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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Poste Italiane - Ravenna - Spedizione in A.P., Legge 46, art. 1, comma 2 D C B Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XIV • Giugno 2010 • n. 4 SOMMARIO Anche ai poeti capita d’andare... di Paolo Borghi Campè uns n’à mai a sa di Maurizio Balestra Garavlê di Gianfranco Camerani e Romano Tombetti I cùdal un racconto di Romano Comandini illustrato da Giuliano Giuliani Lamon di Roberto Bertoni Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XXXIX Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di Addis Sante Meleti LEARdo e’ RE di Carla Fabbri Mario Gurioli - Padron, fatur e cuntaden di Bas-ciân Stal puiðì agli à vent I scriv a la Ludla Biancuð di Paolo Borghi p. 2 p. 4 p. 6 p. 8 p. 9 p. 10 p. 11 p. 12 p. 13 p. 14 p. 15 p. 16 Tolmino non ebbe da ragazzo l’opportunità di approfittare dei benefici culturali offerti dall’istruzione medio-superiore. Fu indirizzato, invece, verso il lavoro manuale nell’accezione socialmente più umile, fra i brac- cianti agricoli. L’ansia di emancipazione lo spinse verso l’impegno poli- tico-sindacale cui poi si dedicò da funzionario e, successivamente, nei patronati sindacali, mentre la tensione culturale, che lo animò si può dire da sempre, lo indirizzò verso la letteratura, segnatamente la poesia e, indirettamente, verso lo studio delle lingue, specie dello spagnolo cui si dedicò per una maggiore conoscenza della letteratura ispano-america- na. Conformemente a questi interessi culturali, cresce la sua biblioteca personale in cui Tolmino profonde una parte consistente dei suoi non certo lauti proventi di sindacalista. Un investimento da cui scaturirà una biblioteca ad indirizzo letterario fra le più cospicue della zona. Il passo da lettore perseverante di poesia a poeta non si fece attendere; dopo aver coltivato per decenni la poesia italiana debuttò nel 1975 in quella dialettale con Al progni ðerbi cui seguirono varie altre raccolte che posero il Nostro all’attenzione della critica più importante. L’ingresso nel mondo delle lettere lo porta a frequentazioni personali significative: basti qui ricordare i rapporti di colleganza con autori come Franco Loi o Gian- ni Fucci o la familiarità con cri- tici come G. Lauretano, F. For- tini, G.L. Beccaria, F. Brevini, P. Civitareale... Entrato nel novero degli autori più conosciuti, presente nelle antologie di poesia dialettale più importanti, Tolmino gode finalmente di un pressoché unanime riconoscimento dei propri meriti poetici e in questa aura di considerazione e di affetto si è spento lo scorso 28 aprile. Per Tolmino Baldassari di Gianfranco Camerani Giugno 2010

Ludla Giugno 2010 colore:Layout Ludla · autore che se n’è andato senza tra-mandare a supplenti il compito di rimpiazzarlo nei nostri pensieri. E noi ci sentiamo addolorati non

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la LudlaPeriodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”

per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnoloAutorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Poste Italiane - Ravenna - Spedizione in A.P., Legge 46, art. 1, comma 2 D C B

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XIV • Giugno 2010 • n. 4

SOMMARIO

Anche ai poeti capita d’andare...di Paolo Borghi

Campè uns n’à mai a sadi Maurizio Balestra

Garavlêdi Gianfranco Camerani e RomanoTombetti

I cùdalun racconto di Romano Comandiniillustrato da Giuliano Giuliani

Lamondi Roberto Bertoni

Appunti di grammatica storicadel dialetto romagnolo - XXXIXRubrica di Gilberto Casadio

Parole in controluceRubrica di Addis Sante Meleti

LEARdo e’ RE di Carla Fabbri

Mario Gurioli - Padron, fatur ecuntadendi Bas-ciân

Stal puiðì agli à vent

I scriv a la Ludla

Biancuðdi Paolo Borghi

p. 2

p. 4

p. 6

p. 8

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p. 12

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Tolmino non ebbe da ragazzo l’opportunità di approfittare dei beneficiculturali offerti dall’istruzione medio-superiore. Fu indirizzato, invece,verso il lavoro manuale nell’accezione socialmente più umile, fra i brac-cianti agricoli. L’ansia di emancipazione lo spinse verso l’impegno poli-tico-sindacale cui poi si dedicò da funzionario e, successivamente, neipatronati sindacali, mentre la tensione culturale, che lo animò si puòdire da sempre, lo indirizzò verso la letteratura, segnatamente la poesiae, indirettamente, verso lo studio delle lingue, specie dello spagnolo cuisi dedicò per una maggiore conoscenza della letteratura ispano-america-na. Conformemente a questi interessi culturali, cresce la sua bibliotecapersonale in cui Tolmino profonde una parte consistente dei suoi noncerto lauti proventi di sindacalista. Un investimento da cui scaturirà unabiblioteca ad indirizzo letterario fra le più cospicue della zona. Il passo da lettore perseverante di poesia a poeta non si fece attendere;dopo aver coltivato per decenni la poesia italiana debuttò nel 1975 inquella dialettale con Al progni ðerbi cui seguirono varie altre raccolte cheposero il Nostro all’attenzione della critica più importante. L’ingresso nel mondo delle lettere lo porta a frequentazioni personali

significative: basti qui ricordarei rapporti di colleganza conautori come Franco Loi o Gian-ni Fucci o la familiarità con cri-tici come G. Lauretano, F. For-tini, G.L. Beccaria, F. Brevini,P. Civitareale... Entrato nel novero degli autoripiù conosciuti, presente nelleantologie di poesia dialettalepiù importanti, Tolmino godefinalmente di un pressochéunanime riconoscimento deipropri meriti poetici e in questaaura di considerazione e diaffetto si è spento lo scorso 28aprile.

Per Tolmino Baldassaridi Gianfranco Camerani

Giugno 2010

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Una nöta

Una nöta am sö ðvigêch’e’ nvéva cumè una vôltaa j ò vest la mi nònach’la ciudéva e’ purton d’spen dla córtae la faðéva al pëdghi biânchipraciði a cveli che un dèla j avreb fat pr’andê’…1

Tolmino Baldassari non c’è più ed ilprimo, smarrito contraccolpo è unsenso di abbandono e di assenza, lanozione ed insieme la consapevolez-za di un vuoto incolmabile, scavatonell’animo dalla scomparsa di unautore che se n’è andato senza tra-mandare a supplenti il compito dirimpiazzarlo nei nostri pensieri.E noi ci sentiamo addolorati nonmeno che impotenti di fronte all’ine-luttabilità di questa perdita, poichésperimentiamo giorno per giornosulla nostra pelle l’inadeguatezza del-l’uomo a far fronte in maniera atten-dibile o comunque acquietanteall’idea della fine di tutto, poiché fre-quentiamo da sempre, seppure informa inconscia, la comune riluttan-za ad ammettere inidoneità nei suoiconfronti ed ancor più nel consolarecoloro che si trovano a soggiacerle.Solo un grande dello spessore di Tol-mino poteva riconoscere ed accettarequesto tormentato amalgama facen-dosene una ragione e convertendolo,per noi, in poesia e compianto e tut-tavia non più che compianto postoche quelle scritte da Tolmino non sipossono certo definire pagine conso-latorie. La sua poesia e l’uso che eglifa in essa del dialetto stringono il lin-guaggio sino al suo limite di rottura,in prossimità del quale le singoleparole, acquisite nuove valenze, con-seguono il dono di conciliare l’uomoanche col tema della morte scavando-gli nel profondo dell’animo, là doveil mondo del tempo presente e diquello trascorso si stemperano nelsilenzio nell’abbandono, nell’assenza.

In chêv de’ cantir

J’è tot in chêv de’ cantirch’im guêrda mo i sta zete in s’môv d’un fil[…]

a j ò ‘vu cumpasionnenca parchè an putéva fê’ gnint

döp a j ò pinsê che un dècvaicadon fórsi u m’avdràin chêv de’ cantirch’a faz di segne nenca lo un putrà fê gnit2

Certo, il concetto di trapasso faintrinseca parte di tutti noi che, inun modo o nell’altro, conviviamosenza tregua con una cognizione dicaducità che rappresenta pur semprel’altra faccia della vita. E tuttavia,anche se abbiamo connaturata espe-rienza che nulla a questo mondo siadestinato all’eterno, pure ci ostinia-mo ad esorcizzare il pensiero dell’ulti-mo epilogo rifugiandoci nell’idea, omeglio nella confidente speranza diuna prosecuzione salvifica, in unasorta di trasognato protrarsi nellaperpetuità di passato e di presente.

I bév cun me j amigh

Ad nöta i bév cun me j amigha s’artruven da un êtar tempu n’è ch’a ciacarèma tânti chéð dla vita j è þa stéogniun e’ sa che cl’êt l’è lèmo cvëði an s’avdenan saven cvânt mònd ch’ui siao ch’u ni sia.3

Pochi, in cuor loro, sentono e sonoin grado di dichiararsi veramente,sinceramente apprestati alla morte.Ebbene, Tolmino Baldassari davaidea di far parte dell’esiguo noverod'eccezioni atte a confermare la rego-la. La sua poesia, pur senza quasimenzionarla in modo esplicito, dasempre è stata in intima relazionecon la consapevolezza dell’aldilà, conl’istintiva adesione ai silenzi che glifanno da scorta, con la contiguità atutti quei defunti che in vita, per unverso o per l’altro, avevano interseca-to la propria esistenza con la sua.

