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vincitori vinti Come vivere e valorizzare il conflitto. Gli errori da evitare. A cura di Andrea Farioli

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Né vincitori

né vinti

Come vivere e valorizzare il conflitto. Gli errori da evitare.

A cura di Andrea Farioli

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Introduzione: I principi di buona

navigazione (ovvero i presupposti per una relazione positiva e una gestione

costruttiva del conflitto)

L’egoismo non consiste nel vivere come ci pare Ma nell’esigere che gli altri vivano come pare a noi. (Oscar Wilde)

Partecipare ad una esperienza formativa così come leggere questa dispensa è un po’ come fare un viaggio in barca. Quanto più i “principi di buona navigazione” saranno chiari e condivisi tanto più il viaggio sarà piacevole e ricco di apprendimenti.

Ecco quindi le 3 parole chiave che vi ho proposto prima di togliere

l’ancora e partire: Ascolto attivo, Allenabilità e Feedback costruttivo.

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ASCOLTO ATTIVO

Ascoltare in modo attivo significa quindi

sintonizzarsi profondamente con lo stato emotivo dell’altro e

lasciarsi coinvolgere e interrogare da quello che ci proviene da lui. Dal

momento che le emozioni sono una diretta conseguenza del significato che

la persona attribuisce alla realtà, possiamo dire che in questo senso ogni vero ascolto è un ascolto

empatico.

Ascoltare in modo attivo significa assumere il punto di vista dell'altro, sia pure temporaneamente e provvisoriamente. Se una persona mi parla posso dire che sono in ascolto solo se presto attenzione alle sue parole e cerco di comprendere la rete di significati che esse acquistano in relazione alla sua visione del mondo1. Ascoltare in modo attivo significa “fare spazio dentro di sé” per accogliere l’altro, ovvero accettare di farsi cambiare dal dialogo instaurato e far tacere se stessi per dare la precedenza all’altro.

Molto spesso crediamo di ascoltare un'altra persona ma in realtà siamo

centrati sul nostro dialogo interno (quello che con una immagine metaforica e scherzosa chiamo “i criceti”). Mi dico ad esempio: "Qui ha ragione, qui ha torto" o "potrei rispondergli così e così...". E così posso diventare insofferente se l'intervento dell'altro si prolunga oltre un certo limite in quanto temo che mi possa sfuggire dalla mente ciò che ho da dirgli. In tali casi il mio comportamento è sorretto dalla presunzione implicita che il mio punto di vista sia più corretto, più “vero” ed in ogni cado rivesta una rilevanza maggiore rispetto al punto di vista del mio interlocutore. In tali casi inoltre, agisce in me un'altra presunzione determinante: il trascorrere del tempo come occasione perduta, dispersione (tempo perso!), lutto, anziché come nuova possibilità, occasione per apprendere, integrazione di diversità.

Ascolto, accettazione, accoglienza, accompagnamento (le 4 A dell’educare come mi piace definirle) sono concetti inscindibili, che si implicano reciprocamente: non c'è ascolto senza accettazione ed accoglienza, come non ci può essere un vero accompagnamento senza ascolto.

1 Cfr Mauro Scardovelli, IL Flauto di Pan, edizioni EGIC, 1998

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ALLENABILITA’2 Nel leggere un testo, nel frequentare un corso di formazione così come in

tutte le situazioni di incontro-confronto con altre persone che la vita ogni giorno ci regala, ognuno di noi più o meno consapevolmente si pone una domanda: vado in tribuna o nel campo da gioco? Fuor di metafora: mi tengo a distanza senza mettermi in discussione o mi metto in gioco ed entro nella situazione, con atteggiamento accogliente e ascolto profondo?

Essere allenabili significa decidere di “scendere in campo e allenarsi”, significa vedere l’errore come una occasione di apprendimento e, in atteggiamento di ascolto attivo, aprirsi all’altro valutandone le proposte e accettandone i commenti, le opinioni ed i feedback come una opportunità di crescita e di confronto. Chi decide di stare in tribuna nella migliore delle ipotesi fa il tifo ma quasi sempre critica e giudica le azioni altrui: distingue ciò che è bene da ciò che è male, il giusto dallo sbagliato.

Il concetto di allenabilità (che mutua la radice dalla parola allenamento –

da lena, respiro - ovvero abituare mente e corpo a determinati compiti) applicato non solo allo sport ma anche al tema comunicazione interpersonale ed all’utilizzo di “testi pratici” come questo che avete tra le mani, ci fa riflettere sul fatto che il relazionarsi con l’altro in modo efficace, costruttivo ed assertivo non è né semplice né derivante da un talento innato ma prevede un umile e continuo allenamento. Eppure mentre la maggior parte delle persone trova comprensibile anzi logico e doveroso il fatto di praticare per anni e con costanza uno strumento musicale così come un’arte o una professione o uno sport per arrivare a padroneggiarle, pochi sono quelli che direbbero la stessa cosa per un aspetto che coinvolge ogni persona e continuamente, la relazione interpersonale appunto.

