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La cultura (e la storia) del restauro architettonico, come atteggiamento cosciente- mente problematico nei confronti dell’antico - ancor prima che, genericamente, del passato, e non nella pura e semplice accezione etimologica del termine (che, somma- riamente, da re-sisto o istemi, dovrebbe avere il senso di riportare ad uno stato d’or- dine, sia esso lo stato presunto originario, ovvero uno stato modificato, ma comunque ‘ordinato’) - ha un inizio, credo oggettivamente databile, all’età dell’Umanesimo. Essa si affianca alla sempreviva fascinazione che le opere del passato in genere hanno esercitato (ed esercitano) sugli architetti; una fascinazione - che niente ha però a che vedere con l’istanza scientifico-conoscitiva, propria, come vedremo, del restauro - che, spesso, ha determinato eccellenti risultati nei termini del connubio ‘antico-nuovo’, non sempre evidentemente determinati o finalizzati da ragioni conoscitive, filologiche o critiche. Perciò la storia e la cultura del restauro come atto di progetto ed, insieme, di conoscenza di un’opera del passato può riconoscere - a tutti gli effetti come pro- banti di un atteggiamento nuovo e diverso - quegli episodi (anche sotto forma di scrit- ti e progetti) che alle opere del passato abbiano rivolto attenzioni non esclusivamen- te ‘creative’. Non v’è dubbio, allora, che la celebre ‘Lettera’ di Raffaello a Leone X costituisca il primo esempio di ‘progetto di restauro’ come ripristino dello stato d’origine dei più importanti monumenti di Roma. Altrettanto inequivocabili sono i ristauri che Sebastiano Serlio illustra nel suo Trattato; altrettanto evidente è la chiarezza descrit- tiva della forma pura del Pantheon che Gian Lorenzo Bernini restituisce in quel magni- fico schizzo a carboncino conservato nella Biblioteca Vaticana; accanto al fantasioso progetto di trasformazione della Piramide di Caio Cestio, che Francesco Borromini abbozza, sempre su commissione di Alessandro VII, ove, invece, la forma del monu- 43 Nullo Pirazzoli OLTRE IL RESTAURO: ARCHITETTURA PER LA CONSERVAZIONE

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La cultura (e la storia) del restauro architettonico, come atteggiamento cosciente-mente problematico nei confronti dell’antico - ancor prima che, genericamente, delpassato, e non nella pura e semplice accezione etimologica del termine (che, somma-riamente, da re-sisto o istemi, dovrebbe avere il senso di riportare ad uno stato d’or-dine, sia esso lo stato presunto originario, ovvero uno stato modificato, ma comunque‘ordinato’) - ha un inizio, credo oggettivamente databile, all’età dell’Umanesimo. Essasi affianca alla sempreviva fascinazione che le opere del passato in genere hannoesercitato (ed esercitano) sugli architetti; una fascinazione - che niente ha però a chevedere con l’istanza scientifico-conoscitiva, propria, come vedremo, del restauro - che,spesso, ha determinato eccellenti risultati nei termini del connubio ‘antico-nuovo’,non sempre evidentemente determinati o finalizzati da ragioni conoscitive, filologicheo critiche. Perciò la storia e la cultura del restauro come atto di progetto ed, insieme,di conoscenza di un’opera del passato può riconoscere - a tutti gli effetti come pro-banti di un atteggiamento nuovo e diverso - quegli episodi (anche sotto forma di scrit-ti e progetti) che alle opere del passato abbiano rivolto attenzioni non esclusivamen-te ‘creative’.Non v’è dubbio, allora, che la celebre ‘Lettera’ di Raffaello a Leone X costituisca ilprimo esempio di ‘progetto di restauro’ come ripristino dello stato d’origine dei piùimportanti monumenti di Roma. Altrettanto inequivocabili sono i ristauri cheSebastiano Serlio illustra nel suo Trattato; altrettanto evidente è la chiarezza descrit-tiva della forma pura del Pantheon che Gian Lorenzo Bernini restituisce in quel magni-fico schizzo a carboncino conservato nella Biblioteca Vaticana; accanto al fantasiosoprogetto di trasformazione della Piramide di Caio Cestio, che Francesco Borrominiabbozza, sempre su commissione di Alessandro VII, ove, invece, la forma del monu-

