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6 Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania Novembre/dicembre 2008 – Anno IX Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino INTERVENTO DEL PRESIDENTE Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino L’incontro col Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nella nuova sede della Fondazione Mezzogiorno Europa Giorgio Napolitano Quando nel ’99, anno fatidico (ab- biamo anche noi il nostro ’99, a parte quello di cui ha il monopolio l’amico Ma- rotta) demmo vita non alla Fondazione ma al Centro di iniziative Mezzogiorno Europa, forse non immagina- vamo che sarebbe stato così difficile lavorare – e che si sarebbe dovuto remare contro corrente – su ambe- due i versanti. Per quel che riguarda il Mezzogiorno mi pare che sia clamorosa la caduta… segue a pag. 3 > Prosperità, sicurezza e coesione sociale priorità nella gestione dell’immigrazione Gianmario Pisanu L’emergere di nuove potenze economiche e la continua cresci- ta dei flussi di persone, informa- zioni e merci, pongono i Governi di fronte alla necessità di ridefinire i tradizionali obiettivi pubblici… segue a pag. 5 > SE NON RICONOSCE LE PROPRIE RESPONSABILITÀ IL MEZZOGIORNO È FUORI GIOCO INTRODUZIONE Andrea Geremicca In questi anni siamo cresciuti cercando di guar- dare in avanti. Di rinnovarci. Ma come que- sta nuova sede si trova a pochi passi dalla storica sede di Santa Lucia, dove siamo nati, così noi ci sforziamo di rimanere coerenti con lo spirito e gli indirizzi che ci hanno animato dagli inizi. A cominciare dalla nostra missione di fondo: il Mez- zogiorno, l’Europa, il Mediterraneo. E dal nostro modo di essere. Aperti all’ascolto, al confronto, all’iniziativa comune con altre espressioni… segue a pag. 2 > Napoli, 2 Dicembre 2008 Punto di vista QUESTIONE DI CREDIBILITÀ Siamo d’accordo col Presidente Napolitano quando dice che è do- vere di chiunque faccia politica non abbandonarsi al pessimismo. E la pen- siamo come lui quando aggiunge che però costa fatica. Tanta fatica. Specie di questi tempi a Napoli. Con la città che si trascina da un’emergenza all’al- tra e sembra avere smarrito la chiave del proprio riscatto. Le ultime vicende giudiziarie ci turbano e addolorano. Sarà tuttavia la Magistratura, in piena autonomia e serenità, a documenta- re i fatti nella loro eventuale rilevanza penale. A noi interessa riflettere sugli aspetti politici,… segue a pag. 2 > La questione energetica e le relazioni Russia – UE I N S E R T O I N S E R T O

Numero 6/2008

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Rivista Mezzogiorno Europa

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Page 1: Numero 6/2008

6Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000.

Spedizione in abbonamento postale 70%Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

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08 –

Ann

o IX

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

INTERVENTO DEL PRESIDENTE

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

L’incontro col Presidente della Repubblica Giorgio Napolitanonella nuova sede della Fondazione Mezzogiorno Europa

Giorgio Napolitano

Quando nel ’99, anno fatidico (ab-biamo anche noi il nostro

’99, a parte quello di cui ha il monopolio l’amico Ma-rotta) demmo vita non alla Fondazione ma al Centro di iniziative Mezzogiorno Europa, forse non immagina-vamo che sarebbe stato così difficile lavorare – e che si sarebbe dovuto remare contro corrente – su ambe-due i versanti.

Per quel che riguarda il Mezzogiorno mi pare che sia clamorosa la caduta…

segue a pag. 3 >

Prosperità, sicurezzae coesione sociale priorità nella gestionedell’immigrazioneGianmario Pisanu

L’emergere di nuove potenze economiche e la continua cresci-ta dei flussi di persone, informa-zioni e merci, pongono i Governi di fronte alla necessità di ridefinire i tradizionali obiettivi pubblici… segue a pag. 5 >

Se non riconoSce le proprie reSponSabilitàil Mezzogiorno è fuori giocoINTRODUZIONEAndrea Geremicca

In questi anni siamo cresciuti cercando di guar-dare in avanti. Di rinnovarci. Ma come que-

sta nuova sede si trova a pochi passi dalla storica sede di Santa Lucia, dove siamo nati, così noi ci sforziamo di rimanere coerenti con lo spirito e gli indirizzi che ci hanno animato dagli inizi.

A cominciare dalla nostra missione di fondo: il Mez-zogiorno, l’Europa, il Mediterraneo. E dal nostro modo di essere. Aperti all’ascolto, al confronto, all’iniziativa comune con altre espressioni…

segue a pag. 2 >

Napoli, 2 Dicembre 2008

Punto di vistaQUESTIONEDI CREDIBILITÀ

Siamo d’accordo col Presidente Napolitano quando dice che è do-vere di chiunque faccia politica non abbandonarsi al pessimismo. E la pen-siamo come lui quando aggiunge che però costa fatica. Tanta fatica. Specie di questi tempi a Napoli. Con la città che si trascina da un’emergenza all’al-tra e sembra avere smarrito la chiave del proprio riscatto. Le ultime vicende giudiziarie ci turbano e addolorano. Sarà tuttavia la Magistratura, in piena autonomia e serenità, a documenta-re i fatti nella loro eventuale rilevanza penale. A noi interessa riflettere sugli aspetti politici,…

segue a pag. 2 >

La questioneenergetica

e le relazioniRussia – UE

I N S E R T O

I N S E R T O

Page 2: Numero 6/2008

RitoRnoal MezzogioRnoArturo Marzano ……………………………………………… 9

Sviluppo locale e MezzogioRnoOsvaldo Cammarota …………………………………………15Achille Flora ………………………………………………… 18Luciano Brancaccio ……………………………………………20Francesco Saverio Coppola …………………………………22

euRopaL’Europa e la laicitàtoMMaSo viSone ………………………………………………… 31

italia, iSRaele, euRopaLectio MagistralisgioRgio napolitano …………………………………………… 39

Euronote di andRea pieRucci …………………………… 48

• Inserto • La questione energetica e le relazioni Russia‑UE

SoMM aRio>segue dalla prima pagina

…di pensiero e visioni del mondo, con personalità delle cultura, con Fondazioni, associazioni e cen-tri studi.

Autonomi dai partiti e delle loro componenti interne. E interlocutori delle istituzioni: in un rapporto di rispetto, riconoscimento e stimolo critico senza complessi e reticenze. Evitando tuttavia, anche nei momen-ti più inquietanti di crisi della poli-tica e delle rappresentanze, come quello attuale, di confondere l’auto-nomia con l’autoreferenzialità. Sfor-zandoci, anzi, di contribuire – nei limiti delle nostre forze e delle no-stre funzioni – a superare il divorzio tra politica e cultura, e, in qualche caso, purtroppo, tra etica e politica; a ridurre il distacco delle istituzioni dai cittadini; a formare nuove classi dirigenti, di cui si avverte a Napoli una particolare, non più eludibile necessità.

Di qui la nostra cura, la nostra speciale attenzione ai problemi, alle inquietudini, alle speranze e alle potenzialità delle giovani genera-zioni attraverso un processo per-manente di confronto, impegno e formazione.

[…]Su quella che ho definito “la no-

stra missione”:sulla riflessione, cioè, e le inizia-

tive che vorremmo sviluppare entro il 2009 intorno ai temi del Mezzo-giorno, del Mediterraneo e dell’Eu-ropa, convocheremo al più presto il Comitato Scientifico. Per quanto mi riguarda, per ragioni di opportunità e di tempo, mi limito a qualche bre-vissimo cenno.

A cominciare dal tema dall’Eu-ropa. Che, all’indomani dell’impor-tante passo in avanti fatto con l’ado-zione del nuovo Trattato (comunque ancora da recepire in via definiva) si è immediatamente trovata di fronte alla grande sfida legata al governo della crisi mondiale dei mercati fi-nanziari. E alla recrudescenza del terrorismo internazionale. Pertanto i prossimi anni saranno decisivi per il futuro del processo di integrazione,

nel quale si dovrà attuare in forme nuove la pur giusta politica di rigore decisa quindici anni fa a Mastricht; portare a compimento le riforme istituzionali; dare concretezza alla nascente Unione mediterranea; as-sumere un orientamento definitivo sulle ulteriori richieste di adesione, a partire dal dossier Turchia; alzare la guardia nell’azione di contrasto al terrorismo.

[…]Sui temi del Mezzogiorno. Inten-

sificheremo il dibattito e l’impegno per il superamento dell’insopporta-bile, persistente, per molti versi ag-gravato, divario Nord Sud.

L’audizione al Quirinale, nel Giu-gno scorso, di 7 Centri studi meri-dionalisti (tra i quali la nostra Fon-dazione) ha rappresentato uno sti-molo importante a mettere insieme le migliori energie culturali, e non solo culturali, per dare voce e forza al Mezzogiorno.

Ai nostri territori occorrono ap-procci concreti su scelte grandi e concrete: occupazione, formazione, conoscenza, infrastrutture materiali e immateriali, energia, qualità della spesa pubblica, finanza locale, effi-cienza della Pubblica Amministra-zione, riforme amministrative.

Al tempo stesso avvertiamo viva-mente, signor Presidente, l’esigenza di un deciso rinnovamento nel pen-siero e nell’azione meridionalista.

Dobbiamo rivendicare con for-za nuove politiche nazionali per lo sviluppo delle regioni meridionali. Su questo non c’è dubbio. Evitan-do però il rischio dell’isolamento e dell’arroccamento di tutto il Mezzo-giorno contro tutto il resto del paese su posizioni che negano o trascurano le responsabilità dell’attuale degrado presenti anche “nel” Mezzogiorno, “dentro” il Mezzogiorno, a livello politico, istituzionale e sociale. Al-lora si chieda con determinazione tutto quello che si deve chiedere. Si alzi forte e chiara la nostra voce di fronte al saccheggio in atto da par-te del governo, nel più assordante silenzio nel paese, del fondo per le aree sottosviluppate destinato es-senzialmente al Mezzogiorno, ma si

Andrea GeremiccaUNA NUOVA SEDE PER LAVORARE INSIEME

Napolivalela pena

Nel prossimo numeroConversazioni di Clara Leonetti con Marco Demarco,Fabrizio Giustino,Cristiana Coppola

>segue dalla prima pagina

…civili e culturali di quello che sta accadendo. Sul deficit di governance, di tenuta democrati-ca, di capacità progettuale e ope-rativa delle classi dirigenti. Che ha prodotto da un lato l’aggravamen-to di tutti i problemi sociali ed eco-nomici e dall’altro l’avvilente “in-quinamento ambientale” dei cen-tri di decisione amministrativa. In questa situazione senza precedenti dire “io non me ne vado perché ho le mani pulite” è come rispondere vendo pesci a chi ti chiede che ore sono. A Napoli e in Campania si è interrotto il rapporto di fiducia con i cittadini ed è caduta la credibili-

tà personale e politica di chi ha responsabilità di governo. Bisogna prendere atto e trar-

ne le dovute conseguenze. Il che può voler dire rimettere il manda-to nelle mani degli elettori. Ma non necessariamente. Può anche voler dire avviare una profonda presa di coscienza pubblica sulle difficoltà, i limiti e gli errori compiuti. Una vera e propria “operazione verità”. So-stituendo all’arroganza del potere capacità di ascolto, umiltà e senso della misura. Chiamando i cittadini, dopo averli tenuti per anni a bordo campo, a fare squadra ed a giocare una partita che può essere vinta.

Basta volerlo, sul serio e tutti in-sieme. A.Ge.

Punto di vista

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sia anche esigenti e rigorosi con noi stessi, con le nostre insufficienze e i nostri ritardi. Altrimenti il rischio di “una scissione silenziosa” tra le due Italie, di cui parla Alfredo Reichlin in un suo recente articolo, trova spazio e prende corpo.

Sulla questione del federalismo fiscale – per citare il caso più recen-te e significativo – abbiamo promosso e partecipato a seminari e confronti locali e nazionali (ricordo tra i tanti quello tenuto alla Camera dal net-work di Fondazioni e dall’Intergrup-po parlamentare per la Sussidiarietà), mettendo in guardia dal pericolo di lacerazione del paese, ma sostenen-do anche i possibili vantaggi di un decentramento fiscale socialmente compatibile, responsabile e solidale, come sfida, banco di prova, sollecita-zione alla trasparenza, all’efficienza, al rinnovamento delle stesse regioni meridionali.

Sulla rivista abbiamo aperto un dibattito su questi problemi. La pros-sima Scuola d’inverno, rivolta ad ope-ratori della Pubblica amministrazione e delle imprese pubbliche e private, la terremo sul tema di un nuovo me-ridionalismo “pragmatico e del fare”

(riprendendo una sua espressione, Signor Presidente).

Penso che si sarà notato che, specie negli ultimi tempi, stiamo la-vorando in collaborazione con più partners, sempre più a livello nazio-nale ed europeo oltre che locale e meridionale.

Stiamo insieme non tanto per-ché l’unione fa la forza, il che non è poi da sottovalutare, quanto perché ci uniscono affinità, passioni, curio-sità civili e culturali, comuni opzio-ni e priorità tematiche, l’orgoglio di ricollocare nel dibattito nazionale il Mezzogiorno, e la realtà dei diversi territori del paese.

In un certo senso per noi il par-tenariato non è la premessa, ma è lo sbocco, la conseguenza di processi maturati a monte da tempo.

Questa sede è “nuova” anche per questo: perché sta diventando, e per molti versi è già diventato, un luogo di lavoro comune e permanente di vari Centri di studio e iniziativa. Diversi per la loro storia e la loro identità, con propri organi, comitati scientifici, relazioni e attività. Insieme per una comune ispirazione e per le cose che insieme vogliamo dire e realizzare.

Con l’ambizione di “fare rete”, come si dice. Di costituire – come qualcu-no ha scritto – un pool di eccellenza di menti e competenze.

Insieme con la Fondazione Ita-liani Europei. Che qui, con noi, a Napoli dopo Milano, ha attivato una propria sede tematica con l’ambizio-ne – come ha dichiarato alla stampa il Direttore Andrea Peruzzy – “di svi-luppare un importante polo di ricerca umanistica” e di affrontare il grande tema “della riscoperta del Mediter-raneo, crocevia di culture e civiltà”. Oltre al “pensatoio” sull’Europa, con i 3 Gruppi di studio che ho ricorda-to agli inizi, il 10 Dicembre le due Fondazioni terranno un convegno su l’antropologia culturale e il Mez-zogiorno nel pensiero di Ernesto De Martino.

Insieme con Astrid, il Centro Stu-di promotore a Roma di un net work nazionale di 12 Fondazioni sulle rifor-me istituzionali, del quale facciamo parte, e a Napoli animatore, con noi, di un Osservatorio permanente sulla governance e i problemi della Pubbli-ca amministrazione nel Mezzogior-no, diretto da Maaaimo Villone e con la sede qui, in questo locali.

Giorgio NapolitanoOCCORRE UNA FORTE CAPACITÀ DI AUTOCRITICA NEL MEZZOGIORNO>segue dalla prima pagina

…di attenzione, di interesse, di vo-lontà politica. Si fa una gran fatica a riproporre il problema del Mez-zogiorno, se deve essere riproposto come problema del Mezzogiorno. Naturalmente si può discutere di tutto, io sono sensibile alla esigenza di riconsiderare i parametri del di-vario, o – diciamo – i parametri del rapporto Mezzogiorno–Nord, perché è talmente cambiato il Nord ed è in vario senso cambiato anche il Mez-zogiorno, da dovervi dedicare una attenzione nuova.

Però si è fatta sempre più fatica, e oggi si fa molta fatica – l’ho voluto dire anche ieri pubblicamente – a ri-proporre questa tematica, questa re-altà, l’esigenza di analizzarla.

Voi fate moltissimo e posso solo dire che non so come facciate a met-

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tere tanta carne al fuoco, anche per il programma prossimo venturo. C’è una scelta molto calibrata di temi di particolare interesse e attualità, ap-profondendo i quali si fa avanzare anche la riflessione complessiva sul-la realtà meridionale e sul tema del Mezzogiorno.

Direi che non meno fatica si è venuta facendo per affrontare il tema Europa. Noi abbiamo adesso (forse si può dirlo) una certa revi-viscenza di interesse e di impegno perché stanno accadendo delle cose che prepotentemente dimostrano il ruolo che l’Europa è chiamata ad assumere. Però questo ruolo è stato negli anni scorsi ampiamen-te contestato ed è stato oggetto di giudizi sommariamente liquidatori. Ora non sarei così sicuro che tutto vada per il meglio: registriamo dei passi in avanti, non tanto sul piano istituzionale, perché siamo ancora penosamente in attesa della ratifica del più modesto Trattato di Lisbo-na, ma nel senso di una certa ca-pacità di intervento dell’Europa in circostanze recenti, che vanno dal-la crisi georgiana alla crisi finanzia-ria mondiale.

Però, si fa ancora molta fatica a riproporre e a rilanciare il ruolo dell’Europa, per quanto sia continua-mente sollecitato e riconosciuto. In realtà, sono convinto che ci sia an-cora una grandissima miopia nelle classi dirigenti e nelle leadership po-litiche nazionali: c’è una resistenza ad accettare davvero gli svolgimenti coerenti del punto di partenza della costruzione europea: quello, cioè, di una condivisione di sovranità e di un esercizio in comune di poteri condi-visi ed efficaci. Mi pare che anche in questo momento, nonostante le ap-parenze e nonostante certi risultati, rimanga ancora un nocciolo duro, molto duro da vincere.

Credo di avere il dovere – che è di chiunque faccia politica e non solo di chi ha responsabilità istitu-zionali – di non abbandonarmi al pessimismo. Ma di qui a dire che io sprizzo ottimismo, vi assicuro che mi costa uno sforzo. Perché vedo la durezza delle resistenze che si op-pongono sia ad un rilancio dell’im-

pegno meridionalista sia ad un rilan-cio dell’impegno europeista.

Quando fondammo questo Cen-tro, avevamo in mente non solo il rapporto Mezzogiorno–Europa ma il rapporto Cultura-Politica. E cre-do che qui c’è la funzione sempre viva, di questa Fondazione e di al-tre, ma anche l’assoluta necessità di ripensare questo rapporto e di rea-gire a quello che è stato un fenome-no sempre più pesante. Io conclusi la mia autobiografia politica parlan-do dell’impoverimento culturale e morale della politica. E questo è un fenomeno sotto gli occhi di tutti, a cui si incontra una enorme difficol-tà a reagire.

Dal lato della cultura: io penso che veramente si stia dando, da par-te di soggetti come questa Fonda-zione, un contributo che non a caso non viene più dai partiti. Una volta erano proiezione dei partiti politici anche le realtà culturali, i momenti di elaborazione, spesso molto alti. Oggi questi apporti debbono fon-damentalmente venire dall’esterno dei partiti, guardando ad essi e con l’obiettivo anche di contribuire ad una riqualificazione, ad un rinno-vamento che non deve essere sol-tanto un rinnovamento dei partiti in quanto formazioni politiche ma an-che un rinnovamento dei partiti per le loro responsabilità di governo e amministrative.

Non voglio aggiungere nulla a ciò che ho detto pubblicamente ieri. L’ho detto perché veramente sono persuaso che se oggi non si dà il sen-so di una forte capacità di autocritica e di autocorrezione nel Mezzogior-no, poi la partita per far passare delle politiche corrispondenti alle esigenze del Mezzogiorno diventa enorme-mente più difficile.

Questo è anche il discorso del federalismo fiscale: si possono de-nunciare i rischi e paventare esiti infausti del federalismo fiscale, ma se ci si sottrae ad un esercizio di re-sponsabilità per quello che riguarda l’amministrazione della cosa pubblica nel Mezzogiorno, non si hanno titoli per resistere anche alle impostazioni più perverse, più pericolose del nodo del federalismo fiscale.

[…] È assolutamente indispen-sabile che cambino i comportamen-ti di tutti i soggetti, pubblici e privati, che condizionano negativamente il miglior uso, secondo l’interesse ge-nerale, delle risorse disponibili per il Mezzogiorno.

Valgono a questo proposito le osservazioni mosse dal professor Barucci, oggi e già in una preceden-te occasione sempre a Napoli, sul-la debolezza delle logiche di mer-cato, sul peso gravissimo di quelle che egli chiama “intermediazioni improprie”, che possono ricondursi a molteplici forme di corruzione e clientelismo, di interferenza e ma-nipolazione rispetto a un lineare e corretto impiego delle risorse pub-bliche, e che si traducono in crescita dell’economia illegale.

Bisogna riconoscere che accan-to al potenziamento dell’azione già notevole dello Stato contro la crimi-nalità organizzata specie nella sua dimensione di potenza economi-ca, occorre mettere in discussione la qualità della politica, l’efficienza delle amministrazioni pubbliche, e

anche l’impegno ad elevare il grado complessivo di coscienza civica, la cui insufficienza moltiplica le diffi-coltà e favorisce le degenerazioni.

Affrontare senza impacci e ipo-crisie queste questioni dall’interno del Mezzogiorno è condizione es-senziale per porre con maggiore forza anche il tema cruciale del rapporto tra il provvedimento di cui si discute in attuazione del federali-smo fiscale ovvero dell’articolo 119 della Costituzione, e lo sviluppo di adeguate politiche per il Mezzo-giorno. Va in questo quadro chia-rito e garantito il livello effettivo dei necessari trasferimenti tra il Nord e il Sud del paese, anche in funzione di una parità nel godimento di dirit-ti fondamentali: senza, nello stesso tempo, sottrarsi a un doveroso eser-cizio di responsabilità, nel Mezzo-giorno, per quel che riguarda, ripeto ancora una volta, l’impiego oculato delle risorse pubbliche destinate al Sud e per quel che riguarda, in par-ticolare, costi e qualità dei servizi da prestare a carico della finanza pubblica.

Stralci dell’intervento del Presidente Napolitanoal Convegno “Mezzogiorno, Innovazione e Sviluppo”

Napoli 1 dicembre 2008

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> segue dalla prima pagina…di prosperità, sicurezza interna e co-esione sociale. Per quanto tali obietti-vi, singolarmente già complessi, appa-iano talvolta inconciliabili, non sfugge la necessità di una sintesi da tradurre in coerente azione politica. La gestio-ne della immigrazione, all’interno del generale fenomeno della mobilità uma-na, è uno degli strumenti attraverso cui tale azione può concretizzarsi.

Saranno i 438 milioni di uomini e donne che faranno ingresso nel mon-do del lavoro di qui al 2050, 97% dei quali provenienti da Paesi in via di svi-luppo1, la chiave del riequilibrio demo-grafico indispensabile ad alimentare la crescita delle economie mature. La tu-tela della sicurezza nazionale, d’altra parte, richiede già oggi il monitoraggio sistematico degli spostamenti fronta-lieri, fonte di informazioni decisiva ai fini della valutazione del rischio. Tra i cittadini, infine, è diffusa la percezione che i migranti riducano opportunità di lavoro, sicurezza personale e disponi-bilità di servizi pubblici. Ai Governi il compito di preservare la coesione so-ciale riconducendo questi timori alla realtà dei fatti, ma anche ottimizzando la qualità dei flussi per prevenire diso-rientamento e conflitti.

Tre impostazioni nella Gestione del fenomeno migratorio

Ciò detto, la gestione della im-migrazione rappresenta di per sé uno strumento assai complesso. Nel 2005 i migranti sono stati 200 milioni, ovve-ro il 3% della popolazione mondiale.

1 Accenture Corporate and Poli-cy Affairs, “The raise of the multi-polar world”, 2007

Nella sola Europa Occidentale sono immigrate 22 milioni di persone, quasi il 12% della popolazione residente. Ed i migranti non sono gli unici a varca-re le frontiere: nello stesso 2005 oltre 800 milioni di persone hanno viag-giato tra Nazioni diverse per turismo o lavoro. Le nuove dimensioni del fe-nomeno e la sua vasta articolazione determinano un generale ritardo delle Amministrazioni competenti rispetto a servizi pubblici più tradizionali, qua-li ad esempio l’assistenza sanitaria o l’istruzione. Inoltre, ragioni storiche e politiche restituiscono un quadro in-ternazionale piuttosto disomogeneo, strutturato su almeno tre diverse im-postazioni.

Un primo gruppo di Nazioni, tra le quali Canada, Australia e Nuo-va Zelanda, sono nate e cresciute sull’onda di processi migratori. Esse continuano ad associare l’immigra-zione prioritariamente all’obiettivo della prosperità e gestiscono la mo-bilità umana come fattore produttivo di sviluppo economico (mercato del lavoro), sociale e culturale.

