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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Istituto Friedrich Schürr APS per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo in collaborazione con il Comune di Ravenna - Assessorato alla Cultura Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XXV • Gennaio 2021 •n. 1 (210°) SOMMARIO Stal puiðì agl’à vent... “E’ Sunet 2020” Luciano De Nardis, artista e studioso del folclore romagnolo di Pier Giorgio Bartoli E sid di Ferdinando Pelliciardi Bruno, cirgöt ad Sa’ Roch di Lucio Baroncelli Illustrazione di Giuliano Giuliani E’ bàdget di Angelo Minguzzi Sânt’Antôni da la bêrba biânca di Gilberto Casadio Erb da magnê, erb da midðena La malva Rubrica a cura di Giorgio Lazzari I balli di una volta - VIII Il russiano Rubrica a cura di Alberto Giovannini Salviamo i dialetti, ma anche l’italiano di Lucio Donati e Patrizia Proto Pasquali Sângv ad bò Testo ed illustrazione di Sergio Celetti La bonifica della Bassa ravennate di Guido Tarozzi Al rizët dla sgnora Maria E’ piadon cun i grasul - E’ piadöt Ilva Fiori - Spirê’ int i þuvan di Paolo Borghi p. 2 p. 6 p. 7 p. 8 p. 9 p. 10 p. 11 p. 12 p. 13 p. 13 p. 14 p. 15 p. 16 Gennaio 2021 - N. 1 Avanti, nonostante tutto! Gentile Associazione, in questo ultimo anno di limitazioni ad uscire di casa mi tiene compagnia – vi farà sorridere – la Schürr con il suo sito www.dialettoromagnolo.it che ho scoper- to quasi per caso. In questo sito sono tanti i campi della cultura del dialetto romagnolo che stimolano la curiosità: le copertine dei libri pubblicati dalla vostra associazione, si possono leggere tutte le Ludle uscite dal 1997 al 2020, una vera miniera di conoscenze. Ed anche ho trovato molto interessante la sezione Studi e Testi nella quale, c’è anche tanto altro, sono inserite le registrazioni audio-video di poeti che recitano proprio nel loro dialetto. Insomma ho come scoperto un pozzo al quale attingere per la curiosità e la cultura. Grazie, grazie, grazie. Cordiali saluti. Giusi Marconi Riceviamo spesso mail di complimenti e incoraggiamento per il lavo- ro che portiamo avanti ostinatamente da tanti anni in favore del dia- letto; lettere che normalmente non pubblichiamo, ma che ci sosten- gono e ci incentivano ad andare avanti in quello che facciamo. Que- sta, arrivata di recente, ci è particolarmente piaciuta e l’abbiamo volu- tamente pubblicata in questo primo numero del 2021 come augurio per il lavoro futuro e come ringraziamento per quello svolto nel pas- sato. Sono tempi in cui l’ottimismo timidamente fa capolino nei discorsi della gente e allora vogliamo cogliere la positività delle affer- mazioni di questa signora o signorina per iniziare al meglio questo nuovo anno. Come già successo alcune volte lo scorso anno, anche in questo primo numero del '21 non troverete inserito il Notiziario, in quanto la situazione di emergenza sanitaria ci impedisce di organizzare even- ti aperti al pubblico, quanto meno nell’immediato futuro. Vi invitia- mo pertanto a consultare per eventuali aggiornamenti il nostro sito web. Le altre attività della Schürr proseguono, per quanto è possibile, in maniera regolare: è il caso dell’uscita della Ludla, anche se resa dif- ficoltosa dall’impossibilità di riunirsi in presenza da parte di tutti i membri della redazione e degli addetti alla spedizione. Noi però non molliamo! Ed è per questo che vi invitiamo a continua- re a sostenerci attraverso il rinnovo della quota sociale: chi non l’aves- se ancora fatto può comodamente pagare mediante il bollettino di Conto Corrente Postale inserito fra le pagine di questo fascicolo.

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Istituto Friedrich Schürr APSper la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

in collaborazione con il Comune di Ravenna - Assessorato alla CulturaAutorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XXV • Gennaio 2021 • n. 1 (210°)

SOMMARIO

Stal puiðì agl’à vent...“E’ Sunet 2020”

Luciano De Nardis, artista e studioso del folclore romagnolodi Pier Giorgio Bartoli

E siddi Ferdinando Pelliciardi

Bruno, cirgöt ad Sa’ Rochdi Lucio BaroncelliIllustrazione di Giuliano Giuliani

E’ bàdgetdi Angelo Minguzzi

Sânt’Antôni da la bêrba biâncadi Gilberto Casadio

Erb da magnê, erb da midðenaLa malvaRubrica a cura di Giorgio Lazzari

I balli di una volta - VIIIIl russianoRubrica a cura di Alberto Giovannini

Salviamo i dialetti, ma anche l’italianodi Lucio Donati e Patrizia Proto Pasquali

Sângv ad bòTesto ed illustrazione di Sergio Celetti

La bonifica della Bassa ravennatedi Guido Tarozzi

Al rizët dla sgnora MariaE’ piadon cun i grasul - E’ piadöt

Ilva Fiori - Spirê’ int i þuvandi Paolo Borghi

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Gennaio 2021 - N. 1

Avanti, nonostante tutto!Gentile Associazione,in questo ultimo anno di limitazioni ad uscire di casa mi tiene compagnia – vifarà sorridere – la Schürr con il suo sito www.dialettoromagnolo.it che ho scoper-to quasi per caso. In questo sito sono tanti i campi della cultura del dialettoromagnolo che stimolano la curiosità: le copertine dei libri pubblicati dalla vostraassociazione, si possono leggere tutte le Ludle uscite dal 1997 al 2020, una veraminiera di conoscenze. Ed anche ho trovato molto interessante la sezione Studie Testi nella quale, c’è anche tanto altro, sono inserite le registrazioni audio-videodi poeti che recitano proprio nel loro dialetto. Insomma ho come scoperto unpozzo al quale attingere per la curiosità e la cultura. Grazie, grazie, grazie. Cordiali saluti.

Giusi MarconiRiceviamo spesso mail di complimenti e incoraggiamento per il lavo-ro che portiamo avanti ostinatamente da tanti anni in favore del dia-letto; lettere che normalmente non pubblichiamo, ma che ci sosten-gono e ci incentivano ad andare avanti in quello che facciamo. Que-sta, arrivata di recente, ci è particolarmente piaciuta e l’abbiamo volu-tamente pubblicata in questo primo numero del 2021 come augurioper il lavoro futuro e come ringraziamento per quello svolto nel pas-sato. Sono tempi in cui l’ottimismo timidamente fa capolino neidiscorsi della gente e allora vogliamo cogliere la positività delle affer-mazioni di questa signora o signorina per iniziare al meglio questonuovo anno.Come già successo alcune volte lo scorso anno, anche in questoprimo numero del '21 non troverete inserito il Notiziario, in quantola situazione di emergenza sanitaria ci impedisce di organizzare even-ti aperti al pubblico, quanto meno nell’immediato futuro. Vi invitia-mo pertanto a consultare per eventuali aggiornamenti il nostro sitoweb. Le altre attività della Schürr proseguono, per quanto è possibile,in maniera regolare: è il caso dell’uscita della Ludla, anche se resa dif-ficoltosa dall’impossibilità di riunirsi in presenza da parte di tutti imembri della redazione e degli addetti alla spedizione.Noi però non molliamo! Ed è per questo che vi invitiamo a continua-re a sostenerci attraverso il rinnovo della quota sociale: chi non l’aves-se ancora fatto può comodamente pagare mediante il bollettino diConto Corrente Postale inserito fra le pagine di questo fascicolo.

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la Ludla2 Gennaio 2021 - N. 1

Ach s-ciòpa còr!di Mario Martini - Ravenna

Primo classificatoMi fiöla grêvda! un babìn ch’l’arìva! Sta nuvitê la m’à ðmaðê e zarvël, e förza ‘d dil u m mânca la saliva parchè a ripet cun tot ste riturnël.

Longa l’ateða cun la pânza grìva!Dop e’ travaj l’è fësta pr’ ignaquëll’è nêd una babìna, ch’a l savìva ch’ a só cuntént ch’ a m pér un pazarël.

A só turnê babìn cun cl’anvudina ch’ a m aravëcc cun li ‘ns’ e pavimént ch’ la và gatóni cóma na gatina

e a gatunê cun li, ach divertimént!Ach s-ciòpa cör sintir la su manina quând ch’ la careza ‘l rug d’ ste vëcc cuntént!

Che batticuore!Mia figlia incinta! un bimbo che arriva! / questa notiziami ha frastornato / a forza di raccontarlo mi manca la sali-va /perché ripeto a tutti questo ritornello. // Lunga l’at-tesa con la pancia appesantita! / Dopo il parto è festa pertutti / è nata una bambina, sappiatelo / che sono felice daimpazzire. // Sono tornato bambino con quella nipotina

/ che gioco con lei sul pavimento / che va a gattoni comeuna gattina // e a gattonare con lei, che divertimento! /Che batticuore sentire la sua manina / quando accarezzale rughe di questo vecchio felice!

