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Estratto dal volume Il pluralismo nella transizione costituzionale dei Balcani: diritti e garanzie a cura di Laura Montanari, Roberto Toniatti, Jens Woelk editore: Università degli Studi di Trento anno di pubblicazione: 2010 collana: Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche n. 92 L’UNIONE EUROPEA E I PAESI DEI BALCANI OCCIDENTALI NELLA PROSPETTIVA DELL’ALLARGAMENTO Alfredo Rizzo Sommario: 1. I primi anni novanta. L’Unione tra le sfide dell’allargamento e la gestione della crisi balcanica. – 2. L’applicazione dei criteri della condizionalità politica nelle relazioni UE/Balcani occidentali. – 3. Le relazioni UE/Balcani occidentali dal 2000 ad oggi. 1. – La prima metà degli anni novanta del secolo scorso ha visto l’Unione europea impegnata su tutti i fronti, difficili e variegati, lasciati aperti dai crolli dei diversi regimi di matrice comunista. I negoziati complessi sull’instaurazione di un’Unione europea, che vedrà di lì a poco la luce a Maastricht, mettono chiaramente in conto la necessità di un simile passo (la creazione dell’Unione) in relazione all’adesione, allora ritenuta almeno probabile, di alcuni dei Paesi dell’Europa centro-orientale. In tale ottica, non può essere considerata certo casuale la data del noto Consiglio europeo di Copenaghen che nel 1993 sancirà appunto i criteri politici, economici e giuridici per l’auspicata adesione di detti Paesi. Almeno in quella fase iniziale si ritenne insomma che il processo di allargamento, da un lato, e le riforme istituzionali, dall’altro lato, avrebbero tendenzialmente interagito in senso fortemente positivo per una sostanziale “fuga in avanti” del processo di integrazione europea. Si parlerà a tale riguardo di cosiddetto “impatto dell’allargamento”, soprattutto nel senso di un rafforzamento reciproco dell’Unione come organismo internazionale (o Docente Jean Monnet Action 2005-2010, Università per stranieri di Perugia; Docente incaricato di Diritto dell’UE, Università della Calabria; già Senior Legal Expert progetto della Commissione europea SMEI (Strengthening the Ministry of European Integration of Albania, 2007). Un sentito ringraziamento va ai Professori Pietro Gargiulo e Laura Montanari per l’invito al Convegno e per i suggerimenti relativi al testo che segue.

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Estratto dal volume Il pluralismo nella transizione costituzionale dei Balcani: diritti e garanzie a cura di Laura Montanari, Roberto Toniatti, Jens Woelk editore: Università degli Studi di Trento anno di pubblicazione: 2010 collana: Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche n. 92

L’UNIONE EUROPEA E I PAESI DEI BALCANI

OCCIDENTALI NELLA PROSPETTIVA DELL’ALLARGAMENTO

Alfredo Rizzo

Sommario: 1. I primi anni novanta. L’Unione tra le sfide dell’allargamento e la gestione della crisi balcanica. – 2. L’applicazione dei criteri della condizionalità politica nelle relazioni UE/Balcani occidentali. – 3. Le relazioni UE/Balcani occidentali dal 2000 ad oggi.

1. – La prima metà degli anni novanta del secolo scorso ha visto l’Unione europea impegnata su tutti i fronti, difficili e variegati, lasciati aperti dai crolli dei diversi regimi di matrice comunista.

I negoziati complessi sull’instaurazione di un’Unione europea, che vedrà di lì a poco la luce a Maastricht, mettono chiaramente in conto la necessità di un simile passo (la creazione dell’Unione) in relazione all’adesione, allora ritenuta almeno probabile, di alcuni dei Paesi dell’Europa centro-orientale. In tale ottica, non può essere considerata certo casuale la data del noto Consiglio europeo di Copenaghen che nel 1993 sancirà appunto i criteri politici, economici e giuridici per l’auspicata adesione di detti Paesi. Almeno in quella fase iniziale si ritenne insomma che il processo di allargamento, da un lato, e le riforme istituzionali, dall’altro lato, avrebbero tendenzialmente interagito in senso fortemente positivo per una sostanziale “fuga in avanti” del processo di integrazione europea. Si parlerà a tale riguardo di cosiddetto “impatto dell’allargamento”, soprattutto nel senso di un rafforzamento reciproco dell’Unione come organismo internazionale (o

Docente Jean Monnet Action 2005-2010, Università per stranieri di Perugia; Docente incaricato di Diritto dell’UE, Università della Calabria; già Senior Legal Expert progetto della Commissione europea SMEI (Strengthening the Ministry of European Integration of Albania, 2007). Un sentito ringraziamento va ai Professori Pietro Gargiulo e Laura Montanari per l’invito al Convegno e per i suggerimenti relativi al testo che segue.

2sovra-nazionale) e degli ordinamenti degli Stati che avrebbero aderito a quest’ultima1.

Rispetto a questa impostazione, più recenti documenti della Commissione europea e in generale comunitari, nell’affrontare lo stesso tema, si riferiscono all’esame dell’impatto dell’allargamento includendovi anche una valutazione “in negativo” delle relative conseguenze, al fine cioè di tenere conto della capacità dell’Unione di “assorbire” ulteriori adesioni dopo quelle piuttosto importanti avvenute tra il 2004 e il 2007. Si tratta di una tendenza che il Trattato di Lisbona sembrerebbe confermare, mentre le conclusioni del Consiglio europeo di Bruxelles del giugno 2007, pur sancendo l’inclusione del Montenegro nel Processo di stabilizzazione e associazione, ribadiscono grosso modo i concetti fissati nella Strategia di allargamento lanciata dalla Commissione nel 2005 2. I principi sottesi alla nuova strategia sono chiaramente ispirati a un dettato di prudenza, intesa anche come mantenimento degli impegni assunti. Rispetto al tenore degli atti adottati all’inizio degli anni novanta, si assume un diverso ordine prospettico: da una richiesta di rigore in senso “esterno”, rivolta ai Paesi aderenti, si passa a una richiesta di rigore anche in senso interno, in termini cioè di “tenuta di sistema”3.

1 In tal senso si esprimerà il ben noto documento “Agenda 2000” (ovvero la comunicazione della Commissione, COM(2000)96 def., 15-7-1996) in cui, come ricorda G. Lenzi (v. il suo contributo Dall’unificazione a dodici alla riunificazione dell’Europa, in S. Guerrieri, A. Manzella, F. Sdogati (cur.), Dall’Europa dei Quindici alla grande Europa. La sfida istituzionale, Bologna, il Mulino, 2001, 429 ss.), si afferma che “ … l’allargamento [quello concluso di recente con l’entrata in vigore degli accordi di adesione di Atene, 2004, e con Romania e Bulgaria, nel 2007, n.d.a.] avrà conseguenze ben oltre le nuove frontiere di un’Europa allargata, poiché esso darà maggior peso all’Europa nel mondo, conferirà all’Europa nuovi vicini e formerà in Europa un’area di unità e stabilità”. Emerge da tale affermazione il carattere sostanzialmente duplice del fenomeno dell’allargamento, come produttivo di effetti esterni ed interni, riferendosi questi ultimi in particolare al citato rafforzamento di “unità e stabilità” dell’ordinamento giuridico comunitario: conclusione rivelatasi solo parzialmente confortata dai fatti, ma almeno giustificabile in quanto coerente con lo spirito riformatore che ha accompagnato il processo di allargamento e quello “costituente” (quest’ultimo peraltro sostanzialmente fallito per la mancata entrata in vigore del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, a motivo dei falliti referenda in Francia e Olanda nel 2004). 2 V. comunicazione della Commissione, COM(2005)561 def., 9-11-2005. 3 V. comunicazione della Commissione, COM(2006)649 def., 8-11-2006. Rispondendo alle sollecitazioni del Consiglio europeo del giugno 2006, la Commissione, dopo avere sostanzialmente ribadito la metodologia fissata nel documento precedentemente richiamato, decide di adottare, in allegato al documento annuale sulla strategia di allargamento, una “relazione speciale sulla capacità dell’Unione europea di accogliere i nuovi Stati membri”. Tuttavia, non si tratta di qualcosa di particolarmente innovativo se, come segnalato dalla stessa Commissione, già le conclusioni del Consiglio europeo di Copenaghen del 1993 indicavano chiaramente che “la capacità dell’Unione di

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Tornando all’analisi del periodo iniziale della crisi balcanica, uno tra i molti elementi peculiari dei rapporti tra Unione europea e Paesi dei Balcani occidentali riguarda il fatto che la prima predispose, a favore dei secondi, programmi riconducibili prevalentemente alla politica comunitaria di aiuto umanitario, tenuto conto dei connotati di urgenza e necessità oggettiva ed internazionalmente conclamata caratterizzanti il supporto richiesto4. Pur trattandosi di una politica di

assorbire nuovi membri, mantenendo nello stesso tempo inalterato il ritmo dell’integrazione europea, riveste parimenti grande importanza, nell’interesse generale dell’Unione e dei Paesi candidati”. La Commissione si prende carico di tali indicazioni applicando ad esse un metodo di valutazione che coinvolge tre profili di merito: la capacità dell’UE di mantenere inalterato il ritmo dell’integrazione europea, il rispetto di condizioni rigorose da parte dei Paesi candidati e il miglioramento della comunicazione sui risultati conseguiti nel processo di adeguamento del Paese candidato agli standard comunitari. 4 A Paesi come l’Albania, ad esempio, vengono assegnati dei sostegni mediante il programma ECHO (si veda il documento della Commissione europea, ECHO in the Balkans – 12 Years of Humanitarian Action, 1991-2003, ECHO, Bruxelles 2003). Si deve ricordare che solo con il Trattato di Maastricht è stata introdotta, tra le politiche comunitarie, anche quella di cooperazione allo sviluppo, peraltro non coincidente con la politica di intervento umanitario. Quest’ultima troverà specifica disciplina nel reg. (CE) 1257/1996 del Consiglio (G.U.C.E. L 163 del 2-7-1996, p. 1), basato sull’art. 130 W (poi divenuto art. 179 TCE, cfr. attuale articolo 209 del Trattato sul funzionamento dell’Unione che modifica, nella sostanza, il precedente trattato istitutivo della Comunità europea). L’art. 130 U, poi divenuto art. l77 TCE (v. ora art. 208 del menzionato Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), contempla non solo interventi a contenuto essenzialmente economico di carattere solamente attivo (cioè non secondo il modello della cooperazione commerciale, basata sul criterio di reciprocità e sul meccanismo della clausola della nazione più favorita): tale norma indica al suo secondo comma che la politica della Comunità in questo settore contribuisce all’obiettivo di sviluppo e consolidamento della democrazia, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani e libertà fondamentali. La Corte di giustizia è intervenuta riguardo all’interpretazione di un accordo di cooperazione con l’India adottando una sentenza che ha confermato la legittimità dell’inserimento, in un accordo simile, di una clausola “diritti dell’uomo”, contenente un meccanismo sospensivo in caso di sua inosservanza (v. Corte giust., sent. 21-12-1996, causa C-268/94, Portogallo c. Consiglio, in Racc., I-6177). La Corte, in quella stessa sentenza, non ha ritenuto sufficiente che la Comunità, nell’attuare la propria politica di cooperazione allo sviluppo, “contribuisca” alla tutela dei diritti fondamentali, in quanto tale tutela rappresenta invece un vero e proprio elemento “costitutivo” dell’azione comunitaria in materia di cooperazione allo sviluppo, ciò che va a conferma dell’impostazione offerta su tali profili dalla Dichiarazione di Comunità e Stati membri sui diritti umani e la politica comunitaria di sviluppo (v. Boll. CE, n. 11, 1991, 1.3.67, v. in tal senso S. Peers, Fragmentation or Evasion in the Community’s development Policy? The Impact of Portugal v. Council, in A. Dashwood, C. Hillion

4difficile collocazione, almeno all’epoca, nell’impianto giuridico creato dai Trattati, sarà proprio sotto l’impulso di questa emergenza che verrà definita quella che oggi è ampiamente nota come PESC/PESD (politica estera e di sicurezza comune e politica estera e di difesa comune), al fine appunto di non creare situazioni in cui la Comunità avrebbe potuto agire ultra vires rispetto alle proprie competenze, che in definitiva la stessa formulazione dell’art. 11 del Trattato sull’Unione europea (nella versione antecedente alle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona 5) mira a delineare più correttamente. Sembra d’altronde chiaro che, là dove si parla, in tale norma, di cooperazione internazionale, ci si debba riferire ad aspetti diversi da quelli concernenti la cooperazione economica o sociale disciplinata nel “pilastro comunitario” (v. art. 179 e 181 TCE)6. D’altro canto, restando sempre alla fase storica dell’inizio (cur.), The General Law of EC External Relations, Londra/Cambridge, Sweet & Maxwell, 2001, 100 ss.). Una questione specifica riguarda la possibilità o meno di sospendere un accordo comunitario che insista su una materia formalmente diversa da quella dei diritti umani, ma contenente precise indicazioni riguardanti la tutela di tali diritti anche nell’ottica del mantenimento dell’accordo stesso. Nel caso Racke (v. Corte giust., sent. 16-6-1998, causa C-162/96, Racke, in Racc., I-3655, in dottrina, ex multis, R. Mastroianni, La rilevanza delle norme consuetudinarie sulla sospensione dei trattati nell’ordinamento comunitario: la sentenza Racke, in Riv. Dir. internaz., 1999, 86 ss.) la Corte propese a favore del ricorso ad un criterio di diritto internazionale generale (mutamento delle circostanze) per fondare la sospensione dell’accordo comunitario “misto” concluso da Comunità e Stati membri con la Federazione iugoslava (1983), anziché motivare tale sospensione per violazione di alcuni diritti fondamentali, in assenza, appunto, di una clausola dell’accordo che prevedesse, in caso di una simile violazione, la possibilità di ricorrere allo strumento sospensivo (sulla prassi relativa agli accordi comunitari sino alla prima metà degli anni novanta, v. la comunicazione della Commissione, COM(95)216 def., 23-5-1995 e M. Cremona, Human Rights and Democracy Clauses in the EC’s Trade Agreements, in N. Emiliou, D. O’Keeffe (cur.) The European Union and World Trade Law, London, Wiley, 1996, 62 ss.; B. Brandtner, A. Rosas, Human Rights and the External relations of the European Community: an analysis of doctrine and practice, in Eur. J. Int’l L., 1998, 468). Si precisa che le disposizioni del Trattato sull’Unione europea e del Trattato istitutivo della Comunità europea citate, rispettivamente con gli acronimi TUE e TCE, nel testo e nelle note del presente lavoro, si riferiscono alle versioni consolidate di detti Trattati antecedenti all’entrata del Trattato di Lisbona. Le disposizioni del Trattato sull’Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea come introdotte dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1°-12-2009, sono invece citate sia per esteso sia utilizzando rispettivamente le seguenti abbreviazioni: NTUE e TFUE. Si veda la recente versione “consolidata” dei Trattati UE e sul Funzionamento dell’UE, accessibile presso il registro dei documenti del Consiglio dell’Unione con il n. 6655/2/08 REV 2 del 28 maggio 2010. 5 Cfr. ora articolo 24 del nuovo Trattato sull’Unione europea (NTUE). 6 Cfr. articoli 209 e 211 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Si veda la ricostruzione anche storica svolta da L. Marini, La politica estera e di sicurezza dell’Unione europea, in A. Tizzano (cur.), Il Trattato di Nizza, Milano, Giuffrè, 2003, spec. 22, dove si cita il reg. (CE) 1080/2000 del Consiglio, 22-5-2000, in G.U.C.E. L

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degli anni novanta, accanto a modelli di intervento quali la creazione della Forza multilaterale di protezione, inviata in Albania sotto comando italiano, emerse una generale esigenza di attenta valutazione dei diversi gradi di sviluppo dei nuovi Paesi, al fine di attivare, in base a tali dati diversificati, strumenti giuridici, istituzionali e finanziari che si conformassero a mutamenti politici spesso imprevedibili e come tali di non facile gestione a livello internazionale. In tale contesto, gli accordi di Dayton rappresentano certamente uno spartiacque anche per l’individuazione di un modello di intervento comunitario in tutta l’area balcanica e dell’Europa centro-orientale. Nel frattempo, in particolare in occasione del Consiglio europeo di Madrid del 1995, si consolideranno i criteri affermati a Copenaghen nel 1993, soprattutto in riferimento alle riforme istituzionali, legislative e amministrative di Polonia e Ungheria e di quelle che di lì a poco diverranno Repubblica ceca, da un lato, e Slovacchia, dall’altro.