Le Nazioni Europee, fortemente caratterizzate dal punto vista etnico, interpretano la gestione della mobili-tà dando prevalenza agli obiettivi del-la sicurezza e della coesione sociale e quindi privilegiando il controllo degli ingressi. Gli Stati Uniti, tradizionalmen-te collocati nel primo gruppo, hanno reindirizzato le proprie politiche a valle dell’11 settembre allineandosi alle pra-tiche del vecchio continente.

Ad una terza impostazione è ri-conducibile l’insieme delle Nazioni originanti. Una tradizione poco re-strittiva sta lasciando il passo a mag-giore attenzione: il peso economico delle rimesse, che la Banca Mondiale stima valere il doppio degli aiuti in-ternazionali ai Paesi in via di svilup-po2, e l’impoverimento delle rispet-

2 UN Global Commission on Inter-national Migration Report 2005

tive forze lavoro chiamano l’India, il Messico o le Filippine ad occuparsi attivamente della gestione dei flus-si migratori.

Difficoltà nella gestione della immigrazione

Numerose sono le difficoltà per i Governi che intendano affrontare la gestione dell’immigrazione attra-verso un servizio pubblico struttura-to e funzionale. Le autorità politiche e le Amministrazioni debbono im-pegnarsi a garantire i flussi richie-sti dal sistema economico mentre le opinioni pubbliche privilegiano questioni di sovranità, identità e si-curezza. Semplificando, i Governi si trovano a perseguire l’obiettivo della

prosperità contro la volontà dei pro-pri cittadini.

L’immigrazione ha ampio spa-zio sui media, la cui attenzione si è generalmente concentrata sugli aspetti negativi del fenomeno, più immediati e suggestivi. Le distorsio-ni indotte nella percezione colletti-va non sono state opportunamente indirizzate dalla politica, che anzi non di rado le ha cavalcate alla con-quista di facile consenso. Numerosi Governi si vedono quindi obbligati ad affiancare all’obiettivo della pro-sperità economica politiche di corto respiro rivolte a placare le ansie del-le opinioni pubbliche, determinando incertezza nel fondamento norma-tivo e politico del servizio pubblico di gestione dell’immigrazione, con conseguenze potenzialmente cata-strofiche: il raggiungimento tanto degli obiettivi economici quanto di quelli di sicurezza rischia di essere compromesso.

Un secondo ostacolo alla ero-gazione di un servizio adeguato è di natura strutturale. I Paesi che nel-la propria storia non hanno avuto esposizione al fenomeno, si sono limitati a gestire le richieste di asi-lo. Le rispettive organizzazioni ed infrastrutture sono oggi disallineate rispetto alle nuove esigenze ed agli obiettivi della politica.

Questo è il contesto all’interno del quale operano i responsabili del-le Amministrazioni preposte alla ge-stione della immigrazione. Un com-pito difficilissimo che alcuni, tutta-via, riescono a svolgere con vigore e straordinario successo. L’Accenture Institute for Public Value ha condot-to uno studio in 14 Paesi3, coinvol-gendo direttamente i dirigenti delle Amministrazioni competenti. Da un

3 Toward greater prosperity, security and social cohesion: critical practices in managing immigration services, Accen-ture Institute for Public Value, 2008. I pae-si sono Australia, Canada, Finlandia, Irlan-da, Giappone, Nuova Zelanda, Polonia, Portogallo, Sud Africa, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti

Obiettivi pubblici e gestione dell’immigrazione Gianmario Pisanu

Con questo saggio avviamo la nostra partnership di studio e ricerca con Accenture, sui temi legati al governo del fenomeno immigrazione. Ci auguriamo che tale riflessione possa essere alimentata da contributi e spunti – sulla rivista e attraverso attività seminariali, convegnistiche e di ouditing – che saranno raccolti in un’apposita pubblicazione.

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approfondito dibattito sono emer-se 5 priorità, che qualificano le prospettive di sviluppo delle orga-nizzazioni pubbliche incaricate di governare l’immigrazione e più in generale la mobilità umana tran-sfrontaliera.

Priorità 1Chiara definizione dei risultati attesi dal servizio di gestione della immigrazione

Nella gestione di un servizio pubblico, il risultato atteso è il be-neficio in termini di migliorata con-dizione sociale ed economica degli utenti conseguente all’erogazione della prestazione. Attorno al risultato atteso la Pubblica Amministrazione definisce la propria strategia, mette in piedi le procedure e realizza i siste-mi. È il risultato atteso a determinare eventuali cambiamenti e misurare la qualità dell’azione amministrati-va. Le Amministrazioni hanno biso-gno di conoscere con precisione i propri risultati attesi, ovvero il pro-prio ruolo nel perseguimento degli obiettivi pubblici, al fine di allocare e coordinare con coerenza le risor-se disponibili.

Chiarezza intorno ai risultati at-tesi si è riscontrata in Australia e Ca-nada, in termini di attrazione della giusta quantità e qualità di flussi. Si-tuazione simile in Svezia e Portogallo, dove i funzionari delle rispettive Am-ministrazioni conoscono il proprio risultato atteso: garantire la coesione sociale attraverso l’integrazione4. Al di là degli aspetti operativi, la con-sapevolezza del ruolo consente alle Amministrazioni preposte di bilan-ciare i risultati, punto centrale quan-do sono coinvolti un gran numero di ambiti amministrativi: chi controlla la frontiera opera in allineamento

4 Si osserva che non a caso Svezia e Portogallo occupano i primi posti del MIPEX–Migrant Integration Policy Index, www.integrationindex.eu

con chi definisce le opportunità di impiego, i servizi anagrafici o l’assi-stenza sanitaria.

Un servizio strutturato ha quindi bisogno di una strategia articolata e univoca e di un piano che allinei ri-sorse, prodotti, processi e obiettivi. I responsabili amministrativi debbono sapere quanti dipendenti (risorse) oc-corrono a processare le domande nei tempi stabiliti (prodotto) per consenti-re ai migranti di stabilirsi negli ambi-ti occupazionali individuati (proces-so) contribuendo al raggiungimento dell’obiettivo pubblico di prosperità (obiettivi).

Priorità 2Coinvolgimento sistematico degli utenti del servizio e dei gruppi di interesse

Oltre ai risultati attesi, le Ammi-nistrazioni incaricate di gestire l’im-migrazione hanno necessità di co-noscere chi beneficerà di tali risul-tati. La progettazione e l’erogazione di un servizio efficace non può che fondarsi sui bisogni e le aspettative di utenti, cittadini e gruppi di interesse coinvolti in un programma di consul-tazione continuo e aperto.

La cittadinanza, i politici, il Par-lamento, le associazioni datoriali, i sindacati e le corrispondenti Am-ministrazioni estere debbono esse-re consultate in maniera sistematica, attraverso un dialogo che, secondo Gervaise Appave5, può anche con-tribuire a mitigare la retorica negati-va che prevale intorno al fenomeno dell’immigrazione. In alcune Nazio-ni tale processo di consultazione as-sume forme strutturate e trasparenti, come ad esempio in Nuova Zelan-da o in Svezia. In altre i momenti di confronto sono meno formali oppure più difficoltosi a causa della eccessiva

5 Director of Migration Policy and Research Program, the United Nation’s International Organization for Migration, based in Geneva

frammentazione delle responsabilità all’interno delle Pubbliche Ammini-strazioni.

Certamente il punto di riferimen-to principale per le Amministrazioni incaricate di gestire l’immigrazione sono gli utenti, controparte diretta in transazioni quali la richiesta di un permesso di soggiorno, il superamen-to di una frontiera o la domanda di asilo politico. Ciascuna organizzazio-ne dovrebbe porre al centro del pro-prio agire l’immigrato, consultando-lo individualmente per focalizzarne bisogni e aspettative, garantendo un servizio accessibile, semplice, traspa-rente e puntuale, strutturando la pro-pria conoscenza dell’utente e accom-pagnandolo dall’arrivo alla partenza. Nelle parole di Mary Anne Thom-pson6 “non si tratta semplicemente di trovare loro un lavoro, quanto piut-tosto di comprendere come si sono sistemati, com’è andato l’inserimen-to scolastico dei loro bambini, quali sono i loro problemi quotidiani”.

La gran parte delle Amministra-zioni analizzate affronta in maniera molto seria il tema della consultazio-ne dell’utente per focalizzarne biso-gni e aspettative. Canada, Portogallo, Finlandia, Nuova Zelanda, Australia, Sud Africa e Svezia investono ingenti risorse in ricerche, focus group e in-terviste campionarie per migliorare la qualità del servizio. Similmente, gran parte delle Amministrazioni analizza-te pubblica standard di qualità che vengono effettivamente rispettati, spesso costruiti sulla base delle esi-genze specifiche dei diversi gruppi etnici di riferimento7.

È chiaro che una visione integra-ta ed un flusso di informazioni com-pleto sulla esperienza del migrante rappresenta uno strumento cruciale

6 Sottosegretario al Department of Labour neozelandese

7 Si vedano i sistemi di selezione del CIC canadese www.cic.gc.ca ed i nuo-vi canali informativi del SEF portoghese www.sef.pt sviluppati in collaborzione con l’Alto Comissariado para a Inte-gração das Minorias www.acime.gov.pt, integrando canali virtuali e fisici

per l’elaborazione delle politiche di ingresso, accoglienza, integrazione e sicurezza. Per ottenere tale risul-tato è necessario convogliare tutte le informazioni raccolte da fonti di-verse (frontiera, sanità, scuola, ana-grafe, etc) verso un unico punto e al contempo garantire al migrante un punto di accesso unico alla Pubblica Amministrazione. Un sistema unita-rio è stato realizzato, ad esempio, in Canada ed in Finlandia. Al preve-dibile miglioramento della qualità del servizio ed alla completezza e tempestività della base decisionale fornita alle autorità competenti, si è sommato un risparmio tra il 30% al 40% sui costi amministrativi.

Priorità 3Coordinamento, collaborazione e integrazione tra Amministrazioni

“Ciò che importiamo non è solo manodopera, importiamo persone. Se nell’immediato la priorità è il mer-cato del lavoro, nel lungo termine gli impatti saranno sulla sanità, l’educa-zione e l’edilizia”8: l’immigrato è un cittadino che si inserisce a pieno tito-lo nel sistema di diritti del Paese che lo accoglie, quindi le Amministrazio-ni preposte alla gestione dell’immi-grazione non possono che coordinar-si con tutte le strutture che erogano servizi pubblici individuali.

Collaborazione tra Amministra-zioni interne. Individuare e motivare una leadership autorevole e decisa può non essere sufficiente a rompere le barriere che un po’ ovunque sepa-rano le diverse Amministrazioni dello Stato. In alcuni paesi si è provveduto a portare attribuzioni prima separate sotto un unico ombrello amministra-tivo, sia esso un ministero esistente piuttosto che da una nuova organiz-zazione. È il caso del Department of

8 Gottfreid Zuercher, Direttore dell’International Center for Migration Policy Development, www.icmpd.org

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dalla prima

Homeland Security9 statunitense, il quale ha assorbito 22 agenzie che a vario titolo si occupavano di immigra-zione. Simili consolidamenti hanno riguardato il Bundesamt für Migration und Flüchtlinge10 tedesco, l’Immigra-tion Directorate (UDI)11 norvegese e l’Irish Naturalization and Immigration Service12 (INIS) irlandese. In Francia il processo è in corso: il “Ministère de l’immigration, de l’intégration, de l’identité nationale et du développe-ment solidaire”13 sta accentrando le competenze nelle aree del controllo frontaliero, cittadinanza, integrazio-ne e identificazione personale. Altre Nazioni hanno preferito affrontare il tema della collaborazione interna li-mitandosi a complesse reti di proto-colli interministeriali.

Collaborazione con organizzazio-ni non governative. Una seconda area rilevante attiene alla collaborazione

9 www.dhs.gov10 www.bamf.de11 www.udi.no12 www.inis.gov13 www.immigration.gouv.fr

tra le Amministrazioni preposte alla gestione dell’immigrazione e le orga-nizzazioni non governative, siano esse aziende private oppure associazioni di volontariato. Il lavoro del privato sostiene tipicamente le Amministra-zioni nelle fasi iniziali del processo migratorio (pre-ingresso, ingresso e transito) attraverso l’esternalizzazione di funzioni interne ed esterne14. Il ruo-lo delle ONG diviene invece cruciale nella fase post ingresso (accoglienza, integrazione e recupero), quando è necessario un profondo radicamento nel territorio e la capacità di raggiun-gere le aree di disagio, dove è facile che il migrante si ritrovi marginalizzato a valle di un processo di integrazione mal gestito o non gestito affatto.

Collaborazione internazionale. L’ultima area rilevante è la collabo-razione internazionale, fondata sul riconoscimento della natura globale del fenomeno migratorio. Tale per-cezione, praticamente unanime, si spinge a postulare l’insufficienza del

14 Tipicamente risorse umane, ac-quisti, sistemi informativi, assistenza legale, elaborazione dati ed emissione documenti

mero coordinamento e la necessità di integrazione operativa, in parti-colare tra Paesi originanti e Paesi di destinazione. Nella realtà, tuttavia, i funzionari delle Amministrazioni preposte rimarcano che ad oggi i rapporti internazionali tra le autori-tà competenti si limitano ad un se-lettivo scambio di informazioni ed alla faticosa definizione di protocol-li. Una chiave possibile per superare le rigidità è l’identificazione chiara dei benefici comuni ottenibili tra-mite la condivisione di obiettivi e ri-sorse. Un buon esempio è il Trattato di Shengen, che consente agli attuali 26 Stati aderenti di limitare, attraver-so l’armonizzazione delle pratiche, i controlli di frontiera alla porzione di confine esterna all’aggregazione. I benefici della cooperazione peraltro si estendono oltre il mero controllo della mobilità, quando ad esempio le polizie dei paesi aderenti vengo-no a disporre di vari sistemi (SIS, VIS, Eurodac) di condivisione delle infor-mazioni riguardanti mandati di cat-tura, veicoli rubati e documenti di identificazione.

Più in generale, molti paesi di destinazione tentano di seguire le

raccomandazioni del Global Com-mission on International Migration15 sul così detto capacity building, ov-vero sull’adozione di politiche attive per promuovere lo sviluppo orga-nizzativo, ma anche economico e sociale, dei Paesi originanti. Si va dai programmi di formazione alle norme che agevolano le rimesse finanziarie, sino ad arrivare ad ipotesi di porta-bilità internazionale delle prestazioni previdenziali (Nuova Zelanda).

Priorità 4Utilizzo consapevole della tecnologia

La tecnologia svolge un ruolo fondamentale nella gestione della immigrazione. Il suo utilizzo con-sente di affrontare con efficacia ed efficienza il trattamento delle ri-chieste di soggiorno, il varco sicu-ro e ordinato dei punti di ingresso, l’organizzazione di un sistema di intelligence degno di questo nome, la condivisione tra Amministrazioni

15 www.gcim.org

7

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8 dalla prima

nazionali ed estere di una piattafor-ma informativa comune. Negli ulti-mi anni si è assistito ad ingenti in-vestimenti nell’ambito dei controlli di frontiera, dove tecnologie sempre più sofisticate vengono utilizzate alla ricerca di un punto di equilibrio tra la sicurezza nazionale ed i bene-fici economici connessi alla libera circolazione di persone e merci. Si possono rilevare due aspetti im-portanti nella corretta utilizzazione della tecnologia: da una parte l’or-ganizzazione che adotta nuovi siste-mi deve essere capace di focalizzarli su risultati attesi definiti in maniera inequivocabile, dall’altra i Gover-ni dovrebbero avere chiaro che la tecnologia è uno strumento talvolta necessario a trovare una soluzione, ma non è mai la soluzione.

Il sistema di controllo delle fron-tiere statunitensi realizzato a valle dei tragici fatti dell’11 settembre, che con la sua architettura informa-tica consente di intercettare quoti-dianamente oltre 1.000 immigrati irregolari e criminali ricercati16, ha influenzato in varia misura i proget-ti successivamente sviluppati in altre Nazioni, in particolare il programma eBorders, gestito nel Regno Unito dalla UK Border Agency17 (UKBA).

Da quella esperienza si sono in-fatti affermate pratiche importanti: il concetto di “confine virtuale”, ovve-ro la collocazione delle prime misu-re di sicurezza nella fase precedente all’arrivo fisico del visitatore presso i punti di ingresso; la disponibilità per tutti gli operatori potenzialmen-te coinvolti nel processo, dalle unità di sicurezza fisse o mobili al singolo addetto all’ufficio di collocamento, delle medesime informazioni sullo status di un particolare soggetto; l’utilizzo sistematico della biometria per la verifica dell’identità.

16 Fact Sheet: Select DHS 2007 Achievements, www.dhs.gov/xnews/releases/pr_119747138027.shtm

17 www.ukba.homeoffice.gov.uk

Priorità 5Misurazione dei risultati sulla base dei benefici prodotti

Tutte le organizzazioni pubbli-che incaricate della gestione dell’im-migrazione annoverano tra le prio-rità la misurazione dell’efficacia dell’azione amministrativa sulla base dei benefici prodotti, ma sottoline-ano anche che le maggiori carenze si riscontrano proprio in quest’area. Il così detto sistema di misurazione della performance dovrebbe con-sentire di verificare se l’insieme delle infrastrutture, dei processi e delle ri-sorse umane impiegate hanno effet-tivamente prodotto i benefici attesi. Tale verifica non può evidentemente basarsi sulla rilevazione di indicatori gestionali interni.

Il numero di permessi di sog-giorno rilasciati, ad esempio, è il pro-dotto di una servizio. La sua quanti-ficazione non ci dice nulla intorno al risultato ottenuto dall’Ammini-strazione in termini di qualità della prestazione (beneficio per l’utente) o di contributo alla crescita della si-curezza e del benessere del Paese (beneficio per la collettività). Ne’ ci dice secondo quali modalità quel contributo si è dispiegato. A tale fine i sistemi di misurazione della perfor-mance dovrebbero incorporare in-dicatori capaci di definire l’impatto della azione amministrativa sugli utenti e sulle aree sociali interessa-te. Nelle parole di Graham Burton Joseph18 “noi ci preoccupiamo poco dei numeri e invece promuoviamo continue ricerche, controlli di qua-lità e verifiche per essere certi che le attività quotidiane siano davvero indirizzate verso gli obiettivi istitu-zionali”. In generale, un alto funzio-nario del Migration Policy Institute19 ha assimilato l’attuale attività di nu-merose Amministrazioni incaricate

18 Direttore dell’Immigration Po-licy and Directives sudafricano

19 www.migrationpolicy.org

di gestire l’immigrazione a quella dei vigili del fuoco: attendono la cri-ticità per intervenire reattivamente con strumenti spesso coercitivi, sen-za poterla prevedere e anticipare e quindi, in effetti, gestire.

Cenni sulla situazione italianaL’Italia rientra in quel gruppo

di Nazioni che ha conosciuto l’im-migrazione solo in tempi recenti: negli ultimi 20 anni si è passati da poche migliaia a 3.500.000 di pre-senze regolari (6% della popolazio-ne). Di qui le difficoltà delle nostre Amministrazioni nella gestione del fenomeno e la crescente attenzio-ne verso i temi della sicurezza. Le ricerche indicano infatti che, nono-stante tassi di delittuosità calanti e inferiori alla media UE20, gli italiani si sentono comparativamente meno sicuri dei concittadini europei e più di tutti associano alla immigrazione i propri timori21. Tale percezione è alimentata, come in altri paesi, dall’orientamento dei media verso gli aspetti negativi del fenomeno22 e dalla retorica politica. Una mag-giore razionalità indurrebbe tuttavia a considerare che al fine di mante-nere invariato il numero degli italia-ni in età lavorativa nei prossimi 20 anni, saranno necessari mediamen-te 300.000 nuovi immigrati l’anno23: Più che altrove la futura prosperità della Nazione sembra dipendere dalla sua capacità di attrarre ed in-tegrare forza lavoro dall’estero. Nei prossimi mesi, in collaborazione con Mezzogiorno Europa, l’anali-

20 Tra tutte The burden of crime in EU, United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute (UNICRI), 2005

21 Demos-La Polis, 200722 L’immagine degli immigrati in

televisione, CENSIS, 2002, dove si ri-leva che l’immigrato è rappresentato nel 80% dei casi all’interno di una vicenda negativa

23 La rivoluzione in culla, Billari e Dalla Zuana, Università Bocconi Editore, 2008

si di cui si è detto in questo arti-colo sarà arricchita da una ricerca volta ad approfondire il tema della gestione dell’immigrazione nel no-stro Paese.

ConclusioniL’immigrazione rappresen-

ta una straordinaria opportunità. Ove efficacemente gestita, essa può contribuire significativamente allo sviluppo economico, sociale e culturale della Nazione nel pieno rispetto della sua sicurezza interna. Nel mondo multi-polare la capaci-tà di aprirsi senza perdere il con-trollo sui propri obiettivi pubblici rappresenta un risultato politico di estremo valore.

Sono state indicate cinque esi-genze da porre alla base dello svi-luppo delle Amministrazioni inca-ricate di gestire l’immigrazione nel quadro più generale della mobilità umana: risultati attesi chiaramente declinati e condivisi in coerenza con gli obiettivi pubblici, dialogo continuo e strutturato con l’utenza ed i gruppi di interesse, collabora-zione con le altre Amministrazioni interne e con gli omologhi esteri, utilizzo appropriato della tecnolo-gia e capacità di valutare la propria attività rispetto ai risultati sociali ef-fettivamente conseguiti.

Con tutta probabilità, negli anni a venire l’immigrazione acqui-sterà ancora maggiore visibilità tra le priorità dei Governi e nella nostra vita quotidiana. Mentre tra Nazio-ni si farà più aspra la competizio-ne, attraverso i confini circoleranno in quantità crescente risorse uma-ne, informazioni e merci preziose. L’auspicio è che le Amministrazioni incaricate di governare il passaggio di questi flussi in trasparenza e sicu-rezza abbiano capacità e strumenti per farlo nel più saggio dei modi, cioè bilanciando i grandi obiettivi pubblici di prosperità, tranquillità e coesione sociale.

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9mezzogiorno

Ritornoal MezzogiornoArturo Marzano

a soppressione della Casmez nel 1993 è stata qualcosa di più della fine di uno strumento dell’interven-to pubblico nel Mezzogiorno. Ne-gli ultimi 15 anni c’è stata una vera e propria rottura di continuità con oltre un secolo di riflessione meri-dionalistica.

Il Meridionalismo classico nella versione cattolico riformista, sociali-sta e comunista, laico democratica, ha subito una profonda cesura nel momento in cui è stato messo in di-scussione il suo fondamento: la unita-rietà della questione Mezzogiorno.

Questo mutamento radicale di ottica, era reso necessario, secondo i suoi sostenitori, dai profondi muta-menti economici e sociali intervenuti nel Mezzogiorno nel corso degli anni ’80 che impedivano una formulazio-ne unitaria delle politiche pubbliche di sostegno.

Certo erano cambiate tante cose nel Sud, le forze sociali, i modelli cul-turali, i processi economici, ma tutto ciò non poteva nascondere il dato di una persistente arretratezza relativa in ogni settore della vita delle regioni meridionali rispetto al resto del Paese e dell’Europa, che chiamava in causa la politica generale dello Stato verso il Mezzogiorno.

In quegli anni si sono registrate delle dure sconfitte della sinistra nel Sud nei più importanti centri agricoli ed industriali.

Le Regioni e le Autonomie locali hanno conosciuto un profondo pro-cesso involutivo sotto la pressione di lobbies politico affaristiche e anche della criminalità organizzata che tut-tora sono evidenti. Manlio Rossi Do-ria arrivò a dire che ”si erige nelle Province meridionali l’enorme edifi-cio della spesa pubblica…, capace di frenare e stravolgere lo sviluppo delle Regioni meridionali”.

Lo scenario non sembra molto cambiato. Il centro sinistra nel Mez-zogiorno da fattore e speranza di progresso sembra essere diventato fattore di conservazione ed elemen-to stesso della crisi.

All’inizio degli anni Novanta per fronteggiare il processo di decaden-za del sud alcune forze interne al PCI meridionale ritennero che fos-se giusto fermare il flusso di spesa pubblica come asse di una battaglia per sconfiggere il sistema di potere della DC.

Anche sul fronte intellettuale alcuni studiosi ritennero che il pro-blema del Mezzogiorno fosse ormai nella mancanza di autonomia e nel-la bassa qualità delle classi dirigenti più che nella insufficienza dell’incre-

mento del reddito, cose certo vere, ma non risolutive di per sé, come si è visto, se distaccate dalla esigen-za di una diversa politica che assu-messe il Mezzogiorno come priorità nazionale

Da queste considerazioni prese le mosse la stagione del “nuovismo” anche nel Mezzogiorno dopo la ca-tastrofe di “tangentopoli”.