La zuvantó bandètadi Augusto Muratori - Imola

Secondo classificato

S’tl’incôntar par la strê la þuvantó l’at s’infìla int e’ cör cmè un vôl ‘d parpàja e i rém pió séc alþira la ti tàja che t’at n’adé t’é un pas che t’n’avìv pió.

L’umôr pió bur us ars-ciarés un pó;dnénz ai sógn bél un j’è pió cla muràja ‘d rasegnaziôn e us avìr ‘na carvàja ‘t i dóbi e j’ócc i tôrna a guardê in só.

Zért l’imbarbàj c’ rinfrèsca un pò i tu dèe’ dura pôc: le cmè ‘na pirulèta ch’l’at fa zirê la tësta int e’ balê.Parò nêc s’t’chégn calê da in biciclèta

Stal puiðì agl’à vent...

8o concorso di poesia dialettale romagnola “E’ Sunet 2020”

organizzato dalla nostra AssociazioneSanto Stefano (Ra)

Sezione Lirica

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la Ludla 3Gennaio 2021 - N. 1

e’ tu umôr e’ dura a pedalê ch’l’à incora int j’ócc la þuvantó bandèta.

La gioventù beataSe l’incontri per strada la gioventù / s’infìla nel cuorecome un volo di farfalla / e i rami più secchi leggermenteli taglia / che t’accorgi di avere un passo che non avevipiù. // L’umore più buio si rischiara un po’; / davanti aisogni più belli non c’è più quel muro / di rassegnazione esi apre una crepa / nei dubbi e gli occhi tornano a guar-dare in alto. // Certamente l’abbaglio che rinfresca i tuoigiorni / dura poco: è come una piroetta / che ti fa girar latesta nel ballare. // Però anche se devi scendere dalla bici-cletta / il tuo umore continua a pedalare / perchè haancora negli occhi la beata gioventù.

E’ scaldéndi Arrigo Casamurata - Forlì

Terzo classificato

Int e’ camén e’ fugh u s’ apaluga;la ciapa int ‘na paleta, la Teresa, precisa e chêlma, che la pê’ ch’ la zuga, la met int e’ scaldén un pogn ad bresa.

U s’ êlza, a l’impruvis, una faluga; mo, intânt, la zéndra sôra la gl’ ha stesa,par vi’ ch’ u n’ j scapes ‘d ciapê’ la fuga, parchè l’ è basta ch’ la j arvénz’ acesa.

La caza e’ su scaldén sot’ e’ banchetpu la j apògia i pi, mitend’s insdê, e la s’ göd che caldin ch’ l’ è banadet.

U j ciapa sôn. La sogna quând, ‘d instê, int l’ èra, u la strinzèva e su Zvanet, la prema völta ch’ i s’ mitê’ a balê.

Lo scaldinoNel camino il fuoco sta spegnendosi; / prende una palet-ta, la Teresa, / precisa e calma, che par che giochi, / mettenello scaldino un poco di brace. // S’alza, improvvisamen-te, una favilla, / ma (sulla brace) la cenere ha disteso /onde evitare che (il fuoco) si ravvivi troppo, / perché è suf-ficiente che resti acceso. // Pone lo scaldino sotto il ban-chetto / sul quale appoggia i piedi, mettendosi seduta, / egode di quel calore benedetto. // S’addormenta. Sognaquando, in estate, / sull’ aia, la stringeva il suo Giovanni,/ la prima volta che ballarono insieme.

Ãnum in pena (foj)

di Bruno Zannoni - FerraraSonetto segnalato

Di su riflés duré al n’à piò cura e mãnc al vô, purẽn, ch’a li cujva; al s cócia int un cantõn, par la paura si no parchè d’vulê, a ló u-j sa griva;

mo e’ móć d st’al fój u-n gn’è dóbi ch’e’ dura: u-s gôd l’invéran, che l’è drì ch’l’arìva, a spargujël cun una bòta d’bùra ch’u-n s n’è mai vésta óna piò catìva.

Al tẽnta un ùtom vól, un vól incóra; s’al trôva un êt cantõn, al s aramàsa, mo agl’à capì che ormài ch’l’è la su óra

e al ziga sóta i pi ad cvi ch’i pasa; al n’à piò un dmân e ‘gl’a-n s’arcôrda d’jir: ãnum in pẽna, còma i mi pinsìr.

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la Ludla4 Gennaio 2021 - N. 1

Anime in pena (foglie)Dei loro riflessi dorati non si curano più / e neppurevogliono, poverette, che le raccogliate; / si accovaccianoin un angolo, per la paura / oppure perché di volare, loronon hanno voglia; // ma il mucchio di queste foglie nonc’è dubbio che resista: / si diverte l’inverno, che sta arri-vando, / a disperderlo con una sferzata di bora / che nonse ne è mai vista una più cattiva. // Tentano un ultimovolo, un volo ancora; / se trovano un altro angolo, siammucchiano, / ma hanno capito che ormai “è la loroora” // e gridano sotto i piedi di quelli che passano; /non hanno più un domani e non si ricordano di ieri: /anime in pena, come i miei pensieri.

La braÝula artifiziêladi Franco Ponseggi -- Bagnacavallo

Primo ClassificatoA jò sintù, e e’ pê ch’e’ seja e’ véra, che adës i fa al braðul cun e’ bastõn, i met insẽn de’ ziþ, alvẽn, spagnéra, j’armescla e pu i fa tot un grând pastõn.

E’ pê ch’i druva nẽnc dla pampanéra,e soia, rið e fêva e furmintõn, e di faðul... cun tota la gambléra e i la stãmpa in tre-di, tre dimensiõn.

Mo me a jò þa capì cun un’ucêda ch’la n’è una röba adata a i rumagnul,e alóra cun e’ cãn me a l’ò pruvêda.

E lo, e’ puret, cun òna d stal braðul, pr’arfês la boca dop ch’u l’à magnêda,u s’è lichê mëþ’óra e’ buð de’ cul.

La braciola artificialeHo sentito, e pare che sia vero, / che adesso fanno le bra-ciole con il bastone, / mettono insieme del cece, lupini,

erba medica, / mescolano e poi fanno tutto un granpastone. // Pare che usino anche della foglia di vite, / esoia, riso e fava e granoturco, / e dei fagioli... con tutto ilfusto / e la stampano in 3D, tre dimensioni. // Ma io hogià capito con un’occhiata / che non è una roba adatta airomagnoli, / e allora con il cane io l’ho provata. // E lui,poveretto, con una di queste braciole, / per rifarsi labocca dopo che l’ha mangiata, / si è leccato mezz’ora ilbuco del culo.

Int e’ tu bânchdi Arrigo Casamurata - Forlì

Secondo classificato

E’ cör u m’ fase’ un sêlt, quând ch’ i m’ mitep int e’ tu bânch, a chêvsa ‘d un lavôr.Tot la maténa j óc a n t’j stachep da dòs: icè da drì, t’ sìvta un tesör!

La vésta, d’ignatânt, la m’ s’imbrujep; a n’ asculteva gnânca e’ prufesôr.E’ tu prufum inténs a rispirep,com’ imbariègh: me a degh ch’ l’era za amôr.

Avdep t’ avivta e’ còl un nàstar zal,e, int agl’ urec, do grândi anël da tenda.I lèbar ch’ i parèva pèz ‘d cural ...

Mo a n’ ho un gran bel arcörd ad cla vicenda.T’ ciapest dla cunfidénza e, int l’intarval, t’ arivest a magnem tot quânt la brenda.

Nel tuo bancoIl mio cuore ebbe un sobbalzo, quando mi misero / nelbanco con te, a causa di un lavoro. / Per tutta la matti-na non ti staccai gli occhi / di dosso: vista così vicinaeri un tesoro! // Ogni tanto mi si imbrogliò la vista; /non ascoltavo neppure il professore. / Il tuo profumointenso respirai, / come ubriaco: pensai fosse giàamore. // Vidi che portavi al collo un nastro giallo, /e, agli orecchi, due grandi anelle come quelle di unatenda. / Le labbra parevano pezzi di corallo… // Ma

Sezione Faceto-Satirica

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la Ludla 5Gennaio 2021 - N. 1

non porto un gran bel ricordo di quella vicenda. /Prendesti confidenza e, nell’intervallo, / riuscisti amangiarmi tutta la merenda.

RazìÝumdi Augusto Muratori - Imola

Terzo classificato

S’us tràta d’un bôn piàt ad parpadël cundìdi bén cun de ragù ad livròt invéz d’un brudén dsévd cun de pacòt, a sò razésta a dlèþar, an pós neghël.

S’a j’ò da dlèþar stra dal cóst’l d’agnël ben impanêdi e frèti cun un gòt ‘d sazvéð invéz ‘d ‘na rêva e d’un puròt dbènd acva s-cèta, a j’ò st’istént bis-cêl.