I dôrma

I dôrma in tëra tot insene t’pinsares ch’is pö ðvigê’ dmatenamo sól al rôvri al s’ðméðatachêdi so int e’ zil

e’ vent l’è sèmpar quele’ ðbresa d’fiânch dla bota pina d’giazint e’ canton dla ca

prôva d’ciamê’ int la nebiavóða ch’la n trôva e’ fonde’ ðbat al pôrti

cum’a sarebla adës la Nini?4

Ora che anche lui è entrato a farparte di quella pluralità di scomparsi

Giugno 2010

Anche ai poeti capita d’andare…di Paolo Borghi

La copertina della prima raccolta di poesiedi Tolmino Baldassari: Al progni ðerbi,Ravenna, 1975

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che tanto aveva ispirato e coinvolto lasua capacità creativa, a noi resta l’in-combenza intima della memoria e lacoscienza che ci mancherà, eppure,ovunque egli sia andato, serberemodurevole in noi a incompleto confor-to la sua poesia con quell’ultimo,incancellabile verso di Al rivi d’êria5,dal quale balza implicita una figurache simboleggia, sì, l’uomo e nellaquale, dunque, ognuno potrebbe rav-visare anche se stesso, ma nel nostropensiero quella figura, d’ora in poi,sarai semplicemente tu Tolmino,alto, eretto, col volto in faccia a e’ vente’ vent ch’e’ pasa e t’ai si d’dentar…6

Note

1. Una notte. Una notte mi sono svegliato\che nevicava come una volta \ ho visto lamia nonna\ che chiudeva il portone di spinidella corte\ e lasciava le orme bianche\ comequelle che un giorno\ avrebbe lasciato perandare…2. In fondo al campo. Sono tutti in fondoal campo \ che mi guardano ma non parlano\ e non si muovono \ solo due alzano unbraccio \ ho avuto compassione \ anche per-ché non potevo far niente \ dopo ho pensato\ che un giorno \ qualcuno forse mi vedrà \in fondo al campo \ che gli faccio dei segni \e anche lui non potrà far niente3. Bevono con me gli amici. Di notte bevo-

no con me gli amici\ ci ritroviamo da un altrotempo\ non perché parliamo tanto\ i casidella vita sono già accaduti\ ognuno sa chel’altro è lì\ ma quasi non ci scorgiamo\ nonsappiamo quanto mondo ci sia\ o non ci sia.4. Dormono Dormono in terra tutti insie-me \ e penseresti che possono svegliarsidomattina \ ma solo le rovere si muovono \appese al cielo \\ il vento è sempre quello \scivola di fianco alla botte piena di ghiaccio\ nel cantone della casa \\ prova a chiama-re nella nebbia \ voce che non trova il fondo\ sbattono le porte \\ come sarebbe adesso laNini?5. Le rive d’aria6. il vento, il vento che passa e ci sei dentro…

Giugno 2010

Per Tolmino*

La paróla ad Tolmino da Canózzspichênta e lénda: vòusa ch’l’è magéad’inféþþni, d’aqui, ad vént, ad òmbri. E’ sprózzdi Canutìr ch’i pasa, ch’i va véamo ch’i è’ férmi te zétt, e sl’òc agózzta i vàid sparêi tla curva dl’agonéat’un êlt témp, te pensìr; che lòu i vaindvè che vêita e mórta insén a l sta.

Gianni Fucci

La parola di Tolmino da Cannuzzo / splendente e linda: voce ch’èmagia / d’immagini, di vento, d’ombre. Lo spruzzo / dei Canottieriche passano via / ma fermi in quel silenzio; l’occhio aguzzo / li guar-da nella curva d’agonia / sparir nel tempo, nel pensier; ché vanno /là, dove assieme, vita e morte stanno.

* Dal poema inedito Rumanþ. Un’epica familiare in dialetto santarcangiolese

Le raccolte poetiche di Tolmino Baldassari In romagnolo:Al progni sérbi, prefazione di Ugo Foschi. Ravenna, Edizio-ni del Girasole, 1975E’ pianafôrt, prefazione di G. Laghi. Ravenna, Edizioni delGirasole, 1977.La campâna, prefazione di G. Bellosi. Forlì, Forum/Quin-ta Generazione, 1979.La néva. Poesie 1974-1981, introduzione di F. Brevini, pre-fazione di G. Giardini. Forlì, Forum/Quinta Generazio-ne, 1982.Al rivi d'êria, commento di F. Loi. Firenze, Il Ponte, 1986.Quaderno di traduzioni. Forlì, Nuova Compagnia Editrice,1990.Òmbra d'luna, prefazione di G. Tesio. Udine, Campanot-to, 1993.

I vìdar, prefazione di P. Civitareale. Faenza, Mobydick,1995.E’ zet dla finëstra, prefazione di A. Cappi, postfazione di A.Bertoni. Castel Maggiore, Book, 1998.L'éva, prefazione di G. Lauretano. Villa Verucchio, P. G.Pazzini, 2002.Se te t'gverd. Osnago, Pulcinoelefante, 2005.Canutir, prefazione di G. De Santi. Rimini, Raffaelli,2006.L’ombra dei discorsi. Antologia 1975-2009, a cura di Gian-franco Lauretano. Puntoacapo Editrice, Novi Ligure,2010.

In italiano:Qualcosa di una vita, postfazione di A. Bertoni. Lugo, Edi-zioni del Bradipo, 1995

Gianni Fucci con Tolmino Baldassari.

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E’ vecNu dmandém, t'e' fat gnéntdu t'ci stè,t'e' incuntrè qualcadéunpar la strèda.A sò vèc:ò pers i mi cumpagna vagh pianìncmè una luméga.Se tòuna a m mètt un brètta vagh tl'órt,sla terazaa ciócc una melarènza.Ma la mi mòia i ò las i sóld sòura la tèvla,l'è fadèiga a campè, burdélle a muréi adèsch'a o u i ucèl nóv, u m'agrèsta.Nino Pedretti – La chèsa de’ témp

Anche se il vivere “è fatica”, morire,per quanto tocchi a tutti, non piacea nessuno. Ecco, per quanto banale,un solido punto di partenza da cuiavviarsi per un piccolo escursus,all’interno della poesia romagnolacontemporanea, sul tema dellamorte. Tralascio di soffermarmisulla domanda del “cosa c’è dopo?”,che è successiva, quello che qui miinteressa è un’altra cosa, è il proble-ma dei problemi: la morte comefine della vita, dalla cui inevitabilitàhanno origine tutte le nostre pauree tutte le nostre angoscie.

U n'e' savrà niséunCh'avémm campèch'avémm tòcch al strèdi si piichi andeva aligaru n'e' savrà niséun.Ch'avémm guardè e' mèrda e' finistéin di trèni,ch'avémm respirél'aria ch'la s pòzasal scaràni di bar,u n'e' savrà niséun.A sémm stèsla teraza dla vétafintènt ch'l'è arivàt ch'i élt.Nino Pedretti – La chèsa de’ témp

I MurtLa bèla véitala va da mèl,che mat de’ templ’ha guàst inquèl.E tot in féila

Se cumadoin,i murt i réidte ricurdòin.Sante Pedrelli – E’ Ghéfal

L’apuntamèntL’è quis-cion ad slunghilamo e’ ven, e’ vene’ mumènt de’ pepaculquant t’a t’n’adé ch’la cminzia a bazighé tónd a ca’fasand cont ad gnint,la t’fa la rónda sempra pió da prèsa,la t’fila dria, la t’screca l’òc,la t’cema da pèrtach’la j à un quèl da dit. Walter Galli - Tutte le poesie

È solo questione di tempo, prima opoi sul comodino ci sarà anche lanostra fotografia. La paura, l’ango-scia, quel ch’u s’agresta, nell’attesadel momento supremo, non è soloquella del “vecchio” (tanto più chenessuno può sapere quello che acca-drà domani), ma è la condizionepropria dell’uomo.Il rifiuto del Paradiso terrestre attra-verso l’acquisizione della conoscen-za (la consapevolezza del bene e delmale) ha fatto di noi quello chesiamo: uomini costretti a vivere conangoscia la nostra esistenza. Perché con angoscia? Perché intrin-secamente legata alla coscienza delnostro essere (io ci sono, sono qui,agisco, sono vivo…) c’è la consape-volezza della nostra fine (la morte).

La MortaMu me la mórtal'a m fa una pavéura che maich'u s lasa tròpa ròba ch'l'a n s vaid piò:i améig, la tu faméia,

al piènti de' pasègg ch'a gli à cl'udòur,la zénta te incuntrè una volta snò.A vréa muréi d'inveran quand che pióvch'u s fa la saira prèst,e d'fura u s spórca al schèrpi t'e' pantène u i è la zénta céusa ti cafèdatònda ma la stóva.Tonino Guerra - I Bu

L’aver scelto la conoscenza (di tuttociò che è bene e di tutto ciò che èmale, compreso il male supremo: lamorte) è ciò che ci distingue daglianimali, inconsapevoli della propriamorte come del paradiso in cui con-tinuano a vivere. Questa consapevolezza è ciò che cidistingue dagli animali e ciò che,nello stesso tempo, ci mina dall’in-terno.