Fu la stagione dei sindaci eletti direttamente, delle nuove classi diri-genti provenienti dalla società civile contrapposte al ceto politico, della messa al bando del partito politico, della nascita e della teorizzazione del partito personale.

Fu il tempo del Nuovo Meri-dionalismo, delle economie locali contrapposte alla programmazione, dell’archiviazione di ogni politica di sviluppo industriale ed in generale di ogni attenzione all’economia reale, in nome di una non meglio precisata prospettiva postindustriale, terziaria, immateriale ecc.

Un’intera generazione di ammi-nistratori locali e regionali si formò con queste idee cercando di trasfor-marle in azione di governo caratteriz-zando così il centrosinistra a Napoli, in Campania, nel Mezzogiorno.

Oggi dobbiamo constatare che un intero ciclo politico del centro si-nistra si è chiuso nel Mezzogiorno, e

che, anche al di là della tragedia dei rifiuti di Napoli e della Campania, si è chiuso con un bilancio non positi-vo come attestano tutti gli indicatori a livello nazionale ed europeo.

Occorrerà fare una valutazione attenta in tempi ravvicinati di questa esperienza del centro sinistra più che decennale che ha avuto in Campa-nia uno dei laboratori privilegiati per capire quanto di ciò che è avvenu-to fosse in qualche modo già iscritto nelle premesse.

Ci sono stati certamente seri li-miti di analisi, penso al tema del rap-porto fra criminalità e politica sem-plificato fino a farlo coincidere con il sistema di potere della DC, penso al tema di una nuova industrializza-zione indispensabile per lo svilup-po di Napoli e del Mezzogiorno, al ruolo del Partito, del tutto mancato, e di una politica rinnovata nella co-struzione di una effettiva proposta di governo, penso infine alla capacità di ascolto e di coinvolgimento delle forze più capaci e competenti senza esclusivismi.

C’è anche da riflettere sulle re-sponsabilità del gruppo dirigente nazionale del partito nell’imprimere queste tendenze alle politiche me-ridionali ed in particolare a Napoli all’inizio degli anni ’90.

In ogni caso ciò che è mancato in questi anni è stata una effettiva capacità di governo, quella capacità che segna una svolta nella storia di un Paese e che è riconosciuta come tale senza alcuna forzatura propagandisti-ca e mediatica e che “non consiste nell’annuncio o nella mera gestione di un potere” come ha riconosciuto Isaia Sales.

Per tutte queste ragioni occorre riproporre nella sua complessità la Questione Meridionale. Si tratta di operare “un ritorno”.

Non è una riproposizione del meridionalismo classico, ma una ri-visitazione culturale e soprattutto la costruzione di politiche pubbliche dello Stato verso il Mezzogiorno che oggi diano una scossa dato che nel 2013 non potremo nemmeno più av-valerci dei fondi europei.

Si tratta di operare una ricucitura, la ricostruzione di quel filo rosso che

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10mezzogiorno

sottende il pensiero meridionalistico dalle origini ai nostri giorni e che è possibile riconoscere nelle varie fasi della storia meridionale e nelle batta-glie delle forze di progresso dall’Uni-tà ai nostri giorni.

LE ORIGINIDELLA QUESTIONE MERIDIONALE

“Per definizione, la Questione Meridionale nasce con l’unificazione politico-territoriale del Paese, anche se l’arretratezza relativa del Mezzo-giorno ha radici antiche e preesiste all’unificazione stessa” (1). Su que-sto dato storicamente circostanzia-to si è affermato e sviluppato “quel complesso di studi, analisi, proposte e legislazioni operate da studiosi di ogni indirizzo culturale da Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini, da Guido Dorso a De Viti De Marco, da Antonio Gramsci a Francesco Saverio Nitti, nonché da organi dello Stato e del Parlamento,” (2) che tuttora è alla base del dibattito politico-culturale sul Mezzogiorno contemporaneo in Italia e fuori d’Italia.

Non si tratto’ e non si tratta di una disputa puramente teorica o ac-cademica, basti pensare al rilievo del tutto politico del tema della tas-sazione, dato che “il Mezzogiorno, comparativamente alla sua ricchez-za, sopporta un onere tributario assai maggiore di quello che grava l’alta e media Italia” (3) o della modalità di unificazione del debito pubblico fra le due parti del Paese che faceva dire a Salvemini “il Napoletano e la Sicilia non avevano debiti, quando entraro-no a far parte dell’Italia unita; e l’unità del bilancio nazionale ebbe l’effetto di obbligare i meridionali a pagare dei debiti fatti dai settentrionali” (4). Fin dall’origine, dunque, fu battaglia politica alimentata dal modo in cui era avvenuta l’Unità d’Italia. Da su-bito si crearono due schieramenti: coloro che nutrivano risentimento o avversione per l’Unità Nazionale, e coloro che invece erano stati fautori del processo unitario e che avvertiva-no tutto il peso “di quel senso tragico di costruzione dello Stato”. Anche fra

questi ultimi, tuttavia, esistevano di-versità di opinione in ordine al ruo-lo dello Stato: da un lato Salvemini, fautore di una concezione federali-sta, dall’altro Fortunato e Nitti, più centralisti, etichettati da Salvemini come “unitari fanatici”. Questa dia-lettica politico-culturale si sviluppò ampiamente nei decenni successivi e trovò infine una sistemazione com-piuta nell’Assemblea Costituente del secondo dopoguerra che introdusse l’Istituto regionale nella Costituzione Repubblicana del ’48 al titolo V, mo-dificato poi in senso federalista con la legge costituzionale del 18 otto-bre 2001 n. 3.

LA LEGGE GIOLITTI

Questo fu il retroterra culturale e politico della decisione di predi-sporre gli strumenti per un interven-to diretto dello Stato nel Mezzogior-no nell’immediato dopoguerra. Già all’inizio del ’900 la Legge Speciale “Provvedimenti per il risorgimen-to economico della città di Napoli” presentata da Giolitti nel 1904 racco-glieva interamente la tesi di F. S. Nitti sul ruolo primario dell’industria ai fini dello sviluppo di Napoli e del Mezzo-giorno. Con questa legge si volle im-primere un forte sviluppo industria-le della città di Napoli come asse di una strategia valida anche per il re-sto del Mezzogiorno. Si trattò di un intervento complesso, articolato, che ridisegnò la struttura economica ed urbanistica dell’area napoletana “da area di consumo in area a vocazione produttiva ed industriale” (5). Questo disegno che ha prodotto i suoi effetti fino a qualche decennio fa a Napoli, non riuscì a diventare in quegli anni indirizzo prevalente nel Mezzogior-no, vale a dire politica economica dello Stato e restò confinato dentro la logica dell’intervento speciale lo-calizzato che ha poi caratterizzato la storia del Mezzogiorno fino ai nostri giorni. Tale legislazione speciale, in-fatti, adottata assai frequentemente in relazione ad eventi eccezionali, dal colera di Napoli del 1884 alla costru-zione dell’acquedotto pugliese, alle calamità naturali non era mai riusci-

ta ad innescare dei veri processi di sviluppo. Con la Legge Giolitti si era tentata una vera operazione di svilup-po, ”la sola legge speciale veramente buona” (6), perché con questa legge si affrontavano tutti gli aspetti dal fisco all’energia, dalle infrastrutture alla scuola, l’università, che erano e sono alla base di un processo di in-dustrializzazione. I risultati di questa operazione furono certamente posi-tivi anche se non risolutivi per l’area napoletana: si rafforzò la presenza di scuole tecniche, professionali e dell’università, si creò l’Ente Autono-mo Volturno, si ridisegnò parzialmen-te il confine amministrativo della città di Napoli, si avviarono le due zone industriali ad est e ad ovest dove pure esistevano preesistenze dalla fine dell’800. Ma il Mezzogiorno nel suo complesso non beneficiò di un’egua-le politica, rimase in una condizione di arretratezza che durò, pressoché inalterata, dal 1870 al 1914 chiuso in un’economia prettamente agricola la cui produzione era di pura sussisten-za per le popolazioni rurali.

IL VENTENNIO FASCISTA

La situazione non cambiò so-stanzialmente nel ventennio fascista durante il quale fu insediato a Napo-li “L’alto commissario per la città e la provincia” con Regio Decreto 15 agosto 1925 con il quale si affron-tavano emergenze amminastrative del Comune, carenze infrastrutturali ecc. ma non gli aspetti fondamenta-li dello sviluppo economico di Na-poli e del Mezzogiorno. (7) L’unico intervento ”strutturale” del regime fascista nel Mezzogiorno fu la vasta opera di bonifica idraulica che in-teressò circa un milione di ettari di terra e che riguardò al sud il Gari-gliano, il Volturno, il Sele, la Puglia, la marina di Basilicata, nonché zone della Sicilia e della Sardegna. Ma a questa opera, pur meritoria, non si accompagnò una politica di riforma della proprietà fondiaria e dei patti agrari che avrebbe certo dato im-pulso ad uno sviluppo nuovo della realtà meridionale, benché nel 1922 fosse stata approvata una legge di ri-

forma che fu lasciata cadere (8). Né le avventure coloniali in Africa apri-rono spazi e prospettive alle masse dei contadini poveri meridionali. La stessa “battaglia del grano” e cioè la messa a coltura di vaste estensioni a produzione granaria per rendere au-tosufficiente l’Italia, pur aumentando in modo consistente i raccolti, ebbe dei risvolti negativi sia sul prezzo, più alto rispetto ad altri produtto-ri, sia sulla produttività dell’agricol-tura italiana. Rilevante fu invece la costituzione dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) nel 1933 che operò dei salvataggi bancari ed ebbe il compito di sovvenzionare l’industria. Tale istituto ebbe un ruo-lo centrale nel dopoguerra per l’in-dustrializzazione del Mezzogiorno. E tuttavia l’Italia uscita dal secondo conflitto mondiale era un paese de-vastato con un apparato industria-le concentrato nel nord del Paese, un’industria pubblica da riconver-tire, un’agricoltura che occupava il 42% della popolazione attiva, con 2 milioni di disoccupati e quattro mi-lioni di sottoccupati ed intere regioni soprattutto meridionali in condizioni di estrema povertà.

LA CASSAPER IL MEZZOGIORNO E LA RIFORMA AGRARIA

In questo drammatico contesto prende corpo nel marzo del 1950 da parte del Governo De Gasperi il progetto di una “Cassa per le ope-re straordinarie di pubblico interes-se nell’Italia Meridionale” secondo la denominazione data da Donato Menichella sul modello della Ten-nessee Valley Authority per gli in-terventi nelle zone depresse del Tennesse e Missouri dopo la crisi del ’29-’32 in America. Nello stes-so anno il 21 ottobre il Parlamento Italiano varò un altro importante provvedimento che era stato ogget-to di un duro confronto politico e di aspre lotte sociali: la Legge Stralcio di Riforma Agraria. Con questa leg-ge furono espropriati circa 750. 000

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11mezzogiorno

ettari di latifondo nel Delta Padano, nella Maremma Toscana e Laziale, in vaste zone dell’Italia Meridionale, in Sila. (9) La riforma fondiaria fu certa-mente un’operazione limitata sia per l’estensione delle terre coinvolte, sia per l’esclusione dei contratti agrari, e, tuttavia essa ebbe un rilievo no-tevole. Si formarono delle aziende moderne ed efficienti che occupa-rono decine di migliaia di famiglie, si diede impulso a zone di nuovo svi-luppo agricolo, si incrementò la stes-sa produzione industriale di mezzi e macchinari per l’agricoltura, e tutto ciò ebbe un effetto positivo su tutta l’economia meridionale. Cassa per il Mezzogiorno e Riforma Agraria fu-rono le due gambe di un riformismo moderato che, per quanto timido e contraddittorio, avviò un nuovo cor-so nel Mezzogiorno. La Cassa per il Mezzogiorno ebbe una dotazione decennale di 1000 miliardi di vec-chie lire all’anno; tra le sue missioni non era prevista un’azione diretta nel settore industriale, ma un vasto programma di opere pubbliche quali infrastrutture di preindustrializzazio-ne. Forte ma molto argomentata fu la critica che l’opposizione di sinistra, e non solo, mosse a questo disegno De Gasperiano.

In primo luogo si sostenne che il problema dell’arretratezza del Mez-zogiorno non poteva essere assimi-lato a quello di una qualunque area depressa in cui si interviene con stru-menti straordinari.

La Questione Meridionale era il problema centrale della vita na-zionale e la cui soluzione era lega-ta al rinnovamento di tutta la vita nazionale.

La redenzione del Mezzogiorno avrebbe dovuto essere opera del-le forze sociali del Mezzogiorno e dell’intero Paese, attraverso un’ope-ra di riforme profonde degli asset-ti sociali e politici generali e attra-verso l’autogoverno regionale delle popolazioni interessate. Era dunque un problema di portata storica che riguardava il modo di essere dello Stato unitario, e il modo in cui si era realizzata l’“Unità nazionale”.

“A Teano si incontrarono due Italie: un’Italia ancora semifeudale

e un’Italia in cui era già avviato uno sviluppo capitalistico moderno”. “Per l’Unità nazionale fu compiuto il sa-crificio, come si disse, ma si creò la Questione Meridionale” (10). “Anche una linea liberale e liberista, come quella proposta da Giustino For-tunato, fisco equo, formazione del risparmio, credito a buon mercato, sostegno all’esportazioni agricole, formazione di un nuovo ceto di im-prenditori, trasformazioni fondiarie, divisione della proprietà, accumu-lazione del capitale. E poi servizi, scuole, sanità, infanzia. Questa linea poteva avere una sua fondatezza, ma prevalse la logica del Sud come pro-blema speciale e del programma dei lavori pubblici” (11). Prevalse dunque l’idea di un “Governatorato dell’Italia Meridionale” piuttosto che lo stimolo e la promozione dell’autogoverno e dell’autonomia del Mezzogiorno.

In estrema sintesi questi erano i rilievi politici, intellettuali, istitu-zionali, economici che furono mos-si all’istituzione della Cassa in uno con quelli relativi alla natura della dotazione finanziaria: se aggiuntiva o sostitutiva degli stanziamenti di bi-lancio ordinario.

L’attività della Cassa si è svilup-pata lungo 43 anni, dal 1950 fino all’anno della soppressione (1 mag-gio 1993) avvenuta con la legge 19 dicembre 1992 n. 488, con alter-ni risultati che vanno analizzati in modo sereno e senza schemi ideo-logici o semplificazioni liquidatorie. Nel primo periodo di attività – dal ’50 al ’64 – si ebbe nel Mezzogior-no un forte sviluppo agricolo, grazie anche alla riforma agraria del ’50, e infrastrutturale. Nel secondo perio-do – 1965-’70 – ci fu un massiccio sviluppo industriale, soprattutto in-dustria pesante, siderurgica, chimi-ca e petrolchimica ad opera delle Partecipazioni Statali. Si andò con-figurando, così, un assetto industriale fondato su grandi impianti povero di piccole e medie imprese, con scarsa capacità di innescare processi loca-li e, soprattutto, esposto a quelli che saranno poi gli effetti dello shock petrolifero e del rialzo delle mate-rie prime dei primi anni ’70. E tut-tavia si può affermare che in questi

due decenni ci fu una contrazione del gap nord-sud; il PIL pro capite meridionale, nel 1951 pari al 55% di quello del centro-nord, aumentò nel ’61 al 56,2% e nel ’71 raggiunse il 61,3% per poi scendere all’59% nel ’81 e al 59,4% nel ’92. Lo stesso tasso di disoccupazione mostrò un andamento coerente con la dinami-ca del PIL pro capite; dal 9,1% del 1951 si arrivò progressivamente al 20,4% del 1992.

LA NASCITADELLE REGIONI

Il 1970 rappresentò una svolta nella politica meridionalistica: con la nascita delle Regioni a statuto or-dinario si rafforzò l’idea che tali isti-tuti potessero essere fattori decisivi per l’affermazione di uno sviluppo autopropulsivo ed organi di governo di politiche più legate alle specificità locali e più in grado di orientare poli-tiche economiche adeguate.

Il pensiero meridionalistico più avveduto da sempre ha visto nelle Regioni il coronamento di un disegno autonomistico che viene da lontano, che affonda le radici nel patrimonio storico del meridionalismo classico; un modo nuovo non centralistico di affrontare la questione meridionale. Meridionalismo e Regionalismo sono due facce di una politica nuova ver-so il Mezzogiorno e dentro il Mez-zogiorno, ed un terreno di iniziativa di grandi forze intellettuali, sociali, sindacali, politiche ed imprendito-riali, non solo al Sud ma anche nel resto del Paese.

La Legge n. 64 del 1986 fu il punto di approdo di questa nuova frontiera meridionalistica. Con que-sta legge la Cassa per il Mezzogior-no stemperava il suo carattere di “Ente Speciale” e di “Governatorato dell’Italia Meridionale”. Si prendeva atto della nuova realtà istituzionale delle Regioni e dunque la Cassa veni-va trasformata quasi in “Agenzia delle Regioni meridionali”. Si introduceva-no i primi elementi di una program-mazione contrattualizzata fra sogget-ti economici, sociali, istituzionali. Si predisponevano contratti di program-ma con industrie, Olivetti, Texas In-

struments, Centri di Ricerca (CNR) e P. A. volti a rafforzare la struttura produttiva del Mezzogiorno. I risul-tati di quello che fu uno sforzo ampio ed una vasta mobilitazione di risorse umane e finanziarie non furono pari alle premesse. Persisteva alla fine degli anni ’80, come si è visto, tutto il divario nord-sud, al punto che il Mezzogiorno con una popolazione pari al 36% di quella nazionale par-tecipava alla formazione del PIL nella misura del 25%.

Questa performance del Mez-zogiorno metteva in discussione un caposaldo del meridionalismo de-mocratico che affidava al sistema delle Regioni meridionali il compito di imprimere una svolta decisiva alle politiche pubbliche nel Mezzogior-no, anche al di la del colore politico delle singole maggioranze regiona-li. E tutto ciò, proprio in previsione della intensificazione del processo di un’unificazione europea, con la firma del trattato di Maastricht del 1992, appariva un grave handicap per il Mezzogiorno e per il sistema Italia nel suo complesso.

La coscienza meridionalistica ap-pariva appannata e sulla difensiva, in vasta parte del Paese si esprimeva un fastidio, un’insofferenza, e anche una rottura di solidarietà verso il Mezzo-giorno su cui soffiava abbondante-mente la Lega Nord.

Il pensiero politico e la ricerca culturale sul Mezzogiorno sembrava-no stanchi e demotivati. Nella grande stampa nazionale prevaleva l’imma-gine di un Mezzogiorno preda della criminalità e di una politica predatri-ce di risorse pubbliche.

A metà degli anni ’80 una ricer-ca dell’Istituto Cattaneo di Bologna sulle performances delle Regioni Ita-liane aveva accertato che in genera-le tutte le Regioni, e segnatamente quelle meridionali, avevano accom-pagnato e assecondato le dinamiche di sviluppo delle singole realtà e del Mezzogiorno nel suo complesso, piuttosto che modificarle. Il Regio-nalismo, dunque, non era riuscito ad incidere in modo significativo su due terreni decisivi: quello di un’azio-ne decentrata più efficace di quella statale e soprattutto non aveva con-

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12tribuito ad invertire il divario storico nord-sud.

NUOVO MERIDIONALISMO

Di più, nei due decenni 1970-’90 sembrava affermarsi un ulteriore dua-lismo politico-istituzionale accan-to a quello economico-sociale. In questo contesto si andò allo sciogli-mento della Cassa e alla soppressio-ne dell’Intervento Speciale nel Mez-zogiorno sulla base della legge 488 del 1992.

Furono anni difficilissimi per il nostro Paese. Era in pieno svolgi-mento la bufera di tangentopoli, la mafia uccideva i giudici Falcone e Borsellino. La situazione economica e della finanza pubblica era gravissi-ma. Il sistema politico era completa-mente destrutturato con la scomparsa dei tradizionali partiti di governo. Si assunsero già con il governo Amato (anno 1992) una serie di provvedi-menti per fronteggiare la crisi della finanza pubblica e avviare la priva-tizzazione del patrimonio pubblico a partire dalle Partecipazioni statali. Nel Mezzogiorno si apri’ una rifles-sione critica sulla esperienza e sui risultati dell’intervento straordinario che coinvolse forze intellettuali, sin-dacali, imprese, partiti politici. C’era amarezza e delusione per i risultati poco soddisfacenti; si mettevano in discussione i capisaldi della cultura meridionalistica classica. C’era chi si chiedeva se non fosse più giusto puntare sulle forze del “mercato” piuttosto che sull’intervento pubbli-co. Si arrivò a mettere in dubbio la giustezza e l’ opportunità di stanzia-re fondi pubblici per il Mezzogiorno. C’è chi sostenne, come Carlo Trigilia, che il problema del Mezzogiorno era innanzitutto un problema di “di-pendenza” e di mancanza di auto-nomia piuttosto che un problema di quantità di risorse. (12) E chi, come Gianfranco Viesti, negò l’esistenza di una “Questione Mezzogiorno” intesa come questione unitaria dello stato italiano e preferì parlare di più “Mezzogiorni” “in cui gli interventi non possono che essere attuati dalle comunità locali”. (13)

Su queste basi e nel quadro di una faticosa riorganizzazione delle competenze a seguito della soppres-sione della Cassa prese corpo ciò che verrà definita la “nuova programma-zione”, una programmazione nego-ziata fondata appunto su strumenti contrattuali (contratti d’area, contratti di programma, patti territoriali). Que-sta nacque certo dalla giusta esigenza di coinvolgere le forze sociali, politi-che, istituzionali, economiche, in un disegno che partisse dal territorio e che fosse indirizzato al territorio. Si utilizzò pienamente la legge 488 nel-la parte di incentivazione industriale realizzando anche risultati positivi quali un “ispessimento del tessuto produttivo” meridionale, come rile-vò la SVIMEZ nel valutare il periodo 1996-2001, ma certo in un quadro di massima non soddisfacente.

FONDI EUROPEI

Anche l’utilizzo dei fondi Euro-pei del Quadro Strategico Nazionale ai fini delle politiche di coesione e di rafforzamento della competitivi-tà, come si è configurato nel periodo 1994-’99 e 2000-’06, non ha dato ri-sultati apprezzabili per il Mezzogior-no. E ciò si è reso evidente soprattut-to alla luce della ingente quantità di risorse investite al Sud, che nel solo periodo 1998-2004 ammontava a 120 miliardi di Euro (14). Il Quadro Stra-tegico Nazionale 2000-2006 è stato purtroppo utilizzato seguendo una lo-gica di spesa dispersiva, frantumata, indirizzata su tanti progetti per lo più di interesse locale. È del tutto evidente che progetti di interesse locale abbia-no una loro utilità indiscussa in tanti casi ai fini di una crescita delle comu-nità, ma la sommatoria sic et semplici-ter di tante azioni di sviluppo locale, proprie di un piano regolatore gene-rale (P. R. G. ), non fa “lo sviluppo” che, invece si consegue se tali azioni perseguono una priorità strategica in-dividuata, condivisa e concertata tra più soggetti e più livelli istituzionali, dalla periferia al governo centrale, assunta e riconosciuta come priorità nazionale. Mi sembra che questo sia il limite della cosiddetta “nuova pro-grammazione”: la mancanza di un

orizzonte strategico che valga per il Mezzogiorno ma anche per il Paese, la fissazione di anelli strategici meri-dionalistici e nazionali che tirino tutta la catena. Del resto ci si può chiedere legittimamente come si possa parla-re di “programmazione” a proposi-to di Mezzogiorno in assenza di un quadro di programmazione a livello nazionale al di là di ogni suggestione neo-dirigistica. Ed in realtà è questo il vero problema del nostro Paese: il Mezzogiorno non potrà diventare una priorità nazionale, come è più che mai necessario, se non si defini-sce un progetto per l’Italia in Europa e nel Mondo. Progetto che, bisogna riconoscere, ebbe la classe dirigente del secondo dopoguerra, quando di-segnò complessivamente il ruolo del-lo Stato e delle politiche pubbliche nel Mezzogiorno nel quadro di una visione europea ed Atlantica (Piano Marshall). Da più di un quindicen-nio l’Italia stenta ad imboccare una nuova via per lo sviluppo e la cresci-ta. Siamo ovviamente dentro un pro-cesso di economia globale; il binomio Europa-Mercato ha segnato una di-scontinuità rispetto agli anni ’80 cer-tamente positiva. Ora però occorre un indirizzo strategico, una direzione di marcia che ridefinisca la mission del Paese nell’industria, in agricoltura, nei settori economici fondamentali, nei grandi servizi, nella formazione, nella ricerca e nella tecnologia. Non è tempo di indulgere, occorrono scelte coraggiose e lungimiranza progettua-le per rilanciare politiche pubbliche all’altezza delle sfide che i tempi ri-chiedono. E questo va fatto soprattutto nel Mezzogiorno dove sembra talvol-ta che la situazione, ora per i rifiuti di Napoli, ora per gli attacchi della criminalità, ora per la grave crisi eco-nomica e sociale, induca al più cupo pessimismo. E questo pessimismo è palpabile nel senso comune, diffuso soprattutto nelle nuove generazioni, si riscontra nella corrispondenza dei lettori ai quotidiani locali e nazionali e trova purtroppo conferma nei dati dell’ultimo rapporto SVIMEZ. Il tasso di disoccupazione al Sud è al 28%, mentre al centro-nord si assesta al 6,9%. Negli ultimi dieci anni oltre 600 mila persone hanno abbandona-

to il Sud per il centro-nord; nel solo 2007 ci sono stati 120.000 trasferi-menti di residenza al Nord e 150.000 pendolari, un fenomeno migratorio simile a quello del 1963 quando si trasferirono al nord 295.000 meri-dionali. C’è da riflettere su queste ci-fre che mettono in discussione tante analisi e luoghi comuni secondi cui i giovani meridionali non hanno una disponibilità ad emigrare al Nord e che rifiuterebbero certi tipi di lavoro. Così come c’è da riflettere sulla esi-genza di adeguare a questo tipo di fenomeno sociale il nostro sistema di Welfare e le nostre politiche sociali a partire dalla casa.