Se par la strê a incônt’r una bis-ciàza turlìda cóm’ ch’us dev ad dnènz a ad drì a la pônt sèmpar cóma un cân da caza.

E pr’e’ culôr dla pël? An i cardrìmo sôl s’l’è pàsa a feg ‘na questiôn ‘d raza:nêc’ la blèza la schêd còma i cudghì.

RazzismoSe si tratta di un buon piatto di pappardelle / conditebene con del ragù di leprotto / invece di un brodino insi-pido con del pancotto, / sono razzista a scegliere, nonposso negarlo. // Se devo scegliere fra delle costolette di

agnello / ben impanate e fritte con un gotto / di sangio-vese invece di una rapa e di un porro / bevendo acquapura, ho quest’istinto bestiale. // Se per strada incontrouna “bestiaccia” (“sventola”) / tornita come si deve davan-ti e di dietro / la punto sempre come un cane da caccia.// E per il colore della pelle? Non lo crederete, / ma sol-tanto se è avvizzita faccio una questione di razza: / anchela bellezza scade come i cotechini.

Partecipaziòndi Bruno Zannoni - Ferrara

Sonetto segnalatoD’scrivar in rumagnôl, no ch’a-n la śmét! Piò che j’u-m bòcia e piò me a tégn dur e a cuncór a e’ Prèmi de “Sunét" ch’i tẽn, tot j’énn ch’j’è péra, cvi dla Schürr.

Nẽnc st’ân j’u-m buciarà, së ch’a-j scumét: gnânc na “segnalaziõn”, a sò sicur; mo me, nẽnc s’e’ sarà pin ad difét,a i ménd listés ste scrét, cvest a ve źur.

A dëg a mẽnt a cvel ch’e’ dgéva clu:“E’ cõnta sol la partecipaziõn!”Ësar alè cu’i brév e’ cõnta, e pu

ch’la véga com ch’la vô, la seleziõn. Partecipê!? Parò – dì cvel che t’vu – l’è incóra mej s’u-s vẽnz, in cuncluśiõn!

PartecipazioneDi scrivere in romagnolo, no che non la smetto! / Più mibocciano e più io tengo duro / e concorro al Premio di“E’ Sunét" / che organizzano, tutti gli anni pari, quellidella Schürr. // Anche quest’anno mi bocceranno, sì checi scommetto: / neppure una “segnalazione”, sono certo;/ ma io, anche se sarà pieno di difetti, / invio ugualmen-te questo testo, ve lo giuro. // Do ascolto a ciò che dicevaquel tale: / “Conta soltanto la partecipazione”! / L’impor-tante è essere li, con i bravi, e poi // vada come vuole, laselezione. / Partecipare!? Però – dì quello che vuoi – /ancora meglio se si vince, in conclusione!

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la Ludla6 Gennaio 2021 - N. 1

Diciamo subito che Luciano De Nar-dis era un nom de plume, preso perdistinguersi dall’omonimo Livio Car-loni (1838-1903), parroco di Corianoe dedito agli studi teologici. Nacque aForlì il 25 ottobre 1895 da VincenzoCarloni (1849-1904) e da Maria Malta(1860-1930). Era il minore di quattrofratelli: (Giulia 1883-1884), Annunzia-ta (1885 - emigrata a Meldola nel1913) e Giuseppe (1887-1972). Difamiglia piccolo borghese (la madrepossedeva e gestiva una merceria nelquartiere Schiavonia), studiò nel loca-le liceo classico. Aveva una passioneper i romanzi di Salgari e nel 1911,nella circostanza del suicidio di questi,fu promotore di un omaggio funebreche lo metterà, in seguito in relazionecol suo figlio Omar.La sua formazione spirituale risentivadel clima mazziniano e anticlericaledel suo Borgo, ma questa non gliimpedì di scrivere sul periodico “LaMadonna del Fuoco” dal 1915 al1928. Nel 1917 conobbe Marinetti edaderì al futurismo ma Francesco Balil-la Pratella lo convinse a cambiaregenere poetico stroncandolo così: «An’ v’in si incora adê ch’al j è toti patachêdi?»Due anni dopo, con Spallicci e Beltra-melli partecipò alla fondazione de “LaPiê” e ne fu redattore capo dal 1926 al1933, dopo l’allontanamento forzatodi Spallicci voluto dal Regime. Nonostante le sue predilezioni lettera-rie si laureò a Bologna in Scienze Chi-miche. Dal 1923 fece l’assicuratore.Durante i suoi giri di lavoro nelle cam-pagne per controllare i danni dellagrandine iniziò quelle ricerche folclori-che che pubblicherà fino al 1933come “noterelle” su “La Piê” sotto iltitolo “A la garboja" (che significaandare alla ricerca di frutti rimastinon raccolti, ovvero andar qua e làsenza meta). Le sue collaboratricierano “quelle vecchiette tutte assortenel passato che tramandavano, comeinconsce parole d’ordine, le voci dellatradizione”. Nel 1928 affidò al generale Nobile, inpartenza per il Polo Nord col dirigibi-le ”Italia” una medaglietta dellaMadonna del Fuoco, che vi sarà getta-ta il 25 maggio. Aveva avuto un sognopremonitore: «una grande aeronavetraversava i cieli, l’aria si assiderava nel

crepuscolo. L’Orsa si accendeva versola terra senza nome illividita di ghiac-ci. Vedevo distintamente i fianchidella nave schiarirsi di fiamma e tra lafiamma vedevo il volto benigno dellaMadonna di Forlì…». Erano in corsole celebrazioni dei 500 anni del Mira-colo e De Nardis, spinto da quel presa-gio notturno, commissionò una tar-ghetta e una medaglia con l’immaginesacra. Fatte benedire le immagini dalVescovo Raimondo Jaffei, le inviò alGenerale: «Illustre Generale, a nomedei romagnoli tutti vorremmo che unatarghetta dell’immagine Vi accompa-gnasse nel nuovo viaggio sul misterodei ghiacci eterni e una medaglia fossedeposta al vertice della Terra. È dolceal nostro cuore di credenti pensareche la Vergine dominatrice del fuocodomini sui ghiacciai del confine delmondo…». Nobile rispose positiva-mente e parlò dell’episodio nel libro“L’Italia al polo Nord” edito nel 1930.La spedizione finì male, ma De Nardisdifese con passione Nobile nelmomento in cui il fascismo di ItaloBalbo gli voltò le spalle accusandolo e

processandolo per l’incidente aereo.Il 30 novembre 1929 Luciano si sposòcon la veneziana Maria Perini, di unpaio d’anni più grande, dalla qualenon ebbe figli, e andò ad abitare inCorso Garibaldi. Dal 1934 fu analistaal Laboratorio Forlivese di ChimicaAgraria e nel maggio 1939 coronò ilsuo sogno di rifugiarsi nella villetta diperiferia nell’allora viale delle Milizie(oggi Gramsci) nei pressi dell’Orfano-trofio Sandro Italico Mussolini (oggicasa di cura Villa Igea). Non dovendopiù curarsi de “La Piê” (che era statasoppressa dal Prefetto nel 1933 ed ilcui numero di maggio andò al mace-ro), iniziò un’antologia Salgarianainserendovi anche racconti scritti dalui e firmati da Omar Salgari. Nel novembre 1944 l’occupazionedella sua casa da parte dei “liberatori”della 4a Divisione Britannica, che gliavevano fra l’altro distrutto metà dellesue ricerche folcloriche, lo portò aduna crisi depressiva e ad atti di ribel-lione inconsulti. FortunatamenteSpallicci, tornato libero, riuscì a farlopassar per pazzo e ad evitargli la prigio-ne se non di peggio. Venne così rico-verato nel manicomio di Maceratafino al termine della guerra. “La Piê” risorse nel 1946 e Luciano nefu unico redattore fino al 1954. Con-tinuò a scrivere i romanzi Salgarianinei quali si accaniva contro i personag-gi inglesi (la sua vendetta contro gli“occupanti”). Nel 1948 riprese le ricer-che folcloriche, che saranno pubblica-te anche postume fino all’aprile 1960. Il 16 febbraio 1954 gli morì la moglieed entrò in uno stato depressivo per ilquale dovette ricorrere alle cure diuno psichiatra fiorentino. Nel 1956un’atrofia l’immobilizzò e lo portò allamorte il 27 giugno. Gran parte dellesue sostanze, per testamento, andò aipoveri della sua città

Luciano De Nardisartista e studioso del folclore romagnolo

di Pier Giorgio Bartoli

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la Ludla 7Gennaio 2021 - N. 1

