. ma alfieri per temperamento sceglieva sempre e solo la vie più impervie: pur consapevole di non avere lingua, di non esser nato sotto il segno della fatica scolastica, quel lento e lunghissimo proces-so che porta a grammaticalizzare e normalizzare, a definire in segni certi e stabili il confuso e magmatico mondo dell’oralità, non si sottrasse al proprio dettato interiore e al compito richiesto 16. difficoltà del compito

Je renonce à cet engagement, mais cela me seroit un coup mortel, si je vous voyais à ma place; ne m’abandonez pas, je redeviendrois peut-être un jour estimable à vos yeux. adieu» (Ad Arduino Tana - [Torino, … I-II. 1775], in alfieri 1963, i, pp. 30-31). 14) per una ricognizione sulla sua figura di intellettuale si consulti il seguente saggio: W. spaggiari, Paolo Maria Paciaudi, in Cerruti - Corsi - danna 2003, pp. 181-211. 15) A Paolo Maria Paciaudi - [Torino, … I. 1775], in alfieri 1963, i, pp. 28-29. 16) «se facciamo riferimento a casi di straordinara precocità» – scrive arnaldo di be-nedetto – «quali furono quelli, ad esempio, di un tasso o d’un Leopardi, alfieri sembra aver conseguito relativamente tardi il riconoscimento di sé. Ciò spiega quel suo risolutivo inabissarsi (per usare una sua immagine) nel vortice degli studi, assillato dall’ansia di gua-dagnare il tempo perduto, d’imporsi una disciplina e attribuirsi un corredo, per dir così, tecnico senza i quali non si dà, e men che meno poteva darsi a quel tempo, grande poesia.

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che per quanti sforzi di immaginazione facciamo, mai potremo scioglie-re completamente: e cioè di studiare forsennatamente per colmar lacune, linguistiche in primo luogo e subito dopo letterarie, e insieme di scrivere in preda a un furore creativo che metaforicamente ricorda la fusione del perseo di celliniana memoria 17.

sul piano di una contestualizzazione ambientale e storica, invece, quindi sul versante sociale, pubblico in cui alfieri in quegli anni muoveva i primi passi da uomo di lettere, è possibile rintracciare alcune linee guida che senza nulla togliere all’originalità, allo slancio e al volontarismo del-la sua conversione letteraria, la collocano come un evento non del tutto astruso e anarchico, bensì collegato alla temperie degli anni settanta del settecento torinese. L’anno in cui il ventitreenne alfieri si stabilì al rientro dei suoi viaggi nel palazzo di piazza san Carlo, precedeva di poco la morte di Carlo emanuele iii. intorno a suo figlio, il principe ereditario Vittorio amedeo, era fiorito un ambiente molto complesso, dove si intrecciavano speranze di ceti, ambizioni di cortigiani, attese di clienti, in pratica una fronda che attendeva ansiosa che il vecchio re scomparisse, risentita per di-versi motivi tipicamente “locali” ma anche investita, seppur in modo blan-do, dalla cultura illuministica ed arricchita da un’espansione della lettura legata ai meccanismi scolastici più diffusi. il giovane conte alfieri, par-tecipa immediatamente della socialità intellettuale del tempo: massoneria, Compagnia dei sansguignon, contatti con la sanpaolina, consumo di libri philosophiques, che aveva portato da parigi, frequentazione di teatri sono tutti elementi caratterizzanti questa fase della sua vita 18. Legge Voltaire, rousseau, Helvétius, mirabeau e utilizza il proprio appartamento come

e spiega altresì l’umiltà e la scrupolosità (non acritiche, però) a cui si costrinse e con cui consultò professori e letterati del tempo […]» (di benedetto 2000, p. 65). 17) per dare idea di questa febbrile attività, riferendoci al solo anno 1775 ricordiamo che: «tra marzo e maggio scrive le idee e le stesure, tutte in francese, di Filippo e Polinice. elabora il proprio metodo personale in tre «respiri»: idea, breve abbozzo in prosa; stesura completa della tragedia, ma in prosa; versificazione, poi soggetta a modifiche e ritocchi ulteriori. il 16 giugno si rappresenta la Cleopatra al Carignano di torino, seguita da una farsetta in un atto pure di alfieri, I poeti. scrive l’idea e comincia a stendere, in francese, un Carlo primo, che però abbandona subito e per sempre. scrive idea e stesura di un Ro-meo e Giulietta, che alcuni mesi dopo brucerà. si dedica a studi grammaticali e a letture di testi in lingua italiani per perfezionare il suo italiano. in luglio decide di non usare mai più il francese. si prova a far versi italiani di ogni genere. in agosto va a Cesana, dove resta due mesi a studiare in compagnia dell’abate aillaud. riscrive in prosa italiana le stesure di Filippo e Polinice. Legge dante, petrarca, ariosto, tasso. per trovare un modello di versi-ficazione tragica legge e poi riduce in forma drammatica, cioè dialogata, la Tebaide di stazio tradotta dal bentivoglio, e le Poesie di Ossian tradotte dal Cesarotti; legge versioni italiane di tragedie francesi, di Corneille, Voltaire e altri e la Merope del maffei» (adattamento da Cronologia della vita e delle opere di Vittorio Alfieri, in alfieri 1996, pp. 107-133). 18) Cfr. g. recuperati, Vittorio Alfieri, società e stato sabaudo: fra appartenenza e di-stanza, in Cerruti - Corsi - danna 2003, pp. 3-45.

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45l’autobiografismo nel progetto letterario di vittorio alfieri

uno spazio di socialità che mima da vicino le forme di una loggia dove ci si nutre non solo di fermenti voltairiani, ma anche di polemiche politiche. L’Esquisse nasce come esemplare di quella letteratura irriverente di cui ab-biamo molti altri casi nell’europa del tempo: è opera sorta sullo sfondo di una socialità aristocratica di coetanei formati nello stesso ambiente, e strettamente legata al genere della conversazione. ma, quel che più conta, contiene alcuni elementi da non perdere come nessi per il futuro sviluppo dell’ideologia e dell’arte alfieriana. La critica al governo delle burocrazie e l’insofferenza per i progetti del partito di corte, rivelano quanto meno il terreno di coltura nel quale germoglia il primo nucleo del Della tirannide e al contempo ricollocano l’opera di alfieri nell’atmosfera dei tempi.