Anche i dati sul PIL pro capite non sono lusinghieri. Nel 2007 è sta-to pari a 17.482 Euro, il 57,5% del centro-nord dove è stato superiore di 13.000 Euro. L’economia meri-dionale nel 2000-2007 è cresciuta del 2%, molto meno della Spagna (4,9%), dell’Irlanda (5,5%), della Gre-cia (6,2%) dove proprie le aree debo-li hanno sostenuto la crescita. Anche per ciò che riguarda il PIL pro capite siamo fermi ai dati fra il 1961, quan-do si registrò un 56,2%, e il 1971 con il 61,3% rispetto al centro-nord.

IL CASO NAPOLI

In questo contesto un particolare rilievo assume la crisi che attanaglia Napoli definita dal vicedirettore della SVIMEZ Luca Bianchi come”palla al piede della Regione Campania” (15). Napoli che nel 2007 ha avuto addi-rittura una crescita negativa -0,3% ri-spetto al 2006 continua a vivere “una crisi strutturale e di senescenza ur-bana” secondo una definizione del-la Fondazione Agnelli di alcuni anni fa. Quando entrano in crisi in modo irreversibile le due aree industria-li Bagnoli ed Area Flegrea ad ovest, S. Giovanni ed area orientale, non si chiudono solo due pezzi dell’appara-to industriale, ma si concludono due esperienze storiche di industrializza-zione avviate alla fine dell’800 e nei primi del ’900 (Legge Giolitti-Nitti); si conclude un’intera fase della politica industriale e meridionalistica, che ha determinato l’assetto stesso della cit-tà ed il complesso industriale-portua-

mezzogiorno

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13le prodotto di quelle scelte. La crisi dell’industria pubblica che a Napoli era il 60% dell’intero Mezzogiorno, accompagnata dalla pressoché totale scomparsa delle aree industriali del-la provincia dislocate su 1400 ettari ha segnato profondamente in modo negativo da ogni punto di vista, non solo economico, il volto dell’area na-poletana e ha depotenziato la funzio-ne che Napoli ha svolto storicamente nella regione Campania e nel resto del Mezzogiorno. In questi anni al Sud mentre si discuteva e ci si divide-va fra i fautori della programmazione decentrata o verticale, fra sostenitori del Mercato o dello Stato, si è avviato un tumultuoso processo che ha sman-tellato quasi tutta l’industria pubblica e privata, frutto di un secolo di lotte sociali e di battaglie culturali. Il più importante istituto di credito del Mez-zogiorno, il Banco di Napoli ha perso la sua autonomia con una singolare operazione di vendita – fusione, sono stati ridimensionati o scomparsi cen-tri di ricerca e di promozione econo-mica come Isveimer e l’agroalimen-tare. Non era inevitabile che tutto ciò accadesse pur tenendo conto dei necessari processi di ristrutturazione dell’economia globale. Si potevano e si dovevano avviare alternative pro-duttive forti, guidare ed orientare gli stessi processi di modernizzazione. Certo non è stata un’alternativa forte

la prospettiva del turismo, pure indi-spensabile, ma che da sola costituisce una di quelle “percolose illusioni” dalle quali già F. S. Nitti metteva in guardia. Né tantomeno si è sviluppa-to un “terziario” qualificato, a parte il proliferare di attività commerciali e di “tempo libero”, anche perché questo nasce in presenza di un robusto set-tore primario e secondario. Napoli dunque oggi declina e declina an-che la sua funzione propulsiva verso l’intero Mezzogiorno che, a sua volta, avverte il mancato apporto dell’anti-ca Capitale. Si è dunque sottovalutata l’importanza di aprire una nuova fase della industrializzazione del Mezzo-giorno ai fini dello sviluppo occupa-zionale e della vita civile di Napoli e del Sud, una nuova industria fatta di innovazione, di qualità, di ricerca, di formazione qualificata.

RIPARTIRE DALL’ECONOMIA REALE

Come si è visto il quadro non è davvero esaltante. Che dire? Consi-derare definitivamente fallito ogni tentativo di “rinascita del Mezzo-giorno”, abolire davvero dall’agenda politica il tema “Mezzogiorno”, ab-bandonare il 36% della popolazione italiana al suo destino?

Non è possibile e sarebbe sba-gliata per il Paese una simile pro-spettiva, ma al tempo stesso non si possono non trarre tutti quegli in-segnamenti dall’esperienza più che cinquantennale di politiche pubbli-che meridionalistiche. Occorre per-ciò una netta correzione di indirizzo strategico nelle politiche meridiona-listiche e nazionali. Bisogna ripartire dall’Economia Reale, dai grandi set-tori produttivi, dall’agricoltura che ha prodotto una splendida perfor-mance con una crescita del 6,9%, da una nuova industrializzazione legata alla ricerca e all’università, dalle grandi infrastrutture materiali ed immateriali, riassunti in grandi obiettivi programmatici concertati nazionalmente su cui concentrare le risorse pubbliche e private. La sfida del federalismo fiscale che prende-rà corpo nel nostro ordinamento è troppo impegnativa perché le classi dirigenti locali e nazionali possano cancellare il Sud. Tutte le Regioni meridionali, ma anche alcune del centro-nord, sono in debito verso la fiscalità generale, dal momento che spendono più di quanto incamerano in termini di tributi propri (16). È que-sto un grosso problema che certo va affrontato potendo contare sulla so-lidarietà delle Regioni più forti. Ma la solidarietà da sola ed a lungo ter-mine non regge ne può bastare. Oc-

corre che le Regioni del Sud, come ha di recente affermato Tito Boeri (17), promuovano per davvero lo sviluppo economico, sociale, civile e culturale nei loro territori affinché producano analoghi livelli di reddi-to del Nord e coprano così il defi-cit storico fra entrate e uscite. Ciò è possibile se le Regioni meridionali, a partire dal Quadro Strategico Na-zionale 2006-2013 faranno un salto di qualità impostando con il Gover-no centrale in modo solidale e re-sponsabile e con le parti sociali ed imprenditoriali, un quadro preciso di priorità che abbiano davvero un ri-lievo meridionalistico e nazionale su cui concentrare le risorse finanziare disponibili. Un nuovo indirizzo stra-tegico occorre al Paese e al Mezzo-giorno ed è su questo terreno che le Regionali meridionali possono eser-citare il loro ruolo di organi di gover-no dello sviluppo in modo responsa-bile e solidale secondo lo spirito e la lettera della Costituzione. È questa la strada per riaffermare la validità del disegno di fondo dei nostri Pa-dri Costituenti nel solco del pensie-ro meridionalistico più fecondo che nel binomio autonomia-regionalismo ha visto la prospettiva di superamen-to della Questione Meridionale e la piena unità della Nazione.

BiBLiOgrAFiA

S. Cafiero: Il Mezzogiorno d’Italia 1. dall’unificazione al secondo dopo-guerra – Il Parlamento Italiano. Vo-lume 16, pag. 316. Ed Nuova CEI Milano 1991. Napoli dopo un secolo. ESI Napo-2. li, 1960. Premessa a cura di Anda-lò, Compagna, De Capraris, Doria, Pane, pag. 2. G. Fortunato: La questione meri-3. dionale e la riforma tributaria, in Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano Vol. 2 pag. 345. Laterza 1911. G. Salvemini. Opere vol. 1;La que-4. stione meridionale. in Scritti sulla questione meridionale pag. 33. Ei-naudi 1955. F. S. Nitti: Scritti sulla questione 5. meridionale. Vol. 3 pag. 127. La-terza 1978F. Isabella: Vecchie e nuove leggi 6. speciali. Napoli dopo un secolo. ESI. Napoli 1960 pag. 333.

F. Isabella. ibidem pag. 334. 7. D. Mack Smith. Storia d’Italia. 8. Vol. 3 pag. 623. Laterza 1964. G. Medici: La riforma agraria e lo 9. sviluppo dell’economia-Il Parla-mento italiano. Vol. 16. pag. 120. Nuova CEI Milano 1991. G. Amendola: Discorsi parlamen-10. tari-Camera dei Deputati Vol. 1 pag. 97. Roma 2000. G. Amendola. ibidem pag. 98. 11. C. Trigilia: Sviluppo senza auto-12. nomia. pag. 171. Il Mulino. Bolo-gna 1992. G. Viesti: Abolire il Mezzogiorno. 13. pag. 17 Laterza 2003. N. Rossi: Mediterraneo del nord. 14. pag. 35. Laterza 2005. L. Bianchi: Intervista al Corriere del 15. Mezzogiorno del 5-9-2008. Ricerca del Prof. Massimo Bordi-16. gnon, Scienze delle finanze. Uni-versità cattolica Milano. Tito Boeri: Intervista al Quotidiano 17. nazionale del 5-8-2008.

mezzogiorno

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15M•e•z•z•o•g•i•o•r•n•o•e•s•v•i•l•u•p•p•o•l•o•c•a•l•e

Dal vissuto di un decennio di azione speri-mentale per lo sviluppo territoriale, “il problema dei problemi” non presenta questioni dissimili da quelle trattate su Mezzogiorno-Europa.

Pur nelle comprensibili diversità di sfumature e di approcci, sembra che la convergenza di opi-nioni sulle risorse da mobilitare e le opportunità da cogliere confermino la validità dei principi fon-danti della unificazione europea e degli indirizzi per l’utilizzo dei fondi comunitari: Partenariato, Concertazione, Integrazione, Decentramento, Sus-sidiarietà, Innovazione amministrativa, Concentra-zione, Apertura internazionale, Promozione delle risorse endogene,…

Sconcerta il fatto che a fronte di tanta condivi-sione di analisi e proposte, non si registri analoga coerenza, convergenza e tensione operativa sul piano dei comportamenti politico-amministrativi, nonostante sia chiaro a tutti che il cambiamento richiesto sia urgente e necessario, perché l’ineffi-cacia del sistema pubblico genera costi economi-camente e socialmente insostenibili.

Evidentemente, il vizio storico di utilizza-re le risorse pubbliche per mantenere potere e consensi politici, prevale ancora sulla domanda di innovazione e sviluppo delle stesse comuni-tà meridionali.

Il “nemico” è, dunque, una diffusa cultura e pratica politica che stenta ad innovarsi.

Sul punto può essere utile esaminare quanto accaduto nel concreto sforzo di attuare le politiche comunitarie di sviluppo e coesione a dimensioni più prossime al territorio, ragionare sulle difficol-tà incontrate proprio nelle dinamiche del potere politico nel rapporto periferia-centro.

L a g e n e s iÈ bene qui richiamare che le politiche per lo

sviluppo territoriale sono state volute dallo Stato centrale e dall’Unione Europea, trovano consoli-dati filoni di intervento nelle attività delle Nazio-ni Unite per lo Sviluppo Umano e sono rilanciate nell’Agenda di Lisbona e nelle strategie comuni-tarie per il 2007-2013, anche per le aree del me-diterraneo. È pur vero che le suggestioni di loca-lismo autoreferenziale hanno prodotto eccessi ed errori (D’Alema), ma appartengono ad una stagio-ne in cui appariva prioritaria l’esigenza di stimo-lare l’orgoglio delle classi dirigenti meridionali e reagire alla chiusura dell’intervento straordinario mettendo in gioco le risorse endogene (peraltro tanto retoricamente evocate da tutti). Sul piano

politico-amministrativo, programmatico e finan-ziario, nessuno degli strumenti messi in campo ha alimentato tali suggestioni. Alla già avanzata crisi dello Stato-Nazione contribuisce piuttosto l’incer-tezza-incoerenza dei comportamenti nelle azioni dei governi nazionali e regionali. Pur in presenza di una strategia politica nazionale ed europea per lo sviluppo territoriale, si fa fatica ad attuare con-cretamente i principi e gli indirizzi comunitari in materia di decentramento, sussidiarietà, integra-zione, partenariato, concertazione,…

In Italia sarebbe bastato attuare gli indirizzi del quadro di riforma e di decentramento delibe-rati dal Parlamento già con la L. 142/90, precisati con il dlgs 267/2000 nel quadro più generale della riforma del titolo V della Costituzione. Non è an-data così e, nel frattempo, la domanda di autono-mia dei territori si è organizzata sotto le bandiere leghiste, in forme di conflitto tra centro e perife-ria dello Stato. La rappresentazione conflittuale di tale domanda è risultata più credibile rispetto alle promesse di decentramento non mantenute in tempi ragionevoli.

Il maggior ruolo riconosciuto alle Regioni nel periodo di programmazione 2000-2006 è stato sprecato con il riprodursi di neocentralismi regio-nali, con l’accentramento di funzioni gestionali

C A MB IA RE L A CULT UR A E L A PR AT IC A POL I T IC AOsvaldo Cammarota

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16M•e•z•z•o•g•i•o•r•n•o•e•s•v•i•l•u•p•p•o•l•o•c•a•l•e

che, da tempo, il quadro di riforma avrebbe volu-to in capo ai Comuni, magari in forma associata su basi di Sistemi territoriali per favorire decen-tramento e innovazione amministrativa, la con-centrazione e l’integrazione tra risorse endogene e investimenti per lo sviluppo. Alla esigenza di dare centralità al territorio –indotta anche dallo sviluppo della economia moderna e dalla globa-lizzazione – si è risposto con il centralismo delle istituzioni formali di governo e con un esercizio conservatore e autoreferenziale di un potere po-litico più permeato dalla contrattazione che dalla concertazione.

La cultura e la pratica politica prevalente, nei fatti, scoraggia ogni sforzo di autonomia, di assun-zione di responsabilità e di coesione posto in es-sere a livello territoriale. È un’affermazione pesan-te, ma che si fonda su fatti concreti che potranno essere confutati solo da un profondo mutamento di comportamenti politico-amministrativi e, forse, da un inevitabile ricambio di classi dirigenti. Nella sintetica trattazione che segue se ne approfondi-scono le motivazioni.

P a r t i a m o d a i r i s u L t a t i

Gli elementi che si offrono alla riflessione scaturiscono dalla scelta fatta dalla Commissione Europea nel 1997, di accompagnare lo sviluppo territoriale in 89 ambiti territoriali scelti dai paesi membri. In Italia il POM Sviluppo Locale – Patti Territoriali per l’Occupazione Ob. 1, ha interessato 10 sistemi territoriali (3 in Sicilia, 1 in Sardegna, 1 in Puglia, 2 in Campania, 1 in Abruzzo, 1 in Mo-lise e 1 sull’Appennino Centrale). Sugli esiti com-plessivi è in corso un lavoro di sintesi dei risultati, la “Recuenta dei PTO”, i dati saranno noti entro

la fine del 2008. Non si intende qui alimentare il confuso, generico – e talvolta disinformato – dibat-tito sullo sviluppo locale, si circoscrive il caso alle uniche esperienze che possono rendere conto di un ciclo compiuto di sperimentazione decenna-le, attuato per volontà della Commissione Europea (n.3978 del 29/12/’98) e dei Governi nazionali che si sono alternati nel decennio ’97-2007 (delibere Cipe 71/’98; 206/’99; 83/2002; 57/2005; 36/2008). Sui risultati raggiunti si preferisce non alimentare vizi di autoreferenzialità, i lettori più interessati possono assumere i dati ufficiali verificati e certifi-cati dalle competenti Autorità nazionali e regionali di Programmazione, di Spesa e di Pagamento e dai siti web dei PTO. Basti dire che queste esperienze sono considerate buone prassi dalla CE e dai Go-verni nazionali che si sono alternati.

Quel che qui interessa porre maggiormente in evidenza sono i risultati immateriali che questa sperimentazione ha prodotto, perché hanno valen-ze che vanno ben oltre i singoli territori interessa-ti. Si è concretamente dimostrato che i principi di partenariato, concertazione, integrazione, decen-tramento, …, se coerentemente applicati, possono davvero produrre risultati di efficienza, efficacia ed economicità, oltreché tempestività e trasparenza nell’utilizzo delle risorse pubbliche.

È un dato ormai acquisito nella coscienza dei Sindaci interessati alla sperimentazione e della co-munità scientifica di esperti in materia, che i risul-tati ottenuti non sarebbero mai stati raggiunti sen-za i beni immateriali costruiti e accumulati durante il percorso di attuazione degli interventi.

I beni immateriali sono più difficilmente quantificabili, ma la loro esistenza è testimoniata dall’indiscutibile miglioramento delle condizioni di contesto (cooperazione tra i Comuni, riduzione dei conflitti tra le parti sociali, Capitale sociale ter-ritoriale convergente su obiettivi di sviluppo con-certati e condivisi, capitale umano e professionale adeguato, conoscenza delle risorse endogene di-

sponibili, analisi territoriale dei punti di forza e di debolezza,…) che ha consentito tempestività di at-tuazione e congruenza degli interventi rispetto alla domanda di crescita delle comunità locali.

Le chiavi di successoLo sviluppo territoriale è il fenomeno più stu-

diato degli ultimi 15 anni. Decine di ricerche sono state promosse dai Ministeri dell’Economia, del Lavoro, del Welfare, della Ricerca scientifica, da strutture pubbliche (Formez, Isfol, Sviluppo Italia, Italia Lavoro, …) in collaborazione con prestigio-se Università (Milano, Trento, Roma, Napoli, Bari, Palermo…) impegnando ricercatori e studiosi di diverse discipline Geografi, Urbanisti, Economi-sti, Sociologi, Giuristi, Antropologi, … Sarebbe, tra l’altro, interessante fare il punto di tante ricer-che e, se si è trovato qualcosa di utile, dare digni-tà di policy alle culture operative per lo sviluppo territoriale.

Di certo questi lavori di ricerca hanno contri-buito a mettere a fuoco i limiti e le chiavi di suc-cesso di queste esperienze. Senza nessuna pretesa di sintesi si richiamano alcuni elementi e fattori cri-tici di successo che sono maggiormente riscontrati nella concreta esperienza di campo:

La dimensione • mediana dell’area di intervento (sub-provinciale e intercomunale)Partenariato istituzionale e sociale (collabora-• zione pubblico-privato)Concertazione (metodo moderno per tratta-• re i conflitti)Analisi territoriale condivisa (conoscenza di • risorse e opportunità, minacce e rischi)Programmazione di interventi concorrrenti • con gli obiettivi strategici nazionali-europeiProgettazione (verifica di fattibilità degli inter-• venti ritenuti prioritari)Affidabilità del soggetto responsabile dell’at-• tuazioneDecentramento delle responsabilità attuativa• Valutazione, Monitoraggio e Controllo in itine-• re, ex ante ed ex post (come strumento di sele-zione, accompagnamento e sussidiarietà)

La selezione delle azioni ritenute prioritarie nel contesto territoriale, l’assegnazione di risorse commisurate all’effettiva capacità di progettazione e di spesa, l’attribuzione di responsabilità dirette nell’attuazione degli interventi, unitamente ad un opera continua e rigorosa di vigilanza e control-lo sugli stati di avanzamento del processo, sono stati i principali ingredienti che hanno determina-to il successo dell’esperimento POM-PTO. Non a caso sono ingredienti che mancano in tante altre

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17M•e•z•z•o•g•i•o•r•n•o•e•s•v•i•l•u•p•p•o•l•o•c•a•l•e

esperienze considerate fallimentari (non sempre a ragione).

e s P e r i m e n t o riuscito, occasione s P r e c a t a

Questi elementi erano già noti in fase di ela-borazione della programmazione 2000-2006. Grazie al Programma Aggiuntivo Cipe per i PTO (Delibere 83/2002 e 57/2005) ciascun sistema ter-ritoriale interessato ha potuto elaborare e proporre un piano di azioni integrate per il consolidamento dei risultati del PTO e l’ulteriore avanzamento del-le strategie di sviluppo concertate e condivise con le Amministrazioni e le comunità locali.

Nei POR 2000-2006 sembrava che i Progetti Integrati Territoriali dovessero accompagnare que-sti processi e diffondere il modello operativo anche in altri Sistemi Territoriali di Sviluppo. In particola-re in Campania, gli ambiti di intervento sono stati individuati sin dal 2001 con il Piano Territoriale Regionale (PTR) con la felice intuizione di dover integrare la pianificazione territoriale, la program-mazione economica, il decentramento e l’innova-zione amministrativa. Nei fatti è prevalso il setto-rialismo gestionale e il neocentralismo regionale, insieme al centralismo di periferia rivendicato da singoli Comuni e Province. Le Regioni non han-no ritenuto di dare seguito nemmeno alle buone prassi certificate dalla CE e dallo Stato.

È innegabile che le scelte di programmazio-ne operate per l’utilizzo delle risorse comunitarie, siano state oggetto di contrattazione tra i diversi Assessorati, tra Regione ed Enti Locali e, talvolta, tra Regione e parti sociali. È altrettanto evidente che il fine della contrattazione è stato il manteni-mento di equilibri politici e “pace sociale”. Rag-giunto il proprio scopo, ciascun “contraente” ha comprensibilmente perso ogni motivazione a per-seguire strategie integrate di sviluppo dirette ad obiettivi più alti, di interesse e di bene comune. La concertazione è ben altro. Essa si fonda sui pro-blemi da affrontare e l’individuazione condivisa delle priorità a diversa scala, sulla cooperazione nella filiera istituzionale e con le parti sociali, sul-la trattazione dei conflitti con il coinvolgimento responsabile degli interessi in campo,… se non è questo, la concertazione assume il valore del vec-chio consociativismo che già portò alla crisi politi-ca, economica e sociale dei primi anni ’90. Prima di parlare di “fallimento della concertazione” la si dovrebbe fare davvero.

Sul piano amministrativo la responsabilità di attuare i Progetti Integrati è stata disintegrata in capo ai responsabili regionali delle innumerevoli Misure del POR 2000-2006, in aperta contraddi-zione con i richiamati principi di decentramen-to, sussidiarietà, integrazione e concentrazione delle risorse.

Il principio di integrazione si è disperso tra procedure asimmetriche e asincroniche, disposi-zioni contrastanti, farragini burocratiche, conflitti di poteri nella filiera istituzionale e negli apparati amministrativi,…

È accaduto così che, anche quando il terri-torio si è sforzato di fare sistema, è risultato più “naturale” (conveniente? agevole?) assecondare i tanti particolarismi settoriali, di natura politica o amministrativa, negoziare con i singoli Enti Locali (551 Comuni e 5 Province nel caso della Campa-nia). Il dannoso fenomeno della frantumazione e frammentazione delle risorse è quindi radicato in comportamenti che risultano difficilmente conci-liabili con strategie di sviluppo efficaci. Nel mi-gliore dei casi si registra solo efficienza di spesa, altra cosa è l’efficacia delle azioni. Si spera meglio per il 2007-2013, ma tuttora mancano elementi su cui fondare le speranze.

di chi L a c oL Pa?Nella selva intricatissima di regolamenti, pro-

cedure e normative regionali, nazionali e comu-nitarie; nella foresta degli innumerevoli burocrati che le interpretano (ogni scrivania è un Ministero-mistero); nella confusione tra politica e gestione amministrativa dei processi;… è difficile individua-re responsabilità distinte.

