64
4 Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania Luglio/agosto 2009 – Anno X Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino UN DECALOGO PER LA NUOVA LEGISLATURA EUROPEA PIER VIRGILIO DASTOLI Ê 17 IL CONSENSO COME CRITERIO DELLA GOVERNANCE MONDIALE PASQUALE FERRARA Ê 35 LA «CRISI DELLA SOCIALDEMOCRAZIA» E IL RICCIO DI ARCHILOCO MARCO PLUTINO Ê 23 AL CENTRO DI UNO SCENARIO MA CONTIAMO MOLTO POCO LUCIO CARACCIOLO Ê 39 OBAMA, L’UNIONE EUROPEA E IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE PAOLO WULZER Ê 31 ELEMENTI PER UN PROGETTO METROPOLITANO MICHELE MEZZA Ê 43 Un mondo in movimento Il problema dei problemi I grandi stabilimenti in- dustriali insediati nel Mezzo- giorno: una geografia di pun- ti ‘forti’ dello sviluppo non sempre conosciuta. La pesante recessione che sta colpendo il Paese non ha certo risparmiato il Mez- zogiorno, ma mentre in mol- te sue aree si è ulteriormente accentuato il già percepibile declino strutturale dei proto- distretti di pmi dell’industria leggera… Segue a pagina 11 Ê IL TEATRINO DEI PUPI messo in scena intorno alla vicen- da della sparizione dei fon- di per il Mezzogiorno si è concluso come previsto in farsa, con una riunione del Cipe convocato in fretta e furia per alimentare la solita ‘ammuina’ mediatica intorno ai conti dello Stato e questa volta anche europei. Sotto la pressione dell’improvvisa re- minescenza dei maggiorenti siciliani del Pdl, che hanno usato la distrazione dei fondi Fas destinati per legge al Sud come una clava contro Berlu- sconi evidentemente per ot- tenere nuoveSegue a pagina 2 Ê Punto di vista Governo e Mezzogiorno Le vacche di Fanfani Il Mezzogiorno affron- ta la crisi economica senza aver risolto molti dei suoi guai strutturali, con il risul- tato che, contrariamente a quanto avvenuto in passato in presenza di altre fasi con- giunturali negative di caratte- re internazionale, la crisi sta mordendo molto proprio in queste aree. I dati presentati nell’ultimo Rapporto SVIMEZ documentano il processo di deterioramento… Segue a pagina 7 Ê Occorre un nuovo me- ridionalismo” dice Andrea Geremicca nel suo edito- riale del Maggio-Giugno 2009, una nuova questione meridionale o invece dico io, bisogna porre finalmente nei suo termini più veri una questione italiana? È stata la mancata integrazione na- zionale fin dal 1860 la vera questione che ha toccato an- che luoghi geografici diversi da quelli Segue a pagina 15 Ê Il territorio della Campa- nia sta probabilmente viven- do la fase di più intensa crisi degli ultimi 20 anni. Il recente Rapporto della Banca d’Italia sull’economia della regione, ci dice questo. Prima in Italia per indice di povertà, –2,5 % nel fattura- to dell’industria, –1,8% per le esportazioni, –2,2 % nel numero di occupati con un tasso di disoccupazione or- mai quasi al 13%,… Segue a pagina 3 Ê

Numero 4/2009

Embed Size (px)

DESCRIPTION

Rivista Mezzogiorno Europa

Citation preview

Page 1: Numero 4/2009

4Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000.

Spedizione in abbonamento postale 70%Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Luglio

/ago

sto 2

009

– An

no X

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

tutti responsabili nessun responsabile?

RappoRto Svimez il veRo volto del Sud

la grande industriae il Mezzogiorno

Mezzogiorno, questione italiana

Un decalogo per la nUova legislatUra eUropeaPier Virgilio Dastoli Ê 17

il consenso come criterio della governance mondialePasquale Ferrara Ê 35

la «crisi della socialdemocrazia» e il riccio di archilocomarco Plutino Ê 23

al centro di Uno scenario ma contiamo molto pocolucio caracciolo Ê 39

obama, l’Unione eUropea e il conflitto israelo-palestinesePaolo Wulzer Ê 31

elementi per Un progetto metropolitanomichele mezza Ê 43

Un mondo in movimento

Il problema dei problemi

I grandi stabilimenti in-dustriali insediati nel Mezzo-giorno: una geografia di pun-ti ‘forti’ dello sviluppo non sempre conosciuta.

La pesante recessione che sta colpendo il Paese non ha certo risparmiato il Mez-zogiorno, ma mentre in mol-te sue aree si è ulteriormente accentuato il già percepibile declino strutturale dei proto-distretti di pmi dell’industria leggera…

Segue a pagina 11 Ê

Il teatrIno deI PuPI messo in scena intorno alla vicen-da della sparizione dei fon-di per il Mezzogiorno si è concluso come previsto in

farsa, con una riunione del Cipe convocato in fretta e furia per alimentare la solita ‘ammuina’ mediatica intorno ai conti dello Stato e questa

volta anche europei. Sotto la pressione dell’improvvisa re-minescenza dei maggiorenti siciliani del Pdl, che hanno usato la distrazione dei fondi

Fas destinati per legge al Sud come una clava contro Berlu-sconi evidentemente per ot-tenere nuove…

Segue a pagina 2 Ê

Punto di vistaGoverno e Mezzogiorno

Le vacche di Fanfani

Il Mezzogiorno affron-ta la crisi economica senza aver risolto molti dei suoi guai strutturali, con il risul-tato che, contrariamente a quanto avvenuto in passato in presenza di altre fasi con-giunturali negative di caratte-re internazionale, la crisi sta mordendo molto proprio in queste aree. I dati presentati nell’ultimo Rapporto SVIMEZ documentano il processo di deterioramento…

Segue a pagina 7 Ê

“Occorre un nuovo me-ridionalismo” dice Andrea Geremicca nel suo edito-riale del Maggio-Giugno 2009, una nuova questione meridionale o invece dico io, bisogna porre finalmente nei suo termini più veri una questione italiana? È stata la mancata integrazione na-zionale fin dal 1860 la vera questione che ha toccato an-che luoghi geografici diversi da quelli…

Segue a pagina 15 Ê

Il territorio della Campa-nia sta probabilmente viven-do la fase di più intensa crisi degli ultimi 20 anni.

Il recente Rapporto della Banca d’Italia sull’economia della regione, ci dice questo. Prima in Italia per indice di povertà, –2,5 % nel fattura-to dell’industria, –1,8% per le esportazioni, –2,2 % nel numero di occupati con un tasso di disoccupazione or-mai quasi al 13%,…

Segue a pagina 3 Ê

Page 2: Numero 4/2009

2Punto di vista…poltrone nelle redivive ‘Cassa del Mezzogiorno’ e ‘Banca del sud’, pa-lazzo Chigi e il ministero dell’Econo-mia hanno ritirato fuori dalle stalle le vacche di Fanfani e dai garage i carri armati di Mussolini. Il Cipe ha così ripartito per la terza volta gli stessi soldi per la Sicilia rimasti bloccati nelle esauste casse dei Fas, dopo la falcidia operata dal governo dal 2008 a oggi. Pari destino mediatico si annuncia per le altre regioni.

La vicenda, anche solo per chi si è dato cura di collegarsi con lo stesso sito del ministero dell’Economia sen-za scomodare la Gazzetta ufficiale, è nota. Il Qsn, documento di pro-grammazione per i fondi strutturali 2007-2013, licenziato dall’allora mi-nistro Bersani, prevede 120 miliardi per progetti da realizzare nelle aree svantaggiate del paese: 85% al sud e il 15% al nord, come buon senso e analisi economica impongono. Di questi, 64 vengono finanziati dallo Stato italiano e il resto dall’Europa. Per la prima volta, questa è stata la logica seguita dal ministro di Pro-di, fondi nazionali venivano pro-grammati insieme a quelli europei per lo stesso periodo e intorno agli stessi obiettivi, per creare la massi-

ma sinergia, trasparenza e comple-mentarietà.

Nel corso del 2008 però il gover-no Berlusconi ha cominciato a usare i Fas come un bancomat per finan-ziare le esigenze di spesa corrente, dall’abolizione dell’Ici sulla prima casa (di lusso) alle multe sulle quote latte pagate al posto degli allevatori, all’organizzazione del G8, agli am-mortizzatori sociali, all’edilizia carce-raria, al termovalorizzatore di Acerra e chi più ne ha più ne metta.

L’intera programmazione dei fondi strutturali europei di conse-guenza si blocca, per la necessità tecnica di rideterminare i proget-ti cofinanziati. Il tutto viene fatto nel completo silenzio e all’oscuro dell’opinione pubblica, nonostante l’Unione europea preveda la massi-ma pubblicizzazione e trasparenza. Gli unici due mezzi di comunica-zione istituzionale finora esistenti e voluti da Bruxelles non sono più di-sponibili. Il giornale del Dipartimen-to dei fondi strutturali del ministero dello Sviluppo economico non esce dall’anno scorso e la pubblicazione sul sito dell’Igrue dello stato di avan-zamento dei progetti finanziati – un tempo accessibile liberamente e a

cadenza trimestrale – è protetto da una password. Evidentemente per-ché non si vuole o non c’è più nulla da raccontare.

Arriviamo così alla delibera Cipe del 6 marzo scorso pubblicata in Gazzetta ufficiale solo il 18 giugno scorso, in cui si mette nero su bianco quel che già si è nel frattempo deli-berato: nella casse Fas ci sarebbero rimasti circa 45 miliardi, ma 18 sono stati già ripartiti tra i vari ministeri per le note spese correnti e ordinarie. Per gli interventi di sviluppo nelle regioni ne rimangono 27, di cui, appunto 4 per la Sicilia. Guarda caso gli stessi che Berlusconi e Tremonti annun-ciano in conferenza stampa come se fossero nuovi.

In realtà sul piatto della bilancia della finanza aggiuntiva per il Sud mancano all’appello ormai più di 35 miliardi e quanto rimane non ha copertura di cassa prima del 2010, a 4 anni dall’inizio della programma-zione. Se questo è il ‘’Piano Marshall per il sud’’ vagheggiato da Tremonti c’è da augurarsi al più presto un nuo-vo sbarco alleato in Sicilia.

Gianni PittellaPrimo Vicepresidente Parlamento Europeo

I lavori che illustrano

questo numero

sono di Rosanna Capuano,

architetto, urbanista,

artista, collaboratrice

di Mezzogiorno

Europa, recentemente

scomparsa, a cui

la Fondazione dedica

un premio il cui bando

sarà pubblicato

nel prossimo numero.

Ambiente Il dibattito sulle politiche

innovative urbane

Eirene Sbriziolo » 48

Recensioni Il nuovo arriva dal Sud Luca Meldolesi » 55 Lo sviluppo economico Achille Flora » 57 Il Sud che resiste Pasquale Iorio » 58

euRonote di Andrea Pierucci » 60

Le vacche di FanfaniSegue da pagina 1 Ê

sommARio

Page 3: Numero 4/2009

3

> segue dalla prima pagina

… –14,9 % nelle compravendite im-mobiliari, –3,8 % nel settore turistico. A ciò va aggiunta una brusca stret-ta del credito – molto maggiore ad esempio rispetto a Puglia e Basilicata e addirittura in controtendenza rispet-to a Lombardia e Lazio – che, per il settore manifatturiero, tocca il 7,3%.

La Svimez, sul cui Rapporto si verrà nello specifico più avanti, se-gnala per la Campania una previsio-ne di ulteriore decrescita del PIL per il 2009 pari al 2,8%.

Di fronte a questi terribili dati, spicca – nello Studio Forum P.A. 2009 sull’efficienza amministrativa delle regioni italiane – come la Cam-pania sia nelle ultime tre posizioni praticamente su tutti gli indicatori monitorati: tempo medio per i paga-menti delle amministrazioni, livello delle prestazioni socio sanitarie, nu-mero delle procedure amministrative concluse, servizi offerti a cittadini e imprese, livello dei servizi pubblici locali, tempi della giustizia, qualità dell’offerta formativa.

Non vi è dubbio sul fatto che queste riflessioni vadano interpreta-te anche alla luce degli effetti che la grande crisi mondiale ha complessi-vamente prodotto sull’Europa, e in particolare sull’Italia, Paese con un tessuto produttivo non particolar-mente robusto e consolidato.

E non vi è dubbio anche sul fatto che le conseguenze del vero e pro-prio shock finanziario, e quindi eco-nomico e sociale come immediata conseguenza, si siano avvertite in misura particolare nel Mezzogiorno, laddove permangono condizioni di debolezza e arretratezza certamente più estese rispetto al resto del Pae-se. Ma detto questo, ciò non spiega

il vero e proprio “tracollo campano”, con un territorio oramai fanalino di coda nazionale e meridionale, sui temi della crescita, dello sviluppo, della produzione di ricchezza, del-la buona occupazione. Assistiamo all’implosione di un modello impro-duttivo e nemico del dinamismo, vo-tato sostanzialmente alla conserva-zione, che ha fatto della spesa pub-blica il principale ed improprio stru-mento di tenuta politico-elettorale e sociale, che si è contraddistinto per la vacuità e l’inconcludenza di una politica degli annunci e dei progetti che mai sono diventati realizzazioni concrete e interventi risolutivi.

A Napoli siamo inchiodati alla stessa agenda dal 1993, ma se esten-dessimo il discorso su scala regiona-le, i risultati non cambierebbero mol-to. Da almeno due lustri discutiamo di bonifiche, di rigenerazione am-bientale, di ciclo integrato dei rifiuti, di Mediterraneo, di valorizzazione della risorsa turismo, di riforme am-ministrative, senza che mai si riesca a chiudere un solo dossier con effetti percepibili e misurabili in termini di PIL regionale e sviluppo.

Intanto l’Italia, l’Europa, il mondo sono andati avanti, lasciando i nostri territori ben lontani dalla modernità, a partire dai grandi progetti di riqua-lificazione urbanistica e di recupero di aree e siti dismessi, tipici delle sta-gioni post industriali, destinati oggi al terziario avanzato, alla ricerca, alla produzione hi tech, alla cultura.

Altrove si sviluppano anche po-litiche ed interventi per l’energia, le rinnovabili, per aprire i mercati alle nuove professioni legate alle oppor-tunità offerte dall’Unione Europea, politiche vere di supporto all’inter-nazionalizzazione, misure e proget-ti per la diffusione della banda larga,

Ivano RussoTutti responsabili

nessun responsabile?IL TRACOLLO CAMPANO

Page 4: Numero 4/2009

4

per le connessioni, per la redazione dei cosiddetti “piani regolatori digita-li”, per le reti di nuova generazione.

Si sperimentano misure di welfare locale orientate all’integrazione, al rafforzamento del tasso di occupa-zione femminile, alla valorizzazione del merito e dei talenti. Si ragiona di nuove Politiche Attive per il Lavoro e la formazione, orientate alla salva-guardia del capitale sociale e aggan-ciate ai meccanismi di valutazione ri-spetto al reale reintegro dei lavoratori espulsi dai cicli produttivi.

E ancora, l’attrazione di capitali e investimenti, il principio di sussidia-rietà declinato per l’economia e per le istituzioni, l’attuazione di model-li di partecipazione regolata dei cit-tadini ai processi decisionali ed alla vita pubblica. Insomma, questo deve intendersi per modernità: un territo-rio che dia opportunità ai giovani, che liberi energie, con una pubblica amministrazione informatizzata, una regione realmente capitale eurome-diterranea e grande sito turistico uni-versale, una best practies nazionale per registrazione di brevetti, trasferi-mento tecnologico, coinvolgimento di venture capital a sostegno di idee imprenditoriali giovani ed innovative. In grado di fare da snodo per una più vasta rete dei saperi che coinvolga Europa, paesi rivieraschi del Medi-terraneo, Balcani, Far Est.

Una regione anche piattaforma lo-gistica, capofila di un grande progetto meridionale e sovraregionale di colle-

gamento trai principali porti, aeroporti, interporti e sistemi ferroviari, il tutto in stretto raccordo con la politica euro-pea dei Corridoi e delle Reti transfron-taliere, per intercettare la grande mole di traffico di merci e container che, da India e Cina, viaggia verso Europa continentale e Stati Uniti. Ovviamen-te siamo ben distanti da tali obiettivi, e su questo terreno di indagine risulta assi prezioso il Rapporto Svimez che segnala una Campania in gravissimo affanno anche rispetto alle più com-plessive difficoltà dell’intera area.

Si provi a guardare “dentro” il Mezzogiorno per capire – a parità quindi di condizioni complessive Sud-Sud – come stanno andando le cose. A livello regionale la Campania mostra una diminuzione del PIL parti-colarmente elevata ( – 2,8%), mentre non solo le altre regioni presentano perdite più contenute ma addirittura la Puglia, che è l’area con la struttura produttiva più simile a quella del no-stro territorio, risulta essere la meno colpita (–0,2%).

In agricoltura, eccezionale è sta-ta la performance della Basilicata (+ 24%), molto bene anche i dati di Abruzzo, Molise e Puglia, crescita solo lieve per la Sicilia (+2,9%), segno meno, invece, per la Calabria (–0,8%) e vero e proprio tonfo della Campania (–1,8%). La Campania non è riuscita a stare al passo neanche rispetto al trend generale della crescita dell’export, ben distante dai risultati di Molise (+105%) e Basilicata (+ 98%). Stesso discorso

per il settore turismo: Sardegna e Pu-glia hanno trainato la crescita del com-parto con rispettivi +12,5% e +11,2%, la Campania ha fatto registrare un più modesto +3,3%, pur ospitando circa la metà dei grandi attrattori turistici me-ridionali. Nel comparto energia, poi, la regione è al poco invidiabile secon-do posto per tasso di interruzione di energia elettrica e addirittura penulti-ma nel Sud – dopo Molise, Calabria, Basilicata e Puglia – per diffusione di fonti rinnovabili. La Campania è anche la regione con la più alta percentuale di acque non depurate (11,5%), non-ché terzultima in merito alle azioni di contrasto rispetto al rischio sismi, fra-ne ed erosioni.

Neanche sul terreno dei servizi innovativi e delle infrastrutture im-materiali offerti ad imprese e cittadini si è riusciti ad affermare un primato: prime tre regioni per la diffusione, ad esempio, della banda larga sono Basilicata, Puglia e Calabria.

Per quanto attiene poi ad alcune specifiche funzioni legate alla Pub-blica Amministrazione, ad esempio “per progettare e affidare i lavori di una infrastruttura, sono necessari in Italia 900 giorni risultanti dalla me-dia di diversi valori regionali”: pri-ma la Lombardia (583 giorni), ultime Campania e Sicilia (con 1.100 giorni e 1.582 giorni). Ovviamente anche le prestazioni pubbliche ed i servizi legati al welfare, a partire dalla sani-tà, sono i peggiori nel rapporto co-sti – benefici per i fruitori.

Venendo al tema “mercato del lavoro”, per il terzo anno consecu-tivo, sempre nel 2008, si registrano risultati positivi per Molise (+1,6%), Puglia (0,3%), Abruzzo (3,2%), men-tre crollano gli occupati in Campania (-2,2%) e Calabria (-1,2%). E la Cam-pania conosce il crollo, in particola-re e in controtendenza, anche degli occupati del settore servizi (-1,4%), oltre a detenere i non invidiabili pri-mati del più alto numero in valore assoluto di lavoratori irregolari e “in nero” (329 mila) e il record delle emi-grazioni verso il Nord o l’Europa di lavoratori e giovani talenti alla ricer-ca di una opportunità professionale (25 mila nel solo 2008, circa 270 mila nel decennio 1997 – 2008). In Cam-pania, infine, lavora solo il 40% del-

Page 5: Numero 4/2009

5

la popolazione e le donne in attività sono, percentuale più bassa di tutto il Mezzogiorno in compagnia della Sicilia, solo 3 su 10.

È chiaro che, per usare un eufe-mismo, qualcosa non avrà funziona-to nelle politiche pubbliche territo-riali e nelle scelte di governo locale. Proprio a proposito dell’architettura istituzionale legata ai processi de-cisionali, è da considerare utile – a partire dal tema fondi europei, ma non limitandosi ad esso – la riflessio-ne sulla necessità di prevedere forme di coordinamento nazionale e cen-tralizzazione concertata per le stra-tegie e le politiche per il Mezzogior-no. Delle due, l’una: Il Sud va con-siderato sostanzialmente come una macroregione nazionale ed europea

abbastanza omogenea ed in grave ri-tardo di sviluppo? Allora occorrono politiche “di Convergenza” sovrater-ritoriali e trasversali, perché i grandi settori di intervento realmente in gra-do di colmare il gap – infrastrutture materiali, connessioni, reti di nuova generazione, sostegno a poli regionali diversificati di trasferimento tecnolo-gico, politiche di differenziazione fi-scale, sostegno alla specializzazione produttiva e all’internazionalizzazio-ne – non sono progettabili e praticabili dalle singole regioni e dall’arcipelago stratificato e barocco di istituzioni lo-cali, agenzie territoriali ed enti pubbli-ci che ne fanno da corredo. L’idea di un Coordinamento dei Governatori è fallita già almeno tre volte, e servono invece misure e strumenti straordina-ri dentro una cornice unitaria e na-zionale di azione e visione. Che sia un’Authority, un’Agenzia o uno spe-cifico Dipartimento della Presidenza del Consiglio, che si voglia pensare ad alcune specifiche Leggi Obiettivo per selezionate aree geografiche o per temi, che si vogliano prevedere in casi speciali Commissari ad acta responsa-bili dei singoli procedimenti attuativi o misure temporanee di semplificazio-ne normativa per accelerare le realiz-zazioni e snellire le procedure anche in deroga alle normative vigenti, ciò che è certo è che serve una cabina di regia nazionale, ovviamente che coin-

volga anche le regioni, ma che abbia la gestione delle risorse finanziarie, la responsabilità progettuale, gli stru-menti operativi necessari.

L’altra tesi, pure ad intermittenza rispolverata, è che invece non esista un Mezzogiorno, ma tante aree ter-ritoriali molto differenti tra loro per livelli di sviluppo, qualità della vita, ricchezza prodotta, dotazioni infra-strutturali. A questo Sud non servi-rebbero, quindi, né interventi stra-ordinari né misure centralistiche ed omogenee ed è giusto che i protago-nisti locali sfruttino le risorse ordina-rie, nazionali ed europee a propria disposizione per correggere ed “ag-giustare il tiro” rispetto agli squilibri ed alle specifiche difficoltà territoria-li. La cornice che tiene dentro questo ragionamento è abbastanza sempli-ce, ed incentrata sul principio che ciò che serve al Sud servirebbe in verità a tutto il Paese: alleggerimento del carico fiscale, lotta alla criminalità, un vero piano di infrastrutture e pro-fonde riforme amministrative.

Personalmente trovo questa se-conda tesi semplicistica e liquidato-ria rispetto al grande tema dell’eco-nomia duale che caratterizza il Pae-se fin dalla sua unificazione, ma co-munque, in un caso e nell’altro, non bisogna cadere nel tranello di una discussione incentrata sull’assenza di risorse finanziarie per rimettere in

moto lo sviluppo. Non è stato que-sto il principale limite per la nostra crescita negli anni passati, e non lo sarà in futuro.

Ci sono i fondi europei. Obiettivo Convergenza per il ciclo di program-mazione 2007 – 2013, ancora scanda-losamente fermo in Campania come sostenuto in un bell’articolo di Isaia Sa-les apparso il mese scorso sul Corrie-re del Mezzogiorno. Ci sono i residui fondi FAS, le risorse del Fondo Socia-le Europeo, i programmi a Sportello Bruxelles e gli altri strumenti finanziari comunitari, a partire dall’Unione per il Mediterraneo e dalla Politica UE di Vicinato. Ci sono poi i trasferimenti ordinari dal centro e, certamente, vi sarebbero anche importanti capitali privati di fronte ad un progetto di svi-luppo serio e di questa portata.

Mi pare che, complessivamente, con un buon corredo di idee e con una impostazione strategica chiara e orientata al fare e al fare bene,non manchino né gli strumenti finanziari né quelli normativi per cambiare in profondità il volto della nostra Re-gione e dell’intero Mezzogiorno. Il problema vero riguarda la volontà politica di farlo e il fatto che le classi dirigenti – meridionali e in larga par-te anche nazionali – non la hanno certamente fino ad ora mostrata.

Direttore di Mezzogiorno Europae Coordinatore di Italianieuropei Napoli

Page 6: Numero 4/2009
Page 7: Numero 4/2009

> segue dalla prima pagina

…in atto nel Mezzogiorno, a livello di capitale fisso, sociale e produttivo, che ostacola il processo di adegua-mento competitivo di tale area ed ac-cresce le condizioni di fragilità delle sue strutture produttive.

Il rallentamento degli investi-menti produttivi privati è accompa-gnato da un parallelo indebolimento degli investimenti effettuati dall’Am-ministrazione pubblica e delle impre-se pubbliche, nazionali e locali, cui si aggiungono in questa fase i consi-stenti tagli ai Fondi per il Sud definiti dal Governo Berlusconi.

Si è così “inceppato” il mecca-nismo di accumulazione che può guidare il recupero di produttività e quindi di competitività del Mez-zogiorno. Se consideriamo che nel corso del 2009 si stanno ulterior-mente accentuando la contrazione delle attività economiche, le incer-tezze in materia di tenuta dei redditi, le difficoltà del mercato del lavoro, è concreto il rischio, che in assenza di forti discontinuità, il Mezzogiorno si allontani ulteriormente dal processo di convergenza con il resto del Paese, confermando il suo ruolo di Ceneren-tola rispetto alle altre aree europee dell’obiettivo 1, che hanno dimostra-to maggiore capacità di trarre vantag-gio dalle politiche di coesione.

Il Rapporto della SVIMEZ, con-sapevole di tale rischio, dedica am-pio spazio, quest’anno, alla identifi-cazione di alcune linee di intervento per sostenere il Mezzogiorno nell’at-tuale difficile congiuntura: sviluppo di alcune reti infrastrutturali strate-giche, rafforzamento della qualità del territorio, rilancio delle politiche industriali, azioni per aumentare l’internazionalizzazione del sistema produttivo.

Occorre però assumere la con-sapevolezza che le questioni poste non possano esaurirsi nelle “quanti-tà” delle risorse finanziarie pubbliche e private da attrarre. Occorre ridare legittimità alla destinazione di tali risorse, introducendo nelle politiche

di sviluppo, adattamenti istituzionali e capacità di governo in grado di as-sicurare il più efficace ritorno degli investimenti.

Il problema, pur esistente, dei “volumi” di trasferimento di risorse pubbliche nel Mezzogiorno non può non evocare il problema parallelo di dotare il Mezzogiorno di una cultura politica e gestionale, in grado di por-re fuori gioco il blocco politico buro-cratico che da anni si autoalimenta con le risorse sottratte allo sviluppo di tale area.

Proprio la lettura di alcuni dati statistici non strettamente economi-ci, offrono una chiara indicazione di un inceppamento del processo di modernizzazione della società meri-dionale, che finisce necessariamen-te per riflettersi anche sul progresso della sua economia.

Un elemento centrale è quello della qualità del sistema formativo. Le debolezze della rete formativa italia-na riguardano sia la presenza di stan-dard qualitativi inferiori agli altri gran-di paesi sviluppati, sia un inadeguato sistema di transizione scuola-lavoro. Rappresenta un importante segnale di allarme il fatto che, dopo una lun-ga fase di crescita ininterrotta, il tasso d’iscrizione all’Università al Sud negli ultimi anni abbia cominciato a de-

clinare. Nel 2002 circa 72 diploma-ti meridionali su 100 si iscrivevamo all’Università; tale quota nel 2007 è scesa al 64%. Ciò vuol dire che, men-tre fino a un recente passato la con-vinzione della spendibilità di un titolo di studio terziario sul mercato del la-voro aveva favorito l’espansione dei livelli di partecipazione, nella fase di difficoltà degli ultimi anni sembrano emergere segnali di un certo scorag-giamento fra le coorti più giovani a investire nell’istruzione avanzata. La consapevolezza di un’effettiva disu-guaglianza delle opportunità, come testimoniato dalla elevata correlazio-ne tra il titolo di studio dei genitori e quello dei figli, con forti ricadute anche sulla possibilità di trovare una occupazione, contribuisce a ingessa-re il sistema economico e sociale me-ridionale. Questo circolo vizioso ha effetti devastanti, in quanto aumenta la dipendenza dei giovani dalle fami-glie, riduce la crescita demografica e la mobilità sociale.

Studiare serve soprattutto ad emi-grare, in particolare per coloro che, non provenendo da famiglie agiate non possono godere di quel sistema di relazioni informali che rappresenta ancora nel Sud uno dei principali ca-nali di accesso al mercato del lavoro. I dati riportati nel Rapporto consento-no di verificare un ulteriore incremen-to della tendenza ad emigrare al Nord dei laureati del Mezzogiorno. Il primo momento della fuoriuscita è connes-so alla scelta di studio: mentre rimane irrisoria la quota di giovani del Cen-tro-Nord che scelgono di studiare in una regione del Sud (meno dell’1%), circa un meridionale su quattro che si iscrive all’Università lo fa in un Ate-neo fuori dal Mezzogiorno. Dunque, nonostante l’incremento registrato negli ultimi anni di Università e so-prattutto di corsi di laurea nel Sud (spesso non abbastanza qualificati), non si indebolisce il flusso in uscita né tantomeno aumenta la capacità di attrarre giovani dal Centro-Nord.

Luca BianchiNel Rapporto Svimez

IL vERO vOLTO dEL SUd

7

Page 8: Numero 4/2009

88Il secondo momento di fuga dal

Sud avviene al momento di trovare una occupazione. Tra i laureati me-ridionali che a tre anni dalla laurea si dichiarano occupati, nel 2007 ben il 41,5% (26.000 su 62.576) lavora in una regione del Centro-Nord, una percentuale più elevata di due punti percentuali rispetto a quella rilevata nell’indagine ISTAT precedente, re-lativa al 2004, e di ben dieci punti percentuali rispetto all’indagine del 2001. Per completare il quadro sulla mobilità, è interessante notare che circa il 40% dei laureati meridionali che hanno trovato lavoro al Nord si è laureato con una votazione pari a 110 o 110 e lode, a conferma di una forte selezione da parte del mercato del lavoro settentrionale.

La mobilità dei laureati meri-dionali appare garantire, soprattutto ai più bravi, migliori probabilità di trovare un’occupazione e un lavo-ro meglio remunerato di quanto non sarebbe possibile ottenere nel Mez-zogiorno. In questo senso la mobilità geografica se, da un lato, deprime le prospettive di crescita dell’intera eco-nomia meridionale, dall’altro, appare un mezzo per consentire una valo-rizzazione del merito e quindi una maggiore mobilità sociale. Il manca-to superamento dei vincoli costituiti da un apparato produttivo debole e

da un sistema sociale bloccato, no-nostante i progressi nella formazione scolastica universitaria, condanna il Mezzogiorno al ruolo di fornitore di risorse umane qualificate al resto del Paese e i suoi migliori giovani a cer-care altrove le modalità per mettere a frutto le proprie competenze e a realizzare i propri sogni.

La politica regionale di sviluppo non può essere solo politica “spazia-le” di intervento (attraverso incenti-vi fiscali, e investimenti pubblici) ma deve essere accompagnata da politi-che anche territorialmente differen-ziate, in grado di elevare la qualità di alcuni beni pubblici essenziali. In tale ottica assumono particolare rilevanza il tema della Pubblica Amministrazio-ne e quello del welfare.

Una riforma efficiente della P.A permetterebbe, come accaduto nelle esperienze straniere di maggior suc-cesso, di rimettere in circolo riserve di produttività compresse da dispo-sitivi normativi e dal conformismo dei comportamenti burocratici. Le inefficienze della Pubblica Ammini-strazione si riflettono anche nel di-storto ruolo dello Stato nell’economia meridionale. Infatti, contrariamente a quanto si pensi, nell’ultimo decennio l’invadenza dello Stato nell’economia meridionale è cresciuta significativa-mente andando soprattutto a invade-

re ampi settori di mercato che non gli sono propri, soprattutto attraverso la gestione dei fondi strutturali europei. Contemporaneamente, il ruolo pub-blico si è ridotto nei principali am-biti dell’intervento ordinario, quello in grado di offrire condizioni di vita ai cittadini e di contesto produttivo alle imprese paragonabili a quelle esistenti nel resto del Paese: legalità, sicurezza, buona amministrazione, erogazione di acqua e energia elet-trica, sistema di istruzione.

Basta fare una veloce rassegna di alcuni dati per rendersi conto dei nuovi “contenuti” del divario Nord-Sud. La percentuale di famiglie che denunciano irregolarità nella distri-buzione dell’acqua è pari al 21,8% nel Sud (supera il 30% in Calabria e Sicilia), contro il 9% nel Centro-Nord; il grado di insoddisfazione del servizio elettrico è nel Sud circa tre volte superiore al Centro-Nord; nei servizi ospedalieri, la quota di rico-veri in ospedali di altra ripartizione risulta nel Mezzogiorno pari a 6 volte a quella del Centro Nord. In tema di raccolta rifiuti, la quota di rifiuti in-viata in discarica è ancora all’83% nel Mezzogiorno, contro circa il 70 ed il 30% nel Centro e nel Nord. La rac-colta differenziata nel Mezzogiorno è pari ad un terzo di quella del Centro-Nord. Abbiamo poi alcuni elementi

di inefficienza difficilmente spiegabili anche con i fattori di contesto locale. Non si spiega bene perché le perso-ne che denunciano file alla posta su-periori ai 20 minuti debbano essere nel Mezzogiorno il doppio che nel Centro-Nord ed ugualmente questo avviene per le ASL.

Un approfondimento a parte me-rita il tema dell’efficienza del sistema giudiziario. I tempi lunghi di risolu-zione delle controversie civili genera-no ogni anno costi insopportabili che minano le condizioni di sopravviven-za delle imprese di minori dimensio-ni. La durata media dei procedimenti di cognizione di primo grado è nel Mezzogiorno di 1.200 giorni per il totale dei procedimenti e di circa 1.000 per le cause di lavoro, contro, rispettivamente, 750 e 500 giorni nel Centro-Nord.

Pesano come un macigno sulle prospettive di realizzare significativi avanzamenti nelle dotazioni dei ter-ritori meridionali le difficoltà, presen-ti nell’intero Paese, nel realizzare le opere pubbliche. I dati dell’ultima Re-lazione dell’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici mostrano una durata complessiva delle fasi ammini-strative necessarie solo a “decidere” di circa 900 giorni; si tratta del pe-riodo che passa tra la data di incari-co per la progettazione esterna e la data dell’aggiudicazione definitiva. Questi 900 giorni però nascondono grandi variabilità territoriali: si pas-sa, infatti, dai 583 giorni della Lom-bardia ai 1.120 della Campania, fino ai 1.582 della Sicilia. Ciò vuol dire 4 anni solo per cominciare una opera pubblica.

Questi dati confermano come si trascini irrisolta al Sud ancor più che al Nord la questione dei rapporti tra poteri politici e poteri amministrativi; da qui la continuità di un rapporto di sudditanza del dirigente pubblico al potere politico. Le esperienze stra-niere di maggiore successo, cui bi-sognerebbe ispirarsi attribuiscono al dirigente pubblico autorità e respon-sabilità nell’applicare una dettagliata procedura di pianificazione strategi-

Page 9: Numero 4/2009

9ca ed operativa, favoriscono maggio-re trasparenza nei processi decisio-nali, consentendo di meglio traccia-re i confini tra ciò che appartiene al potere politico e ciò che appartiene al potere amministrativo.

Il tema della debolezza della pub-blica amministrazione si intreccia con quello di un inadeguato sistema di Welfare; i due ambiti sono entrambi strettamente connessi con il livello e la qualità delle prestazioni erogate ai cittadini. In termini di spesa complessi-va per la protezione sociale rapportata al PIL, l’Italia non si discosta di mol-to dalla media europea: nel 2006 era al 26,6% a fronte del 27% della UE a 25. L’anomalia italiana sta nella quota molto elevata della spesa previden-ziale destinata alla popolazione in età avanzata (58,8% della spesa sociale complessivamente erogata, a fronte di valori inferiori al 50% della qua-si totalità dei paesi europei). Proprio per effetto della concentrazione delle pensioni nel Centro-Nord, la spesa del Welfare che riceve ogni abitante è pari a 7.200 euro al Nord e a 5.700 euro al Sud, con un divario a sfavore del citta-dino del Sud di circa 1.500 euro.

Gli interventi di riforma sin qui adottati, troppo timidi nel modificare lo status quo, hanno solo parzialmen-te contenuto la tendenza espansiva della spesa previdenziale. Nonostan-te le diverse riforme del sistema pre-videnziale, l’età media di pensiona-mento permane nel nostro Paese, e soprattutto nel Centro-Nord, piutto-sto bassa: 56,3 anni al Nord e 58,3 anni al Sud, in entrambe le aree con circa 35 anni di contributi versati. Ciò conferma che esistono ancore spazi di intervento nello scoraggiare forme di pensionamento anticipato!