Diciamocelo pure. Se non fossestata sdoganata da Internet, la paro-la italiana “sito” (aggettivo o sostan-tivo che sia) sarebbe rimasta relegatanel limbo del linguaggio burocrati-co, tipico della terminologia usatanei verbali dei carabinieri (“stabilesito in via Mazzini”, “recatomi sulsito, constatavo che…”).In realtà, il suo uso corrente è ormaidivenuto molto scarso e, comunque,con il significato di “luogo”, “locali-tà”. Con tale accezione lo aveva uti-lizzato anche Trilussa in un suo cele-bre sonetto romanesco, intitolatoL’onestà de mi’ nonna1.Come sostantivo, capita talvolta diincontrarlo in letteratura (“un sitoameno”), seppure denoti una certaricercatezza di espressione d’antan.Al contrario, l’equivalente termineromagnolo (e sid) ha goduto persecoli di una grande vitalità, essendoutilizzato correntemente per indica-re il “podere”* (il fundus latino), cioèl’unità fondiaria elementare dellasocietà rurale, comprendente tuttele strutture necessarie per l’insedia-mento e la realizzazione di un reddi-to sufficiente a garantire il sostenta-mento di una famiglia contadina2.Se condotto a mezzadria, e sid (ilpodere, quindi) aveva un proprieta-rio, di solito un cittadino benestan-te, che più o meno frequentementevi faceva visita (personalmente o tra-mite un fattore, se poteva permetter-selo), per verificare l’andamento deilavori o per regolare i conti con ilmezzadro. Oppure e sid poteva esserecondotto direttamente dal proprie-tario, “coltivatore diretto” quindi, dicui in tal caso si diceva che e sta in sesu (“sta sul suo”, cioè sulla sua pro-prietà).Se il terreno era di modeste dimen-sioni, si poteva definire un sidaren.Quando, invece, più “siti” tra lorocontigui erano posseduti da un

unico proprietario il loro insiemeveniva chiamato pusion (possessione).Il terreno del podere poteva esserepiù o meno fertile (tëra bona oppuretëra cativa) e pertanto rappresentareun bon sid (persino un sid ch’e fa jòman, se particolarmente produtti-vo) oppure un sid cativ, solitamentedestinato alle famiglie che non ave-vano sufficiente forza-lavoro perpoter contrattare una soluzionemigliore.Ma, oggi, è nel settore informaticoche il termine – provvidenzialmenteripescato - ha decisamente ripresovigore (“sito web” o “sito Internet”,abbreviato anche in “sito”, se è chia-ro il contesto informatico), per indi-care un “insieme di pagine web cor-relate, ovvero una struttura iperte-stuale di documenti che risiede inun server web”.E in romagnolo? Ha senso chiamareanche questo sid? Anche se nondenota un possedimento immobilia-re, bensì uno prettamente virtuale?Dopo un declino legato alla progres-siva scomparsa della categoria ruraleche ne aveva decretato la vitalità nelcorso dei secoli, viene da pensare chequasi certamente non sarà l’ambien-te pervasivo e totalizzante del “villag-gio globale” e di Internet a garantir-ne una sopravvivenza tecnologica.

Note

1. L’onestà de mi’ nonnaQuanno che nonna mia pijò maritonun fece mica come tante e tanteche doppo un po’ se troveno l’amante...Lei, in cinquant’anni, nu’ l’ha mai tradito!

Dice che un giorno un vecchio impreciuttitoche je voleva fa’ lo spasimanteje disse: - V’arigalo ‘sto brillantese venite a pijavvelo in un sito. -

Un’antra, ar posto suo, come succede,j’avrebbe detto subbito: - So’ pronta.Ma nonna, ch’era onesta, nun ciagnede;

anzi je disse: - Stattene lontano... -Tanto ch’adesso, quanno l’aricconta,ancora ce se mozzica le mano!

2. Il termine “podere” ha significatol’estensione coltivabile proporzionataal “potere” (potenzialità) di lavorodella famiglia contadina insediata sulfondo.

* È forse interessante ricordare che,stando all’autorità del Grande Diziona-rio della Lingua Italiana della UTET, initaliano il termine “sito” nel senso di“podere” è attestato unicamente inRiccardo Bacchelli, Il mulino del Po,vol. 3, pag. 205. [N.d.R.]

E sid

di Ferdinando Pelliciardi

E’ cavdêl de’ sid dla SchürrLa testata del sito della Schürr

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la Ludla8 Gennaio 2021 - N. 1

L’à sèmpar det d’ësar on de’ bôrghSa’ Roch ch’l’à pasê la su þuvantò intla strê dla ciða e int la paròchia. S’l’èad bonumór e’ conta óna quejcamarachëla da cirgöt. Quând ch’l’aveva dið en, a la matenau s’alveva prëst par busêr a la pôrta edê la ðveglia a l’arziprit che l’arspun-deva còma un órs: “ Cs’a j èl ?” Tot idè al sèt u j era la prema mesa e lòcun la vësta e la cöta l’era e’ cirgötstimê. L’era mindech, ðbiaviden còmala piò pêrt di burdel dop la guëra ch’iaveva padì la fâm, e par quest i l cia-meva ‘cöt in biânch’. Óna matena a mesa inviêda e’ pàrochu s’incurþè ch’e’ mancheva e’ ven intl’ampola. Intânt che al dòni al rezite-va e’ confìteor, e’ ciamè sotavóða e’nòst Bruno e u j dðè: – Va da mi surëla, dì ch’la t’impinesala böcia ad ven, quel dla ðgonda bota,e fa prëst!Bruno e’ ciapè la córsa cun la vëstatirêda ðò a mëþa gâmba, cunsapèvulde’ grêv fat, e l’andè da la surëla de’prit a impinì la böcia ad ven dla ðgon-da bota. E’ ven da mesa dl’arziprit de’ bórghSa’ Roch, l’era e’ mej dla zitê, parchèlò l’era stimê da i furnidur che i jdaðeva quel piò bon. A impinir agl’ampoli prema dla mesal’era óna cumpetenza de’ sacrestân,ch’l’era söci a l’ustarì de’ Zévar indóche la sera prema u s’era imbariaghê

e cla matena u n s’era alvê, parchè un staðeva ben. Bruno cun la böcia de’ ven int almân, e’ sintè fôrt e’ deðidéri a dbé unpô ad che famóð ven sânt ch’e’ faðevaavnì la voja in boca quând e’ prit u ldbeva durânt la mesa. Tot i cirgot i l’àavuda. A Bruno u j pareva l’ucaðiondla pruvidenza ch’la n sareb piò capi-têda. U s’atachè a la böcia, e’ cminzeta trinchêr a tot bos, nench j aretred.Pasend d’int e’ curtil, l’impinè sota e’rubinet dl’aqua la böcia, e armisclen-dla l’arivè in sagristì tot sudê, ros infaza par la córsa, ma piò par e’ vench’e’ staðeva faðend efët. L’impinèl’ampola e, cun quela dl’aqua u lipurtè sora l’altêr, mèntar la predga,pió longa de’ sòlit l’era dri a fnì. Tot e’ pareva andê par e’ su vers, moa la cunsacrazion un quejch suspët e’

vens a e’ prit, parchè Bruno e cunti-nueva a sunêr e’ campanël ad conté-nov cun la maraveja dla þenta ch’l’eraa mesa. L’arziprìt che u s’era incôrtche e’ ven u n era quel dla sgondabota com ch’l’aveva det, u s’arvultè aBruno dðend:– Aveva det ad ciapêr e’ ven dla ðgon-da bota! Quest u n è dla ðgondabota!!!Quel ch’l’è suzëst dop, Bruno u n l’àmai cuntê, imbariêgh coma ch’l’eradop avé dbù a dþon ven a óna quin-dgena ad gréd, u n puteva arcurdêsgnint. Nison e’ sa quel che l’arziprit,su surëla e Bruno i des dop la mesa insacristì. Ben ch’la véga e’ sarà l’arziprit a cun-têsal quând, par la misericôrdia de’Signór ch’e’ pardóna tot qui che a lò is’arvolþ, a s truvaren in Paradið.