Nell’azione politico-amministrativa questa stessa confusione crea grandi spazi di discrezio-nalità nelle scelte. Questo non sarebbe un male in sé. La discrezionalità potrebbe anche essere utile per adattare, flessibilizzare, adeguare gli in-terventi alle peculiari potenzialità di sviluppo dei diversi Sistemi di Sviluppo territoriali e tematici, ma così non accade. Il potere discrezionale viene utilizzato in pratiche di contrattazione, per creare equilibri politici occasionali, per mitigare conflitti con le rappresentanze sociali,… quasi mai in ri-ferimento a circostanziate analisi sui bisogni e le domande di sviluppo economico dei territori, del-la “società strutturata” e delle comunità residenti. La progettualità che ne deriva è inevitabilmente frammentata e frantumata.

Il problema è, dunque, nella cultura e nella pratica politica prevalente. È una pratica diffusa in entrambi gli schieramenti, anche tra le classi

dirigenti locali, solitamente portate a rivendica-re “risorse senza responsabilità”, a perpetuare domande di tipo assistenziale che finiscono con accentuarne la dipendenza e, dunque, a renderle più assoggettabili al “controllo politico”. Vi sono indubbiamente responsabilità soggettive che ri-chiamano in causa la volontà politica di innovare davvero, i criteri e le modalità di selezione della classe dirigente, il superamento di comportamenti leaderisti e dirigisti,…

È inevitabile che chi ha gestito maggior po-tere assuma le maggiori responsabilità, ma c’è la netta sensazione che il problema dei problemi non si risolva con la sola sostituzione delle clas-si dirigenti, né è risolutivo il semplice “ricambio generazionale”, se le nuove generazioni di diri-genti non riusciranno a cambiare le pratiche po-litiche correnti.

c o n c L u s i o n iL’innovazione del sistema pubblico (Politica e

Amministrazione) è ad un passaggio obbligato nel Mezzogiorno. Prima si fa e meno si subisce l’onta di scelte selvagge e incongruenti.

La sperimentazione sul come si può fare è servita, basta attuare gli indirizzi comunitari e territorializzare la cultura della valutazione e del-la responsabilità, perché il solo decentramento di potere (o federalismo che dir si voglia) porta con sé il rischio di sprechi e inefficienze maggiori.

Le criticità emerse parlano chiaro, serve più coraggio e determinazione nel cambiare la cultu-ra e la pratica politica. Non credo ci siano altre possibilità per restituire credibilità alla politica e fiducia nelle istituzioni democratiche.

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Il divario nella crescita tra Mezzogiorno e Centro-Nord, nonostante più di mezzo secolo d’intervento, sia straordinario che ordinario, non solo permane ma tende ad allargarsi. Il lieve mi-glioramento dell’ultimo periodo (2000-2007), rappresenta un risultato deludente, se messo in rapporto alle ingenti risorse, nazionali e comuni-tarie, investite. Ma non è più e solo un problema di dualismo storico. È l’intero Paese che arretra, presentando nel 2007 il più basso tasso di cresci-ta dell’area europea. L’integrazione nei mercati mondiali sta producendo, non solo un aumento delle disuguaglianze nella distribuzione di redditi ed opportunità sociali, ma una nuova dislocazio-ne dei percorsi dei sentieri della crescita e dello sviluppo economico. Il Mezzogiorno non arretra solo relativamente al Centro-Nord e ai Paesi con-correnti del bacino del Mediterraneo (Spagna, Grecia), ma vede le distanze nella crescita au-mentare anche rispetto ai Paesi delle ex economia pianificate dell’est europeo (Estonia, Repubblica Ceca, Slovenia). Un sommovimento tellurico del-la geografia economica e politica internazionale che, nel disegnare un nuovo assetto mondiale, vede l’area europea e mediterranea modificare i propri equilibri sotto la spinta di forze centripete che attirano verso le aree forti e/o in espansione e forze centrifughe che spingono verso l’emargina-zione. In questo scenario il Mezzogiorno si ritro-va, con Portogallo e Malta, fanalino di coda nella crescita, senza una chiara prospettiva di sviluppo né europea, né mediterranea.

Altri Paesi europei, con notevoli divari regio-nali nella produzione della ricchezza, come Ger-mania e Spagna, sono riusciti, se non a riassorbir-li interamente, a fare notevoli passi avanti verso l’eliminazione del dualismo. I Paesi che hanno verificato tassi di crescita superiori alla media eu-ropea, hanno generalmente concentrato le risor-se comunitarie su obiettivi mirati (infrastrutture o capitale umano), unita ad un maggiore capacità di attrazione di investimenti esteri. Capacità po-tenziata dall’operare di agenzie di sviluppo che hanno coordinato politiche di favore alla localiz-zazione delle imprese estere con strategie di svi-luppo regionale.

È da queste rilevazioni che parte la critica alle nuove politiche di sviluppo, in termini di ineffi-cienza, dispersione nell’uso delle risorse, e tempi millenari per superare il divario Nord-Sud. Dati oggettivi e critiche di esperti e politici hanno ri-

dato vita ad una richiesta di spostare l’asse della responsabilità nella gestione delle politiche di svi-luppo e coesione dall’ambito regionale a quello nazionale, privilegiando le problematiche di ar-retratezza e carenze comuni alle diverse regioni meridionali. Dai “Mezzogiorni” al “Mezzogiorno”, quindi, recuperando un metodologia d’intervento, di guida dall’alto (cabina di regia, programmazio-ne nazionale dei fondi aggiuntivi) e di visione uni-taria del problema dell’arretratezza meridionale, che è stata propria dell’intervento straordinario. Una marcia indietro che sacrifica partecipazione e responsabilità degli attori locali.

Le critiche ai risultati e alle modalità attuative delle politiche di sviluppo della nuova program-mazione sono state recuperate, almeno in parte, nella progettazione dell’intervento, sia strategica che operativa, per il periodo 2007/13. In parti-colare, affermando la necessità di effettuare una selezione forte delle priorità e spostando enfasi e criteri di attribuzione delle premialità, sia comuni-tarie che nazionali, da indicatori macroeconomici ad “obiettivi di servizio” (indicatori di benessere collettivo e beni pubblici). Ma non bastano le in-dicazioni programmatiche, poiché il rischio del-

la dispersione delle risorse è molto elevato nelle nuove politiche regionali e nel rapporto tra policy-maker e gruppi d’interesse locali.

c o n c e n t r a z i o n e o d i s P e r s i o n e

Il punto nodale appare, quindi, quello della concentrazione/dispersione di interventi e incen-tivi, connesso a quello della sede istituzionale di guida delle politiche di sviluppo. Il dilemma con-centrazione/dispersione, relativamente all’utilizzo delle risorse, si era già posto ai teorici e ai tecni-ci delle politiche di sviluppo già nel secondo do-poguerra. La contrapposizione che ne scaturì, tra un approccio di “sviluppo equilibrato” ed uno di “sviluppo squilibrato”, si poneva in termini di in-dustrializzazione di Paesi o aree arretrate ed era incentrata sulle modalità della trasformazione dell’economia, da agricola ad industriale. Il dilem-ma era se puntare su investimenti, a scala minore, in diversi settore industriali, in modo da attivare una domanda reciproca per i beni prodotti o con-centrare le risorse in alcune industrie motrici. La politica dei poli di sviluppo, attuata nel Mezzo-giorno nel periodo dell’intervento straordinario, fu un’applicazione, anche se parziale ed incompleta, del modello dello sviluppo squilibrato e dell’idea che, per contrastare l’attrazione di risorse che l’area forte esercitava sull’area debole, bisognasse costruire un contro-polo.

La scelta della concentrazione fu più semplice di quanto si porrà negli anni novanta. L’approc-cio degli esperti dello sviluppo era incentrata sul ruolo degli investimenti in mezzi fisici (macchine e infrastrutture materiali) e sull’avvio del proces-so d’industrializzazione. Il settore, da sostenere con incentivi o da avviare direttamente attraverso imprese pubbliche, era quello industriale. Le di-vergenze non erano su questo punto, bensì sulle modalità attuative. L’analoga scelta, riproposta cir-ca mezzo secolo dopo, si porrà in termini molto diversi e complicati.

La successiva generazione di esperti darà en-fasi al ruolo dei cosiddetti fattori immateriali (istitu-zioni, rispetto della legalità, senso civico, coordina-mento tra gli agenti economici, relazioni di fiducia, fattori racchiusi nel termine di “capitale sociale). Le

L A P A R A B O L A D E L L E P OL I T I CHE D I S V I LUPP OAchille Flora

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politiche di sviluppo si sposteranno dalla mera pro-mozione industriale, all’obiettivo, molto più ambi-zioso di agire sul complesso di fattori, materiali ed immateriali, che condizionano il percorso dello svi-luppo. Le politiche di sviluppo regionale diverran-no, quindi, politiche di contesto. La stessa politica regionale dell’Unione Europea seguirà questo per-corso evolutivo: dall’iniziale propensione mirante ad orientare, attraverso incentivi, le scelte di loca-lizzazione delle imprese verso le regioni deboli, a politiche mirate a migliorare il contesto, materia-le e immateriale, entro cui le attività produttive si collocano. Predisponendo, a tale scopo, un ampio ventaglio di obiettivi, teso a migliorare il grado di competitività territoriale delle regioni.

i L P u n t o d e b o L e d e L L a c o n c e n t r a z i o n e

È qui che la metodologia della concentrazione delle risorse, pur affermata nei documenti comu-nitari ed evidenziata dalla progressiva riduzione del numero degli obiettivi, trova il suo punto de-bole. La complessità e varietà degli ambiti d’in-tervento, amplificate dalle modalità di attuazione dei POR regionali (assi, misure, azioni), vanifica il principio della concentrazione. La discrezionalità nell’indirizzo della spesa, pur rappresentando una modalità che facilita la realizzazione delle scelte di politica regionale, è esposta all’influenza dei lega-mi tra personale politico e gruppi d’interesse, con il rischio di aggravare la deriva della dispersione. Di fatto, non si dispone di una metodologia, né una piena conoscenza delle pratiche virtuose, su come attuare gli interventi nelle politiche di conte-sto. Non c’è una tempistica dei campi d’intervento che stabilisca l’ordine delle priorità. Eppure una scansione temporale degli interventi era presente nelle diverse fasi operative dell’intervento straordi-nario; prima la creazione di infrastrutture dedicate alle nascenti aziende agricole, in contemporanea alla riforma agraria; dopo quelle industriali; infine, dopo circa sette anni, la fase dell’industrializzazio-ne diretta. Fu la mancanza di una conoscenza dei territori, il difetto di connessione tra “industria mo-trice” e potenziali legami a monte valle, a trasfor-mare quei grandi investimenti industriali in molossi isolati, senza capacità di trasmettere dinamiche di sviluppo al territorio d’insediamento.

Nelle recenti politiche, l’abbandono del prin-cipio di orientare una “massa critica” di risorse sui punti nodali dello sviluppo, ha riproposto, di fatto,

un modello di sviluppo equilibrato, anche se cen-trato prevalentemente sugli elementi del contesto. Eppure la necessità della concentrazione, sia per rendere efficace la spesa, e sia per accelerare lo sviluppo e così contrastare gli effetti di attrazione dell’area forte, è ancora attuale. Lo confermano la ripresa dell’emigrazione dal Mezzogiorno di lavo-ratori qualificati, la geografia dei flussi finanziari, la scarsa capacità di attrarre investimenti diretti esteri, il privilegiamento dell’area del Centro-Nord nell’utilizzo della spesa pubblica in conto capita-le. L’allargamento del divario di crescita Nord-Sud nelle fasi cicliche ascendenti, verificatosi negli ul-timi decenni, è una conferma della tesi che, nelle economie dualistiche, lo sviluppo dell’area forte produce bassi effetti di propagazione della cresci-ta sull’area debole, comunque inferiori agli effetti di attrazione di risorse.

Il problema della concentrazione delle risorse non è risolvibile con un approccio puramente ma-croeconomico. Privilegiare obiettivi di crescita na-zionali di breve periodo, puntando ad esempio sul potenziamento delle infrastrutture (caso spagnolo), se può produrre positivi effetti anticongiunturali, non tocca il nodo centrale del potenziamento ed innovazione del sistema produttivo. Né è risolvi-bile, semplicemente, stabilendo soglie quantitative per il finanziamento dei progetti, a scapito della selezione settoriale e di una verifica della quali-tà e dell’impatto territoriale dei progetti stessi; né adottando un utilizzo prevalente di incentivi au-tomatici, poiché gli effetti dispersivi potrebbero essere ancora maggiori.

Ma esiste un metodo per coniugare la con-centrazione delle risorse, senza sacrificare la cre-azione di capitale sociale e le dotazioni e speci-ficità territoriali?

c o m e g a r a n t i re L ’ a u t o n o m i a decisionaLe, senza cadere Preda dei gruPPi d’interesse?

Il problema si pone in termini di conoscenza del territorio, delle sue potenzialità e dinamiche interne, degli ostacoli alla crescita dei sistemi lo-cali. Un allontanamento del momento decisiona-le dai territori interessati, accentuerebbe quella carenza d’informazioni che ha minato alla base

l’efficacia dell’intervento straordinario. Ripropor-rebbe relazioni sociali e politiche verticalizzate verso il potere politico centrale, scoraggiando la partecipazione e la responsabilizzazione degli at-tori locali. Autonomia del momento decisionale e radicamento delle istituzioni nel corpo sociale e produttivo, sono i due poli, da raccordare, di un articolato processo di individuazione dei fabbi-sogni e delle priorità su scala territoriale. Quello della governance del processo di sviluppo si pre-senta come il nodo più delicato da affrontare. Più il momento decisionale si avvicina agli attori dello sviluppo, più i gruppi d’interesse locali hanno po-tere e capacità di deviare l’utilizzo dei fondi verso logiche di appropriazione che li privilegino. Più ci si allontana dagli attori locali e meno pervengono flussi di conoscenza, più si depaupera il capitale sociale territoriale. Superare la frammentazione e dispersione dei fondi richiede una ricucitura del rapporto tra corpo sociale e loro rappresentanza istituzionale, attraverso una ripresa di una meto-dologia della “concertazione” non meramente formale, bensì rivitalizzata seguendo un metodo che obblighi a ragionare con il fine del persegui-mento del “bene comune” e non dell’intereresse di gruppi o singole comunità locali.

c o n c L u s i o n iUna qualità nuova della Pubblica Amministra-

zione è, quindi, un elemento centrale delle poli-tiche di sviluppo. Nel successo delle economie asiatiche, il settore pubblico, attraverso l’agire di una burocrazia competente, ha giocato un ruolo fondamentale nell’accompagnare e correggere le dinamiche del mercato, senza sostituirsi ad esso. Fatte salve le differenze storiche e culturali, un cambiamento di indirizzo della nostra ammini-strazione, in cui l’efficienza nell’utilizzo delle ri-sorse e l’efficacia nel raggiungimento dei risultati, rappresentino le linee guida del suo agire, appare quanto mai urgente.

Solo la ricucitura del rapporto tra istituzione regionale e ambiti locali, individuando le necessa-rie innovazioni istituzionali di raccordo (consorzi di comuni, agenzie di sviluppo, accordi di recipro-cità), potrà garantire l’elaborazione di strategie di sviluppo e agende di interventi che superino fram-mentazione, dispersione ed asimmetrie informati-ve, attuando un concentrazione delle risorse mira-ta ed efficace, ma anche condivisa e sostenibile. Solo sulla base della ripresa della dinamica della trasformazione economica e sociale sarà possibile ripensare la collocazione internazionale del Mez-zogiorno e attivarsi per potenziarla.

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Vorrei riprendere e discutere l’ar-ticolo di Osvaldo Cammarota parten-do dalle sue condivisibili conclusioni: “serve più coraggio e determinazione nel cambiare la cultura e la pratica poli-tica”, egli sostiene. Per ricondurre l’azio-ne politico-amministrativa nelle diret-trici individuate dall’UE (“partenariato, concertazione, integrazione, decentra-mento, sussidiarietà, promozione delle risorse endogene”) è necessario realiz-zare un radicale cambiamento dei meto-di di governo. Ma come si promuovono le condizioni per questo cambiamento? Possiamo fare affidamento su un cambio di marcia (“più coraggio e determinazio-ne”) delle attuali élites dirigenti nei vari campi della vita pubblica?

Mi sembra che si possa con co-scienza serena rispondere di no. È faci-le, infatti, sostenere che se coraggio non v’è stato finora, risulta vano pensare ad una svolta volontaristica verso obiettivi auspicabili. Si tratta allora di risolvere il problema rimandando a un mero ricam-bio di classe dirigente? Facendo appello semmai alle coscienze individuali? In al-tre parole trasferendo il pallino dell’ini-ziativa a quanti sono chiamati nelle varie circostanze ad esprimere una delega di rappresentanza (cittadini-elettori, iscrit-ti ai partiti, membri elettivi degli organi dello Stato, etc.)?

Con altrettanta serenità si può ri-spondere anche in questo caso di no. Sarebbe da parte nostra – da parte di chi riflette su questi temi – un modo sbriga-tivo di scrollarsi di dosso un problema spinoso, che invece a parer mio richie-de una riflessione più ampia, a partire proprio dalle esperienze recenti di go-vernance territoriale.

Le politiche per lo sviluppo locale realizzate a partire dalla metà degli anni 90, seppur soggette ad accelerazioni e rallentamenti in funzione delle compa-gini di governo, tanto da configurare un quadro di interventi estremamente va-rio e a volte contraddittorio, hanno co-stituito un prezioso banco di prova per le classi dirigenti locali, soprattutto nel

Mezzogiorno. Dopo una lunga fase di interventi pianificati centralmente sulla base di una mera valutazione dei fattori economici dello sviluppo, per la prima volta si subordinavano le linee di finan-ziamento alla capacità di programmazio-ne e di cooperazione degli attori locali. In altri termini, l’attivazione dei sistemi locali nelle loro diverse componenti (mondo dell’impresa e del lavoro, isti-tuzioni finanziarie e politiche, pubblica amministrazione, associazionismo civi-co, professioni) diventava una precondi-zione per la realizzazione di investimenti da parte dello Stato.

La filosofia degli interventi, infatti, intendeva premiare chi riusciva a met-tere in piedi coalizioni di attori pubbli-ci e privati, riuniti attorno a progetti di sviluppo sostenibile. Si è trattato di un percorso tendente a una maggiore re-sponsabilizzazione delle élite locali, co-erente con le direttive UE e favorito dal processo di decentramento istituzionale iniziato negli anni 90 e in parte ancora in corso: elezione diretta del sindaco, riforma del titolo V della Costituzione, federalismo fiscale.

Le politiche per lo sviluppo locale hanno assunto molte forme. I Patti terri-toriali hanno rappresentato senza dubbio l’esperienza più emblematica della linea di intervento che mira a valorizzare le ri-sorse endogene dei territori. Al di là del contenuto progettuale dei Patti, l’obietti-vo era quello di attivare risorse relaziona-li e di fiducia (capitale sociale) al fine di produrre effetti benefici per l’economia e per la governance dei territori.

Nelle nuove condizioni della pro-duzione post-fordista, infatti, è cresciu-to fortemente il peso delle “economie esterne”: il successo delle imprese di-pende in maniera determinante dalla qualità del contesto sociale, culturale e istituzionale in cui operano. Soprattutto in aree come il Mezzogiorno, povere di capitale sociale, assai carenti dal punto di vista infrastrutturale, spesso vessate dalla criminalità organizzata, gli incen-tivi per la costruzione di coalizioni com-

U N B A N C O D I P R O V APER LE CLASSI DIRIGENTILuciano Brancaccio

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posite orientate allo sviluppo assumono grande rilievo. L’obiettivo di un aumento delle risorse di capitale sociale territoriale è stato perseguito attraverso due leve. Da un lato, promuovendo il protagonismo e la responsabilizzazione degli attori locali nel definire le linee di sviluppo del territorio; dall’altro favorendo il dialogo e la co-struzione di reti cooperative tra attori pubblici e privati. In questo senso la nascita dei partenariati e la conseguente costituzione di soggetti attuatori di natura consortile ha spesso consentito un sal-to di qualità nella corretta programmazione dello sviluppo locale.

Cosa si può dire a distanza di circa quindici anni dalla nascita di queste prime esperienze? Il quadro degli esiti, come spesso accade, soprattut-to quando si sperimentano politiche innovative, presenta luci e ombre. Lungaggini burocratiche, problemi relativi alla fase di valutazione dei pro-getti, frequenti cambiamenti delle norme proce-durali, ritardi nell’erogazione dei finanziamenti hanno spesso inficiato la qualità delle realizza-zioni. Inoltre si sono registrati casi di coalizioni collusive, o semplicemente chiuse, corporative, che hanno assommato al danno dello spreco di risorse la beffa del deterioramento delle risorse di fiducia già presenti nel territorio. Di contro si notano casi di eccellenza e in generale si può dire che i miglioramenti dei territori sotto il pro-filo socio-culturale (reti di fiducia, condivisione di indirizzi strategici, comuni visioni dello sviluppo) siano diffusi.

È interessante notare come il discrimine tra casi di successo e fallimenti sia da individuare non tanto nei vantaggi competitivi che i sistemi locali già potevano vantare, quanto piuttosto nelle modalità operative seguite nella costruzione del Patto e in alcuni fattori che attengono sostanzial-mente alle caratteristiche della leadership. In una recente pubblicazione curata da Piselli e Ramella1, che fa il punto sugli esiti dell’esperienza dei Patti territoriali, si dimostra che i casi di successo non dipendono dal grado di sviluppo dell’area, né dalla dotazione iniziale di capitale sociale. Alcuni Patti toscani, per esempio, mostrano indici di perfor-mance assai bassi, mentre i Patti della Locride e dell’Alto Belice Corleonese, che insistono entram-bi su aree molto problematiche, fanno registrare buoni rendimenti. Inoltre, i Patti a composizione politica mista, caratterizzati da aggregazioni di comuni di segno politico diverso, si dimostrano maggiormente capaci di mantenere alta la qua-lità degli interventi, mentre quelli “monocolore” risultano tendenzialmente affetti da una gestione delle dinamiche partenariali di tipo esclusivo, che si ripercuotono negativamente sugli esiti dei pro-getti e sulla fiducia tra gli attori.

Il tipo di leadership e le modalità operative emergono dunque come fattori decisivi. E sono fattori legati da un’interazione reciproca del tut-

1 Piselli F., Ramella F. (a cura di), Patti sociali per lo sviluppo, Roma, Donzelli, 2008.

to particolare. Dai dati rilevati emerge, infatti, che una leadership forte produce casi di succes-so solo se è in grado di favorire l’inclusione, se è accompagnata da una concertazione estesa e intensa che promuove la cooperazione tra attori differenti. Viceversa se la leadership assume una impostazione dirigista, se dà vita a una concer-tazione fittizia, strumentale alle esigenze formali del Patto, magari tra soggetti afferenti agli stessi mondi (per es. stessa provenienza politica, stessa cordata imprenditoriale), si riducono notevolmen-te gli effetti di mobilitazione del territorio, anche in presenza di contesti economici e sociali forte-mente avanzati.

Possiamo ora ritornare agli interrogativi inizia-li. Quale leadership? I cambiamenti recenti nelle politiche di sviluppo e nel quadro istituzionale assegnano una forte responsabilità agli attori lo-cali, che sono chiamati a produrre/esercitare una leadership di sintesi maggiormente capace di af-frontare le sfide del futuro in una realtà economica e sociale di tipo post-fordista. Ma soprattutto in grado di dare corso a un processo inclusivo degli interessi del territorio, a uno stile di governo aper-to e plurale, attento alle dinamiche di costruzio-ne della fiducia, risorsa cruciale per l’integrazio-ne nelle società contemporanee. In altri termini, in grado di liberarsi da una cultura politicistica e di interloquire con gli interessi reali dei territori. Il periodo del giacobinismo e della lottizzazione politica delle funzioni dirigenti sembra davvero giunto al termine.

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L’attuale scenario di globalizzazione dei mercati proietta i territori meridionali in una di-mensione sistemica che ne riconfigura comple-tamente ruolo e prospettive, rendendo ancora più complesso il lavoro di comprensione e di analisi delle loro multiformi situazioni sociali ed economiche.

In un’economia essenzialmente relazionale, infatti, e particolarmente in realtà caratterizza-te dalla prevalente presenza di piccole e medie imprese, lo sviluppo e la competitività si costru-iscono soprattutto attraverso la capacità di co-operazione tra soggetti diversi e discendono, in sintesi, dal grado di compattezza del sistema nel suo complesso.