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mento antico viene contaminata dalle due bizzarre aggiunte che ne determinano l’i-ronica mutazione semantica. Ed è proprio basandoci su queste due ultime opposte‘prove’ di due grandi architetti, che possiamo serenamente prendere atto della com-presenza - in questo caso spazio-temporale - dei due atteggiamenti, nei termini di pre-messe e di esiti, di cui sopra si è detto: nell’un caso, del progetto come descrizione(dell’opera antica), nell’altro come sua traduzione.L’intenzionalità conoscitiva, come peculiarità del progetto di restauro, viene inequi-vocabilmente sancita, come condizione necessaria ed istanza ineludibile, nel momen-to in cui Giovanni Gioacchino Winckelmann definisce lo statuto della storia dell’artecome scienza dell’arte.Una ‘quiete’ - quella delle ‘belle forme’ ritrovate, anche grazie al contributo del restau-ro archeologico - che verrà però, sincronicamente, turbata dalle inquietissime edinquietanti trasfigurazioni di un’antichità, che Giovan Battista Piranesi “col mezzodelle stampe” si “avviserà di conservare”.Irrompe, nelle visioni drammatiche piranesiane, l’indissolubile e inestricabile legametra la natura e la storia; non nei termini della dualità, ordinata e collaborativa, cheWinckelmann aveva ripristinato, rappresentandola nei viali di Villa Albani, bensì inquelli di un disperato destino di metamorfosi, al quale l’uomo moderno – che Piranesirappresenta sempre piccolo piccolo, in un fuori scala ai limiti dell’incubo, rispetto arovine e rovi - non può opporre alcun rimedio razionale, tantomeno nei termini di unariduzione ad integrum del passato.Quella impotenza a far regredire natura e storia - perciò il tempo - è trasfigurata nellecelebri rappresentazioni di una impossibile ‘condizione originaria’, addirittura ricreataartificialmente ed, evidentemente, mai esistita: sia nella pianta del Campo Marzio, sianelle vedute della Via Appia o del Circo Massimo. Perciò, per Piranesi, il passato nonsi può restaurare, dal momento che i suoi lasciti non sono ‘separabili’ (come invecerichiederebbe il principio winckelmanniano); esso perciò è, necessariamente, intera-mente da conservare. L’eccezione ‘irrazionalista’ piranesiana, all’interno della struttu-ra concettuale umanistico-illuminista di un razionale rapporto con il passato, poneperciò, al contempo, il dubbio divaricante e quello fondante la moderna cultura delrestauro.Quella cultura umanistica andrà comunque costruendosi e rafforzandosi, nel corsodella prima metà dell’Ottocento, nei principi e nelle metodologie di intervento - aseguito di restauri esemplari (quelli del Colosseo e dell’Arco di Tito, in particolare) -ma anche nelle motivazioni politiche e culturali dell’azione di tutela che, soprattuttonello Stato pontificio, troveranno concreta attuazione nell’emanazione di norme, sottoforma di editti e chirografi, dalle quali deriveranno le moderne legislazioni nazionali.