S’tat caz un po’ a pansèquand ch’e’ ven sera

t’sint che la mortala j è un po’ pió driach’e’ raspa e’ sorghe tot quji ch’i t’è driaj è mes cme tee ’csé chi mel e melache ta n’i cnos e ta n’i cnusaré.Dolfo Nardini - E’ lavor de’ pisirel

La “morte degli altri” è la sola morteche possiamo sperimentare (“…quandoci siamo noi non c’è la morte e quando c’èla morte non ci siamo noi” - Epicuro) eper noi è sempre un’esperienza ango-sciosa (perché ci rimanda alla nostra)e per quanto possa essere anche dolo-rosa (la morte di chi ci è caro), è sem-pre accompagnata dal pensiero chequella non è la nostra morte: “io sonoqui e sono ancora vivo” e questo ci solle-va e ci porta a pensare ad altro.

Campè uns n’à mai a sadi Maurizio Balestra

Giugno 2010

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La paura che proviamo di fronte alcadavere (ciò che prima era unuomo ed ora è diventato una cosainanimata, una bambola, quello chesaremo noi) generando il pensiero“io però sono qui e sono ancora vivo” sitasforma in qualcosa di altro. Neltesto che segue si trasforma in ungioco. Ma in questo caso ci trovia-mo di fronte all’esperienza di unbambino.

La mórtaQuant che murèt la moj ad Tavaglini,léu e ziréva daònd ma la casa,us farmèva, ui guardèva e e’ féva tott

[ i minéut:«La mi znina, la mi znina!…»Cal vàci al giòiva e patèr,cl’éra una fóila lónga ad “scatinòra”sòta ludòir dal candòili.Mè a stéva zétt, strètt m’al sutèni

[dla mi mà.La morta la paròiva una bunbòzaS’i gambiréll e al sutanini curti,e al manìni cal j éra ad zira biènca.La matòina dòpavdòjva la morta tl’aqua de cadòin,si cristàl dal finèstri, se légn de tulir.E a rugióiva: «Mà, a la vègg sla porta,a la vèggh disdòj sla scaràna,a veggh la su faza t’e piatt,dròinta la bòcia dl’aqua!»E la mi mà la ridóiva, la ridóiva,parchè un po’ a la avdòiva da bon,un po’ a féva a pòsta,par zughé s’la morta.Guglielmo Giovagnoli – E zapatìndal chèsi

Farsi l’idea di qualcosa di cui nonpossiamo avere esperienza è difficile(si ha esperienza della morte deglialtri, non della propria). Si tende apensare al noi “da morti” come sefossimo ancora dei vivi. Come se,anche da morti, magari con qualchelimitazione, potessimo ancora gode-re degli odori, sentire i rumori, idiscorsi, e’ tramèsch di s-cen…

A qui de' mi paesa n'dmand, no, no, ch'u m's'dedica 'na strê,U m'basta un viol, on d'chi viul dsamanch'in Zagunêra, Budr o Barbian,sgavitlendsla tr'al bosch d'spen biench

[cmè béss,i s'fa da un trêv s'un scol e in s'n'êra i fnén

Ah, ch'pês! e pù che bon udor d'violch'a m'gudrebb, 't e' mës d'mêrz, longh

[st'mì viol!Nettore Neri – Poesie in dialettoromagnolo

I murtI murt i n’è pjò bon d’nasêe’ vent dri a la spagnéra, l’udórde’ grân sech,in bév brisa, in ridmaj.I murt i sent e’ tramèsch di s-cen,mo i n’à e’ môd d’dê la vós.I fa sól al mösi dla bocae i slêrga j oc intoran. Giuseppe Bellosi – I segn

Stiamo mettendo il piede su di unconfine scivoloso, stiamo passandoalla domanda successiva, al “cosa c’èdopo?”, la domanda a cui il pensie-ro, che non riusciamo a tenere benfermo, tende a dirigersi immediata-mente. Facciamo allora un passo indietro etorniamo al punto di partenza:morire non piace a nessuno. Perché questo rifiuto di un qualche

cosa che non riusciamo neppure afocalizzare, a bloccare? Non sappiamo cos’è ma non cipiace. Che cosa non ci piace quindi?Il pensiero scivola attorno all’ideadella nostra morte, tende continua-mente al allontanarla nello spazio(la morte degli altri) e nel tempo (lanostra morte), senza riuscire adafferrarla… ciò che si coglie invece,sempre, è il senso di apprensioneche l’accompagna e ci spinge ulte-riormente e più o meno inconscia-mente, a sfuggirla.

I murtint al fotografji di manifestj è tot a lé ch’i ride i pè in saluta……segn ch’i sta ben du ch’j è.Sarà, mo me a n m’afid…… e’ pó in du ch’j è?A n’e’ voi gnench savéi.Dolfo Nardini – Fin a qué

E allora meglio non approfondire.Meglio non pensarci e magari tra-sformare la tristezza in sorriso… unsorriso amaro.

Giugno 2010

‘Il vecchio’ (1651).Incisione di VáclavHollar (Praga 1607-Londra 1677) daHans Holbein il Gio-vane. Distratto dalla Morteche gli offre il dulci-mer da strimpellare,il vecchio non siaccorge di caderenella fossa. La clessi-dra abbandonata sulmuricciolo ammoni-sce che il tempo èfinito. Commenta l’immagi-ne un versetto delLibro di Giobbe (14,1): “Il mio soffio vita-le si spegnerà, i mieigiorni si estingueran-no e a me rimanesolo il sepolcro.”

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D’invéran, cvânt che la tëra la s’arpónsa e magari la dôrma sota lanéva, u-n gn’j éra gnint da fê’ par iðbrazent, ch’j éra bon ad pasê’ di miðzenza fê’ un’ôvra [giornata di vero lavo-ro, pagata secondo tariffa], zenza ciapêrun bajöch; e intânt e’ sach de’ grân,cvel de’ furminton e cvel dla riðena(e’ rið bon u n’éra pr’i ðbrazent) idvintéva sèmpar piò ðgvegn [flosci].E’ putéva capitir un’ôvra a imbalêr e’fen cun la prësa a mân, mo agli érafurtoni. E’ fen, che l’avéva durmì intal pajéri, e’ vnéva vindù e mandê cune’ tréno, da la stazion de’ Sêvi, int alcaseni dla Lumbardì indóv ch’i tnévatanti ad cal burëli [mucche da latte],mo tanti, che e’ fen dal marzidi [mar-cite, prati irrigui] dla Lumbardì u-nbastéva; e alóra i i daðéva la þonta cuncvel dla Rumâgna. Mo prèma ad spe-dil, e’ fen e’ bðugnéva imbalêl, e parste lavór u j avléva una scvêdra adimbaladur ch’i saves e’ fat su e ch’javes dla strenga [forza e resistenza] parchjchêr int la tajôla par fêr al fandëli(ch’agli andes d’amðura int l’imbala-dóra), e par tirêr int e’ mângh dlaprësa.Int la bona staðon i ðbrazent j avévasèmpar un pô d’tëra a tarzarì; e puognon l’avéva di rapurt ch’a putrè-sum dì d’clientéla cun una fameja adcuntaden che, int i mument che e’lavór l’avéva da ësar fat, i-n dgéva adnö se e’ ðbrazânt u s’ufriva ad dêj unamân pr’una ciöpa d’óri, magari laséra, döp a l’ôvra. E magari, döp e’lavór, e’ ðbrazânt u s’afarméva a le amagnê’; o u-s purtéva a ca una böciad’lat, o una fjasca d’bé, o una spôrtaad patêti; insoma e’ garavléva cajcvël;e “garavlê’” [racimolare] l’éra pröpi laparôla giosta.Pr’i ðbrazent ad Cas-cion d’ Ziria, adPiðgnân, ad Canoz e a le þiron u j éradagli ucaðion in piò par garavlê cajc-vèl da dê la þonta a e’ lavór dla cam-pâgna: a scor dal Saleni ad Ziria cheal daðéva da magnê’ a i salinér (u-s pödì, a una zitê intira), mo l’éra unarisórsa nench par cvi che i n’i luvuré-va, mo i i staðéva a le intóran.Adës, che e’ sêl u-n gosta scvéði gnit,al Saleni agli è armasti un impjântche u-s ten a le par cunservê’ lamimôria dla nösta vita d’alóra e dlanösta stôrja, mo sóratot par l’ambjent