Bruno, cirgöt ad Sa’ Roch

di Lucio BaroncelliIllustrazione di Giuliano Giuliani

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la Ludla 9Gennaio 2021 - N. 1

Cla vôlta ch’avéva da fêr e’ mì prèmcórs d pudadùra in “qualità di docente”,còm ch’e’ dgéva int la lètra d’incàric deZěñtar dla Furmazióñ Prufesiunêla dlaVèla d Samartěñ.A j avéva da insignêr a di sbrazěñtžuvan dal Cuperativ d Fušgnân e dBagnacavàl la pudadùra e j inèst dalpiâñt da frùt ... e briša dal vìd. J’éra in dòdğ trèdğ tabachëz e trè ragàzie cvèsta l’éra una nuvitê, parchè insènaalóra al dön al fašéva scvéši sól la puda­dùra dal vìd. L éra un córs cumplét, teurèja e pràtica,ch’l avèt una bóna riusìda, parchè ló javéva bšögn d imparê’, acsè, stra fêr itraturèsta d’istê e i putadùr d’invéran, javéva scvéši la “piena occupazione”; eme aveva bšögn něñca me d imparê còmch’ us fa a fêr e’ docente.E, da žà ch’im dašéva sudisfazióñ, umscapè d prumèti che prèma dla fěñ decórs a j arèb dê una spézia ad dispěñsasóra cvèl che avimja dèt.… e “quando ci dà la dispensa prof? …quando ci dà la dispensa prof?” ... imciaméva ”prof” … che una volta a j dgè“ l’è abasta maestro” … acsè par rìdar …běñ u n’ cminzè al tre ragazi a ciamêm“maestro”?! e me avéva a chêra … ció!A j avéva fat la prumèsa e um tuchèt admantnìla … mò u n’ fò miga un lavór dapôc ... sól cun tòti cal figùr da fêr a mâñ!E’ suzidè che la fò vesta da e’ prësid dlaFacultê d’Agrêria d Novi Sad, in Ser­bia, che l éra drì a scrìvar un lìvar e uipiašè l’idéja d fêr un capètul cun unapêrt de mì libricì. E pù um invidè a tnìuna rélazióñ sóra la pudadùra di pišg al’Universitê.In t l’Aula Magna, pina dura ch’la paré­va la curva de Cišěna cvând ch’l’ariva laJuventus; e’ Prësid in t mëž dla càtedrae me a la sù sinèstra … e dacâñt a mel’interprete, che a s sìmja mès d’acôrdche lì l’aspitéva che am afarmès par tra­dùšar … che al putéva rësar sól pôchiparól o sinö di tòc piò lòng … e instâñtche lì la tradušéva me a tnéva d öč e’pòblic pr’avdé se j éra interesé o se isstrachéva.Östa! … Un grând šbatimâñ a la fěñ …e um věñ l’idéja d’aprufitěñ par dêj lažóñta … “av aringrëzi … mò arculdìvche i pìšg al péšg i li fa něñc sěñzabšögn di pudadùr” … brusìo (ció, còmas dìšal in rumagnôl?) e una cvèjca mâñch’la prôva d šbàtar ... “spitì pù”(“what?” l’interprete …“gnit gnit” me)

… e, gvardènd e’ prësid alè ingiudê a lacàtedra “e něñc sěñza i prufesùr ch’iscrìv di lìbar!” … dù­trì šgònd ad silěñ­zi lòng còma un tréno … e’ prësid ch’e’fa bòca da rìdar e us vôlta vérs a e’pòblic … e la prèma fila tòt vstì d négarch’i s adrèza e i taca a šbàtar al mâñ ...Goaaaal!!!!! Che pù dòp am séra fat laprumèsa, a me, ad fên un livar … mò an’ l ò incóra fat.Dòp a cvèl, di curs a n ò fat dj étar, dalvôlt sól ad teurèja o ad pràtica … che pùi m avdéva me, “il maestro” ­ ció a javéva istruì sòbit! ­ che a druvéva altušùr stôrti, e’ mudël asimmetriche dlaKuker, e invézi a ló i j avéva rigalê alLisam base … adës in t i curs i n’ rigàlapiò gnìt. In t un córs par dj uparéri dal cuperativalè d cióra d Ravèna, Campiâñ e Sa Sté­van, j éra piò armèsc: di traturèsta che žàun’infarinadùra i l’avéva sóra i frùt,dacâñt a un cvèjcadóñ ch’u n’ n avévaun’idéja e una döna – ch’la n’éra piòuna tabàca – ch’l’avèva sèmpar fat sóldal vìd. La scuréva pôc e dal vôlt me aveva l’im­presióñ che la n’ capès briša d pöstacvâñd che a spjeghéva. Mò la stašévaatěñta, in dò che invézi chi patachèt imfašéva sól pérdar de’těmp, cun dal cavê­di ch’al tuléva l’amór a e’ pâñ. Basta … a l’ešâm la fò la piò brêva, icumiséri i j fasèt i cumpliměñt … e mea j rigalè un pér d Kuker … d mi bisàca.T e’ córs dl ân dop i m dašè da fê la pra­tica, elóra a e’ diretór de Zěñtar ad Fur­mazióñ a j cmandè che i cumprès altušùr piò bóni, spjeghèndi e’ parchè.“U s po’ fê’, ch’a jò un bàdget. Fat fê’ dipreventiv.”A li tulèsmi da Stafa a Bagnacavàl … Eacsè tòt cvènt j avéva al sù bëli tušùrnôvi pr’agli ešercitazióñ, i j mitéva piòtânt impègn … e e’ paréva che j imparès

prèma a fêr i tëj di rèm giòst e in t lapusizióñ giòsta.E cvând che j andè a l’ešâm u i fò dicumiséri che i n’agli avéva mai vèsti altušùr stôrti e i badè piò tânt a fês dimu­strê còm ch’i li druvéva piotöst che se itajéva i rèm giòst.E acvè e’ fat e’ srèb finì …Mò u n’ fa miga ridar! Un fat e’ bšögnach’e’ fëza rìdar o piânžar.Tnì mò d’astê’ elóra che a v dèga cusch’e’ suzidè una vôlta che a simja in tuna riunión a l’Ispeturêt Agrêri, ch’l’éraincóra in t e’ cantóñ dla strê dal Mura dPôrta Srê, ch’u i éra něñc l’Asesór avnùda Bulögna; ch’e’ capitè ad scòran adstè córs, e me um avnè da dì’ che e’ dire­tór uj avéva cantê e’ grèl in bisàca parcapì’ che l’éra impurtâñt ch’e’ fòs lò apaghêr al tušùr piò bóni pröpi par la riu­sìda d che córs … e par fê bëla figùradněñz a la cumisióñ!Che elóra lò u m dgè “acvè u n’ s trata dstabilì se e’ grèl l à cantê in bisàca o in tun êtar pöst; a t l avéva dèt … che ajavéva un bàdget!”Un bàdget? L’era la šgònda vôlta ch’u ldgéva … “Dì’ sò, mò cus ël stè bàdget?”“L’è la pösta ad bilâñz par e’ córs…” “Par paghê’ côsa?”“Tòti al spéš … e’ riscaldaměñt e alpulizèj dla sêla, la segretêria, al dispěñs,i matèriél …”“Něñc al tušùr?”…“Něñc al tušùr” …“e pù?”... “e pù, cun cvèl che u j armësta, il docen­te ...”“…che a srèb mè … e’ vô dì’ alóra chea gl’ò paghêda mè la difarěñza!? ….Dóñca, j éra in cvèndğ … par almâñcsët öt mèla frěñc … a jò fat un afêri! A sò pù stê furb … me!”“Ohi ció ... parò a i avěñ fat una bëlafigura!”

E’ bàdgetdi Angelo Minguzzi

Dialetto di Masiera di Bagnacavallo

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la Ludla10 Gennaio 2021 - N. 1

Diversamente da altri santi vissuti neiprimi secoli del cristianesimo, la stori-cità di Sant’Antonio Abate non è maistata messa in discussione. Nato intor-no al 250 e morto nel 356 condussevita da eremita in diversi luoghi del-l’Egitto ritirandosi da ultimo neldeserto della Tebaide.Il suo culto è vivissimo in Romagna.In quanto protettore degli animali lasua immagine si trovava, e si trova tut-tora regolarmente affissa, alle portedelle stalle. Ancora oggi in molte chie-se nel giorno della sua festa, il 17 gen-naio, viene benedetto e distribuito aifedeli il pane che poi verrà dato inpasto agli animali.

L’iconografia tradizionale ci tramandala figura di Sant’Antonio come un vec-chio dalla lunga barba bianca, vestitocon saio e mantello da monaco e conin una mano un lungo bastone che ter-mina in alto con una croce alla quale èlegato un campanellino, mentre conl’altra regge un libro ovvero compie ungesto benedicente. Il Santo è circonda-to da animali che si affollano ai suoipiedi. Di norma sono animali domesti-ci che aiutano l’uomo nei lavori deicampi o gli forniscono uova, latte,carne per la sua sopravvivenza: il maia-le, il cavallo, l’asino, la pecora, la capra,il bue, la mucca, la gallina, l’anitra, ilcane. Più frequentemente sono raffigu-rati gli equini e gli ovini, ma soprattut-