Del resto se un allenatore fa un rilievo o dà un’istruzione ad un giocatore o se un insegnante di musica corregge un allievo, questi cercherà di mettere in pratica il suggerimento, dedicandovi tempo ed impegno; è difficile immaginare che si metta a discutere con l’allenatore o con l’insegnante, dicendo, ad esempio, che gli è impossibile migliorare una determinata tecnica a causa del suo carattere, o del fatto che ha avuto genitori di un certo tipo, o perché prova

2 Cfr Andrea Farioli, Allenabilità e feedback costruttivo, Innovazione educativa -mensile di discussione e

progettazione di nuovi itinerari formativi, gennaio 2006, edizioni IRRE E.R. (Istituto Regionale di Ricerca Educativa per l’Emilia Romagna)

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rabbia e risentimento nei confronti della fidanzata. Né avanzerà la giustificazione che il rilievo o il suggerimento non era corretto in quanto non è riuscito a metterlo in pratica subito. Eppure, sembra proprio questo il modo in cui normalmente le persone reagiscono quando ad allenarle non è un allenatore di calcio o un maestro di tennis, ma un insegnante, un formatore, un counselor o un terapeuta.

Non si può non comunicare è il primo postulato della Pragmatica della

comunicazione3” Dunque “ognuno di noi è chiamato a scegliere se farlo in modo casuale e subire tale ineluttabilità oppure scegliere di farlo in modo consapevolmente costruttivo e positivo per se e gli altri”4. Allenabilità significa quindi:

o impegnarsi con costanza ed essere responsabili dei propri atteggiamenti comunicativi,

o disattivare il proprio orgoglio e criticismo, o praticare l’autovalutazione e l’automonitoraggio anche alla luce

dei feedback ricevuti dagli altri. FEEDBACK COSTRUTTIVO

Che cosa intendiamo per feedback costruttivo? Desidero rispondere citando Mauro Scardovelli5, ovvero la persona che anni fa mi ha fatto conoscere questi temi che sono diventati tasselli molto importanti nella mia vita e nel mio lavoro: “Per feedback costruttivo intendiamo un feedback che faciliti l’instaurazione ed il mantenimento di rapporti positivi, basati sulla comprensione, sulla stima e sulla collaborazione reciproca, anziché sull’antagonismo, sulla diffidenza e sull’incomprensione. Intendiamo un feedback che favorisca la distensione, la creatività e la motivazione produttiva, anziché la tensione, la chiusura e l’arroccamento. In che modo un genitore può facilitare un rapporto di comprensione e di fiducia reciproca? Come un insegnante en educatore

3 Cfr Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D. (1967), Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma, 1971.

4 Cit G.Nardone e A. Salvini, Il Dialogo Strategico, Ponte delle Grazie Editore, Milano 2004 5 Cit. Mauro Scardovelli, Feedback e cambiamento, ed Borla 2003

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possono diventare più efficaci nel suo lavoro, rivolgendo i ragazzi osservazioni che li stimolino ad apprendere e a migliorarsi? Che cosa può fare un dirigente per motivare i suoi collaboratori? Le persone comunemente ritengono di conoscere queste cose e rimangono regolarmente stupite quando si accorgono che comunicando con gli altri non ottengono i risultati desiderati. Allora spesso si affannano e persistono a cercare le cause dell’insuccesso in una divergenza di interessi, in un conflitto ideologico, o nella cattiveria, nella stupidità o nella follia dei loro interlocutori”.

Sembra ovvio che tutte queste analisi, anche se condotte con grande

precisione terminologica e passione, al massimo forniscono solo delle ragioni verosimili per cui le cose non hanno funzionato. Forniscono alibi, ma non chiavi di soluzione. Avere un alibi è già qualcosa: può mettere temporaneamente in pace il proprio senso di colpa. Se mio figlio non mi ascolta è perché è ottuso e perché i giovani d’oggi non hanno più valori, se i miei allievi non studiano è perché sono pigri e giovani d’oggi non hanno più il senso del sacrificio , se mia moglie è depressa è perché è malata, se i miei pazienti fanno resistenza è perché hanno delle rigidità, io non c’entro! Avere un alibi riduce l’ansia dovuta al senso di responsabilità. Per questa e per altre ragioni l’arte di comprendere, di sostenere e di incoraggiare se stessi e gli altri non sembra particolarmente diffusa nella nostra cultura. Per questa e per altre ragioni i virus del potere dominio e pensiero negativo-distruttivo sembrano proliferare in modo preoccupante a tutti i livelli.

Crediamo invece che solo attraverso il “costruire insieme”, ovvero il vincere

CON l’altro e non SU l’altro si possa dare un senso pieno ad una relazione, professionale o affettiva ed è poco meno che superfluo sottolineare la centralità che il feedback costruttivo ha all’interno del concetto di alienabilità prima richiamato.

Tutti noi abbiamo continuamente bisogno di imparare e l’arte di

cogliere gli aspetti positivi e di incoraggiare se stessi e gli altri è uno splendido cammino che può essere continuamente perfezionato. Siamo consapevoli che il costruire ed il cogliere il “bicchiere mezzo pieno” in noi stessi e negli altri richiede più tempo, impegno e dedizione del distruggere e dell’evidenziare tutto ciò che è per noi un difetto: del resto per costruire un pianoforte ci vuole un artigiano competente nello scegliere i materiali e nel lavorarli, tanti giorni di studio e di lavoro, pazienza e dedizione; per distruggerlo basta una robusta mazza da baseball e qualche minuto.