Nel Mezzogiorno, al contrario, nonostante la cospicua dotazione di risorse, le singole potenzia-lità espresse non riescono a fare network e a tro-vare un sentiero comune per lo sviluppo.

Esempi evidenti in tal senso sono rappresen-tati dalla carenza di strutture non profit, dall’in-

capacità di cooperazione degli enti locali (em-blematico, ad esempio, lo scarso ricorso allo strumento dell’associazionismo tra comuni), dal-la mancanza di consorzi di garanzie collettive fidi, dal rarefatto rapporto esistente tra univer-sità e imprese.

In assenza di un simile elemento di coesione

interna si genera un meccanismo vizioso, che im-pedisce di superare la soglia critica oltre la quale è possibile invertire le attuali tendenze negative in campo economico, politico e sociale.

Vengono a crearsi, in tal modo, circostanze paradossali: ad esempio, un cospicuo investimento in capitale umano, in grado di generare una for-za lavoro potenziale altamente qualificata, può perfino diventare una diseconomia, perché il ter-ritorio è incapace di valorizzarlo e di trarre in tal modo i frutti dell’investimento effettuato. Non si tratta di uno scenario irreale, ma di una situazio-ne puntualmente confermata dalle indagini sui trasferimenti di residenza condotte annualmente

dall’ISTAT, che mostrano come le migliori forze intellettuali meridionali sono costrette a cercare lavoro altrove.

Il problema, pertanto, è complesso, poiché non è sufficiente potenziare le singole risorse esi-stenti, ma occorre, piuttosto, predisporre le strut-ture adatte per favorire l’integrazione orizzonta-

le tra attori differenti (pubblica amministrazione, imprenditorialità, sistema formativo e universita-rio, società civile).

In particolare, gli ingredienti essenziali per la formazione di un milieu innovativo in grado di per-durare nel tempo sono rappresentati dalle reti so-ciali, che permettono i comportamenti di recipro-cità, la fiducia nelle istituzioni, gli scambi informali di informazioni e la diffusione di forme interperso-nali di supporto alla cultura imprenditoriale.

La variabile critica per la competitività, in grado di agire da collante per convogliare le sin-gole potenzialità verso un percorso comune di crescita, diviene allora il capitale sociale, luogo

C A P I T A L E S O C I A L E E S V I L U P P O E C O N O M I C OFrancesco Saverio Coppola

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23M•e•z•z•o•g•i•o•r•n•o•e•s•v•i•l•u•p•p•o•l•o•c•a•l•e

di incontro e interazione tra risorse locali e risor-se socio-culturali.

Se inquadrato nell’ambito della scarsa incisi-vità dell’intervento pubblico e della perdurante difficoltà di sviluppo delle regioni meridionali, il problema del capitale sociale nel Mezzogiorno assume dunque un rilievo specifico, nonché, per alcuni aspetti, caratteri di vera e propria neces-sità sociale.

La centralità del tema è stata recentemente evidenziata anche dal Governatore della Ban-ca d’Italia, il quale ha affermato che “sul ritardo del Mezzogiorno pesa la debolezza dell’ammini-

strazione pubblica, l’insufficiente abitudine alla cooperazione e alla fiducia, un costume diffuso di noncuranza delle norme. Per il progresso del-la società meridionale l’intervento economico non è separabile dall’irrobustimento del capita-le sociale” 1.

Le politiche di sviluppo, tuttavia, hanno troppo spesso trascurato la necessità di dare sostegno ai dispositivi di creazione di capitale sociale, privile-giando approcci di tipo individuale. Una rilevante

1 Relazione di Mario Draghi all’Assemblea Ordina-ria dei Partecipanti, 31 maggio 2008.

eccezione è rappresentata dalla stagione della “pro-grammazione negoziata”, che ha voluto attuare, attraverso strumenti quali i PIT o i Patti Territoriali, meccanismi in grado di determinare nei contesti territoriali un maggiore grado di autonomia politica, istituzionale ed economica, ai fini della valorizza-zione e mobilitazione delle risorse endogene.

Tali esperienze hanno mostrato la necessità, nelle interazioni tra politiche pubbliche e stru-menti volti a favorire la concertazione locale, di una accurata definizione preliminare delle prassi attraverso le quali gli attori coinvolti devono ri-scrivere i propri reciproci interessi, nel quadro

di politiche di sviluppo definite non solo a livello nazionale ma, sempre più spesso, anche a scala comunitaria.

Soltanto a condizione di definire un’adeguata impalcatura giuridico-istituzionale, infatti, il capi-tale sociale potrà agire in piena coerenza rispet-to ai principi di una reale sussidiarietà, solidale ed efficiente.

Non si tratta certamente di una gestione age-vole.

Il capitale sociale possiede, infatti, una natu-ra circolare, che, in quanto stock sedimentato e disponibile in un determinato contesto partecipa allo sviluppo insieme alle altre tipologie di capi-

tale (capitale umano, naturale, tecnico, finanzia-rio), ma, in quanto flusso, si aggiorna e si rimodel-la continuamente a seguito dei risultati che dallo sviluppo derivano.

Tale carattere complesso pone il policy ma-ker davanti all’oggettiva difficoltà di individuare efficaci linee di intervento, anche perché occorre tener presente che non necessariamente il capi-tale sociale svolge un ruolo lineare nello sviluppo sociale di un’area: la sua funzione può anche es-sere piuttosto ambivalente.

Da un lato, determinati meccanismi relazionali possono favorire la creazione di strutture sociali

in grado di agevolare lo sviluppo territoriale, con-sentendo ai circuiti tra i diversi attori di sostenere i percorsi strategici intrapresi.

Dall’altro, però, l’eccessiva rigidità dei siste-mi relazionali può divenire un considerevole fat-tore di rischio, poiché talune regole relazionali, che tendono spontaneamente a perpetuarsi e ad auto-rafforzarsi in un meccanismo cumulativo, possono finire per ingessare il sistema territoriale all’interno di configurazioni che, anziché operare a sostegno dello sviluppo di un territorio, ne inibi-scono il potenziale.

È evidente, quindi, che qualsiasi progetto volto a perseguire un miglioramento del capitale sociale

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24M•e•z•z•o•g•i•o•r•n•o•e•s•v•i•l•u•p•p•o•l•o•c•a•l•e

meridionale deve possedere requisiti di specificità e anche di originalità rispetto alle classiche politi-che per lo sviluppo.

Strategie di policy isolate e stereotipate non sono più sufficienti e soprattutto non appaiono più adatte al governo di territori sempre più esposti ai mutevoli venti della competizione globale.

In tal senso il federalismo fiscale in via di rea-lizzazione, se correttamente gestito, può rivelarsi un importante fattore di discontinuità, fornendo l’occasione per accrescere nella responsabilità il capitale istituzionale e sociale del Mezzogiorno.

È possibile che l’improvviso ritrovarsi in si-

tuazioni di ristrettezza di risorse e la necessità di gestirle nella maniera più razionale possibile pos-sa, infatti, generare una reazione propositiva, fa-vorendo le sinergie e la compattezza del sistema, anche se va precisato, tuttavia, che l’efficacia di un simile modello presuppone un’estrema respon-sabilizzazione della classe dirigente, che potrebbe ritrovarsi nell’incapacità di gestire i nuovi sistemi di governance.

Il ruolo del policy maker deve dunque con-sistere, in particolare in questa delicata fase di transizione, nel saper prefigurare un sentiero di sviluppo aperto, che sappia interpretare le reali

potenzialità del territorio e le spinte propositive provenienti dalla società locale, evitando la ripe-tizione passiva di paradigmi di azione inflessibili e predefiniti, e cercando, piuttosto, di intercettare idee progettuali diverse e multiformi.

Se un “nuovo” Mezzogiorno è possibile, esso presuppone di recuperare il compromesso legame fiduciario tra chi governa le regioni meridionali, da un lato, e i loro cittadini ed imprenditori, dall’altro, ristabilendo il complesso rapporto di interdipen-denza e influenza esistente tra società, economia e sistema politico-istituzionale.

A tal punto ci si potrebbe chiedere quale sia la variabile esplicativa “a monte” da cui partire per

spiegare l’andamento degli altri fattori e su cui in-tervenire per sbloccare il processo di sviluppo.

Se è vero che qualsiasi cambiamento radicato parte sempre dal basso, allora, probabilmente, il primo elemento su cui cominciare ad agire deve essere la scuola, che costituisce il modello rela-zionale fondamentale della società.

La classe scolastica, di diverso ordine e gra-do, dovrebbe essere ripensata e rimodellata come un ambiente capace di creare integrazione, va-lori condivisi e stabili legami di fiducia, nodo di una rete che è tanto più soddisfacente ed efficace nella socializzazione dei giovani, quanto più pro-

muove tutte le forme di capitale sociale. Questo è il motivo per cui appaiono estremamente peri-colosi i tentativi di distaccare la scuola dalla na-turale evoluzione della società, compromettendo in tal modo il buon esito dei processi di inclusio-ne sociale.

Concludendo, si può affermare che nel Mez-zogiorno appare oggi più che mai fondamentale il mantenimento di un adeguato livello di coesione interna, necessario affinché la volontà di elabora-re un modello di sviluppo endogeno sappia inca-nalare le energie positive presenti verso obiettivi condivisi, riflettendosi, infine, in un sistema socio-economico valido e sostenibile.

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31EUROPA

“Lo Stato Liberale, secolarizza-to, vive di presupposti che esso di per sé non può garantire. Questo è il grande rischio che per amore del-la libertà lo Stato deve affrontare1” E.W.Böckenforde

Pochi ragionamenti hanno avuto un’eco così ampia nel dibattito pubbli-co europeo e nazionale (si pensi all’Ita-lia ed alla Germania) rispetto a quel-lo posto in esergo al presente scritto, coniato dall’eminente giuspubblicista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenforde nell’ormai lontano 1967. Anni or sono (nel 2004) l’attuale pontefice, all’epoca cardinale Joseph Ratzinger, ed il filo-sofo Jürgen Habermas intavolarono un celeberrimo colloquio a proposito di Wissen und Glaben2 partendo proprio dal Diktum böckenfordiano.

I problemi sollevati in quel-lo scritto sulla “Nascita dello Stato come processo di secolarizzazio-ne”(1967) incontrano l’interesse di studiosi ed intellettuali in quanto lo scenario “aporetico3” dipinto da Bö-ckenforde, comportante una conti-nua tensione valoriale, sembra oggi manifestarsi concretamente con la “crisi” dello Stato-nazione euro-peo4. Infatti in Europa, a seguito dei

1 E. Böckenforde, Diritto e secolariz-zazione, Laterza, Bari, 2007, pag. 53.

2 Si veda la traduzione italiana del dialogo, J.Ratzinger e J.Habermas, Ra-gione e fede in dialogo, Marsilio, Vene-zia, 2005.

3 L’espressione è contenuta in G.E.Rusconi, Quei tre (tedeschi) e il post-secolare, su “Reset”, n. 101, 09/ 2007.

4 Infatti, non essendo in discussio-ne la “Fine dello Stato” si è in presenza, come aveva ben capito Norberto Bob-bio, della crisi di un “determinato tipo di Stato”. Si veda in Norberto Bobbio, Stato, governo, società. Frammenti di

processi che oggi vengono riassunti sotto il nome di globalizzazione, lo Stato-nazione, non avendo uti singu-li la capacità di “agire globalmente”5, si trova esposto a quel “venir meno delle frontiere” che “in sede eco-nomica, sociale e culturale tocca i fondamenti materiali di quel sistema statale europeo che era stato edifi-cato su base territoriale a partire dal diciassettesimo secolo6”. Ciò avvie-ne attraverso l’esplodere dell’immi-grazione e della segmentazione cul-turale – con l’inerente rottura della relativa omogeneità della popola-zione e dunque della base prepo-litica dell’integrazione dei cittadi-ni – coincidente con la perdita – do-vuta alle interdipendenze dell’eco-nomia e della società mondiale – di autonomia, capacità d’azione e so-stanza democratica da parte dello Stato. Inoltre, mentre prendevano forza le dinamiche a cui si è appe-na fatto cenno, la caduta del muro di Berlino “ha messo a nudo la pre-carietà degli assetti politici inter-ni dei singoli stati7” ed ha causato,

un dizionario politico., Einaudi, Torino, 1995, pag. 118.

5 Ovvero di giungere ad “inte-se vincolanti sulle condizioni-quadro”. J.Habermas, La costellazione post-nazio-nale, op. cit., pag. 23 Capacità che non è propria solo alle istituzioni sovranazionali citate da Habermas, ma – e con ben mag-gior incisività – a tutti quei soggetti che riuniscono intorno ad una chiara identità nazionale uno Stato territoriale dalla di-mensione continentale o semi continen-tale (es. Cina, India, Usa).

6 J.Habermas, La costellazione post-nazionale, op. cit., pag. 106.

7 A seguito della distruzione del siste-ma che aveva stabilizzato le relazioni inter-nazionali per quarant’anni, E.Hobsbawm, Il secolo breve, Bur, Milano, pag. 23.

attraverso la vittoria sul piano della legittimità ottenuta dalla democra-zia liberale8, la fine della politicizza-zione della sfera pubblica9 segnan-do così il definitivo svuotamento sul piano “etico” dell’azione del potere pubblico, la quale si è ripercossa a sua volta sull’unità spirituale (spes-so incarnata materialmente dai testi costituzionali) dello Stato stesso. Si può, in merito, convenire con Natali-no Irti che chiosa “la crisi dello Stato, dell’unità spirituale in cui la molte-plicità degli individui trovi valore e significato, dissolve lo Stato nell’agi-re dei governanti; e se questo agire

8 G. Sartori, Democrazia:cos’è, Bur, Milano, 2006, pp.267-268.

9 Non si tratta di fine delle ideologie, ad esempio si può riscontrare la vittoria dell’ideologia del mercato (“liberismo economico fondato sul capitale privato e la volontà di profitto” e della conseguente “ideologia della ricchezza”). Non si trat-ta neanche della “fine della storia” (per la quale tra l’altro bisognerebbe presupporre la validità della storia direzionale alla Fu-kuyama), in quanto, come giustamente af-ferma E. Morin, nous somme dans l’age de fer planétaire. Si tratta invece dell’uscita di scena del dibattito sulle “finalità della vita sociale” che ha comportato la scomparsa dell’idea che possano esistere vere alter-native politiche (con il conseguente ripo-sizionamento al centro dei programmi dei partiti politici ed il relativo impoverimento funzionale sul piano descrittivo di concetti come quelli di Destra e Sinistra). Si veda in N.Irti, La tenaglia.In difesa dell’ideolo-gia politica,, Laterza, Bari,2008 pag.30; L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ide-ologia, Laterza, Bari,2004, pp.328-330; E.Morin, Pour entrer dans le XXI siècle, Seuil, Paris, 2004, pp.345-350; A.De Be-noist, Destra/ Sinistra: verso la fine di una divisione, relazione svolta al convegno “L’Europa ed il futuro della politica” 25-26 maggio 2001 e pubblicata su A.Carrino (a cura di) L’Europa ed il futuro della politica, Società Libera, Milano, 2002.

si affida ad occasionalismo e prag-matismo lo Stato ne accompagna e condivide il destino10”.

La domanda “su cosa si appog-gia questo Stato in tempi di crisi?11” risulta, dunque, quantomai attuale, soprattutto se associata al dibattito sulla “civile convivenza di cittadini autonomi nel quadro di una socie-tà liberale”12. Infatti non è possibile risolvere il problema “pratico” della convivenza nello Stato13 senza enu-cleare preventivamente una prospet-

10 N.Irti, La tenaglia., op. cit., pag. 28.11 E.Böckenforde, op. cit., pag. 54.12 J.Habermas, La terza via tra laici-

smo e radicalismo religioso, su “Repub-blica”, 19/7/2008, pag. 1.

13 Se i cittadini “autonomi” devono convivere all’interno di una “società libe-rale”, bisogna considerare come questo sia possibile solo a partire dalla Rivoluzio-ne Francese che segna il termine simboli-co del processo di formazione dello Stato moderno il quale garantisce – attraverso la sua organizzazione, i suoi strumenti (es. le costituzioni scritte) e la sua nuova legittimazione – ad ogni cittadino la tu-tela della “Sicurezza” e della “Libertà”. Si veda A.De Benedictis, Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna, Il mu-lino, Bologna, 2001, pag.396 e T.Visone, Alle origini moderne della Laicità, “Sinte-sidialettica”, n.5, 2008, www.sintesidia-lettica.it. Risulta quindi difficile discutere di “cittadini autonomi nel quadro di una società liberale” (Habermas) senza pre-cisare che quel quadro è storicamente configurabile solo nello Stato moderno, ovvero nello “Stato” tout court. Quindi un problema di convivenza, immesso in un quadro simile, non riguarda solamen-te diverse opzioni culturali emergenti al livello della società civile ma concerne ed investe a pieno la concreta dinamica dell’organizzazione statale e delle scel-te da intraprendere mediante essa.. Per questo si parla di problema di conviven-za “nello Stato”.

Garantire la libertàEuropa e laicitàTommaso Visone

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32EUROPA

tiva in base alla quale quello Stato oggi possa continuare a mantenersi in vita garantendo, così, le dimen-sioni (territorio, regole, organizza-zione14, ecc.) stesse della coabita-zione. Si pone, dunque, l’esigenza di interrogarsi in merito a quelle even-tuali “forze unificatrici” di carattere pre-politico15 che possano sostenere l’esistenza futura dello Stato “come ordinamento di libertà” sul suolo europeo o più precisamente riguar-do a quei vincoli che, rifondando le basi per una sintesi tra politica e di-ritto16, permettano l’esercizio con-creto della libertà e con essa, sul piano strettamente politico, della democrazia17.

Porsi questa domanda significa preliminarmente indicare la moda-lità propria d’espressione di queste “forze unificatrici”, di questi “vinco-li” etici. Essa è parte di ciò che co-munemente si indica come “iden-tità collettiva”, ovvero il “sé imma-ginato18” da una collettività, il suo

14 Per il rapporto tra questi ele-menti si veda in N.Irti, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, Bari, 2006, pp.3-91.

15 Si parla di forze prepolitiche non in quanto nascano prima o creino il po-litico, ma in quanto vengano da questo utilizzate come suo fondamento vinco-lante, come garanzia. Si tratta di una priorità logica e non storica. Ciò consen-te, sul piano storico, un’interazione tra l’elemento politico e l’elemento pre-po-litico, ovvero una possibilità di influenza “scelta” su quest’ultimo.

16 N.Matteucci, Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, Il Mulino, Bologna, 1997, pag.99.

17 In quanto la Democrazia presup-pone la libertà d’informazione, di argo-mentazione (fino al confronto sul piano ideale tra diversi paradigmi politici, an-che qualora questi siano estranei all’ipo-tesi democratica) e di scelta (quest’ultima limitata esclusivamente dal rispetto dei preupposti legali della democrazia stes-sa). In merito ci si permette di rimandare a T.Visone, Which Theory of Democra-cy?, su “Politikon: The Iapss Journal of Political Science”, V.13, n.2, October 2007, pp.18-32.

18 “Le identità sono dei sé immagina-ti. Sono ciò che pensiamo di essere e ciò che vogliamo essere”. S. P.Huntington,

modo di autodefinirsi attraverso una relazione19 che comprende la capacità di riconoscersi in quanto gruppo e di essere riconosciuti da altri come tale. La continua ricerca di questo riconoscimento da parte degli altri gruppi e di sé stessi (in quanto gruppo) conduce ad una continua rimodulazione dell’ equi-librio tra il proprio essere (perce-zione di “come si è”, delineata in base alle proprie scelte) collettivo ed il proprio dover essere (scelta di “come si vuole essere”, attuata sulla base della precedente percezione) collettivo. Si può essere più precisi sostenendo che è la relazione cir-colare tra il proprio essere e proprio dover essere a comporre l’identità di un gruppo. La seconda compo-nente (quella del dover essere col-lettivo) di questa diade – distinta ma non disgiunta – costituisce pre-cipuamente la forma di ciò che si va cercando, la modalità in cui i “vincoli” etici, le “forze unificatrici” si palesano. Si indagherà, dunque, tra le espressioni principali delle identita collettive – passibili di ap-plicazione in quanto precondizioni di un’organizzazione statale20 – per individuare se in esse esistano o meno le basi per la sopravvivenza dello Stato Liberale.

Sul piano nazionale – per ciò che concerne il continente Euro-peo – questi vincoli si manifestano in modo asimmetrico. Per fare un

La nuova America, Garzanti, Milano, 2004 pag. 37.

19 Definibile come un insieme di scambi e comunicazioni la cui funzio-ne è non solo inerente al rapporto tra i gruppi ma anche a quello tra gli individui ed il proprio gruppo. Infatti “une societè humaine s’autorganise et s’autorégénère à partir des échanges et communication entre les espirits individuels. Cette so-ciété, unité complexe dotée de qualités émergentes, rétroagit sur ses parties indi-viduelles en leur fournissant sa culture”. Edgar Morin, La Methode. 5. L’humanitè de l’humanité. L’identitè humaine, Seuil, Paris, 2001, pag.186.

20 Quindi precipuamente si cer-cherà tra le varie forme territoriali d’ identità politica presenti sul continen-te europeo.

esempio, se un paese come la Fran-cia può ancora contare su un forte senso di appartenenza nazionale21 lo stesso non è sostenibile nei ri-guardi dell’Italia o del Belgio, dove si assiste ad un’autentica disintegra-zione del medesimo. Inoltre, perfino in Francia, l’identità nazionale non sempre riesce a convogliare al suo interno le differenti comunità ed in-dividualità presenti sul territorio sta-tale e questo fallimento alimenta a sua volta tutti gli effetti perversi (raz-zismo, xenofobia) connessi con una mancata integrazione22. Il tutto può condurre verso tensioni e conflittua-lità potenzialmente dannose per lo stesso Stato Liberale. L’identità ed il sentimento di appartenenza nazio-nale dunque, anche lì dove risulta-no ancora fortemente presenti, non sembrano in grado di garantire un saldo fondamento di lungo periodo

21 “Si può addirittura parlare di una religione civile alla francese passata at-traverso varie metamorfosi, riuscendo infine a trovare una forma di conviven-za sincretica fra la religiosità civile della patria repubblicana e la cristianitudine della religiosità popolare, soprattutto du-rante la presidenza di Charles De Gaulle (1958-1968)”. E. Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Bari, 2001, pag. 195.

22 Si veda in merito l’analisi sempre attuale di C. Liauzu, Racisme, xénofobie: que faire?, “Le monde diplomatique”, Juillet 1991, pag. 29.

per l’esistenza del medesimo23. Sul piano locale si nota, differentemen-te, l’avvento di una pleiade di identità regionali, municipali, comunitarie, e territoriali. In parte ciò è dovuto alle dinamiche “crepuscolari” dell’attua-le temperie: “nel crepuscolo dello Stato moderno ritornano alla ribalta quelle podestates indirectae, quel-le podestà economiche, religiose, socio-istituzionali autonome, quel multipolarismo conflittuale, che la sovranità assoluta dello Stato aveva neutralizzato ponendo fine, con la pace di Westfalia (1648) al lungo e sanguinoso capitolo delle guerre di religione24”. Ma non si tratta di un semplice ritorno al passato, come una lettura superficiale della devo-lution inglese e del sistema spagno-lo potrebbe suggerire25. Le nuove identità collettive locali sono, spes-so, frutto di un’invenzione scaturita dal contatto con le dinamiche pro-

23 Già negli anni Sessanta, E. Bö-ckenforde evidenziava come l’idea di nazione stesse perdendo la sua “effica-cia formativa”. Si veda in E.Böckenforde, Diritto e secolarizzazione, Laterza, Bari, 2007, pag. 53.

24 G.Marramao, Passaggio a occi-dente.Filosofia e globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag. 111.

25 All’interno dei quali si mantiene una relazione ed un legame, sia pur a volte conflittuale, con l’identità nazio-nale e, soprattutto, con quella europea.