to è il maiale che non manca mai ed èsempre presente in primo piano aipiedi del Santo. Oltre al maiale l’altroelemento fondamentale è la presenzadel fuoco sotto forma di legna che ardeo di un più vasto incendio sullo sfon-do della scena.Ora, mentre l’iconografia di altri santiè in genere semplice (ad es. i martirisono raffigurati quasi sempre con lapalma e gli strumenti del martirio),quella di Sant’Antonio è invece piut-tosto complessa e non è sempre chiaroil significato simbolico dei vari ele-menti che la compongono.La lunga e folta barba bianca richiamaovviamente la lunga vita del santo checome abbiamo visto morì ultracente-nario. Nella cultura popolare il passag-gio dal bianco della barba a quellodella neve è naturale e immediato:Sant’Antoni da la bêrba biânca , / s’u nla jà u s la fa ‘Sant’Antonio dalla barbabianca, / se non ce l’ha se la fa’. Siamonel cuore dell’inverno: se non è anco-ra nevicato presto nevicherà.Naturale anche il passaggio dallabarba al filo di lana. Per questo moti-vo il giorno di Sant’Antonio le filatri-ci, che erano solite inumidire con lasaliva la lana, in segno di rispetto, siastenevano dalla filatura seguendol’invito stesso del santo: Se t am vuunurê, / no m spudacê ‘Se mi vuoi ono-rare, / non mi sputacchiare’.Sul perché il Santo sia diventato ilpatrono degli animali ci sono diverseinterpretazioni da parte degli studiosi.Se si tiene conto del fatto che Antoniogodé di altissima venerazione in Egittoin un periodo in cui si stava afferman-do il cristianesimo, non sarà del tuttofuori luogo pensare che le divinità egi-zie, nella quasi totalità zoomorfe, nellungo periodo di passaggio fra le duereligioni, siano state prima affiancate

e poi sovrastate dal Santo nel pan-theon domestico.In Occidente il posto di onore dedica-to al maiale risale con ogni probabilitàal Medioevo, epoca in cui le carnimacellate di questo animale assicura-vano la sopravvivenza dell’uomo nellastagione fredda: una prassi, quelladella macellazione del maiale in casa,conservatasi nelle famiglie contadinefino a pochi decenni fa.La stretta connessione fra il Santo e ilmaiale ha dato origine al modo di direSant’Antoni u s inamurè int un pôrch‘Sant’Antonio si innamorò in unporco’ a significare che, in fatto dimatrimonio, tutti i gusti sono giusti.E il fuoco che sempre accompagna le raffi-gurazioni del Santo? Col nome di fuoco diSant’Antonio è popolarmente noto l’her-pes zoster una malattia virale della pelle,causata dallo stesso virus della varicella,caratterizzata da un’eruzione cutanea cheprovoca dolore e bruciore e che un tempoveniva alleviata attraverso applicazioni distrutto di maiale.

Sânt’Antônida la bêrba biânca

di Gilberto Casadio

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la Ludla 11Gennaio 2021 - N. 1

In tempi aspri come questi vorreiiniziare con una pianta che portagià nel nome un’idea di morbidezza,la malva. Come scrive GilbertoCasadio nel suo Dizionario Etimologi-co Romagnolo, il nome italiano sitrova inalterato nel latino malva,mentre il romagnolo presenta alcu-ne varianti, tra cui melva e meima,con assimilazione di v in m, e anco-ra meiba. La ricerca etimologica portaad identificare il latino malva con ilgreco μαλακός [malacòs] ‘molle’, inriferimento alle proprietà emollienti,lenitive, lassative e calmanti dellapianta, nota scientificamente con ilbinomio Malva sylvestris.Questa malva presenta l’attributospecifico sylvestris, che sembra riferi-bile alla sua crescita spontanea enon coltivata (ossia selvatica, nelsenso comune) piuttosto che non adun determinato habitat di crescita(latino sylvester, cioè ‘dei boschi,delle selve’). In realtà, di piante che condivido-no il nome italiano di malva inRomagna se ne trovano altre due, lamalva canapina, Althaea cannabina,riconoscibile per la taglia maggiore,

il portamento eretto e la formadelle foglie, che ricordano quellodella canapa, ed il malvavischioAlthaea officinalis, in cui l’attributospecifico officinalis fa un precisoriferimento alle sue proprietà medi-camentose, appunto officinali. Delpotere emolliente e calmante delmalvavischio sono testimone diret-to, perchè a dieci anni circa, sof-frendo di un doloroso ascesso gen-givale, fui curato con un impacco diradici di malvavischio, nota anchecome fêva ‘d vala, malvavès-cc, man-davès-cc, madavèscol. La pronta guari-gione confermò appieno il potereemolliente e calmante del malvavi-schio, che allora era stato piantatoin un vicino fosso proprio a quelloscopo, nello spirito della tradizionepopolare.Anche la malva canapina gode delleproprietà emollienti delle malvacee,ma la lunghezza e la rubustezza dellefibre del suo stelo furono sfruttatein passato per produrne fibre tessili,come la più nota canapa, Cannabissativa, a cui si riferisce l’attributospecifico (cannabina). Tornando alla nostra malva selvati-ca, diremo che dal punto di vistabotanico appartiene alla famigliadelle Malvacee, forma biologica emi-criptofita scaposa, tipo corologico

eurasiatico, subcosmopolita. Lapianta di solito non supera il mezzometro di altezza, presenta foglie pal-mato-lobate a 5-7 lobi, palminervie amargine crenato, fiori con corolle di5 petali bilobati, roseo-violacei constriature più intense, stami con fila-menti saldati. La lunga radice è car-nosa, fittonante ed il primo annoproduce una rosetta basale di foglio-line tenere, la parte più usata a scopialimentari, sia cruda che cotta.Con le foglie essiccate si possonoprodurre infusi e decotti (tè allamalva), per vari usi esterni ed inter-ni, ancor oggi molto apprezzati,tanto che la malva selvatica risultala pianta più venduta ora in erbori-steria.In cucina le rosette basali ed i tenerigermogli entrano nella composizio-ne di tradizionali misticanze prima-verili, magari ingentilite da qualchepetalo, per un tocco di colore. Inuna classica insalê di purèt, ‘insalatadei poveri’ alla romagnola condivideil piatto con il tarassaco (pèsacân,pèsalët), la valerianella (mazaprit,amnadëla, caslèna), i radicchi di variespecie (radècc, ragazul, brasulèn), larucola selvatica (rocla sambêdga), lapimpinella (pimpinëla), i papaveri(barosla, rosla, ruslacia, ruson, ruslon),la borsa del pastore (msdânza), iltutto insaporito con olio (quandoera disponibile...), aceto, (sempre),sale e qualche spicchio d’aglio interoappena schiacciato. Tra gli usi più noti ed ancora pre-senti nella moderna gastronomia lamalva selvatica entra, oltre che nelleinsalate, anche nella confezione dirisotti, nella minestra di malva enelle frittate.Le parti della malva utilizzate incucina e nella farmacopea popolaresono radici, foglie e fiori, che con-tengono mucillagini, tannini, gluco-sio, flavonoidi, sali minerali, (ossala-to di calcio e di potassio), vitamineA, B e C, resine, pectine, proteine... Nel medioevo la malva era cono-sciuta tra i medici anche con ilnome di omnimorbia, con riferimen-to al fatto che poteva curare omnesmorbi ‘tutti i mali’: una sorta dipanacea, per di più a buon mercato!

Rubrica a cura di Giorgio Lazzari

Erb da magnê,

erb da midÝena

La malva

Giorgio Lazzari, forlivese di nascita,ravennate di adozione, naturalista perpassione, con una profonda conoscenzaanche della cultura e del dialetto romagno-lo, inaugura con questa puntata unarubrica sulla flora romagnola che siamocerti incontrerà l’interesse dei nostri lettori.

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la Ludla12 Gennaio 2021 - N. 1

Il ballo, nell’aia come nelle piazze, siè già detto, svolgeva un ruolo fonda-mentale nella vita dei nostri avi.Oltre, infatti, a danzare per merodivertimento, le occasioni musicalifungevano anche da momento diincontro tra i giovani e valvola disfogo dal duro lavoro che affliggevasoprattutto le popolazioni dellenostre campagne. In tali occasioni, diconseguenza, per tutti i partecipanti,la festa rappresentava un importantepalcoscenico sociale sul quale dare ilmeglio di sé, con il doppio obiettivodi risultare apprezzabile all’altro sessoe di evitare cadute di stile davanti allacomunità sempre in cerca di qualcosasu cui chiacchierare.È evidente come il ballo ricoprisse, intal senso, una funzione distintiva. Achi sapeva ben ballare, infatti, erariconosciuto uno status sociale quasi‘elitario’, elemento questo di estremovalore nelle dinamiche che da semprecaratterizzano il contesto sociale delpaese e, cosa da non sottovalutare,delle compagnie di giovani.Proprio per questo motivo, come spes-so avviene, i musicisti iniziarono adideare un repertorio ‘speciale’, appan-naggio esclusivo dei danzatori piùesperti che potevano così mostrare inpista le proprie doti. Tra queste danze,il Russiano era una delle più popolari. Tutti i riferimenti di cui siamo in pos-sesso riguardanti questa danza, infatti,sottolineano che a parteciparvi eranosolo le coppie migliori che, citando ilFantucci, ‘danno così baldanzosamen-te prova della loro valentìa’. Le descrizioni che troviamo nellenostre fonti sembrano sottolineare inmodo inequivocabile la parentelacon il più comune e accessibile salta-rello, ballo diffusissimo in tutto ilcentro Italia, di cui, come s’è detto,estremizza i caratteri più dinamici. Il ballo prevedeva infatti generalmen-te tre coppie di ballerini esperti che,su un accompagnamento in tre sezio-ni a ciascuna delle quali corrisponde-va una propria figura, si esibivano insaltelli molto veloci. In tal senso, lecoreografie che descrive Maria Ianirinon sembrano presentare difficoltàdi figurazione, trattandosi esclusiva-mente di cambi di posto e passaggi abraccetto da effettuarsi tra le varie