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Prima parte Imparare ad affrontare creative-

mente gli ostacoli

Dobbiamo imparare ad affrontare CREAtivamente gli ostacoli che incontreremo nelle relazioni con i ragazzi. Innanzitutto dobbiamo vedere ogni ragazzo come un soggetto attivo capace di trovare delle proprie modalità personali di risposta (anche per tentativi ed errori). In questo quadro, programmare significa sapere predisporre delle situazioni fortemente interessanti e coinvolgenti capaci di spingerli all'avventura della conoscenza, di incoraggiarli e incentivarli a mettere in moto il meglio delle proprie risorse individualmente o in situazione di interazione con i compagni per esplorare/progettare/ inventare/scoprire soluzioni. Idealmente ci sentiamo tutti disposti a giocare questa scommessa, ma dobbiamo renderci conto delle difficoltà in gioco! Proviamo a rileggere alcuni dei "deterrenti" alla partecipazione attiva e del pensiero creativo (identificati da Simberg):

• la paura di fare una brutta figura o di sbagliare • la ricerca del successo facile • il bisogno eccessivo di sicurezza e di protezione • la paura del giudizio dei superiori o le critiche dei compagni • la mancanza di motivazione

Sono ostacoli in cui inciampiamo ogni piè sospinto e "saltarli" non è certo facile, anche perché siamo cresciuti insieme a loro! La scuola e la società si basano in gran parte su di loro, poiché essi sono garanzia di stabilità. Essere competenti nella gestione del conflitto Troppo spesso ai ragazzi si raccomanda più che altro di “andare d’accordo”. Piuttosto che farsi coinvolgere dal problema mettendosi in discussione, l’azione educativa mira troppo spesso a un’armonizzazione e ad una omologazione che consenta di evitare i conflitti, i quali vengono tradizionalmente “archiviati” attraverso l’individuazione del colpevole e il rimprovero. L’ambiente, inoltre, reagisce al comportamento aggressivo con la punizione, la rappresaglia e l’emarginazione e ciò non solo non risolve il problema dell’aggressività ma anzi viene percepito dall’interessato come un’ulteriore minaccia che spesso porta non a una riduzione della rabbia e dell’aggressività ma a nuovi comportamenti aggressivi. A tutto ciò va aggiunta la ambivalenza del concetto di aggressività nella nostra società: in molti casi, infatti, essa è ritenuta un valore: gli uomini “veri” devono avere un approccio alle cose che sia anche aggressivo e

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combattivo; il cronista sportivo esige più “aggressività” da parte dei calciatori se la squadra sta perdendo, ecc, ecc. Un confronto consapevole e mirato con questo “disagio normale” e la rabbia e l’aggressività che ne sono i corollari è quindi necessario: - la rabbia è una condizione interiore di alta tensione che si riproporrà sempre e che non può essere ingoiata (chi tiene costantemente a freno i propri sentimenti perde la propria vivacità e non offre all’ambiente circostante occasione di reagire); - L’aggressività pur essendo un concetto che viene genericamente equiparato all’intento di distruggere e fare male dal punto di vista fisico e morale, fondamentalmente significa “avvicinarsi”, “attaccare”, nel senso di smuovere e descrive un impulso non solo negativo (non scordiamoci che etimologicamente aggredire significa “uscir fuori”). Chi vuol star bene con gli altri deve imparare a litigare Un’armonia senza interruzioni, infatti, renderebbe la vita noiosa e insopportabile; opinioni e interessi diversi la rendono invece stimolante e pertanto vanno espressi e i conflitti conseguenti devono essere affrontati e superati. Nella nostra società spesso il conflitto viene evitato e considerato solo negativo mentre noi crediamo che occorra imparare a convivere con esso in quanto la conflittualità è parte integrante della vita dell’uomo ed è sua caratteristica costitutiva. Al contrario di ciò che normalmente si pensa, è il conformismo (cliché, ruoli prefissati, criteri dominanti degli adulti) che porta alla violenza in quanto schiaccia l’unicità della persona e preclude l’autenticità della relazione mentre il convivere con il conflitto aiuta a vivere la creatività e a creare situazioni di pace. E’ in quest’ottica, in questa nuova prospettiva educativa che il litigio (che è una forma di espressione del conflitto) può diventare una risorsa in quanto aumenta la coscienza della differenziazione - vale a dire ci aiuta a prendere coscienza di come i punti di vista sulla realtà possono essere diversi. Questa consapevolezza non è solo frutto dell’istinto ma deve essere ricercata e la capacità di sciogliere positivamente il conflitto deriva da precise competenze. Tali capacità ancora una volta hanno come presupposto una filosofia interiore di un certo tipo (esser disposto a morire a me stesso per l’altro) ed un percorso individuale che parta dal “mettersi in discussione” e che, attraverso il rifiuto della tentazione di voler piegare l’altro ed il ripensamento di come ci poniamo di fronte agli altri, arrivi alla creazione di situazione di pace. Fiumi di parole sono stati spesi sull’argomento della PACE e ormai siamo assuefatti a questa tematica. Almeno a parole siamo tutti d’accordo, tuttavia se guardiamo ai fatti scopriamo che le diversità ci sono e sono tante. Ecco perché noi crediamo che non si debba tanto parlare di pace ma cercare di creare situazioni di pace partendo dal presupposto che ….