122, 24-5-2000, 27, relativo al sostegno alla missione ad interim delle Nazioni Unite per il Kosovo (MINUK), all’Ufficio dell’alto rappresentante (OHR) in Bosnia ed Erzegovina e al Patto di stabilità per l’Europa sud-orientale. A rimarcare un fenomeno di “ibridazione” tra strumenti di secondo e primo pilastro, vale la pena rilevare come tale fonte – originariamente basata sulla clausola di flessibilità di cui all’art. 308 TCE (cfr. art. 352 TFUE) – all’art. 1 bis introdotto dal successivo reg. (CE) 2098/2003 del Consiglio, 27-11-2003, in G.U.C.E. L 316, 29-11-2003 (fonte, quest’ultima, significativamente basata, diversamente da quella oggetto di modifica, sull’art. 181 A TCE, già menzionato) contenga anche il meccanismo di nomina del Coordinatore speciale per il Patto di stabilità. Quest’ultimo è uno strumento convenzionale (da distinguere nettamente dal Processo di stabilizzazione e associazione, v. infra), formalizzato il 10-6-1999 dai Ministri degli esteri degli Stati membri dell’Unione europea, nonché dalle altre istituzioni politiche (più la BEI e la BERS) dell’Unione stessa e da diversi organismi internazionali, compresi Consiglio d’Europa, OSCE, OCSE e ONU (cfr. Posizione comune 1999/345/PESC, 17-5-1999, adottata dal Consiglio in base all’art. 15 del TUE, e concernente il Patto di stabilità per l’Europa sud-orientale, in G.U.C.E. L 133, 28-5-1999 e v. infra nota 46). Sui profili di mixity tra basi giuridiche, la Corte del Lussemburgo, tramite ricorso all’art. 47 TUE (corrispondente, con modifiche sostanziali conseguenti all’assorbimento della Comunità europea nell’Unione, all’art. 40 del nuovo TUE), ha adottato una posizione “difensiva” delle prerogative comunitarie proprio nel settore della cooperazione allo sviluppo (v. Corte giust., sent. 20-5-2008, causa C-91/05, Commissione c. Consiglio, in Racc., I-03651, all’interno della quale si trova un riferimento alla Dichiarazione sul “Consenso europeo”, adottata in forma “congiunta” da Consiglio e rappresentanti dei Governi degli Stati membri riuniti in seno al Consiglio, dal Parlamento e dalla Commissione, relativa alla politica di cooperazione allo sviluppo dell’Unione europea, pubblicata in G.U.U.E. C 46, 24-2-2006, 1).

6Parallelamente alla firma degli Accordi di pace di Dayton

(come noto, conclusi nella località dell’Ohio il 26 novembre del 1995, ma formalizzati a Parigi il successivo 14 dicembre), le delegazioni dei nove Stati della regione7, unitamente a quelle dei 15 Paesi dell’UE, dell’Ungheria, degli Stati Uniti e della Russia, si riuniscono presso l’abbazia di Royaumont, sempre in Francia, per firmare una dichiarazione promossa dalla Presidenza francese dell’Unione con la quale quest’ultima intendeva fare propri i vincoli creati dal nuovo quadro di accordi internazionali riguardanti l’area, inserendoli nel contesto degli obiettivi più specifici di buon vicinato e stabilizzazione che saranno il vero fulcro dei successivi interventi comunitari 8. Questo documento, che instaurerà un vero e proprio “Processo” di Royaumont, differisce dal quasi contemporaneo Patto di stabilità per l’Europa sud-orientale per il coinvolgimento anche di Stati non legati da alcun tipo di relazione formale con l’Unione 9. 7 Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Repubblica Federale di Iugoslavia (odierni Serbia e Montenegro), ex Repubblica iugoslava di Macedonia, Albania, Romania, Bulgaria e Turchia. 8 Dichiarazione adottata il 13-12-1995 a Royaumont sul processo di stabilità e di buon vicinato nell’Europa sud-orientale. 9 Sul Patto di stabilità v. supra nota 6 e infra nota 46. Le difficoltà legate a questo approccio meno selettivo verranno in rilievo soprattutto con riguardo alla possibilità di applicare ad alcuni di questi Paesi i criteri fondamentali richiesti per potere essere inclusi in un processo negoziale con l’UE nella prospettiva dell’adesione a quest’ultima (come formalizzati, a seguito delle modifiche introdotte dal Trattato di Amsterdam, negli art. 6, c. 1 e 49 del TUE, cfr. art. 2 e 49 del nuovo Trattato sull’Unione europea). I nodi essenziali della crisi nell’ex Repubblica federale di Iugoslavia riguardavano, come in parte tuttora riguardano (v. infra nota 50), la tutela delle minoranze nelle nuove entità statali, con ricadute evidenti su questioni territoriali che il crollo della Federazione aveva portato alla luce in tutta la loro (per certi versi pretestuosa) complessità. Al riguardo rilevano i lavori della Commissione di arbitrato istituita il 26-8-1991 nell’ambito della Conferenza per la pace in Iugoslavia; v. in particolare il parere in cui si riconosce come internazionalmente garantito il diritto in virtù del quale ciascun essere umano può rivendicare la propria appartenenza ad una comunità etnica, religiosa o linguistica. In totale i pareri resi dalla Commissione arbitrale furono quindici. Il testo integrale dei primi dieci, resi tra il novembre 1991 ed il luglio1992, è contenuto in Int’l Legal Material, 1992, 1494 ss. Il testo degli ultimi cinque, emanati tra il luglio e l’agosto 1993, è contenuto in Int’l Legal Material, 1993, 1586 ss. Su queste tematiche si veda A. Tancredi, La secessione nel diritto internazionale, Padova, CEDAM, 2001, R. La Rosa, Evoluzione e prospettive della protezione delle minoranze nel diritto internazionale e nel diritto europeo, Milano, Giuffrè, 2006. Si vedano di recente le osservazioni di F. Hoffmeister, The contribution of EU Practice to International Law, in M. Cremona (cur.) Developments in EU External Relations Law, Oxford, Oxford University Press, 2008, 74 s. Questioni non dissimili saranno affrontate anche nel contesto dell’allargamento dell’Unione ai dodici nuovi Stati membri; v., ex multis, J.A. Frowein, U. Bernitz, Lord Kingsland, Parere giuridico relativo ai decreti Beneý e all’adesione della Repubblica ceca all’Unione europea, Documento di lavoro della Direzione per la ricerca del Parlamento europeo, n. 10-2002 (cfr. l’accenno a tali fonti in A. Rizzo, L’allargamento ad est dell’Unione europea. Problematiche del trattato di

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2. – Dopo Dayton e l’importante intermezzo di Royaumont, i primi rilevanti passi dell’Unione europea dotati di maggiore carattere istituzionale si desumono in particolare dalla dichiarazione sull’ex Iugoslavia annessa alle conclusioni del Consiglio europeo di Firenze del 21 e 22 giugno 1996. Gli strumenti cui fa ricorso l’Unione in questo periodo rilevano soprattutto delle norme del neonato Trattato sull’Unione europea – come noto introdotto dal Trattato di Maastricht, entrato in vigore nel ’93 - relative alla Politica estera di sicurezza (c.d. “secondo pilastro”), che è il quadro istituzionale e giuridico in cui l’Unione agisce adottando prevalentemente posizioni e azioni comuni per il consolidamento del processo di pace avviato in particolare riguardo alla crisi della Bosnia ed Erzegovina10. adesione, Napoli, ES, 2004). Opportuno anche ricordare che la stessa Corte europea dei diritti umani ha stabilito che l’art. 14 della CEDU, relativo al divieto di discriminazioni, abbia ambito applicativo diverso rispetto alle disposizioni del TCE, in particolare all’art. 12 di tale Trattato (relativo al divieto di discriminazioni in base alla nazionalità) per il carattere di specialità dell’ordinamento creato da quest’ultimo (v. Corte EDU, sent. 18-2-1991, Moustaquim c. Regno del Belgio, appl. n. 12313/86, 49: «As for the preferential treatment given to nationals of the other member States of the Communities, there is objective and reasonable justification for it as Belgium belongs, together with those States, to a special legal order»). Conformemente a tale interpretazione, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea al suo art. 21, c. 2 ha situato il divieto di discriminazioni in base alla nazionalità in un ambito autonomo. L’approccio comunitario mira principalmente a far rispettare alcuni obblighi specifici che, tanto per gli Stati membri attuali quanto per quelli che aspirino a divenire tali, derivano dalle norme del TCE e del TUE e sono quindi da collocare in un contesto giuridico strettamente “funzionale” agli obiettivi sanciti in tali Trattati (sul punto v., ex multis, Corte giust., sent. 24-11-1998, causa C-274/96, Procedimento penale a carico di Horst Otto Bickel e Ulrich Franz, in Racc., I-7637). In tale contesto, e tenendo comunque conto delle considerazioni che precedono, assume una rilevanza specifica la disposizione dell’art. 2 del nuovo Trattato sull’Unione europea che colloca la tutela dei diritti delle persone appartenenti a minoranze tra i valori fondativi dell’ordinamento creato dai trattati. 10 Un importante strumento, introdotto dal Trattato di Amsterdam e modificato da quello di Nizza, sarà rappresentato dalle disposizioni del TUE (v. art. 24 e 38 cfr. art. 37 del nuovo Trattato sull’Unione europea) che consentono a quest’ultima di concludere accordi internazionali. L’applicazione di queste norme ha originato una rilevante tipologia di accordi dell’Unione, molti dei quali riguardanti diverse iniziative nei Balcani occidentali. Tra queste, le c.d. EU Monitoring Missions (EUMM), instaurate con azione comune 2000/811/PESC del Consiglio, 22-12-2000, in G.U.U.E. L 328, 23-12-2000, 53, tramite la quale si decise di adottare lo strumento di tali missioni di vigilanza mediante accordi, in effetti da lì in poi stipulati, in base al citato art. 24 TUE, con la Repubblica Federale di Iugoslavia, prima, e con la ex Repubblica iugoslava di Macedonia (FYROM) poi, nonché con altri Paesi dell’area balcanica.

8Come accennato11, del 1995 è un documento della

Commissione sul richiamo al rispetto dei principi democratici e dei diritti dell’uomo negli accordi tra la Comunità e i Paesi terzi al quale faranno riferimento le successive conclusioni del Consiglio affari generali secondo cui il rispetto dei diritti umani e dei principi democratici non solo ispira le relazioni comunitarie con soggetti di diritto internazionale, ma costituisce “elemento essenziale” dell’accordo (si tratta chiaramente della formula normalmente utilizzata per qualsiasi accordo internazionale che contenga clausole che richiamano il concetto di “elemento essenziale” di accordi internazionali espressamente disciplinato dall’art. 60 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, su cui si tornerà più avanti).

Nel 1997 il Consiglio dell’UE inaugura formalmente la strategia sull’applicazione dei criteri di condizionalità nell’area balcanica adottando le ben note conclusioni sull’applicazione della condizionalità al fine di sviluppare una coerente strategia dell’UE per le relazioni con i Paesi della regione12. Su tale documento occorre soffermarsi.

Diverse finalità perseguono le c.d. EU Police Missions (EUPM), a partire dall’iniziativa EUPOL “Proxima” sempre rivolta alla FYROM – istituita tramite azione comune 2003/681/PESC del Consiglio, 29-9-2003, in G.U.U.E. L 249, 1-10-2003, 66 – sino alla più recente concernente la Bosnia ed Erzegovina. Entrambe, comunque, implicano una serie di accordi stipulati dalla sola Unione sia con i Paesi beneficiari al fine di definire lo status e le attività della missione (c.d. Status of Missions Agreement, SOMA), sia con diversi Stati terzi al fine del coinvolgimento di questi ultimi nell’attuazione delle relative missioni. Interessante ricordare come, prima delle sostanziali innovazioni introdotte dai Trattati di Amsterdam e Nizza (sottolineando che queste stesse norme hanno fatto evolvere il sistema verso l’affermazione di una personalità giuridica dell’Unione), la prima manifestazione della volontà dell’Unione stessa nel contesto delle riforme del Trattato di Maastricht è rappresentata dal Memorandum d’intesa sull’amministrazione di Mostar da parte dell’UE, stipulato a Ginevra il 5-7-1994 tra “the Member States of the European Union acting on behalf of the Union in full association with the European Commission”, quindi ancora con sostanziale detenzione nelle mani degli Stati della volontà negoziale; v. in materia J. Monar, Editorial Comment – Mostar: Three Lessons for the European Union, in Eur. Foreign Aff. Rev., 1997, n. 2, 1-6. Si veda, ex multis, S. Blockmans, The role and impact of the EU’s Common Foreign and Security Policy towards the Western Balkans (2001-2006), in Croatian Yearbook of Eur. L. & Pol., 2006, 209; E. Cannizzaro (cur.) The European Union as an Actor in International Relations, The Hague, Kluwer Law International, 2002; L. Daniele (cur.), Le relazioni esterne dell’Unione europea nel nuovo millennio, Milano, Giuffrè, 2002; P. Eeckhout, External Relations of the European Union, Oxford, Oxford University Press, 2004; A. Dashwood, M. Maresceau, Law and Practice of EU External Relations, Cambridge, Cambridge University Press, 2008. 11 V. supra nota 4. 12 V. Boll. UE, n. 4, 1997, 2.2.1. Si tratta di conclusioni adottate su impulso della Commissione europea (v. comunicazione della Commissione al Consiglio e al

Estratto dal volume Il pluralismo nella transizione costituzionale dei Balcani: diritti e garanzie a cura di Laura Montanari, Roberto Toniatti, Jens Woelk editore: Università degli Studi di Trento anno di pubblicazione: 2010 collana: Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche n. 92

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A parte il merito, che riguarda essenzialmente i principi già fissati a Copenaghen più alcuni aspetti specifici concernenti bilateralmente ciascun Paese, il metodo è interessante. In effetti, superando il limite della mera “associazione” della Commissione europea alle attività dell’Unione in materia di PESC (cfr. art. 27 TUE, abrogato dal Trattato di Lisbona), non solo la decisione “politica” promana da una formale indicazione dell’organo che solo nel pilastro c.d. “comunitario” deteneva un preciso diritto di iniziativa legislativa, ma si prevede anche che la verifica del rispetto di tutti e ciascuno dei parametri indicati nel documento avvenga in prima battuta da parte della Commissione medesima. Ed è soprattutto da tale secondo aspetto, concernente la concreta attuazione della “condizionalità” definita dal Consiglio, che si rende evidente quel fenomeno – precedentemente segnalato e in qualche modo consustanziale alla realizzazione di una complessiva politica estera dell’Unione – di progressivo “avvicinamento” tra obiettivi e metodi del “primo pilastro”, da un lato, e quelli del “secondo pilastro”, dall’altro lato13.