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prie alla globalizzazione, il cui para-dosso “consiste allora nel fatto che in essa, il luogo della differenza viene ricostruito, la tradizione inventata, la comunità immaginata26”. Gli esem-pi possono spaziare dall’identità dei “clan” scaturiti nelle periferie delle città europee, all’identità “padana” propria ad un grande movimento po-litico, radicato sul territorio, come la Lega nord. Queste neo-identità locali vengono “prodotte” a contatto diret-to con la globalizzazione; esse gene-rano l’esaltazione della differenza e della distinzione come reazione alle paure causate da un mondo troppo complesso che non si riesce più a comprendere. Sono figlie dirette di un esigenza di sicurezza e di tutela del singolo all’interno di una realtà percepita come ostile. Sono quin-di identità che si costruiscono una chiusura verso l’esterno, la quale si traduce a sua volta in una chiusura verso l’interno: “una società tutta intenta a proteggere la propria diffe-renza non può certo guardare con fa-vore a movimenti che ne alterino gli equilibri costituiti, e questo si traduce immediatamente in vincoli – taciti o espliciti – posti alla mobilità sociale, alla comunicazione, alla solidarietà attiva27”. Il tutto a sua volta condu-

26 G.Marramao, op. cit., pag. 39.27 F.Cassano, Luci ed ombre del lo-

cale, p.3, disponibile su http://www.nuo-

ce verso la negazione del modus vi-vendi proprio allo Stato liberale, in-ficiandone dunque la possibilità di sopravvivenza sulla base esclusiva delle nuove forme di appartenenza local-esclusivistiche.

Un ulteriore livello di esame con-cerne il piano europeo. A questo li-vello di analisi, quello continentale, il discorso si fa allo stesso tempo più complicato e più interessante. Più complicato in quanto non vi è un accordo sostanziale28 sul contenuto definitivo29 di un’identità politica eu-ropea che è, ad ogni modo, ricono-sciuta trasversalmente come esisten-te30. Il dibattito sulle radici cristiane

vomunicipio.org/todoesto/relazecontrib/cassanobwocirasino.pdf.

28 In merito le pubblicazioni ed i dibattiti tra politici ed intellettuali sono stati numerosissimi. Orientativamente si guardino i seguenti testi: P. Rossi, L’iden-tità dell’Europa, Il mulino, Bologna, 2007, pp.9-14; B. De Giovanni, L’identi-tà dell’Europa in B. Consarelli, Pensiero moderno ed identità politica europea, Cedam, Padova, 2003, pp.1-18; M. Pera e J. Ratzinger, Senza radici. Europa, rela-tivismo, cristianesimo, islam, Mondadori, Milano, 2005, pp. 67-72.

29 Un elemento definito e condi-viso di quest’identità è sicuramente il valore della pace. Si veda in J.Rifkin, Il sogno europeo, Mondadori, Milano, 2004, pag. 204

30 Questo avviene per due ragioni. La prima è attinente proprio alla compo-nente di “dover essere” che è intrinse-ca ad ogni identità. Infatti lo giungere a definire un “ciò che si è” comune signi-ficherebbe influenzare – per il processo ricorsivo sopra descritto – un “ciò che si deve essere” comune, ovvero corri-sponderebbe ad un’affermazione politi-ca, ad un orientamento programmatico rivolto al futuro. Ora è proprio sul piano politico – anche per ciò che concerne il mondo della cultura – che si combatte e si è combattuta la battaglia per la de-finizione dell’identità europea. Nessuno vuole rassegnarsi, nel momento in cui si definiscono le istituzioni ed il nuovo no-mos europeo, a non veder riconosciuta una parte della propria singola identi-tà come parte della futura e più grande identità politica europea. L’impasse resta in buona parte concentrata (e risolvibile) su questo piano. La seconda è relativa ad una peculiarità della stessa identità europea. Infatti “è il divenire dell’Euro-

dell’Europa fornisce un buon esempio in merito. Più interessante in quanto è proprio sul piano europeo che pos-sono darsi quei vincoli etici e quelle “forze unificatrici” che costituiscono “la sete” di quest’analisi. Si inferisce questo sulla base del fatto che tra i cittadini dell’Ue il sentimento di ap-partenenza ad un comune orizzonte europeo sta soppiantando, in partico-lare tra i giovani, il sentimento di ap-partenenza nazionale31. Inoltre – se si considera come il riconoscimento da parte dell’altro sia un elemento base per la costruzione dell’identità – biso-gna tenere in considerazione la per-cezione che i cittadini extraeuropei hanno oggi dell’Europa: nel mondo si parla di europei e di Europa, non di francesi ed inglesi o di Francia ed Inghilterra. Per gli abitanti del Pianeta Terra (che non siano europei) l’Euro-pa è già una realtà politica e culturale, anzi, spesso, costituisce per loro un autentico modello32. Se, dunque, il senso d’appartenenza ad una colletti-vità europea ha un impatto sul futuro degli europei (si pensi all’importanza ed all’incidenza dei programmi Era-smus) risultando riconosciuto al livello mondiale, esso proprio per questo si candida ad essere la base potenzia-le della sopravvivenza di un’ordina-mento di libertà. Ma resta il problema della caratterizzazione sostanziale di questo senso di appartenenza euro-peo: infatti un ordinamento europeo che si manifestasse attraverso pretese autoritarie o irrispettose delle signifi-cative specificità esistenti sul piano Europeo distruggerebbe la libertà

pa che fa l’Europa; è il suo movimento a definirne i tratti; è il divenire la categoria centrale per definire l’Europa; l’Europa diviene, non è; è in quanto diviene, ov-vero in quanto non si coglie in una sua identità presupposta”. B. De Giovanni, L’identità dell’Europa, in B.Consarelli, op. cit., pag. 3.

31 Per i dati e lo sviluppo di questa tendenza si veda in J. Rifkin, op. cit., pp. 204-205.

32 Si veda ad esempio per l’area dell’America Latina in Martino Rigacci, Il fascino del disincanto. Il subcontinente (non) visto da Bruxelles, su “Limes”, n.4, 2003, pp. 139-148.

anziché fondarla e lo stesso avver-rebbe con l’appoggiarsi meramente alle condizioni valoriali esistenti33. Quindi si dovrà capire in che modo un’identità politica europea possa essere a fondamento di un rinnovato orizzonte di libertà.

Come si è inferito sopra non è possibile “trovare” un contenuto co-mune dato al senso di appartenenza europeo. Questo non significa che non si possa “costruirlo” attraverso i mezzi della politica. Come ben il-lustra Habermas, nel corso della sua polemica con Grimm, l’identità col-lettiva di un corpo politico può na-scere come conseguenza del lavoro delle istituzioni34. Ma quale effetto avrà quest’azione politica sulla na-tura di un ipotetico Stato? Qui cala la scure teorica di Böckenforde. In-fatti, come citato in esergo al pre-sente scritto, lo “Stato Liberale vive di presupposti che esso di per sé non può garantire”. Ovvero, lo Sta-to può sì intervenire politicamente per mezzo delle sue istituzioni “cre-ando” e /o alimentando un’identità collettiva35, ma nel momento stesso in cui lo fa abdica a sua identità di Stato liberale36. Inoltre bisogna te-

33 Si veda E.W.Böckenforde, Diritto e secolarizzazione, op. cit., pag. 53.

34 Si veda tutto il ragionamento con-tenuto nella quarta parte di J.Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria po-litica, Feltrinelli, Milano, 1998.

35 Come si spiegava sopra alle nota 15 il parlare di forze “prepolitiche” in senso logico non nega la possibilità di un intervento della politica sulle stesse che alteri la loro natura e la loro conno-tazione. È però in gioco, con la critica di Böckenforde, la qualità, l’indirizzo con-creto, che la politica – qualora si incarni nella coercizione statale – stessa prende nell’intervenire.

36 “Come Stato liberale, esso da una parte può sussistere soltanto se la liber-tà si regola a partire dall’interno, dalla sostanza morale del singolo e dall’omo-geneità della società. D’altra parte, esso non può cercare di garantire queste for-ze regolatrici interne da solo, ossia con i mezzi della costrizione giuridica e del comando autoritario senza però rinun-ciare alla sua natura liberale e-sul piano secolarizzato – ricadere in quella pre-tesa di totalità dalla quale è uscito nel-

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34EUROPA

nere presente, con Pietro Rossi, che “l’Europa come progetto non può prescindere dalla sua realtà storica, dal modo in cui essa si è sviluppa-ta; e l’identità europea può essere sì ricostruita ma sulla base del ma-teriale a disposizione37”. Si è già vi-sto come i materiali a disposizione siano vari e difficilmente conciliabi-li partendo esclusivamente da una base storica. Quindi è impossibile “costruire” un’identità politica eu-ropea che faccia sopravvivere lo Stato Liberale?

Vero se mai è il fatto che non è possibile oggi alcun’ordine liberale senza la costruzione di un’identità politica comune europea. Questo è dovuto al fatto che lo Stato liberale, per essere realmente tale, ovvero per salvaguardare la libertà del sin-golo individuo, del cittadino, deve ritagliarsi una sua sfera di positivi-tà38 grazie alla quale si definiscano concretamente i limiti, le regole e le forme di questa libertà individuale. Questa sfera di positività, che con-cerne sempre una scelta politica, deve poggiarsi su una base condi-visa, altrimenti finisce per negare la libertà stessa invadendo arbitraria-mente la sfera dei singoli. Oggi con l’implodere delle identità nazionali e l’esplodere di quelle locali il ri-schio è quello di una deriva auto-ritaria/plebiscitaria o di una guerra civile. Solo un’identità sopranazio-

le guerre di religione”. E.Böckenforde, op. cit., pag. 53.

37 P. Rossi, op. cit., pag. 178.38 Ovvero non basta define lo Stato

Liberale per negazione, come lo Stato Neutro. In quanto lo Stato che non in-terviene mai finisce semplicemente per avallare la legge del più forte. Ci devo-no essere dei valori che diano un senso concreto e comune alla libertà del sin-golo, senza per questo finire per occupa-re tutto lo spettro valoriale concernente l’educazione e la vita del singolo stesso. Inoltre lo Stato non potrà mai definire come assoluti, (come giusti di per sé), i propri valori, pena la ricaduta nello Sta-to etico e la fine della libertà. Il terreno di selezione, di misura e di critica dei valori dello Stato e quello della demo-crazia incanalata nello Stato Costituzio-nale di Diritto.

nale, con un maggior livello di uni-versalità (ed allo stesso tempo di storicità) come quella europea può restituire una prospettiva ad un’or-dinamento di libertà legittimo ed ef-ficace sul continente europeo. L’ar-gomentazioni di Böckenforde e di Rossi – che assumono nell’ottica di questo scritto un valore propedeu-tico/critico – possono trovare una comune soluzione nella costruzione da parte delle istituzioni europee di una identità collettiva fondata su un valore storico che abbia a sua volta come effetto la trasformazione del-le istituzioni europee in istituzioni garanti e creatrici di libertà39. L’at-tuale costruzione europea, oltre a non costituire uno Stato40, non è in grado di tutelare la libertà dei cit-tadini europei in quanto non ne ha i mezzi (es. non esiste una polizia che risponda in primis ad un livello europeo). Potrebbe, però, acquisirli progressivamente attraverso una se-rie di riforme istituzionali che parta-no da un’iniziativa politica. Questa stessa potrebbe porre le premesse per la nascita di un’identità collet-tiva comune a tutti gli europei, la quale costruendosi ricorsivamen-te41 insieme alla costituzione di un assetto europeo maggiormente vicino a quello statuale, finirebbe, come azione politica, per uscire dal

39 Ergo l’argomento di Böckenforde non è più utile come riferimento quan-do delle istituzioni “illiberali” pongono con le loro azioni politiche le premesse per uno Stato, o, in senso più ampio, per un’ordinamento liberale. Infatti un’or-dinamento liberale può perdere la sua qualità solo se parte da questa condizio-ne, ma non se diviene tale grazie ad un processo politico che attraverso la for-mazione di un’identità comune, ponga in essere la libertà stessa.

40 Giuliano Amato parlava di mul-tilevel systems of government. Citato in G.Marramao, op. cit., pag. 233.

41 Ovvero secondo un processo per il quale “les effets rétroagissent sur les causes, où les produits sont eux-même producteurs de ce qui les produit. Cet-te notion dépasse la conception linéaire de la causalité: cause – effet”. E. Morin, La methode 6. L’Éthique, Seuil, Paris, 2004, pag. 261.

dilemma di Bockenforde in quanto il processo stesso di formazione di uno Stato liberale è in grado di cre-are i “presupposti” su cui poi questo Stato potrebbe reggersi senza essere in grado di garantirli una volta defi-nito: essi, maturati sulla nuova base continentale, vivrebbero di un nuo-vo slancio a contatto con il rifiorito contesto istituzionale europeo. Per fare ciò si dovrebbe scegliere po-liticamente un principio42 cardine da tutelare a livello europeo su cui tenere in piedi la pluralità di valori esistenti e questo logos, per tenere da conto l’osservazione di Rossi, dovrebbe essere già esistente nello spettro della storia europea.

L’unico principio in grado di cor-rispondere a queste caratteristiche è, una volta fatta un’accurata analisi, quello di Laicità, definibile come la regola secondo la quale sono deter-minanti43 nell’agire politico solo quei valori che risultano positivamente sostenuti dallo Stato in quanto co-muni alla società da esso tutelata e sostentata44. Questo principio – che

42 Che, si badi, non è un valore. Un principio, infatti, è utile e strumentale ad un fine del nomos per cui si da (in questo caso quello liberale). Il valore, differente-mente, è fondativo del nomos stesso (es. libertà, ecc.): è un fine in sè. Il che non significa che esso sia necessariamente “assoluto”. Esso può confrontarsi con al-tri valori ed anche definirsi, come accade ai valori in democrazia, esclusivamente attraverso la relazione con altri valori. Si veda, per quest’ultimo passaggio, in M. Cacciari, Laicità: il problema dei valori, in “Quaderni del circolo Rosselli”, n.1, 2008, pp.77-78.

43 Ovvero risultano cogenti in ulti-ma istanza.

44 Che si differenzia dal principio dello Stato etico secondo il quale lo Stato tutelando “valori assoluti, che trascendo-no la mera regolazione degli interessi re-ciproci degli associati” finisce per incar-nare il bene in sé. In questo caso lo Stato, infatti, non è il bene in sè e non tutela valori assoluti, bensì valori sottoposti al consenso ed alla volontà dei governati esprimibili in democrazia, ad esempio, mediante le procedure di revisione co-stituzionale. Si veda per la definizione di Stato etico Paolo Alvazzi del Frate, Il costituzionalismo moderno, Giappichel-li, Torino, 2007, pag. 72.

ha origine in Europa inerentemen-te al percorso che ha portato la so-vranità a fondarsi sull’individuo e la difesa della sua libertà in quanto tale45 – è il solo in grado di fondare un autentico pluralismo, e quindi di far vivere e valorizzare le diversità nell’unità e viceversa. Senza uno spazio regolato in comune, proprio al moderno λαÓς, non esisterà plura-lità, né di fedi né di valori, ma solo alterità: una babele dei valori in cui “nessuno riuscirà a definirsi nelle parti politiche, nelle parti culturali e nelle parti religiose e ne andrà di mezzo, tra l’altro, la nostra stessa democrazia46”.

Si conclude conseguentemente questa breve esposizione afferman-do che al fine di fondare e tutelare un “ordinamento di libertà” sul suo-lo europeo risulta di fondamentale importanza promuovere una costru-zione istituzionale/identitaria a ca-rattere continentale che veda come propria “forza unificatrice” e vincolo istitutivo il principio di laicità, inteso come sopra, nella consapevole consi-derazione delle difficoltà endemiche che questo indirizzo politico porta con se nell’attuale temperie. Anche in quest’ultima, tuttavia, non tutto è perduto: si deve considerare, infat-ti, come il destino dell’Europa non sia ancora stato scritto in quanto «ce qu’ il y a de moins simple, de moins naturel et de plus artificiel, c’est à dire de moins fatal, de plus humain et de plus libre dans le monde, c’est l’Europe47».

45 Ovvero in quanto “soggetti indivi-si dotati delle prerogative sovrane di au-todecisione”. Ci si permette di rimandare in merito al ragionamento sviluppato in T. Visone, Alle origini moderne della Lai-cità. Stato, sovranità e libertà, op. cit.

46 M. Cacciari, op. cit., pag. 8247 J.Michelet, Introduction à l’hi-

stoire universelle, Hachette, Paris, 1834, pag. 73.

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39Lectio MagistraLis

È con profonda riconoscenza ed emozione che accolgo questo alto riconoscimento da parte di un’istituzione unica nella sua ra-

gione storica e culturale come l’Università ebraica di Gerusalemme. E mi rivolgo a voi per quel che rappresento, come Presidente di un paese legato al vostro da vincoli di amicizia e solidarietà divenu-ti nel tempo sempre più forti e vivi, e, guardando

al passato, da memorie luminose di convivenza, di dialogo e di scambio, da momenti memorabili di comunanza ideale, e anche da genuini sforzi di su-peramento delle pagine più buie vissute dall’Italia nel secolo scorso e costate al popolo ebraico un duro prezzo di umiliazioni e sofferenze.

Mi rivolgo a voi nello stesso tempo come rap-presentante di un grande paese fondatore dell’Eu-ropa unita e come portatore di un messaggio euro-

peista, nel quale è culminata la lunga esperienza politica da me attraversata tra tentativi ed errori, tra genuine scelte ideali e morali e drammatiche contraddizioni.

Voglio innanzitutto rendere omaggio a questa Università, che viene da lontano, dalle sorgenti stes-se della cultura ebraica e dalle ragioni di fondo del movimento volto ad affermare l’identità del popolo e della nazione ebraica nel loro progressivo farsi Stato.

Giorgio Napolitano

Italia, Israele, EuropaStati nazionali e identità

nazionali ieri e oggiLectio Magistralis in occasione

della Laurea honoris causadi Dottore in filosofia

Università Ebraica di Gerusalemme – 27 novembre 2008

L’identità: dunque la cultura e la lingua, cui la vostra università ha dato un contributo inestimabile, peral-tro non chiudendosi in sé stessa, tenendo aperte le sue porte, dialogando con altre culture. E nulla, né le guerre e le tensioni succedutesi nella regione, né gli attacchi terroristici, vi hanno fermato nel vostro impegno e nel vostro lavoro. La storia della vostra Università è dunque inseparabile da quella dello Stato di Israele, costituendone un primo embrione fin da anni lontani e poi divenendone un possente fattore di radicamento e promozione, condividen-done le prove e le traversie di decenni.

È per tutto questo che ho accolto come uno spe-ciale onore il conferimento da parte vostra della lau-rea honoris causa: vedendovi soprattutto un’espres-sione di simpatia per l’Italia, anche e in primo luogo in nome di una storica vicinanza al moto risorgimen-tale per l’unità nazionale, volto a dar vita a quello Stato unitario di cui celebreremo prossimamente nel nostro paese il centocinquantesimo anniversa-rio della fondazione.

Mi riferisco a quel che è rimasto scolpito nella prima anticipazione del movimento per l’autodeter-minazione del popolo ebraico e del disegno di uno Stato nazionale ebraico. Chi può dimenticare le pa-

role con cui Moses Hess, profeta del sionismo, aprì il suo Roma e Gerusalemme – L’ultima questione nazio-nale (si era nel 1862)? “Con la liberazione della Città Eterna sulle sponde del Tevere, comincia la liberazio-ne della Città Eterna sul Monte Moria; con il rinasci-mento dell’Italia comincia quello della Giudea.”

Il nostro Risorgimento fu dunque fonte di ispirazione e di incoraggiamento per l’evolversi – a partire dalla seconda metà del XIX secolo – della coscienza ebraica nel senso della consapevolezza di rappresentare non più solo una comunità religiosa ma un popolo e una nazione e di dover mirare al Ritorno nella terra di Palestina. Ma importante, agli albori del sionismo, fu la lezione, soprattutto, di Giuseppe Mazzini per suggerire un approccio alla questione nazionale che presentasse la più lim-pida impronta umanistica e universalistica. Così, se l’ideale e il progetto sionistico si collocarono nell’età dei nazionalismi, essi si caratterizzarono per la di-stinzione e distanza da approcci aggressivi e ambi-zioni di potenza.

A questo pensavo quando – celebrando a Roma, nel Palazzo del Quirinale, il “Giorno della Memo-ria” della Shoah – denunciai, due anni orsono, l’anti-sionismo come travestimento dell’antisemitismo. Si,

c’è chi – non avendo nel mondo di oggi il coraggio di dichiararsi antisemita – assume come bersaglio il sionismo, con esso identificando una presunta vo-lontà di dominio. E così si dà un clamoroso esem-pio di immiserimento della politica, riducendola a strumentalismo fazioso, spogliandola di ogni dimen-sione storico-culturale. Vedo qui, in generale, una delle attuali malattie della politica, una delle cause del suo decadimento.

Mi soffermerò in concreto – nel corso di que-sta mia esposizione – sugli svolgimenti che ha co-nosciuto, lungo la strada aperta dall’elaborazione sionista, il processo di costruzione e consolidamen-to dello Stato di Israele e sui problemi che esso ha oggi di fronte a sé.

Ma desidero prima svolgere ancora qualche con-siderazione sul retaggio storico del risveglio delle nazionalità e del movimento per l’affermazione di autonome identità nazionali, anche nel loro aspetto statuale. È un tema che appartiene solo a un sempre più lontano passato, è un’eredità che terribili espe-rienze di guerra, scaturite dalle degenerazioni del nazionalismo nel corso del XX secolo, dalle visioni e pulsioni aggressive che ne furono la molla, hanno per sempre oscurato?

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40Lectio MagistraLis

Parliamo dell’Europa. Il primo e il secondo conflitto mondiale, e la lunga notte di totalitarismo liberticida, di intolleranza, di esaltazione bellicista che cadde tra l’uno e l’altro, sfociando perfino nella mostruosa aberrazione della Shoah, ci hanno vacci-nato contro gli antagonismi irriducibili, i revansci-smi, le ideologie improntate alla volontà di sopraffa-zione e predominio, che abbiamo in ultima istanza identificato col nazionalismo. Di qui è nata la gran-de intuizione e la costruzione paziente dell’integra-zione europea: l’autolimitazione volontaria delle so-vranità nazionali, il passaggio a esperienze nuove di sovranità condivisa e a istituzioni sovranazionali anche se non con poteri esclusivi.

Ma non è certo privo di significato il fatto che – nello sviluppo, fino ad abbracciare 27 Stati membri, della costruzione europea – ci si sia atte-stati sulla formula di una “Unione di Stati e di po-poli”. L’integrazione non ha implicato la scomparsa degli Stati nazionali, come qualcuno poteva forse aver semplicisticamente immaginato all’indoma-ni della seconda guerra mondiale; né tanto meno ha implicato l’annullamento delle diversità e delle identità nazionali.

Direi anzi che ci si trova ormai di fronte all’esi-genza di un equilibrio più difficile che in fasi prece-denti dell’integrazione europea. Quelle che Moses Hess denunciava come “tendenze livellatrici dell’in-dustria e della civiltà moderna”, sono apparse negli ultimi anni come minacciose tendenze livellatrici e soffocatrici proprie del nuovo processo di globa-lizzazione. Ed esse suscitano fenomeni di smarri-mento nelle nostre società, timori di perdita delle rispettive identità e sicurezze.

Ne nascono – in particolare per l’Unione euro-pea – dilemmi molto seri. Da un lato l’esigenza di rivalutare radici storiche e culturali nazionali, anzi locali e nazionali, rassicurando rispetto allo spet-tro di una innaturale e prevaricatoria uniformità e insieme di una crescente impotenza di fronte alle logiche della globalizzazione e alle forze che la do-minano. Dall’altro lato, la necessità che in un mon-do globalizzato e interdipendente, si dia una dimen-sione nuova, meno che mai strettamente nazionale, all’esercizio di poteri pubblici democratici capaci di incidere sul corso di processi che su scala mondiale tendono a sfuggire a ogni controllo.

È quel che stiamo vivendo come non mai per effetto della crisi finanziaria che dagli Stati Uniti è dilagata attraverso tutte le frontiere. È dunque giuocoforza mettere l’accento contro le chiusure e i protezionismi nazionali – potremmo dire contro potenziali o velleitari ritorni ai nazionalismi di un tempo: è giuocoforza mettere l’accento, in Europa, su quel rafforzamento di meccanismi decisionali e

istituzioni comuni, che invece trova ancora ostacoli nella miopia e debolezza, in troppi casi, delle classi dirigenti e delle leadership politiche nazionali. Raf-forzando la sua capacità di integrazione e di azione unitaria, l’Europa può in pari tempo concorrere ef-ficacemente a un’affermazione, più in generale, di nuove regole di governance globale in un mondo così diverso da quello di qualche decennio fa. Agire più di prima in una dimensione che superi i limiti nazionali, assumere così un ruolo di attore globa-le, è l’unico modo che ha l’Europa – e che con essa hanno i suoi singoli Stati membri – per evitare di scivolare ai margini del nuovo baricentro dell’eco-nomia mondiale e degli affari internazionali. Confi-do che la spinta ideale europeistica, sostenuta dalla forza delle cose, riesca a prevalere in modo da con-sentirci i nuovi progressi necessari.