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L’accettazione di se stessi è il primo gradino per accettare anche gli altri e fondamentale per questo percorso è il SENTIRSI RICONOSCIUTI al di là di ogni competitività. La persona integra riesce ad accogliere la diversità perché non ha bisogno di dimostrare una superiorità; non ha senso di inferiorità e, conoscendo se stesso, sa quello che ha e quello che gli manca. La capacità dell’altro non è vista quindi come minaccia o in maniera competitiva bensì come ricchezza cui attingere e a cui dare Nel rapporto con l’altro le identità deboli, invece, reagiscono o con una dipendenza passiva in cui la realtà viene subita o con una trasgressione non positiva (la cosiddetta “trasgressione contro”, vale a dire la trasgressione di chi, sentendosi inferiore e minacciato nella sua integrità, reagisce con una superiorità aggressiva). Il punto di partenza nel rapporto educativo è il “CLIMA” che si respira ed è fondamentale che sia l’educatore a “dare il la” guardando i ragazzi per quello che sono, nella loro unicità ed autenticità e non a partire da quello che non sono ma che secondo noi dovrebbero essere. Uno dei compiti della pedagogia consiste, a nostro avviso, non tanto in un insegnamento ma in un processo/percorso che porta la persona (educatore/educando) ad avere una CAPACITA’ DI RESISTENZA CRITICA intesa come: • capacità di percepire/far percepire la violenza (non certo solo la

violenza fisica ma le mille sfaccettature della violenza psicologica); • capacità di creare delle alternative positive e costruttive per

risolvere i conflitti; • capacità di dare valore alla aggressività come forza positiva da

incanalare in un percorso. Il litigio Pensiamo che il litigio abbia una funzione polivalente in quanto non è solo scontro ma anche contatto fisico (soprattutto per i bimbi) e tale contatto è una opportunità sempre più rara in quanto, pur essendo tutti noi anima e corpo, la scuola da sempre e sempre più punta sull’intelligenza e spesso si scorda delle emozioni nonché del corpo e dei suoi messaggi. Il contatto fisico anche violento, inteso come vicinanza e riconoscimento reciproco è invece una possibilità di comunicazione da non sottovalutare in primo luogo per il fatto che fa parte di un percorso naturale di crescita dell’individuo (ed è pur sempre un modo, seppur sbilanciato, di “stare alla pari”) e in secondo luogo in quanto aiuta a prendere coscienza del proprio corpo, del corpo dell’altro e della forza che si possiede. E allora che fare di fronte al litigio, anche fisico? Come detto in precedenza, si deve avere fiducia nella capacità che hanno i ragazzi di creare delle alternative e di risolvere i problemi (no fermiamoci quindi al “chi è stato” ma “abbiamo questo problema, voi che situazione

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proponete?”). I ragazzi, infatti, sono ricchi di creatività e hanno tanto da insegnarci. Percepita la distinzione tra “gioco” e “attacco” abbiamo la possibilità di aiutare i bambini a capire da dove parte il litigio attraverso la trasposizione simbolica (ovvero prendendo le distanze dalla situazione e ristrutturandola), grazie a giochi del tipo: fai finta tu di essere il fratello/la sorella, ecc. Nell’adolescente, inoltre, è spesso presente (e pesante) il litigio con i genitori. Tale litigio è del tutto fisiologico perché è il loro modo di prendere le distanze, di allontanarsi e, quindi, di crescere. Pertanto i genitori devono abituarsi a questo dato di fatto ed accettarlo con la giusta serenità. Nei momenti di litigio, tuttavia, per il genitore è ancora più difficile analizzare le emozioni poiché quello che viene a mancare è l’informazione sull’emozione che ha causato il litigio. Ciò che deve esser ricercato dall’educatore è proprio una CONDIVISIONE DELLE EMOZIONI. Le modalità di gestione del conflitto Verifichiamo a quale delle seguenti modalità ricorriamo più frequentemente: • Integrazione: è la ricerca di soluzioni creative che rispettino i bisogni di

entrambi attraverso l’apertura, lo scambio di informazioni, l’esame delle differenze.

• Compiacenza: è il tentativo di minimizzare le differenze per soddisfare gli interessi dell’altro; può essere utile se il soggetto vuole in seguito ottenere qualcos’altro dalla controparte oppure ritiene che gli interessi dell’altro siano più importanti.

• Dominazione: è lo stile correlato con l’orientamento vincitore-perdente;

può essere utile in occasione di un conflitto su argomenti banali, in mancanza di tempo oppure per decisioni impopolari.

• Fuga: è associato a comportamenti quali il ritirarsi, il lavarsene le mani, il farsi da parte. E’ un approccio utile nel caso si affrontino argomenti banali o quando gli effetti negativi di un confronto siano potenzialmente eccessivi.

• Compromesso: è lo sforzo di trovare una via di mezzo tra i propri interessi

e i bisogni dell’altro.