Parlamento europeo sui principi comuni per le future relazioni contrattuali con alcuni Paesi dell’Europa sud-orientale, COM(96)476 def., 2-10-1996. 13 Un confronto con la coeva prassi dell’allargamento ai Paesi dell’Europa centro-orientale è particolarmente significativo al riguardo. Nelle sue conclusioni del dicembre 1997, infatti, il Consiglio lanciò la c.d. “strategia rafforzata di pre-adesione”, nella quale furono inclusi i partenariati per l’adesione, così definiti “ … 13. La strategia rafforzata di preadesione ha lo scopo di porre tutti i Paesi candidati dell’Europa centrale e orientale in grado di divenire, a termine, membri dell’Unione europea e, a tal fine, di allinearsi il più possibile all’acquis comunitario già prima dell’adesione. Con gli accordi europei, che restano la base delle relazioni dell’Unione europea con tali Paesi, questa strategia si articola intorno ai partenariati per l’adesione e al rafforzamento dell’aiuto alla preadesione. Essa sarà accompagnata dall’esame analitico dell’acquis dell’Unione per ogni singolo paese candidato. i) Partenariati per l’adesione 14. Il partenariato per l’adesione è un nuovo strumento che costituisce l’asse fondamentale della strategia rafforzata di preadesione, mobilitando in un quadro unico tutte le forme di assistenza ai Paesi candidati dell’Europa centrale e orientale. 15. Questo quadro unico raggrupperà nei dettagli per ciascun candidato, da un lato, le priorità da seguire nel recepire l’acquis dell’Unione e, dall’altro, i mezzi finanziari, in particolare quelli del programma PHARE, disponibili a tal fine. In tale contesto, gli interventi finanziari sarebbero legati ai progressi dei Paesi candidati e, più specificamente, al rispetto della programmazione del recepimento dell’acquis. 16. Il Consiglio deciderà all’unanimità in merito all’istituzione di un sistema di partenariati come elemento chiave della strategia di preadesione. Su questa base deciderà poi, a maggioranza qualificata e non oltre il 15 marzo 1998, su principi, priorità, obiettivi intermedi, adeguamenti significativi e condizioni contenuti in ogni singolo partenariato. Ove mancasse in un paese candidato

10Nel citato documento del Consiglio si affrontano temi di natura

generale divisibili in quattro aree, relative al rispetto dei principi di democrazia, al rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto, alla tutela delle minoranze e alle condizioni per accedere ad una economia di mercato. Queste macro-aree sono al loro interno “scomposte” in indicatori di conformità per l’ottenimento degli scopi generali14. Il processo è definito anche come “evolutivo”, nel senso che l’evolversi della situazione generale e specifica in ogni Paese dell’area verso una sempre maggiore conformità ai diversi parametri relativi alle quattro macro-aree di condizionalità vale a far consolidare le relazioni bilaterali con l’Unione.

un elemento essenziale per la prosecuzione dell’aiuto alla preadesione, il Consiglio prenderà, secondo le stesse modalità, le misure appropriate… (corsivo nostro, n.d.a.)”. Sebbene, dunque, si tratti di un quadro certamente più avanzato rispetto a quello derivante dal documento sulla condizionalità riferito ai Paesi dei Balcani occidentali, si anticipa una prassi che, come si indicherà oltre (v. infra nota 28), verrà estesa anche a tali Paesi. Anche in questa sede preme sottolineare gli aspetti di metodo che, previa imputazione di specifiche voci di finanziamento tramite strumenti normativi ad hoc concernenti i Paesi candidati, pongono ancora una volta la Commissione europea in prima linea nella verifica del rispetto di quegli standard ritenuti “condizione” del mantenimento delle misure di sostegno previste: v. il reg. (CE) 622/1998 del Consiglio, 16-3-1998, in G.U.C.E. L 85, 20-3-1998, 1, fonte “generale” che istituì lo strumento dei partenariati per i Paesi candidati e aderenti, da confrontare con il reg. (CE) 533/2004 del Consiglio, 22-3-2004, in G.U.U.E. L 86, 24-3-2004, 1, istitutivo dello strumento analogo applicato ai Paesi partecipanti al c.d. PAS (Processo di stabilizzazione e associazione, v. infra). Importante notare che, in effetti, le decisioni “individuali” relative a ciascun Paese interessato e che certificano lo “stato d’avanzamento” dell’ordinamento interno verso i parametri comunitari indicano chiaramente, alla voce “monitoraggio”, che «l’attuazione del partenariato europeo è monitorata tramite i meccanismi istituiti nell’ambito del processo di stabilizzazione e di associazione, segnatamente le relazioni annuali presentate dalla Commissione delle Comunità europee». La base giuridica del reg. 533/2004 è l’art. 181A TCE, “nuova” disposizione introdotta dal Trattato di Nizza (cfr. ora art. 212 del Trattato sul funzionamento dell’Unione) e volta a integrare in particolare la più generica politica di cooperazione allo sviluppo prevista dal precedente art. 177 TCE (cfr. art. 208 Trattato sul funzionamento dell’Unione), in quanto non idonea a coprire specifici aspetti di cooperazione a contenuto più tipicamente economico-finanziario. 14 Così, per esempio, l’instaurazione di elezioni libere tenute a intervalli regolari è un dato funzionale all’ottenimento dell’obiettivo generale del rispetto dei principi di democrazia, cosicché l’Unione è legittimata ad operare uno screening specifico su tale profilo in tutta l’area e con la partecipazione di tutti i soggetti interessati, sia sul lato “attivo” (Alto Rappresentante PESC, OSCE, Nazioni Unite), sia sul lato “passivo”: quindi, nel caso della Bosnia ed Erzegovina, i soggetti implicati sono anche le entità di cui si compone la Federazione, così come nel caso del Kosovo il fatto che esso, sul finire degli anni novanta, faccia ovviamente ancora parte della Serbia non lo esclude dal processo di indagine circa il requisito indicato, tanto più alla luce del particolare statuto internazionale che sarà conferito dalla ris. 1244 del 1999 del Consiglio di sicurezza delle NU.

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Il legame creato tra consolidamento di rapporti politici (ma anche o soprattutto economici e commerciali) con l’Unione e determinate condizioni generali non è, come già detto, una novità. Esso però, nei confronti dei Paesi dell’ex Iugoslavia e quantomeno nel periodo che stiamo esaminando, non presenta (ancora) punti di contatto “formali” o “formalizzati” con il processo di allargamento dell’Unione, così come invece stava avvenendo, nello stesso periodo, per i Paesi dell’Europa centro-orientale. Ovviamente questa diversa impostazione è legata alla grave crisi politica che verrà risolta in tutta l’area con non poche difficoltà e solamente in parte, come dimostrerà di lì a poco la guerra del Kosovo15.

Particolarmente nelle relazioni UE/Balcani occidentali, dunque, a metà degli anni novanta la politica della condizionalità viene ideata come strumento atto a determinare il maggiore o minore grado di avvicinamento progressivo dei Paesi terzi interessati ad alcuni standard considerati preliminari all’apertura di un processo negoziale rispetto al quale l’adesione, peraltro, permane solo sullo sfondo. L’Unione, infatti, si determina ad avviare negoziati per concludere accordi maggiormente stringenti sotto il profilo degli obblighi reciproci solo una volta che i diversi parametri indicati nelle conclusioni del CAGRE del 1997 siano stati raggiunti16. Dal punto di vista tecnico, il documento del 1997 15 E’ poi da ricordare che la politica di condizionalità farà parte anche di strumenti come l’accordo di partenariato con la Russia, che pure si situa nell’alveo della politica estera dell’Unione: si veda al riguardo l’art. 13 del TUE – cfr. art. 26 del nuovo Trattato sull’Unione - che, proprio a seguito della conclusione del primo accordo di partenariato del 1997, ha instaurato lo strumento della strategia comune come fonte di diritto dell’Unione stessa (v. C. Hillion, Common Strategies and the Interface Between EC External Relations and the CFSP: Lessons of the Partnership between EU and Russia, in A. Dashwood, C. Hillion (cur.), The General Law of EC External Relations, cit., 287). 16 Sembra quindi che in questa fase, nei confronti dei Paesi dei Balcani occidentali, l’Unione segua maggiormente un modello di condizionalità ex ante, diversa da quella che verrà adottata a partire dall’adozione degli accordi di associazione che applicheranno invece un modello di condizionalità già inserita in un contesto “contrattuale” definito da un accordo specifico (questa sarà la prassi prevalentemente seguita, nello stesso periodo, con i Paesi dell’Europa centro-orientale e con la Romania e la Bulgaria; v. la ricostruzione di N. Tocci, Comparing the EU’s Role in Neighbourhood Conflicts, in M. Cremona (cur.), Developments in EU External Relations Law, cit., 216 ss.). Non si spiegherebbe d’altronde il diverso e apparentemente “meno accidentato” cammino della Croazia, pur entrata nel novero dei Paesi candidati, quando la Slovenia dal 2004 è Stato membro a tutti gli effetti. La

12imposta la condizionalità proprio in senso propedeutico all’apertura di appositi negoziati, in effetti sino ad allora formalizzati solo in aree quali quelle su accennate del monitoraggio e rafforzamento della sicurezza interna con strumenti tipici di politica estera e di difesa o di cooperazione allo sviluppo17.

È opportuno, inoltre, un richiamo al funzionamento materiale del criterio di condizionalità che risulta agganciato alle nozioni di diritto internazionale dei trattati, anche se queste ultime necessitano pur sempre di essere collocate nel diverso contesto del funzionamento dell’ordinamento comunitario. In particolare, con riferimento all’inserimento della politica di condizionalità nel quadro di regole di diritto internazionale dei trattati (cui la Comunità e l’Unione si attengono per costante prassi), rileva il riferimento all’art. 60 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 che stabilisce che la violazione di un elemento essenziale di un accordo internazionale perpetrata da una delle parti può configurare una violazione sostanziale

necessità infatti di risolvere (“stabilizzare”) situazioni interne assai delicate – come quella relativa al perseguimento dei criminali di guerra o all’accoglimento o rimpatrio di rifugiati e sfollati e conseguente politica di reintegrazione di entrambi – rientra appieno nella verifica del raggiungimento di alcuni dei parametri relativi alla definizione del carattere democratico di quello Stato. 17 A partire dalle conclusioni del 1997, invece, per consentire l’avvio di negoziati nei settori più propriamente politici ed economici con ciascuno dei Paesi dell’area interessata, si stabilisce che questi ultimi dovranno dimostrare di osservare le seguenti condizioni generali: “1. Una credibile offerta e una visibile attuazione di possibilità per gli sfollati (compresi i cosiddetti “migranti dell’interno”) e per i profughi di ritornare ai loro luoghi di origine e l'assenza di vessazioni ad opera o con la connivenza delle autorità pubbliche. 2. Riammissione di cittadini degli Stati interessati che sono illegalmente presenti nel territorio di uno Stato membro dell’UE. 3. Adempimento, da parte dei Paesi firmatari degli accordi di pace, degli obblighi assunti tramite tali accordi, compresi quelli relativi alla cooperazione con il Tribunale internazionale per quanto riguarda la consegna dei criminali di guerra alla giustizia. 4. Impegno credibile ad attuare riforme democratiche e a conformarsi agli standard generalmente riconosciuti in materia di diritti dell’uomo e delle minoranze. 5. Organizzazione, a intervalli ragionevoli, di elezioni libere e regolari, a suffragio universale e paritario di tutti i cittadini adulti e con voto segreto, nonché piena e corretta attuazione dei risultati di queste elezioni. 6. Assenza di trattamenti generalmente discriminatori e di vessazioni nei confronti delle minoranze da parte delle autorità pubbliche. 7. Assenza di trattamento discriminatorio e di vessazioni dei media indipendenti. 8. Attuazione dei primi passi della riforma economica (programma di privatizzazioni, abolizione di alcuni controlli sui prezzi). 9. Disponibilità comprovata ad allacciare relazioni con i propri vicini secondo i principi di buon vicinato e di cooperazione. 10. Compatibilità degli accordi tra Paesi dell’area a fini di cooperazione regionale con gli accordi di pace di Dayton”.

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dei termini dell’accordo e legittimare conseguenti misure sospensive o di cessazione (withdrawal) delle relazioni18.

La distinzione “storica” tra diverse tipologie di clausole poste a “condizione” della conclusione ed eventuale denuncia (in caso di mancato rispetto della condizione stessa) di un accordo della Comunità europea concerne la prassi delle clausole “fondamentali”, da un lato, e delle clausole “elemento essenziale”, dall’altro lato. La prima tipologia è più risalente ed è stata caratterizzata da una genericità inidonea a conferirle un carattere giuridicamente vincolante. In effetti, solo a partire dall’inizio degli anni novanta la qualificazione di una condizione, quale quella del rispetto dello Stato di diritto, dei diritti fondamentali e dei principi di democrazia, come “elemento essenziale” per il mantenimento dell’accordo, ha permesso di attribuire alla clausola che la contenesse un’efficacia giuridica almeno riconducibile alla previsione dell’art. 60 della Convenzione di Vienna19.