Rimane invece ancora debole la seconda gamba del Welfare italiano, quella che dovrebbe favorire, attraver-so servizi e trasferimenti, l’inclusione sociale e l’ampliamento delle oppor-tunità. Queste carenze relative al li-vello nazionale sottendono squilibri rilevanti a livello territoriale delle due circoscrizioni. In particolare, divari si evidenziano nei servizi socio-assisten-

ziali a favore di minori ed anziani. Ad esempio, la percentuale di bambini accolti in asilo nido, pubblici o privati convenzionati, è al 4,5% nel Mezzo-giorno, rispetto al 15,0% della media nazionale, mentre è ancora all’1,8% nel Mezzogiorno. Tali debolezze ri-guardano il Welfare nazionale ma si ampliano ulteriormente per quanto ri-guarda il sistema di protezione ai più deboli offerto dalle amministrazioni lo-cali. Con riferimento all’area famiglia-infanzia, il welfare locale garantisce una spesa pro capite di 130 euro al Centro-Nord e di appena 54 euro nel Mezzogiorno. Il divario si aggrava ulte-riormente se consideriamo la spesa per disabili: 3.500 euro annue per disabile al Centro-Nord contro 800 euro nel Sud. Abbiamo regioni del Sud dove, di fatto, viene appaltato alla famiglia la soluzione di tutti i problemi di emargi-nazione sociale e di difficoltà

Anche il sistema di ammortiz-zatori sociali finisce per non tutelare ampie parti dell’offerta di lavoro. L’at-tuale sistema è infatti legato ad un ap-proccio tradizionale di protezione del lavoratore contro il rischio di disoc-cupazione che tutela solamente chi ha già avuto una occupazione a ca-rattere subordinato, solitamente per un periodo non marginale di tempo, escludendo i giovani e i dipendenti con storie lavorative frammentate e di breve durata. È evidente come un sistema siffatto comporti il raziona-mento di quelle aree territoriali ove minore è il peso del settore indu-striale e delle imprese medio-grandi e dove maggiore è, per converso, la quota di occupazione precaria ed ir-regolare. In base a valutazioni svolte dalla SVIMEZ, il numero degli oc-cupati esclusi da ogni tutela è in Ita-lia valutabile in circa 2 milioni e di questi circa 650 mila sono nel Mez-zogiorno. Se a questi aggiungiamo nel Sud i disoccupati e i lavoratori in nero, circa il 50% della forza lavoro del Mezzogiorno è outsider rispet-to al sistema di ammortizzatori. Ciò pone con forza l’esigenza di una ri-forma in grado di potenziare l’offerta di aiuti economici e di servizi diretti

ai lavoratori espulsi dal ciclo produt-tivo, tramite ammortizzatori sociali ri-volti ai singoli individui indipenden-temente dal settore, dalla dimensione e dalla tipologia delle imprese.

Egualmente andrebbe riaperto nel Paese un dibattito sulla esigen-za di forme universali di tutela del reddito. Il fenomeno della povertà sta purtroppo assumendo nel nostro Paese, e nel Mezzogiorno in partico-lare, una crescente rilevanza che non può essere trascurata.

La SVIMEZ, utilizzando il model-lo MICROREG dell’IRPET, ha condot-to una simulazione per valutare, in base ai dati ISTAT sulle famiglie che vivono al di sotto della soglia di po-vertà assoluta, il costo che compor-terebbe l’introduzione di una forma di sussidio universale al reddito in grado di riportare il reddito familiare al di sopra di tale soglia. L’esercizio condotto ha valutato in circa 2 mi-liardi di euro all’anno il costo di un intervento universale in grado di far uscire tutte le famiglie dalla condi-zione di povertà, assicurando il dif-ferenziale tra il reddito percepito e la soglia definita dall’ISTAT. Il costo di tale intervento, che renderebbe il nostro sistema di protezione sociale più omogeneo al modello prevalen-te negli altri paesi europei, se con-frontato con quello di misure recenti come l’abolizione dell’ICI sulla prima casa, non appare incompatibile con gli equilibri di finanza pubblica. Nel breve e medio periodo – naturalmen-te con modalità e tempi da stabilire con metodi concertativi – le risorse necessarie potrebbero derivare da un modesto contenimento della spesa pensionistica.

Si pone dunque un problema di riforma del welfare improntata alla universalità degli interventi. Un simi-le sistema, proprio perché universale e non soggetto a selettività, può inol-tre contribuire a indebolire il ruolo dell’intermediazione politico-buro-cratico, legata alla discrezionalità nella concessione della prestazione (pensiamo alle pensioni di invalidi-tà), che ha condizionato molto spes-

so nel Sud il rapporto tra cittadino e potere politico.

Questa attenzione ai problemi politico-istituzionali si intreccia ovvia-mente con le prospettive del federali-smo che ne costituisce l’innovazione più rilevante. Anche se, allo stato at-tuale, si è in presenza solo di principi indicativi e manca una base informa-tiva omogenea ed aggiornata di dati in grado di quantificare gli effetti del federalismo fiscale in termini di redi-stribuzione territoriale delle risorse, non possiamo dimenticare che il fe-deralismo deve prima di tutto essere una concezione politica democratica istituzionale che pone in primo piano le libertà civili e politiche del cittadino. È attraverso il rafforzamento di queste libertà che si può irrobustire e non la-cerare la tenuta unitaria del tessuto so-ciale del Paese. Per fare questo occor-re in primo luogo gestire i problemi di ineguaglianza tra entrate fiscali e spesa pubblica per abitante tra i diversi ter-ritori, che in Italia si presentano acuti, attraverso forme solidaristiche speri-mentate, peraltro, in tutti i paesi ad organizzazione federale. Ma ridurre il federalismo ai calcoli ragionieristici dettati da un gretto localismo, signifi-ca disperdere il potenziale innovativo di sfida che pone all’intera classe diri-gente italiana, chiamata ad assumere, ai diversi livelli territoriali, comporta-menti più trasparenti e responsabili nei confronti del cittadino.

Questa sfida ha una rilevanza particolare nel Mezzogiorno ove i problemi del ricambio politico e del controllo sociale sulla spesa pubblica sono più avvertiti.

In conclusione, bisogna essere consapevoli che proprio le riforme strutturali, dalla riforma del welfare alle altre urgenti riforme nel cam-po della pubblica amministrazione, delle liberalizzazioni, della giustizia civile e amministrativa, della scuo-la, debbano rappresentare elemen-ti indispensabili per la ridefinizione della politica meridionalista nel no-stro Paese.

Vice Direttore SVIMEZ.

Page 10: Numero 4/2009
Page 11: Numero 4/2009

11

> segue dalla prima pagina

… – che sino alla fine degli anni ’90 si era immaginato potessero traina-re la crescita del Sud e che, invece, sono stati investiti nell’ultimo setten-nio da dure ristrutturazioni selettive a causa anche della loro intrinseca fragilità – restano tuttora come punti di forza di vasti territori meridionali grandi stabilimenti di gruppi indu-striali settentrionali ed esteri, pub-blici e privati, cui fanno capo quasi ovunque articolati sistemi di attività indotte. Ad essi si sono venuti af-fiancando in alcune regioni impianti di imprenditoria locale che in molti casi hanno raggiunto nel tempo di-mensioni mediograndi per numero di occupati e volumi di fatturato. Le fabbriche maggiori ad elevata inten-sità di capitale si erano venute lo-calizzando sin dall’inizio degli anni Sessanta del ’900, nel corso del più lungo ciclo di industrializzazione del Sud intrapreso a livello governativo dalla costituzione dello Stato unita-rio, e fra il 1996 e il 2007 hanno re-gistrato nuovi massicci investimenti per ampliamenti e ammodernamenti impiantistici, incrementando spesso anche la loro occupazione.

Ora, almeno a parere di chi scri-ve, è opportuno compierne una sia pur schematica ricognizione perché gran parte di quei siti produttivi, pur colpiti anch’essi nell’ultimo semestre da una caduta spesso verticale della domanda, continuano a rappresen-tare moderni presidi di produzioni e occupazione qualificate in economie locali gravitanti ormai da anni sulle loro attività.

Esaminiamo alcuni comparti ma-nifatturieri capital intensive, l’Ict, il transhipment, la portualità dei termi-

nal container e l’industria cartaria e cartotecnica, escludendo per ragioni di spazio agroalimentare, tac e legno-mobilio, che pure vantano nel Meri-dione diffuse presenze di big player italiani ed esteri.

Oggi la più grande fabbrica d’Ita-lia per dipendenti diretti (13.346 + 5.000 nell’indotto) è il gigantesco Si-derurgico a ciclo integrale dell’Ilva di Taranto, venduto nella primavera del ’95 dall’Iri al Gruppo Riva. L’impian-to, superando per gli addetti la Fiat Auto a Mirafiori, è anche il maggior stabilimento del suo settore in Euro-pa; l’occupazione, dopo la privatiz-zazione, ha registrato sino ad oggi un saldo attivo di 2.000 unità, dopo un turn-over di oltre 11.200 persone, e nell’ultimo quindicennio vi si sono re-alizzati investimenti totalmente auto-finanziati per 5 miliardi di euro in mi-glioramenti tecnologici e per il con-tenimento dell’impatto ambientale. Dall’ottobre del 2008 la domanda di coils per auto ed elettrodomestici, a differenza di quella per tubi e lamiere per navi, è progressivamente crollata, ma l’Ilva – pur sottoscrivendo con i Sindacati (e per la prima volta in 14 anni dall’inizio della gestione priva-ta) un accordo per un tetto massimo di 6.658 unità lavorative in cigo sino alla fine del 2009 – ha continuato ad investire, come ad esempio nelle nuove linee per la zincatura a caldo. In Sardegna a Portovesme è in eser-cizio un polo di importanza nazio-nale di metallurgia dei minerali non ferrosi, con impianti fra i più avanzati in Europa di società leader nella pro-duzione di piombo e zinco.

Nell’industria petrolchimica, si consideri che oltre la metà della ca-pacità di raffinazione petrolifera del Paese è localizzata nel Mezzogior-

no con 5 raffinerie in Sicilia – di cui due della Erg a Priolo (SR) che co-stituiscono il maggior sito italiano e del Mediterraneo, e nel cui capitale è entrata da poco la russa Lukoil – una dell’Eni a Taranto, mentre la 2° in Italia è quella di Sarroch (CA) del-la Saras con 1.000 addetti e 3.000 nell’indotto. Inoltre dei 5 impianti di cracking in Italia per la produzione di etilene, 4 sono nel Sud e quello di Priolo è il più grande per capacità produttiva del Paese e fra i maggiori del continente.

I pozzi petroliferi in Basilicata, i maggiori on-shore d’Europa, han-no in Val d’Agri a Viggiano (PZ) e a Tempa Rossa nella Valle del Sauro i loro presidi estrattivi – il primo già in produzione con un Centro oli e il secondo in via di allestimento – e creano nella regione un indotto di 1.500 unità; l’Eni, inoltre, ha trasferito proprio in Basilicata il suo ufficio ac-quisti per l’Italia centro-meridionale. Nel comparto della chimica fine rap-presentato dall’industria farmaceuti-ca operano fra l’altro nel Meridione i gruppi mondiali Sanofi Aventis con 2 impianti a L’Aquila e Brindisi, Serono Merck a Bari, Novartis nel Napoleta-no con 412 addetti e Wyeth Lederle a Catania con 1.000 occupati. Sempre

nel settore chimico, ma nella branca della produzione del vetro, si segna-lano i grandi impianti a San Salvo (CH) della multinazionale Pilkington, controllata dai nipponici della NSG, con 2.343 addetti, quelli del gruppo veneto Sangalli a Manfredonia, e i due a Bari e Marsala in Sicilia della multinazionale statunitense Owens Illinois per la fornitura di contenitori in vetro cavo alle industrie agroali-mentari dei rispettivi territori.

Nei settori dell’auto e dell’auto-motive, oltre il 50% della capacità produttiva di auto e autoveicoli leg-geri del Gruppo Fiat è insediata nei grandi stabilimenti della Sevel ad Atessa (CH) (6.300 addetti diretti, 700 interinali e oltre 3.000 nell’in-dotto); dell’Alfa Romeo a Pomigliano d’Arco (NA) (5.000 diretti, più 6.000 nelle collegate); della Fiat Sata a Mel-fi (PZ) (5.200 diretti e 3.000 nell’in-dotto di 1° livello); della Fiat auto a Termini Imerese (PA) (1.500 addetti + 400 nell’indotto). Il Gruppo Fiat ha altri grandi stabilimenti a Sulmo-na (AQ) con 760 unità, Termoli (CB) con 2.890, Napoli, Pratola Serra con 1.750 e Flumeri (AV) con 962 + 1.000 nell’indotto, Foggia con 2.050, Bari con 731, Lecce con 596 + 1.000 nelle subforniture, nei quali produ-

Federico PirroLa grande industria privata e pubblica nel Meridione: una risorsa strategica al servizio dell’intero Paese.

Page 12: Numero 4/2009

12ce componentistica, varie tipologie di motori, autobus e macchine mo-vimento terra. Si aggiungono ad essi quelli della Ergom, da poco acquisita dal Gruppo.

In tali fabbriche, com’è noto, il ricorso alla cigo è stato elevato nel primo quadrimestre del 2009, ma dalla fine di aprile in alcuni siti il ri-corso agli ammortizzatori sociali si è venuto riducendo, grazie a segnali di ripresa della domanda dei rispettivi prodotti. V’è da rilevare, inoltre, che in quasi tutte le fabbriche meridionali del Gruppo sono stati realizzati ne-gli ultimi anni massicci investimenti sulle linee, come quello che ha inte-ressato fra il gennaio e il marzo del 2008 l’Alfa a Pomigliano d’Arco. Per lo stabilimento di Termini Imerese, il gruppo torinese ha annunciato la sua riconversione a produzioni di com-ponentistica a partire dal 2012.

Sempre ad Atessa, inoltre, è in esercizio il grande impianto con 800 addetti della nipponica Honda che costruisce moto, con un rilevante tes-suto circostante di aziende di subfor-nitura, mentre a Bari è attivo da anni un polo di componentistica per auto con le imponenti fabbriche dei Grup-pi Bosch (2.350 occupati), Firestone (1.000), Getrag (750), Magneti Marel-li (731), già citato, Graziano Trasmis-sioni (500), Skf (420) e il loro indotto di pmi. Anche in questi siti – in gran parte a tecnologia avanzata – il ricor-so alla cigo nei primi mesi del 2009 è stato molto ampio, ma non manca-no segnali di ripresa delle commesse dall’inizio di maggio.

Nell’aerospaziale uno dei mag-giori poli d’Italia è nell’area di Napoli, con 9 grandi impianti e 60 pmi sub-fornitrici, con 10.000 occupati totali, seguito da quelli di Brindisi, Foggia e Grottaglie (TA) con 5 stabilimenti di rilevanti dimensioni, 40 pmi nelle subforniture e 4.500 unità totali. Le maggiori fabbriche del settore fanno capo in Campania e Puglia ad Alenia Aeronautica e a sue controllate, ad Avio, AgustaWestland e Atitech, Nel settore energetico sempre a Brindisi è in produzione la più potente centra-le termoelettrica d’Italia – con quella di Porto Tolle nel Veneto – dell’Enel, da 2.640 MW a carbone con basso

contenuto di zolfo, con 470 addetti diretti e 800 nell’indotto. La Puglia peraltro è la seconda regione d’Ita-lia dopo la Lombardia per energia prodotta – con la provincia di Brindisi che, invece, è la prima del Paese con i suoi 4.000 MW in esercizio – men-tre è al 1° posto per energia da fonte eolica e fotovoltaica. A Taranto v’è la più grande fabbrica d’Italia per ae-rogeneratori per energia eolica del-la danese Vestas, leader mondiale nel settore, con 700 addetti e 1.000 nell’indotto. Oltre all’Enel, operano nel Sud i gruppi italiani Edison, Sor-genia, Enipower ed esteri come Bri-tish Gas, Eon, Atel, Gas Natural, con centrali a turbogas, a olio combusti-bile, eoliche e reti di distribuzione del gas: buona parte di questa capacità di generazione è stata installata, o ri-convertita a metano, negli ultimi anni con investimenti molto elevati.

Nell’Ict, fra gli altri, si segnalano i poli mondiali della STMicroelectro-nics – ora in joint-venture con la In-tel – a Catania con 4.600 dipenden-ti; della Micron ad Avezzano (AQ) con 2.000 occupati; della Ericsson a Marcianise; della bioinformatica nel Cagliaritano, mentre in Sardegna è il quartier generale della Tiscali di Renato Soru; da segnalare in Puglia il Gruppo Exprivia a Molfetta (BA) quotato alla Borsa di Milano.

La Campania è la terza regione d’Italia per la produzione di elettro-domestici con 2 siti della Indesit nel Casertano (1.329 occupati totali), del-la Whirpool a Napoli (758 diretti con 18 aziende dell’indotto) e della Siltal sempre nel Casertano. Nel Meridione inoltre operano stabilimenti, pubbli-ci e privati, costruttori e manutentori di materiale rotabile ferroviario del-la AnsaldoBreda a Napoli (921 uni-tà), Reggio Calabria (452) e Palermo (157), del Gruppo Firema a Caserta (820) e Potenza, delle Ferrovie del-lo Stato a Foggia (303) e Melfi; agli stabilimenti del settore localizzati in Campania fanno capo inoltre nume-rose aziende dell’indotto.

Sono in produzione poi 3 poli navalmeccanici a Castellammare di Stabia (NA) (650 diretti e 1.000 nell’indotto), Palermo (791) – questi due controllati dalla Fincantieri – e a

Messina, ove opera fra le altre azien-de la Rodriquez del gruppo Immsi di Roberto Colaninno. A Taranto è in esercizio sin dal 1889 il maggior Ar-senale della Marina Militare d’Italia, con quello di La Spezia, con 1.700 occupati e in procinto di essere inte-ressato da un profondo riassetto or-ganizzativo e di servizi.

Nell’area di Napoli, inoltre, si concentrano 80 produttori di nauti-ca da diporto, mentre un altro polo del settore è a Messina ed un altro in via di sviluppo a Manfredonia (FG), grazie alla presenza della Inside co-finanziata dal contratto d’area. Nei materiali da costruzione molto nume-rose sono le cementerie dei primi 4 gruppi nazionali del comparto e cioè Italcementi, Buzzi Unicem, Colacem, Cementir, con le loro aziende di cal-cestruzzi. Da segnalare nel settore anche le numerose fabbriche delle pugliesi Fantini-Scianatico, fra i mag-giori fornitori italiani di laterizi, con loro siti anche all’estero: nella prefab-bricazione pesante spicca l’impianto in Puglia a Bitetto (BA) della piacenti-na RDB, primo produttore italiano e quotato alla borsa di Milano.

Sempre nell’area del capoluogo campano esiste una delle maggiori concentrazioni di armatori d’Europa, con società leader nel mondo in al-cuni segmenti del transhipment come il Gruppo Grimaldi per i rotabili, e la MSC di Gianluigi Aponte che, oltre ad essere fra le più grandi nel settore crocieristico, è la seconda a livello in-ternazionale nel trasporto via mare di container, contendendo ormai il pri-mo posto alla danese Maersk.

Il maggior porto container del Mediterraneo per teus movimentati è tuttora quello di Gioia Tauro – in competizione per qualche anno con quello spagnolo di Algeçiras – ed altri 4 di buone capacità sono a Ta-ranto, ove opera la multinazionale Evergreen, Cagliari, Salerno e Napo-li. Il terzo scalo marittimo d’Italia per traffico di materie prime e beni finiti è quello industriale di Taranto, dopo Genova e Trieste.

Altre industrie rilevanti sono le 2 cartiere della Burgo, il Poligrafico dello Stato a Foggia, la fabbrica del-la Fater di Pescara con 1.000 addet-

ti – leader del mercato italiano nella produzione di assorbenti per la cura della persona – quelle del gruppo Seda a Napoli della famiglia D’Ama-to, leader in Italia e all’estero nel set-tore del packaging.

La panoramica è parziale, ne siamo consapevoli, ma si è volu-to fornire uno spaccato in qualche modo indicativo. Gli impianti citati sono tuttora concentrati in preva-lenza nei poli di Chieti-San Salvo, Termoli, Napoli-Pomigliano, Foggia, Bari-Modugno, Brindisi, Taranto-Massafra, Lecce-Surbo, Grottaglie, Potenza-Melfi, Catania, Palermo-Ter-mini Imerese, Priolo-Augusta-Melilli, Gela, Sarroch, Sulcis Iglesiente, Por-to Torres. Da questi poli può ripar-tire una rinnovata strategia di indu-strializzazione del Sud, nell’interes-se però dell’intero Paese e delle sue esigenze competitive nello scenario della globalizzazione.

Nel Meridione, dunque, si loca-lizzano tuttora numerosi impianti di settori strategici dell’industria italia-na, con il loro indotto, che compe-tono a livello mondiale, così come sono in esercizio siti produttivi ripor-tati in piena efficienza di Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri, Ferrovie dello Stato, Poligrafico dello Stato: significative presenze industriali pub-bliche indubbiamente da valorizzare. Ma sul ruolo delle aziende a control-lo statale per la crescita del Paese e del Mezzogiorno si tornerà più am-piamente fra breve.

Le imprese pubbliche nelle aree meridionali del Paese: una leva per il rilan-cio industriale

La grave crisi che dall’ultimo tri-mestre dello scorso anno ha progres-sivamente colpito le economie dei Paesi più avanzati determinandovi una brusca e spesso violenta contra-zione del prodotto nazionale lordo e quasi ovunque dell’occupazione – e che solo di recente ha registrato al-cuni sintomi di miglioramento va-riamente interpretati da organismi come il Fondo Monetario interna-zionale, l’Ocse, la Bce e da diversi Governi come la fine della caduta,

Page 13: Numero 4/2009

13ovvero come l’inizio della ripresa – è stata fronteggiata nelle maggiori aree economiche del pianeta con massic-ci interventi statali le cui dimensio-ni e strumentazioni poste in cam-po – se pure hanno evidenziato nei vari Governanti una pluralità di ap-procci anche di natura culturale alle drammatiche emergenze da affronta-re – sono state in ogni caso accomu-nate dalla universale consapevolezza che, senza un massiccio e rapido in-tervento finanziario e normativo dei vari Stati, probabilmente molti sistemi economici nazionali, e forse anche quello mondiale, sarebbero entrati in una spaventosa spirale recessiva probabilmente irreversibile.

Il ruolo dello Stato, dunque, è tornato decisivo in funzione anticicli-ca e tale resterà a lungo, anche per-ché le previsioni più attendibili col-locano solo a partire dalla seconda metà del 2010 una possibile ripresa dell’economia internazionale, la cui intensità e la cui durata nessuno pe-raltro è in grado di prevedere.

In Italia, com’è noto, l’ingente debito pubblico non ha consentito al Governo manovre di sostegno al sistema produttivo più ampie di quel-le che si sono sinora effettivamente realizzate, anche se gli stessi liberisti più accaniti hanno dovuto sostanzial-mente prendere atto che senza l’in-tervento dello Stato – ad esempio a sostegno delle banche con la possibi-lità di emettere i ‘Tremonti bond’ – i rischi di ‘tenuta’ per i nostri maggiori istituti di credito sarebbero stati par-ticolarmente elevati.

Più in ombra, invece, è rimasto sinora il ruolo che le grandi imprese controllate da capitale pubblico già assolvono e ancor più potrebbero svolgere – almeno in certi comparti strategici per il sistema nazionale e in determinate aree del Paese – per sostenervi gli investimenti comples-sivi, l’occupazione ad essi correlata e il tessuto economico circostante, so-prattutto là dove quelle aziende han-no ricoperto, o tuttora continuano ad assicurare, una funzione trainante.

V’è da rilevare inoltre che anche nella querelle neomeridionalista, ispi-rata da personalità e nuovi movimen-ti politici del Sud, è rimasto sinora

largamente inesplorato un terreno di analisi e di proposta che, invece, se praticato con rigore scientifico e ricchezza di indicazioni operative, potrebbe rappresentare (sempre a parere di chi scrive) il primo corposo tassello di un programma di ripresa della crescita del Meridione, elabo-rato però all’interno di un disegno di politica industriale attento alle esi-genze dell’intero Paese.

Ci si riferisce a quello che potreb-be tornare ad essere il ruolo propulsi-vo delle imprese a controllo pubbli-co, propugnato fra gli altri oltre mez-zo secolo fa da Pasquale Saraceno, da grandi partiti che andavano dalla Dc al Pci, e avviato dal Ministro Pa-store nei ‘poli di sviluppo’ del Meri-dione, a partire dalla fine degli anni Cinquanta del ’900, dopo l’approva-zione della legge 634 del 29 luglio del ’57 che avviava il ‘secondo tem-po’ dell’Intervento straordinario, im-perniato sull’industrializzazione trai-nata dalle aziende pubbliche.

Tale funzione propulsiva avreb-be nuovamente una significativa va-lenza, in particolare nelle zone ove il declino di interi sistemi manifattu-rieri di varia dimensione, costituiti in prevalenza da pmi di imprenditori locali, sta comportando un pesan-te incremento della disoccupazio-ne, cui si è risposto sinora solo con l’estensione e il prolungamento tem-porale degli ammortizzatori sociali; si pensi in proposito – solo per fare un esempio riferito alla Puglia – alle aree della Murgia, segnate dalla pe-sante ristrutturazione dell’industria dei salotti, e del Basso Salento, col-pite dalla crisi devastante del settore calzaturiero.

Naturalmente un programma che punti alla riproposizione del ruolo strategico anche (ma non solo) in alcune grandi regioni del Sud di im-prese a controllo pubblico non deve in alcun modo ispirarsi a logiche as-sistenziali, ma individuare quei com-parti in cui le aziende a vario titolo controllate dallo Stato andrebbero a potenziare in logiche di mercato la loro funzione già ora trainante, o gli altri settori in cui potrebbero inizia-re a svolgerla, rispondendo però ad esigenze di competitività dell’intero

sistema produttivo nazionale. Buona parte degli economisti italiani, in re-altà, continua ad ignorare tale possi-bilità, anche se sono ormai lontani gli anni delle privatizzazioni ‘epo-cali’ avviate nel 1992-1994, presen-tate come occasioni storiche per la nascita di nuovi ‘campioni industriali nazionali’, e culminate con la messa in liquidazione dell’Iri avvenuta nel 20001. Ora, nel mentre la dramma-tica crisi in cui versa l’economia in-ternazionale ha già riproposto in vari Paesi, come si è detto in preceden-za, il ruolo insostituibile dello Stato almeno in funzione anticiclica – e la stessa Commissione Europea non ha addirittura escluso la nazionaliz-zazione di alcune grandi banche in difficoltà a causa dei titoli ‘tossici’ posseduti2 – a conforto di questa nostra ipotesi valga la constatazione che ancora massiccia è in Italia, so-prattutto nelle sue regioni meridio-nali e nella stessa Puglia, la presenza prima ricordata di imponenti stabili-menti, facenti capo in varia misura ad holding pubbliche, con elevati tassi di occupazione in settori strategici per l’industria nazionale che vanno dalla petrolchimica all’aerospazio, dall’energia alla cantieristica, dalla costruzione di materiale e di segna-lamento ferroviario alla sua manu-tenzione, dall’Ict alla produzione di materiali stampati.

Come accennato in precedenza, l’Eni con le sue controllate Polimeri, Syndial, Enipower e Snam, la Finmec-canica con Alenia Aeronautica, Agu-staWestland, Officine Aeronavali, Alcatel Alenia Space Italia, Telespa-zio, Galileo Avionica, Selex Sistemi integrati e Selex Communications, AnsaldoBreda, Ansaldo Trasporti Si-stemi Ferroviari e Ansaldo Segnala-

1 Per una ricostruzione delle privatizzazioni delle aziende controlla-te dall’Iri, cfr. S.Bemporad-E.Reviglio (a cura di ) Le Privatizzazioni in Italia 1992-2000, volume delle relazioni esterne dell’Iri S.p.A. in liquidazione, Edindustria, Roma, 2001.

2 In Inghilterra peraltro alcuni grandi istituti di credito sono stati di fatto già ‘na-zionalizzati’ dal Governo laburista.

mento Ferroviario, l’Enel con nume-rose sue controllate, la Fincantieri, la STMicroelectronics, le Ferrovie del-lo Stato, Terna e l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato sono presenti in Abruzzo, Puglia, Campania, Basilica-ta, Calabria, Sicilia e Sardegna, dan-do vita ormai da anni in talune aree a sistemi produttivi guidati da alcuni loro macroimpianti, intorno ai quali gravitano articolati reticoli di attività indotte con migliaia di addetti.

L’Eni impiega nel Sud circa 4.300 dipendenti diretti, la Finmeccani-ca nell’aerospazio oltre 9.000 e nel materiale rotabile 1.530, la Fincantie-ri quasi 1.450, l’Enel oltre 2.000, la STMicroelectronics più di 4.600.3

Estese, come si è accennato, sono le subforniture di beni e ser-vizi di piccole e medie imprese di manutenzione nei grandi impianti petrolchimici in Puglia, Sicilia e Sar-

3 Per il dettaglio degli occupati di-retti e nelle attività indotte delle singo-le aziende si rinvia a F.Pirro-A.Guarini, Grande Industria e Mezzogiorno 1996-2007, con prefazione di Luca Cordero di Montezemolo, Cacucci Editore, Bari, 2008. Si sono attinti da questa pubblica-zione anche i dati riguardanti addetti e in-vestimenti dei grandi impianti industriali privati citati in precedenza.

Page 14: Numero 4/2009

14

degna, e nei siti ove sono in eserci-zio le centrali elettriche dell’Enel e dell’Enipower, mentre nel comparto aerospaziale in Campania e a Brindi-si, diffuse sono in decine di piccole e medie aziende – a supporto delle più grandi – le produzioni di componen-tistica e lavorazioni di varia tipologia, spesso ad elevato valore aggiunto. Anche la costruzione di materiale ro-tabile e la navalmeccanica generano attività collegate che impiegano cen-tinaia di occupati, e lo stesso dicasi a Catania nel grande e già citato polo dell’Etna Valley, guidato dalla STMi-croelectronics.

Allora – in un disegno di politica industriale di respiro pluriennale defi-nibile a livello governativo con il con-corso del Parlamento – si potrebbe-ro: 1) potenziare le industrie dell’ae-rospazio, sul modello ad esempio di quanto accaduto negli ultimi anni a Grottaglie nel Tarantino, ove l’Ale-nia Composite dell’omonimo grup-po della Finmeccanica ha costruito l’imponente stabilimento in cui si producono, con 800 nuovi occupati altamente qualificati, sezioni in fibra di carbonio della carlinga del nuo-vo aereo passeggeri 787 Dreamliner della Boeing; 2) rafforzare il polo dell’ala rotante di Brindisi ove ope-ra un grande impianto della Agusta-Westland; 3) incrementare e ammo-dernare le capacità produttive delle raffinerie di Taranto, Gela e Messina; 4) arricchire ulteriormente con tra-sformazioni manifatturiere ‘a valle’ le produzioni di base degli impianti di cracking di Brindisi, Priolo e Porto Torres; 4) rafforzare i poli energetici dell’Enel con nuovi interventi impian-tistici sulla megacentrale di Brindisi

per ridurne ancor più l’impatto am-bientale, riconvertendo a carbone pulito quella di Rossano Calabro, potenziando le centrali del Sulcis, costruendo il rigassificatore di Por-to Empedocle e localizzando nuovi parchi di energia eolica, dopo gli ul-timi costruiti nel Molise; 5) potenzia-re i cantieri navali di Castellammare di Stabia e Palermo, qualificandone ulteriormente l’indotto; 6) consoli-dare i poli di costruzioni ferroviarie dell’AnsaldoBreda di Napoli, Reggio Calabria e Palermo; 7) rafforzare la mission della STMicroelectronics, dopo la joint-venture con la Intel e la nascita della società Numonyx; 8) irrobustire il polo manutentivo di Foggia delle Ferrovie per i treni re-gionali e il sito del Poligrafico dello Stato, sempre nel capoluogo dauno, per targhe automobilistiche e altro materiale a stampa per il sistema sa-nitario nazionale.

Molte di queste fabbriche, peral-tro, già collaborano con Università del territorio, loro Dipartimenti ed altri centri di ricerca, come ad esem-pio il Cetma di Mesagne controllato dall’Enea, e nell’ultimo quinquennio hanno assunto centinaia di laureati e diplomati in discipline scientifi-che, formati in Atenei e Istituti tec-nici industriali di alcune grandi cit-tà del Sud.

Non si dimentichi poi che, gra-zie al controllo pubblico delle hol-ding strategiche prima richiamate, lo Stato italiano ha potuto acquisire grandi aziende estere come quelle acquistate negli Usa dalla Finmecca-nica e l’Endesa in Spagna venduta da Acciona all’Enel, o partecipare a con-sorzi internazionali guidati dall’Eni

per lo sfruttamento dei giganteschi giacimenti petroliferi nel Kazakistan occidentale. E, last but not least, è ap-pena il caso di ricordare che la prima impresa italiana per fatturato è tutto-ra un grande gruppo a controllo pub-blico come l’Eni, mentre la seconda è l’Enel – che si colloca anche al se-condo posto fra le società elettriche europee alle spalle della transalpi-na Edf – e la quinta è la Finmecca-nica4. Le grandi imprese pubbliche, peraltro, operano in Italia in settori liberalizzati e pertanto competono con agguerriti concorrenti privati, dall’energia agli approvvigionamenti petroliferi, dalla produzione di mate-riale rotabile all’Ict. Non dovrebbero mancare inoltre interventi di una hol-ding pubblica come l’Eni – anche in joint venture con capitali privati – per salvare e rilanciare siti produttivi di grande valenza per l’industria italiana come la chimica a Porto Marghera, Priolo e Porto Torres.

Insomma, al di là di acritiche apologie di privatizzazioni5 ormai datate ed esaltazioni del privato in quanto tale – dimenticando cioè i tracolli di imprese private nel recen-te passato come Cirio e Parmalat – lo Stato con il suo tuttora vasto siste-ma di grandi aziende può tornare, o continuare ad assolvere, una funzio-ne trainante per l’intera economia nazionale, proprio rafforzando nel Mezzogiorno le capacità produttive già possedute, o creandone di nuove con elevata occupazione aggiuntiva, come è accaduto negli ultimi anni in alcuni casi significativi.

Alcune considerazioni conclusive

Si è voluto tracciare una sia pur sommaria geografia insediativa del-la grande industria nel Mezzogior-

4 Nel 2008 l’Eni ha fatturato 108,1 miliardi di euro, l’Enel con Endesa 59,6 e la Finmeccanica 15.

5 Un p r im o b i lan c io su l l e privatizzazioni in Italia in M.Affinito-M.De Cecco-A.Dringoli, Le privatizzazioni nell’industria manifatturiera italiana, Donzelli Editore, Roma, 2000.

no perché è necessario contribuire anche con la ricerca economica a focalizzare le risorse impiantistiche, tecnologiche, occupazionali e infra-strutturali con cui le regioni meridio-nali, nonostante il gap che le separa da quelle settentrionali, concorrono da tempo alle performance compe-titive del sistema Paese nell’arena del mercato mondiale.

La storica persistenza ed anzi la rinnovata e più recente accen-tuazione del divario fra il Meridio-ne e il Centro-Nord – ancora una volta autorevolmente segnalata dal-la Svimez nel suo ultimo Rapporto 2009 sull’economia del Mezzogior-no – non può e non deve infatti in alcun modo, a parere di chi scrive, far dimenticare il diffuso stock di ca-pitale fisso industriale variamente lo-calizzato nelle regioni del Sud, nelle quali già da lungo tempo molti im-pianti manifatturieri e grandi società italiane ed estere si sono affermate nei rispettivi comparti come player di livello internazionale.

Se le regioni del Sud generano ancora e soltanto il 18,2% (2007) del valore aggiunto industriale dell’inte-ro Paese, ciò non dovrebbe impedire una lettura in profondità e il più pos-sibile disaggregata di quel dato che consentirebbe di rendere evidenti nei singoli territori le risorse non ir-rilevanti che il Mezzogiorno pone a disposizione di tutto il Paese e del-le dure sfide competitive che esso è chiamato a sostenere ogni giorno sui mercati mondiali.

Così facendo si contribuirebbe, ci sembra, ad alimentare la concre-ta speranza di tutti coloro che quo-tidianamente lavorano nel Sud per aiutarlo nel suo cammino di emanci-pazione e di crescita sociale, econo-mica e culturale, nell’interesse però dell’intera Italia.

Docente di Storia dell’Industria, nell’Uni-versità di Bari e di Politiche economiche territoriali nell’Ateneo di Lecce.

Page 15: Numero 4/2009

> segue dalla prima pagina

…meridionali. Il Veneto ad esem-pio, prima della rivoluzione indu-striale effettuata nel dopoguerra da piccole e medie imprese nel campo degli elettrodomestici, lan-guiva. Le persone della mia gene-razione – e non solo – certo ricor-deranno un’immigrazione interna di flusso contrario, che, dalle pro-vince venete e friulane, portava il personale di servizio a trovare la-voro presso le famiglie borghesi anche nel Mezzogiorno e a Napoli in particolare.

Nel Meridione dopo l’Unità d’Italia furono innumerevoli strut-ture preesistenti di conventi sop-pressi ed edifici militari a sopperire alle necessità per scuole e ospedali, ma anche per edifici pubblici, che emergevano dalle gravi insufficien-ze del paese. Solo da qualche anno il grande quadriportico del con-vento di S.Domenico a Cosenza è stato liberato dal distretto militare, restituendo al paese una delle più grandi emergenze architettoniche del Quattrocento.

I meridionalisti del XIX e XX se-colo resero evidente la natura geo-grafica del Mezzogiorno, ridimen-sionando l’idea che fosse il giardi-no d’Europa, come erroneamente si credeva. Seguiva, la grande in-dagine di questi studiosi, il vasto e generoso lavoro effettuato dagli illu-ministi napoletani del XVIII secolo, che avevano ampiamente studiato le condizioni economiche del regno e le sue carenze, chiedendo insi-stentemente l ’ in te r-ven -

to del Sovrano per limitare i sopru-si del feudalesimo.