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Seconda parte Le tentate soluzioni: ovvero le soluzioni che non funzionano

Gli esseri umani nel corso della loro esistenza s’imbattono frequentemente in problemi che cercano di risolvere mediante soluzioni. A volte le soluzioni si dimostrano adatte al cambiamento desiderato, altre volte del tutto inadatte o addirittura dannose. Nel secondo caso, quando i tentativi non portano i risultati sperati, capita un fatto curioso, invece di abbandonarli ci si impegna ancora di più su quel tipo di soluzione innescando un’escalation (un aumento, una corsa verso l’alto) dove si fa sempre di più la stessa cosa. Come afferma Watzlawick, “quando un tentativo non produce il risultato sperato, noi tutti, uomini o animali, applichiamo la ricetta dell’infelicità che prescrive una quantità sempre maggiore della stessa cosa aumentando così in misura sempre maggiore lo stesso dolore...” I tentativi di soluzione sono quindi quei meccanismi che non solo non risolvono il problema, ma piuttosto lo mantengono e lo aggravano. Dalle naturali difficoltà ai problemi In alcune circostanze i problemi possono essere visti proprio come il tentativo mal diretto di trattare una difficoltà. Qualche esempio, sui tentativi di soluzione che non funzionano, ma anzi peggiorano il problema, lo si può trarre da alcuni problemi che coinvolgono persone che, per motivi professionali, devono relazionare davanti a vasti uditori; in questi casi la paura di sbagliare o di imbarazzarsi davanti alla platea può paralizzare l’oratore ed inficiare la prestazione. In genere questo tipo di problema si verifica e si forma sulla base di reali o immaginarie paure che nascono nei pensieri dell’oratore e che diventano dominanti rispetto a tutto il resto. Sulla base di dubbi e pensieri relativi allo sbagliare qualcosa o al manifestare imbarazzo davanti al pubblico, questi opera un allertamento nei confronti delle proprie reazioni fisiologiche con conseguente tentativo di controllo delle stesse e successivamente un continuo evitamento delle situazioni ansiogene. La persona comincia a compiere sforzi di volontà al fine di controllare la sua paura e nasconderne la sua esistenza agli altri, ma così facendo finisce con il crearsi una vera e propria fissazione nevrotica che lo porterà ad evitare sempre più le situazioni ansiogene, fino alla costruzione di una vera e propria fobia sociale. Una iniziale difficoltà, la paura naturale, della “grande platea” che poteva essere superata con una semplice azione quale quella di ammettere che è normale poter aver paura o provare ansia in situazioni del genere e quindi comunicarlo agli altri, pubblicizzarlo piuttosto che nasconderlo, diventa invece un problema perché il rimedio usato non è adatto, ma anzi deleterio.

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Ciò che contribuisce allora ad esacerbare una difficoltà, paradossalmente è proprio qualche particolare aspetto della soluzione adottata per risolverla, è il modo stesso in cui noi cerchiamo di fronteggiare la difficoltà. Quando una difficoltà si trasforma in un problema Non sempre le difficoltà si trasformano in problemi, affinché ciò si verifichi bisogna che siano soddisfatte due condizioni: - la difficoltà viene affrontata in modo non adeguato; - davanti alla persistenza della difficoltà si applica di più la stessa soluzione. In forma schematica di seguito, possiamo vedere il processo attraverso il quale una difficoltà diventa un problema. La difficoltà viene affrontata in modo non adeguato quando: * Si nega che il problema sia un problema. Bisognerebbe agire, ma non si agisce, quando invece un intervento sarebbe indispensabile. La principale ragione di un simile atteggiamento, per esempio, potrebbe derivare dal desiderio di mantenere a qualsiasi costo una facciata sociale accettabile. * Si agisce quando non si dovrebbe. Una difficoltà viene avvertita in modo pressante e si cerca di rimediarvi, mentre non bisognerebbe farlo. Ad una attenta analisi la difficoltà si dimostra

La difficoltà viene affrontata in modo non adeguato: si interviene quando non si dovrebbe; non si interviene quando si dovrebbe si interviene in modo sbagliato

Problema

Difficoltà

TENTATE SOLUZIONI

Non riuscendo a risolvere la difficoltà non si fa altro che applicare di più la soluzione.

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inesistente o irrimediabile e ogni tipo di intervento addirittura dannoso. Il problema consiste nel pensare di vedere una soluzione là dove non c’è e quindi attaccarsi ad una pseudo-condizione che porta la persona a pensare di aver trovato una soluzione perfetta e soprattutto definitiva. * Si agisce al livello sbagliato. In questi casi il problema esiste, ma purtroppo l’intervento che viene tentato per cercare di rimediarvi si effettua ad un livello inadeguato. Nell’esempio dell’oratore che ha paura di aver paura davanti al pubblico, si evidenzia che il suo timore di non riuscire a controllarsi, lo costringe a controllare la propria emotività, finendo proprio con l’aggravare il problema, in virtù di un tentativo inadeguato. Soltanto l’introduzione della paura nella sua dimensione relazionale, cioè come parte di un insieme che include l’oratore ed il pubblico, e la dichiarazione dell’oratore della stessa emozione, o l’allontanamento del tentativo di voler controllare volontariamente l’ansia, eviterà quindi di intervenire in modo paradossale.