18 Sulla dottrina in tema di condizionalità v. ex multis M. Candela Soriano, L’Union européenne et la protection des Droits de l’Homme dans la coopération au développement: le rôle de la conditionnalité politique, in Rev. trim. dr. homme, 2002, 875; R. Yakemtchouk, L’Union européenne et le respect des droits de l’Homme par les pays tiers in Rev. marché commun Un. eur., 2005, 46; B Brandtner, A. Rosas, Human Rights and the External relations of the European Community: an analysis of doctrine and practice, in Eur. J. Int’l L., 1998, 468; J. Rideau, Le rôle de l’Union européenne en matière de protection des droits de l’Homme, in Recueil des cours, Collected courses of The Hague Academy of International Law, 1997, 431 e di recente L. Appicciafuoco, Integrazione dei Balcani occidentali nell’Unione europea e principio di condizionalità, in Dir. pubbl. comp. eur., 2007, 11 ss. 19 Lo studio di L. Bartels, Human Rights and Democracy Clauses in the EU’s International Agreements, Bruxelles, ed. Parlamento europeo, Direzione generale per le politiche esterne dell’Unione europea, 2005, si concentra sull’analisi di prassi e interpretazione degli accordi comunitari che attribuiscano valore di “elemento essenziale” alle clausole imposte dalla Comunità che riguardino la tutela dei diritti umani. Rileva in particolare una distinzione tra azione comunitaria volta alla “promozione” dei diritti umani, da un lato, e azione volta alla “protezione” di tali diritti, dall’altro. La prima (“promozione”) è da intendersi come adozione di strumenti positivi volti a favorire la diffusione e l’applicazione dei criteri democratici tramite adeguate riforme istituzionali a livello nazionale. Peraltro, l’azione promozionale in tali settori certamente nasconde le insidie maggiori, proprio in quanto essa potrebbe comportare un aggiramento dei limiti apposti alla competenza comunitaria in materia (cfr. il noto parere della Corte giust., 28-3-1996, n. 2/94, in Racc., I-1795 che negò l’adesione della CE alla CEDU per assenza di adeguata base giuridica nei Trattati). La stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sembra confermare i limiti della competenza comunitaria in tema di promozione dei diritti umani (cfr. l’art. 51 c. 2 della Carta che

14Accanto a tale tipologia di previsione “condizionante” la

vigenza dell’accordo tra le parti, la prassi ha dimostrato il ricorso a due ulteriori diverse tipologie di strumenti necessari a rendere effettiva la prima condizione. Nel caso della prassi della cosiddetta clausola precisa appunto che la Carta stessa non amplia “l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati”). In tal senso, assume particolare rilievo quanto osservato in ordine agli accordi di cooperazione (v. supra nota 4), soprattutto se letto alla luce di una prassi più recente che tende, tra l’altro, ad assottigliare maggiormente la distanza tra strumenti di primo e di secondo pilastro. In materia di cooperazione allo sviluppo – oltre al reg. (CE) 381/2001 del Consiglio, 26-2-2001 (in G.U.C.E. L 57, 27-2-2001, 5), istitutivo dello Strumento di reazione rapida e al reg. (CE) 1717/2006 del Consiglio, 15-11-2006 (in G.U.U.E. L 327, 24-11-2006, 1), istitutivo di uno Strumento di stabilità, per l’attuazione degli obiettivi di cui all’art. 11 TUE, nel testo anteriore alle riforme di Lisbona (“… sviluppo e consolidamento della democrazia […] rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali…”) – rilevano l’iniziativa EUJUST THEMIS in Georgia, adottata con azione comune 2004/523/PESC del Consiglio, 28-6-2004 (in G.U.U.E. L 228, 29-6-2004, 21) o quella di vigilanza in Aceh, Indonesia, adottata con azione comune 2005/643/PESC del Consiglio, 9-9-2005 (in G.U.U.E. L 234, 10-9-2005, 13) entrambe successivamente “avallate” dalla Commissione europea per adottare interventi di tipo finanziario aventi finalità più tipicamente di cooperazione allo sviluppo; in tal senso, v. A. Dashwood, Art. 47 EUT and the relationship between first and second pillar competences, in A. Dashwood, M. Maresceau, Law and Practice of EU External relations, cit., 70 ss.). Rispetto all’obiettivo della “promozione” dei diritti umani, quello della protezione di tali diritti muove in una direzione teoricamente inversa, ossia “conservativa” di livelli di tutela accettabili secondo i parametri che il Trattato di Amsterdam ha opportunamente collegato anche alla prospettiva dell’adesione di nuovi Stati (cfr. art. 6 e 49 TUE, sempre nei testi antecedenti al Trattato di Lisbona). Seguendo questa diversa ottica, la stessa norma della Carta di Nizza, art. 51, c. 2, citata sopra, assume una valenza forse meno “penalizzante” sotto il profilo dell’assunzione di competenze da parte dell’Unione. Quest’ultima, infatti, anche quando agisce all’esterno dei propri confini, basa i propri interventi (tramite accordi) su di un “nucleo centrale” di valori sanciti nella Carta stessa, imponendo uno standard minimo di tutela rispetto al quale qualsiasi arretramento vale ad inficiare la piena legittimità di quegli stessi interventi. In tal senso, una clausola “diritti umani” finisce quasi sempre per assumere i connotati di un elemento essenziale dell’accordo. La Corte di giustizia, nel già citato caso Portogallo c. Consiglio (v. supra nota 4), ha ammesso che un obiettivo di tutela dei diritti umani gode di una certa “ubiquità” in quanto riferibile “in particolare” alla politica di cooperazione allo sviluppo, ma anche ad altre, diverse aree di intervento comunitarie. Il problema risulta però più complesso se rapportato a politiche tipicamente sottratte ad un riferimento, anche indiretto, alla protezione dei diritti umani, quali la politica commerciale comune (v. al riguardo le considerazioni di S. Peers, EC frameworks of International relations: Cooperation, Partnership and Association, in The general Law of EC External Relations, cit.). Su questi profili, v. in particolare B. Nascimbene, Tutela dei diritti fondamentali e competenza della Corte di giustizia nel Trattato di Amsterdam, in Scritti in onore di Giuseppe Federico Mancini, vol. II, Milano, Giuffrè, 1998, 683; A. Tizzano, L’azione dell’Unione europea per la promozione e la protezione dei diritti umani, in Dir. Un. eur., 1999, 149; K. Lanaerts, The EU Charter of Fundamental rights in the perspective of the Enlargement, in A. Kellermann, J. De Zwaan, J. Czuczai (cur.), EU Enlargement. The Constitutional Impact at EU and National Level, The Hague, T.M.C. Asser Press, 2001, 471.

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“baltica”, alla violazione della clausola “elemento essenziale” avrebbe fatto seguito la sospensione automatica delle relazioni interstatali basate sull’accordo 20. Nel caso della prassi della cosiddetta clausola “bulgara” o di “non esecuzione” dell’accordo, alla violazione della clausola “elemento essenziale” segue un tentativo di composizione delle relazioni tra le parti, senza escludere che, in caso di insuccesso di queste misure conciliative, l’accordo possa comunque essere sospeso dalla Comunità 21.

L’indicata evoluzione del sistema comunitario di apposizione di clausole “principi democratici” e/o “diritti dell’uomo” si riflette nelle riforme del recente Trattato di Lisbona: recependo in buona parte le proposte avanzate tramite il fallito Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (cfr. art. III-292 Trattato costituzionale), l’art. 21 del nuovo TUE nella versione consolidata conseguente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona stabilisce che “l’azione dell’Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi … [di]: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà

20 Tale prassi è stata seguita per alcuni accordi di cooperazione allo sviluppo stipulati dalla CE (pre-Maastricht) l’11-5-1992, con Lituania, Lettonia, Estonia e Albania. 21 Tale prassi è stata applicata a due accordi del 1993 con Romania e Bulgaria. I successivi primi accordi c.d. “europei”, cioè siglati con alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale sulla base dell’art. 310 TCE (c.d. “accordi di associazione”, v. attualmente art. 217 TFUE) non contenevano clausole “elemento essenziale” riferite alla tutela dei diritti umani. Successivamente alla separazione di Repubblica ceca e Slovacchia, nei rispettivi accordi del 4-10-1993, verrà inserita una Dichiarazione congiunta con la quale le Parti si accordavano riguardo ad una specifica procedura per “casi d’urgenza speciale” per la sospensione dell’accordo in caso di violazione di regole essenziali dello stesso, traendo spunto dalla disposizione dell’art. 60(3) della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. Le successive conclusioni del Consiglio europeo del 29-5-1995 confermeranno e sanciranno come prassi da adottare pro futuro quella di inserire negli accordi con Stati terzi un meccanismo di sospensione che avrebbe dovuto consentire alla Comunità di reagire immediatamente in casi di violazione di aspetti essenziali dell’accordo particolarmente là dove si trattasse di aspetti concernenti la tutela di diritti umani. La già richiamata comunicazione della Commissione del 1995 – COM(95)216 def., cit. – ripresa dalle conclusioni di un successivo CAGRE, avrebbe indicato il modello da ultimo accennato quale tipologia di “doppia” clausola (“elemento essenziale” e di “non esecuzione” o “bulgara”) come applicabile a tutte le clausole di accordi comunitari stipulati con Stati terzi relative alla protezione dei diritti umani e dei principi democratici. Questo sarà il modello applicato alla revisione di metà percorso della Convenzione di Lomé (c.d. Lomé IV del 1996, v. art. 366 bis) e lo si ritrova nell’Accordo di Cotonou entrato in vigore nel 2003.

16fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale”. Tale norma pare di portata più generale anche rispetto alla formulazione dell’art. 11 TUE (nella versione di cui al Trattato di Nizza): oltre al riferimento generico alla “azione dell’Unione sulla scena internazionale”, rileva infatti la norma dell’art. 205 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (d’ora in poi TFUE) che fa propri i criteri indicati al citato art. 21 del nuovo Trattato sull’Unione europea (NTUE) estendendoli all’azione esterna dell’Unione nei settori declinati dalle successive disposizioni relative alla politica commerciale, alla cooperazione economica, all’aiuto umanitario e alle misure restrittive. Tenuti quindi fermi i principi dell’art. 21 del NTUE, quanto previsto dagli art. 37 NTUE e 218 TFUE – pur essendo riferito al potere dell’Unione di concludere accordi distintamente nei settori della politica estera, sicurezza e difesa comune, da un lato, e negli altri su accennati settori di competenze esterne, dall’altro lato – si dovrebbe ridurre a una sottolineatura della diversità di procedure che l’Unione europea adotterà nella conclusione delle diverse tipologie di accordi (cfr. art. 218, c. 8, TFUE).

Accanto al problema della formulazione di quella che ormai è ampiamente riconosciuta come specifica politica di “condizionalità” dell’Unione, inserita nel più vasto sistema di relazioni esterne di quest’ultima, sorge la questione della concreta attivazione di tale politica. Tra gli strumenti più direttamente ricavabili dalla stessa formulazione delle diverse clausole-condizione sviluppate nel corso della prassi comunitaria rilevano, ovviamente, quelli della sospensione o, in estrema ipotesi, del ritiro della Comunità europea dall’accordo. Formalmente, la sospensione o l’interruzione dell’accordo, oltre a poter essere previste da più specifiche disposizioni di accordi comunitari, sono in via generale disciplinate dall’art. 300, c. 2, TCE (attuale art. 218, c. 9, del Trattato sul funzionamento dell’Unione, TFUE), secondo una formula che rispetta il criterio dell’“atto contrario”. Tuttavia, nonostante tale criterio rappresenti la ratio della disciplina in esame, la prassi, peraltro confermata dalle stesse disposizioni qui richiamate, ammette che la sospensione o la denuncia avvengano sempre a seguito di una mera informazione del Parlamento europeo, anche nel caso si tratti di accordo concluso secondo il modello procedurale “aggravato” implicante il parere conforme o, nell’attuale formulazione, l’approvazione del Parlamento, vincolante per il Consiglio (v.

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rispettivamente art. 300, c. 3, par. 2, TCE e art. 218, c. 6, par. 2 a), i), TFUE per quanto attiene in particolare agli accordi di associazione)22.

22 Nel quadro di tali regole, ai sensi dell’art. 98 del regolamento interno del Parlamento europeo quest’ultimo può comunque sottoporre raccomandazioni al Consiglio, il che sembra sempre realizzare un’ipotesi minimale di partecipazione parlamentare alle attività istituzionali di politica estera, rispetto alla quale sarebbe sembrato più logico concepire, invece, una procedura “speculare” a quella che ha condotto Stato interessato e Comunità ad assumere impegni reciproci. Per un’analisi di questi aspetti istituzionali si veda J. Rideau, Droit institutionnel de l’Union e des Communautés européennes, Parigi, L.G.D.J., 2001, 611 ss. e L. Bartels, Human Rights and Democracy Clauses in the EU’s International Agreements, cit. Gli accordi di associazione ex art. 310 TCE (v. citato art. 217 TFUE) presentano in genere le caratteristiche degli accordi “misti”, per cui, accanto alla procedura all’unanimità in Consiglio e l’approvazione del Parlamento europeo, si prevede normalmente la partecipazione degli Stati membri interessati ai negoziati e la necessaria ratifica da parte di tutti e ciascuno di questi Stati (Stato associato incluso), ai fini della entrata in vigore dell’accordo stesso. Gli accordi misti sollevano quindi particolari problemi per quanto attiene alla loro eventuale sospensione o interruzione. Un caso interessante ai nostri fini attiene all’accordo del 1983 tra l’ex Repubblica federale di Iugoslavia e la Comunità europea: tale accordo fu sospeso autonomamente dalla Comunità tramite adozione di un apposito regolamento insistente su materie solo comunitarie; v. reg. (CE) 3302/91 del Consiglio, 11-11-1991, in G.U.C.E. L 315, 15-11-1991, 46 e relativa interpretazione giurisprudenziale in sentenza della Corte di giustizia Racke cit. supra nota 4). Lo stesso accordo fu poi sospeso in toto tramite decisione adottata dal Consiglio dei ministri unitamente ai Rappresentati dei governi degli Stati membri riuniti in Consiglio, per la parte dell’accordo insistente su materie di competenza anche statale (v. la decisione citata pubblicata in G.U.C.E. L 315, 15-11-1991, 47). La prassi degli accordi “misti” è stata peraltro particolarmente adottata nel settore della politica commerciale, ricevendo una disciplina più dettagliata con l’introduzione, tramite il Trattato di Nizza, di disposizioni dedicate nell’art. 133 TCE (cfr. art. 207 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, TFUE), ispirate alle indicazioni offerte dalla Corte di giustizia nel parere 1/94 (del 15-11-1994, Competenza della Comunità a stipulare accordi internazionali in materia di servizi e di tutela della proprietà intellettuale, in Racc., I-5267 ss.; su tali riforme v. Y. Gautier, I. Lianos, Le traité de Nice et les relations extérieures, in V. Constantinesco, Y. Gautier, D. Simon (cur.), Le Traité de Nice. Premières analyses, Collections de l’Université Robert Schumann, Strasburgo, 2001, 175 ss.; E. Cannizzaro, Le relazioni esterne della Comunità dopo il Trattato di Nizza, in A. Tizzano (cur.), Il Trattato di Nizza, cit., 2003). Sull’efficacia delle norme di accordi di associazione, per loro natura accordi “misti” nel senso accennato, la sentenza della Corte di giustizia del 30-9-1987 (causa 12/86, Meryem Demirel, in Racc., 3719 ss.) ha richiamato in parte un brocardo applicato normalmente a particolari fonti, anche primarie, di diritto comunitario cd. “direttamente applicabili” o idonee a produrre “effetti diretti” negli ordinamenti nazionali (v. ex multis Corte giust., sent. 31-1-1991, causa C-18/90, ONEM/Bahia Kziber¸ sull’Accordo di cooperazione CEE-Marocco, in Racc., I-221; sent. 5-7-1994, causa C-432/92, Anastasiou, ivi, I-3087; sent. 27-9-2001, causa C-63/99, Gloszczuk, ivi, I-6369; sent. 20-11-2001, causa C-268/99, Jany e altri, ivi, I-8615; sent. 29-1-2002, causa C-162/00, Beata Pokrzeptowicz-Meyer, ivi, I-1049; v. in materia G. Gaja

18Sempre rimanendo nell’ambito delle concrete modalità con le

quali l’ordinamento comunitario e dell’Unione reagiscono nei confronti di violazioni di accordi comunitari contenenti clausole ritenute essenziali, una consolidata prassi comunitaria e dell’Unione è quella della comminazione di vere e proprie sanzioni nei confronti dello Stato terzo resosi eventualmente responsabile delle medesime richiamate violazioni. Il Trattato di Maastricht ha introdotto norme apposite all’interno del Trattato comunitario23 al fine di conferire corretta base giuridica ad atti comunitari che, pur se insistenti su materie di natura strettamente commerciale, possono ciononostante sottendere finalità di rango superiore. Alcune sentenze della Corte del Lussemburgo hanno riguardato, particolarmente negli anni novanta, proprio l’interpretazione di alcune fonti comunitarie adottate per gli scopi sopra segnalati24, con