Che l’astigiano nella Vita non dia mai molto risalto alle proprie let-ture francesi e cerchi di passare sotto silenzio la sostanziale adesione gio-vanile alla cultura illuministica fa parte di quell’elaborazione di natura giu-stificativa e interpretativa del proprio ruolo, a cui tese con tutto se stesso. tuttavia la conversione letteraria di alfieri nasce strettamente allacciata all’ideologia, nasce fulmineamente ma non dal nulla. atmosfere ed eventi, temperie culturale e dibattito politico convergono tutti verso una realtà nuova, complicata e sfuggente. alfieri intuisce cenni di cambiamento sul punto di tradursi in atto e presagisce inquietanti scenari futuri. ma intui-zioni e premonizioni potrebbero immiserirsi e morire se non avvalorate dall’imprimatur della parola. La ricerca di una lingua, della lingua – quella italiana letteraria per eccellenza – diventa così per lui strumentale e ne-cessaria. i tempi che correvano e le esperienze personali, gli incontri e i viaggi, gli «intoppi» e le letture, i sansguignon e i primi successi, la voglia e il bisogno di lasciarsi alle spalle vergognosi amori, un’antica irrepara-bile ferita da curare e quello che oggi diremmo uno smisurato Super-io, nei giorni sofferti e concitati del 1775, trovarono finalmente un ordine e un disegno, un senso e un fine nel progetto di farsi letterato. L’esalta-ta passione, l’istintivo e straordinario modo di sentire, immediatamente sottoposti alla potenza ordinatrice dell’intelligenza e governati dal rigore e dall’etica della volontà, diventarono insegne esemplari di tutta quanta l’opera a venire, sempre tesa a tradurre gli «ardentissimi desideri» in parola di volta in volta diversa – tragica, lirica, profetica, fustigatrice, ironica, mi-tica – ma sempre agonistica e innovativa, poiché sostenuta da una poetica dell’esperienza, espressione di uno scrittore che «abbia in sé stesso assai più sentito, che non imitato» 19.

una volta che l’adesione alla letteratura fu interiormente concepita e poi annunciata e resa pubblica con le prime opere, prese avvio un processo di adeguamento di se stesso al proprio ruolo condotto con convincimento

19) Del Principe e delle lettere (libro iii, cap. 9), in alfieri 1951b, p. 243.

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e coerenza. il risultato raggiunto, dove giocano in ugual misura istinto e raziocinio, sapienza e inconscio, è di quelli che lasciano una traccia così evidente da nutrire un mito che sopravvisse all’autore e superò la fama dell’opera stessa. non è un caso che di alfieri abbondino, fra le testimo-nianze di chi lo conobbe personalmente, descrizioni affascinate sul suo aspetto fisico, le movenze e i gesti, a segnalare la teatralità ricercata con la quale amava presentarsi e apparire in pubblico. L’ultima pagina dei Gior-nali ci fornisce la spia di questo estremo bisogno-desiderio di essere al centro dell’ammirazione altrui. in data 2 giugno 1777 possiamo leggervi:

giunto a siena non ebbi altro pensiere, che di piacere: di presentarmi sotto un aspetto favorevole. mezza la riputazion mia sta ne’ sei cavalli: uno che s’ammali o che muoia son servito! da prima voglio comparir bello; poi ricco; poi uomo di spirito; poi autore e uomo d’ingegno. sto disponendo le mie batterie per tale effetto: dirò in appresso qual esito ne abbia avuto. 20

e con questo intento programmatico, di cui francamente possiamo sor-ridere, avvertendone l’ironia, o anche irritarci se vi leggiamo solo un’in-contenibile vanità, si interrompe bruscamente la stesura dei diari, quasi che fosse arrivato il momento di poter più degnamente trattare il proprio percorso. tuttavia, si potrebbe individuare anche una più seria motiva-zione, quella di un alfieri autore e regista di se stesso che cura la sua immagine pubblica con la stessa attenzione con la quale, nell’autobiogra-fia, metterà a punto sotto profilo estetico, il suo ritratto d’artista. del resto, nel passo precedente, si riaffaccia con forza anche più di un luogo degli Essais dove montaigne nota che la bellezza è una qualità potente e vantaggiosa, che occupa il primo posto nei rapporti fra gli uomini e ha immediata autorità e forza sul loro giudizio. anticipatore di atteggiamenti che precorrono le future pose romantiche, Vittorio organizza intorno a sé un’atmosfera di eccezionalità, sofferenza e artificio. tutto «è sapiente-mente consegnato a una fisicità eccentrica, a abbigliamenti che sono veri e propri costumi, a manie clamorose (i cavalli, la misantropia, la misoginia), a gesti esagerati» 21. e ciò che i contemporanei di lui testimoniano, talvolta affascinati talaltra perplessi è poi sottoposto, nell’elaborazione della sua scrittura, a un processo di autorappresentazione e di autocostruzione che non cede mai alle tentazioni di una completa trasparenza del cuore e di

20) alfieri 1951a, ii, p. 250. Curiosamente abbiamo un riscontro nella testimonianza di un abate di provincia, giuseppe giaccheri, che lo vede sfrecciare per le stradine di sie-na e così lo descrive in una lettera del 27 giugno 1777: «Questo signore è un apollo del belvedere, guida ogni giorno un cocchio a quattro cavalli inglesi, con un uomo solamente a cavallo. il signor conte ha viaggiato per tutta l’europa e per ben due volte è stato in Lon-dra» (Cantoni 1916, p. 11). 21) pieri 2005, pp. 11-38.

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un mito della confessione totale. da un lato quindi un alfieri che si offre compiaciuto allo sguardo del mondo, dall’altro un alfieri insospettabile, silenzioso custode di se stesso.

È questo spazio intensamente polarizzato tra una discrezione sempre a difesa della propria identità segreta e la disposizione ad esibirsi, a indos-sare la maschera, a presupporre un pubblico, che ha suggerito a debene-detti l’immagine del «mimo interiore» che spinge a farsi poeta in un’aura scenica e spettacolare 22. La contraddittorietà dell’uomo e gli atteggiamen-ti apparentemente inconciliabili si fondono allora con naturalezza nel cro-giuolo dell’autorappresentazione. alfieri non sente doppiezza o ipocrisia nell’esser l’uno e il suo contrario, nell’esibirsi e nel segregarsi, né soffre il disagio dello sdoppiamento fra creatore e personaggio. sostenuto da un fortissimo sentimento di identità esistenziale, si rappresenta sulla spinta di un impulso estetico praticato consapevolmente e prioritario rispetto ad altre istanze. Ciò gli consente di creare un personaggio-eroe delibe-ratamente costruito, senza patire le lacerazioni di un rousseau oppresso dallo sdoppiamento e dal fantasma della trasparenza totale. in alfieri lo sdoppiamento è vissuto come irrinunciabile strumento, oltre che di cono-scenza di sé, anche di realizzazione di un testo letterario degno di questo nome. Libero da remore o sensi di colpa per la trasfigurazione che l’atto creativo implica sulla realtà, mantiene fermo su di sé, in ogni circostanza, uno sguardo critico e giudicante. tale capacità di distanziamento determi-nerà sulla composizione della Vita, come ha sottolineato di benedetto, un controllo costante e rigoroso, escludendo «i momenti di abbandono struggente, o ostentatamente risentito, al ricordo, caratteristici» dell’au-tore delle Confessions 23.