(l’è una risérva naturêla). Adës afaðen fadiga a capì cvel ch’e’ putévaësar una vôlta al Saleni. A e’ temp de’pêpa u j éra un det: «Dat plus parvaCerviola, quam tota Romandiola»: e’rend piò tânt la pècula Ziriôla ch’netota la Rumagn[ôl]a. E’ riferimentsóratot l’andéva al tas che e’ gvérande’ pêpa e’ mitéva sóra e’ sêl ch’l’éraon di puch cvel che tot j éra custret acumprê’, non sól par magnê’, monench par cunsarvê la röba, a cminzê’da la chêrna ad pôrch, e pu e’ pes cheu-s mitéva sota sêl… U-s pö dì chel’impusizion fischêla che alóra lapðéva sóra e’ sêl, incù la fareb la patacun cvela che e’ nöst gvéran e’ metsóra la benzina; e l’è tot un dì.Mo turnèma a i nost ðbrazent. Cvântch’l’éra la staðon ad cavê e’ sêl, cvejcaþurnêda i la putéva fê’ e in cagli uca-ðion i purtéva di pèn che al su donagli avéva – dðema acsè – elaburê apö-sta: l’urël di bragon l’éra cuðì in môd

che u s’i putes farmês una zérta cvan-titê ad sêl; e pu j avéva dal sachi apö-sta, e i dið che int una bona saca u iputes stê’ nench un chilo ad sêl.Mo u j éra nench cvi che e’ sêl i l’an-déva a purtê’ vi la nöta: di grupet adþùvan i s’avðinéva al salen coma jindjen int i cino ad caplon; i pasévae’ cundot a möl int l’acva, staðèndatent al gvêrgi dal Saleni e a i finanzirche i badéva al salen cun e’ muschete, s’l’éra e’ chêð, i tiréva; in gènar inêria, mo dal vôlt nench a i s-cen; euna nöta un þuvnöt ad Cas-cion d’Ziria, u-s ciapè una s-ciuptêda int laschina e, pr’un malet ad sêl, u j armi-tè la vita. Mo nó adês a scurema ad garavlê’; erubêr e’ sêl u-n gn’intréva cun e’ gara-vlê’; la difarenza, nench se dal vôlt laparéva stila, la j éra, e còma. Int al Saleni u s’j andéva nench acaza, mo par puté mazê’ un cvejchuðël bon e’ bðugnéva instichês int i

Garavlêdi Gianfranco Camerani

e Romano Tombetti

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coc [appostamenti di caccia] di salinér,magari in cal nöti ch’e’ faðéva burascafôrt e u-s putéva sperê’ che i zirjot istaðes int e’ lët. Int al saleni, ðgond alstaðon e i post, u-s putéva truvê’ tântirazi d’uðel: fleni [pavoncelle] e pivir[pivieri] int al lêrghi intórna al salen,e dèntar al salen, gambëli [trampolie-ri] ad tot al raz, pivinëz [chiurli], folghi[folaghe]… Mo e’ cazadór l’avéva sèm-par int la testa j anëdar[germani reali], agli arbêli[canapiglie], i cudlenz[codoni], i fis-cion [fischio-ni], j þégar [alzavole] e icanarul [marzaiole], ibadilëz [mestoloni], imaghës [fistioni], i muri-ton [moriglioni] e almureti [morette]; par nöscòrar dagli ôchi che dalvolti al paséva nencaló… L’è inùtil a dì cheint i cazadur la pasion lajéra grânda, mo l’éragrânda nench la fâma ee’ bðogn. Se la caza l’érastêda furtunêda, i caza-dur i purtéva j uðel aCiðena par vèndi, o i ibaratéva cun cvi de’paéð. E’ riðöt e’ pjaðéva atot, mo pr’e’ cazadórpuret la su fameja la javnéva par utma.E pu u j éra la pesca chela sareb stêda vjetêda: alSaleni l’éra una risérva,mo zérti peschi agli ératulerêdi. Sicuramentnö cvela cun la sfrosna[fiocina], vietatesma, moche l’éra, fórsi, cvela piòpratichêda, parchè unpiscadór bon, cun lasfrosna un brudet u-lgaravléva sèmpar, sóra-tot d’invéran; mo e’ bðugnéva nös fê’ciapê’ e alóra u s’j andéva ad nöta,cun la nebia o int i dè ad burasca,sota l’acva, specialment d’invéran.Insoma, l’éra una vitaza, mo un bru-det, d’invéran, l’éra una risórsa con-tra la fâma e contra e’ fred ch’u-tcuréva sèmpar dri, ad dè e ad nötaint e’ lët, e toti cal calurì, che adës alfa pavura còma s-ciop chêrgh, alóraagli éra e’ sogn ad tot i ðbrazent che

non a chêð j éra ciamé "i magroni”…Scvéði tulerêda l’éra la pesca cun lapadëla [bilancino]: al gvêrgi ogni tântal faðéva una“ridêda” par tné bas e’nòmar di piscadur, e pu al staðévachêlmi par un pô, e in ste tira e mölai nost ðbrazent i-s barcamenéva.E’ fat che adës a-v voj cuntê’ l’e cvelad Zigöcia (Dino Cacchi) che unanöta cun la sölita scvêdra ad pisca-

dur: (j éra zencv e tra cvist u j éranench e’ mi bab, Tonino det Ruson)j arivé a e’ Zircundêri [Canale circon-dario] dal Saleni, i gnascundè al bici-clet, i pasè e’ Cundot int i post ch’isavéva ló e pu i–s sparguiè, ognon inte’ pöst ch’u i paréva piò adat; mo e’bðugnéva sèmpar stê’ atent còmal’uðël int la râma, parchè al gvêrgi alpraparéva al su trapli e i nost, dapiscadur, i putéva da un mument a

cl’êt cadé ló int la réda dal gvêrgi.Insoma Zigöcia tot int ’na vôlta u-sn’adaðè ch’l’éra zircundê, zenza pusi-bilitê ad fuga. Alóra e’ su pinsir e’ fopr’i cumpegn e par dê’ l’alêrum cunelegânza e’ faðè cont ad ësar sórd e u-s mitè a scòrar acsè fôrt che tot j avèla pusibilitê ad sintil e ad scapê’.Intânt al gvêrgi al bjastméva: “Stesurdaz u s’à arvinê la ridêda!” mo

Zigöcia u-n s’in daðévapr’intéða: e’ scuréva semparpiò fôrt e l’arspundéva acvel che i i dmandéva sèm-par a l’arvérsa. A la fen algvêrgi a gli secvestrè la rédae al l’e’ mandè a ca.La sèra döp j amigh i s’ufrè[si offrirono] ad paghêj unaréda nôva , mo lo e’ des:“Nö avì prisia che me, la miréda, a la végh a tu!”. Laþuiba, dè ad marchê, u-spraðantè a la direzion dalSaleni, dgènd a tota vóðache l’éra avnù a tu la rédache i javéva secvestrê.“Avdiv, me a so un pô sórde a n’ò capì ben e’ dè che im’à det d’avnì a tula”. Lagvêrgia la javéva un bël dìche la réda ormai i gli avévasecvestrêda, ma lo e’ badévaa dì: “Se a n’avéva da vnìincù, a vegn dmân, cvandi-nò sàbat; a val ben sàbat?”.Cvânt che la gvêrgia la n’inputè piò, la i faðè segn adtné da stê’ e l’andèt int uncurtil intéran indóv ch’u jéra un’êta gvêrgia che lacapè sòbit ad chi ch’u-s tra-téva, parchè la j éra nenca lila nöta dla ridêda: “Cvestl’è che surdaz che l’êtanöta l’à fat scapê’ tot ipiscadur… Cun lo t’an-t

ðgavegn, daj cla réda e dij ch’u-schéva d’int i cvajon… zident a isurd!”.Zigöcia u i gvardéva da la finëstra e,sicoma ch’l’avéva un’urecia acsè fenache e’ sintéva rispirê al moschi, e’capè che, par cla vôlta, u la javévapasêda lesa…

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Le immagini che illustrano il racconto sonodi Roberto Lemmi.

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“Stat a cà che t’stènd e’ grân”, questl’è quel che i-m dgéva i mi fradelquând che a zarchéva d’andêr cun lóa còjar al zriþ e me, che a séra e’ piòznen, a pinséva fra me e me: “Mo se ipasa ló d’int e’ mëþ e’ grân, a pasaròpu nenca me che a so piò znen”.A dir la verità, nenca lò i n’éra tântgrând, parchè fra tot tri avren avùtrent’èn. Adës, invezi, a n’aven zentu-tantasì in tri. Me andaðéva mat pr’alzriþ, queli muróni, e l’éra fadiga che i-m la faðës da sota e’ nêð, parò tot alvôlt l’éra ad quela. “Tórna indrì chea-n t’avlen cun nó!” Me a-n mulèval’ös e ló, cal ligéri, tot du d’acôrd i-mtiréva i cùdal, chi znin parò e ögnitânt a-n ciapéva una scudlê int lazoca. Sè, pröpi i cùdal, quei che mibab e’ faðéva quând e’ lavuréva al tërsôdi ad muntâgna, cun i bu ataché ae’ partighér cun e’ vôltaurèc. A m’ar-côrd che nó burdel, schélz còma lacóda d’un sorgh, a-s divartema acaminê sóra sti cùdal par sintir e’fresch sota i pi, rincurendas dri longaa sti cantir. L’éra un piaðér, östa còmach’j éra les! Ach difarenza da cal vôltche a duvéma stèndar e’ stabi! Cun latëra sôda e cun tot chi struncon, a pischélz u n’éra un grând divertiment,e pu u-s lavuréva da la matena prëst ala séra fat e’ bur! E’ fo un döp-mëþ-dè che mi bab u-mdmandet d’andêr cun lo; e’ bröz l’éraþa cargh ad stabi e me a-m mitet