Sull’interpretazione di accordi misti da parte della Corte di giustizia, in Riv. Dir. internaz., 1988, 605-606 e, in generale, D. O’Keefe, H. Schermeers (cur.) Mixed agreements, The Hague, Kluwer Law and Taxation Publishers, 1983, nonché A. Rosas, The European Union and Mixed Agreements, in A. Dashwood, C. Hillion (cur.), The General Law of EC external relations, cit., 200 ss.). 23 Art. 228 A, poi 301 TCE, da leggere congiuntamente all’art. 73 G, poi art. 60 TCE per profili specificamente inerenti alle misure di tipo economico-finanziario. A seguito delle riforme di Lisbona, l’art. 60 TCE è sostanzialmente confluito nell’art. 75 del TFUE, mentre l’art. 301 TCE corrisponde all’attuale art. 215 TFUE. 24 La decisione resa nel caso Centro-Com (Corte giust., sent. 14-1-1997, causa C-124/95, R. v. H.M. Treasury and Bank of England ex parte Centro-Com, in Racc., I-81, v. ex multis R. Pavoni, UN Sanctions in EU and National Law: The Centro-Com Case, in Int’l & Comp. L. Q., 1999, 582), relativo all’annullabilità di un regolamento istitutivo di misure di embargo commerciale nei confronti dell’ex Repubblica federale di Iugoslavia, adottato in ambito comunitario per “contribuire” al conseguimento degli scopi delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle NU, chiarisce che gli “scopi” della politica commerciale comune comunitaria (art. 113, poi art. 133, TCE ora art. 207 TFUE) valgono a giustificare interventi comunitari che investono profili di altre politiche, incluse quelle relative al c.d. secondo pilastro del TUE. Opportuno ricordare che in tale caso rilevava un confronto “diretto”, cioè privo del “filtro” delle misure di secondo pilastro pur richiamate dall’art. 228 A, poi art. 301, TCE, tra risoluzioni ONU e regolamenti comunitari. Si vedano al riguardo anche la decisione Corte del 30-7-1996, Bosphorus Hava Yollari Turizm ve Ticaret AS / Minister for Transport, Energy and Communications e altri in causa C-84/95, in Racc., I-3953, e quella del 27-2-1997, causa C-177/95, Ebony Maritime e Loten Navigation/Prefetto della Provincia di Brindisi e a., in Racc., I-1111 ss., entrambe vertenti sullo stesso ambito materiale (v. G.P. Manzella, C. Nizzo, Jugoslavia, embargo e sanzioni comunitarie, in Giorn. dir. amm., 1997, 526; H. J. Priess, Sanctions Against Former Yugoslavia, in Int’l Trade L. & Regulation, 1997, 551). Tale giurisprudenza è stata sostanzialmente confermativa della prassi comunitaria che, prima del Trattato di Maastricht, ha fondato sull’art. 113 (poi art. 133 TCE, ora art. 207 TFUE) diverse misure commerciali a contenuto restrittivo rivolte, tra gli altri, alle ex Repubbliche dell’ex Unione sovietica, ad alcuni Paesi ex-socialisti dell’Europa centro-orientale e ad alcuni membri dell’ex Repubblica federale di Iugoslavia, e ciò nonostante le notazioni negative di certa dottrina sulla scelta della base giuridica indicata (v. A. Davì, Comunità europee e sanzioni economiche internazionali, Napoli, Jovene, 1993, 222 ss.).

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ciò sottolineandosi le diverse finalità che, da un lato, l’Unione europea, con le misure di attuazione di risoluzioni ONU e, dall’altro lato, la Comunità europea, con le misure di carattere più strettamente commerciale, intendono perseguire25. Una sintesi di tale problematica è offerta dall’attuale art. 215 del Trattato sul funzionamento dell’Unione (TFUE) introdotto dal Trattato di Lisbona, che apporta alcune modifiche all’art. 301 TCE nel senso di specificare tanto i destinatari delle misure restrittive adottate dall’Unione (sia entità statali, sia persone giuridiche o individui), quanto la necessità che siano contemplate adeguate garanzie individuali. A tale riguardo, l’art. 275 dello stesso TFUE precisa che la Corte di giustizia, in linea di principio incompetente a giudicare della legittimità di atti dell’Unione in materia di politica estera e di sicurezza comune, potrà viceversa intervenire per giudicare la legittimità proprio delle misure restrittive che siano adottate nel quadro della stessa politica estera dell’Unione.

Rispetto a questa impostazione – che, alla luce di quanto segue, pare applicabile solo in via teorica all’attuale quadro giuridico-politico delle relazioni UE/Balcani occidentali –, due sono i dati che distinguono la politica di condizionalità comunitaria nei settori dell’associazione con altri Stati terzi, in particolare con quelli dei Balcani occidentali, siano essi candidati o potenziali candidati 25 V. Corte giust. sent. emessa in sede d’appello, 3-9-2008, causa C-402/05 P, Yassin Abdullah Kadi e Al Barakaat International Foundation c. Consiglio dell’Unione europea e Commissione delle Comunità europee, in Racc., I-6351, proveniente da precedente sent. Trib. I grado, 21-9- 2005, causa T-315/01, ivi, II-3649, v. anche sent. Trib. I grado, 21-9-2005, causa T-306/01, Ahmed Ali Yusuf e Al Barakaat International Foundation c. Consiglio dell’Unione europea e Commissione, ivi, II-3533 ss; v. in dottrina, per l’Italia, B. Conforti, Decisioni del Consiglio di sicurezza e diritti fondamentali in una bizzarra sentenza del Tribunale comunitario di primo grado, in Dir. Un. eur., 2006, 333 e A. Gianelli, Il rapporto tra diritto internazionale e diritto comunitario secondo il Tribunale di primo grado delle Comunità europee, in Riv. Dir. internaz., 2006, 131, per la dottrina straniera, in particolare, R.A. Wessel, Editorial: The UN, the EU and Jus Cogens, in Int’l Organisations L. Rev., 2006, n. 1, 1 e C. Tomuschat, in C. Mkt. L. Rev., 2006, 537. Per indirizzi giurisprudenziali parzialmente diversi sulla stessa materia v. sent. Trib. I grado 12-12-2006, causa T-228/02, Organisation des Modjahedines du Peuple d’Iran c. Consiglio dell’Unione europea, non pubbl., e sent. 11-10-2007, causa C-117/06, Mollendorf e Mollendorf-Niehaus, in Racc., I-8361, spec. punto n. 78 relativo agli effetti degli atti comunitari negli ordinamenti nazionali, le cui autorità pubbliche e giudiziarie, nell’attuare quegli stessi atti, devono conformarsi ai precetti inerenti alla tutela dei diritti fondamentali cui l’ordinamento comunitario si conforma a sua volta.

20all’adesione all’UE. Innanzitutto, emerge come gli strumenti cui attinge la Comunità a partire dalla creazione del Processo di stabilizzazione e associazione (PAS)26 siano appunto gli accordi di associazione, ex art. 310 TCE (ora art. 217 del trattato sul funzionamento dell’Unione), cui si aggiunge il riferimento alla “stabilizzazione”, creando i cosiddetti accordi di stabilizzazione e associazione (ASA). Questi ultimi hanno specifica base giuridica nei Trattati comunitari e concepiscono al proprio interno procedure facenti capo al Consiglio d’associazione, che rappresenta la cornice istituzionale entro la quale vengono convogliate tutte le informazioni relative all’andamento delle relazioni CE/Stato associato per quanto riguarda l’adeguamento all’accordo27.

26 I documenti rilevanti sul punto sono la comunicazione della Commissione COM(1999)235 def., 29-5-1999 e conclusioni del CAGRE n. 2192 del 21/22-6-1999. 27 La prassi, tuttavia, non consente una chiara distinzione tra le diverse tipologie di accordi aventi base giuridica nell’art. 310 TCE (corrispondente, dopo le riforme di Lisbona, all’art. 217 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, TFUE, v. S. Peers, EC frameworks of International relations: Cooperation, Partnership and Association, in The general Law of EC External Relations, cit.). Stando all’interpretazione della stessa Corte (v. sent. Demirel cit. supra), un accordo di associazione, oltre a potere contenere disposizioni che hanno efficacia diretta, è idoneo ad instaurare relazioni privilegiate tra lo Stato associato e la Comunità, consentendo al primo di partecipare, in un modo peculiare, al funzionamento della seconda. Tuttavia, se è pur vero che la prassi in materia ha portato alla luce diversi livelli di “integrazione” dello Stato o degli Stati legati, tramite accordi di associazione, al sistema comunitario, rimane vero anche che alcuni di questi accordi, che più tipicamente hanno assunto su di sé gli obiettivi definiti al menzionato art. 310 TCE, hanno dato luogo ad ampia giurisprudenza della Corte di giustizia, particolarmente in tema di tutela dei diritti di circolazione e accesso ai mercati del lavoro nazionali da parte di cittadini degli Stati associati (v. l’excursus in materia di F. Jacobs, Direct Effect and Interpretation of International Agreements in the Recent case-law of the European Court of Justice, in A. Dashwood, M. Maresceau, Law and Practice of EU External Relations, cit.; questa giurisprudenza può anche essere direttamente reperita in L. Ferrari Bravo, A. Rizzo, Codice dell’Unione europea, Milano, Giuffrè, 2008, in particolare v. annotazioni agli artt. 39, 43, 49, 133, 281, 300 e 310 TCE). Questa interpretazione se, da un lato, va riferita correttamente allo specifico tema della portata giuridica delle norme di accordi di associazione e/o di cooperazione e associazione nonché delle conseguenti “fonti previste” da tali stessi accordi, dall’altro lato agevola certamente un “processo” di integrazione che procede verso ambiti anche solo indirettamente afferenti all’accordo di associazione (si pensi ai temi relativi all’organizzazione della giustizia e alle regole processuali). Si giustifica così anche lo studio delle prassi nazionali dei Paesi associati nell’ottica dell’adeguamento istituzionale e giuridico agli obblighi sanciti dall’accordo, v. per i Balcani occidentali e la Turchia i lavori relativi al Matra (Maatschappelijke Transformatie) Multi Country Project “Impact of EU Accession on the Legal Orders of New Member States and (Pre)Candidate Countries”, avviato nel 2002 e i cui risultati sono stati presentati nella conferenza conclusiva tenutasi all’Aja dal 13 al 16-10-2004. In generale, anche per un paragone con problematiche di adattamento al diritto comunitario sorte negli Stati “fondatori”, si veda A. Kellermann, J. De Zwaan, J. Czuczai (cur.), EU Enlargement. The Constitutional Impact at EU and National Level, cit.

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In secondo luogo, ma con pari importanza, almeno dalla fine degli anni novanta, il vero quid pluris della politica comunitaria riguardante i Balcani e il processo di allargamento sarà costituito dalla prospettiva dell’adesione, sebbene ciò verrà esplicitato solo a partire dall’inizio del nuovo secolo. Per cui, particolarmente in questo settore, gli strumenti negoziali della Comunità si rafforzano in un duplice senso: da un lato, in quanto gli accordi di associazione in qualche modo definiscono un “quadro istituzionale” delle relazioni bilaterali, dall’altro lato, in quanto in tali stessi accordi il riferimento ai criteri generali della democrazia e dello Stato di diritto, nonché alla tutela dei diritti fondamentali viene corroborato giuridicamente dal collegamento a disposizioni generali del TUE come quelle dell’art. 6 e dell’art. 4928.

28 Si vedano gli articoli 2 e 49 del nuovo Trattato sull’Unione europea (NTUE). Un’analisi complessiva della prassi inerente al ricorso alle clausole “diritti dell’uomo” in accordi comunitari (seguendo il modello generale della condizionalità ex post) ha comunque portato a delimitare la stessa a determinate ipotesi generali, e cioè ad a) accordi che mirino allo stabilimento di particolari mezzi e strutture istituzionali al fine di condurre il dialogo politico o vigilare sul rispetto dei diritti umani; oppure là dove tali clausole fungano da b) base per la eventuale sospensione dei benefici, in termini di agevolazione degli scambi o di trasferimenti finanziari, che possono derivare dall’accordo per lo Stato terzo che ne è parte; o c) quale strumento per impedire allo Stato terzo interessato di opporsi ad interventi di varia natura (verifiche sul territorio e nelle istituzioni, accesso alle informazioni governative etc.) aventi come contenuto l’accertamento del rispetto dei criteri democratici e di tutela dei diritti umani. In particolare, rispetto ai Paesi dove si attuano rapporti particolari, basati su accordi come quelli conclusi nel contesto del PAS, emerge il carattere che è stato definito di tipo “positivo” delle clausole diritti umani inserite nei relativi accordi (v. in tal senso il citato studio di L. Bartels, Human Rights and Democracy Clauses in the EU’s International Agreements, cit., 61 ss.). Sembra che tali configurazioni generali si attaglino al genus degli accordi di associazione, in particolare quelli riguardanti il citato PAS, anche alla luce di quanto rileverà in seguito alla diversa impostazione data al PAS stesso dal Consiglio di Salonicco e dalla conseguente prassi dei c.d. “partenariati europei” o di “adesione” (v. supra nota 13). Questi ultimi sono gli strumenti grazie ai quali la Comunità, tramite la Commissione, impone allo Stato terzo di offrire informazioni dettagliate ed esaurienti sullo stato d’avanzamento del proprio ordinamento nazionale rispetto ai parametri fissati negli ASA o negli accordi “transitori”, c.d. interim agreements, che siano già in vigore. Sulla base di queste informazioni, vengono redatte comunicazioni a scadenza in media semestrale che attestano i passi in avanti compiuti e le misure ancora da adottare in ogni settore rilevante. Per i Paesi dei Balcani occidentali, vedine la riproduzione sul sito della DG Allargamento della Commissione, http://ec.europa.eu/enlargement/how-does-it-work/progress_reports/index_en.htm. In merito ai citati interim agreements, occorre osservare che le disposizioni commerciali dell’ASA sono in genere applicate, prima dell’entrata in vigore di quest’ultimo, per mezzo appunto di un accordo transitorio

22In questo contesto, la politica di condizionalità nei confronti dei

Paesi dell’Europa centro-orientale e dei Balcani occidentali assume un connotato peculiare, cioè non semplicemente ancorato alla normale prassi delle politiche esterne della Comunità, ma già in qualche modo indirizzato a un sostanziale inserimento dei Paesi interessati nel quadro di regole e principi generali sottesi all’ordinamento comunitario e dell’Unione29. Anche da questo punto di vista è essenziale tenere conto basato sulle disposizioni dell’art. 133 TCE (cfr. art. 207 del Trattato sul funzionamento dell’Unione), in particolare nei paragrafi che prevedono una competenza esclusiva comunitaria nel settore della politica commerciale comune, come noto strettamente funzionale alla realizzazione dell’Unione doganale e della Tariffa doganale esterna. Pertanto gli interim agreements vertono essenzialmente sui settori della riforma doganale e tariffaria e dell’abolizione di misure equivalenti a dazi vietati o dell’abolizione di restrizioni quantitative delle importazioni e delle esportazioni di beni. Gli ASA con la Croazia e l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia e con l’Albania sono attualmente in vigore. 29 La dottrina attribuisce a quella dell’allargamento la qualità di una tipica politica comunitaria avente un “all-encompassing character”, anche in quanto tendente a conferire alla Commissione europea, in particolare tramite lo strumento indicato dei partenariati d’adesione, un particolare potere di penetrazione nei confronti di uno Stato formalmente estraneo al contesto istituzionale comunitario (v., ex multis, H. Grabbe, A Partnership for Accession? The Implication of EU Conditionality for the Central and East European Applicants, Working Paper no. 99/12, European University Institute Robert Schuman Centre for Advanced Studies, 1999). Risalendo dal livello “operativo”, concernente gli strumenti del processo di allargamento, siano essi accordi o atti conferenti particolari funzioni alle istituzioni comunitarie, al livello del diritto primario e riferendoci ai testi dei trattati UE e CE come risultanti dalle riforme sino al Trattato di Nizza, si è già accennato al fatto che la stessa congiunta lettura degli art. 6 e 49 TUE (rilevandosi che le riforme di Lisbona non modificano nella sostanza il secondo dei due articoli citati), offre una coerente ed efficace base giuridica al processo d’allargamento, tenuto conto che l’art. 49, riproduce, con modifiche, l’art. 309 del TCE (articolo abrogato con le riforme di Lisbona), realizzando così non solo simbolicamente il superamento della ripartizione tra pilastri (posto infatti che l’art. 49 TUE non figura tra le disposizioni rispetto alle quali opera l’art. 47 TUE, sempre in riferimento ai testi ante Lisbona). La prassi seguita dalle istituzioni comunitarie nella redazione degli accordi di adesione (quello siglato ad Atene nel 2003 e quello relativo a Romania e Bulgaria) ha poi prodotto norme (di diritto primario) che dimostrano lo sforzo da parte comunitaria di realizzare un obiettivo ambizioso (l’allargamento a dodici nuovi Stati) rafforzando alcuni istituti fondativi del diritto comunitario in senso “difensivo” dell’ordine giuridico creato dai Trattati. Su questi temi v., per tutti e per la bibliografia citata, A. Rizzo, L’allargamento ad est dell’Unione europea. Problematiche del Trattato di adesione, Napoli, ES, 2004, in particolare da 51 a 80, in riferimento alla norma dell’art. 6 dell’Atto relativo all’adesione della Repubblica ceca, di Estonia, Cipro, Lettonia, Lituania, Ungheria, Malta, Polonia, di Slovenia e della Repubblica slovacca, siglato ad Atene (in G.U.U.E. L 236, 23-9-2003, 17 ss.) e alla norma, di eguale tenore, dell’art. 6 dell’Atto relativo alle condizioni di adesione della Repubblica di Bulgaria e della Romania all’Unione europea annesso al Trattato di adesione (in G.U.U.E. L 157, 21-6 2005, 11 ss.). L’art. 6 dei citati Atti di adesione concerne i principi relativi all’adesione dei nuovi Stati agli accordi dell’Unione ex art. 24 e 38 TUE (cfr. art. 37 del nuovo Trattato sull’Unione europea, come introdotto dal Trattato di Lisbona) e a quelli della Comunità e contiene una particolare disposizione (par. 10) relativa al rapporto tra obblighi derivanti dai Trattati comunitari e dell’Unione e quelli