La cospicua presenza di ritratti, bozzetti, schizzi che viene così a ma-nifestarsi, oltre che nell’autobiografia, in larga parte dell’opera alfieriana, ha un riflesso significativo nella vita privata dell’autore, dove il ritratto pittorico fu importante e ricercato, sebbene l’immagine dipinta sia sempre considerata sottomessa alla superiorità indiscussa della parola scritta 24.

La persistente volontà di raccontarsi dà nutrimento e linfa al lungo percor-so diaristico delle Rime 25. Colpisce, nell’invenzione di questo «sfogo» 26

22) debenedetti 1977, p. 203. 23) di benedetto 1998, p. 999. 24) Cfr. p.C. buffaria, Illusioni ottiche e silenzi autobiografici: François-Xavier Fabre pittore della «fiorentinità» secondo Alfieri, in tellini - turchi 2002, pp. 767-779. 25) La prima parte delle Rime, che raccoglie i versi composti dal 1776 al 1788, fu stam-pata a Kehl nel 1789, e diffusa più tardi, nel 1801, in seguito all’edizione pirata del molini. La seconda parte delle Rime, ordinata dall’alfieri, uscì postuma nel 1804. 26) per usare l’espressione con cui l’amico francesco ne parla nel dialogo La virtù sconosciuta. in alfieri 1991, p. 69.

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autobiografico, la traduzione in versi del proprio io nel presente e, man-cando ogni ottica postuma e quindi ogni riflessione sulla memoria, viene a cadere un primo e facile parallelismo coi Rerum vulgarium fragmenta. Questi certamente assursero a modello per alfieri, ma soprattutto come esemplari di un linguaggio poetico «sostenuto e capace di infinite sfuma-ture espressive» e come sollecitazione «a un’introspezione analitica più contenuta e scultorea di quella già sperimentata nel Giornale» 27. reiterata e consapevole, l’adesione diretta agli eventi e agli accadimenti della propria esistenza è testimoniata da una reattività immediata e fedele della scrittura ai moti dell’animo. ma affinché non si cada in equivoci, ciò è quanto deve trasmettersi al lettore, artificio retorico e stilistico, frutto di un’elabora-zione letteraria e di una diacronia della composizione anche molto tor-mentate, alle quali sono tutt’altro che estranei correzioni, aggiustamenti e ripensamenti, nonché un reticolo di varianti sottostanti, come testimonia-to dagli autografi. nella Vita scritta da esso, e questa volta possiamo dire da una prospettiva post rem, secondo il paradigma e lo spirito dell’opera, alfieri «collega sistematicamente la scaturigine delle rime all’urgenza delle emozioni provate, e volentieri ne rappresenta la composizione a raffica» 28, a sostegno di un’immagine di sé quale poeta dell’immediatezza del senti-mento e dell’ispirazione traboccante.

il tema dell’amore per Luisa è il nucleo fondante delle Rime, tanto che per alcuni critici queste si configurano come un canzoniere in lode di una donna; se non altro nell’intenzione dello stesso alfieri, che collega il vero incipit della raccolta all’attuale sonetto XiX Negri, vivaci ed in dolce fuoco ardenti 29, precisando infatti che è da questo sonetto capostipite, da-tato 1777, che «hanno cominciamento le mie rime per essa» e che «tutte le rime amorose che seguono, tutte sono per essa e ben sue, e di lei sola-mente, perché mai d’altra donna per certo non canterò» 30.

La dichiarazione d’intenti, «la volontà di dar coesione alle Rime facen-done coincidere il perimetro con il tempo della passione per la contessa d’albany (tempo in cui si datano anche i testi di tema non esplicitamente amoroso)» 31, non può nascondere tuttavia e il molto di “extra-vagante” che la raccolta contiene, e soprattutto la centralità dell’io autoriale, il cui protagonismo emerge con prepotenza tanto da offuscare l’immagine in sé dell’amata per dar, suo malgrado forse, maggior risalto all’amante che la celebra in versi. La presenza di Luisa, meglio della contessa d’albany, è più biografica e referenziale che non poetica: quel “romanzo dell’io per sonetti” che sono le Rime è incentrato su un’egotica attenzione a se stes-

27) di benedetto 1998, p. 994. 28) pastore stocchi 2005, p. 31. 29) alfieri 1954, p. 17. 30) alfieri 1951a, i, p. 218. 31) pastore stocchi 2005, p. 30.

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so, un se stesso che diventa filtro attraverso il quale soltanto prendono forma e si rivelano il mondo e gli affetti, le passioni e i pensieri. situazioni e personaggi, compresa la donna della sua vita, sono letterariamente for-giati allo scopo di manifestarsi come pedine nel corso del divenire della sua esistenza. e poiché la scrittura è riverbero della vita dell’autore, tanto più nel caso di alfieri, scrittore per volontà – uno che dice di sé «chia-matemi Poeta» 32 sottolineando con un atto di nominazione un destino e l’irrinunciabile mito di una vocazione – la quotidianità dell’uomo dovette necessariamente esser piegata alle esigenze del ruolo.

dopo il tempo della dissipazione, l’albany fu davvero la donna della svolta. non solo per le sue proprie caratteristiche intrinseche, fra le qua-li aggiungeremmo non ultima anche la difficoltà di appagamento di un amore contrastato e impossibile, dato il legame matrimoniale di lei 33, ma anche e forse soprattutto perché il convertito Vittorio volle o dovette ve-derla tale per tutta la vita. Le ragioni del sacerdozio di artista e di studio-so furono abbracciate da alfieri con una coerenza totale, esemplata dalla rinuncia al titolo e ai beni così come dalla fedeltà e dalla devozione alla propria donna, anche quando la “coniugalizzazione” del rapporto tolse smalto alla passione e più tardi qualcosa di fragile, vanitoso e salottiero s’insinuò in lei, incrinandone la figura agli occhi del mondo. a riprova si può citare l’episodio della fulminea attrazione amorosa di Vittorio per alba Corner Vendramin, risalente quasi sicuramente al 1783, che aprì uno squarcio, imprevisto e doloroso, entro il tessuto dominante della passione per l’albany, e che poi si concluse con una tempestiva fuga dalla dama e da Venezia. ne resta una commossa traccia nell’Epistolario di cui riportiamo qualche breve passo:

se io avessi conosciuto lei prima, non cadrebbe dubbio nessuno nell’ani-mo mio […] L’onesto procedere vuole dunque assolutamente ch’io m’al-lontani; e che dia così a lei il maggior segno di vivo sentimento ch’io le possa dare nelle mie circostanze presenti. 34

e ancora:

32) Alla sorella Giulia - Firenze, 4 II. 1803, in alfieri 1963, iii, p. 151 (corsivo nel testo). 33) motivo letterario, quello del mancato coronamento, pregnante soprattutto nell’ambito della poesia lirica. ricordiamo a questo proposito le numerose lontananze, scrupolosamente annotate dall’alfieri nelle Rime: la prima, «dal dì 26 dicembre 1780 fino al dì 10 o 11 febbraio 1781» (Rime XLVi), la seconda «dal dì 14 febbraio al dì 12 maggio 1781» (Rime XLiX), la terza «la dolorosissima separazione» dal «dì 4 maggio 1783 fino al dì 17 agosto 1784» (Rime LV) e la quarta «dal dì 21 ottobre 1784 al dì 16 settembre 1785» (Rime CXXVi). 34) Ad Alba Corner Vendramin - 445 [Venezia, 3-16 giugno] 1783, in alfieri 1963, iii, pp. 181-182.

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Che le posso dunque io dire altro, se non che da sei anni in qua ella è la donna sola ch’io sia stato costretto a fuggire; e che m’abbia lasciato sor-ger il pensiero ch’altra donna esistesse al mondo che la mia. 35

anche le Rime testimoniano l’accorato e turbato ricordo della Vendramin nel sonetto LXiX Un muover d’occhi tenero e protervo 36 dove versi quali: «ma questa io sfuggo, e m’è il fuggir dolore» sono omaggio di fedeltà alla sua donna e al se stesso consacrato alla scrittura, tutt’altro ormai che «amante di volgar schiera».

per trattenersi in fine sulla tipologia dei sonetti d’amore, il tema che più appare poeticamente riuscito è quello della lontananza. L’amore ai tempi della passione è soprattutto amore come deprivazione che diven-ta inesauribile fonte d’ispirazione e nutrimento del sé poetico. Così se «Viver senz’essa e più che morte amaro» (XLVi) e la lontananza sotto-linea l’insostituibile ruolo di lei «d’ogni alto mio pensier cagione e don-na» (LVii), l’inesausto desiderio, «s’ella qui fosse! e in così dir, sospiro» (LXiii), rende opaco e inutile ogni godimento del vivere e del mondo: «pace e letizia son dal mondo in bando» (LXiii), «misera vita trascino ed errante» e «s’anco incontro un piacer semplice e puro, […] dolor ne traggo e pensamento oscuro» (CViii).

tenerezza e ira, malinconia e desiderio, privo comunque di qualun-que allusione o sfumatura erotiche, sono le caratteristiche di una storia d’amore in absentia di cui alfieri riconobbe, pur soffrendone come uo-mo, i vantaggi sul piano della creatività quali l’alto potenziale evocativo e la suggestiva consonanza con esperienze poetiche di grandi del passato. La figura di Luisa ne uscì probabilmente deformata, “irrealisticamente” ritratta, o meglio, non ritratta, ma piuttosto evocata, poiché il lettore non vede la donna lontana, ma solo il poeta che soffre, piange, languisce o impreca. il ruolo che alfieri lirico le assegna certamente la pose su un altare e a quella icona, per scelta, lui restò fedele per tutta la vita. a tanto probabilmente lo aveva condotto la scoperta della poesia che su di essa s’impegnò poi a modellare tutta quanta la sua esistenza.

nelle Rime, in quanto diario dell’io, trova spazio anche la riflessione sulla poetica della tragedia: come esempio si ricordi il sonetto Lunga l’ar-te sublime, il viver breve (Rime CLXXXVii), datato 1789, in cui alfieri si esprime compiutamente sullo stile, dichiarando la propria collocazione all’interno del sistema letterario del suo tempo. riportiamo qui di seguito le due quartine:

Lunga è l’arte sublime, il viver breve, ardua l’impresa; e l’alto artefice anco

35) Ad Alba Corner Vendramin - 446 [Venezia, 3-16 giugno] 1783 (?), in alfieri 1963, iii, p. 182. 36) alfieri 1954, p. 63.

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ostacol sempre al bello ardir riceve: ecco perché lo egregio stil vien manco. e qual più in copia ad ippocréne beve Quanto ei potria dell’ali armar più il fianco, tanto vie meno ad un tal uom fia lieve Lo scriver forte veritiero e franco

il problema dello stile emerge con prepotenza proprio perché l’astigia-no decide a priori di dedicarsi alla tragedia. autore il cui percorso nasce e si alimenta da un’inesausta volontà di autoaffermazione, dotato di una spiccata propensione allo sperimentalismo e capace di piegarsi all’esercizio umile e ripetuto proprio dell’artigiano, organizza l’opera letteraria quasi come uno scienziato pianifica l’esperimento a dimostrazione di un’ipotesi, con il rigore di un progetto studiato nei dettagli. Condizione dello stile «egregio», necessario per combattere la tirannia, è il sentimento del valore mitico attribuito alla letteratura e la coscienza del ruolo del poeta come inesausto guerriero «armato di ali». Lo stesso metodo di lavoro fonda-to sulla triade soggetto, stesura in prosa, versificazione, elaborato già dal lontano 1775, è in risonanza con i tre aggettivi connotativi dello «scriver» di cui si parla nel sonetto 37: forte è in connessione con la scelta di ciò che è tragediabile, veritiero si riallaccia alla successione delle battute, allo schizzo dei personaggi, a ciò che viene detto, da chi e come, corrispon-dendo perciò alla sceneggiatura, franco è la libertà che deve riverberare nel verso vibrante di sdegno e di dolore, diretto all’orecchio dello spettatore per suscitare in lui l’orrore per l’iniquo spettacolo del potere. È una di-chiarazione di intenti lucidissima: l’essenza dello stile tragico alfieriano, scabro e severo, così lontano dal detestato melodramma metastasiano, condensata con enfasi e rigore nella forma più espressiva e diffusa della lirica italiana, un vero sonetto-manifesto, composto – non è osservazione di poco conto – proprio in quello stesso anno 1789 in cui vedevano la luce a parigi, per i tipi di didot, i cinque tomi delle tragedie ampiamente corredati dalle Lettere del Calzabigi e del Cesarotti, dalle relative risposte dell’autore, dai Pareri e altri scritti di riflessione critica. L’edizione didot, il cui apparato paratestuale ha una fisionomia di notevole compattezza e organicità fra le opere settecentesche di letteratura teatrale, è l’acme di una sempre più puntuale attività critico-esplicativa sul proprio lavoro, da ascrivere all’esperienza ampiamente maturata nel campo della trattatistica e alla percezione sempre più nitida del cambiamento delle dinamiche cul-turali. possiamo quindi collocare anche il sonetto CLXXXVii in questo contesto di lavoro, pagina diaristica di un anno, il 1789, in cui l’impegno di curatore editoriale della propria opera spingeva a riflettere di continuo

37) spera 2007, pp. 225-249.