Il Tanucci aveva anche pen-sato alla possibilità di avere al-tre grandi città nel Mezzogior-no continentale, per diminuire la pressione demografica su Napoli e per una migliore distribuzione di risorse sul territorio. Dal qua-dro che emerse attraverso ricogni-zioni e sopralluoghi effettuati dai meridionalisti si conobbe così una realtà ben diversa che alle poche zone pianeggianti: Terra di Lavo-ro, Piana del Sele, Tavoliere del-le Puglie, corrispondevano mon-tagne e fiumare in Calabria, letti sassosi dei fiumi della Basilicata e Metaponto, grande sete in Puglia. E iniziò una errata politica fatta di rivendicazioni che produssero una risposta fondata su interventi parziali e lacunosi. Ciò nonostan-te la deprecata Cassa per il Mez-zogiorno, “la Cassa della Mezza-notte” così definita dai Liguri, che operava con interventi sostitutivi ma non integrativi, riuscì ad ef-fettuare vari interventi necessari ed indispensabili per gli acque-dotti e per rifornire le campagne

di acqua; oggi la pianura sassosa del Metaponto è tutta un rigoglio di giardini di agrumi e si ha la più forte produzione nazionale di fra-goloni e di kiwi.

Dove i finanziamenti non sono stati viziati da interventi esterni di politicanti e interni di imbroglioni, i frutti non si sono fatti attendere. Ma sempre con una visione di aiu-to condizionato, mai da interven-ti perequativi di parità nazionale. Massimo Lo Cicero parla “di paese duale con due facce, due identità, due modi per produrre e consuma-re ricchezza”.

Il sistema nazionale ha ampia-mente fallito il suo compito di pa-reggiare la nazione, abbandonando il Mezzogiorno alle sue ataviche pecche. In primis il sistema feudale che è sopravvissuto fino alla guerra 1940-45; solo dopo si sono avute le grandi espropriazioni dei latifondi; arretratezza feudale che poi ha per-durato come sistema di delinquenza organizzata. Croce nel suo splen-

dido libro “Storia del regno di Napoli”

spiega esatta-mente le

proce-du-

re feudali per la contrattazione dei prodotti agricoli; queste poi passate pari pari a mafia, ‘ndrangheta e ca-morra che hanno ereditato il duro modo vessatorio che vigeva nelle campagne.

Luigi de Rosa illustra la crisi economica del Sud: è infatti opinio-ne diffusa tra gli studiosi che il disa-stro economico dell’Italia meridio-nale inizi sotto Carlo V, per diventa-re irreparabile con Filippo II.

Ai tempi del viceregno, i “quat-tro pilastri” dell’economia, cioè la produzione di seta, vino, olio, cereali, fondata principalmente sull’esportazione, venne distrutta dalla cieca applicazione fiscale.

Con l’Unità si passò senza fasi intermedie dal sistema borbonico a quello piemontese, smobilitando tutta una rete di industrie nascenti o consolidate, sistema ferroviario in anticipo sui tempi, codice di na-vigazione e attenzione assicurativa marittima, e tanto altro che fu di-strutto in pochissimo tempo a fa-vore della economia e dello svilup-po delle industrie del nord. Siamo da allora fortemente dipendenti, ed è di questi giorni la richiesta di una ennesima “Legge Speciale” per Napoli. Quanto drammaticamente espresso dalla ricerca Svimez con-ferma, con i suoi dati la distanza che approfondisce tra le due parti d’Italia ed aumenta, e il Presidente Napolitano ha detto:”Deve cresce-re nelle istituzioni e nella società la coscienza che il divario Nord-Sud va corretto”. Napoli e il Mezzogior-no devono rivendicare con forza la parità di condizioni, di attenzioni, di finanziamenti, di strutture e di infra-strutture pari a quelle del territorio nazionale al quale orgogliosamente ritengono di appartenere.

Massimo RosiMezzogiorno

questione italiana

15

Page 16: Numero 4/2009

FASTWEB si è fatta in quattro per te, ora è il tuo momento. Non piùsolo internet, telefono e Tv: da oggi puoi fare un altro passo avanti.Come? Fatti il cellulare FASTWEB. Anche perché sottoscriverequattro servizi con un unico operatore non solo semplifica la vita, maconviene. Entra anche tu nell’unica famiglia che può darti tuttoquesto: FASTWEB.

Internet, telefono,Tvo cellulare?Tutti e quattro.

www.fastweb.it chiama 192 192Per info su copertura, costi di attivazione, tcg e offerta, visita www.fastweb.it, chiama 192 192 o rivolgiti presso i punti vendita.

Rivista mezzogiorno europa205x250:Layout 2 2-03-2009 15:15 Pagina 1

Page 17: Numero 4/2009

17UN MONdO IN MOvIMENTO

Nelle sue “memorie”, pubblicate dalle edizio-ni Plon all’inizio del 2004 e tradotte cinque anni dopo in italiano da Rubbettino con prefazione di Giorgio Napolitano, Jacques Delors spiega che il metodo funzionalista – inventato dal romeno Da-vid Mitrany ed applicato da Jean Monnet all’in-tegrazione comunitaria – può essere comparato ad un ingranaggio.

Dalle realizzazioni concrete in questa o quell’azione comune emergerebbe automati-camente la necessità di ulteriori passi in avanti, senza i quali la stessa realizzazione concreta ri-schierebbe di fallire.

Così è stato in effetti con il carbone e l’ac-ciaio agli inizi degli anni cinquanta e così è stato quaranta anni dopo nei rapporti tra il mercato comune e la creazione dell’unione monetaria e della moneta unica.

Come Mitrany per la realizzazione di un sistema pacifico multipolare (“a working peace system” 1943) grazie ad un dialogo continuo “fra esperti”, Monnet prima e Delors poi hanno creduto che la forza dell’amministrazione euro-pea avrebbe prevalso sulle resistenze dei sistemi politici nazionali grazie al funzionamento co-stante dell’ingranaggio comunitario ed al dialo-go permanente fra i rappresentanti delle sovra-nità nazionali.

Ciò è stato possibile in effetti negli anni cin-quanta quando era chiaro a tutti che gli obiettivi della pace e della ricostruzione economica po-tevano essere raggiunti solo in una dimensione sovranazionale e quando i leader nazionali po-tevano contare su un ampio consenso popolare e sulla debole resistenza di apparati nazionali in statu nascendi.

Ciò è stato possibile ancora una volta agli ini-zi degli anni novanta quando il crollo dell’impe-ro sovietico aveva imposto ai leader nazionali un atto di coraggio e di immaginazione politica.

Il trattato di Maastricht, negoziato un anno dopo la caduta del muro di Berlino, è stato il frut-to di questo coraggio e di questa immaginazione perché con esso si decise di passare dalla comu-nità economica all’unione politica, fu riempita di contenuti la democrazia europea con la cittadi-nanza dell’Unione ed il potere di codecisione del Parlamento europeo, fu avviato il processo che avrebbe portato – dieci anni dopo – alla mo-neta europea, furono poste le premesse per re-

alizzare gradualmente una politica estera comune ed uno spazio di sicurezza e di giustizia.

Da questo punto di vi-sta e molto più dell’Atto unico europeo del 1986, il Trattato di Maastricht tras-se la sua ispirazione dal progetto di Trattato-costi-tuzione approvato dal Par-lamento europeo nel 1984 su iniziativa di Altiero Spinelli.

La forza innovativa del Trattato di Maastricht è stata però anche la sua debolezza perché con esso furono messe implicitamente in discussione le fondamenta stesse del metodo monnettiano dell’ingranaggio senza tuttavia giungere all’estre-ma conseguenza di sostituire ad esso il metodo federalista disegnato da Spinelli con il suo pro-getto del 1984.

Quel metodo prevedeva un sistema perfet-to di check and balance fra le autorità europee, escludeva i rischi che una di esse potesse para-lizzare le attività delle altre, limitava i poteri e le competenze dell’Unione ai settori nei quali il principio di sussidiarietà indicava la dimensione europea come il quadro necessario per garan-tire delle realizzazioni concrete, trasformava la Commissione nell’istituzione-pivot dell’Unione europea e concedeva un lungo periodo di tem-po agli Stati membri per passare da un sistema sostanzialmente intergovernativo ad uno Stato federale.

La contraddizione evidente fra il metodo monnettiano e le conseguenze politiche ed isti-tuzionali del Trattato di Maastricht è stata così letale per l’integrazione comunitaria.

Da allora, l’ingranaggio si è inceppato, tutti i tentativi di risolvere la debolezza del sistema dell’Unione prima attraverso il trattato di Amster-dam [1997], poi con il Trattato di Nizza [2000], quindi con la costituzione europea nelle versioni della Convenzione europea [2003] e dei governi [2004] ed infine con il trattato di Lisbona [2007] sono falliti perché l’Unione non ha ancora com-piuto quella scelta di fondo fra le due visioni con-trapposte del suo avvenire richiamate dal presi-dente Napolitano nel suo discorso all’Università Humboldt di Berlino [novembre 2008].

Avendo svolto per ventisette anni la funzio-ne di “manovale” nei cantieri dell’Unione euro-pea, ho lasciato il Parlamento europeo nel giugno 2003 – dove collaboravo alla task force per la co-stituzione europea – per assumere, su decisione del Presidente Prodi, l’incarico di rappresentante della Commissione europea in Italia.

Dal 2003 al 2009 ho servito gli ultimi sedici mesi del governo europeo di Prodi ed i cinque anni della presidenza Barroso interloquendo e collaborando con il secondo governo Berlusco-ni, con il secondo governo Prodi e con il terzo governo Berlusconi.

Ho rappresentato la Commissione prima du-rante il semestre di presidenza italiana del Con-siglio europeo [luglio-dicembre 2003] conclu-sosi con la battuta di arresto sulla costituzione europea e poi durante la presidenza italiana del G8 [gennaio-luglio 2009] conclusasi con il ver-tice di Coppito.

Ho così potuto assistere dall’osservatorio di Roma ai diversi cicli della collocazione dell’Italia in Europa, alla fine della legislatura 1999-2004 colma di speranze per l’avvenire [l’introduzione dell’Euro, l’ampliamento dell’Unione europea da 15 a 25 paesi, l’avvio di una nuova politica di vicinato dopo l’allargamento ad Est, la crea-zione di uno spazio europeo di libertà e giusti-zia, la competitività garantita dalla concorrenza, la riforma della politica agricola comune […] e durante tutta la legislatura 2004-2009 general-mente giudicata con grande severità [il doppio no alla costituzione europea, l’accordo al ribasso sul bilancio 2007-2013, il modesto Trattato di Li-sbona, il ritorno del protezionismo, il fallimento della strategia di Lisbona, l’impotenza europea di fronte alla crisi finanziaria, la crescita degli euroscettici […].

Un decalogo per la nuovalegislatura europea

Pier virgilio dastoli

Page 18: Numero 4/2009

18 UN MONdO IN MOvIMENTO

Secondo una parte importante degli analisti europei, la responsabilità principale dei risultati negativi della legislatura che si è appena conclu-sa deve essere attribuita alla inconsistenza politi-ca del presidente portoghese della Commissione europea José Manuel Barroso.

Gli euroscettici sostengono come è noto che la burocrazia europea impone agli Stati nazio-nali centinaia di norme superflue che non ten-gono conto delle culture e delle realtà nazionali e che limitano la libertà d’azione in particolare del mondo delle imprese. Secondo una gag re-citata da Berlusconi in ogni campagna elettorale europea, i rappresentanti delle industrie europee lo avrebbero accolto in una grande sala a Bru-xelles occupata da centinaia di scatoloni pieni di direttive europee. Il ministro dell’economia Tremonti avrebbe inoltre calcolato in chilometri la lunghezza delle gazzette ufficiali europee dal 1958 ad oggi.

La commissione Barroso non avrebbe fatto eccezione a questo stereotipo euroscettico nono-stante il suo impegno a favore della better regula-tion o meglio a favore di less regulation. Gli euro-peisti tacciano invece Barroso di scarso attivismo europeo, accusandolo di aver ridotto ai minimi termini il potere di iniziativa della Commissione europea accentuando la sua funzione di segreta-riato al servizio dei governi nazionali.

Euroscettici ed europeisti tacciano insieme la Commissione Barroso di eccessivo approccio burocratico dando in tal modo argomenti all’opi-

nione pubblica che accusa l’Unione europea di essere incapace di risolvere i problemi concreti dei cittadini. A ben vedere, analizzando con at-tenzione l’attività legislativa della Commissione Barroso rispetto a quelle che l’hanno preceduta, si scopre invece che il tasso di iniziativa dell’ese-cutivo europeo non è sostanzialmente cambiato ma che sono tuttavia mutate le priorità dall’una all’altra legislatura.

Nei quasi cinque anni della Commissione Barroso [dicembre 2004-agosto 2009] l’accento è stato messo principalmente sulle norme con-cernenti l’energia e l’ambiente, i diritti dei consu-matori e la libertà di circolazione con particolare riferimento al fenomeno dell’immigrazione.

Sono certo aumentati i “libri bianchi” ed i “li-bri verdi”, due forme di comunicazione al Consi-glio e al Parlamento europeo con un diverso grado di influenza sul processo di decisione legislativa che si indirizzano non solo alle istituzioni euro-pee ma più in generale all’opinione pubblica. L’au-mento di queste forme di comunicazione è stato del resto coerente con il cosidetto “piano D” [d come democrazia, dialogo e dibattito], presen-tato da Barroso e dalla sua vicepresidente Wal-lström incaricata della politica di comunicazione per rispondere allo choc creato dal doppio “no” francese e olandese alla costituzione europea. È stato significativo in questo quadro il dibattito aperto dalla Commissione europea nell’autunno 2007 sulla riforma del bilancio europeo in vista del negoziato sulle prospettive finanziarie 2014-

2019. Contrariamente alle altre comunicazioni che si rivolgono a determinati stakeholders, la consultazione sul bilancio è stata rivolta all’in-sieme della società civile organizzata ed anche a singoli cittadini richiamando il metodo del “bi-lancio partecipativo” immaginato a Porto Alegre e diffuso prima in America Latina e poi giunto anche in Europa [qualcuno ha parlato, a questo proposito, del “ritorno delle caravelle”].

Se si esaminano l’uno dopo l’altro i dossier sui quali si sono concentrate le critiche sull’inat-tivismo della Commissione Barroso, si scopre che la responsabilità maggiore dell’inattività europea o delle battute d’arresto risiede nei governi nazio-nali che, dal Trattato di Maastricht in poi, hanno accompagnato l’aumento dei compiti dell’Unio-ne con il parallelo tentativo di restaurare le loro sovranità nazionali. Il no alla costituzione euro-pea, sopratutto in Francia, non è apparso come un rigetto dell’Unione europea ma come la som-ma di proteste di sinistra e di destra in parte in-dirizzate contro il governo ed il presidente della Repubblica in carica. Basti pensare che il leader socialista della campagna contro la costituzione europea, l’enfant prodige di Mitterrand Laurent Fabius, aveva fatto campagna per il “sì” al trattato di Maastricht nel 1993 ed ha spiegato dieci anni dopo il suo “no” alla nuova riforma dei trattati criticando l’Europa liberista, dimenticando che essa era più presente a Maastricht e a Nizza che nella costituzione europea ed ignorando il fatto

da questo punto di vista e molto

più dell’Atto unico europeo del

1986, il Trattato di Maastricht trasse la sua ispirazione

dal progetto di Trattato-costituzione

approvato dal Parlamento europeo nel 1984 su iniziativa

di Altiero Spinelli

Page 19: Numero 4/2009

19UN MONdO IN MOvIMENTO

che la fine della costituzione avrebbe lasciato in vita il solo Trattato di Nizza.

La responsabilità del fallimento della strate-gia di Lisbona, del modesto compromesso sul-le finanze dell’Unione dal 2007 al 2013 e delle incertezze di fronte alla crisi finanziaria arrivata dagli Stati Uniti sta ancora più nettamente nel-le mani dei governi nazionali [e del loro organo collettivo di rappresentanza: il Consiglio] che in quelle della povera Commissione.

Lo sviluppo di una vera democrazia europea [che, secondo il Tribunale costituzionale tedesco è troppo embrionale e debole per poter sostituire la più solida democrazia statuale che appartiene al popolo] avrebbe richiesto di cogliere l’occa-sione delle elezioni europee del 4-7 giugno 2009 per rafforzare o meglio creare ex novo la legitti-mità sostanziale della Commissione europea di fronte ai cittadini europei [quella che gli inglesi chiamano accountability in entrata] sottraendola all’abbraccio mortale dei governi.

Nessun partito europeo ha voluto fare questa scelta presentando agli elettori ed alle elettrici un programma di governo per la legislatura europea con un candidato alla presidenza della Commis-sione chiamato a garantire la realizzazione del programma di governo.

Cosicché Barroso sarà confermato come pre-sidente della Commissione per un secondo man-dato di cinque anni da una coalizione di gover-ni nazionali di destra, di centro e di sinistra ed il Parlamento europeo subirà ancora una volta con un flebile ostruzionismo delle minoranze una vio-lazione dei suoi diritti.

Nonostante Barroso, è istituzionalmente im-portante che il presidente della Commissione as-suma i suoi poteri prima della [eventuale] nomina del presidente permanente del Consiglio europeo e dell’alto rappresentante della politica estera in modo tale che l’uno e l’altro assumano poteri residuali e compatibili con quelli del Presidente della Commissione.

Nella nuova legislatura torneranno sul tavo-lo della Commissione, del Consiglio e del Parla-mento europeo dossier incompiuti della legisla-tura appena terminata.

A mò di decalogo, ne enumeriamo qui nove che impegneranno fin dalle prime battute la set-tima legislatura europea ed un decimo che non è all’ordine del giorno della politica ma che appari-rà sempre più evidente nei prossimi mesi.1. Energia/ambiente. Il Consiglio europeo dello

scorso dicembre ha preso decisioni politica-mente provvisorie su questo pacchetto in attesa degli eventuali accordi che potrebbero essere raggiunti nel vertice mondiale che avrà luogo nel prossimo dicembre su iniziativa delle Na-zioni Unite. Il nuovo approccio del presidente

Obama, che incontrerà in settembre a Pittsbur-gh i leader del G20, è un ottimo segnale per le posizioni europee ma Cina e India sono ancora ostili ad impegnarsi seriamente nella lotta con-tro il cambiamento climatico e nello sviluppo di energie pulite.

2. Mercato interno/concorrenza. La crisi finan-ziaria ha accentuato le tendenze nazionali al protezionismo ed in molti si chiedono ormai se il mercato interno non sia entrato in una fase di – economicamente drammatica – fram-mentazione nonostante gli allarmi lanciati dalla Commissione europee. È del resto evidente che il protezionismo apparirà sempre di più come una apparente via d’uscita necessaria se non ci saranno vere politiche dell’Unione a favore dell’innovazione, della ricerca pubblica e pri-vata, delle piccole e medie imprese, delle in-frastrutture e del mercato del lavoro.

3. Immigrazione. Nonostante gli impegni pre-si ed in particolare il patto sull’immigrazione adottato sotto presidenza francese, non sono stati fatti sostanziali passi in avanti in direzio-ne di una politica comune in questo settore. In molti paesi, come l’Italia, l’immigrazione da paesi terzi [essendo i cittadini comunitari liberi di circolare senza limitazione alcuna] è presa in considerazione sopratutto dal punto di vista della sicurezza interna e della lotta all’immi-grazione illegale che viene spesso confusa con l’immigrazione irregolare. Non è un caso che la politica dell’immigrazione è di responsabi-

lità in molti paesi, fra cui l’Italia, del ministe-ro degli interni e non del ministero degli affari sociali. L’Unione europea dovrà contribuire ad adottare misure che facilitino l’inclusione degli immigrati e non solo di quella particolare ca-tegoria chiamata blue card [gli immigrati pro-fessionalmente qualificati] assicurando loro il diritto all’educazione ed alla salute e riaprendo il dibattito su un diritto di voto europeo nelle elezioni locali ed in quelle europee. L’Unio-ne europea dovrà poi rilanciare il dialogo e la cooperazione con i paesi a più forte emigra-zione ed in particolare quelli dell’Africa sub-sahariana che saranno più toccati dagli effetti del cambiamento climatico.

4. Bilancio. Le prospettive finanziarie pluriannua-li [la legge finanziaria europea adottata nel dicembre 2005, sotto presidenza britannica] scadranno alla fine del 2013 dopo un periodo di sette anni e, secondo il trattato di Lisbona dovranno essere rinnovate con un accordo fra Parlamento e Consiglio per un periodo di cinque anni che coinciderà con la nuova le-gislatura europea. Come abbiamo detto più sopra, la Commissione europea ha lanciato nell’autunno 2007 una riflessione urbi et orbi sulla riforma del bilancio [fra i contributi di ri-flessione ne è pervenuto uno anche dal gover-no australiano] con un metodo aperto simile a quello del bilancio partecipativo. Insieme ai negoziati sulla “legge finanziaria” 2014-2019 [Giuliano Amato aveva inutilmente proposto

Page 20: Numero 4/2009

20 UN MONdO IN MOvIMENTO

nel 2002 di far precedere l’approvazione della legge finanziaria da una sorta di Dpef europeo] dovranno essere riviste tutte le politiche con conseguenze finanziarie pluriannuali come la ricerca, l’ambiente, la cultura, i giovani e l’edu-cazione, gli aiuti ai paesi in via di sviluppo e last but not least la politica di coesione.

5. Politica di coesione. Una discussione è in corso da tempo sugli effetti delle politiche strutturali europee ed i rapporti fra l’Unione europea e le sue regioni con un contributo im-portante – e dissacrante – fornito da un gruppo di lavoro costituito su inziativa della commis-saria Hübner ed animato dall’italiano Fabrizio Barca. Poiché le esigenze del phasing out ri-chiederebbero una conferma dell’ammontare dei fondi strutturali per i nuovi paesi dell’Eu-ropa centrale ed orientale e poiché la crisi fi-nanziaria ha provocato effetti disastrosi in tut-ta l’Unione europea in particolare sul livello dell’occupazione e sul tessuto delle piccole e medie imprese [senza parlare della crescita del numero dei poveri e quindi degli esclusi] una riflessione attenta dovrà essere fatta sulla quantità e sulla qualità di questa spesa.

6. Strategia di lisbona. Come si sa, le priorità dell’Unione europea per la strategia lanciata, appunto a Lisbona, nel 2000 sono state rin-novate nel 2005 dopo l’amara constatazione del fallimento dei primi cinque anni di inutile coordinamento europeo. La crisi finanziaria scoppiata nel 2007-2008 ha reso ancora più evidente la mancanza di strumenti europei per assicurare la competitività e la crescita dell’Unione europea sopratutto di fronte ai co-sidetti paesi emergenti. Nel prossimo autunno, la Commissione europea lancerà una riflessio-ne ed un dibattito pubblici – simile a quello che è stato fatto per il bilancio – sul metodo [ed in particolare il cosidetto metodo aperto di coordinamento, che ha mostrato negli anni tutti i suoi limiti] e sul contenuto della strategia. I tempi sono stretti anche perché Barroso, se vorrà traversare indenne le forche caudine is-sate nel Parlamento europeo da chi non voleva

la sua conferma, dovrà presen-tarsi davanti all’Assemblea con idee nuove in termini di politica economica europea.

7. Crisi finanziaria. Dopo il c.d. European recovery plan pre-sentato dalla Commissione nel dicembre 2008 ed approvato distrattamente dai capi di Stato e di governo, il prossimo Consi-glio europeo di primavera sotto presidenza spagnola dovrà fare il punto delle misure adottate e, sopratutto, esaminare l’impatto europeo delle decisioni prese dal G8 a Coppito e dal G20 pri-ma a Londra e poi a Pittsburgh. Siamo ancora ben lontani dalla riforma del sistema finanziario internazionale e da una nuova Bretton Woods e, fino ad ora, i paesi dell’Unione europea si sono presentati a questi appuntamenti in or-dine sparso.

8. Balcani occidentali e Turchia. Dopo il “no” irlandese al Trattato di Lisbona, i governi dei Ventisette hanno irresponsabilmente frenato i negoziati di adesione con la Croazia, hanno di fatto congelato i negoziati con la Macedo-nia ed hanno lanciato segnali negativi verso gli altri paesi della regione [Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina e Albania] per non parlare della Turchia con il rischio di una crescente instabilità in tutti i Balcani occidentali ed un indebolimento del ruolo dell’Unione europea in un’area che si affaccia verso l’Iran e l’Iraq. Superato l’impasse del trattato di Lisbona, il

dossier delle nuove adesioni dovrà essere ri-lanciato.

9. Unione per il Mediterraneo. Insieme alle nuo-ve adesioni, l’Unione europea dovrà rilanciare il progetto – per ora virtuale – dell’Unione per il Mediterraneo battezzato, con solennità de-gna di migliore avvenire, nel Vertice di Parigi del 13 luglio 2008.

10. La riforma dell’Unione. A queste priorità condi-vise, è opportuno aggiungere un dossier – con-siderato definitivamente chiuso dai governi e, forse, da una parte importante delle forze po-litiche del Parlamento europeo che lo hanno trascurato nella recente campagna elettorale europea. Si tratta della riforma dell’Unione, frettolosamente chiusa con il “modesto” [l’ag-gettivo è del presidente Napolitano] compro-messo che ha sostituito la Costituzione prima varata dalla Convenzione Giscard, poi rivista ed edulcorata dalla conferenza intergovernati-va ed infine firmata a Roma il 29 ottobre 2004. Le nuove regole rendono o renderebbero più facili sia le cooperazioni rafforzate sia forme di cooperazione – detta strutturata – nel settore della difesa. Ma le cooperazioni strutturate o rafforzate servono per compiere dei passi in avanti, da parte di un numero più limitato di paesi, all’interno dell’Unione ma non al di là dell’Unione nel caso in cui si voglia riaprire il cantiere politico della Costituzione europea. Si tratta, a chiusura del decalogo, di una rifles-sione sulla natura – diremmo sulla “forma di Stato” – che ci viene non solo giuridicamente sollecitata dalle recenti sentenze del Tribunale costituzionale tedesco e della Corte costituzio-nale ceca sul Trattato di Lisbona.

Segretario Generale Onorario Movimento Europeo Internazionale

Nella nuova legislatura torneranno sul tavolo della Commissione, del Consiglio e del

Parlamento europeo dossier incompiuti

della legislatura appena terminata

Page 21: Numero 4/2009
Page 22: Numero 4/2009
Page 23: Numero 4/2009

23UN MONdO IN MOvIMENTO

È affermazione assai corrente in queste settimane che i risultati delle ultime elezioni europee avrebbero fornito un’ulteriore e as-sai eloquente conferma delle difficoltà non solo contingenti, bensì strutturali, della so-cialdemocrazia europea. In effetti, raramente si assiste all’esprimersi di un coro all’uniso-no nel riflettere su un insieme di circostanze che viene presentato come un dato pressoc-chè auto evidente, sia pure accompagnato da espressioni quali “eclisse”, “crollo”, “cri-si”, “scomparsa”, addirittura “morte”1 che si muovono essenzialmente solo su una scala di intensità senza mai porre in discussione il “se”. Largamente comuni sarebbero pure le ragioni addotte per illustrare lo stato della so-cialdemocrazia, o quantomeno il contesto nel quale sarebbe maturato questo distacco con l’elettorato tradizionale di riferimento e non solo. Con poche varianti la ricostruzione – la quale sembra voler descrivere una parabola non solo europea, ma estesa almeno a tutto l’occidente – sarebbe questa: il 1968 sareb-be l’apice di un lungo dominio e di un forte insediamento politico e culturale delle sini-stre nelle società contemporanee. Negli anni successivi, e a partire da date convenzionali collegate al prodursi di questo o quell’even-to di rilievo internazionale (se non addirittura in conseguenza della portata destabilizzante

1 Cito a caso rileggendo Giuseppe Berta, il cui ultimo saggio (Eclisse della socialdemocrazia, Il Muli-no, 2009) ha suscitato un ampio dibattito sulla stam-pa, nonché saggisti come Andrea Romano, Massimo Salvadori, Alain Touraine, Anthony Giddens, Giorgio Ruffolo e tanti protagonisti più o meno recenti dell’an-noso dibattito sul tema.

del medesimo ‘682), si sarebbe gradualmente esaurita la spinta propulsiva derivante dalla predisposizione di un progetto consapevole di integrazione delle masse nel circuito della cittadinanza3 che, noto con il nome di “Stato

2 Secondo la suggestiva tesi avanzata da Franco de Felice, il quale ravvisa in quell’annus mirabilis (o, a seconda dei punti di vista, horribilis) l’originale dell’ul-tima mondializzazione e di mutamenti irreversibilità della soggettività recanti profondi effetti sul piano eco-nomico, culturale, sociologico qualificabili in termini di una “rivoluzione sociale”. V. la bella rievocazione di G. Vacca su Italianieuropei 2008/5., p. 257-58.

3 Si è parlato in senso analogo anche di “nazio-nalizzazione delle masse” e di processo di nation building.

sociale” o con traduzioni più o meno equiva-lenti, è stato indubbiamente una delle gran-di innovazioni sociali del secolo XX. Così, salvo alcune propaggini spiegate per lo più richiamando la peculiarità di talune vicen-de nazionali (il peso politico dei socialisti al governo in Spagna e Francia, e in misura as-sai minore e infinitamente più controverso in Italia), si sarebbe concluso definitivamente il secolo “socialdemocratico”4. Pur desumendo-sene talora necessità diverse, talora solo ap-parenti (rifondare una cultura politica ovvero trasformarla sono processi che si muovono concettualmente lungo un continuum), è ge-neralmente condivisa la considerazione che effetto e causa al tempo stesso dello smarri-mento di un progetto globale di governo della società sarebbe una profonda trasformazione che ha interessato le società, le loro istituzioni, le persone. Si sarebbe prodotto un contesto complessivamente assai sfavorevole – talora definito “riflusso”, un melting pot di edonismo, aumento delle disparità di reddito e impoveri-mento dei ceti medi, disincentivi alla produ-zioni di servizi pubblici e beni sociali, abban-dono delle agorà e quant’altro – alle sinistre in generale e, per quello che qui interessa, ai partiti socialdemocratici. I loro insediamenti elettorali sarebbero stati erosi e accerchiati, emersi nuovi ceti, il disincanto e l’apatia po-litica sarebbero aumentati a dismisura. La si-nistra avrebbe provato a reagire, nei casi più energici, facendo propria la lezione delle de-stre o comunque revisionando energicamente le proprie politiche, senza tuttavia riuscire ad operare una inversione di tendenza. In tempi a noi recentissimi la narrazione della vicenda della crisi socialdemocratica si sarebbe arric-chita di nuovo tassello, l’apertura di una “fi-nestra di opportunità” per le sinistre derivan-te per un verso dalle promesse di vero e pro-prio “cambiamento d’epoca”5 possibile dalla

4 Frequentemente definito anche età dell’oro (Hobsbawm) o compromesso socialdemocratico (tra i tanti da ultimo Reichlin nel bel contributo sul nume-ro 2008/5 di Italianieuropei). Il punto è stato oggetto di riflessioni acute da parte di Lord Dahrendorf, al cui enorme lascito scientifico e umano è idealmente ri-volta questa riflessione, nell’aureo libretto “Quadrare il cerchio”, prevalentemente centrato però sulla dia-lettica occidente libero/Oriente illiberale rilevando i termini di una competizione globale su basi sleali o comunque non paritarie.

5 L’espressione è di M. D’Alema, La portata globale della vittoria di Obama, in Italianieuropei, 2008/5, p. 7. Il giudizio è naturalmente espresso sulla base delle potenzialità del politico americano.

La “crisi della socialdemocrazia” e il riccio di Archiloco «La volpe sa molte cose,ma il riccio ne sa una grande»

Marco Plutino

Uno “strano caso” alla cui formazione concorrono fattori disparati (tra cui,

in questa sede, si omettono i motivi più chiaramente polemici e le intenzioni meno

benevoli)

Page 24: Numero 4/2009

24 UN MONdO IN MOvIMENTO

vittoria di Obama, e per altro verso da analisi che considerano definitivamente tramontata l‘epoca usualmente definita come quella della “globalizzazione liberista“ o con espressioni consimili6. Gli ultimi sviluppi hanno proba-bilmente contribuito a rilanciare un dibattito forse stagnante, dividendo i commentatori tra coloro che considerano Obama una opportu-nità anche per il campo socialista (cioè per le sinistra riformiste d’Europa) e coloro che più prudentemente ne ricavano solo un ulteriore giudizio sui ritardi e le mancanze del sociali-smo europeo che, nello stato in cui si presen-ta, sembra preludere ad una ulteriore, storica, occasione perduta.

Non occorre spendere molte parole per sottolineare quanto sia largamente convincen-te questa narrazione, in particolare per quel che attiene allo scenario di fondo, oggetto di approfonditi studi da parte di tutte le scien-ze sociali, nel quale si consumerebbe la crisi socialdemocratica. Del resto, come si dice-va, i risultati elettorali delle elezioni europee forniscono indubbi argomenti sia per affer-mare la generalità della crisi che la sua pro-fondità7. Tuttavia, tanto un forte conformismo dell’analisi, che è per larga parte communis opinio fino al punto da rischiare di incappa-re in una sorta di banalizzazione8, quanto, e al contrario, certe sfumature non irrilevan-ti nella qualificazione di questa difficoltà e certe differenze di valutazione (dichiarare

6 Nel recente, citato numero di Italiani europei (2008/5), una serie di assai autorevoli commentatori si esprime con insolita consonanza nel senso che sarem-mo “Après le déluge” (secondo l’espressione utilizzata da G. Amato). In tal senso, oltre all’autore citato so-prattutto il contributo di Wallerstein, significativamente intitolato “2008: la fine della globalizzazione neolibe-rista”. Alcuni autori, tuttavia, ripongono la loro preoc-cupata attenzione piuttosto che sulla chiusura di una epoca sull’apertura di una fase di transizione tutt’ora di difficile deciframento e aperta a più esiti nonché sugli effetti di lunga durata dell‘avvelenamento prodotto-si nel sistema capitalistico e non solo. In quest’ottica Giorgio Ruffolo ha utilizzato un’efficace espressione per designare i decenni trascorsi e gli anni attuali: “età dei torbidi” (Rivista cit., p. 32 ss.).

7 La prima incontra pochissime e solo parziali smentite, la seconda è simbolizzata dalla cifra dei la-buristi inglese, mai così in basso dal 1910.

8 Di cui forse è inevitabile espressione anche la ricostruzione qui effettuata, nello sforzo di sintesi ne-cessario, ma che è priva comunque di qualsiasi inten-zione caricaturale.

che qualcosa è in crisi piutto-sto che è irriducibilmente mor-ta non è esattamente la stessa cosa, anche se bisogna leggere tra le righe per l’alto contenuto di ambiguità che sempre han-no metafore e figure retoriche), forse offrono uno spazio, magari ridotto ma utile, per una rifles-sione di taglio diverso. Qualche significativa omissione, asimme-tria valutativa, manifesta parzia-lità di giudizio, ancor più se deri-vanti “da sinistra”, offrono quegli spunti atti a rendere tale ricerca addirittura intrigante, e almeno astrattamente atta a ritrovarvi delle figure sintomatiche.

Nel seguito di questa rifles-sione ci chiederemo se la con-clamata crisi della socialdemo-crazia europea, il malato della politica democratica mondiale, non si presenti almeno in parte come uno “strano caso” alla cui formazione concorrono fattori disparati (tra cui, in questa sede, si omettono i motivi più chiara-mente polemici e le intenzioni meno benevole).

Attardarsi su un dato appa-rentemente scontato potrebbe apparire una occasione per ritar-dare la fase costruttiva e di proposta. Tuttavia può avere un senso se si concorda con le se-guenti argomentazioni. In primo luogo, l’ef-ficacia dei rimedi dipende strettamente dalla correttezza dell’analisi: nell’esempio prima fatto, la differenza concettuale tra parlare di stato di grave difficoltà della socialdemocra-zia piuttosto che dichiararne il decesso avve-nuto, ha conseguenze importanti sul piano della proposta politica, per quanto possano sfumarsi le due affermazioni.

In secondo luogo, e in conseguenza di ciò, perché resta buona regola quella di sottoporre periodicamente un’analisi che pure si presen-ta come efficace e convincente a revisione, il che impone di continuare a indagare, appro-fondire ulteriormente – anche ricorrendo ad una messe maggiore di dati empirici – senza dare alcunchè per scontato, neanche di fron-te a fresche “conferme”. Le prime analisi sul-la crisi della socialdemocrazia risalgono a più di trent’anni fa, e, pur esistendo certamente parabole storiche, ciò aumenta il rischio di utilizzare argomenti tralatizi e di adagiarsi in comode spiegazioni. Processi irreversibili nel-

la storia dell‘uomo ce ne sono davvero pochi e la tendenza prognostica della mente uma-na, nel preferire il consolidamento delle ten-denze alla loro inversione, facilmente cade in fallacia e sminuisce il ruolo dell’analisi e della proposta politica.

A ciò si aggiunga, soprattutto in Europa, un retaggio storicista che va ben oltre l’accet-tazione del relativo approccio metodologico, che di fronte ad un pregiudizio tende a pre-ferire la ricerca delle conferme a quella delle smentite, un processo di “verificazione” che è stato giustamente criticato in modo serrato dagli epistemologi nei nostri tempi e che ren-de assolutamente sconveniente formulare pen-sieri contro-intuitivi. Invece soprattutto nelle scienze sociali non solo bisognerebbe riflette-re bene prima di accantonare schemi di ricer-ca che si sono mostrati descrittori relativamen-te affidabili (come le analisi sulle “regolarità” dei cicli politici) ma soprattutto non bisogna mai sottovalutare il ruolo di variabili difficili da predeterminare, quali il ruolo giocato dai carismi individuali e classi dirigenti innovati-ve (il mistero di cui parlava Guido Dorso). Si

Page 25: Numero 4/2009

25UN MONdO IN MOvIMENTO

intende, nella misura in cui ciò abbia incon-trato il favore degli elettori, giacché parlare di crisi di una cultura politica senza fare i conti i risultati che essa coglie nei sistemi democratici può descrivere al massimo la debolezza del-

le politiche di governo prodotte o il loro fallimento ultimo (e con-duce agevolmente a discettare di crisi della politica), ma certamen-te non si presta descrittivamente a indicare un dato di ritardo re-lativo più o meno strutturale di uno schieramento nei confronti dell’altro in contesti ormai gene-ralmente caratterizzati da com-petizioni per il governo di tipo bipolare.