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della double track che l’Unione europea, da un lato, e la Comunità europea, dall’altro lato, tendono generalmente a percorrere indirizzando la loro azione nei confronti degli Stati terzi, senza che ciò sia in contraddizione con un ormai ordinario fenomeno di “ibridazione” tra strumenti di primo e secondo pilastro30.

Al fine però di cogliere la ratio intima della politica dell’Unione nei confronti dei Balcani occidentali, è necessario anche seguire l’iter logico giuridico che è sotteso all’affermazione di tale politica. A tale riguardo, si deve ricordare come i fatti del Kosovo, successivi all’instaurazione della politica comunitaria di condizionalità, abbiano suscitato reazioni ufficiali dell’Unione, che ha fatto riferimento principalmente alle rilevanti risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU, volte a far cessare interventi illegittimi del Governo serbo, in quanto ritenuti configuranti ipotesi di minaccia alla pace e alla relativi ad un accordo c.d. “pre-comunitario” vigente tra un nuovo Stato membro ed altri Stati terzi (v. art. 307 TCE corrispondente all’attuale art. 351 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea; su tale materia v. anche R. Mastroianni, Commento all’art. 307 TCE, in A. Tizzano (cur.), Trattati dell’Unione europea e della Comunità europea, Milano, Giuffrè, 2004, nonché A. Rizzo, Elementi di approfondimento e sviluppo del diritto comunitario e dell’Unione Europea nel processo di allargamento, in Studi sull’integrazione eur., 2006, n. 2, 28). 30 V. anche quanto riferito supra nota 10 in merito al ruolo centrale assunto, dopo le riforme di Amsterdam, dagli accordi internazionali dell’Unione, particolarmente rilevanti per il consolidamento dei rapporti tra UE e Paesi dell’area balcanica e progressiva stabilizzazione interna di questa stessa area. E se è vero, com’è vero, che quegli accordi sono essenzialmente strumentali alla definizione dello status e alla regolamentazione giuridica delle missioni dell’Unione stessa, rimane altresì il fatto che la sovrapposizione tra strumenti di primo e secondo pilastro non riguarda solo il ricorso a differenti atti normativi o strumenti negoziali basati di volta in volta sul TCE o sul TUE (v. supra nota 19), ma caratterizza anche certe importanti scelte di rango istituzionale. Tra queste, spicca la nomina del Rappresentante Speciale dell’Unione europea (RSUE) presso la FYROM, evento che costituisce addirittura un caso di esperimento anticipatore dell’istituto del c.d. “doppio mandato” o “doppio cappello” (double hat). Il RSUE, originariamente concepito come strumento essenzialmente riferibile alle competenze dell’Alto rappresentante PESC (v. art. 26 TUE, nella versione anteriore alle riforme di Lisbona, cfr. ora art. 27 del nuovo Trattato sull’Unione europea), in occasione del conferimento all’ex Repubblica iugoslava di Macedonia dello status di Paese candidato (conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Bruxelles del dicembre 2005, 7), è stato infatti identificato con il capo della delegazione della Commissione a Skopje, con fenomeno di unificazione “personale” tra istituti di primo e secondo pilastro che il Trattato di Lisbona riproduce – a un livello gerarchico superiore – attribuendo all’Alto rappresentante per la politica estera la funzione anche di vice-presidente della Commissione europea.

24sicurezza internazionale (così per la prima volta nella risoluzione 1160 del 1998). Quando l’emergenza in Kosovo venne meno, la stessa Unione europea provvide a fare propri i criteri fissati nella risoluzione 1244 del 1999, che, nell’istituire l’Amministrazione provvisoria sotto l’egida delle Nazioni Unite (UNMIK), stabiliva la politica cosiddetta di “standards before status” – ossia conformità alle norme prima dell’eventuale autonomia –, proprio in quanto volta al previo ottenimento, all’interno dell’area interessata, di un adeguato sistema di tutela delle minoranze e dei diritti fondamentali nonché di affermazione dello Stato di diritto, requisiti ritenuti anche in tal caso necessari a configurare quella stessa ipotesi di auto-governo che fu matrice delle inimicizie interne e della sproporzionata reazione del Governo serbo31.

Ma se questo è certamente il contesto generale, si deve concludere che la stessa politica di condizionalità, quale strumento dell’azione esterna comunitaria e dell’Unione, subisce comunque alcuni limiti che le sono propri. Difatti l’Unione, quando richiede l’acquisizione di alcuni parametri funzionali all’ottenimento di determinati standard, agisce in coerenza con il contesto di relazioni e obblighi internazionali attestati dallo stesso TUE nei termini sopra accennati (oltre al caso tipico del Kosovo, ai fini della sua maggiore autonomia dallo Stato serbo, il discorso si può estendere al progressivo conseguimento da parte di Stati terzi di alcuni diversi status durante il processo di adesione all’Unione, ad esempio come Paesi potenziali candidati, candidati all’adesione o aderenti)32.

31 Altro organismo internazionale cui l’Unione europea guarda in ipotesi siffatte è certamente l’OSCE, con ciò attuando quanto sancito dal terzo trattino dell’art. 11 TUE (corrispondente all’art. 24 del nuovo Trattato sull’Unione europea: la norma del precedente Trattato sull’Unione metteva appunto in relazione gli obiettivi di politica estera dell’Unione con quelli sanciti nell’Atto finale di Helsinki e nella Carta di Parigi). Ulteriore quadro d’azione dell’Unione europea è rappresentato sicuramente dalla NATO e dall’Unione europea occidentale, così come sancito all’art. 17 TUE (corrispondente all’art. 42 del nuovo Trattato sull’Unione, v. la bibliografia cit. supra nota 10 e, per quanto attiene al ruolo dell’ONU nell’area balcanica, v. il lavoro generale di I. Ingravallo, Il Consiglio di sicurezza e l’amministrazione diretta dei territori, Napoli, ES, 2008, spec. 72, 89, 112). Sul Kosovo si torna infra v. nota 49. 32 D’altro canto, le condizioni richieste dall’Unione europea ad uno Stato terzo per avviare o mantenere reciproche relazioni giuridiche e la cui violazione possa legittimare l’attivazione degli strumenti sanzionatori accennati in precedenza (v. supra note 24 e 25), risalgono naturaliter a istituti che la comunità internazionale ha sviluppato in merito a violazioni di particolari obblighi di diritto internazionale (v. in materia e per tutti P. Picone, Comunità internazionale e obblighi erga omnes, Napoli, Jovene, 2006; sulla distinzione tra regole di jus cogens e obblighi erga omnes e i diversi ruoli svolti da Corte internazionale di giustizia e dai Tribunali penali ad hoc, v. Corte internaz. giust., sent. 26-2-2007, nel caso concernente l’applicazione della Convenzione sulla prevenzione e sulla repressione del crimine di genocidio Bosnia Erzegovina c. Serbia e Montenegro, riprodotta in Riv. Dir. internaz., 2007, 459 ss.; sulla crisi del 1999, si

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Accanto a quelle generali qui accennate, vi sono però altre condizioni di cui tenere conto, relative particolarmente al processo di consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto nonché dei diritti fondamentali. In tale ambito materiale – con particolare riferimento a due leading countries come la Croazia (Paese candidato all’adesione) e la Serbia (Paese potenziale candidato e che, peraltro, con il referendum del maggio 2006 “perde” il Montenegro, attualmente anch’esso potenziale candidato) – potrebbero essere inclusi anche gli obblighi derivanti da disposizioni di trattati internazionali inseriti nel suindicato processo di Royaumont e che l’Unione ha poi inserito tra le condizioni “specifiche” per la regione balcanica volte a differenziare quest’ultima rispetto al blocco degli altri Paesi dell’Europa centro-orientale. Si tratta in particolare degli obblighi derivanti dall’instaurazione dei Tribunali penali internazionali ad hoc, che si occupano degli episodi di violenze e deportazioni avvenuti negli anni novanta. Nel richiedere che tutti i soggetti ritenuti responsabili di) tali episodi siano assicurati alla giustizia di questi Tribunali (ed anche a quella delle forze di polizia e delle Corti nazionali), rilevano diversi tipi di condizioni, tutte riconducibili a obiettivi propri dell’Unione europea, pur se discendenti, come detto, dagli obiettivi dei menzionati accordi internazionali che predispongono i suddetti strumenti di giustizia penale internazionale. Si pensi, ad esempio, alla condizione relativa all’effettiva sussistenza di un sistema democratico che garantisca una reale discontinuità con apparati di governo conniventi con settori della

vedano le conclusioni del Consiglio europeo straordinario di Berlino del 23/24-3-1999 che qualche autore – cfr. F. Hoffmeister, The contribution of EU Practice to International Law, in M. Cremona (cur.), Developments in EU External Relations Law, cit. – collega all’affermazione di un diritto all’intervento della comunità internazionale in casi di violazioni “almeno” riconducibili alle ipotesi generali di genocide, war crimes, ethnic cleansing and crimes against humanity, come più recentemente individuate nella ris. 60/1 dell’Assemblea generale dell’ONU del 24-10-2005, cd. 2005 World Summit Outcome in merito al quale v. ex multis, P. Gargiulo Dall’intervento umanitario alla responsabilità di proteggere: riflessioni sull’uso della forza e la tutela dei diritti umani, in la Comunità internazionale, n. 4/2007, p 639 ss. e E. Sciso, L’uso della forza nella (mancata) riforma delle Nazioni Unite, in la Comunità internazionale,1/2006, 17 ss.; sul ruolo dell’Unione europea in contesti recenti, diversi da quello della crisi del Kosovo, v. la ricostruzione di P. Pillitu, Le sanzioni dell’Unione e della Comunità europea nei confronti dello Zimbabwe e di esponenti del suo governo per gravi violazioni dei diritti umani e dei principi democratici, in Riv. Dir. internaz., 2003, 90 ss.).

26criminalità che potremmo definire “di regime”. Ma emerge altresì l’obiettivo della realizzazione di uno Stato di diritto (rule of law) tramite l’instaurazione di un sistema di polizia e giudiziario che deve certamente dimostrarsi in grado di garantire anche il perseguimento di crimini internazionali (perché in quei Paesi il tema della lotta alla criminalità interna e internazionale è connessa indissolubilmente a quello della cattura dei criminali di guerra) e che si dimostri altresì capace di garantire pieno rispetto dei criteri di legalità formale, termine sintetico al quale dobbiamo ricondurre, nel settore penale, il principio di individualità della responsabilità penale e quello di legalità dei reati e delle pene. Superfluo ricordare che, per la concreta attuazione degli obiettivi indicati, rileva inoltre la piena rispondenza ai parametri della CEDU dei conseguenti procedimenti restrittivi della libertà personale e giudiziari. Ebbene, come già accennato, tutti questi obiettivi sono riconducibili a quelli tipici della cooperazione nei settori di polizia e giudiziario, che assumono specifici connotati nel contesto delle riforme adottate con il Trattato di Amsterdam (cfr. art. 29 ss. TUE, confluiti tutti nel Titolo V del Trattato sul funzionamento dell’Unione concernente il cd. “spazio di libertà di sicurezza e di giustizia”, v. in particolare, per quanto attiene alla cooperazione giudiziaria in campo penale, articoli da 82 in poi). E’ chiaro che l’Unione richiede il soddisfacimento di tali condizioni in quanto vuole che lo Stato contraente dimostri qualcosa di più rispetto al risultato finale atteso (la consegna del criminale, che è obiettivo volto a garantire il pieno adempimento degli obblighi previsti dalle rilevanti fonti internazionali istitutive dei Tribunali ad hoc), distinguendo ancora una volta i propri obiettivi da quelli di altri organismi internazionali e della comunità internazionale nel suo complesso.

Emerge così una chiara prospettiva di progressivo “assorbimento” dei Paesi interessati nello “spazio giudiziario” dell’Unione (ma anche di “libertà, sicurezza e giustizia”, cfr. art. 2 TUE, cfr. ora il citato nuovo articolo 82 del Trattato sul funzionamento dell’Unione), cui è presupposto il soddisfacimento delle condizioni per l’adesione sancite nel combinato disposto degli art. 6 e 49 TUE (l’art. 49 è sostanzialmente riprodotto nell’articolo del nuovo Trattato sull’Unione europea, recante medesimo numero, mentre il riferimento ai diritti fondamentali è spostato all’art. 2 dello stesso trattato). Ciò verrà reso evidente nell’Agenda di Salonicco33, in particolare nel punto 1 di tale documento, in cui, in tema di consolidamento della pace e

33 The Thessaloniki Agenda for the Western Balkans – Moving towards European integration; vedine il testo nelle conclusioni (n. 2518) del CAGRE, 16-6-2003, 10 ss.

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dello sviluppo democratico, la consegna all’Aja dei criminali di guerra è messa in correlazione con “interessi propri” dell’Unione europea34.