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sulla teoria della letteratura e sulla tematica della comunicazione con il pubblico.

soffermiamoci ora sul rapporto quasi ossessivo di alfieri-autore con l’au-toritratto, praticato per ogni dove e di continuo, in tutte le forme e in tutte le pose, la cui reiterata, martellante presenza necessariamente finisce per distoglierci da qualsiasi dubbio di vezzo narcisistico e ci conduce in-vece a riconoscere una scelta stilistica forte e precisa di costante richiamo al lettore. sottolineare, suggerire, guidare il pubblico alla percezione di un’immagine di sé quale effettivamente l’autore sente e vuole, è forma di comunicazione innovativa e moderna, che teatralizzando e visualizzando la parola scritta raggiunge una più vasta schiera di lettori-spettatori.

Cominciando dal più celebre ritratto del sonetto Sublime specchio di veraci detti (Rime CLXVii), ne rileviamo l’impatto forte e cadenzato dell’avvio, dove nei primi due versi ci si appella, come in un’invocazio-ne alle muse riecheggiante i poemi antichi, alla superficie levigata di uno specchio: «mostrami in corpo e in anima qual sono». ma specchio inteso come metafora della scrittura e della poesia capaci di disvelare un’imma-gine che trascende il dato fisico e psicologico, nonostante inglobi e con-templi entrambi. segue, nei versi successivi, il resoconto puntuale di un ritratto in piedi, a figura intera, la cui puntigliosa, didascalica precisione forse un po’ dispiace all’orecchio e al sentire del lettore moderno 38, ma che tuttavia regala un saggio autentico di certa lirica alfieriana che qui come altrove si esprime con enfasi, predilige toni alti e tinte forti, ignora sfumature e finezze semantiche, inventa un verbo poetico chiaro, robusto e deciso che non teme di passar per ingenuo e che quasi mai concede li-bertà di interpretazione e di sentimento al lettore, perché afferma, ordina, dispone tutto lei stessa. a chiusura delle due quartine il verso «pallido in volto, più che un re sul trono» traghetta abilmente lo spettatore del quadro dal dato puramente fisico a quello dell’interiorità e introduce al successivo ritratto psicologico: le terzine, tutte fondate sul procedimento retorico dell’antitesi, riecheggiano il ritratto dell’Esquisse. Così «la mente e il cor meco in perpetua lite», cioè ragione e sentimento, consapevolezza e istinto, austerità e passione sono la sintesi in versi di quella penetrante e lucidissima autocritica, stilata a soli ventiquattro anni, che gli fa dire in prosa: «J’ai été toujours, un tissu d’inconséquences, et j’ai réuni dans mon caracthère tous le contrastes possibles» 39 alla quale si accompagna un’ana-lisi precisa delle proprie debolezze come:

38) «capelli, or radi in fronte, e rossi pretti; / lunga statura, e capo a terra prono; / sot-til persona in su due stinchi schietti; / bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono; / giusto naso, bel labbro, e denti eletti; /» (in alfieri 1954, pp. 141-142). 39) alfieri 1987, p. 32.

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53l’autobiografismo nel progetto letterario di vittorio alfieri

J’amais beaucoup à critiquer les actions des hommes, j’y mêlais souvent du fiel, mais, ce n’estoit point les hommes que je détestois, c’estoit leurs vices, ou leur ridicules. Je n’estois pourtant pas vertuex moi même, il s’en falloit de beaucoup, mais je sentois tout le prix, attaché à la vertu. 40

il pallore del Sublime specchio, “somatizzazione” degli oscuri rovelli che tormentano sia il tiranno sia il tirannicida, è quello di chi, idealmente più potente di entrambi, ha scelto la penna, ha seguito la vocazione della scrittura superando il giovanile piacere di criticare gli uomini, identificato nell’Esquisse. ma soprattutto è il pallore con il quale ad alfieri piace mo-strarsi al suo pubblico di lettori-spettatori, riassumendosi in un ritratto, con gesto, trucco e atteggiamento scenico che gli sono consustanziali. La verità letteraria che rimanda lo specchio-sonetto è quella di un poeta-atto-re, come alfieri davvero nella sua vita reale amò essere. accanto al Sublime specchio è suggestivo accostare allora due testimonianze che confermano il forte impatto che il suo carisma aveva sugli altri. Così lo dipinge isabella teotochi albrizzi, famosa interprete del personaggio di mirra:

si direbbe quasi che in quel volto l’immagine respiri di una divinità cor-rucciata […] e quegli occhi che ora ei rivolge con lunghi sguardi al cielo, ed ora tiene immobilmente confitti al suolo, un essere ti annunziano stra-ordinario del tutto. 41

e così descrive la tormentata, disarmonica e tuttavia irresistibile recitazio-ne di alfieri, un compagno delle messinscene fiorentine di palazzo gian-figliazzi:

tuoni bassi ed acuti della sua voce, dagli uni agli altri dei quali faceva fre-quente passaggio; il suo gesto, sebbene in alto, alla vita serrato sempre ad angoli acuti, tronchi, e nel lor movimento fortemente con mano chiusa a pugno vibrati, davano alla sua declamazione un carattere di originalità dif-ficile a descriversi. ma la sua alta statura, il suo volto pieno di maestà, gli sguardi, nei quali la sua grand’anima si dipingeva, formavano una specie di prestigio, il quale convertiva in indefinibili pregi tutte le maniere alle quali l’arte avrebbe dato il nome di sconce. 42

tornando al sonetto, oltre al verso in questione che per quanto accen-nato ne diremmo il fulcro, e del quale debenedetti ha scritto che «[…] carico di virtualità mimica, è non solo tipico dell’alfieri, ma bellissimo, di quella bellezza fin troppo splendida, sicura, armoniosa, che sfiora quasi la rettorica» 43, sembra importante segnalare l’ultima terzina che riprende

40) Ibidem. 41) teotochi albrizzi 1946, p. 59. 42) La testimonianza riportata è di giovanni Carmignani che recitava il Saul nel ruolo di david accanto ad alfieri nelle vesti del protagonista (in barsotti 2001, p. 48). 43) debenedetti 1977, p. 203.