dnenz al bes-ci còma sölit. Andesumad dlà da ca int la “piâna”, i la ciamé-va acsè parchè l’éra l’ónich cantir adtëra in piân in tot e’ pudér; me a tire-va un pô e’ cul indrì, parchè avlêvaandêr a þughêr cun i mi amig de’paéð. Me a dnenz al bes-ci e mi bab addri e’ baröz, cun la frosta int al spal ee’ furchêl infilzê int e’ stabi, che u-mdaðéva vóð quând che a-m duvéva far-mêr: “Fermààà!!!...Vààà!!!…” Ad ögnifarmêda e’ scarghéva una muciadinaad stabi, che l’avreb stéð pu e’ dè döp.Me, a n’avdéva l’óra ad fnir pr’andêra þughê, parchè, guêrda chêð, pröpiche dè a scôla, a-s sema mes d’acôrdpr’andêr a ciapêr i grel cun la paja.Quând che mi bab u-m dgéva “Fer-maa!!!” me a-m farméva sèmpar un

pô piò avânti pinsend ad arivêrprèma a ca. A un zért pont mi bab u-s stufê e u-m daðet dri cun la frosta,che l’avéva pugiê sóra e’ bröz; jó…jó… azident ach baraca! Mi bab e’puret, un umarcin êlt che tânt parpudé fêr e’ suldè e che u n’avreb fatde’ mêl nenca a una mosca, e’ cman-zé a s-ciuchêr la frosta còma un s-ciu-caren e me via, còma una pala da s-ciöp, longh a la piâna, e lo, drì!!! I-vpreðent la lévra cun e’ cân di drì? Mea faðet pracið. A un zért pont, um’avéva quaði ciapê, e me, che a n’unputéva piò, a-m firmet tot int ’navôlta e a m’aquacet in tëra. Lo che u-n-s l’aspitéva u m’avnet a ðbàtar adöse acsè u s’ingambarlè vulénd in tëra,tramëþ e’ stabi. Me, a ste pont, a

I cùdal

Un racconto di Romano Comandiniillustrato da Giuliano Giuliani

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la Ludla 9Giugno 2010

scapè ad córsa vers a ca, a-m þiretindrì do tre vôlt, cun la pavura che u-m cures dri, invezi lo l’éra inðdé intëra, cun la frosta int al mân; a n’icardrì mo e’ suridéva, nonostânt cheu-s fos araviulê tramëþ e’ stabi, acsè apudè capì che u m’avéva þa pardunêe’ tot. La pavura l’éra tânta, che apena a‘rivet a ca a-m nascundè l’istes drentae’ fóran, dóv par þughêr a nascondi-no nó burdel andema spes. E’ fóranl’éra ancóra tévd da la matena, par-chè la nòna l’avéva cöt e’ pân e unategia ad pér vulpeni, a-n so còma am’indurmantè, fórsi pr’e’ caldin opar la stracona. A-n so quânt a dur-met, mo quând a-m ðvigè e’ fóranl’éra giaz. A la séra a têvla mi bab u-ndget gnint cun nison, e i dè döp parò,senza ch’e’ dges gnint, int e’ arê a-mfirmeva int e’ pont giost, cuntent adsintir sota i pi schélz i cudal fresch. Lafrosta la ciuchéva in êlt e nö in bas

còma che dè; al bes-ci cun e’ passtrach, li-m sufiéva int e’ cupet còmapar dir: “Ten e’ pas giost, se no a-tmunten int i pi schélz”.Parò par me e’ moment piò bël l’éraquel dla smenta, quând che la tëral’éra fena e i cudal j éra sparì sota e’rabi e al böt dla sapa mara. A m’ar-côrd che mi bab l’avéva una màchinada simnêr che la vnéva tirêda avântidal bes-ci, indo’ ch’u-s pudéva e’ sim-néva cun quela a lè, invezi tot e’ rësta mân. Simnêr l’éra on ad chi lavurdelichê, alóra dnenz al bes-ci u s’imitéva mi bab, parchè bðugnévaandêr dret par nö fêr dal fili dopi. Mifradël, ch’e’ faðéva þa la quenta ele-mentêra, l’éra ad dri a cuntrulêr e’serbatòj dla semna e me, dispitóð, a-m divartéva a tirej di cudlin ad tëra.A-n so còma, ma un côdal e’ vuletdrenta e’ serbatòj dla smenta, mi fra-dël par pavura che e’ grân u n’andesþo ben e’ zarchè ad tirêl so cun al

mân int e’ mentar che la màchinal’andéva avânti. Tot int ‘na vôlta e’tiret indrì la mân faðend un grândzigh, mi bab e’ firmè al bes-ci e e’curet sòbit a vdêr. Ció, mi fradël l’éraandê a fnir cun e’ did int n’ingranage u s’éra purtê vi la veta d’un did! A idèsum una lighêda cun un straz e pùa cuntinuesum a simnêr, ma i cudalpar che dè a n’i tiret piò e a-v las ima-þinêr e’ parchè. Ancóra adës, döp zinquant’èn dalvôlt u-m fa avdêr e’ did spuntê, còmapar dì: “Prèma o döp ta-m la pégh”.Adës a staðen tot tri in zitê, a que icùdal da tirê i-n s’atrôva, e a n’e’ so sesia mej o peþ. Chissà se, adës che asen ormai vec tot tri, i-m tureb so cunló a còjar al zriþ o se i-m dges:“Stat aca che t’stend e’ grân!!!” Intânt che a scriv, l’è la staðon ch’u-spö truvêr de’ grân stéð e còma alóra,purtröp, a sent che la cojpa i-m la dàancóra a me.

Lamon

di Roberto Bertoni

Þo par chi grep, alà sóra a Marêtramëþa i sës a t’ò sintì cantê’ruzlènd þo par cal riv t’ci dvent piò gröse adës l’è un fiom cvel ch’l’éra nêd un fös.

E pu a t’ò vest un dè a la marenacvând che e’ sól l’apeja la matenafarmêt un àtum a l’ôra d’un puntilprèma ad cunfondart tramëþ a mêr e’ zil.

E pu a Fenza, un dè ch’l’éra fiumâna,che la-n ðvagliéva ormai sól pr’una spânacun tot chi vec ‘t la riva a ciacarê’ognon la su fiumâna da cuntê’.

Piò bël parö un’instê, e’ sól ch’e’ bruða,alè da Iran, un pô piò þo dla ciuðaagl’êlbar chini a fê’ al gatozl’a e’ fiome me burdël a möl int e’ Lamon.

Lamone Giù per quei greppi, là sopra Marradi\ in mezzo ai sassi t’ho sentito cantare\ ruzzolando giù per quelle rive sei divenuto più grosso\e adesso è un fiume, quel ch’era nato un fosso.\\ E poi t’ho visto un giorno alla marina\ quando il sole accende la mattina\ fermarti un atti-mo, forse per un pensiero\ prima di confonderti fra mare e cielo.\ E poi a Faenza, un giorno ch’era in piena\ e non straripava ormai solo peruna spanna\ con tutti quei vecchi ammassati sulla riva\ ciascuno con la sua fiumana da narrare.\\ Più bello però un’estate, il sole che brucia\dalle parti di Errano, un po’ oltre la chiusa\ gli alberi curvi a far solletico al fiume\ ed io fanciullo a bagno nel Lamone.

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[continua dal numero precedente]Le forme épa ‘abbia’ (al posto del ‘regolare’ èva) del con-giuntivo presente di avé ‘avere’, sono dovute all’influsso disavé ‘sapere’ (sépa); influsso che sta anche all’origine del-l’antico sipa ‘sia’.

Congiuntivo imperfetto

Come nel congiuntivo presente anche nell’imperfetto lavocale tematica e si estende alla prima coniugazione: a pur-tes ‘portassi’, a gudes ‘godessi’; a cures ‘corressi’; a sintes‘sentissi’. Nella seconda persona plurale le forme corri-spondenti all’italiano -aste, -este sono sostituite, come giànel passato remoto, dalle forme in -assi, -essi con l’aggiun-ta del pronome personale enclitico -v (dal latino VOS). Es.:(E’ bðugnareb) ch’a purtèsuv, ch’a curèsuv ecc. ‘(Bisognerebbeche) portaste, che correste ecc.’.Il verbo avé ‘avere’, oltre al normale avès, presenta anchela forma contratta ès. Es.: A m cardéva ch’l’ès det la varitê‘Credevo avesse detto la verità’.

Condizionale

Come il futuro indicativo si forma dall’infinito più il pre-sente di avere, così il condizionale si forma dall’infinitopiù l’imperfetto o il perfetto di avere.Il primo caso (con la forma latina habebam ‘avevo’ ridottaa -ìa, attraverso aveva › avea › avìa) si incontra solo nei testiantichi italiani e, per quanto riguarda il romagnolo, nelPulon Matt, che conosce solo le forme in -ìa: a sarìa ‘sarei’,a cardria ‘crederei’ ecc.Il dialetto più recente aggiunge invece all’infinito il perfet-to di avere, con alcune varianti rispetto alla lingua nazio-nale: A purtareb ‘porterei, t’ purtares ‘porteresti’, e’ purtareb‘porterebbe’, a purtaresum ‘porteremmo’, a purtaresuv ‘por-tereste’, i purtareb ‘porterebbero’.Si noti l’estensione per analogia della desinenza -eb dalla3a singolare (e plurale) alla 1a singolare e la sostituzionedell’uscita in -sti della 2a singolare con quella in -ssi, feno-meno già osservato nel passato remoto indicativo e nelcongiuntivo imperfetto, esteso, qui come là, alla prima ealla seconda persona plurale.