Tenuto conto di quanto sopra, resta da osservare che in ogni caso l’Unione e la Comunità non agiscono secondo un unico disegno nei confronti di tutti gli Stati terzi, non risultando sempre esaustiva un’indagine circa strumenti ricorrenti: trattandosi, a seconda dei casi, di accordi di partenariato o cooperazione o ancora di accordi di associazione, in essi ritroviamo inserite grosso modo clausole di condizionalità che esprimono i concetti e le questioni interpretative sin qui esposti, la cui reale portata deriva in definitiva anche, se non principalmente, dal contesto politico che li precede e che, come si sarà intuito, risiede essenzialmente nelle determinazioni del Consiglio europeo e del CAGRE, anche quando queste provengano dall’azione di impulso della Commissione europea35. 34 Sui progressi apportati dal Trattato di Lisbona alla materia della cooperazione di polizia e giustizia nel settore penale, v. infra nota 48. Si deve aggiungere che la politica di condizionalità nei rapporti Unione/Balcani occidentali assume connotati specifici per il perseguimento di finalità proprie dell’ordinamento comunitario che risalgono al divieto di discriminazioni in base alla nazionalità sancito all’art. 12 TCE, norma confluita senza modifiche lessicali nell’art. 18 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, v. supra nota 9. Si pensi a tale riguardo alle questioni relative alla tutela della proprietà privata, che in tutti i Paesi fuoriusciti dai regimi di socialismo reale ha rappresentato il parametro principale per valutare l’adeguamento degli stessi sia al sistema di tutela fissato dalla CEDU sia all’effettiva garanzia di creare un mercato dei capitali conforme alla norma dell’art. 56 TCE (cfr. articolo 63 del Trattato sul funzionamento dell’Unione), che sancisce il divieto di ostacoli alla libera circolazione dei capitali con effetti diretti negli ordinamenti nazionali. Da ciò deriva quindi che la congiunta operatività della tutela del diritto di proprietà e della libera circolazione dei capitali impone agli Stati aderenti alla Comunità adeguate riforme di rango legislativo, quando non costituzionale, nella misura in cui i regimi nazionali di proprietà privata ricevano una disciplina differente – cioè discriminatoria – a seconda della nazionalità di coloro ai quali tale disciplina si applichi. 35 V. le osservazioni svolte supra note 16 e 27. Anche la distinzione tra condizionalità ex ante o ex post sembra posta in crisi dalla stessa prassi più recente riferita ai Balcani occidentali, tenuto conto di come alcuni accordi di associazione (pur anticipati dalla stipula ed entrata in vigore degli interim agreements) siano entrati in vigore a distanza di qualche anno dall’instaurazione del PAS e dall’Agenda di Salonicco. Ciò posto, all’esito di un esame della prassi comunitaria rispetto ai Balcani occidentali, non sembra che alla stessa possano comunque applicarsi i criteri ricavabili dal diritto generale dei trattati, sebbene questi ne rappresentino il quadro teorico di riferimento (per come d’altronde ammesso da prassi e dottrina comunitarie medesime, cfr. R. Monaco, C. Curti Gialdino, Manuale di diritto internazionale pubblico, III ed., Torino, UTET, 2009, 195 ss.).

28 3. – La novità del Processo di stabilizzazione e associazione per

i Balcani occidentali è data dall’individuazione di strumenti negoziali “dedicati”, rappresentati dagli accordi di associazione, disponibili per tutti i Paesi in quanto strumenti utili per l’instaurazione di relazioni più avanzate e giuridicamente certe e che potranno assurgere a esempi di “successful stories” del processo di condizionalità applicato singolarmente a ciascun Paese. Tali accordi, è detto nelle citate conclusioni CAGRE del 1999, terranno comunque conto della “situazione peculiare e mutevole di ciascun Paese e saranno oggetto di una introduzione graduale nelle relazioni con l’Unione in funzione della capacità di ognuno di essi di assolvere gli obblighi contrattuali reciproci nonché del loro effettivo contributo alla cooperazione regionale”36.

Nel 2000 il Consiglio europeo di Feira indicherà in maniera esplicita che gli strumenti posti in essere a livello dell’Unione europea nelle relazioni con i Balcani occidentali mirano all’obiettivo dell’integrazione di tali Paesi “nel contesto politico ed economico dell’Europa”37. In quell’occasione il Consiglio ha conferito a tutti i Paesi dell’area la qualità di “potenziali candidati” all’adesione all’Unione. E qui rileva quell’elemento sopra menzionato della prevalenza di obiettivi politici sulla verifica in concreto del soddisfacimento delle condizioni richieste dal processo iniziato nel 1996/1997 (applicazione della condizionalità ai Paesi dei Balcani).

36 V. supra nota 28. Gli strumenti comunque sono diversi e non necessariamente applicati in modo contestuale, ed includeranno, oltre agli ASA, misure commerciali autonome ed altre relazioni economico-commerciali, assistenza economica e finanziaria (ad esempio tramite il piano d’azione PHARE e il programma OBNOVA), aiuti finanziari e sostegno alla bilancia dei pagamenti, assistenza al processo di democratizzazione e alla società civile, aiuti umanitari a profughi, rimpatriati e altre persone disagiate, cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni, sviluppo del dialogo politico. Ovviamente, il consolidamento di questa politica è funzione dell’impegno che ciascun Paese compirà per avvalersi pienamente del sostegno offerto nonché dall’efficace combinazione dei vari strumenti sopra elencati. 37 Il termine rimane generico e di non facile distinzione rispetto a quello, forse giuridicamente più certo (in quanto avente una base giuridica chiara nell’art. 310 TCE, cfr. art. 217 del Trattato sul funzionamento dell’Unione), di associazione, mentre la stabilizzazione riguarda un contesto di obiettivi e misure più ampio ma allo stesso tempo ben consolidato. Così menzionata, la nozione di “integrazione” sembra peraltro riferirsi in modo particolare a un “processo di integrazione tra ordinamenti ‘nazionali’”, là dove il “contesto politico ed economico” dell’Europa potrebbe riguardare aspetti non esclusivamente attinenti all’ordinamento comunitario, ma più in generale al progressivo avvicinamento agli standard sanciti nella CEDU.

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L’attribuzione formale ai Paesi dei Balcani occidentali di uno status che è tecnicamente inerente al contesto di regole che accompagnano l’allargamento dell’Unione (v. art. 6 e 49 TUE, cfr. ora articoli 2 e 49 del nuovo Trattato sull’Unione europea) implica che ad essi si dia la concreta possibilità di inserirsi in un processo dotato di una caratteristica particolare: l’irreversibilità. Si stabilisce in sostanza, seppure non espressamente, l’impossibilità di prevedere un arretramento delle relazioni quantomeno a una fase anteriore all’instaurazione della politica di condizionalità. Non rileva più solo se quelle condizioni siano in effetti soddisfatte o siano ancora da soddisfare, ma è importante l’attribuzione di uno status giuridico (quello di potenziali candidati) che serve a distinguere definitivamente i Paesi interessati da qualunque altro Stato terzo. Le condizioni indicate d’ora in poi serviranno a valutare il maggiore o minore stato d’avanzamento di ogni singolo Paese verso l’obiettivo – ora chiaramente identificato – dell’adesione, ma non potranno mai implicare la possibilità di un’esclusione totale da tale obiettivo. Diviene così evidente come l’Unione intenda superare qualunque ipotesi di blocco delle relazioni (pericolo sempre attuale data la strutturale instabilità politica ed economica di quei Paesi) precisamente al fine di vincolare il quadro giuridico entro il quale le relazioni con lo Stato terzo interessato devono essere inserite38.

Della citata Agenda di Salonicco39 – adottata a seguito della stipulazione dell’ASA con la Croazia, che ha chiesto nel frattempo 38 Il dilemma, cioè, tra “meglio dentro” o “meglio fuori” è in qualche modo risolto alla radice e il quadro dei soggetti che saranno coinvolti nel processo di adesione è sostanzialmente offerto. Ovviamente questo non assicura tempi e certezza del risultato, cioè la stipula degli accordi di stabilizzazione e associazione e, in prospettiva finale rispetto a tali accordi, l’adesione. In questo contesto, la Dichiarazione di Zagabria del novembre 2000 instaura un altro strumento finanziario dedicato specificamente al processo di stabilizzazione e che viene denominato CARDS (Community Assistance for Reconstruction, Democratisation and Stabilisation), che varrà a coprire almeno 6 anni di interventi comunitari sotto forma di sostegno istituzionale e strutturale per tutti i Paesi dei Balcani occidentali mediante progetti di tipo tanto bilaterale quanto multilaterale, ossia rivolti a tutta la regione complessivamente considerata, anche al fine di promuovere, in questo modo, lo strumento della cooperazione regionale. A partire dal periodo di programmazione 2007-2013, lo strumento finanziario principale è rappresentato dall’Instrument for pre-accession assistance (IPA), cfr. reg. (CE) 1085/2006 del Consiglio, 17-7-2006, in G.U.U.E. L 210, 31-7-2006, 82). 39 V. supra nota 33.

30l’adesione – occorre richiamare diversi aspetti. Il primo attiene all’applicazione ai Balcani occidentali dello strumento dei partenariati europei40, la cui rilevanza è data dalla particolare capacità di penetrazione nell’ordinamento dello Stato partner che viene offerta alla Commissione europea per quanto concerne la verifica sia della conformità ai criteri generali della condizionalità politica (anche in termini di azione di “promozione” dei criteri democratici nello Stato terzo) sia dell’attuazione delle diverse priorità rispetto alle quali le disposizioni degli accordi rilevanti (interim agreements o ASA) e gli obblighi che da esse derivano rappresentano la cornice essenziale. Rileva inoltre la possibilità, indicata sempre nel documento di Salonicco, che i Paesi dei Balcani occidentali siano inclusi (anche come osservatori, oltre che mediante accordi bilaterali) in processi di adozione di atti di indirizzo, dichiarazioni o addirittura posizioni comuni PESC41. In stretta connessione a ciò rileva un particolare accenno al capitolo dell’Agenda dedicato alla riconciliazione interna e alla cooperazione regionale42.

In questo contesto assumono quindi particolare importanza quegli aspetti di cooperazione regionale nei settori giudiziario e di polizia nonché concernenti la libera circolazione delle persone, realizzati mediante stipulazione di accordi bilaterali in materia di visti e controlli alle frontiere (risultando evidentemente propedeutico a tali settori l’altro ambito di cooperazione regionale relativo alla cooperazione in campo commerciale, nel frattempo attuata anche mediante adesione dei Paesi dell’area balcanica all’accordo di libero scambio dell’Europa centro-orientale, c.d. CEFTA). In complesso, la cooperazione regionale è certamente un elemento di forte 40 V. supra note 13 e 28. 41 Elemento direi rilevante che apre la strada verso una sostanziale modifica di approccio delle politiche estere dei Paesi dei Balcani occidentali, che devono quindi manifestarsi come politiche quanto più “EU-oriented”, di modo che venga anticipato il rispetto del successivo obbligo di adeguarsi a tutti gli atti di politica estera dell’Unione, in conformità con il su accennato obbligo di adeguamento all’acquis comunitario individuato sin dai criteri di Copenaghen del 1993 per i Paesi richiedenti l’adesione (acquis cui attengono sicuramente gli atti di diritto derivato PESC, compresi gli accordi ex art. 24 TUE, v. art. 37 del nuovo Trattato sull’Unione europea). 42 All’obiettivo della riconciliazione sono rivolte le riforme da intraprendere nelle politiche di accoglimento e riammissione di sfollati e rifugiati, cui consegue la necessità non solo di evitare misure discriminatorie sulla base della nazionalità o dell’appartenenza etnica, ma soprattutto di reinserire nel tessuto sociale e politico dello Stato i soggetti oggetto della specifica tutela (il reinserimento sarebbe riconducibile al rispetto dell’art. 12 TCE in tema di divieto di discriminazioni in base alla nazionalità, mentre per il divieto di discriminazioni in base all’origine etnica rileva l’art. 13 TCE, cfr. articoli 18 e 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE).

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caratterizzazione del processo di allargamento ai Balcani, atteggiandosi come vera e propria “quarta” condizione rispetto alle tre imposte dal Consiglio di Copenaghen 199343.

Nel Documento di strategia del 2005 sull’ampliamento la Commissione rileva un miglioramento della situazione, ma si sottolinea che devono ancora essere risolti problemi tutt’altro che trascurabili44. A

43 Tali aspetti sono a propria volta funzione del progressivo inserimento di alcuni dei nuovi Paesi membri dell’Unione, segnatamente Bulgaria e Romania, nell’acquis di Schengen. Si deve al riguardo ricordare che tali nuovi Paesi membri, oltre ad essere formalmente esclusi da alcuni aspetti del suddetto acquis (in particolare quelli relativi ai controlli alle frontiere interne e all’adesione al sistema di controllo informatizzato SIS II), subiscono altresì gli effetti di una clausola di salvaguardia (v. art. 38 Atto di adesione) nel settore della cooperazione di polizia e giudiziaria. Basti questo richiamo per comprendere come una progressiva armonizzazione delle legislazioni interne di tutti i Paesi dell’area balcanica (orientale e occidentale) proprio in materia di controlli alle frontiere e giustizia penale, anche tramite l’intensificarsi di relazioni mediante “reti” di accordi bilaterali (e l’inserimento definitivo di Bulgaria e Romania nel sistema di cooperazione del terzo pilastro UE sarebbe a questo punto un passo decisivo a tal riguardo), sia strumentale alla maggiore efficacia di tali controlli lungo il c.d. “corridoio balcanico”. Esattamente in questa direzione si indirizzano gli accordi di facilitazione dei visti, promossi dall’Unione con tutti i Paesi dei Balcani occidentali e ormai entrati in vigore dal gennaio 2008. D’altro canto tali accordi erano stati fortemente richiesti da cittadini e governi locali e sottoposti, proprio nell’agenda di Salonicco, alla condizione che nell’intera area fossero raggiunti i più volte sopra accennati standards relativi allo Stato di diritto, particolarmente relativi all’adeguamento dei sistemi di polizia e di giustizia penale in materia di lotta alla criminalità organizzata, alla corruzione e all’immigrazione illegale; v., su questo specifico aspetto, A. Rizzo, Elementi di approfondimento e sviluppo…, cit. 44 V. COM(2005)561 def., cit. Un problema “orizzontale”, che coinvolge i Paesi dell’area nei settori della pubblica amministrazione, della giustizia e della gestione dell’ordine pubblico, riguarda ancora l’insufficiente livello di indipendenza dall’ingerenza politica in tali ambiti nonché la strutturale carenza di risorse umane ed economiche, mentre si raccomanda anche l’assunzione di personale proveniente da diverse minoranze sia nell’amministrazione pubblica che nella magistratura. L’adeguamento di tali Paesi, ma non tutti, alla decisione del Consiglio sul congelamento dei capitali delle persone fisiche incriminate dal Tribunale penale internazionale per la ex Iugoslavia (v. dec. 2004/767/PESC del Consiglio, 15-11-2004, in G.U.U.E. L 339, 16-11-2004, 16, che applica la posizione comune 2004/694/PESC) è funzione dell’inclusione dei Paesi coinvolti nel PAS nel quadro giuridico della PESC. Ancora, si ribadisce la centralità e peculiarità della cooperazione regionale ai fini di un’ulteriore stabilizzazione e riconciliazione e perché indicativa della capacità di un Paese di gestire relazioni più approfondite con l’UE. Nel settore economico l’applicazione dei diritti di proprietà e dei contratti è vista ancora come problematica. Si parla al riguardo di prevalenza ancora del settore informale, ossia dell’economia sommersa che implica un evidente dumping di tutela della concorrenza e dei

32parte tali considerazioni, più o meno tuttora valide, si ribadisce una prospettiva di adesione, offerta a tutti i Paesi dei Balcani occidentali, che implica il previo adempimento delle condizioni necessarie, da una parte, e l’assunzione dell’impegno a “garantire” l’adesione, dall’altra parte. Si tratta quindi, prima facie, dell’assunzione di un impegno “reciproco”, precisandosi però che tutti i Paesi suddetti, trovandosi a stadi diversi del cammino verso i parametri UE, potranno realizzare la loro prospettiva europea solo attenendosi ad una precisa “tabella di marcia”: ciò che lascia emergere, ancora una volta, il carattere “ibrido” del processo di allargamento come disciplinato dell’art. 49 TUE, che non struttura i Trattati istitutivi come un’ipotesi di classico trattato multilaterale “aperto”, ma consente alle istituzioni comunitarie un ampio margine di valutazione riguardo al soddisfacimento delle condizioni richiamate all’art. 49 TUE45.