Quest’ultima considerazio-ne si presta a far da ponte da un discorso riguardante apparente-mente il metodo ad uno di meri-to. Si noterà presto che i discor-si in realtà restano fortemente interrelati. Si prenda il caso del-la “terza via”, ad esemplificare l’enfasi con cui sono state esal-tate alcune “vicende” della sini-stra europea, quasi si trattasse di “rifondazioni” vere e proprie, che è pari solo alla tendenza attuale a declassarli come episodi tutto sommato minori o significativi ma dagli esiti ultimi fallimentari. Si badi che la contestazione non proviene, come sarebbe ragione-

vole, sulla problematica identificabilità della esperienza così denominata9, il che imporreb-be di individuare l’apporto culturale e l’impatto sui valori di riferimento che avrebbe interessato la cultura politica socialdemocratica (ammesso che ve ne sia una). L’esperienza, riconosciuta-ne la sua indubitabile pluralità, viene invece sminuita anche di fronte ad un esame “quan-titativo” che talora ha prodotto esiti che non possono che definirsi clamorosi, come se essi

9 L’espressione “classica” della “terza via” sareb-be in via convenzionale identificabile nel documento Blair-Schroeder del 1999, ma se ignorano che alche altro venivano battuti sentieri relativamente nuovi (seppure con sensibilità diverse: ad es. Jospin) ci si accorge di quanto il quadro si problematizzi. Vedi ad es. il documento della “commissione sui valori fon-damentali” della Direzione dello Spd, del settembre 1999 e il contributo del Partito socialista francese al Congresso dell’Internazionale socialista, ottobre 1999, entrambi pubblicati a suo tempo da “Le ragioni del Socialismo”. Va detto al florilegio di documento non è sempre corrisposta una elevata capacità di innova-zione progettuale, ed anzi spesso l’ipertrofia nascon-de un deficit di idee.

non avessero prodotto per ciò stesso una ere-dità ideale e di pratiche apprezzata, e dunque considerata non solo promettente ma efficace, magari più volte, dagli elettori. Ancora meno sono coloro disposti a riconoscere che la “ter-za via” abbia rappresentato un tentativo plura-le e articolato di quasi tutta la sinistra europea di produrre un ciclo di governo – che ha rea-lizzato importanti allineamenti nella seconda metà degli anni ’90 – che aveva alla propria base una proposta politica innovativa pure nel-le esperienze meno esaltanti, o tali considerate alla luce del giudizio dell’elettore, quali l’Ulivo e il jospinismo. Come se tutte le contraddizio-ni di fondo che ne hanno denunciato i limiti, non esprimessero in fondo anche le tensioni ad uno sforzo di elaborazione più coraggioso: per l’Italia, la disomogeneità politica di coalizione frutto di una operazione politica – consentita dalle tecnicalities dei sistemi elettorali – che, per ammissione di alcuni protagonisti, non è mai riuscita a vincere il dato di una maggioran-za di popolo avversa (in un inseguirsi di cau-sa ed effetto che poi aveva trovato una svolta nell’affermazione della “vocazione maggiori-taria”). Per la Francia l’incredibile arretratez-za culturale, oltre che rissosità, dei socialisti francesi attardati ancora in pregiudizi statalisti, dirigisti, e frenati da retaggi coltivati come spe-cificità nazionali che il jospinismo ha provato, senza grandi esiti, a superare10.

Non né è forse riprova la fuoriuscita di spezzoni di classi dirigenti dai partiti socialisti in tutti quei paesi europei i cui sistemi eletto-rali ne favorivano (o sembravano ragionevol-mente consentirne) l’autonomizzazione?

Ancora: probabilmente non si ripone sufficiente attenzione a quanto è avvenuto contestualmente oltre Atlantico o se ne esalta l’eccezionalismo storico. La vicenda statuni-tense può essere invece considerata come as-sai significativa a prescindere. Infatti, nel cuore di quella che sarebbe ed è stata la tempesta liberista (o, addirittura nel caso, turbo-liberi-sta), i “democratici” hanno trovato il tempo di partorire esperienze presidenziali nelle fi-gure di Clinton e, ora, Obama caratterizzata da elementi grandemente innovativi e, non è inutile sottolinearlo, portati avanti da politici

10 Spesso si paragona il craxismo con il mitterandi-smo, ma se il paragone ha un senso nel “duello a sini-stra” (ovvero il rovesciamento di rapporti tra socialisti e comunisti), ciò non può affatto investire il confronto tra il programma economico e culturale craxiano – frutto di alcuni degli apporti culturali più raffinati dell’epo-ca – con quello mitterandiano, la cui eco si avverte ancora oggi, davvero figlio di un‘altra epoca.

L’Ulisse chenon vuole

ascoltare le sirene socialdemocratiche è talora quella parte

della sinistra più restia a modernizzarsi

Page 26: Numero 4/2009

26 UN MONdO IN MOvIMENTO

di assoluto carisma11. Il primo è stato capace di segnare, se non una inversione di tenden-za, almeno una parentesi di grande significato, pur in un sistema di governo che gli sottrae-va importanti decisioni12, il secondo addirit-tura viene considerato il simbolo di una nuo-va era. Se è vero che a nessuno che ammetta l’esistenza del trentennio liberista verrebbe in mente di parlare di una strutturale crisi dei democratici statunitensi, il problema dunque sarebbe soprattutto o esclusivamente dei par-titi della sinistra riformista europea, in quan-to eredi di una tradizione insieme socialista e marxiana. Cioè investirebbe gli autori del vero e proprio “compromesso socialdemocratico”. Eppure la separazione dei giudizi suscita alme-no qualche perplessità: lo scenario di fondo è decisamente mondiale e almeno occidentale è l’esperienza stessa dello Stato sociale, che con le sue differenti caratterizzazioni ritrova le sue matrici nella Repubblica di Weimar e nel New Deal roosveltiano: in teoria anche i democratici americani sarebbero dovuti entra-

11 A questi andrebbe almeno aggiunto lo sfortu-nato Al Gore, come è noto sconfitto con aspetti para-dossali e legalmente controversi ma indiscutibilmente una della più brillanti e innovative personalità della politica mondiale degli ultimi anni.

12 M. D’Alema, cit. p. 8, secondo la cui autorevole opinione la presidenza Clinton ha rappresentato “un cambiamento netto rispetto all’epoca di Reagan” (dun-que esprienza di Bush padre compreso), tanto che “il suo secondo mandato è stato l’unico periodo della sto-ria americana degli ultimi venticinque anni in cui si è registrata una riduzione delle disuguaglianze sociali“.

re in una grave crisi, sia pure, si concede, meno eclatante di quella dei socialisti. Ciò non è avvenu-to13. Inoltre vengo-no misconosciuti gli indubbi legami intercorsi – quale che ne siano gli esi-ti – tra democratici e sinistra riformista europea soprattut-to nella presidenza Clinton14.

V’è da chieder-si, infine, in via resi-duale, come mai al-trettanto “purismo” e rigore metodolo-gico non venga uti-lizzato con l’altra metà del campo po-litico, per sottoline-are contraddizioni e fallimenti, litigio-sità nelle classi dirigenti, assenza di proposta politica, opportunismo, e invece si insista nel presentare apoditticamente quello dei (tanti, diversissimi) centro-destra come un “modello” vincente, associando del tutto abusivamente nomi come quelli di Kohl, Aznar, per non par-lare di Berlusconi, legando tutti peraltro al car-ro dei presunti vincitori per definizione costi-tuito dalla coppia Tatcher-Reagan, con il loro vate Friedman e le discusse genealogie15.

13 Pure in una tendenza alla prevalenza delle presidenze repubblica negli ultimi trenta anni l’unico presidente che non è riuscito a rinnovare il mandato è stato Bush senior, e Clinton in condizioni difficilis-sime, cioè senza disporre di una maggioranze nelle due camere parlamentari, ottenne il secondo mandato addirittura contro una icona del liberismo selvaggio, Gingrich. Questi, anzi, interpretò in modo così grave la sconfitta rispetto ai trionfi di due anni prima da de-cidere di ritirarsi dalla vita politica. Già si è detto del-la sfortunata e contestata vicenda che ha interessato Al Gore il quale, se avesse vinto con o senza l’avallo dei giudici in una elezione comunque all’ultimo voto, avrebbe completamente annullato l’impressione di un ciclo repubblicano.

14 Ha sottolineato da ultimo questo punto M. D’Alema, cit., p.13 che parla di “dialogo euro-ameri-cano, che ebbe anche il carattere di un‘elaborazione politico-culturale“.

15 Si pensi al rompicapo dei neo-cons. Si pensi ancora all’arruolamento tra i conservatori del presun-to parà di tutti Von Hayek, il quale peraltro pur essen-

Dalla difensiva si potrebbe passare pru-dentemente perfino ad una linea offensiva, sostenendo le occasioni in cui gli elettori non hanno affatto votato le spalle ai socia-listi ma si sono affrettati a confermarli nelle urne, fino a prefigurare “cicli” veri e propri, se non stagioni.

Se infatti di “lunga durata” vogliamo par-lare ci sembra che offrire la palma del domi-nio politico e soprattutto culturale in Europa della Tatcher (con MItterand e Kohl in posi-zione minore), grazie al suo legame di ferro con processi culturali mondiali, pur coglien-do indubbiamente una parte della verità (an-che la mitologia politica ha un suo peso), ri-schia di perdere di vista anche dati piuttosto elementari. Sarebbe davvero inspiegabile che Blair in anni così sfavorevoli sia rimasto primo ministero più di ogni altro laburista inglese di sempre (altro che i tempi di Lord Beveridge), tanto che la sua longevità di primo ministe-ro abbia nettamente superato quella,“mitica”, della Tatcher. Si tenga anche conto che la dif-ferenza non dà neanche pienamente giustizia

do un liberale, liberista, individualista strenuo, il quale tanti sono i fraintendimenti delle sue idee che dovet-te sentire un bisogno di smentire per iscritto di essere qualificabile come un conservatore (figurarsi un po-polare con venature sociali, un cristiano-democratico, un populista, etc.).

L’espressione di “crisi della

socialdemocrazia” più che descrittiva di una realtà auto-evidente appare una formula

di sintesi bisognevole di approfondimento

Page 27: Numero 4/2009

27UN MONdO IN MOvIMENTO

della realtà16. Le obiezioni tradizionali non of-frono nulla di meglio che ricordare che Blair non un è socialista in senso proprio, nel senso che i laburisti sarebbero relativamente estra-nei alla crisi socialdemocratica17? O quella, più malevole, secondo cui Blair sarebbe stato vincente perché continuatore in senso proprio delle politiche della Tatcher, distorcendo alcu-ne sue astute affermazioni nel senso di aver reso una quasi piena confessione di aver ab-dicato alle ragioni della sinistra?

E che dire della circostanza che i trent’anni della “maledetta” globalizzazione coincidano quasi perfettamente con il trentennio di gover-no socialista spagnolo, interrotto solo da pochi anni – davvero si può dire fisiologici – di go-verno conservatore… Una esperienza che, tra l’altro, ha il pregio di unire il socialismo “vin-cente” degli anni ’80 con quello degli anni ’90,

16 Infatti la “lady di ferro” non è andata in pensio-ne sconfitta onorevolmente o magari decrepita ma, anzi, fu defenestrata dal proprio partito di fronte alle prospettiva di una rovinosa sconfitta elettorale, mentre Blair si è inusitatamente dimesso – anche per onorare un vecchio patto con Gordon Brown – mentre sareb-be potuto andare, certo tra crescenti difficoltà, anco-ra avanti secondo le previsioni fino ad un incredibile quarto mandato.

17 Sul punto negativamente, ed anzi partendo dall’esperienza laburista, G. Berta nel libro citato da ultimo edito.

mostrandone conti-nuità e discontinuità e che dunque solo in parte si presterebbe ad essere confinata in una vicenda tutta nazionale (il dopo-franchismo).

Viene almeno qualche dubbio che l’Ulisse che non vuo-le ascoltare le sirene socialdemocratiche sia talora più l’intel-lettuale cantore della crisi socialdemocra-tica o quella parte della sinistra più re-stia a modernizzarsi piuttosto che i popo-li che, quando vale la pena, votano, e se va bene, rivotano e votano ancora, i go-verni di sinistra.

•••••

Temiamo un errore di fondo sia costituito dal fatto che la tesi da cui abbiamo preso le mosse presenti il rischio di sovrapporre trop-po strettamente due momenti da tenere di-stinti anche se ovviamente non distanti, e ne faccia invece un discorso di indubbia sugge-stione che lega taluni “risultati” come fossero ovvie conseguenze delle premesse. Ed invece le vicende, variegate, della socialdemocrazia e della sinistra occidentale certamente sono state influenzate dalla piega che sembra aver preso il mondo da un po’ di tempo a questa parte e, forse, fino ad oggi. Ma non è detto che tale influenza si sia dispiegata nel modo più ovvio e schematico, ovvero che la prevalenza di un misto di finanza, deregolamentazione (e illegalismo), tecnologia, crollo delle ideologie marxiste, mutamento di costumi nel senso del-la liberazione dell’individuo dalle dimensione collettive, rassicuranti o soffocanti, produca necessariamente – e magari anche di fronte a smentite fattuali – il declino di tutte le sinistre, e magari ringalluzzisca quelle che amano de-finirsi “antagoniste”.

Non solo la complessità dei sistemi demo-cratici e della politica ci ha abituato a veri o apparenti paradossi, ma va aggiunto che molti presunti corollari della tesi di fondo andrebbe-ro attentamente vagliati: che il socialismo euro-peo sia complessivamente soggiogato dal mito

dell’egualitarismo e del collettivismo e non ab-bia nei suoi geni una cultura del mercato ovvia-mente quale “istituzione” che va regolamenta-ta (in alternativa a chi sostiene che la sinistra si è consegnata alle ragioni della destra!); che, all’opposto, la destra sia sempre paladina dei valori del mercato e dell’individualismo, men-tre anzi per quanto riguarda l’Europa, spesso diciamo destra per parlare di radici democra-tico-cristiane fortemente permeate dai valori di solidarietà e forte coniugazione tra stato e mercato. O ancora: è discutibile affermare che la crisi fiscale dello Stato – un dramma vero dei nostri tempi che pone in discussione lo Stato sociale – abbia smarrito solo l’elettorato di si-nistra e non abbia colpito anche insediamenti tradizionali della destra. E così via.

Insomma, avviandoci alla conclusione, l’espressione, qui preferita, di “crisi della so-cialdemocrazia” appare a nostro avviso più che descrittiva di una realtà auto-evidente (sia circa l’esistenza effettiva di tale crisi che, so-prattutto, dei suoi esatti termini), una formula di sintesi bisognevole di essere approfondita sia nel presunto dato della “crisi” – cosa è, come si manifesta, quali sono le ragioni, se sia o meno irreversibile, se sia generale – sia nella identificazione del proprium della social-democrazia, atta a distinguerla da ciò che non lo è. È qui si nascondono le possibili insidie del ragionare in termini tralatizi, i quali oggi sono obsoleti anche solo se gli schemi concettuali risalgono anche solo a quindici anni fa.

Una sommaria scomposizione della que-stione nei suoi diversi, possibili, profili, rileva almeno alcune ambiguità concettuali di chi presuppone o rileva il dato.

Se certamente non può ridursi al dato, pur serio, della crisi dei partiti socialdemocratici e dei relativi movimenti transazionali, con rife-rimento all’evoluzione o involuzione e limiti delle forme e delle procedure politiche attra-verso le quali si è manifestata (le regole, la par-tecipazione, la qualità della classe dirigente e le possibili patologie), allora rinvia certamente ad un dato di cultura politica dei partiti e dei movimenti socialdemocratici e dei valori ad essa sottesa, e più concretamente, alla capa-cità di affrontare le nuove sfide che si profila-no nel governo della società.

Difatti se argomentassimo che la questio-ne delle forme organizzative è determinante per la sinistra e i suoi destini, lo faremmo cer-tamente a partire dal dato storico che i partiti socialdemocratici hanno costituito il prototi-

Page 28: Numero 4/2009

28 UN MONdO IN MOvIMENTO

po del partito di massa e delle sue evoluzio-ni più recenti, in particolare del cd. partito di integrazione sociale. Sarebbe certo facile ar-gomentare che per ragioni anche culturali la sofferenza colpisce maggiormente – sotto for-ma di disincanto, abbandono della militanza, astensionismo elettorale e così via – quelle forze che realizzavano il modello più puro e compiuto di partito novecentesco. Ma, a parte che il dato non può negare risultati elettorali che si producono (ammettiamo pure, in con-testi ad elevato tasso di voto di opinione)18, tale discorso sembra sottintendere un altro argomento o accoppiarsi con esso, il quale è però ambiguo e forse fuorviante. Vi incorre chi lega troppo i destini della sinistra al tema, affatto banale, della “crisi della politica”, che pure trae larga origine dallo scenario econo-mico e culturale tracciato in apertura. L’argo-mento, piuttosto diffuso anche in Italia19, ha il limite di riversare il discorso della crisi so-cialdemocratica in termini nettamente diver-si, e su una questione i cui contorni sono ne-gli ultimi anni radicalmente mutati rispetto ad anni in cui l‘identificazione sinistra=politica appariva un po’ meno arbitraria e assurda. La questione in particolare passa attraverso il deciframento della “variabile populista”. Né è detto, anzi oggi è generalmente negato anche con esempi macroscopici, che il fenomeno ri-guardi solo la destra, né tantomeno ci si può attardare su visioni generalizzanti quali quelle secondo cui la destra avrebbe una visione an-tipolitica, o il suo elettorato sia più facilmente soggiogabile e dal populismo e, magari e per-ciò, dall’antipolitica.

Insomma, mentre sarebbe del tutto cor-retto sottolineare che la fine del compromes-so socialdemocratico segna il tramonto di una lettura marxiana e di una visione economici-stica della società, sarebbe sbagliato ritrovare l’essenza della socialdemocrazia nelle strut-tura e nelle categorie che contingentemente essa ha assunto sia pure per un periodo assai lungo. Non si tratta solo di tornare a socialismi pre-marxiani per ritrovare mitiche “ispirazioni originarie” o socialismi a-marxiani per recu-perare il tempo perduto (come suggeriscono

18 La grande differenza tra il successo tra gli elet-tori – che conta ai fini del governo – e il successo tra gli iscritti – che alla base della efficienza e democra-ticità di un partito – è la ragione che ha portato a ri-valutare, più ancora che la nuda caduta degli iscritti, istituti di partecipazione alla vita del partito quali le primarie “aperte“.

19 Tra gli altri ricordo che è stato frequentemente evocato da Piero Ostellino su Liberal e altrove.

certe riproposizioni del pensiero di Car-lo Rosselli o Guido Calogero, per non parlare di Gobet-ti). Approcci che rischiano di essere infantili, in quanto pensano che la sto-ria sia fatta di paren-tesi, o provinciali, perché la pura veri-tà è che la stragran-de parte della storia culturale italiana è rimasta ai margini delle grandi corren-ti di pensiero senza offrire un contributo rilevabile nel mini-mo comun denomi-natore della cultura politica socialdemo-cratica salvo isolate eccezioni. È perfi-no banale osservare che il mondo di oggi è profondamente di-verso da qualunque altra epoca. Bisogna tornare all’ispirazio-ne originaria, ma su ciò bisogna inten-dersi senza scam-biare l’essenziale per quello che, pur importante, si è rivelato tran-seunte.

Ad esempio è ben vero che una parte della socialdemocrazia ha occupato il centro delle schieramento politico, si è modernizzata, ha accettato il mercato senza riserve e abbando-nato lo statalismo e così via dicendo. Ma non si può concordare con quanti hanno sostenu-to (mi riferisco ad es. a Piero Ignazi), che ciò abbia prodotto una “trappola” per la sinistra, in quanto si sarebbe realizzato uno strappo irreparabile nella costituency originaria della socialdemocrazia.

A parte che ad avercene così di trappo-le che si rivelano tali dopo lunghi successi!, la tesi appare segnata da un duplice vizio di fondo: da un lato rischia di essere elitistica nel criticare in fondo anche i successi che tali ri-posizionamenti consentono, dall’altro ipercri-tica nel sottintendere uno smarrimento delle differenze con la destra, uno sviamento dalla matrice, un perdita di visione e progetto (ar-gomento peraltro molto comune), perché così

si rischia di consegnare la patente dell’inno-vazione alla sola destra.

Peraltro, tornando ad utilizzare un argo-mento cui già abbiamo fatto ricorso, non è chia-ro perché questo effetto che possiamo definire di “spiazzamento” non colpisca mai la destra, e in particolare proprio in questi anni di radicali revirements20. La destra può forse fare a meno della sua costituency, mostrando una sorta di capacità animalesca, mimetica di intuire gli umori profondi della cittadinanza, mentre la si-nistra dovrebbe presidiare la sua peraltro iden-tificata con un cadavere morto da tempo?

C’è una differenza antropologica tra gli elettori dei due schieramenti?

20 Anzi tali revirement sono posti dall’autore cita-to proprio all’origine dello spiazzamento della sinistra, che sarebbe insomma rimasto a presidiare un campo non proprio e ormai … deserto. Anche su tale argo-mento qui non si concorda per una serie di ragioni che sarebbe lungo esporre.

Page 29: Numero 4/2009

29UN MONdO IN MOvIMENTO

Proviamo a tirare le fila del discorso, in chiave più propositiva. La social-democrazia tornerà a dominare il gioco politico se saprà tornare a imporre una visione della società così convincente da risultare migliore della sua al-ternativa politica. La natura effimera o meno del successo dipenderà dalla sua capacità di ritrovare l’ispirazione di fondo originaria, che non è in qualche manifestazione transeunte che aderisce al sistema economico del tempo, ma in una sorta di fedeltà ai propri valori di fondo, che ovviamente vivono nella storicità e vengo-no periodicamente reinterpretati. La socialde-mocrazia da quando è nata ha ambito ad essere una forza popolare, che si è proposta di amplia-re il benessere diffuso oltre una cerchia di pri-vilegiati aventi accesso ai mezzi legali – come nello Stato cd. monoclasse – o di potere di fatto. Ha imparato ad essere forza di governo e forse ha finito con l’appoggiarsi troppo sui privilegiati e le rendite che ha creato, con ef-

fetti perversi sempre più evidenti. Con ciò ha tradito se stessa, perché nei geni del-la socialdemocrazia non c’è la difesa di alcuna forma di ren-dita, ma la riduzione delle disuguaglianze e la redistribuzione delle risorse, cioè qualcosa di incom-patibile e contrario ad ogni rendita. En-tro questa cornice va riletto e resta attuale l’insegnamento di Bobbio, il quale ve-deva la distinzione tra destra e sinistra attorno alle coordi-nate dell’eguaglianza e della libertà. In for-me che Bobbio stes-so ha condiviso: non solo, in via prelimi-nare, come necessità di coniugare entram-bi i valori senza sop-primerne alcuno, ma anche ridefinendo la primazia per una forza di sinistra della eguaglianza alla luce

delle regole di giustizia fornite dalla promozione del merito, della re-sponsabilizzazione, della sanzione dei compor-tamenti parassitari e dannosi per l‘ambiente nel quale debbono prosperare le opportunità indi-viduali e collettive. L’eguale libertà può apparire forse una prospettiva ormai scontata a livello di speculazione teorica, ma non dobbiamo di-menticare che resta l’unica trasformazione ra-dicale delle nostre società che meriterebbe di essere perseguita.

Una idea-guida che oggi si pone in termini in parte nuovi e assai problematici perché al tradizionale campo delle rivendicazioni eco-nomiche e sociali nel quale era stata preva-lentemente consegnata si è aggiunto il cam-po delle rivendicazione culturali e identitarie, dove tutto si complica per la necessità di co-niugare aspettative di individui e gruppi con la preservazione del senso di comunità. Può essere un atto di fede, ma deve essere soprat-tutto un esercizio critico della ragione pensare, se è possibile pensarlo, che il socialismo possa meglio accompagnare i travagli delle nostre

società rispetto alla destra. Sarebbe un’ottima notizia il convergere di entrambi gli schiera-menti su una serie presa in considerazione dell’eguale libertà quale terreno comune per lo scontro politico. Si tratta a ben vedere di un qualcosa che, come la democrazia, nessuno nelle società odierne può permettersi il lusso di sbeffeggiare, ma che si può solo al limite ignorare svuotando dall’interno fino a farla ri-suonare come una espressione vuota.

È ciò che la cattiva destra e la cattiva si-nistra fanno, la seconda in genere adducendo ragioni solidaristiche, umanitarie e argomen-tazioni che talora meritano anche un’attenta considerazione, ma subordinatamente alla tu-tela del merito e della responsabilità.

Se vi fosse questa convergenza la differen-za tra gli schieramenti apparirebbe forse più sottile, secondo un processo di graduale otti-mizzazione, ma si sarebbe prodotto anche un salto di civiltà delle comunità grazie all’intro-iezione delle moderne istanze del liberalismo politico. A nostro avviso una parte della sinistra, tra tanti errori, ha provato a muoversi secon-do queste direttrici, provando a liberare ener-gie per lo sviluppo e per i propri programmi di vita. Va sottolineato tuttavia che l’eguale libertà non sarebbe tuttavia un nuovo feticcio. I modi di realizzarla richiedono strumenti complessi di analisi e scelte valutative, sebbene più cir-costanziate, non esistono risposte matematiche o oracoli. Con quale criteri, ad esempio, fare una seria, davvero seria, politica delle borse di studio o ridurre entro ambiti sostenibili ma equi gli standards delle prestazioni inerenti ai servizi tradizionalmente universali? Se si pensa a tutto ciò come possa ulteriormente compli-carsi alla luce della sfida multiculturale e della società del rischio con le sue tentazioni secu-ritarie, si ha una percezione vaga ma già forte dell’enorme compito che si prospetta alla sini-stra riformista che voglia impegnarvisi.

Certo siamo quasi tutti orfani di una chiave di comprensione complessiva e univoca della società, del costruttivismo, di certe pretese di ingegneria sociale. Il mondo di prima era più rassicurante, sembrava più intellegibile e do-minabile. Perciò c’è tanto più bisogno di in-novazione nella tradizione politica della so-cialdemocrazia. Esiste qualcuno oggi – uomo politico, partito o movimento – che, come il riccio dei versi di Archiloco, anziché di sapere molte cose come la volpe, ne sa invece “una e grande”? Alla sinistra il compito di conqui-stare il voto illustrando il fascinoso, utile, fa-ticoso lavoro della volpe.

Ricercatore Università di Cassino.

Page 30: Numero 4/2009
Page 31: Numero 4/2009

31UN MONdO IN MOvIMENTO

Obama, l’Unione Europea e il conflitto israelo-palestinese

Paolo Wulzer

Tra le molte ed urgenti priorità della sua agenda internazionale, quali l’Iraq, l’ “Afpak” (Afghanistan – Pakistan), la questione iraniana, la tenuta e il rilancio della NATO, la ricostruzione dei rapporti con il “cortile di casa” latinoameri-cano, l’amministrazione Obama ha dimostrato sin dall’inizio di dedicare uno spazio centrale al conflitto israelo-palestinese, segnando in questo modo un primo deciso elemento di discontinuità rispetto agli anni di Bush.

Durante i due mandati repubblicani, infatti, l’approccio americano alla questione palestinese ha oscillato da un iniziale “disimpegno”, conse-guenza dell’11 settembre e della assoluta priori-tà assegnata alla guerra al terrorismo, ad un suc-cessivo maggiore coinvolgimento, basato però su iniziative, come la Road Map del 2003 o la Con-ferenza di Annapolis del 2007, che hanno rappre-sentato, rispettivamente, una stanca replica della logica di Oslo e un’operazione geopolitica volta soprattutto ad isolare l’Iran più che ad affrontare i nodi irrisolti tra israeliani e palestinesi. La cre-dibilità degli Stati Uniti come honest broker sul problema arabo-israeliano-palestinese è risultata pertanto compromessa dopo l’era di Bush, tanto è vero che la ripresa delle trattative tra Israele e Siria sul Golan, nel maggio del 2008, ha visto la Turchia ricoprire il ruolo di mediatore.

L’amministrazione Obama, invece, fin dai suoi esordi ha posto il superamento del conflitto israelo-palestinese tra i punti cruciali della sua po-litica estera. Ogni Presidente americano, da Tru-man in poi, ha avvertito nel corso del suo man-dato l’obbligo di misurarsi con il più intricato dei conflitti mediorientali. Raramente, però, questa questione, particolarmente complessa e insidio-sa perché le sue molteplici variabili sfuggono da sempre al pieno controllo degli Stati Uniti, ha ac-quisito una così evidente centralità come accadu-to nei primi mesi della nuova Casa Bianca. L’im-mediata nomina come inviato in Medio Oriente di George Mitchell, l’architetto degli Accordi di Belfast tra Londra e l’I.R.A., già protagonista dei negoziati durante gli anni di Clinton, ne ha rap-presentato una chiara conferma.

La scelta del leader democratico di dedicare una spiccata attenzione al problema palestinese è stata senz’altro dettata dagli eventi drammati-ci dell’offensiva israeliana su Gaza del dicembre

2008; ma essa appare motivata soprattutto da ben precise ragioni politiche e strategiche, che i primi passi di Obama nel teatro mediorientale consentono di intravedere.

In primo luogo, nelle valutazioni della nuova amministrazione democratica traspare la convin-zione che l’auspicata ricostruzione della credibili-tà internazionale degli Stati Uniti, compromessa dall’unilateralismo dell’epoca Bush, non possa non passare anche attraverso un convinto e deci-so impegno di mediazione per rimarginare la feri-ta palestinese. Inoltre, la risoluzione del conflitto israelo-palestinese appare l’elemento essenziale e determinante in quello sforzo di ricucitura dei rap-porti tra l’America e il mondo arabo-musulmano che Obama ha posto al centro della sua azione diplomatica. Il problema palestinese rappresenta il “peccato originale”, il “conflitto che genera tutti gli altri conflitti”. Per questo motivo, il suo supe-ramento costituisce, come ha ricordato lo stesso Presidente americano nel suo storico discorso all’Università del Cairo del 4 giugno, il pilastro fondamentale su cui erigere “il nuovo inizio tra America e Islam fondato su rispetto e interesse re-ciproco”. Infine, nella visione di Obama e del suo staff, la questione palestinese viene considerata come strettamente integrata con tutti gli altri pro-blemi aperti sulla scena mediorientale. Bush aveva considerato la Palestina slegata dagli equilibri del Golfo, e per tali motivi, la guerra in Iraq e le stra-tegie volte ad isolare l’Iran si accompagnavano ad un processo di pace lasciato sostanzialmente a se stesso. Per Obama, invece, il conflitto che oppone Israeliani e Palestinesi è parte di un problema più vasto che comincia in Egitto e finisce in Pakistan, e la cui soluzione costituisce la chiave per scardi-nare gli altri fattori di conflittualità ed instabilità nell’area, a cominciare dall’Iran.

Nel quadro del nuovo approccio dell’am-ministrazione Obama alle questioni del Medio Oriente, caratterizzato, rispetto al progetto ne-oconservatore di “Grande Medio Oriente”, da un’agenda di riequilibrio più che trasformativa, sono emerse in questi mesi con sufficiente evi-denza anche le linee guida della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato sullo specifico proble-ma israelo-palestinese.

In primo luogo, Obama ha chiarito, in varie circostanze, di non volere “un processo di pace,

ma degli accordi di pace”, segnalando pertanto la necessità di uscire dallo schema del percorso a tappe proprio della Road Map, ormai un fanta-sma tenuto in vita solo per mancanza di alterna-tive, e di indicare con nettezza il possibile punto di arrivo del negoziato.

In secondo luogo, il Presidente americano, pur senza criticare direttamente i suoi predeces-sori, ha ribadito con forza la necessità di un ruolo di “equilibrata mediazione” da parte degli Stati Uniti. Come chiarito dallo stesso Obama al Cai-ro, se da un lato esiste il “legame indissolubile” che lega l’America ad Israele, dall’altro esiste il dato incontrovertibile degli “oltre 60 anni di sof-ferenze e privazioni del popolo palestinese”. Se “il diritto all’esistenza di Israele non può essere negato”, altrettanto vale per i diritti dei palesti-nesi e per “le legittime aspirazioni di questo po-polo per la sua dignità e per la creazione di un proprio stato sovrano”. Per tali motivi, gli Stati Uniti “non volteranno la schiena” alle ragioni di nessuna delle due parti in causa.

Infine, la soluzione di “due stati per due po-poli” è divenuto l’orizzonte strategico definitivo dell’America, con una chiarezza spesso mancata alle amministrazioni precedenti. Come ribadito da Obama nel discorso del Cairo, l’unica solu-zione al conflitto, “nell’interesse di israeliani, pa-lestinesi americani e del mondo intero” è quella che prevede che “le aspirazioni legittime di en-trambi i popoli, israeliani e palestinesi siano re-alizzate con la creazione di due stati che vivano in pace e sicurezza”. Uno stato ebraico, ricono-sciuto in quanto tale dal mondo arabo e a livello internazionale, e uno stato palestinese “sosteni-bile”, considerato come punto d’arrivo naturale di una sofferta esperienza storica di emancipazio-ne, avvicinata e comparata da Obama a quella dei neri d’America.

Le coordinate generali dell’amministrazione Obama sulla questione palestinese fin qui emer-se, e cioè il superamento della logica della Road Map, il riposizionamento degli Stati Uniti come “attore terzo” e l’indicazione del traguardo fina-le dei due stati, si sono tradotte in questi primi mesi di attività diplomatica in un’azione svilup-pata su tre piani: il mondo arabo moderato; il campo palestinese, diviso tra Fatah ed Hamas; il nuovo governo israeliano presieduto da Ben-jamin Netanyau.

Al mondo arabo moderato Obama ha chie-sto, nella logica della “Proposta di Pace Saudita” del 2002, che prevedeva la creazione di uno Sta-to palestinese a Gaza e in Cisgiordania in cam-bio del riconoscimento diplomatico di Israele da parte dei paesi arabi, “gesti di apertura ver-so Israele”, quali potrebbero essere ad esempio l’apertura dei loro spazi aerei o la creazione di

Page 32: Numero 4/2009

32 UN MONdO IN MOvIMENTO

uffici commerciali. In questo ambito si colloca-no i ripetuti contatti con l’Egitto, dopo le tensio-ni e le incomprensioni tra il regime di Mubarak e l’amministrazione Bush.

Verso i palestinesi, la Casa Bianca ha mante-nuto Abu Mazen e la dirigenza di Al Fatah come unici interlocutori ufficiali, chiedendo loro impe-gni più precisi e vincolanti sulle questioni della sicurezza. Nei confronti di Hamas, la posizione ufficiale degli Stati Uniti rimane quella delle tre condizioni da soddisfare come prerequisito per la sua ammissione al tavolo delle trattative: rico-noscimento di Israele, rinuncia alla violenza e ac-cettazione di tutti gli accordi conclusi in passato tra l’Autorità Palestinese e il governo israeliano. Non sono tuttavia mancati cauti segnali di aper-tura. Nel discorso del Cairo, infatti, Obama ha riconosciuto – un fatto senza precedenti nella politica statunitense degli ultimi otto anni – che il movimento integralista “gode del sostegno di una parte dei Palestinesi”, e ha sottolineato come questa situazione “implichi delle responsabilità”, evitando inoltre di associare il termine “terrorista” alla denominazione del movimento palestinese. Timidi spiragli da parte americana che la dirigen-za di Hamas non ha tuttavia lasciato cadere. Ne-gli ultimi mesi, infatti, prima con un’intervista al New York Times del suo leader politico in esilio a Damasco, Kaled Meshaal, e poi con interventi di altri suoi esponenti, il movimento che controlla la Striscia di Gaza ha manifestato la sua dispo-nibilità ad abbracciare la logica dei due stati, di-chiarandosi pronto alla costruzione di uno sta-to palestinese nella West Bank e nella Striscia e accettando quindi implicitamente l’esistenza de facto di Israele. Si tratta per ora soltanto di piccoli indizi di “disgelo”, meno significativi dei contat-ti diretti che l’amministrazione Obama è riuscita ad attivare con Siria ed Iran. I tempi di un avvici-namento tra gli Stati Uniti ed Hamas, sulle orme di quello avvenuto tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta con l’OLP, paiono ancora oggettivamente molto lontani.

I rapporti dell’amministrazione Obama con Israele hanno vissuto, in questi mesi, un progres-sivo raffreddamento.