coppie. Maggiore rilevanza viene asse-gnata, invece, all’incremento notevo-le della velocità d’esecuzione. Per quanto riguarda la musica tuttisembrano concordi con Balilla Pratel-la nel supporre che il russiano nondisponesse di una melodia propria,mutuandone diverse da danze affini.Oltre a ciò, è importante sottolineareche, proprio come il saltarello, anchequesto ballo si chiude con alcuni giridi trescone, che fungeva generalmen-te come chiusura standard. La divi-sione in tre parti, come abbiamovisto anche in altri contributi prece-denti, era prassi condivisa ad un grannumero di danze.A livello etimologico, il termine rusião rusciã pare riferirsi alla cittadina diRussi, al pari di numerose altre deri-vazioni toponimiche (il Bergamasco,la Veneziana e molte altre) che collo-cavano in una determinata zona unparticolare modo di ballare. Quest’at-tribuzione però viene messa in dub-bio dalla curiosa testimonianza diGiancarlo Prati che, unico tra tutti gli

informatori, descrive un rusciano deci-samente differente da quelli deglialtri informatori. Il rusciano registra-to a Meldola, infatti, ‘lo ballavanogiù, come seduti per terra che mette-vano la gamba avanti’. Questo tipo dicoreografia, decisamente insolita peri canoni nostrani, sembra tuttaviapiuttosto frequente nei paesi dell’Eu-ropa orientale. In tal senso trovereb-be un riscontro l’ipotesi di Domeni-co Mambrini che vorrebbe questoballo originario della lontana Russia. Purtroppo, la scarsità di fonti ciimpedisce di collocare in modo ragio-nevole questa anomalia. A livello sto-rico, sembra quantomeno improbabi-le ipotizzare un contatto reale traregioni così remote, e dunque l’ipote-si legata alla più vicina Russi sembrada preferire. Non è da escludere, tut-tavia, la convivenza sul territorio didue balli, uno derivato dalla cittadinaromagnola e l’altro che forse ricorda-va alcune sonorità russe che, per svi-luppo concordante, hanno assuntoentrambi il nome russiano.

I balli di una volta - VIIIIl russiano

Rubrica a cura di

Alberto Giovannini

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13la Ludla Gennaio 2021 - N. 1

Prendiamo spunto dall’articolo di Sil-via Togni nella Ludla del dicembre2020 per proporre alcune considera-zioni, iniziando da una certa repulsio-ne per i social network che si stannotrasformando, a nostro parere, infastidiosa pestilenza: alcune innova-zioni vanno certamente bocciate, manon è il caso, ad esempio, di “mata-rel” al posto di “s-ciadur” poiché ilprimo è tipico del dialetto bolognese,mentre “taiadela” è da molti secolisinonimo di “lisagna”, anche se nelvocabolario del faentino AntonioMorri sembra indicare i “mundel”piuttosto che fettuccine o tagliolini:non vorremmo però sentire la parola“albicoca” al posto di “mugnega”.Errori e imbastardimenti si spera non“rappresentino l’unica ancora di sal-vezza per il nostro dialetto”, ma d’al-tra parte non possiamo evitare diintrodurre nel vernacolo qualchevocabolo italiano o di altra lingua, sevogliamo che il dialetto sopravviva,considerando comunque che non èper nulla morto in certi ambienti oper alcune categorie sociali: è peròdeplorevole che vi siano personeanche in giovane età che non sappia-no enunciare una frase di senso com-piuto in lingua italiana. Relativamente ai puristi, sono certa-mente da rigettare quelli noti del

periodo fascista (al limite del ridico-lo), tuttavia non è possibile accettareoggi qualsiasi vocabolo o espressione“rubati” all’inglese o all’italiano stes-so, quando il loro significato vienetravisato o male interpretato. Ci limi-tiamo a riportare un paio di insop-portabili novità legate alla pandemiain corso, quali “distanza sociale”“tampone processato” per non parla-re dell’abuso di termini come “resi-lienza” o “ristoro”, che hanno signifi-cato diverso da quello oramai inauge. Risulta fastidioso sentire conti-nuamente, e non solo in televisione,espressioni quali “assolutamente sì” ec’è da rilevare che molte cattive abitu-dini sono nate nel mondo dellosport, che ci ha regalato locuzioniquali “neve aggressiva”, anche se la

neve se ne sta tranquilla a terra. Sull’italiano “innovativo” si potrebbescrivere un gustoso trattato ma siamoormai fuori tema, per cui la nostraopinione è che il dialetto vengasoprattutto studiato e preferibilmen-te utilizzato come intercalare nei suoimodi di dire coloriti e incisivi di cuil’italiano non dispone. Chiudiamo con un appello contro il“falso dialetto” rappresentato da unapletora di racconti e soprattutto poe-sie, che costituiscono nient’altro chela “traduzione di temi pensati in italia-no” e che spesso sfociano nel patetico,mentre alcuni autori compionoun’operazione ben più meritevole, uti-lizzando il romagnolo per sfruttarne lapeculiare sonorità (ci viene in mente ilcompianto Giovanni Nadiani).

Salviamo i dialetti, ma anche l’italiano

di Lucio Donati e Patrizia Proto Pasquali

Pasê e’ pont, un pô piò in là, int ‘nacustruzion basa fra j élbar u j era e’mazël de’ paéð.Cla matena me e la mi mâma a intrè-sum int ‘na stanzeta cun puch mòbilch’la faðeva, u s fa par dì, da ufizi edop un pô l’arivè e’ chêp di mazla-dur. E’ pareva ch’l’aves adös ‘na tutaad curâm invezi l’era tot e’ sângvsech ch’e’ daðeva cl’impresion.

La mi mâma la j ðlunghè e’ bichirgrös cun e’ mângh, lò u m daðèun’ucêda ad travers e e’ turnè ad là.Int l’êria un tânf dulzàstar ad budëlie ad pél bagnê e l’ariveva e’ mugê dalbesti, al voð di lavurent, i rog e al bia-stemi ch’al rimbumbeva int l’am-bient.Un colp sech e l’armor d ‘na bes-ciach’la stramazè raspend int e’ piancit,incora voð e pu u s’arvè la pôrta el’intrè e’ chêp cun e’ bichir pin adsângv, u l’apugè sora e’ têvul, u mgvardè e e’ ðlunghè ‘na mân cmè afêm ‘na mëþa careza, parò senzatuchem. La mi mâma la m daðè e’ bichir, me

cun ‘na mân a m turè e’ nêð e cuncl’êtra al purtè a la boca e senza sta-chem a n mandè þò piò dla mitê.La mâma la m pulè cun un fazulet,la m mitè in boca du tri zucaren,l’arturnè a pulim, la m carizè e la mdgè ch’a sera stê brêv.L’era apena pasê e’ front e u j era

scarsitê admidgen, e’duturon l’a-veva det chel’ònich rimegipar curê ladibuleza diburdel l’era e’sangv ad bò.

Sângv ad bòTesto ed illustrazione di Sergio Celetti

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la Ludla14 Gennaio 2021 - N. 1

Nel 1850, dopo le grandi bonifiche,restava nel territorio della bassaravennate una lunga striscia acquitri-nosa, dal conselicese fino al mare,adiacente l’argine destro del Reno. Inquella striscia spagliavano nei mesiinvernali le acque meteoriche, raccol-te nelle scoline, nei fossi e negli scoli,che scendevano naturalmente dai ter-ritori di alta pianura (Faenza, Castel-bolognese e Imola) e via via di mediapianura (Bagnacavallo, Lugo e MassaLombarda); l’altimetria, a partiredalla via Emilia, è di +35 metri,rispetto all’alveo del Reno, con unapendenza media di circa un metroper chilometro.L’intera rete scolante si immettevapoi nei canali terminali, Zaniolo,Canal Vela e Fossovecchio che a lorovolta sfociavano nel Reno tramitechiaviche dotate di paratoie (a ventoo vinciane). Nei mesi invernali, quan-do il livello dell’acqua aumentava nelfiume, le paratoie si chiudevano auto-maticamente impedendo così all’ac-qua del fiume di rigurcitare nei cana-li (ma in questo modo l’acqua deglistessi canali non potendo defluire,esondava formando gli acquitrini).Le paratoie erano protette interna-mente, al fine di contenere l’enormepressione delle piene, dalla travata;era questa un muro di grosse travi diabete sovrapposte che l’operaio chia-vicante calava col verricello nelleapposite guide laterali.L’imolese Foscolo Marchi, autore dellibro La grande bonifica a destra di Renonella bassa pianura romagnola, agli inizidel 1900, scriveva appunto su quelterritorio acquitrinoso: “Lungo lariva destra del Reno, dal territorioconselicese giù fino al mare, per unpercorso di 40 chilometri circa, sidistende uniforme e monotona unavasta pianura che in massima parte è