In tempi recenti, è proprio la citata “quarta condizione”, relativa all’instaurazione di una effettiva cooperazione regionale tra i Paesi dei Balcani occidentali, ad aver ricevuto ulteriore impulso mediante alcuni strumenti di carattere istituzionale. Spicca fra questi, soprattutto per la sua recentissima instaurazione, il Regional Cooperation Council (RCC), soggetto che nelle premesse eredita le finalità già assunte dal Patto di stabilità per l’Europa sud-orientale 46. Possono automaticamente far parte del RCC i Paesi che sono già membri del Processo di cooperazione dell’Europa Sudorientale (Southeast European Cooperation Process, SEECP47), strumento con maggiori consumatori. Infatti, uno degli obiettivi primari individuati negli ASA e negli interim agreements è quello dello sviluppo dei regimi di market surveillance nel settore della produzione industriale e di salvaguardia della sicurezza alimentare (food safety), nel settore dei prodotti agricoli. Si sottolinea però come la liberalizzazione del commercio sia progredita essenzialmente grazie al completamento di una rete regionale di accordi di libero scambio. Per avere delle economie di mercato funzionanti, si prevede quindi che i Paesi debbano promuovere una maggiore stabilizzazione macroeconomica e portare avanti le riforme strutturali, comprese la liberalizzazione e la privatizzazione. Questo processo richiede quadri normativi adeguati e strutture efficaci di governance societaria. 45 Cfr. per queste considerazioni A. Rizzo, Elementi di approfondimento e sviluppo…, cit. 46 Sul Patto di stabilità v. supra il riferimento sub nota 7, ricordandosi, in questa sede, che l’iniziativa di tale strumento convenzionale risale alla dec. 93/728/PESC del Consiglio, 20-12-1993, relativa all’azione comune adottata dal Consiglio in base all’articolo J.3 del Trattato sull’Unione europea concernente la conferenza di avvio del Patto di stabilità, in G.U.C.E. L 339, 31-12-1993. 47 La peculiarità di tale iniziativa riguarda il fatto che essa nasce su impulso dei soli Paesi dell’Europa sud-orientale, diversamente da quanto rilevabile in iniziative analoghe come il citato Patto di stabilità (nato su proposta dell’Unione europea) o come l’Iniziativa per la cooperazione nell’Europa sud-orientale (c.d. SECI, Southeast European Cooperative Initiative, nata su proposta degli Stati Uniti e inquadrata negli

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ambizioni di coordinamento politico. Ciò che invece evidenzia la centralità data, mediante l’RCC, agli obiettivi di cooperazione regionale in senso conforme agli obiettivi fissati a Salonicco deriva da un aspetto procedurale concernente la circostanza per cui le sessioni annuali del RCC si tengono proprio in concomitanza con quelle del SEECP: tanto è vero che le sessioni del RCC sono presiedute dal Segretario generale e dal Ministro degli esteri della c.d. “Chairmanship in Office” del SEECP. Peraltro, sono autorizzati a partecipare alle sessioni del RCC non i vertici dei Paesi membri – in particolare, ovviamente, di quelli direttamente interessati, poiché l’RCC raduna anche Stati non europei, oltre a diversi organismi internazionali e sovranazionali tra cui la Trojka dell’Unione, cioè una delegazione di quest’ultima composta dalla presidenza di turno, da un rappresentante della Commissione europea e da uno del Segretariato del Consiglio –, ma anche e soprattutto funzionari pubblici, certamente di livello dirigenziale, delle amministrazioni nazionali: ciò che dimostra la finalità intima di questa iniziativa, fortemente connessa alla dimensione “operativa” della cooperazione regionale che guarda alla soluzione il più possibile effettiva e pratica delle questioni emergenti dalle relazioni tra i Paesi interessati.

La fiducia che gli ambienti comunitari ripongono nel processo di cooperazione regionale emerge dalla circostanza per cui la stessa Commissione europea è finanziatrice per un terzo del bilancio necessario al funzionamento del Segretariato del RCC. La Commissione giustifica questa sua partecipazione diretta alle attività dell’RCC non solo in quanto tale strumento istituzionale consente ai Paesi interessati di indirizzare la propria azione verso la soluzione di problemi di volta in volta emergenti nelle relazioni reciproche, ma anche in quanto tramite esso la Commissione è in grado di recepire con immediatezza le esigenze di dimensione nazionale e trans-nazionale alle quali rispondere predisponendo i propri strumenti di intervento finanziari e politici. Da notarsi che l’RCC si situa in un contesto di

obiettivi OSCE). Vale la pena segnalare che membri del SEECP sono anche gli attuali Paesi dei Balcani orientali (Bulgaria e Romania, che restano fuori dal Processo di stabilizzazione e associazione a motivo dell’avvenuta adesione all’UE) e la Turchia, Paese candidato all’adesione all’UE insieme alla Croazia e alla ex Repubblica iugoslava di Macedonia.

34strumenti tanto preesistenti (i già citati Patto di stabilità e SEECP nonché, sul versante economico e commerciale, il CEFTA, in seno al quale si registra la conclusione di accodi nel settore della definizione di requisiti tecnici dei prodotti) quanto di più recente ideazione: tra questi, particolare rilevanza assume la creazione di una Scuola regionale di pubblica amministrazione (ReSPA), le cui finalità formative sembrano combinarsi idealmente con le funzioni del RCC.

Rimane da rilevare che il concetto di “regional cooperation” è chiaramente strumentale al progetto, più avanzato, di integrazione economica, giuridica e istituzionale. Ma, se quest’ultima costituisce in generale l’obiettivo precipuo degli accordi bilaterali con la Comunità europea (in particolare, i sopra citati interim e association agreements), la cooperazione in quanto tale sembra destinata ad essere rivolta principalmente a settori sensibili come la giustizia penale e la circolazione delle persone tout court (cioè non riferita solamente a lavoratori dipendenti o autonomi48). Per il primo aspetto, rileva il 48 Nell’ambito da ultimo citato, il sicuro progresso raggiunto dalla legislazione comunitaria – in particolare tramite l’adozione di una direttiva in materia di diritto di circolazione (inteso come diritto di ingresso e soggiorno negli Stati membri) dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari – è confermato anche dal tenore degli stessi ASA e in generale dalla politica di associazione che, proprio in materia di diritti di circolazione, estende le garanzie di rango comunitario ai cittadini dei Paesi associati (cfr. supra note 22 e 27). Per quanto riguarda il c.d. acquis Schengen, concernente il tema dei controlli alle frontiere interne, occorre ricordare che la c.d. ventilazione dello stesso nelle disposizioni dei Trattati istitutivi ha lasciato emergere tanto profili di competenza comunitaria quanto profili riconducibili alla cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni (c.d. terzo pilastro, oggi cooperazione di polizia e giudiziaria nel settore penale), dove notoriamente le decisioni sono adottate all’unanimità dal Consiglio e la possibile conclusione di accordi internazionali da parte dell’Unione si basa su una norma (art. 38 TUE, abrogato, sostanzialmente confluito nell’art. 37 del nuovo Trattato sull’Unione europea, cd. NTUE) particolarmente controversa per i contenuti e le procedure che esprime. La materia dei controlli alle frontiere esterne rientra nella competenza concorrente tra Stati membri e Comunità, e ciò sia per espresse disposizioni di rango primario (cfr. il Protocollo n. 31 annesso al TCE sulle relazioni esterne degli Stati membri in materia di attraversamento delle frontiere esterne, relativo alla disposizione dell’art. 61, c. 2, lett. A TCE in materia di immigrazione), sia per consolidata interpretazione giurisprudenziale (cfr. il parere 1/94 della Corte di giustizia, del 15-11-1994, sulla competenza della Comunità a stipulare accordi internazionali in materia di servizi e di tutela della proprietà intellettuale, in Racc., I, 5267 ss.). Il Trattato di Lisbona dà particolare impulso alla cooperazione nei settori di polizia e giustizia penale. Al Titolo V del Trattato sul funzionamento dell’Unione, cd. TFUE, intitolato allo Spazio di libertà sicurezza e giustizia, è chiaramente indicata la procedura legislativa ordinaria (corrispondente alla procedura di codecisione tra Parlamento e Consiglio) quale regola per l’adozione dei relativi atti (cfr. art. 82 TFUE), mentre la norma dell’art. 276 TFUE, stabilendo l’incompetenza della Corte di giustizia su atti nazionali di polizia o per il mantenimento di ordine pubblico e sicurezza interni, conferma il generale potere cognitivo della Corte stessa sulla legittimità dei menzionati atti (cfr. art. 263 TFUE). In tale contesto, si deve tenere conto di quanto previsto dal Protocollo (n. 36) sulle disposizioni transitorie - le cui norme

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raggiungimento dell’obiettivo della cattura dei criminali di guerra, mentre, per il secondo aspetto, rileva la realizzazione del sistema di facilitazione dei visti e riammissione di cittadini nazionali presenti su territori esteri, comunitari e non. Settori già posti in rilievo dall’Agenda di Salonicco e rispetto ai quali emerge il carattere funzionale dell’attuazione delle libertà “economiche” quale principale obiettivo degli accordi comunitari.

La Commissione, tuttavia, sottolinea che anche il processo di cooperazione regionale rischia di andare incontro ad un destino incerto se al suo interno non sia contemplata la piena partecipazione del Kosovo49, soggetto ancora sostanzialmente escluso dalla componente vanno considerate annesse ai trattati sull’Unione, sul funzionamento dell’Unione ed Euratom -, riguardante sia gli atti in tema di cooperazione giudiziaria penale (che fino alle riforme di Lisbona avevano denominazione e portata giuridica diverse da quelle degli atti previsti dall’art. 288 del Trattato sul funzionamento dell’Unione) sia le accennate competenze della Corte (da confrontarsi con quanto previsto dal precedente articolo 35 TUE). A prescindere da tale precisazione, la competenza decisionale e giurisdizionale conferita all’Unione in tema di cooperazione giudiziaria e di polizia nel settore penale dovrebbe configurare, sempre stando alle riforme di Lisbona, anche una competenza di tipo concorrente dell’Unione stessa (rispetto a quella degli Stati membri) a concludere accordi con Stati terzi in tale materia, almeno stando alla disposizione generale dell’art. 4 e a quella procedurale di cui all’art. 218 TFUE (in particolare p. 6, dove, soprattutto alla luce del ruolo assunto dal Parlamento europeo, si instaura un chiaro parallelismo tra adozione di atti interni secondo la procedura legislativa ordinaria, cfr. citato art. 82 TFUE, e conclusione, appunto, di accordi internazionali in subjecta materia). 49 Le relazioni UE/Kosovo, anche successivamente alla proclamazione di indipendenza del giugno 2008, confermano lo sforzo a favore di una soluzione pacifica e possibilmente duratura della crisi. Ciò avviene essenzialmente mediante impiego degli strumenti politico-diplomatici che rilevano innanzitutto nell’ambito PESC e PESD: v. il ruolo assunto dal Rappresentante speciale UE (c.d. RSUE) anche in qualità di Rappresentante della comunità internazionale (RCI) in base all’azione comune 2006/623/PESC del Consiglio, 15-9-2006, in G.U.U.E. L 253, 16-9-2006, 29, relativa all’istituzione di un gruppo dell’UE incaricato di contribuire ai preparativi per l’istituzione di una possibile missione civile internazionale in Kosovo. Gli strumenti giuridico-finanziari, invece, sono sempre riferiti al complesso di fonti di derivazione tipicamente comunitaria (v. supra nota 38 in riferimento al programma IPA e note 13 e 28 in riferimento alla prassi dei partenariati europei). In particolare gli strumenti di rango comunitario hanno ottenuto un chiaro endorsement istituzionale mediante dec. 2008/213/CE del Consiglio, 18-2-2008, in G.U.U.E. L 80, 19-3-2008, 46, relativa ai principi, alle priorità e alle condizioni contenuti nel partenariato europeo con la Serbia incluso il Kosovo quale definito dalla ris. 1244 del Consiglio di sicurezza ONU del 10-6-1999 e che abroga la decisione 2006/56/CE. Importante segnalare, quale “valore aggiunto” dell’azione comunitaria nel Kosovo, l’istituzione del c.d. Liasion Office della

36economica e commerciale del modello di cooperazione adottato dal CEFTA.

D’altronde, nella prospettiva indicata del transito dalla cooperazione all’integrazione (e nella tradizionale impostazione “funzionalista” dell’ordinamento comunitario), il riconoscimento del Kosovo, se non come Stato sovrano, almeno quale effettivo partner regionale è il passaggio obbligato verso la soluzione di una tensione interna che, in diversi ambiti della vita sociale ed economica di quei Paesi nonché nelle reciproche relazioni bi- e multi-laterali, si manifesta proprio tramite l’adozione di politiche e comportamenti discriminatori nei confronti di minoranze linguistiche, etniche e religiose 50.

Alfredo Rizzo

Commissione europea, appositamente creato per seguire in loco l’attuazione degli interventi comunitari congegnati tramite i citati strumenti giuridici e finanziari. 50 Il recente Strategy paper della Commissione, COM(2009)533 def., 14-10-2009, che riproduce il quadro sopra riassunto, punta il dito tanto sul permanere di una corruzione ancora diffusa nell’area quanto sulla scarsa integrazione di e tra minoranze, soprattutto per quanto riguarda l’accesso alle pubbliche amministrazioni e ai settori produttivi nazionali. Sul tema delle discriminazioni, oltre all’art. 12 TCE (v. supra note 9 e 34), rileva la norma dell’art. 13 (cfr. articoli 18 e 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione). Nell’ottica del c.d. mainstreaming (sul quale v. di recente M. Bell, Racism and Equality in the European Union, Oxford Un. Press, 2008, 55 ss.), che appunto prevede l’assunzione del principio di eguaglianza quale limite e obiettivo di ogni settore di attività istituzionale comunitaria (comprese, quindi, le relazioni esterne), rileva la recente formulazione dell’art. 10 del Trattato sul funzionamento dell’Unione. Ai sensi di tale norma, che “costituzionalizza” e rafforza nel senso indicato il disposto tanto dell’art. 3, c. 2, quanto dell’art. 13 TCE, «nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale». Questa formulazione e l’inserimento della norma che la contiene tra le disposizioni di applicazione generale del TFUE conferiscono alla stessa rango superiore a quello riconosciuto alle successive norme del TFUE attributive di competenze settoriali all’Unione, cioè a quel soggetto unitariamente inteso che, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, può assumere impegni internazionali. Ad avviso di chi scrive, l’effetto del citato art. 10 TFUE andrà esteso a quelle decisioni che l’Unione adotta con metodo “intergovernativo” per la realizzazione della cooperazione politica e di sicurezza che d’altronde, sempre stando alle riforme di Lisbona (cfr. art. 21 del nuovo trattato sull’Unione europea), dovrà comunque fondarsi sul “rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà” (cfr. supra nota 19 per la diversa formulazione dell’art. 11 TUE, sostanzialmente confluito nell’art. 24 del nuovo Trattato sull’Unione, e delle clausole di condizionalità ispirate tanto a tale articolo quanto agli art. 6 e 49 TUE, cfr. articoli 2 e 49 del nuovo Trattato sull’Unione).