Imperativo

Alle forme latine della 2a persona singolare PORTA, GAUDE,CURRE, SENTI corrispondono regolarmente quelle roma-

gnole: pôrta! ‘porta tu!’, gôd! ‘godi tu!’, cor! ‘corri tu!’, sent!‘senti tu!’. Si noti la conservazione della -a finale nellaprima coniugazione e la caduta di -e ed -i nelle altre.Nella prima e seconda persona plurale si usano le formecorrispondenti dell’indicativo: purten! ‘portiamo noi!’,guden! ‘godiamo noi!’, curen! ‘corriamo noi!’, sinten! ‘sen-tiamo noi!’; purtì! ‘portate voi!’, gudì! ‘godete voi!’, curì!‘correte voi!’, sintì! ‘sentite voi!’.

Imperativo negativo

Come in italiano, la seconda persona singolare è resa danon più l’infinito presente: no purtê! ‘non portare!’, nogudé! ‘non godere!’, no còrar! ‘non correre!’, no sintì! ‘nonsentire!’.Nella seconda plurale, mentre l’italiano ha non più l’impe-rativo positivo (non portate!, non correte! ecc.), il dialetto alleforme corrispondenti no purtì, no curì ecc. preferisce ni piùl’infinito: ni purtê, ni còrar ecc.; dove quel ni, più che unimprobabile plurale di no, dovrebbe essere il risultatodella fusione di no con la desinenza della seconda perso-na plurale (-ì ‘voi’) e quindi andrebbe forse scritto n’i.Il no può essere rafforzato da briða o miga: no briða purtê!,no miga purtê! ‘non portare assolutamente!’ ecc.Il rafforzativo briða (ma non miga) può sostituire no: briðapurtê! ‘non portare!’.Altre forme di imperativo negativo sono rese con il con-giuntivo presente con valore esortativo: t’a-n còra! ‘noncorrere!’. E al plurale: ch’a-n curegna! ‘non corriamo!’, ch’a-n curiva! ‘non correte!’.

[continua nel prossimo numero]

Appunti

di grammatica storica

del dialetto romagnolo

XXXIX

di Gilberto Casadio

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la Ludla

Ragàz, ragazòl, tabàch: per la voceragàz e alterati o derivati, atteniamocial Devoto, Avviam., che si rifà al Pelle-grini: «dall’arabo magrebino raqqas, plur.raqaqis, ‘corriere, messaggero’, lat. medieva-le ragatius e varianti». A partire dellaSicilia feudale degli Svevi, a contattocol mondo musulmano, il nome si dif-fuse in italiano e nei dialetti1.Due parole in più merita tabàch,quale sinonimo di ‘bambino’ o ‘ragaz-zo’, in uso nel Ravennate e derivatosecondo Ercolani, Voc., dal lat.mediev. *tabacus, d’origine turca, ilgiovane cuoco delle galere venete. Lacronologia induce subito ad escludereogni collegamento al tabacco da fiutoo da fumo, importato dall’Americadopo il 1492, ma divenuto di largoconsumo due secoli più tardi con unnome (in spagn. tabaco) uguale – soloper caso – a un altro termine già in cir-colazione. Da alcuni secoli gli speziali(e’ spiziér era il farmacista) vendevanoi rizomi d’una pianta esotica importa-ta dall’Oriente, una varietà d’ìnulaviscosa, chiamata in arabo tabbàq e ita-lianizzata in ‘tabacco’. Se ne ricavavaun infuso diuretico, antisettico edeccitante2.Per giunta, negli scrittori toscani tra

’400 e ’500 si ritrovano alcuni terminiderivati, uno dei quali è riportatoancor oggi nel Dizionario ItalianoDevoto Oli: «INTABACCARSI. v. mediointr…tosc. Restar preso in una passione orelazione amorosa. – Arc[aico]. Prenderparte con eccitazione ad un gioco…».Come succede a bambini e ragazzi,anche senza ricorso ad infusi.Da eccitato per l’infuso ad eccitato ingenere e, poi, a giovincello eccitato per-ché innamorato cotto, il passo erabreve, specie se si trattava d’un ragazzodi bottega o d’un giovane imbarcato suuna galera – cuoco o mozzo che fosse –il cui cuore si mostrava più inteneritoe agitato di quello d’ogni altro navigan-te nella dantesca ‘ora che volge ildesio’3. Come contrazione d’intabacca-to o di tabaccante, con vari cambi di sfu-mature e di significati, quindi tabàchfinì per indicare chi, giovanissimo,mostrava d’essere ‘preso in una passio-ne o relazione amorosa’. Ma il giocodelle metafore che condusse al signifi-cato attuale fu forse più prosaico, giac-ché il Grande Diz. Battaglia per il dimi-nutivo ‘tabacchino’ dà la definizione:«region[ale]. Bambino nato in un istitutod’accoglienza per ragazze madri», comeper secoli fu a Venezia il ‘Conservato-rio della Pietà’, dove insegnò musicaanche il grande Vivaldi. Era stato isti-tuito per ovviare alla grave piaga socia-le delle ragazze nubili rinnegate e cac-ciate di casa perché gravide: ‘intabacca-te’ loro, ovvero ‘restate prese in unapassione o relazione amorosa’ per dirlacome il Devoto Oli; ‘tabacchini’ e poi‘tabacchi’– eccitati, irrequieti, turbo-lenti – i loro figli cresciuti senza padre4.Infine, se più di una ragazza ‘intabac-cata’ una volta uscita dall’istituto fini-va per amore o per forza per fare laprostituta e, talvolta, la raffinata ‘corti-giana’ (la ricca e decadente Veneziaoffriva lavoro a parecchie), il ‘tabacchi-no’ cresciuto, dopo essere stato ‘inno-cente messaggero’ d’incontri, potevatrasformarsi in ‘ruffiano’ e trarne diche campare: usa il diminutivo a que-sto modo Pietro Aretino5.Tabàch da noi forse entrò nell’usoquando Ravenna e Cervia tra ’400 e’500 caddero sotto il dominio di Vene-zia, perdendo un po’ alla volta ognisignificato peggiorativo, come capitòal sinonimo bastèrd, riferito anch’esso

in origine ai ‘nati fuori di nozze rego-lari’ e ai ‘trovatelli’. S’estese quindianche al garzone di campagna o dibottega già adulto e allo scapolo, com-preso e’ ziòn già avanti negli anni: l’èancora tabàch.

Note

1. Il Maigne d’Arnis, Lexicon manuale…,segnala ragacii et servi… nelle CostitutionesFrederici [†1250] regis Siciliae; P. Sella,Gloss. lat.-emiliano, registra ragazzinus(Faenza 1492). Più o meno in queglianni, dalla Francia feudale giunse anchegarson, latinizzato in garcione[m]: gar-þòn/‘garzone’. Riporta il du Cange,Gloss.: a) hunc praecedebat cum parma gar-cio… (lo precedeva un garzone con loscudo); b) … garcio qui sequitur curiam etportat aquam in castris exercitus (garzoneche segue la corte e porta l’acqua negliaccampamenti dell’esercito). ‘Garzone’assunse in luoghi e tempi diversi nuovisignificati; da ultimo in Italia quello di‘garzone di stalla’ o di ‘uomo di fatica’,non necessariamente giovane.2. Anche in Italia se ne conoscevanoalcune varietà ricordate da Columella,Plinio, Celso; il Moretum di Virgilio (?)riporta: àcidas mavult ìnulas (preferisce leacide enule). Ma l’enula importata dal-l’Oriente doveva essere più ricca di prin-cipi attivi. Ancor oggi in Piemonte l’inulahelenium è conosciuta come tabàc servàj,tabacco selvatico. (v. Gr. Diz. Battaglia). 3. Dante, Purg. VIII. Era già l’ora che volgeil disio / ai naviganti e intenerisce il core / lodì che han detto ai cari amici addio; / e chelo novo peregrin d’amore / punge, se ode squil-la di lontano / che paia il giorno pianger chesi muore…. 4. Anche in altre città, come ad es. Napo-li che ne aveva quattro, ‘conservatorio’indicò dapprima un istituto caritativosorto con lo scopo di ‘conservare’ espo-sti, orfani, ecc. lontani dai pericoli dellastrada.5. Dal 1528 l’Aretino si era rifugiatonella città lagunare per sfuggire alle ven-dette dei potenti del tempo di cui avevasparlato. Avrebbe poi dettato come pro-prio epitaffio: “Qui giace l’Aretin, poetatosco: / di tutti disse mal fuor che di Cristo,/ scusandosi col dir: – Non lo conosco”. Tuttigli altri li aveva conosciuti bene, poichélui stesso era un poco di buono; o, comemia nonna avrebbe commentato: mazamaza, ma i è tot d’una raza.