Le fasi di un intervento per la risoluzione di un conflitto o problema

In questa parte, sempre in maniera schematica, si chiariscono attraverso una esposizione sequenziale le fasi utilizzate per un intervento di risoluzione. Definizione del problema Un primo indispensabile stadio per la costruzione della soluzione è rappresentato da una chiara e specifica definizione del problema da risolvere. A questo scopo è opportuno basarsi sulla descrizione quanto più concreta possibile del fenomeno. Quello che veramente interessa è il concreto funzionamento del problema nel suo processo, nelle sue manifestazioni osservabili e nelle sue regole . Definizione degli obiettivi Definire un obiettivo significa darsi una meta, un punto di arrivo di riferimento, capace di polarizzare i propositi, la condotta e i comportamenti di una o più persone nell’ambito di una attività, di una impresa o del risolvimento di un determinato problema precedentemente definito. Oltre a una chiara formulazione degli stessi obiettivi è opportuno scegliere di lavorare su obiettivi di cambiamento minimo per dare l’avvio ad un processo di cambiamento. Definizione delle soluzioni tentate In questa fase si studiano attentamente tutti i tentativi messi in atto per cercare di risolvere il problema. La fase della ricerca delle soluzioni tentate rappresenta un momento essenziale e centrale, e serve a capire come il problema si è formato e su quali interazioni si mantiene.

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L’analisi si articolerà in due fasi: a) cosa è stato fatto. b) cosa attualmente si fa. Definizione delle strategie Una strategia rappresenta un insieme di tattiche e manovre preordinate al fine di raggiungere l’obiettivo prefissato. Nel nostro caso, l’obiettivo di una strategia è 1) fare in modo che si sospendano le soluzioni tentate fino a quel momento; 2) inserire cambiamenti comportamentali (in grado di sbloccare la situazione), all’interno dell’interazione nella quale il problema si manifesta.

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STRATEGIE E STRATAGEMMI PER IL CAMBIAMENTO

In questo paragrafo si passa alla descrizione di alcune procedure e strategie utilizzabili nella risoluzione dei problemi. Imparare ad usare il linguaggio dell’altro Per raggiungere una comunicazione efficace risulta della massima importanza saper riconoscere “la lingua” dell’altro per sintonizzarsi veramente sulla sua esperienza e capirlo. Saper parlare la lingua dei propri interlocutori aiuta a comprenderli e ad essere meglio compresi. Il primo passo da compiere è quello di prestare attenzione al linguaggio di chi ci sta davanti ed in particolar modo ai predicati che utilizza per esprimere la sua esperienza. Per predicati si intendono gli avverbi, gli aggettivi, i verbi. Dopo aver rilevato quali tra i predicati che l’altro utilizza compaiono con maggior frequenza nel discorso si può tentare di sintonizzare i propri predicati a quelli dell’interlocutore. Questo tipo di approccio ci può permettere di facilitare il processo di ricezione, evitando così eventuali disturbi comunicativi dati dalla difficoltà di comprendere qualcosa che non fa parte del proprio modello del mondo. Per rendersi conto di questo basterebbe osservare attentamente due persone tra le quali si ritenga che ci sia feeling, per osservare come sia presente un rispecchiamento reciproco degli aspetti micro e macro comportamentali: per esempio in modo macro si osserverà la medesima posizione dei loro corpi, in specifico la postura totale, o di alcune parti come il tronco, la testa, e così via, in modo micro, calibrandoli attentamente si potrebbe osservare una corrispondenza tra le loro mimiche facciali, le loro voci nei termini di tono, ritmo, pause, ed anche il rispecchiamento delle loro respirazioni. Da una osservazione esterna questo è quello che come osservatori si riuscirebbe a percepire. Esistono situazioni sia all’interno di contesti personali che professionali in cui l’esigenza è quella di raggiungere rapidamente forme ottimali di comprensione senza poter indagare tanto su tutti i livelli della dimensione dell’esperienza dell’altro. Come fare ad entrare in rapporto in breve tempo? Si può fare se si adattano i propri comportamenti a quelli dell’altro, se cioè gli si propone una accettazione del suo mondo interno attraverso una iniziale accettazione della sua veste comportamentale. E’ una potentissima chiave che apre le porte dell’altro, che permette di fare sentire a proprio agio l’interlocutore e che dà il modo di ottenere informazioni che difficilmente si otterrebbero se l’altro, se non avvenisse sentimenti di fiducia e comprensione. Connotazione positiva Quando si vuole promuovere una partecipazione e una collaborazione attiva anche in soggetti esternamente diffidenti e un po’ irrigiditi nelle loro posizioni bisogna evitare di incorrere nell’uso di etichettature o incorniciatura negativa del loro comportamento e delle loro azioni. Questo provocherebbe sentimenti di colpevolizzazione nella persona che esprime un determinato comportamento portandolo ad irrigidirsi e a mantenersi irremovibile rispetto a qualsiasi tipo e