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due motivi strettamente legati al poeta-attore. il primo incastonato nel verso «or stimandomi achille, ed or tersite» ci presenta l’eroe e l’antieroe per antonomasia, le due maschere del coraggio e della viltà, della nobiltà di spirito e della rozzezza, della letteratura alta e di quella bassa, e, forzando la metafora, anche del tragico e del comico. Le due anime, del poeta e dell’uomo, convivono lottando fra loro per trovare uno spazio in cui pre-valere l’una sull’altra, in una dialettica di contrasti che Vittorio ripropone più volte con altra immagine, quella del gigante e del nano 44. in quell’anno 1786, data di redazione del sonetto, anno di intenso, massacrante lavo-ro, i primi germi di uno sperimentalismo inquieto condurranno alfieri anche alla composizione de I Re che inaugura le Satire: il suo linguaggio poetico non si adegua solo all’unicum del registro tragico-sublime, ma ri-flettendo le ambivalenze dell’io, persegue l’adozione di modi e contenuti propri dello stile mezzano e comico-realistico. il secondo motivo si di-pana direttamente da questo: grande come achille o vile come tersite è l’interrogativo che può essere sciolto solo nell’ultima scena, che come nel teatro tragico alfieriano è quella della morte. ma chi muore, in primissi-mo luogo, è il poeta stesso per il quale l’interrogativo esistenziale a cui la morte costringe è doppiamente problematico, poiché alla fine dell’uomo è connesso il destino dell’opera e la fama del suo autore. Che alfieri avesse a soli trentasette anni un senso così vivo della fine e un sentimento di in-certezza riguardo la sua fama post mortem, non deve stupire: il senso forte della morte, nell’aria in quegli anni, mediato dalla nascente cultura prero-mantica transalpina, e un nuovo clima estetico debitore del tenebroso e del “sepolcrale”, di cui i canti di ossian sono riflesso, costituiva il fondale scenico adatto perché si manifestasse apertamente anche la psicologia di Vittorio, predisposta alla melanconia e a una senilità anagraficamente ante litteram. ma c’è un motivo probabilmente più importante: la meditatio mortis si nutre in lui della lettura degli Essais e si traduce nella nobile de-cisione dell’imparare a morire 45. La domanda nell’ultimo verso dello Spec-chio 46, riflette la preoccupazione su questo così difficile apprendimento, perché la vita nonostante tutto preme e insiste e ha pulsioni che sfuggono ai più nobili propositi. non solo, lo spettro della morte diventa ancor più minaccioso da quando la vita si è autodefinita acquistando una meta, come è per alfieri quella della fama letteraria. Così l’ultimo emistichio «muori,

44) dall’epoca iV, cap. 6: «[…] si scorgerà da chi ben osserva e riflette, che talvolta l’uomo, o almeno, che io riunivo in me, per così dire, il gigante ed il nano» (in alfieri 1951a, p. 213). e ancora in Rime, parte seconda, XLi (Io mi vo vergognando infra me stesso): «Quindi io sempre al gigante il nano a lato / figuro in me […]» (in alfieri 1954, p. 228). 45) L’argomento è stato esaminato da a. di benedetto nel saggio intitolato Da un tema dell’antica saggezza a Vittorio Alfieri, in di benedetto 1994, pp. 105-124. 46) «uom, se’ tu grande, o vil? muori, e il saprai» (alfieri 1954, p. 142).

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e il saprai», allude alla duplice tensione del soggetto che vuole imparare a morire da uomo e aspira a sopravvivere in eterno da poeta, affidando al morire lo scioglimento di ogni dubbio su se stesso.

altri sono gli autoritratti di alfieri sparsi nelle Rime e rintracciabili nel resto dell’opera, alcuni hanno valore di “istantanee”, non programma-te come il Sublime specchio appena visto, ma quasi sfuggite dalle maglie del diario in versi. bozzetti che lo ritraggono in posa, che lo suggeriscono al lettore fisicamente, esempi di scrittura “visiva”, vicina alla pittura anche su piano teorico, parola che pare essere spia dello sguardo che il pittore porta sullo scrittore, tutta volta al recupero dell’immagine. non sempre lo scorcio immortala il ritratto importante, talvolta sono piccoli sipari che si aprono d’improvviso su scene più domestiche, su una dimensione psi-cologica privata, sul mondo degli affetti tradotti in gesti e comportamenti quotidiani.

in Rime XXXi «negri panni, che sete ognor di lutto, / o vero o fin-to, appo ad ogni altri insegna; / io per sempre vi assumo oggi che degna / libertà vera ho compra al fin del tutto» è l’alfieri con il costume di scena assunto dopo la donazione alla sorella per acquistar la libertà completa 47.

in Rime Liii «o gran padre alighier, se dal ciel miri / me tuo disce-pol non indegno starmi, / dal cor traendo profondi sospiri, / prostrato innanzi a’ tuoi funerei marmi» è l’alfieri in preda alle sue esaltazioni pas-sionali, figura evocatrice dello Sturm und Drang. arquà e Valchiusa acco-glieranno qualche mese dopo un altrettanto commosso pellegrino e pe-trarca riceverà il partecipato tributo di lacrime e sonetti. Questo viaggiare sempre squassato dall’emozione, sulle orme dei grandi poeti sentiti come padri e maestri è ben testimoniato anche da alcuni passi della Vita 48 che ci consentono di sottolineare ulteriormente la caratteristica associazione alfieriana espressa nel binomio «piangendo e rimando». alfieri si conce-de completamente, in scena davanti al lettore, nelle ritrovate «dolcezza

47) dopo la rinuncia ai beni, per “disvassallarsi” e lasciare il piemonte, alfieri s’impo-ne una restrizione del tenore di vita: licenzia servi, vende cavalli, adotta una dieta frugale, rinuncia a indossare l’uniforme dell’esercito (che gli donava molto) per una più semplice tenuta: abito turchinaccio per il giorno e nero per la sera. Cfr. Vita (epoca iV, cap. 6) in alfieri 1951a, i, pp. 210-217. 48) Circa il viaggio del 1783 da siena a Venezia si dice: «[…] mi si dischiuse veramente una nuova e copiosissima vena delle rime affettuose, e quasi ogni giorno uno o più sonetti mi facean fare, affacciandosi con molto impeto e spontaneità alla mia agitatissima fantasia», c’è poi una deviazione alla tomba di dante in ravenna: «[…] per visitare il sepolcro del poeta, e un giorno intero vi passai fantasticando, pregando e piangendo» e ancora leggiamo a proposito di arquà: «Quivi parimenti un giorno intero vi consecrai al pianto, e alle rime, per semplice sfogo del troppo ridondante mio cuore». infine leggiamo per il passaggio nei luoghi petrarcheschi in provenza: «feci in quel giorno nell’andare e tornare di Valchiusa in avignone quattro sonetti e fu quello per me l’un dei giorni più beati e nello stesso tempo dolorosi ch’io passassi mai» (in alfieri 1951a, i, pp. 239 e 246).