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Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

Giugno 2010

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la Ludla12 Giugno 2010

È attuabile un azzardo di questotipo? Sposare inglese e romagnolo? Èun’operazione da equilibrista sul filoteso sulle parole, che GiovanniNadiani ha saputo creare per il pal-coscenico e che ha avuto la suaprima rappresentazione il 20 maggioal teatro Diego Fabbri di Forlì gremi-to per l’occasione.Già dal titolo della commedia siintuisce la commistione anglo-roma-gnola perché LEAR, il personaggioshakespeariano (re abbandonatodalle figlie), si completa romagnole-scamente in Leardo e’ re per untesto che, ideato da Tinin Mantegaz-za, ha visto la sua realizzazione attra-verso la penna di Giovanni Nadianipoeta e scrittore, capace di sposare lalirica alla lingua popolare, ai fatti emisfatti quotidiani e anche alle lin-gue straniere, e per il mestiere diGiampiero Pizzol attore e comico,autore di personaggi e commediepopolari che celebrano la Romagnanelle sue più surreali,malinconiche, divertentisfaccettature.Alla fine della seratascambiando al volo dueparole per complimentar-mi con Tinin Mantegazzafamoso umorista e polie-drico artista presente allaprima, quasi sorvolandosu qualsiasi apprezzamen-to e dirottandolo anchesugli altri due autori, miha risposto “è stato unlavoro a tre”. Ed effettivamente questarisposta poteve esserepresa per vera sia per gliautori che per i tre attoriche si sono resi interpretidi una trasposizione sullascena delle tragicomichevicende di un re Leardoindiscutibilmente roma-gnolo con la storia dellasua vita snocciolata adiniziare dal tempo dellaguerra fino a un presentedi evidente tragica attuali-tà. Giampiero Pizzol vestei panni di questo re Lear-do, anziano solitarioabbandonato dalle figlie e

privato della casa e racconta di mise-ria, di capitali accumulati e perduti,di figlie traditrici, di fughe dai ricove-ri e di altre vicende, reali o surreali,vere o solo immaginate. La storia siintreccia con quella della rivieraromagnola attraversata prima dallaguerra e poi dalle folle di turisti, pas-

sata dalla miseria alla ricchezza, dallaciviltà tradizionale al consumismomoderno.Il re non è solo, attorno a lui c’ètutta una corte di personaggi chearricchiscono la fauna teatrale del-l’opera e trasformano con Pizzol latragedia in commedia; l’estro di

Giampiero Bartolini dàvita a figure maschili e fem-minili, a buffoni di corte eavvocati di cause sballatementre Teodoro Bonci delBene tira le fila della tramashakespeariana della vicen-da che si sovrappone allavita di Leardo.Durante tutta la recitazionedi questa commedia che siispira ad un classico senzatempo come Re Lear, in unritmo vorticoso di alternan-za di situazioni, di buffone-rie, di anglicismi, di ritmidi balli popolari e canzonidel dopoguerra, di cambi ditemi e di stili, lo spettatore,sempre sul punto di perde-re il filo del rapporto frarealtà e metafora, è assalitoda ricordi di situazioni,rumori, ambienti ed espe-rienze già vissuti, come undejà vu.L’ esperimento, se esperi-mento si può chiamare, afine spettacolo è statoapplaudito a lungo da ungiovane pubblico parteci-pe, attento e talora entu-siasta.

LEARdo e’ RE

Commedia anglo-romagnola

di Carla Fabbri

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la Ludla 13Giugno 2010

Mario Gurioli, nato a Rio Paglia diBrisighella, ma dall’età di tre annifaentino d’adozione, nel suo Padron,fatur e cuntaden (Casa editrice Tempo allibro, Faenza) ci offre un quadro quan-to mai vivo e fedele della vita contadi-na di un tempo attraverso la descrizio-ne delle tre principali figure che lacaratterizzavano: il padrone, il fattoree il contadino.I padroni erano i proprietari terrieriche di solito risiedevano in città, spes-so in sontuosi palazzi disegnati daarchitetti famosi, e che, salvo rari casi,non esercitavano alcuna professione evivevano della rendita dei loro poderi.L’autore si sofferma sulle loro ‘occupa-zioni’ (la caccia, soprattutto) e sulladescrizione della struttura dei loropalazzi cittadini e delle ville di campa-gna con annessa l’abitazione del mez-zadro che lavorava il podere circostan-te, secondo uno schema abitativo checontinuava quello della villa urbano-rustica del mondo romano antico.A fare da tramite fra la proprietà ed icontadini c’erano i fattori. Poteva capi-tare che i padroni avessero scarsi con-tatti con i loro mezzadri e demandas-sero ogni cura amministrativa dellaloro proprietà a questi intermediariche finivano perciò per essere conside-rati dai contadini alla stessa streguadei proprietari. Per questo motivoricorda Gurioli “i mezzadri non aveva-no particolari simpatie per e’ fatôr, cheveniva visto come colui che mirava afare soprattutto il suo interesse appro-fittando sia dell’inesperienza o deldisinteresse dei proprietari, sia del-l’ignoranza o della sottomissione deimezzadri”. La loro posizione, in bilicofra padrone e contadino, molto spessoprotesa a trarre il massimo profittodall’uno e dall’altro dà l’occasioneall’autore di riportare diversi episodigustosi con questi intermediari perprotagonisti.Il terzo gradino, quello più basso, diquesta scala della vita agricola era rap-presentato dai contadini, ai quali spet-tava il compito di faticare nei campitutto l’anno. A loro l’autore dedica laparte principale del libro descrivendocon grande cura la casa colonica, l’aia,la figura dell’azdor e dell’azdora, i treb-bi, le tradizioni e le superstizioni lega-te al ciclo dell’anno e le principali atti-

vità agricole, dalla fienagione alla mie-titura, dall’aratura alla semina, dall’or-ticoltura alla cura del bestiame…“Tutto questo - nota Gurioli - è duratopiù o meno fino agli anni Cinquantae Sessanta del secolo scorso, poi lacontinua e progressiva riduzione dellamezzadria, il passaggio da un’agricol-tura tradizionale e di sussistenza a unaprevalentemente di mercato, la suamassiccia meccanizzazione e la semprepiù crescente globalizzazione hannoportato alla definitiva e pressoché tota-le scomparsa di un modo di vivere cheper secoli aveva contraddistinto l’atti-vità umana nelle nostre campagne.”In conclusione diremo che si tratta diun libro di grande interesse da segna-lare soprattutto per due motivi. Innan-zi tutto per la ricchezza della documen-

tazione fotografica. Le immagini, inparte inedite, provengono dalla Foto-teca Manfrediana che ha sede presso ilDopo Lavoro Ferroviario di Faenza edagli album dei ricordi di alcune fami-glie di area faentina. Ma il motivo di maggiore interesse,che pone l’opera in piena sintonia conle finalità della nostra associazione, èla dovizia della terminologia dialettaleinserita nel contesto descrittivo. Unmetodo che rende le voci dialettali piùfacilmente comprensibili e memorizza-bili rispetto agli aridi elenchi di tipolessicale.

Mario Gurioli

Padron, fatur e cuntadendi Bas-ciân

Faenza, 1900. Il fattore e una parte dellafamiglia contadina. Una bella illustrazionedel libro di Gurioli proveniente dalla raccol-ta della Fototeca Manfrediana.

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la Ludla14 Giugno 2010

La libartê

di Carmen Bendandiprima classificata a pari merito

L’éra l’óra d’ nöta,e’ sunéva l’Êv-Marì.

Di pi schélz i spuntéva da sota una cvértad’un culór indicið, ch’e’ savéva ad gvëra.Ad chi éri chi pi?

La babina la s’afarmet,la spalanchet j oc;i pi j éra a lè,schélz, gunf, pavunëz,tot cios ad lëca…

Ad chi éri chi piacsè masacré?Parchè j éra a lè,int e’ mëþ de’ cruðéri?’S’a j éral sota la cvértach’la savéva ad gvëra,ad bòmbi, ad môrta?

La babina la-n capéva,la javéva sól pavura;la-s gvardet datònd:u-n gn’j éra incion,la strêda la jéra vuita:pôrti, finëstri srêdi.

Al gâmbi a gli tarmet,e’ stòmat u i daðet un vulton;la vreb ësar a ca,

abrazêda a la su mâmae rugiê a tot e’ mònde’ prëz dla libartê.

Era l’imbrunire, / suonava l’Ave Maria. // Dei piedi nudi uscivano/da sotto la coperta /di un colore indecifrabile, /che sapeva di guerra./Di chi erano quei piedi? /La bambina si fermò, /spalancò gli occhi,/i piedi erano lì, /nudi, gonfi, paonazzi, / tutti sporchi di melma… //Di chi erano quei piedi / così massacrati? / Perché erano lì, / al cen-tro del crocevia? / Cosa c’era sotto la coperta / che sapeva di guerra,/ di bombe, di morte? // La bambina non capiva, / aveva solo paura,/ si guardò attorno: / non c’era nessuno, / la strada era vuota, / porte,finestre chiuse. // Le tremarono le gambe, / lo stomaco sussultò; / vor-rebbe essere a casa, / abbracciata alla sua mamma / e urlare al mondointero / il prezzo della libertà.

La libartê

di Maria Lasiprima classificata a pari merito

So int e' canon dla bicicleta cla matena:“Ven babina che incù l’è nêd la libartê.”“Bab, chi ëla la libartê?”