coperta da paludi e da acque stagnan-ti; su quel triste impero della malaria,pesa un tetro silenzio rotto dalle gridadi misere popolazioni imprecanti allosciagurato destino che impedisce lorodi far crescere le messi...” (crescevanoinvece le canne, le erbe palustri, igiunchi e prosperavano ranocchi,bisce e rospi, aggiungo io).Dopo decenni di inconcludentidiscussioni tra Consorzi di Scolo,proprietari terrieri e Enti Locali,finalmente, nel 1895, fu ultimato ilprogetto per lo scavo di un collettoreche raccogliesse le acque dei canaliterminali per portarle direttamente almare. I lavori iniziarono nel 1903 eterminarono dopo 27 anni; ci furonodiverse interruzioni, a causa dellaprima guerra mondiale e, spesso, permancanza di finanziamenti.Il canale lungo 37 km inizia in terri-torio conselicese con una buona pen-denza, corre discosto dal Reno dicirca un chilometro, lungo il percor-so raccoglie le acque dei tre canali(non solo) portandole in mare aCasalborsetti; nell’ultimo tratto scor-re nel vecchio alveo del Lamone.Le autorità locali, si può sicuramentedire che furono costrette, dalle pres-santi rivendicazioni dei braccianti, adavviare lo scavo del canale per conte-nere la grave crisi occupazionale cheda circa un decennio attanagliavamigliaia e migliaia di operai e brac-cianti della bassa ravennate rendendola loro una vita di sussistenza. L’ope-

ra di escavazione e di movimentoterra giunse ad impiegare giornal-mente circa 2000 scariolanti, che conbadili, ceste, carriole e vagoni decau-ville (a spinta) spostarono due milionidi metri cubi di terra impiegando510.000 giornate di lavoro.Le opere che destarono l’ammirazio-ne della intera popolazione furono larealizzazione delle due botti a sifone,in muratura, che permettevano alcanale di sottopassare gli alvei deifiumi Senio e Santerno. Era consue-tudine, prima dell’ultima guerra edanche alcuni anni dopo, accompa-gnare gli alunni di 5a elementare avisitare la misteriosa bóta, di cui inostri nonni e genitori ci avevanotanto parlato; io ci andai nel 1951. Il canale in Destra Reno (è il nomeufficiale) è localmente chiamatocanale Bonacquisto, Scolo delleacque chiare o Canalone ed è sicura-mente una delle opere più importan-ti a beneficio della nostra provincia;con la sua ultimazione e la conse-guente bonifica il nostro territoriopoteva dirsi interamente costruito edefinitivamente liberato delle acque.Un autore anonimo, al riguardo,scrisse questi versi:

Se qualcadò l’avdes che tratt d’campagnapar d’qua da Po, da la Basteja a e’ mer,ardot acsé int poch temp sotta e’ pardghèr’n putrebb pinsè una modazion compagna.

Una volta acquè l’era tota cana, pavira, zunc, tott’acqua e tott pastroc,ch’u’s’ j atruveva sol di grend ranocbess e zambeld j aveva la su tana

E’ Canalon, ch’l’è long vintquàtar mejae scola tott sta tera ch’l’è un incantch’ u si putrebb guardè par maravèja.

E’ svardezza dal grandi ter d’spagnèra,dal bièdul cun de gran, de furmintone tott quel che prudus par no la tera.

La bonifica della Bassa ravennate

di Guido Tarozzi

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la Ludla 15Gennaio 2021 - N. 1

Quel ch’u i vô

200 grem ad grasul scruclentMëþ chilo ad pasta ad pân livdêda50 grem ad grasSêl

Cuma ch’u s fa

Impastì tot gnaquël insen e lasì livdê par dið or o mejpar una nöt e pu stindì l’impast par una gruseza ad dodida. Int una tegia ben onta sistimì e’ piadon e mitilint e’ fóran ben chêld par zirca mëþ’ora.

E’ piadon cun i grasul

Al rizët dla sgnora Maria

E’ piadötQuel ch’u i vô

450 grem ad farena ad furminton200 grem ad farena biânca2 ôv150 grem ad butì200 grem ad zòcar100 grem d’uveta100 grem ad pignulUn piþgutin ad vaniglia, un piþgutin ad sêl e la gosagratêda d’un mëþ limon.

Cuma ch’u s fa

Impastì ignaquël senza l’uveta che a mitrì sól quândche l’impast e’ sarà dvent cumpat. Dividì l’impast adësin tânti pagnuchini dla gruseza d’un mandaren e infur-nêli a 180 gréd int una piastra ben onta par zircamëþ’ora.

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la Ludla16

«la Ludla», periodico dell’Istituto Friedrich Schürr APS • Editore «Il Ponte Vecchio», Cesena • Stampa: «il Papiro», CesenaDirettore responsabile: Ivan Miani • Direttore editoriale: Gilberto Casadio

Redazione: Paolo Borghi, Roberto Gentilini, Alberto Giovannini, Giuliano Giuliani • Segretaria di redazione: Veronica Focaccia Errani

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

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Presa coscienza che il dialetto viene considerato da qual-che tempo in via di progressiva scomparsa, è pressochéscontata la conseguenza che esso abbia così poca parte neldialogo delle odierne generazioni; ciò nondimeno, per uncomplesso di cause già analizzate in diverse opportunità,un congruo numero di poeti persevera a farlo proprio, enon solo quale idioma colloquiale bensì come linguaggioeffettivo e del tutto adeguato a fronteggiare senza proble-mi, contenuti che spaziano ben al di là di un sempliceconfronto verbale.Ecco dunque le parlate locali conseguire l’accesso a tema-tiche reputate fino a poc’anzi sconvenienti e dunqueimproponibili.Ilva Fiori, con versi finalizzati a un percorso lirico aggior-nato e consapevole, si inserisce a buon diritto nella sum-menzionata cerchia poetica. I testi giunti in nostro possesso sono indizio di una poesiacostruttivamente memore del passato ma in primo luogointegrata nella realtà odierna e nella pluralità delle sue

componenti, una poesia rivelatrice di un impegno deditoin sostanza a coloro che questa realtà sanno cogliere edaccogliere, nel composito insieme dei suoi aspetti.All'occasione emergono dai suoi versi caute tracce di unareminiscenza praticata in forma alternativa a quanto acca-de sovente ancor oggi, una reminiscenza talvolta riservataed afflitta:“e zërt cvël a n duvéva savei \ parchè i m’è armâst détar \ eincôra i bruða, incôra in pasa.”talvolta evocativa e condivisa:“In primavira a fiurégnia nénca nô \ cun i prufóm che i s’imba-riaghéva \ e i-s faðéva córar par i câmp \ cóma di cagnulì scapèda la cadéna”.Uno strumento del quale l’autrice si giova in manieraessenziale, proficua e dotata di opportuni moventi e chenon l’assoggetta dunque a perseguire epidermici assensifacendo appello a uno straripante uso del ricordo, malascia campo bensì al raccoglimento, ai sogni, alle vicendeche compongono e improntano l’esistenza dell’uomo. Già i primi approcci concorrono a rimarcare un tempera-mento creativo incline vuoi all’introspezione, vuoi all’ana-lisi di temi quali il logorarsi del tempo, la gente, la condi-zione femminile, il tutto in faccia a un futuro largo diincognite quali l’odierna pandemia, dai contraccolpi cheun domani spetterà ai giovani gestire, nell’auspicio chenon s’imbarcheranno poi nei nostri medesimi errori.

Paolo Borghi

Sperare nei giovani Mi viene da pensare che magari in queste giornate \ stiamo imparando a tener conto \ delle cose di casa nostra\ senzatroppe smancerie e pochi capricci.\ Poi mi volto indietro \ e mi chiedo se rimarrà qualcosa di buono \ quando la malattia del mondo sarà finita.\Speriamo nei giovani, dicono \ speriamo siano meglio di noi, io dico \ e che vadano avanti, mi auguro \ senza portar con loro il nostro esempio.

Gennaio 2021 - N. 1

Ilva Fiori

Spirê’ int i þuvan

Spirê’ int i þuvan (6 aprile 2020)

[…]Um ven da pinsê’ che magàri in sti déa staðen imparènd a fês contdla ròba ch’aven a cà nòstrasenza tròpi maravèj e puch caprèzi.Mo pu am vult indrìe am cménd se l’avânzarà caicvël d’boncvând la malatèa de mónd la srà fnida.Spirê’ int i þuvan, i diðspirê’ ch’i sea mej ad nó, a déghe ch’i véga avânti, a m’êvgursenza purtês drì e’ nòstr’eðempi.