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e dignità del pianto virile che pervadono e rinnovano poesia e narrativa settecentesche» 49.

in Rime LXXXiX, CViii, prendono corpo e immagine i vagabon-daggi a cui lo spingevano le inquietudini e le malinconie dei “nati sotto sa-turno”: «a passo lento, per irta salita, / mesto vo; la mestizia è in me natu-ra» e ancora: «sì che non trovo io mai spiaggia romita / quanto il vorrebbe la mia mente oscura» o anche: «neppur io ‘l so, dove fermar mie piante. / misera vita trascino ed errante». il personaggio del poeta solitario in pe-renne ricerca di se stesso riemerge anche in Rime, parte seconda, LV 50 in un sonetto datato 1796, ma addolcito e meditativo, senza più asprezze e furori, con un sentimento e una fisionomia che l’esperienza del vivere e le battaglie combattute hanno liberato di ogni eccesso e violenza.

in Rime, parte seconda, XXii si celebrano le oneste gioie della placi-da convivenza con l’amata, rese ancor più apprezzabili dal recente scam-pato pericolo derivante dalla rivoluzione che infiammava parigi: «indi-visibili or, contenti, e queti, / più non temendo dell’invidia il morso, / noi la vita pittoresca a sorso a sorso/ libando andiam, come pittor-poeti» che testimoniano pur nella loro semplicità quasi dimessa sia lo snodarsi del lungo romanzo d’amore delle Rime ormai giunto al lieto fine, sia un altro diverso autoritratto, che in età matura fu caro al poeta mostrare di sé. È quello di un alfieri morale che troviamo anche nell’autobiografia e nell’Epistolario, che diventa nume tutelare di valori familiari e sociali sta-bili, forti e puri. in questi rientrano oltre l’amore e la fedeltà alla donna che ha condiviso con lui la vita, anche il culto per l’amicizia, l’amore e l’impegno per gli studi ripresi dopo il declino della grande stagione crea-tiva, l’affezione ai luoghi e alla propria dimora. il profondo convincimen-to intellettuale e spirituale con cui era sentito il ruolo, approda, trovando esemplare espressione figurativa, nel quadro con i ritratti di Vittorio e Luisa, dipinto da fabre nel 1796 e in seguito donato all’amico Caluso. senza entrare nel dettaglio iconografico il ritratto è certamente concepito in modo da offrire al carissimo abate l’immagine di un’unione esemplare, ripresa nell’intimità del loro ambiente domestico, in un angolo privato (lei forse ancora in veste da casa), intenta alla lettura, sullo sfondo dell’amata città di firenze 51. Qui come nel sonetto XXii non c’è nulla delle passioni che scuotono l’animo, non il pathos dei grandi amori contrastati, nulla della teatralità del Sublime specchio, non c’è Sturm und Drang, non si vede né l’odio per i tiranni, né il disprezzo per i borghesi, è assente il fremito

49) pastore stocchi 2005, p. 33. 50) «tutte no, ma le molte ore del giorno, / star solo io bramo; e solo esser non par-mi, / purché il pensier degnando ali prestarmi / m’innalzi a quanto a noi si aggira intorno» (in alfieri 1954, p. 238). 51) per dettagli iconografici sulla tela citata consultare il saggio di g. santato, Alfieri e Caluso, in Cerruti - Corsi - danna 2003, pp. 243-274.

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di disgusto che percuote tanto spesso le Rime. una coppia tranquilla, un po’ assorta e forse un po’ annoiata, ma con dolcezza però, con serenità appena velata di malinconia. Ciò ricorda e riflette quanto alfieri scrisse allo stesso Caluso in data 21 aprile 1800: «Lo studio, e i libri, e le dol-cezze domestiche, aspettando la morte, sono veramente le sole cose che meritino d’esser considerate dall’uomo, quando ha sfogato la gioventù» 52. tuttavia sarebbe poco corretto pensare a un’evoluzione cronologica trop-po lineare e costante del personaggio alfieri negli anni della “vecchiaia”. La contraddizione è molla e sostanza di tutta la scrittura autobiografica, e al «fatal disinganno», come elemento connotante l’ultima stagione, si accostano ancora guizzi di insopprimibile istinto vitale.

Con il dialogo La virtù sconosciuta (1786) alfieri, oltre che a celebrare l’amico gori gandellini, sembra voler aprire anche uno spazio di analisi e riflessione sulle possibilità offerte dal genere biografico e avviare un pre-ventivo disegno a sostegno e difesa della futura autobiografia, probabil-mente a quel tempo già decisa ma in concreto ancora da progettare e mo-dellare. La rievocazione dell’amico è condotta sull’onda di una commossa tenerezza, registro insolito per l’astigiano ma consonante all’affettuoso e coinvolgente legame che lo univa «all’incomparabile amico» francesco, interlocutore privilegiato in vita e ora alter ego nell’ottica del dialogo e del-la meditazione con se stesso 53. nel testo, che fu composto a pochi giorni dalla conclusione di Del Principe e delle lettere perciò in un’atmosfera di grande fervore per lo sviluppo della poetica e dello stile tragici, emergono molteplici spunti del “laboratorio creativo” alfieriano, intrecciati al tema principale della commemorazione. Lo scambio di battute fra i due per-sonaggi, ci lascia intuire i dubbi e le perplessità, gli entusiasmi e i timori, i pro e i contro che devono esser stati di alfieri prima di accingersi alla scrittura della Vita. Centrale appare l’affermazione di francesco:

tu vedi che le vite vogliono essere scritte di coloro soltanto, che o gran bene o gran male agli uomini han fatto. e, degli antichi scrivendo, perfet-to modello di ciò ne ha lasciato il divino plutarco: e a scrivere dei moderni (di cui un volume di assai minor mole farebbesi) non è sorto ancora un plutarco novello. benché tutto dì delle vite si scrivano, non si dà però vita a nessuno, né la ottiene per sé lo scrittore. 54

52) A Tommaso Valperga di Caluso-Firenze, 21 IV 1800, in alfieri 1963, iii, p. 68. 53) «in gori alfieri trovò affinità di spiriti e una maturità intellettuale di cui aveva bisogno. trovò nel mercante senese le conferme politiche e le scelte etiche a cui tendeva. gori lo indusse a leggere machiavelli […]». Cfr. a. di benedetto, «Arrivammo a Firen-ze…». La Toscana di Vittorio Alfieri tra mito ed esperienza, in tellini - turchi 2002, p. 7. 54) alfieri 1991, p. 42.