Inizialmente l’argomento di confronto-scontro è stata la questione iraniana. Su questo problema, il premier israeliano Netanyahu ha mantenuto una posizione diametralmente opposta a quel-la di Obama, sostenendo la priorità assoluta del pericolo nucleare iraniano rispetto alla questione palestinese e la totale assenza di collegamento tra i due ambiti. L’esito delle elezioni iraniane, che è andato probabilmente più nel senso degli auspi-ci israeliani che di quelli americani, ha contribu-ito a irrigidire ancora di più l’atteggiamento del governo israeliano e a scavare un solco ancora

maggiore con l’approccio americano. Poi, sono subentrate le reticenze del governo Netanyahu sulla soluzione dei “due popoli, due Stati”. L’of-fensiva su Gaza della fine del 2008, la riduzione del problema palestinese a “questione interna”, lo slogan della “pace economica” con i palesti-nesi, issato dal nuovo governo israeliano all’ini-zio del suo mandato, sembravano tutti segnali di una possibile rimessa in discussione del proces-so di pace degli ultimi quindici anni e del diritto riconosciuto ai palestinesi a costruirsi un proprio stato. Solo dopo il discorso di Obama al Cairo, e probabilmente sotto la spinta delle parole pro-nunciate dal Presidente americano nella capitale egiziana, il premier israeliano ha dovuto rivedere le sue posizioni dichiarandosi disposto ad accet-tare la creazione di un possibile Stato palestinese smilitarizzato e con alcune limitazioni ben precise su confini, Gerusalemme e rifugiati. Nonostante i limiti posti dal governo israeliano, si è trattato di un indubbio passo in avanti, salutato come tale sia da Obama che dalle diplomazie europee.

Infine, nei rapporti tra Israele e l’America di Obama è divenuta centrale la questione degli in-sediamenti. Su questo tema, la pressione di Wa-shington si è fatta sempre più decisa. Come sot-tolineato da Obama con parole di rara chiarezza nel discorso del Cairo, gli “ Stati Uniti non ricono-scono la legittimità degli insediamenti israeliani la cui costruzione viola intese raggiunte in passato e ostacola la pace”. Dopo l’apertura sulla soluzione dei “due stati”, il governo israeliano aveva ipo-tizzato una maggiore flessibilità dell’Amministra-zione americana in tema di insediamenti e aveva avanzato una serie di proposte di compromesso.

Esse prevedevano, tra l’altro, l’impegno israelia-no di rimuovere gli avamposti non autorizzati, di non costruire nuovi insediamenti e di non confi-scare altra terra palestinese in cambio dell’accet-tazione americana al completamento di alcune unità abitative già appaltate e alla cosiddetta cre-scita naturale delle colonie. Ma queste formule sono state di fatto respinte dalla Casa Bianca, le cui richieste sono state dirette e precise: poiché gli insediamenti sono illegittimi e impediscono l’intesa con i palestinesi, è necessario procede-re al congelamento totale delle colonie (inclu-sa la crescita naturale) e allo smantellamento di quelle non autorizzate, tante volte promesso e mai attuato. E questo vale sia per la Cisgiordania che per Gerusalemme Est, nonostante la pretesa israeliana, ribadita anche dal governo di Netan-yahu, di edificare ovunque entro Gerusalemme in quanto “capitale unica e indivisibile di Israele”. Sono richieste che disegnano una vera svolta, più rapida e decisa di quanto ci si potesse attendere, nella posizione americana sul problema degli in-sediamenti israeliani. Da quasi vent’anni, infatti, è emerso con chiarezza come la costruzione di avamposti israeliani nelle terre destinate a diven-tare lo Stato palestinese rappresenti uno dei mag-giori ostacoli alla soluzione della disputa tra i due popoli. Ma, ad eccezione di un tentativo operato da Bush padre nel 1991 di sospendere gli aiuti economici ad Israele se gli insediamenti avessero continuato a proliferare, la diplomazia america-na, sia con Clinton che con Bush jr, non era mai andata al di là di generiche e vaghe esortazioni a sospendere le nuove costruzioni. Per la prima volta dall’inizio del processo di pace, dunque,

Page 33: Numero 4/2009

33UN MONdO IN MOvIMENTO

un’Amministrazione americana individua pub-blicamente nell’espansione delle colonie israe-liane il maggior impedimento alla pace e opera pressioni dirette ed insistenti per sospenderne la costruzione e l’allargamento.

Gli ultimi giorni di agosto hanno fatto registra-re dei timidi ma significativi passi in avanti, apren-do la strada ad una possibile ripresa del dialogo tra le parti dopo un anno di gelo. Il Congresso di Al Fatah ha visto infatti la conferma della leader-ship di Abu Mazen e della linea negoziale da lui incarnata, mentre da parte israeliana sono arriva-te le prime aperture del governo Netanyahu sulla necessità di riprendere “negoziati costruttivi” con i palestinesi. Pur in un quadro ancora difficilmente decifrabile, le mosse di Obama sembrano comin-ciare a produrre i primi esiti parziali.

Quale ruolo per l’Unione Europea?Il forte impulso impresso dall’amministrazio-

ne Obama per rimettere in piedi il processo di pace tra Israeliani e Palestinesi non può non chia-mare in causa anche l’Unione Europea e il ruolo che essa può svolgere per contribuire a risolvere il più lacerante dei conflitti aperti alle sue “por-te di casa” Recentemente, il Consiglio Europeo non ha nascosto la propria soddisfazione per i segnali di novità provenienti da Washington, ed in modo particolare per “l’impegno dell’ammini-strazione statunitense a sostenere vigorosamente la soluzione dei due Stati e una pace globale in Medio Oriente”, confermando “la piena disponi-bilità dell’Unione a lavorare con gli Stati Uniti e con gli altri membri del Quartetto per raggiun-gere questi obiettivi”.

In effetti, le posizioni di Obama, come si sono andate delineando in questi mesi, sembra-no disegnare una decisa convergenza tra gli Stati Uniti e Bruxelles sui principali nodi del conflit-to. La soluzione dei “due stati per due popoli” e il conseguente impegno per la creazione di uno Stato palestinese “indipendente, democra-tico e sostenibile”, sono inseriti nei documenti dell’Unione da almeno un decennio, dal Consi-glio europeo di Berlino del 1999. Uno stato pa-lestinese che, come precisato nella successiva Dichiarazione di Siviglia del giugno 2002, dovrà “avere confini sicuri e riconosciuti, basati sul ritiro dai territori occupati nel 1967, con minime modi-fiche concordate tra le parti”. Anche la questione degli insediamenti israeliani è stata in questi anni costantemente sotto la lente della diplomazia eu-ropea, considerati “illegali dal punto di vista del diritto internazionale” e “principale ostacolo per i negoziati sul final status”. Una posizione che, se appariva distante da quella di Bush e in preceden-za anche di Clinton, si configura oggi in linea con le pressanti richieste della Casa Bianca ad Israele

in materia di colonie. Come riconosciuto dallo stesso Javier Solana, rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune dell’Unione, “sugli insediamenti oggi Stati Uniti ed Unione Europea sono sulla stessa lunghezza d’onda e condivido-no un approccio costruttivo per incoraggiare un processo che porti alla pace”.

Gli anni di Clinton e del processo di Oslo avevano visto una sostanziale marginalizzazione dell’UE nei negoziati di pace in Medio Oriente, confinata al ruolo di “payer, not a player”, cioè di finanziatore degli accordi mediati dagli Stati Uni-ti, soprattutto sul versante palestinese. Il Proces-so di Barcellona, avviato nel 1995 proprio sulla scia degli accordi di Oslo, nasceva anche dalla volontà europea di imporsi come attore mediter-raneo, ma non riuscì però ad aumentare il peso dell’Unione sullo specifico problema israelo-pa-lestinese, se non per gli accordi di cooperazione bilaterale conclusi con le due parti nell’ambito del Partenariato Euro-Mediterraneo.

Il periodo della presidenza Bush sancì da un lato un maggiore coinvolgimento dell’UE sulla questione palestinese, dalla sua inclusione nel Quartetto al lancio della Roadmap for Peace fino

alla Conferenza di Annapolis; ma testimoniò an-che l’approfondirsi del divario di posizioni sui punti critici del conflitto, a cominciare dagli inse-diamenti e dagli “attributi” dello Stato palestine-se. A partire dal 2004, intanto, i rapporti bilate-rali dell’Unione con Israele e Palestina venivano

assorbiti nell’ambito della nuova Politica Europea di Vicinato, diretta a favorire sviluppo e stabilità nelle regioni confinanti con l’Unione allargata a venticinque e poi a ventisette. Gli elementi di sin-tonia emersi finora con l’amministrazione Obama sembrano aprire nuove prospettive per una pre-senza più incisiva dell’UE sul problema israelo-palestinese. Ma questa dipenderà da una serie di condizioni, non tutte dipendenti strettamente da Bruxelles. La prima, e la più scontata, è la crescita della statura politica ed internazionale dell’Unione, che la renda in grado di muoversi con credibilità e di potersi esprimersi con un voce sola sullo scena-rio mediorientale. La seconda, sarà la capacità di Washington di resistere alla tentazione, tante volte prevalsa in passato, “to go alone” e di aprirsi, al di là del Quartetto, ad una concreta collaborazione con i partner europei sulla questione palestine-se. A livello regionale, sarà importante uscire dal “gioco delle coppie” prevalso in questi anni, Stati Uniti-Israele da un lato e Unione Europea-Pale-stinesi dall’altro. Nonostante abbia radici storiche e politiche profonde, questo tipo di contrapposi-zione ha finito soprattutto per danneggiare il ruo-lo dell’UE, spingendo Israele a preferire una sua marginalizzazione dal tavolo dei negoziati. Infine, bisognerà che l’Unione Europea si doti finalmente di strumenti adeguati per imporsi come affidabile giocatore mediterraneo e mediorientale. Il Partena-riato Euro-Mediterraneo, lanciato anche per “gesti-re” quella fase di pace e stabilità mediorientale che si pensava fosse nata ad Oslo, è rimasto coinvolto proprio nel fallimento del dialogo tra Israeliani e Palestinesi. La Politica Europea di Vicinato è un’ini-ziativa “anche” mediterranea, ma non rivolta spe-cificamente alla Sponda Sud, senza quindi quella dimensione regionale che caratterizzava il Proces-so di Barcellona. Le speranze, come è noto, sono ora concentrate sull’ Unione per il Mediterraneo, nata nel luglio del 2008 per dare nuovo impulso alle relazioni euro-mediterranee. Nonostante la sua dimensione prettamente tecnico-progettuale e non politica, l’UpM potrebbe contribuire a creare quelle reti di cooperazione e integrazione nell’area in grado di favorire anche il dialogo politico e di sicurezza. Ad oggi, però, l’Unione per il Mediter-raneo rimane ancora un progetto embrionale, i cui sviluppi sono stati rallentati, tra l’altro, anche dal riaccendersi della violenza in Palestina con l’offensiva israeliana su Gaza della fine del 2008. Ancora un volta, come con Barcellona, le inizia-tive mediterranee dell’Unione Europea sembrano rimanere ostaggio di quella crisi del processo di pace in Medio Oriente su cui l’Unione stessa eser-cita un’influenza molto ridotta.

Dottore di ricerca in Storia delle Relazioni Internazionali Università Roma Tre e Università Orientale di Napoli

La soluzione di “due Stati per due popoli” è divenuto

l’orizzonte strategico definitivo dell’America

con una chiarezza spesso mancata

alle Amministrazioni precedenti

Page 34: Numero 4/2009
Page 35: Numero 4/2009

35UN MONdO IN MOvIMENTO

Il G8 non basta più. Ma il G20 è davvero un’alternativa? Potremmo sintetizzare con que-sta battuta lo stato del dibattito sulla riforma della governance economico-finanziaria globale come è venuto configurandosi tra la fine del 2008 e nel corso del 2009. La convinzione prevalente e ampiamente condivisa è che occorra mettere mano contemporaneamente sia ad una profon-da revisione della governance informale (i vertici, le conferenze dei leaders mondiali), sia ad una rivisitazione più o meno radicale del sistema di Bretton Woods (Fondo Monetario Internaziona-le, Banca Mondiale). Tuttavia, oggi l’attenzione di molti studiosi, analisti e policy makers si fo-calizza soprattutto sul primo tema, vale a dire la riforma della governance economico-finanziaria informale globale. E ciò per diverse ragioni. Anzi-tutto, a motivo della incalzante necessità di dare risposte organiche e strutturali alla crisi economi-co-finanziaria, in un processo che deve necessa-riamente coinvolgere un numero elevato di attori significativi, anche al di là dei «clubs» esistenti. In secondo luogo, perché la governance politica ed economica informale appare in linea di principio meno intrattabile rispetto alla governance politi-ca ed economica formale, offrendo una maggiore flessibilità ed essendo meglio adattabile al mutare dell’ambiente internazionale. Infine, perché l’ac-cesso alla «soglia» della governance economica informale è considerato da alcuni Paesi come una valida alternativa politico-diplomatica alla assai più difficile inclusione in «circoli ristretti» decisionali formali (Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ponderazione dei voti al Fondo Monetario Internazionale), che richiedono una redistribuzione del potere, implicano un ridi-mensionamento di privilegi acquisiti (da altri) e esigono un complesso negoziato internazionale che sfoci nella modifica dei trattati e nella loro successiva ratifica nazionale.

Ciò premesso, sulle ipotesi di riforma della global governance e sulle relative architetture si confrontano, in sostanza, due linee di pensiero.

La prima «scuola» preferisce procedere per approssimazioni successive ad un ampliamento/completamento del G8 piuttosto che ad un suo accantonamento. Da questo punto di vista, ap-pare ormai consolidato il formato G8+O5 (dove

la O sta per outreach), e che coinvolge India, Cina, Sudafrica, Brasile e Messico (il cosiddet-to «processo di Heiligendamm/L’Aquila» – in si-gla, HAP – dalle località ove il formato è stato formalizzato nel corso della presidenza del G8 tedesca ed italiana – rispettivamente, nel 2007 e nel 2009). Questa impostazione punta ad una rivisitazione del G8 per tener conto dei cambia-menti avvenuti nella struttura del potere (specie economico) mondiale.

L’altra «scuola» parte invece da un raggrup-pamento completamente diverso, variamente dimensionato, ma che può essere ricondotto in linea generale al formato G20 nelle sue diverse configurazioni, alcune delle quali puntano a ri-specchiare, in qualche misura, l’universalismo inclusivo delle istituzioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite. Tra le varie ipotesi di riforma della governance informale, vorrei qui prendere in considerazione quelle basate su un concetto semplice ma estremamente funzionale: l’urgenza di trovare un «contenitore» unitario ma non uni-forme. Quale che sia l’orientamento nei confronti delle «dimensioni aritmetiche» della governance informale, è sempre più avvertita l’esigenza, al-meno in via transitoria, di un singolo «involucro» (sia pure a maglie larghissime) dei diversi formati,

che tuttavia non necessariamente comporti l’az-zeramento o la «liquidazione» di alcuni di essi, anche perché la fase attuale, in qualche modo de-finibile come «emergenziale» a motivo della crisi economico-finanziaria globale, richiede la mobi-litazione di tutti i possibili scenari di cooperazio-ne. È pertanto utile considerare con ponderazione e lungimiranza la creazione o definizione di un «contenitore» unitario ma non uniforme per una situazione globale caratterizzata proprio da una crescente complessità ed interconnessione dei di-versi ambiti della governance. All’interno di uno schema coerente, si potrebbero svolgere sessioni di lavoro contestuali, sia pure articolate a progres-sivi «cerchi concentrici», per i vari formati.

L’idea non è interamente nuova. Basti consi-derare che, a cavallo tra dimensione istituzionale formale e governance infomale, si è ad esempio svi-luppato negli anni un dibattito che coinvolge l’ECO-SOC – vale a dire il Comitato Economico e Sociale delle Nazioni Unite –, anche perché la sua natura di istituzione dipendente dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ne fa in teoria un foro adatto a riconciliare le esigenze di rappresentatività con quelle di efficacia (tuttavia siamo oggi assai lontani da questo obiettivo!). Oggi l’ECOSOC è un «second class body» delle Nazioni Unite, privo di poteri de-cisionali e luogo di interminabili dibattiti ideologici. È inoltre al contempo un organismo troppo ampio, essendo composto da 54 membri, per poter con-sentire una trattazione operativa delle principali

Oltre l’aritmetica del potereIl consenso come criterio della nuova governance mondiale

Pasquale Ferrara

Sulle ipotesi di riforma della global governance e sulle relative architetture

si confrontano, in sostanza,

due linee di pensiero

Page 36: Numero 4/2009

36 UN MONdO IN MOvIMENTO

questioni globali e troppo ristretto per pretendere di rappresentare l’intera membership delle Nazioni Unite. In un rapporto della «Commission on Global Governance» del 1995 si prospettava di trasforma-re l’organismo in un «Global Council». Idee analo-ghe sono state avanzate negli anni seguenti, sotto le denominazioni più fantasiose: «World Economic Council», «Council for Sustainable Development», «Global Governance Group», «Economic Security Council», «Economic and Social Security Council», e così via. Lo scopo di tali proposte è da una par-te quello di dar vita ad un organismo decisionale che sia più autorevole e più rilevante in termini di competenze rispetto all’ECOSOC attuale; dall’altro, che sia più rappresentativo ed aperto del Consiglio di Sicurezza e del G8.

In sintesi, tre possibili configurazioni si con-frontano in merito alla creazione di un Consiglio Economico e Sociale o Consiglio Globale:

consolidamento del G20 (o Leaders 20+) • al di fuori delle Nazioni Unite; istituzione, • all’interno del sistema ONU, di un Consiglio di Sicurezza Economico (proposte francesi e tedesche), dotato di poteri decisio-nali e con pari dignità rispetto al Consiglio di Sicurezza; a seconda delle «versioni», il nuovo Consiglio dovrebbe sostituire total-mente l’ECOSOC o assumere alcune delle sue attuali funzioni; upgrading• dell’ECOSOC: soluzione assai più razionale delle precedenti, che potrebbe an-che prescindere da emendamenti formali alla Carta delle Nazioni Unite, ma che tuttavia ri-chiederebbe una forte e ampiamente condi-visa volontà politica della membership – che finora non è alle viste – per assegnare all’or-ganismo funzioni di orientamento e coordi-namento della politica economica globale. Una variante «incrementale» di tale ultima proposta prevede, più modestamente, il mi-glioramento qualitativo dell’ECOSOC nella direzione di un «International Development Council» (senza pretendere di ledere le com-petenze delle Istituzioni Finanziarie Interna-zionali) con ampie attribuzioni in materia di sviluppo, che si riunirebbe una volta l’anno a livello ministeriale e che diverrebbe, ogni due anni, un Forum ad alto livello per la co-operazione allo sviluppo, al fine di analizza-re le tendenze delle politiche internazionali in questo cruciale ambito di intervento e di incoraggiare una maggiore coerenza tra po-litiche di sostegno allo sviluppo e politiche attuate in altri settori economico-finanziari. In questo stesso «filone» si può inserire an-

che la proposta di Stuart Holland di creazione di una Organizzazione Mondiale per lo Svilup-po Economico («World Development Organiza-

tion – WDO»). Secondo Holland, si tratterebbe di dare vita ad un’organizzazione agile, avente soprattutto il compito di coordinare l’azione delle già esistenti istituzioni finanziarie e dei più im-portanti fori competenti in materia di sviluppo economico, quali Banca Mondiale, OCSE, FMI, OIL e UNCTAD. La WDO affiancherebbe dun-que la World Trade Organization nella leadership mondiale in materia di cooperazione finanziaria e sviluppo economico.

Il «nocciolo duro» della WDO dovrebbe es-sere costituito dal G20, che svolgerebbe le fun-zioni di governing body dell’Organizzazione. Il processo decisionale sarebbe comunque basato sul consenso – in un quadro dunque più intergo-vernativo che sovranazionale – anche se potreb-bero essere decise a maggioranza delle «azioni comuni», sul modello delle «cooperazioni raffor-zate» in ambito UE. La WDO dovrebbe avere in particolare le seguenti finalità: attuare iniziative (di breve termine) e politiche (di lungo termine) per assicurare la stabilità finanziaria ed econo-mica globali; rilanciare la crescita del commer-cio globale; favorire il dialogo fra G7 (i Paesi svi-luppati ad economia di mercato senza la Russia) e G77 (gruppo dei 77 Paesi in via di sviluppo,

creato nel 1964, ed ora costituito da oltre 130 Paesi) sui temi dello sviluppo economico; ridurre le asimmetrie presenti nel commercio mondiale e negli Investimenti Diretti Esteri; accrescere la coerenza delle politiche condotte dalle banche centrali e dalle altre istituzioni finanziarie nazio-nali; individuare meccanismi per una maggiore accountability delle grandi istituzioni finanziarie private. Se dovessimo sintetizzare, nell’ottica dei

«formati», le conclusioni alle quali conducono le varie ipotesi di rivisitazione della governan-ce, dovremmo assumere che non è tanto una questione di numeri, quanto di rappresentatività (reale e percepita) e di efficacia (non si possono assumere posizioni credibili senza coinvolgere i principali protagonisti della scena mondiale). È perciò giunto il momento di riconsiderare la stessa formulazione concettuale del gruppo, che potrebbe essere ricondotta a quella di un Glo-bal Consensus Group (GCG), un gruppo per il consenso globale. Il GCG, come possibile evol-uzione non solo semantica ma anche operativa del G8+O5, potrebbe essere esplicitato come un modo di articolare in maniera creativa il rapporto tra strutture, funzioni e obiettivi. Sono anzitutto gli obiettivi di policy che suggeriscono i formati (le strutture), partendo in ogni caso da un grup-po fondativo (che comprenda il G8 e l’O5 come raggruppamenti esistenti, senza necessariamente inventarne di altri), che agirebbe come convening group, un gruppo convocatore o organizzatore, almeno per l’avvio del GCG. Va sottolineato che la condizionale variabilità del GCG non sarebbe legata a funzioni emergenziali e a erratiche esi-genze di inclusione, ma sarebbe connessa alle global issues affrontate. I formati ampliati non dovrebbero essere svincolati dalle funzioni che sarebbero chiamati a svolgere: sarebbero le mis-

In sintesi, tre possibili configurazioni

si confrontano in merito alla creazione

di un Consiglio Economico e Sociale o Consiglio Globale

Page 37: Numero 4/2009

37UN MONdO IN MOvIMENTO

sioni a definire i formati. In qualche misura, si tratterebbe della versione «civile» della celebre «massima» di Donald Rumsfeld, nel suo ruolo di Segretario alla Difesa nel corso del primo manda-to del Presidente George W. Bush: «The mission needs to define the coalition, and we ought not to think that a coalition should define the mission». Ma non si tratterebbe di una variabilità assoluta ed incondizionata. Non si dovrebbe infatti mai mettere in discussione il ruolo al contempo pro-pulsivo e stabilizzatore che il gruppo fondativo potrebbe e dovrebbe continuare a svolgere. In questo senso, il GCG sarebbe assai diverso da un generico GX. La denominazione e la struttura del GCG consentirebbe, più in generale, di uscire dal-la logica dell’appartenenza ad un gruppo elitario, che inevitabilmente ingenera una spirale di aspet-tative di status e richieste di «posti al tavolo». La ownership dell’esercizio dovrebbe essere consi-derata collettiva, e la partecipazione dovrebbe rispondere anzitutto al principio di responsabilità. Non a caso, nella versione tedesca della presen-te proposta il GCG è stato definito «Global Re-sponsibility Group», un gruppo di Paesi pronti ad assumersi responsabilità globali (Cf. Frank-Walter Steinmeier, «Dal G8 a un Global Responsibility Group», in Pino Buongiorno – a cura di, Il mon-do che verrà. Idee e proposte per il dopo G8, Ed. Università Bocconi, Milano 2009)

Non sarebbe appropriato, in quest’ottica, presentare la funzione di un GCG nei termini di una sorta di «governo mondiale», nemmeno nella formula più blanda (e alla moda) di gover-nance without government. Occorrerebbe invece valorizzarne la funzione di sostegno alla gover-nance mondiale attuata, sia in senso economico che politico, nelle sedi istituzionali (FMI, Banca mondiale, WTO, Nazioni Unite). In sostanza, si tratterebbe di fori pre-negoziali (pre-negotiating bodies) costituiti all’interno di un framework uni-tario con caratteri di stabilità, al fine di far avan-zare l’esame di dossier di rilevanza globale.

Se l’idea è quella di favorire un «multilate-ralismo efficace», la fase prenegoziale nel GCG consentirebbe di risolvere alcune questioni preli-minari, definendo, ad esempio, una realistica cor-nice negoziale all’interno della quale discutere i termini di una issue, oppure identificando i pun-ti nodali sui quali concentrare il dibattito nei fori internazionali istituzionali. In altri termini, il GCG rappresenterebbe un luogo di esercizio informa-le della democrazia deliberativa a livello globale, consentendo cioè il confronto di opinioni, l’esa-me delle proposte, la discussione sulle priorità dell’agenda mondiale, in vista del loro formale

esame e della loro eventuale adozione nei fori isti-tuzionali multilaterali o regionali. Recentemente è stata avanzata una proposta di riordino della gover-nance che in parte assume la prospettiva del GCG, ma che per gli aspetti strutturali e di composizione del gruppo utilizza criteri profondamente diversi (Cf. Timothy Adams e Arrigo Sadun, Global Econo-mic council should oversee all, «Financial Times», 17.8.2009). Si tratta dell’idea di trasformare il «grup-

po dei 20» (G20) ed il «gruppo degli 8» (G8) in un «Consiglio Economico Globale» («Global Economic Council – Gleco»). La proposta in questione parte dalla constatazione che due sono gli elementi cen-trali della nuova governance economico-finanzia-ria: da una parte, l’adeguato sostegno politico alle decisioni prese ai fini della loro applicazione nelle istituzioni formali; dall’altro, il coordinamento delle politiche nei diversi fori. Il Gleco consentirebbe in ipotesi l’espletamento di entrambi i compiti menzio-nati e rimpiazzerebbe le esistenti istanze di coordi-namento economico-finanziario informali. Questa nuova «cornice», tuttavia, a differenza del G20 e del G8, dovrebbe prevedere una rappresentanza uni-versale, come accade per il Fondo Monetario Inter-nazionale e per la Banca Mondiale. Il Gleco si col-locherebbe in una posizione di sovra-ordinazione rispetto alle istituzioni economico-finanziarie forma-li, che potrebbero pertanto continuare a funzionare secondo le regole decisionali e la conformazione strutturale attuali. In pratica, il Gleco assolverebbe alla funzione di guida strategica e di impulso poli-tico rispetto alle istituzioni economico-finanziarie formali. La membership del Gleco dovrebbe collo-carsi al più alto livello politico possibile, preveden-do cioè la partecipazione diretta dei leaders, che si incontrerebbero una volta l’anno, mentre i ministri finanziari si ritroverebbero due o tre volte l’anno. In prospettiva, questa nuova istanza dovrebbe an-che affrontare il tema di una riforma complessiva ed organica del sistema di Bretton Woods, consi-derando l’insieme delle istituzioni ed adottando un approccio «olistico» al tema della governance. A questo fine, il Gleco potrebbe convocare una con-ferenza internazionale di revisione e ristrutturazio-ne del sistema di Bretton Woods, contribuendo in tal modo al superamento delle misure «ad hoc», slegate da una rivisitazione complessiva delle strut-ture e delle politiche. Diversi gli inconvenienti che risulterebbero da tale soluzione. In primo luogo, l’inevitabile rischio che il Gleco si proponga come una sorta di «duplicato informale» della governan-ce formale, complicando anziché semplificare un quadro istituzionale e organizzativo già fin troppo complesso. In secondo luogo, è più che probabile che la membership universale finirebbe per ripro-durre nel Gleco procedure pletoriche, aggiungendo un ulteriore passaggio nei processi decisionali, per quanto informale e senza l’aggravio della struttura del voto e del suo esercizio. Si tratta tuttavia di una prospettiva interessante, che conferma la necessi-tà di strutture di raccordo tra l’ambito informale e quello formale della governance.

Capo Unità di Analisi e Programmazione Ministero Affari Esteri.Le opinioni esposte nell’articolo sono espresse a titolo personale e non riflettono necessariamente quelle uf-ficiali del Ministero degli Esteri.

Governance, dovremmo assumere

che non è tanto una questione di numeri, quanto di rappresentatività

e di efficacia

Page 38: Numero 4/2009
Page 39: Numero 4/2009

39UN MONdO IN MOvIMENTO

Tenere insieme il tema del Mediterraneo e quello dell’Iran non comporta uno sforzo par-ticolare, perché l’area mediterranea e quella iraniana – persiana sono sempre state stretta-mente collegate, sia nella storia che nell’attua-lità. Rappresentano entrambe aree di principa-le responsabilità per noi italiani ed europei, che paradossalmente siamo toccati dagli eventi, ma abbiamo una funzione e una possibilità di inter-vento nettamente minore rispetto a quella degli USA e delle potenze regionali. Ci troviamo per-tanto più nella situazione di dovere subire, e poi eventualmente controllare gli eventi, che non di determinarli.

La mia prima osservazione riguarda proprio questo deficit di interesse e di influenza, a mio avviso abbastanza paradossale, del nostro pae-se, verso questa vasta area euro – mediterranea, che definirei “grande medioriente”, che è fonda-mentale per noi, ma nella quale contiamo molto poco. È fondamentale perché in quest’area c’è un potenziale economico straordinario e unico al mondo. Si produce in termine di PIL all’incirca 7 volte quello che viene prodotto in Cina. Noi sia-mo al centro di questo scenario, ma se guardia-mo, ad esempio, ai flussi turistici e a quelli finan-ziari, appariamo molto poco collegati alla sponda sud e all’area mediorientale in generale. Oltre il 90% del nostro commercio è rivolta all’Europa e agli altri continenti, mentre solo una quota fra-zionale è rivolta verso quest’area. È paradossale se si pensa che al 2010 era stata fissata la nasci-ta dell’Area di libero scambio euro mediterranea. Sapevamo sin dall’inizio delle scarse probabilità di riuscita del progetto, ma abbiamo voluto rac-contarci una favola, e ancora ce la raccontiamo. Ma il fatto che si continui a ragionare in termini retorici su questioni che invece sono così fon-damentali sotto il profilo economico, culturale, religioso e soprattutto della sicurezza, dovrebbe costituire un campanello d’allarme, soprattutto se il punto di osservazione è Napoli.

La seconda considerazione è che in quest’area negli ultimi anni si sta verificando un fenomeno di notevole crescita economica, finanziaria ed in termini di influenza da parte dei paesi della co-sta africana, che si stanno attrezzando brillante-mente per intercettare importanti flussi di merci provenienti dall’Estremo Oriente, e in particolare

dalla Cina, e che hanno nei porti del Mediterra-neo il loro sbocco naturale, benché venga spesso circumnavigato a favore del cosiddetto Northern Range, che comporta circa tre giorni in più di na-vigazione, ma che viene preferito perché i porti del Nord Europa sono infrastrutturalmente più collegati ai mercati di consumo di quanto non lo siano quelli del sud del Mediterraneo. Questo do-vrebbe costituire per noi una sfida e uno stimolo

ad attrezzarci ed intercettare questa grande onda-ta che crescerà ulteriormente una volta superata la crisi economica, in virtù dei fattori strutturali che sono all’opera, primo fra tutti lo sviluppo in-dustriale che da un ventennio circa sta interes-sando l’area asiatica dell’estremo oriente.

La mia terza osservazione riguarda la cre-scente instabilità ed insicurezza nella costa sud del Mediterraneo e nel Medio Oriente pro-priamente detto. E qui veniamo alla questione dell’Iran. Tutti sanno che se nei prossimi mesi non verrà avviato un serio negoziato con il re-gime iraniano, soprattutto da parte degli USA, il rischio di una guerra è abbastanza concreto, e questo per una ragione molto semplice: in que-sta parte del mondo esiste una sola potenza nu-cleare, e cioè Israele, anche se per motivazioni comprensibili preferisce non dichiararsi tale. E Israele, per motivi di sicurezza, non può in al-cun modo tollerare che questo primato le venga sottratto. È infatti evidente che se l’Iran si dotasse di un arsenale nucleare e di missili capaci di ren-derlo minaccioso ed eventualmente utilizzabile, a quel punto avremmo inevitabilmente una cor-sa all’armamento nucleare da parte tutti i paesi dell’area che sono in condizioni di poterlo fare (Turchia, Arabia Saudita, Egitto …), e che sanno di non poter reggere un confronto con un Iran dotato di armi atomiche.

La quarta osservazione riguarda Obama. Il volume appena uscito e allegato al numero della rivista Limes, si intitola “La rivolta dell’Iran nella sfida Obama – Israele”. Il presidente USA si trova in uno stato di necessità. Ha ereditato da Bush una bancarotta economica e finanziaria, un disastro dei conti pubblici che viene per ora più o meno coperto dal dollaro in quanto valuta di riferimento, cosa che aiuta particolarmente gli USA, almeno in questa fase. Ma soprattutto ha ereditato due guerre che gli USA non possono vincere, ma non possono neanche permettersi di perdere: quella in Afghanistan e quella in Iraq. In entrambi gli scenari l’Iran ha un ruolo fondamentale, avendo la possibilità decisiva di destabilizzarli entrambi. Nel caso dell’Iraq, non c’è interesse a destabiliz-zare, poiché il paese è in larga parte controllato dagli sciiti e pertanto gravita in orbita iraniana, sebbene coi dovuti distinguo che quella peculiare situazione presenta. In Afghanistan poi l’influen-za iraniana ci interessa particolarmente, perché è l’Iran a garantire la sicurezza dei nostri soldati nella regione di Herat. Nel momento in cui l’Iran decidesse che non ha più interesse a garantire la sicurezza in quella zona i nostri soldati sarebbe-ro i primi bersagli di eventuali attentati e azioni belliche, anche in quanto anello meno forte della catena, sotto il profilo militare. Obama, ereditan-do questa situazione impossibile, e trovandosi in

Siamo poco collegati alla sponda sud del Mediterraneo

e all’area mediorientale

Noi il Mediterraneo e l’IranAl centro di uno scenario ma contiamo molto poco

Lucio Caracciolo

Page 40: Numero 4/2009

40 UN MONdO IN MOvIMENTO

uno stato di necessità, ha deciso ciò che non po-teva non decidere, e cioè di cercare un negoziato con l’Iran. Ha fatto le aperture che sappiamo, an-che un po’ retoriche; si è tenuto abbastanza de-filato durante la rivolta iraniana, e questo perché evidentemente cerca la sponda per un accordo ed evitare una guerra con l’Iran, e quindi tenere a freno Israele, che non è molto convinto di que-sto approccio, e per salvare i suoi soldati, che sono per i 4/5 della forza combattente america-na schierati tra Iraq e Afghanistan. Il problema è che nel momento in cui ha “aperto” al regime di Teheran, questo è andato in crisi, per cui oggi ci troviamo di fronte ad un Iran con una leadership in conflitto straordinariamente intenso, mai vissu-

to prima nella storia trentennale della Repubblica Islamica, tra i vari potentati, le varie corporazioni, le varie personalità militari, clericali o quant’altro, che si contendono e spartiscono le quote di pote-re politico, economico e finanziario in Iran, con-flitto che ha visto come protagonisti da una parte la guida suprema, Khāmeneī, e il suo protetto, il presidente rieletto con i brogli, Ahmadinejad; e dall’altra l’ex presidente Rafsanjāni, attore ancora molto potente sul palcoscenico politico, ma so-prattutto economico iraniano, e Moussavi, che probabilmente con sua stessa sorpresa si è visto proiettato sulla scena come “faro” della rivolta e della ribellione al broglio elettorale. Il risultato è che se anche Obama volesse trattare con Ahma-dinejad e con Khāmeneī, si troverebbe di fronte ad un regime che vive una fase di instabilità, e pertanto si troverebbe in difficoltà rispetto alla tec-nica di base di qualsiasi negoziato, che consiste nel promettere e nel farsi promettere, nel poter dare e nel poter prendere. Obama insiste perché non ha alternative, ma ha anche posto una dead line per cui se non si arriva a qualcosa di concreto entro la fine dell’autunno è probabile che si arrivi alle sanzioni, con possibili rappresaglie iraniane,

o addirittura un attacco israeliano con o senza la benedizione degli USA.

L’ultima osservazione riguarda i possibili sce-nari di crisi o di guerra, e le conseguenze per noi. L’Iran avrebbe delle possibilità di rappresaglia in aree per noi particolarmente sensibili: Libano, Af-ghanistan, Iraq. Insomma tutta l’area di schiera-mento delle forze occidentali internazionali, dal vicino oriente all’Asia centrale, potrebbe essere, dal territorio iraniano, oggetto di rappresaglia o provocazioni in senso ampio, oltre al rischio del blocco dello stretto di Ormuz, attraverso il quale fluiscono la gran parte dei rifornimenti di idrocar-buri prodotti nella regione mediorientale, verso i mercati asiatici ed occidentali, con conseguenze

di tipo economico facilmente immaginabili. Non credo che ci siano alternative ad un tentativo se-rio di negoziato con l’Iran, e credo anche che per quanto dimezzata ed occupata in questo momen-to in altre faccende, la leadership iraniana abbia comunque un interesse ad un negoziato. Sarebbe forse il caso che paesi così direttamente interes-sati, come l’Italia e gli altri paesi europei, pren-dessero una posizione più attiva, e soprattutto più concorde, rispetto a questi scenari. Non mi pare, purtroppo, che questo avvenga. Mi pare al con-trario che ci sia una posizione francese molto più critica e accentuata nei confronti dell’Iran, rispetto a posizioni più morbide da parte di altri paesi. Ma soprattutto mi pare che tutti aspettino Obama, il che va benissimo, ma non possiamo rimettere tut-to nelle sue mani, soprattutto in un momento in cui egli ha una quantità di emergenze da affron-tare e quindi andrebbe aiutato da chi ha così tanti interessi da difendere in quella regione.

Appunti dall’intervento di presentazione del volume La rivolta dell’Iran nella sfida Obama – Israele allegato al numero 4 della rivista Limes, nell’incontro promosso a Napoli da Mezzogiorno Europa e Italiani Europei.