Ho voluto dire dei dilemmi che ripropongo-no, in termini – s’intende – radicalmente mutati, il tema del rapporto tra autocoscienza nazionale e visione universale dei problemi di oggi e del fu-turo comune: perché in questo quadro si colloca anche la riflessione su quel che è rimasto incom-piuto o quel che oggi si presenta tuttora fragile dei processi di unificazione nazionale in paesi come l’Italia e Israele.

In Italia non si è raggiunto l’obbiettivo – ri-conosciuto dallo Stato nazionale più di un secolo fa – dell’unificazione economica, sociale e civile tra le due grandi aree che concorsero al compimento dell’unità politico-istituzionale del paese: il Nord e il Sud, il Settentrione e il Mezzogiorno. Nonostante prolungati tentativi, le distanze sono rimaste rile-vanti, si sono temporaneamente e solo parzialmente, in certi periodi, attenuate; appaiono oggi ancora più grandi e allarmanti. Non si possono sottovalutare le tensioni e i rischi che ne derivano, per la coesio-ne e l’unità nazionale.

In quanto al vostro paese, la straordinaria ri-nascita della nazione ebraica ha condotto allo sto-rico raggiungimento della fondazione dello Stato ebraico – e sono qui per celebrarne il sessantesi-mo anniversario. Si è così riportata nella esistenza ebraica – secondo una definizione di Shlomo Avi-neri – una nuova dimensione pubblica e normativa. Ma il vostro Stato non è giunto ancora all’approdo dell’universale riconoscimento in seno alla comuni-tà internazionale e segnatamente nel contesto della regione mediorientale, all’approdo di un pieno con-solidamento della sua sicurezza nei confini esterni e nella convivenza interna e del suo stesso, originale modello di sviluppo economico e sociale.

Tale consolidamento passa indiscutibilmente attraverso la conclusione di un processo di pace tra Israele, la comunità palestinese e il mondo arabo.

Israele, le sue forze dirigenti, i suoi statisti ne sono stati sempre coscienti. La lentezza e tortuosità del cammino verso un accordo che ponga completamen-te e definitivamente termine al conflitto israeliano-palestinese non deve né far dimenticare e sottova-lutare tutte le tappe via via raggiunte né oscurare la consapevolezza che si è sempre manifestata da parte israeliana del comune vitale interesse all’avanzamen-to e alla conclusione di un processo di pace.

L’accordo di pace con l’Egitto 30 anni fa, l’in-contro di Oslo con i palestinesi 15 anni fa, la pace col Regno di Giordania 14 anni fa, il ritiro di Israele dal Libano 9 anni fa: queste le tappe appena rievo-cate all’ONU dal Presidente Peres, che ne è stato uno degli artefici insieme con statisti israeliani di diverse parti politiche, insigniti di solenni Premi Nobel, da Begin a Rabin allo stesso Shimon Peres. Quest’ultimo, che io ho da lunghi anni imparato a conoscere, stimare e rispettare, ha nello stesso re-cente discorso richiamato come punto di partenza storico da cui non si può prescindere la contem-poranea rinascita nazionale araba ed ebraica, e la dichiarazione congiunta dell’Emiro Faisal e del Presidente Weizmann già nel 1919 mirata alla com-prensione tra i due popoli in vista del compimento delle loro rispettive aspirazioni nazionali.

Ci sono poi state nel corso dei decenni cesure e contrapposizioni fatali; ma non si può non rendere ancora commosso omaggio alla figura di Yitzhak Rabin, al cui coraggio si deve l’accettazione, anche da parte di molti che vi si erano opposti, della solu-zione dei due Stati per due popoli che vivano, cia-scuno autonomamente, nella pace e nella sicurezza. Non a caso le ultime parole di Rabin furono: “Io credo che ci sia oggi una grande occasione di pace e che dobbiamo coglierla. Il popolo vuole veramente la pace… Questo è il desiderio del popolo ebraico”. E gli fece eco, parlando dinanzi al suo feretro, Re Hussein di Giordania: “Voi siete caduto come sol-dato per la pace. Noi apparteniamo al campo della pace. Noi crediamo nella pace”.

Più di un’occasione, purtroppo, è poi andata perduta. Ma il percorso del negoziato è più volte ripreso. Ed oggi è aperto, anche se in un contesto segnato da nuove difficoltà, tra le quali la divisione insorta in campo palestinese. Perché quel percorso proceda più sicuro e spedito, anche l’Europa deve fare la sua parte. L’Unione Europea, cui d’altronde Israele è legata da un solido e stretto rapporto di associazione, è chiamata a contribuire attivamen-te – con gli Stati Uniti, con la Federazione russa e in sintonia con l’Organizzazione delle Nazioni Unite – allo scioglimento dei nodi che ancora con-dizionano gli sforzi delle due parti. E io sento di potervi rivolgere un appello a guardare con fiducia

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41all’Europa, a credere nella vicinanza e nell’impegno dell’Unione Europea, nella sua volontà e capacità di assolvere il ruolo che le spetta.

Il superamento – finalmente – del conflitto israe-lo-palestinese che si trascina ormai dal lontano 1948 ed è stato causa di così pesanti lutti e sofferenze, è condizione essenziale per un pacifico sviluppo del Medio Oriente, per una feconda cooperazione tra i paesi e i popoli che ne sono parte integrante, e oggi anche per la pacificazione della più vasta regione che è divenuta sommamente critica per l’evolversi delle relazioni internazionali nel loro insieme. Come ha dichiarato, nella sua veste di inviato speciale del “Quartetto” per il Medio Oriente, l’ex premier bri-tannico Tony Blair, “ogni progresso sulla questione israelo-palestinese non può che avere effetti positivi” su altri terreni, Iran, Iraq, Afganistan, tutte “facce” (egli ha detto) “dello stesso problema, il rapporto tra Islam e Occidente”. Ed è perciò che appare prevedi-bile un impegno accresciuto della nuova Ammini-strazione americana verso il Medio Oriente.

L’Europa e Israele non possono inoltre non condividere l’orizzonte mediterraneo. È attorno al Mediterraneo – un mare che ha unito e non divi-so le civiltà sorte attorno alle sue rive nel corso dei millenni – che sono state costruite le fondamenta e sono stati creati i principi ispiratori della civiltà di tutto il mondo occidentale. Tra i principali pro-tagonisti di questa storia plurisecolare sono stati i nostri due popoli, il popolo italiano e il popolo d’Israele. Senza Israele non ci sarebbero stati né il cristianesimo né l’islamismo, strumenti fonda-mentali di civilizzazione, oggi impegnati, insieme con l’ebraismo, pur tra molte contraddizioni, nel-la ricerca di una nuova, costruttiva comprensione fra le religioni abramitiche, di grande importanza anche al di là dell’ambito religioso. E ai messaggi profetici d’Israele si sono ancora ispirati, in secoli recenti, i padri di quegli ideali di libertà, di ugua-glianza, di pace universale e di fratellanza, essenza della nostra civiltà liberale e democratica, divenuta oggi modello per tutta l’umanità.

Orbene, se il nostro sguardo si volge al passato al presente e al futuro, noi siamo certi che i proble-mi attuali dei popoli rivieraschi del Mediterraneo, e la costruzione di un avvenire di progresso civile ed economico e di pace per tutti loro, potranno ancora ricevere un essenziale, fondamentale contributo da nazioni come la mia Italia, e come Israele, che non hanno dimenticato i valori e gli ideali del loro glo-rioso passato, e che sono oggi tra i portatori della civiltà contemporanea, nella cultura e nella scienza. Voi, come noi, potete essere ispiratori e partecipi del progresso di popoli variamente impegnati nella ricerca del benessere e della pace.

Questo è l’animo col quale mi rivolgo a voi a nome dell’Italia. Sappiamo quali prove avete dovu-to e ancora dovete superare. Possiamo far nostre le parole di David Grossman in memoria di Yitzhak Rabin: “La stessa esistenza dello Stato di Israele” appare “un miracolo – politico, nazionale, umano”. Dal nostro paese, dalle sue forze politiche più rap-presentative, dal suo mondo economico e sociale e dal suo mondo culturale, non verrà mai meno – nel-la consapevolezza di tutto quello che storicamente e idealmente ci unisce – la solidarietà con la causa della libertà e della sicurezza di Israele.

La autonomia di giudizio che si può esprime-re dovunque, e nella stessa Israele in quanto Stato democratico, verso determinate posizioni di chi ne rappresenta di volta in volta il governo, non deve mai scivolare sul terreno della delegittimazione di Israele. La preoccupazione che da parte nostra si avverte e si esprime per la condizione del popolo palestinese, e oggi in special modo per la dura con-dizione della gente di Gaza, non può mai mettere in ombra il problema a cui nessuna parte palesti-nese e araba deve sfuggire: il problema del pieno, inequivoco, coerente riconoscimento dello Stato di Israele, della sua legittimità, del suo diritto all’esi-stenza e alla sicurezza.

Perciò ci turbano le reticenze che ancora per-mangono, ci indignano e ci allarmano le negazioni e le minacce che ancora si levano perfino con la voce di qualche Capo di Stato e di governo. E vi opponia-mo il nostro richiamo alla storia tormentata di cui siamo stati partecipi o testimoni, il dovere sempre vivo della memoria – soprattutto – della tragedia dell’Olocausto. E lo facciamo avendo nella mente e nel cuore il ricordo degli ebrei italiani che furono

tra i protagonisti dei moti risorgimentali, di quelli che diedero poi contributi di primo piano alla co-struzione e al governo del nostro Stato unitario, di coloro che soffrirono nel nostro stesso paese le in-fami persecuzioni del regime fascista e dell’occu-pante nazista, di quanti hanno ridato vita a libere comunità ebraiche nella nuova Italia democratica.

Vorrei ricordarvi anche studiosi e politici che in anni lontani già seppero riflettere sul cammi-no parallelo verso l’unità italiana e l’autoafferma-zione ebraica: compreso Antonio Gramsci, che in una delle sue illuminanti note dal carcere fascista sottolineò, sulla scorta di uno scritto di Arnaldo Momigliano, come “la formazione della coscienza nazionale italiana negli ebrei valesse a caratteriz-zare l’intero processo di formazione” della nostra coscienza nazionale.

Vorrei ricordare ancora le figure di eroi della nostra Resistenza e insieme della causa ebraica: e il nome che mi pare giusto citare è quello di Enzo Sereni, ebreo e antifascista italiano, che fu uomo di eccezionale levatura intellettuale e morale, come ancora emerge dalla lettura del confronto episto-lare, a partire dagli anni ’20, con il fratello Emilio, sulla scelta discorde tra comunismo e sionismo; e che fu tenace combattente, impegnato egualmen-te nell’appassionata esperienza del Kibbutz Givat Brenner e in audaci missioni fuori della terra di Palestina, fino all’ultima che lo vide paracadutato nell’Italia occupata dai tedeschi, catturato e quindi deportato e assassinato a Dachau.

E infine come non rendere omaggio a quegli italiani che, quasi a risarcimento delle colpe del fascismo scelsero di dare – con un corale apporto di religiosi – solidarietà e assistenza agli ebrei nel momento del rischio più grave, a quelli che qui sono stati onorati come “Giusti” diventando motivo di orgoglio per il nostro paese.

E come non rendere omaggio al grande e nobi-lissimo scrittore che ha saputo tradurre la terribi-le esperienza, sua personale come ebreo italiano e dell’intero popolo ebraico, in capolavori di valore universale: il nostro e vostro Primo Levi.

Quanti fili, dunque, si sono intrecciati tra i po-poli italiano ed ebraico nel quadro stesso della no-stra storia nazionale e – dopo la nascita dello Stato di Israele – nella sfera dei rapporti internazionali.

Fili antichi, fili nuovi, egualmente robusti e vitali. Essi costituiscono qualcosa di più perfino dell’amicizia: costituiscono una vera e propria co-munanza di valori e di scelte ideali, il senso di un destino da costruire insieme nel segno della pace, della libertà, della giustizia sulle due sponde del grande mare su cui ci affacciamo, e in Medio Orien-te, in Europa, in ogni regione del mondo.

Lectio MagistraLis

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48La presidenza francese, un successo per L’europa

Se si riflette agli avvenimenti degli ultimi mesi, si potrebbe dire che in Europa è successo di tutto e di più. Non è facile riferire di una presidenza francese, nonostante tutto, eccellente, della risposta comune (quasi) alla crisi, dell’adozione in meno di un anno di un pacchetto clima ed energia di grandi dimensioni, della coraggiosa sfida del Parlamento agli Stati sulla questione dell’orario di lavoro, del rilancio del Trattato di Lisbona, con una proposta concreta di soluzione del pro-blema irlandese. Certo, sul piano strettamente istituzionale, mi sem-bra che il sistema ordinario sia stato relativamente forzato da una presidenza efficiente che ha un po’ fatto la parte del vaso di ferro in mezzo ai vasi di coccio; ma anche questo è relativamente vero poiché il Parlamento ha avuto, appunto reazioni coraggiose e, comunque, il piano energetico era stato presentato dalla Commissione secondo le regole istituzionali. Ma procediamo con ordine.

La risposta aLLa crisi economica causata daLLa crisi finanziaria internazionaLe

Abbiamo già trattato per sommi capi la questione nel numero precedente. Mi preme insistere sul fatto che la relativa unità dell’Europa permane e che quest’ultima si è presentata compatta all’appuntamento con gli americani, anche se le decisioni concrete sono state rinviate ad aprile. Certo, non si poteva sperare che Bush in uscita s’impegnasse su quella che con qualche forzatura è stata chiamata una nuova Bretton Woods; ma è stato chiaro che gli americani hanno accettato di trattare sulle regole del sistema finanziario internazionale. Un’Europa divisa non avrebbe ottenuto questo risultato. Non illudiamoci, i circoli ultraliberisti che sono all’origine della crisi non sono spariti, nè si sono pentiti. Se si leggono le pagine dei giornali al momento della crisi si vedono importan-tissimi economisti confermare il loro attaccamento ad un mercato libero (soprattutto da regole condivise al livello internazionale). Certo, questo non vale per tutti, almeno per quelli che dalla crisi sono usciti soggettivamente perdenti ed è quello che ci fa sperare in un negoziato positivo ad aprile. Meno certa è la situazione dell’economia reale. Il Consiglio europeo del 12 dicembre ha approvato il piano da 200 miliardi di Euro proposto dalla Commissione il 26 novembre, a tempo di record. Si tratta di un piano che fissa azioni europee – tramite la Banca europea per gli investimenti - e nazionali d’investimento e d’intervento sulle disposizioni regolamentari per accelerare la spesa dei fondi europei e per rendere possibili, specie nel set-

tore bancario, rapide aggregazioni. Il ritorno agli aiuti di Stato per le piccole e medie imprese (e, mi pare, a certe grandi) è ormai evidente, almeno nei settori più toccati e con determinati limiti e condi-zioni, anche perché, probabilmente, le banche non cercheranno di aumentare la loro esposizione rispetto a settori in difficoltà. Gli aiuti di Stato presentano, è

ovvio, un vantaggio puntuale. Essi tuttavia rischiano di riportarci ad un’altra epoca

di (ancora!) “collusione” fra poteri pubblici e poteri industriali che minaccia la libertà di

concorrenza e la possibilità di fissare regole. La presenza dell’Europa è, a questo proposito, un

vantaggio, poiché comunque essa farà l’impossibile per limitare la durata degli aiuti di Stato all’indispensabile

e ritornare piuttosto al risanamento delle finzne pubbliche. Tuttavia gli aiuti di Stato e le necessarie misure sociali non

saranno di per sé la soluzione della crisi. Ristrutturazioni, nuove produzioni, nuove idee s’impongono. Credo che il pacchetto enegetico

appena approvato, che punta agli investimenti per ridurre le emissioni, per risparmiare energia e per produrne ad un minor costo ambientale potrebbe dare una mano. Per questo mi stupiscono un po’ le paure di alcuni Stati membri: pensano davvero che la soluzione della crisi sia il ristabilimento della situazione precedente grazie all’indebolimento delle regole o alla libertà d’inquinare? L’essenziale, però, è continuare con una linea europea comune, altrimenti non saremo in grado, di fronte ai partners internazionali (ormai non più solo di fronte agli Stati Uniti), di far valere il nostro punto di vista.

iL pacchetto energetico

Sotto il profilo istituzionale ci siamo trovati di fronte ad una notevole quantità di anomalie. Il Consiglio europeo ha approvato un testo che il Parlamento ha adottato ad una velocità straordinaria. La proposta della Commissione di un anno fa è stata accolta dal Consiglio europeo, con eccezioni specifiche richieste da alcuni Stati membri, senza derogare tuttavia agli obiettivi proposti. Una bella vittoria anche per la Commissione. Sul piano istituzionale, il Consiglio europeo ha fatto quasi tutto, mettendo un po’ in ombra le altre istituzioni, Consiglio e Parlamento, ai quali è stato chiesto di concludere entro l’anno la procedura di codecisione nei termini stabiliti dal Consiglio europeo. Con qualche trauma per questa irritualità, il Parlamento ha deciso, a larghissima maggioranza, PPE, PSE, ALDE e Verdi, di accogliere la proposta nella sessione del 15-18 dicembre. Ha, ovviamente, prevalso la decisione di dare all’Europa i mezzi per rispettare i suoi impegni internazionali e per fare le necessarie pressioni sui partners internazionali: insomma, ora non avremo più la coda di paglia nei negoziati internazionali!. La decisione è importante, poiché la nuova amministra-zione americana sembra su questa materia un partner più aperto. D’altra parte, le stesse organizzazioni ecologiste – che sembravano compatta-mente contro il compromesso - sono ora divise sull’opportunità di avere comunque un buon accordo anche se con qualche limite e rischio.

Euronotedi Andrea Pierucci

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49iL trattato di Lisbona: un compromessoper recuperare L’irLanda

Entro novembre 2009 – si spera – gli Irlandesi potrebbero approvare il Trattato con un nuovo referendum. La condizione principale posta dal go-verno irlandese è stata la retromarcia sulla composizione della Commissione europea: continueremo con un Commissario per Stato membro. Questa non è una buona cosa, poiché si continuerà ad avere una frammentazione di responsabilità che non giova alla forza della Commissione. Le altre misu-re – garanzia della neutralità dell’Irlanda, rispetto in certe materie “etiche” della Costituzione irlandese e questioni legate alla fiscalità – sono solo conferme di ciò che già c’è nel Trattato (o, almeno, così pare), che saranno riprese (a proposito di bizzarrie) nel Trattato di adesione della Croazia, pre-visto per il 2010 o il 2011. Anche di questo va dato atto alla Presidenza. Ora non ci resta che sperare che nel futuro referendum non si dia spazio ai soldi della destra americana per favorire una massiccia propaganda per il no. La questione irlandese mette in evidenza che il sistema di ratifica dei Trattati come si fa adesso non è sostenibile. 27 ratifiche o più sono davvero troppe; il tasso d’incertezza per tutti è enorme e, soprattutto esiste un esagerato vulnus democratico perché pochi voti possono bloccare tutti. Bisogna trovare delle soluzioni giuridiche che, senza eliminare la responsabilità di ogni singolo paese nell’accettare le riforme, prmettano di continuare nell’attesa che tutti siano pronti: ma è materia tecnicamente e politicamente molto difficile. Vorrei sollevare poi un’altra questione. Il Trattato di Lisbona è ormai “vecchio”. Il suo impianto risale al 2001-2002, cioè al fallito progetto di Costituzione, del quale è figlio assolutamente legittimo. Nel frattempo è successo di tutto, dalla Georgia, alla crisi finanziaria, alle estreme fluttuazioni del petrolio, alla manifesta mancata vittoria americana in Irak edin Afganistan, al confermarsi di una rapida corsa al multilateralismo internazionale ecc., ecc. Siamo certi che questo non implichi il bisogno di nuove riforme? La paura dei governi di rimettere sulla tavola questo problema è grande, se si pensa che nel mandato del gruppo dei saggi presieduto da Felipe Gonzales, gli stessi governi hanno escluso che esso si possa occupatre di questioni istituzionali e di competenze dell’Unione. Vedremo come agirà il Parlamento eletto in giugno. Una possibilità è quella del ritorno ai “piccoli passi” degli anni 70. Solo che all’epoca i vuoti del Trattato in vigore lascivano ampi spazi per passi anche non tanto piccoli; la struttura attuale dei Trattati è assai più complessa e vincolante.

e fanno 16! Dal 1o gennaio 2009 anche la Slovacchia adotta l’Euro. La notizia

è gradevole ed importante di per sé, ma soprattutto conferma due cose. La prima è che l’Euro, vituperatissimo in tempi recenti, a cominciare da alcuni economisti-politici italiani, resta un’aspirazione per chi non ce l’ha. D’altra parte, ha dato prova di enorme utilità anche in questa gravissima crisi finanziaria. La seconda è che anche se si parla permanentemente di crisi dell’Europa, quest’ultima resta vitale, tanto da spengere gli Stati a appro-fondire la loro implicazione; la stessa Danimarca, patria dello scetticismo, sta organizzandosi per adottare l’Euro e per rinunciare alle eccezioni che il Trattato le concede. Anche l’Eurobarometro riscontra, specie rispetto

alla crisi, un maggiore “affetto” europeo dei cittadini. Speriamo che duri e cresca fino alle elezioni!

La non discriminazione:un’azione deL comitato economicoe sociaLe europeo

Il 21 novembre si è svolto a Bruxelles, all’iniziativa del Comitato economico e sociale europeo (CESE), dell’Istituto italiano di cultura e della Re-gione Lazio, un concerto dell’orchestra di Piazza Vittorio, il grande complesso interraziale promosso dal musiscista degli Avion Travel Mario Tronco, con la partecipazione del regista Agostino Ferrente, che ha realizzato il bellissimo film sull’Orchestra. L’iniziativa, che s’inquadra nella politica antidiscriminazione del nuovo Presidente del CESE Sepi, ha riscosso un notevole successo. L’Europa continua a rappresentare un baluardo contro la crescita delle ideologie e dei movimenti discriminatori e razzisti ed anche contro decisioni dei governi na-zionali non sempre attenti ai diritti fondamentali. Basterà ricordare l’indegna gazzarra sulla questione dei Rom e, forse per assonanza!, dei Rumeni, nei quali molte forze politiche italiane non solo di destra si sono lasciate invischiare vuoi per ignoranza vuoi per compiacenza con aspettative elettorali. Fortunatamente gli è andata abbastanza male, altrimenti oggi avremmo un sistema giudiziario e poliziesco nazionale in consistente contrasto con lo stato di diritto. Si sarebbe aggiunto alla nostra debolezza giuridica, provata dalla sentenza sui fatti di Genova al tempo del G8, che non ha potuto infliggere condanne per tortura per la mancata definizione di essa nelle nostre leggi. Sfortunatamente, dopo quella sentenza i garantisti nazionali hanno taciuto. Certo, non c’erano di mezzo i diritti di amministratori o grandi imprenditori, ehm, birboni!

La presidenza deL consigLiopassa aLLa repubbLica ceca

Il passaggio non si annuncia né facile, né radioso né pieno di speranze. Si capisce, perciò la posizione preoccupatissima della presidenza francese che ha cercato di avere una sorta di “tutela” sulla futura presi-denza. Il programma non è particolarmente ambizioso e l’euroscetticismo del Presidente giunge fino a non issare la bandiera europea. Ma anche in quel paese esistono, fortunatamente, altre opinioni. Lo stesso Parlamento dovrebbe, dopo il via libera della Corte costituzionale, approvare la ratifica del Trattato di Lisbona in febbraio, sperando che nessuno si metta poi di traverso per bloccare la ratifica effettiva. D’altra parte fra gli elettori cresce il malcontento per il governo, che sembrano ormai orientati a votare i so-cialisti, molto più favorevoli all’Europa. Tuttavia, è meglio non dare giudizi preventivi sui risultati della presidenza: spes ultima dea. Resta la riflessione sulla necessità di rafforzare le istituzioni europee più attente all’interesse comune, Parlamento e Commissione. Se abbiamo assistito ad un’eccellente performance dei Francesi, rischiamo un semestre più buio con i Cechi. Non si può immaginare che l’Europa continui a fare su e giù, secondo gli umori… del calendario. La riforma del Trattato di Lisbona che prevede una presidenza (di una persona, non di uno Stato) su un lungo periodo può aiutare a superare questo problema.

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