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possiamo leggervi fra le righe l’autoinvestitura di alfieri a candidarsi no-vello plutarco in opposizione alla moltitudine di finti biografi che scri-vono “tutto dì” biografie di nessuna significanza. L’autore delle Vite pa-rallele, tanto amate fin dalla gioventù 55 è il primo modello di riferimento sia sul piano dei personaggi che ha ritratto, nel bene o nel male altamente significanti, sia sul piano dello scrittore che immortalandoli ha acquistato a sua volta fama eterna. in questa come in altre occasioni alfieri si pone in un rapporto di forte agonismo con un autore classico o moderno di cui ha altissima considerazione. di volta in volta cambia lo scrittore ele-vato a campione del genere, e la stagione del disinganno finirà per fargli detronizzare precedenti modelli di emulazione, come nel caso di Voltaire, ma non il principio, al quale resta sempre fedele, di superare se stesso at-traverso il serrato confronto con altri auctores appartenenti a un suo per-sonale canone. Che il genere biografico non meriti di essere sviluppato se non nella linea della dimensione mitica dei classici, deve essere stato ipo-tizzato da Vittorio fin dai tempi del Principe e delle lettere, molto prima di quella che usualmente è riconosciuta come fuga nella classicità dell’ultimo alfieri, e viene affermato anche nel passo della Virtù appena riportato. Le parole del gori: «benché tutto dì delle vite si scrivano, non si dà però vita a nessuno, né la ottiene per sé lo scrittore» esprimono un giudizio di valore su contenuti e stile di un genere memorialistico-biografico in piena fioritura nel settecento, ma ritenuto sostanzialmente inadeguato rispetto al modello ideale. Così, e per contrasto, se ne deduce l’annuncio di chi sarà il protagonista della Vita. non Vittorio alfieri uomo, ma il letterato-eroe Vittorio alfieri, incarnazione del libero scrittore teorizzato nei trat-tati, cioè l’unico eroe in grado, nei correnti tempi servili, di far quel «gran bene […] agli uomini» a cui nel passo allude francesco.

nella primavera del ’90, a parigi, mentre assisteva direttamente alle for-ze della rivoluzione in opera, alfieri compone in prima stesura la Vita rispettando in maniera puntuale e fedele il sistema dei valori poetico-let-terari riconosciuti, a lungo meditati e predicati con fervore: il “vero”, che sta alla base del patto narrativo con il lettore e che organizza l’impianto strutturale dell’opera, è quel medesimo “vero” di cui si legge nel trattato Del Principe e delle lettere ed è il “vero” della poesia. Quando in quest’ulti-mo testo si legge che «se un eccellente scrittore vuol dipingere un eroe, lo crea da sé; dunque lo ritrova egli in sé stesso» non possiamo che constata-re la corrispondenza fra il protagonista della Vita e la «sublime verità» del libero scrittore. essa non viene mai meno e si traduce in prassi, diventa effettuale nella vicenda biografica di Vittorio alfieri protagonista, mentre

55) Cfr. Vita (epoca ii, cap. 7): «[…] quando nella lettura di plutarco io cominciai ad infiammarmi dell’amor della gloria e della virtù […]» (in alfieri 1951a, i, p. 51).

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l’autore, probabilmente aiutato dalla lunga esperienza di scrittura teatrale, maneggia il personaggio dell’autobiografia con disinvolta distanza. alfieri come autore della Vita, conduce dall’inizio alla fine una sorta di progetto teleologico sul materiale biografico della propria esistenza per arrivare a imprimerle una forma estetica definita e corrispondente, in piena sincerità, al modello di se stesso che ha perseguito con tenacia lungo tutto il tempo del suo vivere. il mandato che ha sentito di avere, la chiamata alla poesia, gli impone come imperativo morale di tracciare l’itinerario di salvezza e di ascesi con il quale ha appreso a orientare il proprio impulso naturale, la propria «sete insaziabile di ben fare e di gloria» verso la meta dell’arte.

potremmo chiederci come confrontare allora l’autobiografismo delle Rime o quello “diffuso” in tanti altri testi, qui trascurati, con il risulta-to ultimo della Vita scritta da esso, di quel perfetto e sempre efficiente strumento di sostegno, anche a distanza di più di due secoli, del mito alfieriano, opera che come poche nella storia della letteratura ha tradotto l’intenzione del suo autore senza mai sfuggirne al controllo. probabilmen-te dobbiamo interpretare la Vita come effetto di un duplice processo di sedimentazione e sintesi di idee ed esperienze maturate nel corso di anni, vertice di un climax i cui precedenti termini affondano nel vasto orizzonte autobiografico intessuto a partire dai primi tentativi di scrittura e poi via via esperito nelle diverse componenti di genere e stile di cui alfieri andava diventando padrone. in alcuni casi con esiti tanto sicuri e soddisfacenti da meritare la messa a punto di un’opera autonoma come le liriche organiz-zate nel canzoniere delle Rime. in quest’ottica l’autobiografismo diffuso è un necessario e lungo apprendistato artistico per trovare il modo e la misura, eliminare il superfluo e il ridondante, mettere a fuoco l’essenziale e il significativo e poi emergere allo scoperto, consegnando attraverso la Vita l’opera intera e il proprio io letterario alla posterità senza lasciar nulla al caso. presentarsi ai suoi lettori-spettatori definendosi, dandosi confi-ni, ricorrendo ossessivamente all’autoritratto, ritagliando quella che con termine anacronistico oggi diremmo la propria icona fino a forgiare un vero e proprio mito di sé è per alfieri funzionale all’inveramento e alla valorizzazione della propria opera, è la miglior garanzia per affidare alle generazioni a venire il frutto della propria creatività.

ma non solo, alfieri vive e opera in tempi di profonde cesure della storia, tempi che cambieranno rapidamente anche il corso e lo sviluppo della letteratura. figlio del suo tempo fino in fondo, mostra nella sua es-senza di uomo e di scrittore tutte le contraddizioni e le tensioni di un drammatico passaggio fra passato e futuro. sicuramente avverte i prodro-mi di una nuova epoca letteraria pur sapendo e volendo restarne in limine. Quel bisogno di parlare continuamente di sé, di occuparsi della propria esistenza, di distinguersi dagli altri uomini e di guardarsi dentro è bisogno comune anche ai suoi contemporanei: l’europa sta per essere conquista-ta dal romanzo, genere già in ascesa e sicuramente dominante negli anni

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a venire, ma non ancora compatibile con il sia pur variegato orizzonte letterario di alfieri se non come presentimento, se non come irrequieta ricerca di non convenzionale, se non come romanzesco appunto, di cui si colorano, a tutto vantaggio della sua fortuna e di quella del suo autore, le pagine della Vita.

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riferimenti bibLiografiCi

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