Crescente instabilità e insicurezza nella costa

sud del Mediterraneo e nel Medio Oriente

Tutti aspettiamo Obamama non possiamo

rimettere tutto nelle sue mani

Page 41: Numero 4/2009
Page 42: Numero 4/2009
Page 43: Numero 4/2009

43UN MONdO IN MOvIMENTO

Il 7 maggio 1887 l’ennesimo agguato in un rissoso e inquinato Consiglio comunale di Na-poli costringeva alle dimissioni la Giunta gui-data da Nicola Amore, il “Sindaco della traspa-renza”, che aveva imposto per la prima Legge nazionale sul risanamento della città un quadro di riferimento organico e una strategia unitaria. A sostituirlo è chiamato il Principe di Ruffano, che rovescia la scelta precedente spezzettando il progetto di ricostruzione della città in tanti lotti quanti erano i gruppi che concorrevano agli ap-palti. È un passaggio decisivo, poco richiamato dalla fin troppo generosa cerimonialistica degli anniversari, che dovrebbe essere studiato e “ru-minato” dai gruppi dirigenti napoletani. Forse, è proprio in quel giorno che si perde il filo di una strategia di sistema che non si ritroverà più a pa-lazzo S Giacomo. Nemmeno nei momenti più entusiasmanti e gloriosi, come furono le giunte Valenzi. Lo dico per proporre subito, forse in ma-niera troppo brusca e sgradevole, il tema che mi preme segnalare ad uno dei pochi consessi che da qualche tempo sta mostrando di voler ritro-vare quel filo: non si esce dalla crisi della città e, sopratutto non ne esce il fronte riformatore,

se non si riprende un percorso, duro e faticoso, che ci costringa a misurarci con il tema della qualità dello sviluppo plausibile per Napoli. Una qualità, e questo è il secondo corno del mio ra-gionamento, che non può prescindere dal ruolo della metropoli campana nel centro del mediter-raneo. Fino ad ora, lo dico ancora con un tono fastidiosamente apodittico ma mi serve per farmi intendere con poche parole, quando si è parlato di sviluppo non si è parlato di Mediterraneo e quando si è discusso di Mediterraneo non ci si è riferiti alla materialità della politica cittadina. Maurizio Valenzi può essere uno straordinario te-stimonial di questa opportunità. Nel suo ricordo, in occasione del prossimo centenario dalla sua nascita, si potrebbe proporre un’occasione per recuperare questo ritardo, offrendo una sede per una riflessione, rigorosa, sul-lo scenario in-ternazionale in cui collocare il futuro di Napo-li, una città che non può più pensarsi come capitale di un problema na-zionale, qua-le la questio-ne meridiona-le, ma piutto-sto come sno-do di una rete transnazionale.

Si tratta di dare spessore a forza al partito di Nicola Amo-re, il partito del progetto e del-la federazio-ne delle com-petenze, con-tro un rigon-fiatissimo par-tito del Princi-

pe di Ruffano, che in questo ultimo ventennio ha trovato adepti numerosi a tutte le latitudini politiche. Discriminante fra questi due ipotetici schieramenti è l’indisponibilità ad una nuova Legge Speciale nazionale. Ogni legge speciale a Napoli è diventata occasione di una sparti-zione al ribasso fra le peggiori consorterie. Ma è oggi l’idea stessa di demandare ad altri il pro-prio autogoverno che non funziona più. Sareb-be davvero di buon auspicio se i nuovi gruppi dirigenti che si candidano al governo del terri-torio si impegnassero a fare intanto quello che possono, e che devono, senza tutori. E sarebbe davvero bene che qualcuno gli chiedesse for-malmente di prendere quest’impegno.

Quello a cui penso è qualcosa di più di un estetismo retorico, un richiamarsi all’organicità di un ragionamento che vuole sempre collocare in ampi contesti i problemi locali. Non sto qui sollecitando la fin troppo abusata suggestione del glocalismo. Vedo invece all’orizzonte il pe-ricolo di far svanire anche l’ultima grande op-portunità che la storia propone. Un’opportuni-tà già insidiata e contestata da altre realtà che, nonostante non versino in condizioni critiche, capiscono che troppo ghiotta è la prospettiva di diventare terminale di una strategia di svilup-po più che promettente. Mi riferisco a quanto è

accaduto a Mi-lano a metà dello scorso luglio. Il 20 e 21 si è tenuto nel capoluo-go lombardo il Forum del Mediterraneo. Un incontro ad alt issimo livello – fra gli altri oltre al Presiden-te del Consi-glio italiano, il Presidente dell’Egitto Mu-barack, ban-chieri, indu-striali e ammi-nistratori lo-cali di oltre 20 paesi del bacino – che ha sancito la candidatura di Milano come interfaccia eu-ropea dei pae-

Il Mediterraneocome programma minimo.Elementi per un progetto metropolitano

Michele Mezza

Napoli non può più pensarsi

come capitale di un problema nazionale

quale la questione meridionale ma come

snodo di una rete transnazionale

Page 44: Numero 4/2009

44 UN MONdO IN MOvIMENTO

si mediterranei. Una risposta alla mossa di Sar-kozy di rilanciare l’idea di una zona di libero scambio nel bacino, e soprattutto di dare cor-po ad un nuovo soggetto di cerniera della faglia geopolitica mediterranea. L’iniziativa di Milano è stata lungamente preparata e seminata da un gruppo di forze economiche e industriali gui-date dalla Promos, la società di promozione internazionale della Camera di Commercio di Milano, guidata da Bruno Ermolli, il grande car-dinale degli interessi lombardi. Da vari anni la Promos sta lavorando nei paesi rivieraschi per creare interfaccia fra le nuove economie nord africane e degli emirati e l’insieme del sistema

lombardo. In particolare si cerca di promuove-re il mosaico dei saperi e delle competenze del territorio ambrosiano: l’idea è quella di creare una piattaforma virtuale per supportare il decol-lo mediterraneo con le capabilities del tessuto economico milanese. Dalle competenze inge-gneristiche – Politecnico – alle consulenze giu-ridico-finanziarie – Bocconi – fino all’insieme delle creatività e del gusto – Triennale e moda. Il disegno è di grande suggestione e soprattutto di grande organicità. Il guanto di sfida è volato: Barcellona, Marsiglia, Dublino, Malta, Istanbul, Salonicco, sono avvertite. E Napoli?

È davvero singolare che quando si voleva, superficialmente per altro, rimanere attaccati alle Alpi, Napoli lamentava il gap geografico che la sacrificava rispetto alle città pedemontane, men-tre ora che ci si immerge nel mare nostrum i par-tenopei siano superati in curva da Milano.

Hic Rudus, Hic salta. La partita si gioca qui. Anzi la partita da tempo si sta giocando su que-sto snodo strategico. Anche se non ve ne è trac-cia nel dibattito politico-culturale della città. Mi

rendo conto che lo scenario amministrativo non aiuta: sono ben più crudi e locali i temi che atti-rano l’attenzione, dai rifiuti ai parcheggi. E non a caso, il Principe di Ruffano, accingendosi al primo grande sacco edilizio della città, rimpro-verava a Nicola Amore una politica visionaria, non attenta ai problemi immediati: bisognava dare lavoro subito, e dunque via con i cantieri anche senza un piano. Questa musica l’abbiamo sentita in questi decenni varie volte: dal terremo-to, a quello scandalo permanente rappresenta-to dall’inerzia, dalla fine degli anni ’80 ad oggi, a Bagnoli e nella zona est. Se c’è un elemento distintivo, comunemente condiviso da tutti gli esperti, nel passaggio dal fordismo alla nuova economia della conoscenza è proprio l’indi-spensabilità, per qualsiasi azione, anche la più emergenziale, di un progetto, di una vision che guidi il decisore. Soprattutto perché, ed è questa la novità che meriterebbe un approfondimen-to di riflessione e di analisi, nel nuovo contesto politico-culturale, sono aumentate le possibilità di interferenza con i grandi processi economici da parte di tutti i soggetti, dallo Stato al singolo individuo, passando, prioritariamente, per gli amministratori dei territori. Oggi, grazie ad uno straordinario decentramento delle opportunità operative, tipico della nuova economia digitale, aumentano le possibilità di orientare e organiz-zare le nuove risorse immateriali. Aumentano le modalità relazionali, che rendono ogni territo-rio contiguo di fatto ad ogni altro, aumentano le potenze di organizzazione di servizi e i modi di fruizione, si riducono le rendite geografiche e gli ostacoli infrastrutturali. Soprattutto, e qui mi accorgo che entro in un terreno fin troppo arato dalla retorica ma poco frequentato dai decisori, si estende il circuito virtuoso creato dall’attra-zione del territorio e dal suo tasso di interna-zionalizzazione e creatività. Insomma cadono gli alibi, e si dispiega una gamma di soluzioni plausibili che attengono alla capacità della poli-tica di rappresentare e intercettare interes-si reali. E contraria-mente ai luoghi co-muni, oggi la politi-ca vive una stagione di grande protago-nismo: il fenomeno Obama lo dimostra. Proprio l’elezione del Presidente ame-ricano parla alla po-litica meridionale del nostro paese. E non certo per sollecitare ammucchiate locali-

stiche. Il presidente “abbronzato”, come è stato sorprendentemente definito dal nostro premier, ha costruito la sua, incredibile all’inizio, impresa politica, proprio scommettendo sulla centralità della politica nella modernità digitale. Del re-sto tutta la storia della rete è densa di decisioni politiche, parafrasando Lenin, potremmo dire che oggi il capitalismo post fordista è network di più strategie politiche.

La nuova geometria del welfare, la struttura sociale delle comunità, il protagonismo demo-cratico delle popolazioni, è affidato a decisioni e ad intrecci fra abilità tecnologiche e abilitazioni politiche. Il Mediterraneo è un tipico esempio di questa nuova tendenza. La culla della cultu-ra, e dei suoi linguaggi oggi si trova al centro di un processo di crescita senza voce. Infatti pro-prio le sponde su cui hanno rimbalzato i gran-di pensieri della civiltà occidentale, si trovano oggi senza un sistema moderno di comunica-zione. Questo è il buco nero dove intervenire. I paesi rivieraschi (Marocco, Tunisia, Algeria, Libia, Egitto,Turchia) si stanno incamminando verso prime forme di sviluppo economico dove ambiente, energia, e vivibilità sono i requisiti di base della nuova economia. In questi paesi, fra i più giovani dello scacchiere, sta aumentando a dismisura la fame di comunicazione. Sia nel-la forma di un tradizionale consumo (Tv e cine-ma) sia in quella di una moderna partecipazio-ne alla produzione (internet e social network). Questo è il mercato al quale agganciare il va-lore aggiunto di Napoli. Due sono le filiere che si stanno allungando dal centro Europa, e che stanno attraversando persino le nostre contrade, lasciandoci passivi testimoni: un nuovo compar-to audiovisivo,un sistema industriale ed espres-sivo che si collochi sul grande mercato interna-zionale delle produzioni elettroniche; secondo una piattaforma di connessione e di commuta-zione che porti banda larga e saperi digitali ad un fronte di circa 150 milioni di teen agers. Sono

Nel passaggio dal fordismo

alla nuova economiadella conoscenza

è indispensabile una visionche guidi il decisore

Page 45: Numero 4/2009

45UN MONdO IN MOvIMENTO

due miniere d’oro. Lo hanno già capito gli ame-ricani, che sono protesi a sfruttare la domanda che sale dal Mediterraneo, costruendo centri di produzione e di distribuzione in quelle aree. E usando il nostro paese come backstage.

Si tratta di lavorare su gli scenari futuri. Di mettere all’opera i centri di competenza (dalle università ai sistemi d’impresa, dai centri di ri-cerca ai gruppi professionali) per capire quale potrà essere la traiettoria dello sviluppo di questi paesi e dove collocare l’innesto con Napoli. La filiera audiovisiva oggi si trova ancora allo stato nascente. La costa sud del Mediterraneo si pro-pone come un semplice grande set. Gli america-ni ripropongono il modello applicato negli anni ’50 a Cinecittà: ospitalità a basso costo, un po’ di folklore, e tanta egemonia per il cinema di Hollywood. L’Italia, la Campania, Napoli, può offrire di più. Servono professionalità artigianali, per ora, e poi centri di affinamento di talenti e capacità narrative. Potremmo essere il partner di questa via diversa all’autonomia audiovisiva. Abbiamo nella nostre case circa 2 milioni di cittadini di questi paesi. È il primo mercato di riferimento, un gigantesco passaparola per ra-dicare nel nostro territorio un reticolo di scuole e supporti logistici. Straordinaria è l’opportunità offerta dal CIS di Nola: una piattaforma logisti-ca protesa verso il mare, che ospita ogni giorno 54 mila utenti, in buona parte collegati ai pae-si rivieraschi. Perché non pensare ad estende-re quella poderosa vetrina ad altri prodotti del terziario, come appunto mestieri, competenze, saperi, professioni, che oggi sono parte inte-grante del terziario avanzato? Perché non chie-dere, come ha fatto la Promos di Milano, che sia il CIS, insieme alla Camera di Commercio di Napoli, a concepire un progetto di diffusio-ne internazionale delle competenze territoriali? Perché ad esempio non immaginare a Nola, in-tegrandola a Napoli anche tramite i nuovi incu-batori di Città della Scienza e di Pomigliano, un

grande evento, una sorta di borsa delle profes-sioni e dei nuovi mestieri comunicativi, diretta proprio al bacino? Non potrebbe essere questo il filo conduttore del prossimo Festival delle cul-ture che si terrà a Napoli nel 2013? Una grande kermesse finalizzata a forme di cooperazione e di integrazione per uno sviluppo sostenibile e sovrano nella comunicazione e nella rappre-sentazione dei saperi.

Gli asset non mancano per fare massa cri-tica: il Festival di Giffoni è un apprezzatissimo centro di eccellenza per il cinema giovanile, e il comparto televisivo, con il centro di produzio-ne Rai di Napoli, è un serbatoio di conoscenze e di abilità trasferibili. Si tratta di inserire in un progetto le risorse che oggi tendono a separarsi ed annullarsi vicendevolmente. È lavoro per la politica, per la buona politica. Bagnoli in questa prospettiva potrebbe, dopo decenni di sospiri, trovare un ancoraggio produttivo, e dare final-mente un senso ai 5 kilometri di costa più ap-petibili dell’intero bacino. Una grande fabbrica audiovisiva implica anche una grande potenza connettiva. Il Mediterraneo non ha un sufficiente livello di connessione. La rete che è ridondan-te in Europa, arriva asfittica oltre mare. Si tratta di creare ponti digitali fra le due sponde. Non è solo un problema infrastrutturale, è anche un problema di linguaggi e di integrazione tecno-logica. Ancora una volta la piattaforma logistica di Nola potrebbe rappresentare una scorciatoia. Essere un grande commutatore che collega le reti on line africane ai grandi TBone, ai pezzi forti del network europeo. Un grande centralino che permetta ai giovani nord africani di accedere al broadband. Si tratta di applicare e di guidare il processo deciso 5 anni fa a Barcellona e con-cretizzatosi con il progetto di Eumedgrid. Anche in questo caso è partita una corsa. Spagnoli e Francesi cercano di deviare le portanti di reti ver-so l’area occidentale del bacino, escludendo il nostro paese. I contendenti sono i grandi porti:

Barcellona e Marsi-glia, con il supporto di Valencia e Tolone, contrapposte a Ge-nova e Napoli, con il prolungamento di La Spezia e Gioia Tau-ro. In gioco non solo tecnicismi. Vincerà chi potrà proporre un più allettante pro-getto di integrazione. Abbiamo già detto dell’audiovisivo, ma importanti sono an-che le agricolture e i

sistemi formativi. Chi renderà la rete un sistema di cittadinanza per integrare nei propri circuiti i soggetti nord africani: i mercati agricoli potran-no aprirsi alle culture mediterranee? E i nostri sistemi universitari potranno modellare i pro-getti formativi sui profili di quei paesi? È ancora la politica che deve parlare. Dica cosa pensa. Si comprometta con una materia che fino ad oggi è stata esorcizzata, dietro il velo di una retorica celebrativa vuota. I pezzi del mosaico sono sul tavolo, e si tratta solo di comporre il puzzle. E bisogna farlo alla luce dell’evoluzione della cri-si economica che sta risagomando i modelli di vita e consumo.

Il modo di consumare, di approvvigionarsi, di soddisfare i propri bisogni e i propri desideri, con sempre una più totale identificazione fra i due generi, è destinato ad uscire del tutto stra-volto dal tunnel della congiuntura economica. Secondo gli osservatori due saranno le tenden-ze dei comportamenti dei soggetti economici: la prima è il sentimento, che ormai sempre con più forza deve esprimere un brand per attirare e persuadere il singolo consumatore. Bisogna produrre emozioni per spingere all’acquisto. La seconda tendenza è quella di una relazione che, sempre con maggiore metodicità, deve le-gare l’acquirente alla comunità che si raccoglie attorno al prodotto. La rottura di un’istintività individuale che ormai porta ognuno di noi a cercare di separarsi dai grandi gruppi di consu-matori per individuare prodotti e servizi se non esclusivi, almeno dedicati, mirati a se stessi, deve essere giustificata da una grande condi-visione sentimentale che si costruisce appunto lungo le due direttive: l’emozione e la relazione. Due direttive investiranno anche i nuovi mercati

Lavoraresugli scenari futuri

per capire la traiettoria dello sviluppo

e dove collocare l’innesto con Napoli

Page 46: Numero 4/2009

46 UN MONdO IN MOvIMENTO

mediterranei, che pur essendo debuttanti sulla scena economica non percorreranno certo tutto il ciclo che abbiamo alla spalle noi: l’individua-lismo sarà la frontiera su cui ci raggiungeranno molto presto. È infatti proprio la rete, la cultura digitale, il potere di pretendere accesso e inte-rattività immediata a chiunque e per qualunque cosa, che oggi determina il nuovo paradigma, che offre la piattaforma per sostenere e gestire il nuovo cambiamento.

Il consumatore diventa, anche nel proces-so di stipula dei singoli contratti di acquisto di un bene o di un servizio, un co-produttore, si determina anche nello scambio mercantile un modello user genereted content, dove entram-bi le parti, seppur in via asimmetrica, concer-tano lo scambio. Il venditore non è più l’unico titolare ne l’esclusivo ideatore della micro ope-razione commerciale. Ha sempre più bisogno di prevedere una complicità, un’associazione attiva del suo singolo cliente. Questo ricono-scimento è destinato ad aprire le porta ad una nuova società, ad un nuovo modello di sistema paese, nuovo dal punto di vista economico, commerciale, ma anche istituzionale e politico. La metamorfosi deve diventare l’arma vincente dell’offerta del comparto del Sud italiano: noi conosciamo meglio i nostri vicini e dovremmo meglio di altri intuirne desideri e ambizioni. Per questo penso che siamo entrati in un tornante promettente, dove la densità culturale farà pre-mio sulla robustezza delle infrastrutture. Siamo nel tempo del cosiddetto cloud computing, di quella straordinaria logica della distribuzione e dell’accesso alle risorse che la rete sta archi-tettando. Il cloud computing è quella modalità che privilegia il software sull’hardware, trasfe-rendo sulla rete le tecnologie che prima erano di proprietà singola sul computer. È questa la

cultura dell’accesso – diamo merito a Jeremy Rifkin che ce la segnalava almeno cinque anni fa rispetto agli statuti proprietari. È la cultura dell’ambiente, depurata da scorie ideologiche, che determina un nuovo paradigma di vivibilità e di partecipazione.

Siamo ad un modello inedito. Meno dupli-cazione di funzioni, nuove figure professionali, centralità della rete non solo come infrastruttura connettiva ma anche come linguaggio e model-lo di partecipazione.

Siamo ad una svolta: i mediatori si devono rivisitare. Ma abbiamo anche dinanzi una stra-ordinaria opportunità: dopo un secolo, il ’900, trascorso a cercare un nuovo modo di vivere e produrre, abbiamo ora dinanzi la parte mi-gliore del capitalismo, i segmenti più creativi, colti, dotati, e giovani, a tutte le latitudini del globo, che si stanno incamminando lungo una nuova strada. Tutto ciò che era verticale tende a diventare orizzontale e tutto ciò che era sta-to lasciato in orizzontale si sta verticalizzan-

do, si potrebbe dire parafrasando il Negropon-te switch della meta degli anni ’90, secondo il quale quanto viaggiava via cavo sarebbe passato via etere e viceversa. In effetti, mercato, poli-tica, istituzioni e comunità stanno riscoprendo il gusto di un intreccio orizzontale fra produt-tore e utente, a tutti i livelli, mentre quelle atti-vità che venivano orizzontalizzate per render-le marginali e occasionali, i servizi territoriali, l’assistenza, la formazione, diventano funzioni primarie e unitarie dell’essere stato. Non è que-sto uno straordinario cambiamento al quale dare un’anima più compiuta, senza lasciare che sia la crisi a compiere anche l’ultimo miglio della mediamorfosi? Con un’unica avvertenza: come diceva Eistein, i problemi non possono essere risolti dalla stessa cultura che li ha generati. Fi-guriamoci in politica.

In politica i problemi non possono

essere risolti dalla stessa cultura che li ha generati

Page 47: Numero 4/2009

Aziende Consorziate e Sedi Operative

SA CampaniaNAPOLI - Via Nardones, 14

SA Emilia RomagnaBOLOGNA – Via Rivani, 35

SA LiguriaSAVONA – Viale della libertà, 57

SA LombardiaMILANO – Res. Ontani, 462BERGAMO – Via Casalino, 27

SA PugliaBARI – Via N. Piccinni, 12

SA ToscanaFIRENZE – Via S. L. Cherubini, 13CASCINA (PI) – Viale Europa, 60

SA SardegnaSASSARI – Via Principessa Iolanda, 2

SA SiciliaPALERMO – Via A. Borrelli, 3

Sede legale e direzionale:

ROMA - Via della Minerva, 1Tel 06.69797134 - Fax 06.69190617

affidabilitàsicurezza

competenzaprofessionalità

Il Consorzio CSA si occupa dellagestione delle problematiche tecnologiche,pratiche e normative in materia di archivie fornisce consulenza specialistica conhardware e software di propriaprogettazione, avvalendosi del letecnologie più avanzate nel campo deltrattamento e delle elaborazioni delleinformazioni (banche dati testuali,ipertestuali e di immagini, sistemi per lostorage delle informazioni su supportomagnetico ed ottico).

Il Consorzio CSA interviene su archivistorici e correnti, predisponendo uncorretto impianto archivistico edelaborando sistemi di gestione elettronicadei documenti di facile applicazione e difacile utilizzo; tali sistemi garantisconoun’elevata adattabi l i tà ai cr i ter id’ordinamento archivistico in uso pressol’Ente, criteri che vengono sempresalvaguardati.

Il Consorzio CSA offre servizi per lagestione “del documento” ad ampiospettro, realizzando una serie di progettinel settore degli Archivi correnti e storicie fornendo i seguenti servizi:

Riordino e ottimizzazione degli impiantiarchivistici in forma elettronica;

Schedatura, catalogazione e data entryper creazione di banche dati;

Custodia e Gestione Informatizzatadegli archivi cartacei in locali attrezzati,ubicati strategicamente su tutto il territorionazionale;

Monitoraggio delle movimentazioni;

Predisposizione degli elenchi di scartoed attuazione delle procedure;

Creazione e gestione di archivi digitali;

Consultazioni on line con monitoraggiodegli accessi;

Gestione del protocollo informatico eworkflow con archiviazione digitale dellacorrispondenza;

Rilevamento e gestione informatizzatadel contenzioso per la PA;

Analisi e studio delle criticità archivistiche;Proposta progettuale nel rispetto della

normativa vigente;Formazione del personale d’archivio

all’utilizzo delle procedure informatiche.

Affidare il servizio di custodia e gestionedegli archivi al Consorzio CSA vuol dire:

Conoscenza dei documenti d’archivio diproprietà dell’Ente;

Certezza nella ricerca delle informazionicon consultazione del documento in temporeale;

Rientrare negli standard di sicurezzadelle normative vigenti in materia;

Risparmio degli investimenti peradeguamento dei locali, acquisto diattrezzature a norma, assunzione dipersonale specializzato, acquisto emanutenzione di sistemi per la gestionedocumentale;

Recupero di spazi e di personale dadestinare ad altre attività;

Miglioramento del servizio a favoredell’utente sia in termini di tempo che difruibilità;

Eliminazione rischi connessi alla perditadi documenti;

Sicurezza informatica, per cui l’archiviodigitale viene mantenuto secondo le piùsevere procedure di sicurezza, conparticolare riguardo alle procedureanti-intrusione e anti-manomissione.

Page 48: Numero 4/2009

48

L’ultimo contributo sulla «Cit-tà» a questa Rivista risale al 2007, in occasione della programmazio-ne dei fondi strutturali 2007-2013, stimolato dalle dichiarazioni della Commissaria alle politiche regio-nali dell’Unione Europea:

«l’Unione Europea ha bi-sogno di città innovative e di-namiche che possono creare le condizioni necessarie per lo sviluppo e che garantiscano la coesione sociale e la qualità ambientale… i fondi strutturali, nel periodo 2007-2013 sono in-dirizzati a centrare gli obiettivi di Lisbona e di Goteborg, ma è nelle zone urbane che si gioca-no la sfida dell’Unione Europea per far fronte alle sfide sociali e ambientali.»

L’ANCI aveva risposto con il Convegno «Città come motore di crescita». I Sindaci non na-scosero fondate preoccupazioni per gli ostacoli che avrebbero incontrato i loro programmi e i progetti di riqualificazione urba-na, soprattutto quelli per i centri storici, consapevoli delle politi-che di tutela esercitate dal Mini-stero dei Beni Culturali con vin-coli e veti. Al Ministero dei Beni Culturali chiesero formalmente nel corso dei lavori di

«compiere uno sforzo di concretezza al fine di poter ac-compagnare il progetto di cre-

scita coerente per le Città, capace di interpretare in una prospettiva moder-na il gran patrimo-nio storico-cultura-le ambientale delle nostre Città».

Il distacco che permane tra le politiche innovative urbane proposte dalla Commissaria Eu-ropea e quelle prevalenti nel no-stro Paese è però comprensibile: la Commissaria Europea confer-ma politiche regionali quali quel-le affermate nella Convenzione Europea per il Paesaggio, il Mini-stero dei Beni Culturali, invece, rimane su posizioni concettuali e procedurali tradizionali in ma-teria di beni culturali e di tutela paesaggistica. Troviamo, infatti, nel Codice Urbani, emanato nel 2004, – riconfermata l’imposta-zione delle leggi del 1939 (la 1089 e la 1497), e in continuità anche in occasione di successive modifiche apportate al testo ori-ginario, compresa quella recente del luglio appena scorso.

Hanno ragione i Sindaci a chiedere uno sforzo di concre-tezza ai Soprintendenti?

Hanno ragione i Soprinten-denti a difendere le prerogative loro attribuite?

Interrogativi intricanti per-ché allo stato dei fatti una rispo-sta realistica darebbe ragione ad entrambi. Con la ri-pro po sizione

del l’ar go mento sulle politiche per i beni culturali e la tutela del paesaggio (natu-rale e costruito) nel nostro Paese provo a rappresentare un quadro delle criti-cità attuali e delle

prospettive per il nostro patri-monio ambientale. Consapevole di trattare un tema delicato, sci-voloso e di non facile esposizio-ne argomentativa per l’intreccio che evidenzia d’aspetti di varia natura: concettuali, disciplinari, giuridici amministrativi, istituzio-nali, e anche costituzionali.

E non solo.Le posizioni che si consolida-

no nelle sedi istituzionali di com-petenza, il peso di non trascu-rabili voci del mondo culturale (specialistico e non) testimonia-no dell’impopolarità che incon-trano proposte di innovazione delle forme datate del fare tutela paesaggistica nel nostro Paese.

Proposte che si pongono in primo luogo per il ripensamen-to dei criteri (rigidi e statici) che informano l’attuale esercizio di salvaguardia (di dubbia effica-cia) per impostare un diverso sistema di procedure e proce-dimentalità, non alleggerito nei controlli e nelle doverose veri-fiche, bensì sostanziato da mo-dalità per azioni di tutela attiva, che garantiscano con efficacia, e in continuità temporale, la

tenuta dell’ineludibile rapporto salvaguardia – valorizzazione del nostro ricco patrimonio pa-esaggistico: non ci sono ad oggi definizioni derimenti di cosa debba essere la qualità della va-lorizzazione in rapporto a quella della tutela.

Innovazioni, d’altra parte, queste che ci avvicinerebbero alle già attivate politiche euro-pee di genere e che certo non meritano, come avviene, rimo-zioni pregiudiziali o facili eti-chettature di malcelati intenti speculativi.

Forse, a quanti lamentano i ritardi nell’impiego dei fondi strutturali europei, è il caso di ri-cordare che alla programmazione 2007-2013, destinata al recupero e alla valorizzazione dei centri storici delle nostre città, non cor-risponderebbero al lo stato tran-quille certezze per concretare in operatività le scelte program-matiche e progettuali: per la co-stanza della vigenza di normative inattuali, per i tempi non brevi amministrativi (procedurali e bu-rocratici) che a loro volta si dila-tano in presenza di irrigidimenti soggettivi nelle valutazioni delle scelte e dei progetti che vengo-no proposti. La preoccupazione è che dell’arco temporale utile 2007-2013 circa la metà del tem-po si è già consumata in attese.

Nel 2007, i Sindaci riuniti dall’ANCI, questa preoccupa-zione, ricordo di nuovo, l’ave-

Il dibattito sulle politiche innovative urbaneS A L V A G U A R D I A

D E I B E N I C U L T U R A L IE D E L L ’ A M B I E N T E

T E S I A C O N F R O N T OEirene Sbriziolo

Page 49: Numero 4/2009

49vano espressa chiedendo ai So-printendenti

«sforzi di concretezza per interpretare in prospettiva moderna i problemi della città contemporanea»

Da parte mia, la rassegna di oggi sulla tematica paesaggistica si avvale anche sia di una prezio-sa produzione giuridico- ammi-nistrativa sia di alcune Sentenze della Corte Costituzionale. So-prattutto del confronto tra quelle Sentenze che non offrono mes-saggi costanti o univoci nel tem-po: mi confermano che la criticità della tutela paesaggistica risiede nella soggettiva interpretazione (la percezione) che informa la nozione stessa di paesaggio. Ag-gravata, per di più,da una gestio-ne autonoma, unilaterale (l’attri-buzione esclusiva allo Stato delle azioni di tutela del paesaggio).

Nel giugno 2000 scrissi in «Tutela, Ambiente e Pianificazio-ne Territoriale: c’è un vero rap-porto? (ediz. Graffiti) che il

«paesaggio – ha valenze va-riabili che s’implicano a secon-da sia delle realtà territoriali e sociali sia dei differenti valori identitari dei luoghi. Quindi, in primo luogo è improprio un esercizio di tutela ricondotto, come nel nostro Paese, ad un solo livello centrale di decisio-ne e di gestione, non solo ester-no alle realtà dei luoghi ma che assume la qualità (in termini estetizzanti) del paesaggio sia naturale che costruito come unico parametro di garanzia per la tutela dell’ambiente e del territorio.

Nell’ottobre 2000, fu sotto-scritta a Firenze la Convenzione Europea del Paesaggio: a distan-za di pochi mesi, quindi, trova-vo conferma che l’esclusività dell’attribuzione allo Stato delle politiche per la tutela paesag-gistica non avrebbe agevolato l’avvicinamento a quelle euro-pee, secondo le quali, invece,

il livello nazionale come l’unico delegato a gestire le complesse problematiche della tutela del paesaggio risulta inadeguato.

È pretestuoso il richiamo all’impedimento costituzionale?

«Lo spostamento del paesag-gio alle competenze del sistema Repubblica – a cominciare dal-le Regioni – si ritiene impedito dall’articolo 9, secondo comma della Carta Costituzionale».

Cosa è il paesaggio?Finora ci siamo imbattuti in

una molteplicità di definizioni: è impronta storica di un territorio, è la sua irriproducibile peculiari-tà, è emozione, è percezione, è luogo di memorie…

E, in concreto alcuni interro-gativi me li pongo:

Come ricondurre a chiara nozione il paesaggio in presenza di soggettive e differenti sensibi-lità percettive?

Come costruire un si-stema normativo di tutela che non separi il paesaggio dal ter-ritorio interessato prescindendo da un inscindibile legame?

Quanto pesa la diffidenza nei confronti delle Regioni (an-cestrale, direi, a rileggere gli atti dei lavori dell’Assemblea Costi-tuente sulla tutela paesaggistica, in un’epoca, il 1947, in cui le Re-gioni non erano nate)?

Una conflittualità di diffici-le composizione che la Corte Costituzionale con Sentenza 341/1996 s’illuse di affrontare con un improbabile messaggio irenico:

«…il paesaggio costituisce nel nostro sistema costituzio-nale un valore etico-culturale nella cui realizzazione sono impegnate tutte le pubbliche amministrazioni, in primo luo-go lo Stato e le regioni, in un vincolo reciproco di coopera-zione leale».

Che lo Stato di seguito ha eluso introducendo nel Codice Urbani

«Il parere preventivo obbli-gatorio, vincolante delle Soprin-tendenze che precede e limita il governo delle regioni…»

La Sentenza del novembre 2007 (la n. 367) contiene, inve-ce, un messaggio affatto diffe-rente da quello compositivo del 1996 (la Sentenza n. 341 ricor-data):

{il paesaggio} è un valore primario assoluto che rientra nella competenza esclusiva del-lo Stato».

L’Unione Europea intanto, attiva per i centri storici (il pae-saggio costruito) politiche nuove per uno sviluppo che sia di qua-lità e indica in materia di tutela di beni culturali e paesaggistici “nuove dimensioni concettuali”:• interrelazione,• legami di contesti,• interdipendenza tra politi-

che per la valorizzazione di beni culturali e paesaggistici e strategie per l’innovazione e la riqualificazione urbana.È a queste politiche innovati-

ve che si oppone difensivamente (?) il richiamo all’articolo 9 della nostra Costituzione: è immodifi-cabile.

Eppure, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciam-pi, nel maggio dell’anno 2003, nel corso dell’incontro con i “benemeriti della Repubblica, intrattenendoli da par suo sui valori della nostra Carta Costitu-zionale a riguardo dell’articolo 9 disse:

«la tutela deve essere con-cepita non in senso di passiva protezione, ma in senso attivo, e cioè, in funzione della cultura dei cittadini, deve rendere que-sto nostro patrimonio culturale fruibile a tutti…»

Ho ricordato in apertura i diversi aspetti che s’implicano per fare tutela paesaggistica e di seguito accenno, per paragrafi, a quelli che mi sembrano i più

incidenti per la comprensione delle criticità delle nostre poli-tiche :• la Convenzione Europea per

il Paesaggio,• il Codice Urbani,• il dualismo conservazione e

innovazione, • l’articolo 9 della nostra Co-

stituzione.

La selezione degli argomenti riflette l’esperienza di una lun-ga militanza disciplinare e de-gli ostacoli incontrati, ma sullo sfondo c’è l’eredità del pensiero di Maestri del secolo scorso che su queste tematiche si sono spesi da profeti disarmati. L’economia dello spazio non mi consente di citarli, ma riporto l’attualità del messaggio di Giovanni Miche-lucci.

Il grande architetto fiorentino non ebbe la soddisfazione, per un pugno di giorni, di festeggia-re il suo centesimo compleanno: scomparve nel giugno del 2000.

Poi, proprio,nel 2000 (nell’ot-tobre) fu sottoscritta, e nella sua Firenze, la Convenzione Euro-pea del Paesaggio da quasi tutti i Paesi del Consiglio d’Europa e… non ancora dall’Italia.

Credo che Giovanni Miche-lucci avrebbe compreso le ra-gioni: la Convenzione Europea innovava davvero nelle politi-che di tutela, e c’è sintonia con quanto aveva scritto lui, a no-vantotto anni, a due anni dalla sua scomparsa:

«sono le città, il paesag-gio a rispecchiare il continuo intersecarsi della loro storia, con l’evento che le rimette in discussione secondo una sua forma, che è mai definitiva an-che se percepita e difesa come consolidata»

…« …ma non si può pensare che tutto quello che si costrui-sce oggi non abbia anch’esso in se qualcosa di valido: è più logi-co pensare che la comprensio-ne del presente potrebbe essere

Page 50: Numero 4/2009

50migliorata se ci mettiamo in una posizione di partecipazio-ne e di fiducia, e delle cose at-tuali cerchiamo d’intendere la possibilità di sviluppo che esse potranno offrire in futuro».

La Convenzione Europea per il Paesaggio

Nell’ottobre dell’anno 2000 quasi tutti i Paesi del Consiglio d’Europa sottoscrissero a Firen-ze la Convenzione Europea per il Paesaggio, non ancora però l’Italia.

Nel 2004, quando più di dieci Stati europei ratificano la Conven-zione per renderla operativa nei rispettivi Stati, è emanato il Codice Urbani, che va in tutt’altra direzio-ne concettuale e operativa. Non ci sono contenuti innovativi, in questo codice, che anzi ri-assorbe convintamente la legislazione in materia di beni culturali e di tutela paesaggistica del 1939.

Nella relazione d’accompa-gnamento del Testo Unico dei Beni Culturali del 2000, prope-deutico alla stesura del Codice Urbani si legge:

«si è avuto cura di mante-nere inalterate le formulazioni delle due leggi fondamentali dl 1939».

Solo nel 2006 con la legge 14 l’Italia ratifica la Convenzio-ne Europea, ma non si svinco-la dal retroterra concettuale e culturale che informa la nostra nozione di paesaggio: nel docu-mento europeo, invece, è mes-so a punto il tema del paesaggio con elaborazioni teoriche e di-rettive operative che innovano nelle tematiche paesaggistiche.