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forma di possibile cambiamento. Invece di criticare l’operato di qualcuno, anche se tale operato risulta essere disfunzionale, diventa più produttivo gratificare la persona e attraverso tale gratificazione portarla alla modifica del comportamento. In tale manovra comunicativa, le resistenze al cambiamento vengono aggirate, le persone si sentono gratificate e stimolate a continuare a fare già quello che stavano facendo con nuove azioni comportamentali, ma che contraddicono quello che avevano cominciato. La ristrutturazione La ristrutturazione è una delle più sottili tecniche di persuasione. Ristrutturare significa ricodificare la percezione della realtà di una persona senza cambiare il significato delle cose, ma cambiando la loro struttura. Non si cambia il valore semantico di ciò che la persona esprime, ma si cambiano le cornici all’interno delle quali inserire tale significato. Ovviamente, cambiando la cornice, si cambia in maniera indiretta il significato stesso. Anticipazioni L’anticipazione esige un assenso proprio in quanto indirettamente definisce il disaccordo come una dimostrazione di poca comprensione, mancanza di fantasia, o intelligenza limitata. Es.: “Lo troverà insensato, ma ho l’impressione che “La cosa le sembrerà ridicola, ma si potrebbe dire che ...“ “C’è una soluzione decisamente semplice, che a lei sicuramente non piacerà ...“ Come peggiorare la situazione? Questa tecnica rappresenta, il più delle volte, il primo passo da fare con se stessi per produrr reazioni alternative a quelle in corso. La tecnica si esprime nel domandarsi ripetutamente nell’arco di qualche giorno “Come potrei fare andare peggio le cose? Come potrei, se volessi deliberatamente e volontariamente incrementare la situazione problematica nella quale mi trovo? Cosa dovrei pensare o non pensare, per fare andare ancora più male le cose?” Ponendosi questa serie di domande, chi si trova a essere in una situazione difficile e apparentemente senza soluzione si obbliga a cercare di orientare la propria costruzione strategica verso l’obiettivo di un peggioramento della situazione invece che di un miglioramento. L’effetto di ciò di solito può essere di 2 tipi: a) Si individuano tutta una serie di modalità di pensieri e di azioni per peggiorare la situazione, in questo caso avrà chiaro cosa dovrà evitare di fare o pensare. e questo è già un modo per bloccare le eventuali “tentate soluzioni” che mantengono o complicano il problema. b) Molto spesso, quando spingiamo la nostra fantasia nella direzione del complicare i nostri problemi, emergono per reazione tentate soluzioni alternative mai contemplate fino ad allora. Lao Tsu, 4000 anni fa circa, affermava, “se vuoi drizzare una cosa, prima

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cerca di storcerla di più” Immaginare lo scenario oltre il problema Questa tecnica può avere molte varianti, il suo obiettivo è quello di spostare la nostra attenzione dal presente problematico a un futuro senza il problema. In altri termini, si deve, proiettandosi mediante l’immaginazione di situazioni concrete al di là del problema presente cercare di rilevare quali sarebbero le nostre percezioni, i nostri pensieri e le nostre azioni in tale contesto. Per facilitare questo si possono utilizzare alcuni espedienti fantasiosi. Utilizzando una tecnica meno suggestiva, si può chiedere a se stessi di immaginare lo scenario concreto della situazione futura oltre il problema. In ogni modo, ciò che si provoca è, in primo luogo un effetto suggestivo del tipo profezia che si autorealizza. poiché se io immagino la possibilità di un cambiamento o di una situazione di soluzione del problema, apro comunque le mie aspettative in tale direzione. In secondo luogo, lo spostare la nostra attenzione da un presente problematico a un futuro non problematico, produce un rilasciamento della tensione presente e un blocco delle attuali “tentate soluzioni”; tutto ciò produce un sollievo concreto e apre la strada a modalità percettive reattive alternative. La tecnica del “come se” Strettamente connessa alla tecnica precedente, ma molto più orientata a un intervento attivo sul problema presente, è la tecnica del come se. Questa si esprime nel chiedersi: “cosa farei di diverso oggi, come mi comporterei diversamente in questa giornata se il problema che ho non ci fosse più?” Tra le cose che vengono in mente, scegliere la più piccola e metterla in pratica. Ogni giorno farsi tale domanda e tutti i giorni mettere in pratica la più piccola azione, come se il problema non ci fosse, tra quelle che ci sono venute in mente. In questa maniera si innesca ogni giorno un piccolo cambiamento che innescherà una reazione a catena di ulteriori cambiamenti, sino al sovverti-mento totale delle nostre precedenti modalità di percepire e affrontare in maniera controproducente il problema. Come nella teoria delle catastrofi (Thom, 1990) si produce l’effetto “Butterfly”, ovvero quel battito d’ala di farfalla che, in un certo spazio e tempo, innesca una reazione a catena di eventi naturali che condurrà al ciclone, a qualche migliaia di chilometri di distanza da quel piccolissimo evento iniziale. Evitare di evitare Una delle tendenze più usuali negli esseri umani quando hanno un problema è cercare di evitarlo, o di situazioni che lo possano esasperare. In tale maniera, però si conferma in noi stessi la nostra incapacità di fronteggiare il problema. Ogni fuga conduce a un’altra fuga che conferma la precedente e prepara la successiva, ma tale catena di fughe alimenta e incrementa la nostra sensazione di insicurezza e incompetenza personale.