“L’ è guardê i riuplen chi pasa élt,l’è vìvar in pêðsenza piò gvëri nè viulenzae libarê e’ pinsìr dal su parðon,l’è dignitê par tot, rispët dla vita,diret d’lavór e studi, ðvilop dla scienzae pu tot quel ch’e’ srà d’incù in avânti;

la mi babina te t’cnos i patimentla libartê l’è fjôla ad suferenza, fôrza d’pinsir ad chi ch’è môrt par li,mo par nó ch’a sen armasté l’è e’ prèm pinsir da fê prèma d’lavês la faza la matena pasê parôla int i temp ch’avrà da vnì parchè la libartê la-n pò murì!!!”

So int e’ canon dla bicicleta cla matena t’pinsivti a i tu cumpegn ch’i-n gn’j éra piò j oc inacvarì da l’emuzion i-m suridéva. E me a cminzè a cantê, e te a fis-cê la Bella ciao.

Sulla canna della bicicletta quella mattina: / “Vieni bambina che oggiè nata la libertà.” / “Babbo, chi è la libertà?” // È guardare gli aero-plani che passano alti / è vivere in pace / senza più guerre né violen-za / e liberare il pensiero dalle sue prigioni / è dignità per tutti, rispet-to della vita, / diritto di lavoro e studio, sviluppo della scienza / e poitutto quello che sarà da oggi in avanti; // bambina mia tu conosci ipatimenti / la libertà è figlia di sofferenza / forza di pensiero di chi èmorto per lei / ma per noi che siamo rimasti / è il primo pensiero dafare / prima di lavarsi la faccia la mattina / passare parola nei tempiche dovranno venire / perché la libertà non può morire!!! // Sullacanna della bicicletta quella mattina / pensavi ai tuoi compagni chenon c’erano più / gli occhi inumiditi dall’emozione mi sorridevano / eio cominciai a cantare / e tu a fischiare la Bella ciao.

Stal puiðì agli à vent...Concorso di poesia inedita sul tema “La Libertà”

a Castiglione di Ravenna

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la Ludla 15

Ho letto con molto interesse l’articolo"Sull'etimologia di caratena" pubblica-to su "La Ludla" di aprile-maggio 2010.Un mio zio (classe 1908) mi ha sem-pre raccontato questo aneddoto:L'ambulante (molto probabilmente"Occ in sò, occ in zò") andava in giroper le strade di Ravenna e reclamizza-va la sua merce gridando:"Pep, pep incanedi..."Una volta un tipo si affacciò alla fine-stra e gli urlò:"I à incané tu fiola..."E lui, cambiando tono, proseguì lasua strada dicendo:"Partugal e limon!".La Zopa Caratena finì i suoi giorni aRavenna nel Ricovero di MendicitàGaribaldi (via di Roma, a due passidalla basilica di Santa Maria inPorto). Purtroppo la guerra hadistrutto buona parte dell'archivio epertanto non esiste nessuna tracciadella presenza della Zopa nella strut-tura.

Franco Gàbici, via e-mail

���

Il lettore Paolo T. da Imola [La Ludlan. 3, aprile-maggio 2010, n.d.r.] poneun quesito che avrebbe potuto esseremolto più semplice se la parola dascrivere fosse stata identificata conDšnê anziché in qualcuno degli altrimodi indicati, a partire da Dgnê e allesuccessive complicazioni Dg’nê o, peg-gio (dico io, anziché meglio, comedice il lettore) Dgg’nê (e perché poisarebbe meglio fare la scelta di rad-doppiare la g finale per poterla pro-nunciare dolce? Lo so che c’è chi fa

questa proposta per rappresentare lapronuncia dolce o sonora delle conso-nanti c, g, s, z, ma ci sono altre solu-zioni, come quella di mettere unsegno diacritico sopra la consonantestessa; io ho imparato a fare così dallagrammatica di Pelliciardi del 1977).Al contempo, non si sarebbe posto ilproblema di tirar fuori il trattino perdividere e unire, concetto piuttostoostico per i miei limiti, certamente,che tuttavia mi permettono di soprav-vivere facendone a meno, del trattino.Paolo, è sicuro che a Imola la secon-da lettera della parola sia una g, onon invece proprio una j francese,come è appunto in déjeuner? E, sicco-me la j francese in Romagna la pro-nunciamo “quasi” come una s sono-ra, allora potremmo scrivere tranquil-lamente Dšnê. Ecco elóra che la papa l’ècöta e bon aptit (o appétit, se si preferi-sce l’originale francese).

Angelo M., via e-mail

La lettrice G. F. di Forlì, che ci seguefedelmente, ci chiede l’origine dellaparola cumpens che indica nel suo dia-letto il “ripieno” per i cappelletti.Il termine cumpens pare essere diffu-so solo nelle parlate ravennati e forli-vesi. Nel faentino si usa batù, mentrenel riminese, come registra il Quon-damatteo, cumpast.Cumpens può essere - come l'italiano"compenso", che però non ha il signi-ficato di "ripieno" - il participio dellatino compèndere: letteralmente"pesare assieme, equilibrare" e potreb-be riferirsi al fatto che il ripieno deicappelletti viene equamente diviso edistribuito su ogni quadratino di sfo-glia. Ricordo che pensum, in latino,era la quantità giornaliera di lana dafilare che la matrona romana assegna-va alle sue ancelle.Mi pare però più suggestivo pensaread un latino *compensum, participiodi *compìnsere ‘pestare assieme (nelmortaio)’. Il senso si adatta moltomeglio e non vi sono difficoltà dalpunto di vista dello sviluppo foneti-co. È pur vero tuttavia che il verbopìnsere ‘pestare’ ha più forme di par-ticipio passato. Oltre a pinsus, abbia-mo pisus, pìnsitus, pistus e solo que-st'ultima forma ha avuto svilupponelle lingue romanze (vedi per l'ap-punto l’italiano ‘pestare’), ma non èdetto che anche pinsus non possaavere avuto suoi derivati in qualchedialetto romanzo. Ma per questooccorrono più approfondite ricer-che.

[gilcas]

Giugno 2010

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la Ludla16

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: «il Papiro», Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto CasadioRedazione: Paolo Borghi, Gianfranco Camerani, Giuliano Giuliani, Omero Mazzesi

Segretaria di redazione: Carla Fabbri

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 •48125 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544. 562066 •E-mail: [email protected] • Sito internet: www.argaza.it

Conto corrente postale: 11895299 intestato all’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale. D. L. 353/2003 convertito in legge il 27-02-2004 Legge n. 46 art. 1, comma 2 D C B - Ravenna

BiancuÝ

Cvând a e’ tragvêrd arivaren biancuðabitaren dal ca biancuði ad þeþ,e u-n þirarà fra d’nó ôdi e afeziona cujmê dla su éco chi ðbiavì sintir ‘d mêrom

sól a jadusaren’e’ nöst’arcôrdadös i viv ch’i-s piânþe senza scòrar a javren tot ‘na vóð

i-s lugrarà etìran i mumente agli ór e i dè e j’èn dla de’ rimpiânt

a saren’int un mont da nö cuntêstènt da raðê’ e’ singulêrtènt da imbruiês a e’ gnint.

Lo stimolante ed in un certo senso provocatorio articolo,col quale Maurizio Balestra coinvolge noi lettori dellaLudla a pagina 4 affrontando in nostra compagnia l’ine-sausto tema della morte, dopo averci condotto col suppor-to della poesia ad analizzare tutta una serie di problemati-che legate al termine dell’esistenza, con tutto ciò che essecomportano di paure, senso di precarietà, ineluttabilità erinuncia, chiude piantandoci in precario, scivoloso equili-brio sull’orlo di un fossato in fondo al quale, per quanto

ci è dato toccare con mano senza affidarci al trascendente(Mira dla divuzion,\ la môrt traduðènd int un scöp,\ l’è venzarla disperazion.) potrebbe attenderci con identica plausibili-tà il tutto o il nulla. Non sappiamo se questo abbandonarci al cospetto di uninquietante “cosa c’è dopo” si rivelerà soltanto un como-do espediente dell’autore per destare il nostro interessecirca un futuro approfondimento dell’analisi, ma se cosìnon fosse si vorrebbe tentare con questa “pagina 16” dipersuaderlo al contrario, e cioè alla prosecuzione di uncolloquio che, sempre attingendo alla poesia, potrebberivelarsi altrettanto suggestivo e intrigante della premessa.Poiché, se è vero che l’idea di lasciare quella che pure abbia-mo il vezzo di definire come una valle di lacrime, ci lasciadel tutto sopraffatti dallo smarrimento, è altrettanto incon-futabile che prima o poi saremo costretti a farlo, fondendole nostre individualità di voci, rimpianti e aspettative, inquelle della moltitudine di chi ci ha preceduto e ci seguirà.

Paolo Borghi

BiancuÝ

Bianchicci

Quando verremo al fine lattescenti \ abiteremo bianchicce case di gesso,\ e non correranno fra noi odi e affezioni \ a colmare dellaloro eco \ quei pallidi sentieri di marmo \\ solo addosseremo il nostro ricordo \ ai vivi che ci piangono \ e senza discorrere \ avre-mo tutti una voce\\ consumeranno eterni gli istanti \ e le ore e i giorni e gli anni \ al di là del rimpianto\\ saremo numerosi danon potersi contare \ tanti da rasentare l’unità \ tanti da ingarbugliarsi col niente.

Giugno 2010