Così la Convenzione Euro-pea definisce il paesaggio :

«landscape means an area as perceived by people,whose cha-racter is the result of the action and interaction of natural and/or human factor»

Paesaggio:una parte del ter-ritorio come viene percepita dalla popolazione, il cui carat-

tere è il risultato delle azioni naturali e/o umane e della in-terazio

Una nozione di paesaggio che non identifica una realtà statica, bensì concettualmente dinamica e plurale e agìta se-condo processi di variazione continua.

Novità della Convenzione Europea del Paesaggio:• l’assunzione della dimen-

sione spazio/tempo, trascu-rata per decenni (e ancora sottovalutata) nelle pianifi-cazioni urbane e territoriali ai fini delle programmazioni operative e persino per quel-le cui si assegna valore stra-tegico.

• l’estensione del significato di percezione (perceived by pe-ople) che fa ritenere che am-mettendo più scale di valori e di valutazioni per il paesag-gio, questo s’include nell’in-sieme degli accadimenti re-ali, nei processi dinamici, e può diventare sintesi di valori di percettività diverse.È chiaro che entrano in cri-

si concezioni estetizzanti, con-vinzioni soggettive e astrattez-ze elitarie per cui posso anche comprendere le reazioni in strati dello stesso mondo accademico oltre che in quello (più giustifi-cabile) dei settori istituzionali di competenza in materia di beni culturali e tutela paesaggistica.

Inoltre, le nostre politiche di tutela non includono la dimen-sione sociale del paesaggio.

Nella vasta produzione di ri-cerche e d’elaborazioni che pre-figurano una nuova geografia per l’Europa, il paesaggio (naturale o costruito) si pone come contesto di riferimento delle popolazio-ni con rappresentazione della loro identità e di segnali evolu-tivi della società. È l’abbandono di quegli ambiti di qualità che identificano paesaggi/monadi a favore di una qualità diffusa, che comincia da quei luoghi che esprimono la vita quotidiana in

condizioni di degrado per pro-muoverli a paesaggi/contesti di nuova socialità?

Un obiettivo che può valere anche per le isole di degrado del Centro Storico di Napoli? Per recuperare luoghi dimenticati – e anch’essi depositari di storia, memorie, culture – in paesaggi/contesti di nuova socialità?

Quanto queste opportunità di riqualificazione potrebbero essere condizionate da ricorrenti comportamenti tanto orgogliosi del riconoscimento dell’UNE-SCO del valore del Centro Sto-rico della Città da intenderlo come vincolo ostativo di ogni auspicabile azione riqualificati-va di questi luoghi?

Non ci sono sponde cui ap-poggiarsi: le politiche di tutela della Convenzione Europa per il Paesaggio e quelle dell’UNESCO si distinguono in forza dei trattati differenti che le informano.

L’UNESCO assume fonda-mentalmente il concetto di pae-saggio culturale.

Ci sono esemplari azioni di recupero in luoghi (nel Mondo) riconosciuti patrimonio mon-diale dell’umanità dall’UNESCO che dimostrano come la valoriz-zazione fisica non precluda oc-casioni di nuova socialità.

Per la nostra Città si ha più che un’impressione che il rico-noscimento dell’UNESCO dia al Centro Storico impermeabilità ad ogni progetto che si connoti di contemporaneità, e che ine-ludibili esigenze di riqualifica-zione dei luoghi siano assimilate ad intenti speculativi tout-court. Non è facile che un progetto di ri-composizione di scenari di qualità e soprattutto di dignitosa quotidianità di vita di luoghi tro-vi convinte condivisioni.

Un bel dilemma per Napoli che nel Centro storico ricono-sciuto dall’UNESCO opererà avvalendosi dei fondi strutturali europei.

L’Unione europea e la Con-venzione Europea ispirano una attività articolata e diffusa ba-

sata su politiche di tutela attiva, irrinunciabile per riqualificare e valorizzare gli ambiti/paesaggio. L’UNESCO, invece, si riferisce a quei paesaggi cui riconosce va-lore universale di eccezionalità e, quindi, incoraggia un orienta-mento soggettivo ai fini dei cri-teri di valorizzazione dei luoghi da perseguire.

Già nella c.d. cultura colta di tradizione nel nostro Paese ha prevalso una distinzione va-lutativa: un patrimonio culturale maggiore e uno minore. • Il primo per alta dignità cul-

turale vale l’azione di tutela,• il secondo con valore di sola

esperienza umana, può ri-manere indifeso dagli even-ti trasformativi dei luoghi (e leggi il destino delle periferie esterne o interne alle città). Un retaggio culturale che ci

allontana dalla Convenzione Eu-ropea che invece tende a finalità d’anteposizione di politiche di contenimento delle diverse for-me di degrado fisico e sociale (la dimensione sociale del paesag-gio) al fine di garantire anche al minimo il paesaggio visibile della quotidianità. Senza per questo rinunciare nel contempo alla ri-cerca di forme di sviluppo sem-pre che non contrastino la tutela di contesti/paesaggio di partico-lare rilevanza.

Sarebbe utile osservare an-che gli ambiti che denunciano evidenti fenomeni di degrado paesaggistico dato che questi non consentono di far percepire da subito la positività delle tra-sformazioni indotte da interventi e, in assenza di criteri di orien-tamento per la valutazione del rapporto causa-effetto, non è facile comprendere se le azioni, ai fini della valorizzazione dei luoghi, sarebbero in ogni caso (e automaticamente) di per sé positive. Inoltre, la Convenzio-ne Europea fa un passo in più per conferire qualità al paesag-gio quando assume il paesaggio naturale e quello urbano come luoghi della ri- composizione di

Page 51: Numero 4/2009

51diverse tematiche, da quelle più proprie ambientali/ paesaggisti-che a quelle di più ampio respi-ro territoriale e senza tralasciare l’attenzione per il peso qualitati-vo di cui connotare nuovi eventi siano essi architettonici che in-frastrutturali, pur nelle rispettive specificità tipologiche.

Insomma, le politiche euro-pee per la tutela del paesaggio non riguarderebbero soltanto azioni di difesa ma soprattutto di gestione, di sostegno delle programmazioni e dei progetti che traguardano nuova qualità sociale.

Il Codice UrbaniIl distacco tra le politiche di

tutela del paesaggio riconferma-te dal Codice Urbani (2004) e quelle indicate dalla Convenzio-ne Europea per il Paesaggio del 2000 non è stato colmato dalle modifiche apportate successi-vamente al testo originario del Codice stesso.

Rimane la tradizionale con-siderazione culturale identitaria perciò si

«tutela il paesaggio relativa-mente a quegli aspetti e carat-teri (art.131) che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valore culturale »

Di seguito per aderire alla Convenzione Europea la nozione di «paesaggio» è ampliata con nuovi valori paesaggistici coe-renti e integrati (articoli 6 e 131).

Non sono chiariti gli orienta-menti per la pianificazione pae-saggistica, mentre è evidente che con le modifiche introdotte alla III parte del Codice (beni paesaggi-stici) è riproposto, come nel testo del 2004, il ri-accentramento di quelle funzioni che erano già sta-te delegate o addirittura trasferite alle Regioni: In precedenza ho sottolineato che per la Conven-zione Europea risulta inadeguato un livello nazionale unico delega-

to a gestire i complessi problemi della tutela paesaggistica.

Inoltre con la terminologia usata di «bene paesaggistico» e non di «paesaggio» s’intuisce l’opzione per la separazione tra beni culturali e beni paesaggisti-ci, dove questi ultimi diventereb-bero oggetti del patrimonio cul-turale del paesaggio /territorio.

Lo Stato si ripresenta con la tutela primaria in esclusività (art. 136) di:• immobili ed aree di interesse

pubblico e archeologico,• aree tutelate in forza della

legge 431/85 (la c.d. Galas-so) (articolo147)

• immobili e aree «tipizzati» sottoposti a tutela dai piani paesistici.

Intanto mentre la tutela s’irri-gidisce su una vincolistica basata su valutazioni per singoli casi (e di casi per casi) di compatibilità paesaggistica non è rassicurante l’andamento altalenante che ca-ratterizza le decisioni del Mini-stero dei Beni Culturali.

Ai passi corretti che pure erano stati compiuti dall’attiva-zione di collaborazioni tra dire-zioni regionali dei beni culturali e Soprintendenze ai fini di valu-tare la qualità delle azioni di tu-tela e di gestione in presenza di trasformazioni più generali dei territori a l’alleggerimento della prevalente posizione dualistica del Codice Urbani (quella mo-numentale di cui alle leggi del 1939 e quella più tipologica di cui alla legge Galasso del 1985) e alla timida adesione ad alcuni orientamenti della Convenzione Europea… tutto è stato ripensa-to, rimosso.

Con le modifiche alla III parte del Codice il Ministero dei Beni Culturali non ha ritenuto più valido un programma che fosse condiviso nell’impostazione con le Regioni: gli articoli 136, 142, 143, 144 indicano l’involuzione centralistica operata, una vera prova di forza, di prevaricazione nei confronti delle Regioni.

Si coglie sia un evidente rim-pianto per quelle leggi del 1939, che del resto sono rientrate nel Codice Urbani inalterate, intese rassicuranti per le certezze isti-tuzionali e le concezioni cultu-rali indiscutibili sia la mai sopita riserva per l’istituzione regiona-le, che dal 1970 quelle certezze minerebbe.

Scrive il professore Salvatore Settis che

«nella tutela del paesaggio lo Stato si ritaglia il ruolo di pro-tagonista a scapito delle Regio-ni che si lamentano, e chiedo-no a Roma un confronto per la riforma delle politiche dei beni culturali e paesaggistici…»

Il testo del Codice, con le modifiche del 2007 aumenterà il potere vincolante dei Soprin-tendenti sugli interventi protetti riservando allo Stato quella pre-senza più forte in sede di pianifi-cazione paesaggistica auspicata dal professore Settis.

La Corte Costituzionale nel-lo stesso anno, con la Sentenza 367 del novembre 2007 toglie ogni dubbio:

«la tutela del paesaggio è un valore primario assoluto che ri-entra nella competenza esclusi-va dello Stato».

Ricordiamo allora le origini di queste posizioni.

Tra tradizioni e innovazioniL’ordinamento italiano ha

riservato per lunga tradizione la connotazione culturale-identi-taria. Su questa fu impostata la legge 411 del 1905 e su questa la riconfermò nel 1922 con la leg-ge 778 Benedetto Croce:

«il paesaggio non è che la rappresentazione materiale e visibile della Patria, con i suoi caratteri fisici particolari…per-venuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli…»

Dal Benedetto Croce del 1922 al Bottai del 1939 all’Ur-bani del 2004 è cambiato nulla. La stessa legge 431 del 1985 (la Galasso) non ha fatto cadere il testimone e utilizza lo strumen-tario del 1939, aggiungendo alle politiche di tutela porzioni spe-cifiche del territorio nazionale, reputate di particolare signifi-canza anche se privi di riferi-menti a pregi estetici.

Nel 1947 l’Assemblea Costi-tuente affronta il tema della tute-la del patrimonio culturale e del paesaggio del Paese,

A quella data il Costituente professore Concetto Marchesi espresse tutta la sua diffidenza nei confronti delle Regioni e al mo-mento della stesura dell’articolo 29 (poi articolo 9 della Costituzio-ne) ribadì le ragioni per cui aveva proposto un articolo che sancisse la centralità dello Stato per la sal-vaguardia del paesaggio:

«…ho proposto quest’arti-colo…nella previsione che la raffica regionalistica avrebbe investito anche questo campo delicato del nostro patrimonio nazionale…»

All’ autorevole esponente, di forte peso nel mondo culturale, non ci fu opposizione.

Solo Fausto Gullo constatò uno stallo da superare: la pre-rogativa statuale nella tutela del paesaggio. Con lungimiranza propose di sostituire all’originale termine Stato quello di Repub-blica:

Un’apertura che i costituzio-nalisti hanno condiviso in quan-to Repubblica non vuol dire governo statale, bensì articola-zione democratica dello Stato in Regioni e in Enti locali, con chia-ro aggancio all’articolo 141 della Costituzione.

Nel 1995 in occasione del Convegno nazionale sui centri storici tenuto a Caserta, Michele Scudiero ritorna sulla moltepli-cità

Page 52: Numero 4/2009

52«delle responsabilità isti-

tuzionali chiamate ad opera-re nella tutela del paesaggio e con effetti particolarmente rilevanti per i centri storici…non è possibile seriamente di-stinguersi ciò che è meritevole di tutela di valorizzazione se-condo il valore estetico, da ciò che rappresenta il paesaggio come forma del Paese e l’ha-bitat creato dall’uomo come modo di essere nella storia…va dato anche rilievo al tentativo di allargare il concetto stesso di bene culturale, sganciando-lo dalla materialità del suppor-to che è presente nella formula definitorie della Commissione franceschini secondo cui un bene culturale è ogni testimo-nianza materiale avente valore di civiltà…vale notare che pro-prio attraverso questo sviluppo di bene culturale, che si river-sa nella questione centri storici (il paesaggio costruito n.d.a.) è apparsa per un verso l’inade-guatezza della legislazione del 1939, per altro quale ricchez-za, quale forza viva, incompri-mibile d’interesse, sviluppino verso la ricerca di nuove solu-zioni meglio rispondenti ai bi-sogni della collettività»

Mi sono dilungata sulla ci-tazione di Michele Scudiero: il suo intervento ha anticipato sia l’obiettivo posto dalla Conven-zione Europea del Paesaggio sia il giudizio di inadeguatezza del Codice Urbani.

Articolo 9 dellaCostituzione Italiana

Nel caso italiano la tutela del paesaggio risale alla norma chiave dell’articolo 9 della Co-stituzione, al II comma.

Più di un costituzionalista lo interpreta come un articolo in-clusivo di potenzialità evolutive per le politiche del paesaggio, ma prevalgono le posizioni an-che determinanti di chi rinviene la concezione di staticità con-cettuale a garanzia della tutela.

La questione è dibattuta sin dall’origine della formulazione dello stesso articolo) e le posi-zioni si differenziano notevol-mente.

La Sentenza della Corte di Cassazione penale del 1983 (emessa dalla III sezione, Maz-zola) dà un segno di apertura:

«in tema di tutela dell’am-biente la Costituzione con l’ar-ticolo 9 collega aspetti natu-ralistici (paesaggio) e culturali (promozione dello sviluppo della cultura e tutela del patri-monio storico-artistico) in una visione non statica ma dinami-ca, e non meramente estetica o intrinseca, ma di protezione integrata e complessiva di va-lori naturali, insieme con quelli consolidati dalle testimonianze di civiltà…»

Di seguito, a distanza di cir-ca vent’anni da quella Sentenza, (nel 2001) con la riforma del Ti-tolo V della parte II della Costi-tuzione, la questione paesaggio subisce una confusa involuzione: la riforma infatti, ha attribuito alla potestà legislativa esclusiva del-lo Stato la tutela dell’ambiente, dell’eco-sistema e del beni cultu-rali (articolo 117, II^, lettera s) e inserisce nella potestà legislativa concorrente la valorizzazione dei beni culturali e ambientali (articolo 117 III )̂. Non usa però il termine paesaggio che è tra i principi fondamentali dell’artico-lo 9 della Costituzione.

L’omissione è attribuita in sedi competenti all’ambiguità e alla confusione terminologica che ancora si riscontra in merito alla nozione giuridica di paesaggio.

C’è anche la tentazione di riscrivere l’articolo 9 della Co-stituzione,

«Revisione europea per la prima parte della Costituzione» è il titolo di una delle relazioni svolte lo scorso anno al Conve-gno che giuristi hanno dedicato alle tematiche paesaggistiche con la messa a confronto dei

due sistemi giuridici, quello eu-ropeo e quello nostro nazionale, così evidenziando a livello inter-pretativo, le differenti valutazio-ni sulla questione paesaggio.

L’Unione Europea si adopera per l’obiettivo sviluppo soste-nibile perseguendo un elevato livello di tutela non disgiunto dal miglioramento della qualità dell’ambiente, obiettivo che con l’articolo 9 della nostra Costitu-zione non si riuscirebbe a perse-guire in assenza dì integrazioni di rilievo. Tuttavia, avvertono i giuristi che non si tratterà di alte-rare i principi fondamentali della prima parte della Costituzione, di cui si ribadisce l’intoccabilità, ma di tener conto dell’influen-za che su singole disposizioni hanno i processi evolutivi della società rispetto alla formulazio-ne dell’Assemblea Costituente (1947) informata dal clima cultu-rale dell’epoca.

« in una Costituzione viven-te il testo costituzionale non può prescindere dalle mutate sensibilità civili oltre che cultu-rali, e questo anche rispetto alla tutela del paesaggio (il Presiden-te Carlo Azeglio Ciampi,2003)

Perciò si riflette anche, in campo giuridico, se sia possi-bile affiancare alle norme che impongono obblighi altre nor-me che consentano di istruire un sistema regolatore del cam-biamento con strumenti più adeguati al comportamento dei singoli e alle reciprocità relazio-nali.

Articolo 9 La Repubblica • promuove lo sviluppo della

cultura e la ricerca scientifi-ca e tecnica;

• tutela il paesaggio e il patri-monio storico artistico della Nazione;Interpretazioni di costituzio-

nalisti rinvengono nei due com-mi dell’articolo 9 della Costitu-zione due previsioni connesse

ma diverse per oggetto, finalità e forza percettiva:• il primo comma riguarda at-

tività culturali• il secondo comma il patri-

monio culturale

«l’esame del II comma del-l’articolo 9 muove dalla rile-vazione degli elementi di con-tinuità della sequenza dei due commi, in sintesi sostanziale. E, nella direzione della promozio-ne dello sviluppo della cultura, con un passaggio da una conce-zione puramente statico-con-servativa della tutela dei beni culturali ad una concezione di-namica orientata al loro pubbli-co godimento e come strumen-to di crescita culturale…»

Negli ultimi dieci anni la Corte Costituzionale ha dato interpretazioni di volta in volta non univoche della nozione pa-esaggio.

Un’interpretazione anomala quella che attribuiva al paesag-gio alcuni elementi ai fin del riconoscimento delle finalità di tutela riconducibili nell’alveo dell’interesse pubblico nazio-nale, caratterizzando, però, il territorio sotto il profilo storico-artistico, urbanistico, paesaggi-stico.

Un’interpretazione azzar-data dev’essere apparsa, trava-licante il significato prevalente attribuito con l’articolo 9 della Costituzione alla nozione di pa-esaggio e non ha trovato corri-spondenza in una normativa in grado di garantire la tutela nei processi evolutivi.

Ha prevalso ancora il con-cetto della primarietà del valore estetico culturale dell’interpre-tazione soggettiva del secondo comma dell’articolo 9 della Co-stituzione {che} come esplicitata non contempla processi evoluti-vi dei contesti socio culturali di riferimento…»

La Corte Costituzionale con Sentenza 437/2000, invece, opera una sintesi dei principi

Page 53: Numero 4/2009

53in materia di paesaggio e dei rapporti Stato-Regioni e riba-disce – ai fini dei vincoli pae-saggistici – la diretta connessio-ne con il valore primario della tutela del paesaggio in forza dell’’articolo 9 della Costituzio-ne, riaffermando che

«le disposizioni che li pre-vedono non possono essere de-rogate, modificate o sostituite dalle leggi regionali, neppure ove queste esercitassero com-petenze a carattere esclusivo».

La Sentenza 478/2002 della Corte Costituzionale, reca:

«la tutela del bene cultu-rale è nel Testo Costituzionale contemplata insieme a quella del paesaggio e dell’ambiente come espressione di principio fondamentalmente unitario dell’ambito territoriale in cui si svolge la vita dell’uomo, e tali forme di tutela costituiscono un’endiadi unitaria. Detta tute-la costituisce compito dell’in-tero apparato della Repubblica nelle sue diverse articolazioni e in primo luogo dello Stato (articolo 9 della Costituzione) oltre che delle regioni e degli Enti Locali.»

A complicare le incertezze contribuisce (come ricordato) anche la riforma del titolo V della seconda parte della Costi-tuzione, nel 2001, dove risulta rimossa la nozione paesaggio, che è centrale nell’articolo 9 della parte prima della Costitu-zione.

Con l’assegnazione alle Re-gioni del «governo del territo-rio» per le competenze urbani-stiche e allo Stato della potestà esclusiva di legislazione sulla tutela e sull’ambiente si con-fonde il significato di bene am-bientale, e si confondono anche le delimitazioni delle rispettive

competenze dello Stato e delle Regioni.

Si distinguono due orienta-menti:• uno per la riconduzione

del la nozione di paesaggio nell’area dei beni cultura-li, con forte sottolineatura dell’articolo 9 della Costitu-zione,

• l’altro, per la comprensio-ne del paesaggio dentro il governo del territorio, rical-cando, in qualche modo, le impostazioni del DPR del 1977 e della legge Galasso del 1985.

Il primo orientamento sem-bra sottintendere l’ineliminabile competenza statale per la tutela del paesaggio, con manteni-mento di politiche vincolistiche che sostanzino concretamente la dichiarazione d’interesse pa-esaggistico.

Il secondo privilegerebbe la visione regionalistica e poli-centrica assumendo la pianifi-cazione (che è di competenza regionale) come sede dell’uso del territorio e quindi implicita-mente anche delle problemati-che paesaggistiche.

La prevalente giurispruden-za costituzionale e amministrati-va, però, è ferma nel distinguere l’urbanistica dal paesaggio.

I sistemi vigenti per la tutela del paesaggio in Francia, in Ger-mania, in Olanda, in Svizzera … confrontati con la tendenzia-le collocazione del «paesaggio» nel nostro Paese nell’ambito dei beni culturali evidenziano una nostra anomalia.

L’interpretazione ufficiale ri-conduce alla diffusa convinzio-ne della diversità del territorio italiano rispetto a quelli della media degli altri Paesi aderenti al Consiglio d’Europa in quanto «caratterizzato da una forte an-tropizzazione e dalla continua stratificazione tra modificazioni

culturali apportate dall’uomo e matrice ambientale, su cui pre-vale e s’identifica il profilo cul-turale del paesaggio del nostro Paese»

Non è convincente e meri-terebbe un approfondimento: mi limito a chiedere per quali ragioni, considerato che si am-mette il valore della continua stratificazione {per effetto} di modifiche culturali apportate dall’uomo (quindi dinamiche) si escludano le modifiche culturali dell’uomo contemporaneo?

In conclusione, ritorno sul nodo cruciale:

La disciplina della tutela del nostro Paese è dato dalla som-ma della legge 1497 del 1939 e la legge Galasso, la 431 del 1985,che continua in modo ir-risolto l’originario impianto sto-ricistico crociano: il paesaggio culturale interpretato attraverso il riconoscimento soggettivo della bellezza delle singole lo-calità di elevato pregio.

Con la crescente attenzione alle emergenza/terra il paesag-gio naturale si definisce oggetti-vamene per i suoi valori d’inte-grità e di globalità.

Così la spinta impressa dal-la Convenzione Europea del Paesaggio pone l’accento sulla territorializzazione del tema paesaggio e in linea con le po-litiche ambientali delle racco-mandazioni elaborate a Rio de Janeiro sin dal 1992.

Indicative per il superamen-to della visione tradizionale an-cora improntata alla delimita-zione del campo delle bellezze naturali in chiave vedutistica e di protezione delle stesse come quadri naturali. Perché si trat-ta di affermare, a cominciare dall’area giuridica, la definizio-ne dei valori fondanti, di regole di condotta, di distribuzione di compiti e di funzioni sul pae-saggio.

D’altra parte«sul piano giuridico ciò che

conta e che rileva è la selezio-ne degli interessi, la loro com-parazione e l’individuazione di ciò di accordare preminenza, secondo una regola di giudizio che porti a sintesi interessi e valori che s’impongono meri-tevoli di particolare considera-zione e salvaguardia»

I riferimenti normativi an-che i più recenti ribadiscono l’impianto logico giuridico tra-dizionale che colloca il paesag-gio nell’ambito del patrimonio culturale nazionale in stretto raccordo tra la disciplina della tutela delle cose d’interesse sto-rico artistico e dei beni paesag-gistici, già contenuto nelle leggi Bottai del 1939.

A sostegno principe della conservazione di tale imposta-zione è posto l’articolo 9 della Costituzione. L’amministrazione del paesaggio è complessa, e tuttavia s’impone la necessità di ricercare forme e strumenti in-novativi di amministrazione che siano in grado di conciliare al limite lo stesso nucleo tradizio-nale di tutela statica e vincoli-stica, con l’ineludibile esigenza di dover avvalersi di metodi di pianificazione e di gestione del paesaggio per rafforzare i profili dinamici di progettazione del cambiamento.

Concettualmente continua a dilatarsi il significato della no-zione paesaggio e non soltanto nell’Unione Europea.

Si rivela sempre più con-vincente un inscindibile nesso culturale-naturalistico che por-ta a ri-considerare il paesaggio certo ancora in termini di dato fisico oggettivo ma secondo un suo «divenire», con un processo creativo che non è configurabi-le in realtà immobili, bensì con-tinuamente variabili anche nella percezione visiva.

Page 54: Numero 4/2009
Page 55: Numero 4/2009

55R E C E N S I O N I

In questo clima di imbarazzo eco-nomico, politico e sociale, il titolo di questo libro suona liberatorio. “Il nuovo arriva dal Sud” propone una visione as-solutamente inedita della nostra realtà, che siamo abituati, da (ormai non più) giovani meridionali, a riconoscere come la “munnezza region”, terra della corru-zione, della camorra, dell’irregolarità, del disimpegno, dell’amministrazione ineffi-ciente. Questa lettura inedita è possibile perché la politica economica di Meldo-lesi è homo non oeconomicus incluso. È, come si dice a pag. 28, “una politica economica della persona, dell’impresa, della comunità e del Paese”. Così, mentre noi siamo abituati a misurare lo sviluppo in termini di aumento del PIL, di risorse pubbliche a disposizione, Luca Meldo-lesi inverte la prospettiva; ci insegna a guardare alle risorse nascoste e sottou-tilizzate, ci racconta di casi di successo passati del tutto inosservati, considerati irrilevanti nel panorama regionale (come l’esperienza di innovazione della provin-cia di Benevento), perché non sempre le politiche generano il cambiamento desi-derato e, viceversa, questo è un caso di cambiamento che non è stato interamen-te frutto di politiche; ci riporta esempi di veri progetti di sviluppo, di quelli che so-litamente fanno paura ai valutatori, per-ché richiedono che loro mettano in gioco la loro dimensione discrezionale; afferma che qualità e quantità della spesa non ne-cessariamente sono antitetiche.

Meldolesi fornisce anche una nuova prospettiva di riflessione sui temi dell’im-migrazione (cfr. pag. 34), sul legame tra innovazione e solidarietà (cfr. capitolo 1); richiama la dimensione territoriale (“osso e polpa”, capitolo 1); suggerisce un nuo-vo ruolo degli Enti locali, che passa attra-verso il loro protagonismo e la creazio-ne di reti orizzontali tra amministrazioni nel Mezzogiorno (vari capitoli). Ancora, sviluppa i temi della valutazione e dei controlli nel settore della spesa pubbli-ca (capitolo 2); riporta la sua esperienza nelle politiche di emersione; fornisce una rilettura di Gomorra, conciliandola con una sua analisi del passato (capitolo 3); affronta il tema della contabilità pubbli-ca (capitolo 4); nell’ultimo capitolo, cerca infine di individuare soluzioni concrete per i problemi che ha diagnosticato, sem-pre però con l’atteggiamento del medico

sperimentale. Meldolesi dimostra, impli-citamente, anche che al Sud esiste po-tenzialmente quella classe dirigente che lo Stato centralistico oggi stenta a rico-noscere. Il capitolo che a me sta più a cuore, per ovvie ragioni, è quello deno-minato la “Logica del paravento” (capito-lo 2), nel quale si svelano tutti i trucchi e le distorsioni dell’azione pubblica. Il ca-pitolo si apre con alcuni concetti: da un lato, la deriva della valutazione ex ante, che diventa spesso una valutazione “fu-turibile”, realizzata unicamente sulle car-te (quasi sempre ben “impupazzate”…), completamente astratta e teorica; dall’al-tro, l’innocuità della valutazione ex post, innocuità perché poco tempestiva, poco utilizzata, perché effettuata quando “i buoi sono già usciti a pascolare”… Così, l’operazione della valutazione rischia di trasformarsi in un paravento: un mare di carte compilate, che servono solo a giustificare scelte sbagliate. Paravento è anche la scarsa comunicazione tra i cen-tri di decisione della spesa, tra program-mazione, valutazione ed attuazione, tra valutazione e controlli. La valutazione, per essere realmente utile, deve puntare su due dimensioni: - in primo luogo, il legame con il terri-

torio; Meldolesi, da questo punto di vista, propone gruppi di valutazione itineranti, esperti anche in indagini sul campo, con il compito di rein-dirizzare le azioni mentre queste si stanno svolgendo;

- in secondo luogo, quindi, egli sugge-risce di puntare su di una valutazio-ne in itinere, alla quale subordinare anche le tranche di finanziamenti da erogare. Questa prospettiva richiede valuta-

tori coraggiosi, “in grado di battersi per la verità e lo sviluppo” e non “scribac-chini timorosi, pavidi ed impacciati che (spesso) attingono in modo ipocrita alla retorica corrente delle lezioni apprese e scrivono (di solito) quello che conviene scrivere – magari ripetendo pappagal-lescamente le imbeccate di Bruxelles”. Qui Meldolesi richiama una qualità – il coraggio – che è sempre più importante nel processo di crescita della classe diri-gente meridionale: molti dei giovani che oggi avrebbero l’età e l’esperienza per potersi candidare come classe dirigen-te, sono schiacciati dal sistema politico-amministrativo ed antepongono i propri interessi, di sopravvivenza professiona-le, all’interesse pubblico. Tra questi, i più fragili sono quelli costretti ad un lungo esilio all’estero: al loro rientro (per i po-chi il cui rientro è stato possibile), non sanno più lavorare nel nostro contesto, su di essi pesa il sacrificio di essere an-dati fuori Italia, non per scelta ma per ne-cessità. È questa generazione di mezza età che, invece di proporsi come nuova classe dirigente, rinuncia e diventa pas-sivamente critica; magari è anche impe-gnata sul difficile piano della costruzione familiare e questo facilita il disimpegno

sul piano pubblico e la disgregazione so-ciale prevalente. Anche su chi è abitua-to all’impegno politico, pesa il fatto che la stessa politica appare oggi un luogo di disgregazione più che di aggregazio-ne. Riesce difficile a questa generazio-ne, che è la nostra, lottare. Alcuni lotta-no in nome di un interesse politico ma, solo in pochi casi, questo coincide con l’interesse pubblico generale. È una ge-nerazione, dunque, che ha perso l’atti-tudine al coraggio. Sono sicura che Luca Meldolesi ha in mente, quando pensa al coraggio, ad esempi come quello di Eu-genio Colorni, il filosofo antifascista a lui così caro, che ha pagato con il carcere e con la vita per i suoi ideali di libertà. Gli esempi del passato sono in questo senso importanti: possono liberare energie na-scoste, attivare una percezione diversa della realtà, creare margini per un cam-biamento possibile.

Personalmente, ho avuto la fortuna di imbattermi nel mestiere del valutatore, che implica sempre un’attenzione verso l’utilizzo corretto delle risorse pubbli-che e quindi verso l’interesse pubblico. È proprio sulla base delle mia esperienza professionale che mi ritrovo con Meldo-lesi sull’importanza di utilizzare sempre più percorsi di valutazione in itinere che trovano, nel nuovo ciclo dei fondi strut-turali, un maggiore favore. Nel vecchio ciclo di fondi strutturali, la valutazione appariva, infatti, con forti elementi di ri-gidità sia temporale, sia da un punto di vista dell’evaluando. La valutazione, in altri termini, è stata percepita come un giudizio formulato sulla programmazio-ne e sull’attuazione, ma sempre slegata da questi processi; quindi, realizzata in tempi non opportuni, comunicata poco e male, conflittuale quando perveniva ad esiti negativi. Nel nuovo ciclo di fon-di strutturali si possono, invece, costru-ire valutazioni che siano più al servizio di chi programma e di chi attua, con tempi più flessibili, con un oggetto non preordinato ma che può essere scelto di volta in volta a seconda delle esigenze dell’amministrazione. Per la valutazione, e quindi, per l’interesse pubblico, que-sta è una grande opportunità. Trovo, poi, sorprendente la descrizione del funzio-namento della pubblica amministrazione italiana: quella di Meldolesi è una lettu-ra di una lucidità disarmante, praticata

Il nuovo arriva dal Sud. Una politica economica per il federalismo

Luca Meldolesi Marsilio, 2009

Page 56: Numero 4/2009

56 R E C E N S I O N I

però, sempre, con il metodo dell’affet-to. L’homo administrativus che egli trat-teggia è quello con l’atteggiamento da ultimo anello di una catena, nella quale non prende decisioni e dalla quale deve tutelarsi per evitare di essere coinvolto nelle conseguenze di tali decisioni. “Il funzionario di turno – descrive l’Autore a pag. 99 – si inserisce generalmente in una catena verticale di comando. An-che per compiacere chi lo precede, egli si tutela rispetto a chi lo segue: un pro-cedimento che in un sistema autoritario (anzi, dittatoriale, mi ha detto un’addetta ai lavori) produce un gigantesco scarica-barile di responsabilità finali. Né si può pretendere che l’ultimo anello della ca-tena provveda per tutti: semplicemente si sentirà piccolo piccolo, esecutore inerme di decisioni prese da incommensurabili forze sovrastanti.” Non deve quindi stu-pire che la logica dell’intervento pub-blico che Meldolesi propone sia invece quella di privilegiare interventi automa-tici e indiretti, senza discrezionalità nel-la selezione dei destinatari, perché tutti quelli che si trovano in una determinata condizione ne beneficiano, bypassan-do quindi il meccanismo clientelare. Quando ciò non è possibile, suggerisce l’Autore, occorre che il comportamento dell’amministrazione sia responsabile e valutante e riesca a coinvolgere il bene-ficiario. La prospettiva di Meldolesi non implica separazioni tra Nord, Centro e Sud; viene infatti diagnosticata nel libro un’interessante ed inedita disgregazione morale e politico-sociale che si riverbera sulla qualità del servizio pubblico e che riguarda, in realtà, l’intero Paese. Un’al-tra intuizione è nell’analisi dell’illusorie-tà del “ricettario” che, di volta in volta, viene messo in campo per la risoluzione dei mali del territorio: dalla ricetta dei patti territoriali e dei contratti a quella attuale dei grandi progetti e del parte-nariato, quest’ultimo fonte spesso di reti esclusive, a capitale sociale negativo. Un capitolo molto emozionante, poi, è quel-lo sul “progettone napoletano” dove, in “caccia all’errore”, Luca Meldolesi ritor-na su alcune indagini svolte in Campania alla fine degli anni ’90, riconoscendo di aver sottovalutato il fenomeno camorri-stico, più tardi così ben documentato da Saviano. In questa rilettura, egli rimette insieme il proprio impegno sull’econo-

mia sommersa e le sue molteplici sfac-cettature, l’imprenditoria locale nei set-tori moda, con le merci cinesi, lo sversa-mento dei rifiuti tossici, i rapporti con il Centro Nord. La prospettiva con la qua-le questa operazione viene effettuata è delicata; si avverte nell’Autore quasi un dolore latente, non tanto per aver trala-sciato qualcosa nell’analisi e nelle poli-tiche di emersione, così come lui stesso afferma, ma, forse, per non aver intravi-sto qualcosa di cui ha dovuto assumer-si poi la responsabilità Saviano; un rim-pianto per non aver anticipato, guidato, protetto in un qualche modo quello che avrebbe potuto essere un suo allievo. In realtà, Meldolesi è vicino come metodo a Saviano: il suo amore per la conoscen-za, il coraggio, la capacità di dire come realmente stanno le cose. Ma Meldole-si ha il vantaggio, oltre di qualche anno in più e di esperienza, di adottare una prospettiva di politica economica che si pone in maniera più ampia. Per questo vantaggio, si avverte quasi nell’Autore come un senso di colpa, per non aver-lo potuto mettere a servizio del “giova-ne” Saviano.

Il capitolo rivelatorio è però quello degli “anelli mancanti”. Il primo anello è l’utilizzo corretto del patrimonio cono-scitivo esistente per la presa di decisio-ne; la Commissione europea sollecita la raccolta di informazioni ma queste sol-lecitazioni sono interpretate solo come un incentivo a produrre indagini, senza tener conto che spesso basterebbe in-vece la messa a sistema delle indagini esistenti, magari aggiornate e comple-tate con indagini sul campo anche ve-loci. Il secondo anello è la necessità di porre attenzione alle diagnosi operate con le statistiche sull’occupazione e di integrarle con gli studi sul sommerso e l’evasione. È importante ricordare che molte delle politiche economiche sono orientate proprio da questi dati sull’oc-cupazione per fasce di età, per sesso, per condizione femminile, per durata della condizione occupazionale.

Il terzo anello è quello della learning organization; questo riferimento a come migliorare il funzionamento della pubbli-ca amministrazione ed i rapporti con la politica è importante. Si tratta di puntare sulle reti positive, magari orizzontali, tra amministrazioni locali e sulle reti interne

alle amministrazioni, nella logica dell’in-teresse pubblico. È un lavoro che richie-de un grande coraggio, soprattutto per chi si trova nei luoghi in cui si decide, ma fondamentale.