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Pertanto, è necessario prescriversi, di “evitare di evitare”, assumendo questa come regola di fondo nella nostra interazione con la realtà che continuamente costruiamo e, poi, subiamo. Questa forma di autoinganno, tuttavia, non deve essere confusa con l’esortazione a mettersi a prova costante, in quanto tale strategia è, come vedremo poi, decisamente controproducente, talvolta realmente catastrofica nei suoi effetti. Evitare di evitare, sta a significare non rinunciare ad alcuna delle situazioni che la nostra esistenza ordinaria ci propone, per la paura di non essere in grado di fronteggiarla o per il timore di soffrirne. Bisogna porsi di fronte alle realtà che ci incutono timore come se fossero occasioni per nuove esperienze di apprendimento e di crescita personale, incluse le sconfitte; anzi utilizzare la paura degli effetti dannosi che il ripetersi di “evitamenti” potrebbe produrre, come risorsa per superare la paura di ogni singola situazione che vorremmo evitare. Usare la paura contro la paura stessa. Il limite di ogni paura è, infatti, una paura più grande. Sforzarsi di non sforzarsi Per alcuni di noi, ciò che viene come tendenza naturale di fronte a una difficoltà, è una reazione di maggiore impegno, maggiore sforzo nel tentativo di fronteggiare le cose che ci vanno storte. Il più delle volte questo sta a significare la inclinazione a insistere caparbiamente nell’applicare tentate soluzioni che non funzionano, oppure il mettersi continuamente alla prova cercando sempre nuove conferme delle proprie capacità, con l’effetto di incrementare tale necessità di conferma e la conseguente insicurezza personale. In altri casi, lo sforzo è diretto al controllo delle proprie emozioni e della propria impulsività; anche in questo caso il risultato più frequente è l’ancor maggiore incapacità di controllo delle proprie reazioni emotive. Il risultato finale è che il controllo riuscito conduce a una forma di perdita di controllo del controllo stesso, ovvero tale inclinazione diventa compulsione. In altri termini, l’autoinganno dello sforzarsi di non sforzarsi, per incrementare la fiducia nelle proprie risorse, può essere metaforicamente riassunto con la storia “del drago che cerca la perla della virtù suprema. Egli la cerca ovunque, per mari e per terre, nelle foreste e nei deserti, senza mai riuscire a trovarla, e continuerà a cercarla all’infinito se non si guarderà in uno specchio d’acqua, accorgendosi che la perla della virtù è incastonata sulla sua cresta esattamente sopra i suoi occhi”.

Incorniciare i ricordi Chi di noi non ha alcun ricordo spiacevole se non triste? Nessuno. Questa semplice rilevazione, quasi banale, deve farci riflettere sulla importanza della attribuzione che diamo ai nostri brutti ricordi: vicini o lontani che siano, non possono essere qualcosa di irrilevante per i nostri umori e stati d’animo. Una tecnica per gestire positivamente le nostre memorie è quella di immaginare di costruirsi nella nostra mente una galleria con tanti bei quadri,

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ognuno con una immagine importante del nostro passato. Ovviamente tra queste ce ne saranno almeno alcune che ci indurranno sofferenza; tra esse dovremo cercare di trovarne almeno una che ci provochi anche una sensazione positiva. Anche nelle esperienze più tristi si può trovare, osservando bene negli antecedenti, o magari nelle reazioni successive, qualcosa di bello o di piacevole. Questa immagine sarà ciò che dovremo mettere in risalto nel quadro di quel ricordo, in modo tale che riguardandolo, esso ci dia prima del brutto qualcosa, anche un minimo, di bello. Prescriversi la fragilità L’ultimo suggerimento che può essere indicato, nell’ottica dell’utilizzo di processi di autoinganno funzionale, è quello relativo al rapporto che ognuno di noi ha con le proprie debolezze. Anche in questo caso, abbiamo l’opinione diffusa che la fragilità o la cedevolezza corrispondono sempre a qualcosa di assolutamente negativo. Senza soffermarsi troppo sulla evidente inattendibilità di tale credenza, è utile prendere avvio dalla constatazione di come “ogni presunta virtù rovesciata su se stessa diviene un difetto, così come ogni presunto difetto può viceversa ri-orientato divenire una virtù”. Nello stesso modo la nostra debolezza può divenire un nostro punto di forza se non negata ma gestita ed utilizzata. La negazione della nostra fragilità, infatti, espressa nel rifiuto di accettare i nostri limiti e le nostre cedevolezze, fa si che questi divengano ingestibili e che pertanto in determinate situazioni ci travolgano. Se, al contrario, ci mettiamo nella posizione di chi non solo accetta le proprie fragilità ma se le prescrive, l’effetto è quello, il più delle volte, della riduzione o dell’annullamento degli esiti negativi che tali debolezze possono produrci. L’esempio più concreto è quello relativo ai cosiddetti uomini senza paura, quelle persone che praticano attività estreme, (esploratori dell’estremo, funamboli, ecc.); queste persone in realtà, come loro stesse riferiscono, non sono esenti dalla paura, anzi la sentono, l’accettano e la utilizzano come risorsa nell’affrontare le condizioni estreme alle quali si sottopongono. Anzi, in questo caso, ovviamente estremo, i brividi diventano addirittura una sorta di piacere. Il gioco, anche in questo caso, sta nel trasformare qualcosa che si subisce in qualcosa che si gestisce. Una persona, inoltre, che serenamente dichiara in determinate circostanze la sua fragilità agli altri, non solo non appare fragile ma decisamente forte. Poiché è necessario avere molto più coraggio e forza per dichiarare la propria debolezza che per celarla. Torna alla mente il vecchio saggio che dice benevolmente alla sua nipotina in lacrime: “ Talvolta, sai, si deve avere un bel coraggio e molta forza per piangere…”

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Riferimenti bibliografici (sugli scaffali della mia libreria)

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