Altro anello è quello che suggerisce di puntare su interventi automatici (senza selezione) e indiretti (senza erogazione di denaro), oppure – all’opposto – su in-terventi responsabili (valutanti, ma dove il valutatore riesce davvero a fare il suo mestiere) e coinvolgenti (il beneficiario deve sentirsi coinvolto, assistito anche, ma nello stesso tempo in un rapporto proficuo di osservazione dei risultati an-che positivi da parte dell’amministrazio-ne che lo aiuta).

Un altro anello mancante è come svolgere le attività di valutazione. Mel-dolesi sa bene che la valutazione è un mestiere legato alla tutela dell’interesse pubblico, sa che i valutatori sono spesso schiacciati in macchine politico-ammini-strative e in logiche di precarietà all’in-terno delle quali troppo spesso sono co-stretti a scegliere tra l’interesse pubblico e l’interesse privato (la prosecuzione del-la loro attività professionale), con man-dati “notarili” più che decisionali, slegati dalla conoscenza vera della realtà. Per superare questa situazione, Meldolesi propone gruppi di valutazione itineran-ti; non basta neanche che si cominci a mandare sul campo i valutatori rinchiusi troppo a lungo negli uffici; anche que-sto rischia, infatti, di essere l’ennesimo paravento. Si tratta invece di sviluppare nel valutatore una dimensione di cono-scenza del territorio e delle politiche at-tuate e di renderlo un acquis, che deve definitivamente trovare spazio nella sua cassetta degli attrezzi. Solo così, attra-verso lo “sporcarsi le scarpe” e la sco-perta degli effetti reali delle politiche (e non degli impatti, quasi mai misurabili, né delle realizzazioni, sempre distorte), può sollecitarsi l’apprendimento nella va-lutazione, il raccordo col territorio e lo spirito a ragionare in termini di interesse pubblico. Occorrerebbe poi, aggiungo, predisporre luoghi e strumenti di comu-nicazione degli esiti delle attività di va-lutazione. Lascio al lettore la scoperta degli altri “anelli mancanti” e anche dei limiti dell’analisi dell’Autore, sui quali in una prospettiva volontariamente ottimi-stica, non mi soffermo. Direi solo che

le soluzioni individuate nell’analisi sono talvolta di difficile applicazione e spes-so si scontrano con una serie di limiti propri del sistema politico-istituzionale e con un difficile contesto economico-sociale. Mi preme di più, in conclusione, oltre che presentare il suo libro, spendere qualche parola sull’Autore che, per quan-to abbia lavorato tanto nel nostro Paese è ancora avvolto, in alcuni contesti della nostra regione, da alcune false credenze, proprio perché il suo modo di compor-tarsi genera un meccanismo di dissonan-za cognitiva. Meldolesi è il professore che non ha avuto l’obiettivo di costituire società ma di aiutare i giovani meritevoli; è colui che antepone l’interesse pubbli-co a quello privato e che ha insegnato a molte generazioni di giovani studenti la passione per l’interesse pubblico; che non ha mai parlato di pari opportunità perché era impegnato a farle; che è capa-ce di diagnosi apparentemente critiche, ma che offre sempre una via d’uscita (vedi gli “anelli mancanti”); che da non campano – o meglio, direi, da “campano acquisito” – ha avuto più a cuore i giova-ni meridionali di chiunque altro; che non ha mai accettato le raccomandazioni, ma riconosce unicamente il merito e pratica il metodo dell’affetto.

È dunque un vero peccato che il corso di politica economica di Luca Meldolesi non ci sarà più. Penso a quei trenta, venti, forse dieci, ma anche un solo giovane campano che avrebbe po-tuto sperimentare quel percorso di cre-scita personale, che noi allievi abbia-mo vissuto all’epoca, soltanto grazie al suo corso. Credo che le Università, così preoccupate attualmente di recuperare fondi, debbano anche preoccuparsi che questi percorsi e queste opportunità non vengano a mancare per i loro giovani. Mi auguro che troveremo soluzioni per continuare a disseminare e raccogliere i frutti dell’insegnamento complessivo di Meldolesi; che nella società civile e nelle istituzioni si creino reti spontanee in cui la logica dello sviluppo prevale sulle altre, votate spesso soltanto al par-ticolarismo.

Valeria AnielloNucleo di Valutazione

e Verifica Investimenti PubbliciRegione Campania

Page 57: Numero 4/2009

57R E C E N S I O N IHo fatto male, stimolato dalla pre-

fazione di Mariano D’Antonio, a legge-re tutto questo lavoro di Achille Flora e di non tentare di fare una recensione come normalmente si fa? Ovvero leg-gere l’introduzione e le conclusioni, catturare attraverso l’indice quegli ar-gomenti maggiormente dominati da chi scrive e stendere il commento critico. No! Ho fatto bene e ho utilmente spe-so il mio tempo anche se sono confuso perché non so da che parte prendere il toro per le corna. Tutti gli argomenti trattati nel libro mi coinvolgono e mi convincono!

Ciò non soltanto sul versante ac-cademico, ma anche su quello politico relativo al dibattito sullo sviluppo eco-nomico. Per onestà intellettuale devo, però, ammettere che, tra chi scrive e l’autore, esiste un comune denominato-re culturale per l’originaria appartenen-za a quel ceppo formativo di Economi-sti Meridionali(sti) cresciuto tra gli anni ’60 ed ’80 del secolo scorso presso il Centro di Specializzazione e di Ricerca Economico-Agraria per il Mezzogiorno fondato da Manlio Rossi-Doria presso la Facoltà di Agraria di Portici. Una fucina teorica, di cui oggi si avverte in forma drammatica la mancanza e che ha insegnato a pensare nel e su il Mezzogiorno non delegando tale fun-zione, come ora, a quei consacrati (ma da chi?) luoghi del sapere (ma quale sapere?) lontanissimi dal Mezzogiorno spazialmente e culturalmente.

Il libro in realtà non discute sul, ma dal, Mezzogiorno, che, quasi mai men-zionato, continua a fare i conti col pro-blema dello sviluppo economico sin dall’epoca dello Stato Unitario. Il libro espone un cambio di paradigma – nelle modalità di attrezzare il ragionamen-to, d’elaborare la teoria e di proporre la riflessione – ben più importante di quello teorico che l’autore sollecita nelle pagine del testo per contribuire «all’avanzamento della frontiera del-la conoscenza» sul tema dello svilup-po economico. Stando così le cose la riflessione che viene proposta è cer-tamente peculiare e degna dei meriti che Mariano D’Antonio gli accorda nella prefazione. Va però sottolineato che sulle questioni nodali – Istituzioni, Capitale Sociale e Territorio – dello svi-luppo nella nostra epoca, l’approccio adottato recupera, pur solo attraverso una «messa in ordine della letteratu-

ra accumulatasi negli ultimi decenni», l’importanza della contestualizzazione storica (evoluzione delle relazioni uo-mo-natura e uomo-società nel tempo e nello spazio) negli studi di Economia. Una dimensione oramai scomparsa da tali studi per attardarsi e concentrarsi su spesso indecifrabili descrizioni grafiche e su avanzati esercizi(etti?) di statisti-ca ed econometria, reputati tanto più avanzati quanto più le ipotesi di parten-za ed i dati costruiti sono distanti dalla realtà (arrogante e dominante sedicen-tismo scientifico). Una scomparsa che rafforza quel riduzionismo culturale ed alimenta quel «rigor mortis» con rica-dute nefaste sulle relazioni tra ricerca e formazione e tra analisi economica e politiche di sviluppo.

È proprio su questi due ultimi ver-santi che il libro di Achille Flora, in continuità con un lavoro di riflessio-ne scientifica avviato da molto tem-po, pone significativamente un argi-ne al declino prima richiamato. Infatti sul versante accademico la chiarezza espositiva e la facile accessibilità, per l’esperienza maturata nella didatti-ca universitaria (parti del libro sono adottate nel mio corso in Economia e Gestione dell’Impresa e del Territorio), forniscono uno strumento particolar-mente adeguato per studiare l’econo-mia dello sviluppo. Inoltre andando sul terreno della ricerca teorica, va detto che l’approccio adottato da Achille Flora è quello che maggiormente in-teragisce, essendo fortemente inter-disciplinare e per niente riduzionista,

con la BioEconomia (Nuova Economia della Vita inclusiva dell’Economia Am-bientale) che pone al centro della sua elaborazione gli strumenti analitici per la riconversione ecologica della produ-zione e del consumo.

La BioEconomia, nei fatti, concepi-sce lo sviluppo né come crescita eco-nomica (pensiero economico standard) e né tanto meno come decrescita con-viviale (Latouche e la negazione della scienza economica), ma come punto più alto dell’equilibrio tra territorio e produzione. Si tratta di una di quelle nuove frontiere della ricerca che Achil-le Flora sollecita nelle considerazioni conclusive del suo libro.

Una frontiera di ricerca, questa ultima, di cui ha una forte necessità il Mezzogiorno dove si registra l’esauri-mento, se non il fallimento, delle di-verse culture economiche che hanno dominato e continuano a dominare, a partire da quelle più accettate nel centro-sinistra. Nei fatti gli inni (di Fo-scoliana memoria) apparentemente difformi di Viesti, Rossi e Barca, come le tre Grazie di Canova (non del detto napoletano), cantano sul Mezzogior-no, ma lo fanno da un’unica piattafor-ma scultorea pensata e creata altrove. E ciò ci ha condotto ad un Mezzogior-no Tradito (Viesti) anche da chi invoca il tradimento da parte di altri.

L’insieme di considerazioni, tra cui qualcuna provocatoria, sin qui svolte entrano poco nel merito del libro. Ma su questo terreno sono state esaustive le altre recensioni. Lo scopo in realtà di

tale scritto è quello di fornire dei consi-gli per l’acquisto e la lettura di questo libro di cui l’accademia ed “il dibattito politico” ne hanno necessità.

È una riflessione questa di Achille Flora che, in conclusione, può rappre-sentare un nuovo punto di partenza per rilanciare il dibattito su di una “Que-stione Euromeridionale”, concepita da Andrea Geremicca più di cinque anni fa sulle colonne di questa rivista, e che oggi assume un significato par-ticolare nel paradosso competitivo tra “questione meridionale” e “questione settentrionale” che da il segno del de-clino italiano.

Sergio Vellante Ordinario di Economia

e Gestione dell’Impresae del Territorio

c/o Facoltà d’IngegneriaSeconda Università di Napoli

Lo sviluppo economico I fattori immateriali, nuove frontiere della ricerca

Achille FloraFranco Angeli, 2008

Page 58: Numero 4/2009

58 R E C E N S I O N I

Le molte e significative esperienze realizzate in Campania nella lotta con-tro la criminalità organizzata, alcune delle quali collegate anche fra di loro a livello nazionale, frutto della sinergia fra le forze sociali, la piccola imprendi-toria e le istituzioni, trovano visibilità e sistemazione nel volume scritto da Pa-squale Iorio che le ha poste tutte insie-me all’attenzione del lettore interessato a capire il fenomeno definibile di “resi-stenza endogena” alla mala società. La Campania, alla ribalta delle cronache giudiziarie per lo stigma delinquenzia-le, ha espressso, nel corso degli anni, valide iniziative contro l’usura, il racket della prostituzione bianca e nera, il piz-zo, il caporalato, il mercato della droga, la movimentazione illegale della terra, la devastazione del territorio per abu-sivismo edilizio, ecc., tuttavia, il recu-pero di spazi di normalità richiede un costante allertamento civile mentre la memoria dei martiri comporta lo schie-rarsi con scelte nette (p.19), perché nel-la società italiana convivono plurime società coma la camorra, la mafia, la ’ndrangheta, la sacra corona unita, ma anche quella della massoneria segreta, dei colletti bianchi, delle corporazioni, ecc.La cronaca nera, purtroppo, men-tre insegue le apicalità del fenomeno delinquenziale nelle sue varie forme cruente, non sempre si mostra atten-ta e solerte nell’indicare con continu-ità quelle pratiche che si oppongono validamente alla società illegale e che appaiono in tal modo isolate, deconte-stualizzate e legate esclusivamente ad eventi sporadici o a commemorazioni di personalità autorevoli nel campo del-la lotta e del contrasto alla criminalità come fossero slegate da una rete più ampia di solidarietà, di opposizione e di costruzione della speranza. Il volu-me di Iorio, invece, sollecita ad aprire una riflessione articolata e approfondi-ta sulle modalità attraverso le quali la società civile campana è impegnata, quotidianamente, ad opporre resisten-za al degrado politico e sociocultura-le, all’acquiescenza di molte delle isti-tuzioni come anche all’assenza di un piano imprenditoriale forte capace di sostenere con slancio una reale alter-nativa civile ed economica. In un qual-che modo il contributo di Iorio va nella direzione di indicare esperienze esem-plari, pedagogicamente significative per la riscrittura di una storia che ha a che

vedere anche con quell’educazione de-gli adulti che molto ha contribuito, negli anni del primo e secondo dopoguerra, alla rigenerazione di un tessuto sociale ormai disgregato dalla guerra, dal mer-cato nero, dalla violenza patita. Non è un caso se, dopo alcuni libri denuncia, “Il Sud che resiste” tenti un’operazione forte, quella di mostrare il volto di una società – quella campana – che fa del riscatto un impegno di cittadinanza, di democrazia e di legalità allo scopo di mostrare che la lotta alla criminalità non passa solo attraverso la memoria di figure autorevoli, anche, ma soprat-tutto attraverso la costruzione di una rete stabile di rapporti trasparenti alla quale quelle figure danno motivazio-ne e orgoglio di appartenenza ideale e valoriale. Il contrasto, così, alla società violenta passa attraverso il coraggio di piccoli uomini e donne il cui scatto di dignità costituisce la risposta alla pro-vocazione di quanti malversano il Sud dopo averlo storicamente depredato e violato, alle continue sfide che la ca-morra lancia giornaliermente, all’igno-ranza di quanti pensano che la camorra e la mafia o la sacra corona unita siano un fenomeno che riguardi solamente le terre devastate del Sud e non anche il Nord d’Italia e così pure l’Europa e il mondo intero, perché la cultura della violenza è “glocale”. Se da “Gomorra” in poi l’Italia e il mondo occidentale hanno dovuto prendere atto con trau-maticità – se ancora ce ne fosse stato bisogno – di ciò che la società illegale organizzata rappresenti per i suoi in-

trecci e interessi politici ed affaristici a livello locale e globale, da “Il Sud che resiste” occorre prendere atto che la schiera dei resistenti non può restare isolata perché l’isolamento è il segnale di via libera alle organizzazioni crimi-nali e la fine delle esperienze di con-trasto ad esse, come sanno i familiari di quanti sono stati lasciati soli dalle istitu-zioni. Da questo punto di vista il libro di Iorio è più che una rappresentazione di “buone pratiche”, è per certi versi la dichiarazione di come deve essere con-dotta una guerra già quotidianamente guerreggiata nel silenzio e nell’olocau-sto di quanti cadono fra l’ignavia dei molti e l’egoismo dei più, ma è anche la rappresentazione di persone che non rinunciano, fra le mille difficoltà, a co-struire una società civile degna di que-sto nome. Magistrati, preti, suore, sinda-calisti, imprenditori, docenti universitari e non, educatori, giornalisti impegnati in prima linea hanno bisogno, per le loro battaglie quotidiane, di ricevere solidarietà esplicita da parte della col-lettività, ed hanno anche e soprattutto bisogno della presenza costante di isti-tuzioni che sappiano vigilare e offrire la certezza della lotta costante all’illegali-tà e di uomini politici che non cedano al compromesso rendendosi complici di malcelati interessi.

È fuori discussione, però, che la resistenza che ricostruisce non possa avere luogo senza che gli intellettua-li diano indicazioni di alto senso civi-co e valoriale, che gli insegnanti siano impegnati nella difficile scommessa

dell’educazione e dell’istruzione, che i sindacalisti lottino contro lo sfrutta-mento in ogni luogo e circostanza, che i politici, gli amministratori e i decisori pubblici attuino le leggi e promuovano progetti per la “ripresa” dello sviluppo, che i magistrati, gli avvocati e le forze dell’ordine siano impegnati in una bat-taglia senza frontiere contro l’illegalità e il sopruso, che i giornalisti svolgano il lavoro di inchiesta, che gli impren-ditori siano impegnati in un’economia produttiva coerente con le risorse del territorio e la dignità dell’uomo, che gli operatori (preti, suore, laici) organizzino la resistenza attiva sostenendo le scelte di libertà da ogni forma di oppressione e di “regime culturale”, regime che, di quella oppressione, troppo spesso ne è direttamente o indirettamente la vestale perché, come sostiene il vescovo Noga-ro, “laddove c’è un radicamento della criminalità organizzata, lì perdono forza e consistenza il futuro, la possibilità di crescita e di riscatto. Dove il territorio è violentato dagli interessi mafiosi inevita-bilmente viene meno la qualità della vita collettiva e viene messo in crisi il tessuto economico e produttivo” (p.137).

Per tutti questi motivi, “Il Sud che resiste” può essere un progetto, un’idea guida, ma accanto all’idea oc-corrono fatti e uomini che vadano ol-tre l’interesse immediato e particolare e sappiano pensare al bene comune (p.13) come a un valore della società, a un impegno transgenerazionale, ad un ideale per il quale, nel corso della storia campana, dell’Italia e del mondo intero in molti hanno lottato e conti-nuano a lottare per esso in quanto su-periore ad ogni interesse individuali-stico, di casta e/o “di famiglia”.

“Occorre – scrive Iorio – uno scat-to di tutta la società civile, delle forze politiche e sociali, del mondo del sa-pere e dell’associazionismo per una forte mobilitazione” (p.33) e, tuttavia, occorre snidare ed emarginare anche quanti dietro la facciata del perbeni-smo intellettuale, accademico, politi-co, amministrativo, sociale, ecclesiale coltivano, attivamente o passivamente, il proprio orticello contribuendo a in-cistare la società con il cancro di una cultura di tipo camorristico e mafioso che uccide le intelligenze, l’etica delle relazioni, il senso civico, la speranza e la possibilità di una società legale.

Bruno Schettini

Il Sud che resistePasquale Iorio

Ediesse,Roma, 2009

Page 59: Numero 4/2009

Lavoriamo per ampliare i tuoi orizzonti.Camere di commercio d’Italia per l’internazionalizzazione delle imprese.Aiutare le imprese italiane a portare i loro prodotti sui mercati mondiali, questo è l’impegno delle Cameredi commercio. Uno sforzo sostenuto da molteplici iniziative: dall’organizzazione di missioni commercialiall’accesso a iniziative e programmi comunitari, dalla realizzazione di accordi internazionali all’assistenzaper l’attrazione di investimenti, fino al portale www.globus.camcom.it. Azioni realizzate anche grazie alSistema camerale italiano all’estero. Tante opportunità per un Made in Italy senza confini.

www.unioncamere.itwww.cameradicommercio.it

exe UC 205x250-mezzogiorno europa-internaz 3-06-2009 11:39 Pagina 1

Page 60: Numero 4/2009

60

Euronotedi Andrea Pierucci

Il quadro polItIco del nuovo parlamento europeo

L’attualità istituzionale è chiaramente caratterizzata dai seguiti delle elezioni europee. Il risultato è stato relativa-mente negativo dal punto di vista della partecipazione dei cittadini in alcuni Stati, ma, globalmente, rappresenta un risultato positivo e l’avvio di una nuova legisla-tura europea. Il nuovo Parla-mento presenta una struttura complessa, ma alcune situa-zioni ci consentono di fare un po’ il punto.

In primo luogo, esiste un’op-posizione di destra euroscettica relativamente forte (Conservatori e riformisti, Europa della Libertà e della Democrazia, altri sciolti), soprattutto grazie, si fa per dire, al crollo elettorale dei laburisti britannici ed ai partiti euroscettici di Polonia e Repubblica Ceca. Ma va bene così, almeno c’è una situazione ben chiara e definita, che assimila, per l’essenziale antieuropei e “reazio-nari” o conservatori (Spinelli docet). In questo senso, la creazione d’un gruppo conservatore in questa galassia serve a chiarire la posizione del PPE che precedentemente inglobava i conservatori britannici.

A sinistra, oltre al gruppo della sinistra unitaria, tristemente senza italiani, ci sono i Verdi, politicamente “salvi” grazie a quel politico di razza che è Daniel Cohn Bendit e che in Francia è riuscito ad avere un successo elettorale relativamente strepitoso.

Al centro, se così si può dire, si confermano i PPE, i socialisti col loro nuovo nome di Gruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e Democratici al Parlamento Europeo (S&D), ed i Liberal-democra-tici (ALDE). Lo scenario rende più forte ed evidente la necessità di un accordo d’acciaio fra questi tre gruppi che, insieme, hanno una maggioranza confortevole, ma che ciascuno per conto proprio non può sperare di “governare” il Parlamento, neanche facendo alleanze sospette (per i PPE) con l’estrema destra antieuropea.

Così si ripete quello che su queste pagine ho sempre sostenuto e cioè che il sistema europeo (ma è la scoperta dell’acqua tiepida – solo che al momento delle elezioni i nostri partiti cercano di nasconder-celo) si fonda da sempre sull’accordo PPE socialisti – i liberali essen-do un importante terzo, neanche tanto incomodo.

Puntualmente il polacco Jerzy BUZEK è stato eletto con 555 voti su 713 espressi (su un totale di 736 deputati) e col concorso dei tre gruppi centrali e dei conservatori, che forse temono di sganciarsi de-finitivamente dal terzetto centrale.

Un accordo tecnico, si capisce! dicono alcuni commentatori po-litici. Spiegate a Buttiglione che nel 2004 è stato vittima di un accor-do tecnico! Ci torneremo.

GlI ItalIanI

Nonostante tutto, escono abba-stanza bene dalla ripartizione degli incarichi. Sfumata la presidenza per Mario Mauro (ma chi ha pensato di proporlo come candidato del PPE dopo la decisione di quest’ultimo di

scegliere Buzek?), gli Italiani hanno avuto due vicepresidenze del Parlamen-

to (Pittella e Angelilli) cinque presiden-ze di commissione parlamentare (Gabrie-

le Albertini – Pdl/PPE – agli esteri, Luigi De Magistris (IdV/ALDE) al controllo di bilancio,

Carlo Casini -UDC/PPE- alla costituzionale, Er-minia Mazzoni – Pdl/PPE- alle petizioni e Paolo De

Castro – PD/S&D – all’agricoltura). Da notare il suc-cesso personale di Gianni Pittella che è diventato primo

vicepresidente del Parlamento.

Il nuovo parlamentoe la nuova commIssIone:una maGGIoranza polItIca?

Uno dei grandi compiti del nuovo Parlamento è quello di espri-mere una decisione sulla nomina del nuovo Presidente della Commis-sione e, successivamente, sull’intero esecutivo. La decisione non è poi così semplice, d’altra parte, l’atteggiamento un po’ strano degli Stati membri non ha certo favorito il lavoro parlamentare.

Si sa ormai da un po’ di tempo che il presidente uscente Barroso è il candidato preferito dai governi per il prossimo mandato. Voluto dal gruppo PPE, che ha avuto il maggior numero di voti alle elezioni, Barroso ha ricevuto molte critiche dalla sinistra in particolare, ma sen-za mai essere effettivamente messo in discussione – lo stesso Pittella, che lo ha recentemente definito “abulico” non ha messo in causa la sua candidatura. Tuttavia i gruppi politici del Parlamento, S&D, ALDE e PPE, intendono rafforzare la propria presa sul Presidente e gli chie-dono un preciso programma politico. Questo è un primo problema, apparentemente ovvio, ma sostanzialmente dotato di notevoli poten-zialità. Il secondo è il riserbo degli Stati membri che al Consiglio euro-peo di giugno hanno chiesto al Parlamento un voto per un candidato che, formalmente, non avevano designato. Il Parlamento ha chiesto al Consiglio di prendere una formale decisione, cosa che il Consiglio è stato costretto a fare per procedura scritta. Ma la decisione prevista per luglio, scivolava in questo modo a settembre, favorendo le criti-che poco entusiaste nei confronti di Barroso.

Il voto di settembre non dovrebbe riservare sorprese apparenti, ma, molto probabilmente comporterà una svolta nelle relazioni fra Parlamento e Commissione e nel funzionamento dello stesso Parla-mento. Dopo l’accordo cd tecnico sull’elezione del Presidente del Parlamento, la richiesta da parte dei tre gruppi di un impegno pro-grammatico del Presidente della Commissione designato sottintende

Page 61: Numero 4/2009

61certo la domanda di una Presidenza più dinamica di quella uscente specie nell’affrontare la crisi economica e sociale e più “europea”, ma anche la volontà di stabilire il legame Parlamento/Commissione su una base politica.

In questo Parlamento si tratta, in sostanza, di creare una maggio-ranza politica dei tre gruppi contro gli euroscettici di destra e di si-nistra. Non è cosa da poco, poiché finora il Parlamento si è basato sull’assenza formale di una tale maggioranza, seguendo coerentemen-te le disposizioni del Trattato che attribuiscono al Parlamento solo un voto di approvazione dell’esecutivo e, in particolare, della sua com-posizione e del suo Presidente. Questa situazione nuova, che capo-volge lo scenario della creazione della prima Commissione Barroso, è resa possibile dall’uscita dei conservatori britannici dal PPE, il che ne rafforza appunto la coerenza europeista, dall’elezione di un cer-to numero di deputati di destra assai poco europei, dalla presenza di una sinistra poco propositiva (lo stesso presidente del gruppo di sini-stra Wurtz non aveva partecipato alle elezioni in polemica con i suoi compagni), di un gruppo verde forte che sembra rappresentare l’op-portuna opposizione europea. Resta la domanda se una tale svolta sia effettivamente possibile e in che modo possa condizionare i proces-si europei. Inoltre, vorrà la Commissione legarsi mani e piedi ad una maggioranza parlamentare che, per definizione, ne limiterà la libertà di manovra? D’altra parte una maggioranza parlamentare omogenea e definita potrebbe permettere alla Commissione un’azione più rapi-da ed incisiva? Dovremo seguire la questione con attenzione. Il voto del 16 settembre potrebbe essere apparentemente di routine, ma con-cretamente rappresentare una svolta istituzionale.

le sfIde

La questione istituzionale delineata non sarà comunque il solo motore della riorganizzazione delle relazioni interistituzionali dopo le elezioni. Esistono delle sfide alle quali bisognerà rispondere. La prima è certo quella della crisi, che, peraltro, sarà oggetto del lavoro di una commissione parlamentare temporanea. Il grande timore riguarda la crisi sociale che è dietro l’angolo. Se è vero che molte banche sono ormai in grado di fare profitti (o di distribuire fra azionisti e dirigenti i soldi del contribuente messi gentilmente a disposizione dai governi?), è anche vero che l’economia reale non fa che accumulare “record” negativi quanto alla produzione ed all’occupazione. D’altra parte le famose regole che dovrebbero impedire una nuova bolla truffaldino-speculativa restano confinate nel cervello di economisti e giuristi che dovrebbero proporle o nei cassetti di governi attentissimi a non dispia-cere agli amici banchieri ed ai brillanti raiders – il G8 insegna.

L’altra grande questione riguarda l’auspicata entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Se questo accade, come pare probabile, si apri-ranno una serie di capitoli istituzionali e non. Certamente il più me-diatico riguarderà la nomina del presidente del Consiglio europeo e quella del “ministro degli esteri” (anche se non si chiama così) e vice presidente della Commissione, nonché la definizione dell’equilibrio dei poteri fra questi due nuovi personaggi ed il Presidente della Com-missione e del rapporto con i poteri parlamentari.

Altri riguardano la democrazia partecipativa – rispetto alla quale si gioca, per esempio, il nuovo ruolo del Comitato economico e so-

ciale europeo – il ruolo europeo delle Regioni e dei Parlamenti na-zionali ed il relativo adattamento delle costituzioni nazionali o della loro applicazione, la questione dei diritti fondamentali, stabiliti nel-la Carta che diventerà parte del Trattato e che costituisce un’innova-zione sostanziale molto rilevante. E, infine, c’è la politica estera. Si tratta di una sfida assai complessa che riunisce elementi ben noti (la questione dell’approvvigionamento delle materie prime energetiche, la questione mediterranea) o altri che contengono importanti novità. Si pensi all’elezione di Obama, tanto auspicata da tutti, ché di Bush non se ne poteva più. Essa comporta almeno tre (possibili) sconvolgi-menti di primo piano. Il primo è quello relativo alla politica ambien-tale – prima erano gli Stati Uniti che frenavano e ora sembra che sia l’Europa a frenare, o perlomeno sembra che l’Europa ci vada con i piedi di piombo.

Il secondo riguarda il Medio Oriente, con una politica america-na meno sottomessa ai desiderata dello Stato di Israele, anche per il mutato atteggiamento degli Ebrei americani.

Il terzo (ma se ne potrebbero citare altri come l’Afghanistan o l’Iran) riguarda le relazioni con la Cina, che sono un problema di struttura di fondo della società internazionale. Il G2 USA/Cina sarà anche bel-lissimo, nobile (?) ed economicamente brillante, ma come Europa ci mette ai margini della realtà internazionale.

Insomma, con l’America di Bush bastava dire qualcosa di un po’ aperto e si era all’avanguardia nel mondo, ascoltati e rispettati da tut-ti, fieri di essere i migliori (mica tanto difficile). Con gli USA di Oba-ma rischiamo di trovarci sempre al traino; certo si tratta di un traino meno bellicoso e più ragionevole, ma pur sempre si crea una situa-zione di subordinazione. Non sarà facile per l’Europa far fronte rapi-damente a queste sfide, anche perché alcuni governanti si sentono superiori agli altri (chi per grandeur, chi per efficienza, chi per virilità), annunciano verità poco credibili – da noi la crisi non c’è, per esem-pio – danno risposte a metà per non pregiudicare qualche brillante e ahimè inutile ideuzza nazionale. La nuova struttura politica dovrà rispondere a queste sfide; speriamo che tutto compreso riesca ad es-sere più efficace e utile di quella attuale che, su questi temi, ha perso un bel po’ di terreno.

cI dIspIace un po’

Ritorniamo un secondo al Parlamento europeo. Rispetto ad un rinnovamento medio del 50%, gli italiani hanno riportato 51 deputati nuovi su 72, compresi veline, nani e ballerine. Purtroppo, però, dalla scena politica sono scomparsi alcuni personaggi di qualità. Per due di essi sono particolarmente dispiaciuto. La prima è Luisa Morganti-ni, una vera leader nel settore dello sviluppo e della questione pale-stinese, capace di equilibrare adeguatamente il “cuore” ed il rigore politico. La seconda è Monica Frassoni, vivace copresidente dei Ver-di, europeista convinta ed entusiasta in un Parlamento che, a volte, risulta più arido del deserto. Ma tant’è. Appartengono a forze politi-che che preferiscono uccidere il vicino piuttosto che vincere (anche se i verdi, per la verità non avevano da sé soli nessuna possibilità e si sono trovati un po’ incastrati), che hanno sostanzialmente scelto il settarismo rispetto alla politica: peccato.

Page 62: Numero 4/2009

cosa farai90%

cosa hai fattofinora 10%

©20

08 A

ccen

ture

. All

right

s re

serv

ed.

We know what it takes to be a Tiger.Un errore può capitare a tutti. Solo i fuoriclasse peròhanno la capacità di riprendersi subito e di evitare futurebattute d’arresto. Ecco uno dei risultati chiave dellanostra innovativa ricerca su oltre 500 tra le società dimaggior successo al mondo. Per approfondire i risultatidel nostro studio e conoscere la nostra esperienza con leimprese ad alte performance, visitate accenture.it/ricerche

Page 63: Numero 4/2009

Le librerie:

Feltrinelli Via S. Tommaso D’Aquino, 70 NAPOLI – Tf. 0815521436

Piazza dei Martiri – Via S. Caterina a Chiaia, 33 NAPOLI – Tf. 0812405411

Piazzetta Barracano, 3/5 SALERNO – Tf. 089253631

Largo Argentina, 5a/6a ROMA – Tf. 0668803248

Via Dante, 91/95 BARI – Tf. 0805219677

Via Maqueda, 395/399 PALERMO – Tf. 091587785

Librerie Guida Via Port’Alba, 20 – 23 NAPOLI – Tf. 081446377

Via Merliani, 118 NAPOLI – Tf. 0815560170

Via Caduti sul Lavoro, 41‑43 CASERTA – Tf. 0823351288

Corso Vittorio Emanuele, Galleria “La Magnolia” AVELLINO – Tf. 082526274

Corso Garibaldi, 142 b/c SALERNO – Tf. 089254218

Via F. Flora, 13/15 BENEVENTO – Tf. 0824315764

Loffredo Via Kerbaker, 18‑21 NAPOLI – Tf. 0815783534; 0815781521

Marotta Via dei Mille, 78‑82 NAPOLI – Tf. 081418881

Tullio Pironti Piazza Dante, 30 NAPOLI – Tf. 0815499748; 0815499693

Pisanti Corso Umberto I, 34‑40 NAPOLI – Tf. 0815527105

Alfabeta Corso Vittorio Emanuele, 331 TORRE DEL GRECO – Tf. 0818821488

Petrozziello Corso Vittorio Emanuele, 214 AVELLINO – Tf. 082536027

Diffusione Editoriale Ermes Via Angilla Vecchia, 141 POTENZA – Tf. 0971443012

Masone Viale dei Rettori, 73 BENEVENTO – Tf. 0824317109

Centro librario Molisano Viale Manzoni, 81‑83 CAMPOBASSO – Tf. 08749878

Isola del Tesoro Via Crispi, 7‑11 CATANZARO – Tf. 0961725118

Tavella Corso G. Nicotera, 150 LAMEZIA TERME

Domus Luce Corso Italia, 74 COSENZA

Godel Via Poli, 45 ROMA – Tf. 066798716; 066790331

Libreria Rinascita Via delle Botteghe Oscure, 1‑2 ROMA – Tf. 066797460

Edicola c/o Parlamento Europeo Rue Wiertz – BRUxELLES

Libreria La Conchiglia Via Le Botteghe 12 80073 CAPRI

Libreria Cues Via Ponte Don Melillo Atrio Facoltà Ingegneria FISCIANO (Sa)

C/o Polo delle Scienze e delle Tecnologie – Loc. Montesantangelo NAPOLI

H3g – Angelo Schinaia C/o Olivetti Ricerca SS 271 Contrada La Marchesa BITRITTO (Ba)

Libreria Colonnese Via S. Pietro a Majella, 32‑33 – 80138 Napoli – Tel. +39081459858

Le Associazioni, le biblioteche, gli Istituti:Ist. Italiano per gli Studi Filosofici Via Monte di Dio, 14 NAPOLI – Tf. 0817642652

Associazione N:EA Via M. Schipa, 105‑115 NAPOLI – Tf. 081660606

Fondazione Mezzogiorno Europa Via R. De Cesare 31 NAPOLI – Tf. +390812471196

Archivio Di Stato Di Napoli Via Grande Archivio, 5 NAPOLI

Archivio Di Stato Di Salerno P.zza Abate Conforti, 7 SALERNO

Biblioteca Universitaria Via G. Palladino, 39 NAPOLI

Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze Piazza Cavalleggeri 1 – Firenze

Biblioteca Nazionale “V. Emanuele III” P.zza del Plebiscito Palazzo Reale – NAPOLI

Mezzogiorno Europa

Periodico della Fondazione

Mezzogiorno Europa – onlus

N. 4 – Anno X – Luglio Agosto 2009

Registrazione al Tribunale di Napolin. 5112 del 24/02/2000

Via R. De Cesare 31 – Napolitel. +39 081.2471196 fax +39 081.2471168

mail‑box: [email protected]

Direttore responsabileAndrea Geremicca

Art directorLuciano Pennino

Comitato di redazioneOsvaldo Cammarota

Cetti CapuanoLuisa Pezone

Marco PlutinoIvano Russo

Eirene SbrizioloManuela Siano

Coordinamento e segreteriaOttavia Beneduce

Uliana Guarnaccia

Consulenti scientificiSergio Bertolissi, Wanda D’A les sio, Mariano D’Antonio, Vittorio De Cesare, Biagio de Giovanni, Enzo Giustino, Gil berto A. Marselli, Gustavo Minervini, Massimo Rosi, Adriano Rossi, Fulvio Tessitore, Sergio Vellante

Stampa: Le.g.ma. (Na) – Tel. +39 081.7411201

La rivista la puoi trovare presso

Come abbonarsiil costo dell’abbonamento annuale è di € 100,00 (sei numeri); il costo di una copia è di € 20,00.

la sottoscrizione di un abbonamento può avvenire: direttamente presso la sede della fondazione, previo appuntamento; oppure inviando i propri dati– insieme al recapito al quale si desidera ricevere la rivista e alla copia della ricevuta del versamento –

attraverso il modulo online disponibile sul sito www.mezzogiornoeuropa.it, o via fax al numero +390812471168.la quota può essere versata:

sul c.c.p. n. 34626689 intestato a: Centro di Iniziativa Mezzogiorno Europa ONLUS; oppure sul c.c. n. 27/972 del Banco di napoli – Ag. 77 intestato a: Fondazione Mezzogiorno Europa ONLUS – IBAN IT29 G010 1003 4770 0002 7000 972.

L’ABBONAMENTO DECORRE DAL NUMERO SUCCESSIVO ALLA DATA DI PAGAMENTO

Page 64: Numero 4/2009

Chi ha detto che l’investimento

etico rende poco?Il micro credito rendeagli investitori privatioggi il 15% annuo garantito,chiedici come, saremo lietidi consigliarti il meglio...

Mikro Kapitalasset management

www.mikrokapital.com tel. 02.40700850

GRUPPO SISIsocietà internazionale sviluppo investimento

studio di consulenza per il supporto all’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese

Tel. +39 081 19723693 www.russia.bielorussia.com

“Accompagnamo la tua impresain Russia”