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E sarà così grazie ad una nuova ‘eccezione’ - diffusa a livello europeo, sotto forma diinvettiva contro il restauro, nella celebre Lampada della Memoria, sesto capitolo del-l’altrettanto celebre The Seven Lamps of Architecture che John Ruskin darà alle stam-pe nel ‘49 - che la cultura moderna completerà il suo processo di identità. Ruskin,come Piranesi, ma più esplicitamente, irrompe all’interno di una disciplina che va pro-gressivamente consolidando i tratti fondativi della ‘positività’ (il ‘metodo’, innanzitut-to), con l’imperativo morale della conservazione della quale il restauro è, a suo giudi-zio, l’esatto contrario. Non solo; la vera forza dell’intuizione ruskiniana sta nella stret-ta coniugazione dell’istanza etica della conservazione, con l’istanza estetica cheemana, secondo lui, spontaneamente, dai segni che il tempo sedimenta anche sullecostruzioni degli uomini (la “dorata patina del tempo”), ragion per cui, il valore stori-co-artistico di un edificio del passato sarà messo in discussione da un nuovo dirom-pente valore, quell’Alterswert (valore di ciò che è, semplicemente, antico) che nienteha a che fare con la storia e con l’arte, ed al quale Alois Riegl predirà, nel suoDenkmalkultus del 1903, la fortuna di divenire la “legge estetica fondamentale” delnuovo secolo.

È evidente che risulta difficile definire che cosa sia il restauro, sia in generale, sia, inparticolare, riferito all’architettura. Perché? Innanzitutto per il fatto che, come spessoavviene, le parole, etimologicamente, nel tempo mutano significato; ed i significati,ancor più tradiscono naturalmente le loro origini, traducendosi altrettanto natural-mente in altre parole. Trovare un qualche conforto nella vita della parola per giunge-re all’essenza del concetto, sembra essere stato, nel caso del restauro un fallimento.Quello che si potrebbe tentare di sciogliere è il significato dei diversi risultati chedeterminati atti, genericamente definiti di restauro, hanno - in un tempo definito,all’interno di una cultura definita - prodotto. Io assumo, per convenzione e per con-vinzione il tempo che va dalla metà del Millequattrocento ad oggi all’interno dellanostra cultura occidentale, entro la quale tento di storicizzare quegli avvenimenti che,bene o male, tutti conosciamo.Senza questo doppio perimetro, o comunque in assenza di limiti storici, ogni inter-pretazione riprodurrebbe altrettanti equivoci, cioè voci che, appunto, si equivalgono(e, nel nostro caso, normalmente si contrappongono).Né sembra valere, al fine di un qualche chiarimento, il principio enunciato in apertu-ra della sua Teoria del restauro da Cesare Brandi, in base al quale altro non potrebberestaurarsi se non l’opera d’arte e non, ad esempio, una bicicletta. Un principio selet-tivo potrebbe forse essere quello di mettere a confronto il risultato di un interventodi architettura-sull’architettura con una determinata idea di architettura (ad esempio,

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architettura come documento storico, documento storiografico, organismo artificiale,pura materialità ecc.; ma Alois Riegl aveva già molto più convincentemente correlatoi ‘valori’ di un’architettura del passato ai diversi possibili tipi di intervento, sottinten-dendone i significati).Potremmo forse enucleare le finalità del restauro, per differenze, da quelle che com-prendiamo entro la teoria e la pratica dell’architettura. Il restauro ha una sua pecu-liarità che discende dalla sua finalità specifica, che è quella della conoscenza, o piùprecisamente del ‘contributo alla conoscenza’ di un fenomeno storico (nel nostro casodi un’ architettura del passato).Un’istanza che la cultura occidentale pone e risolve, grosso modo nel corso del terzoquarto del Settecento, allorché viene acquisito il principio in base al quale il passatoha, innanzitutto, valore storico (prima che artistico, ad esempio); e ciò, come è noto,per conseguenza dell’acquisizione del concetto di storia in sostituzione di quello,appunto, di passato o anche, più elegantemente, di antico, in pura contrapposizioneal moderno. La storia è cioè qualcosa di più ordinato del semplice passato; la storia sifa coi fatti, ai quali si attribuisce o meno un fine: una concatenazione, una conse-quenzialità, una progressione. Compito dello storico è innanzitutto, come oggi sap-piamo, quello di raccogliere i fatti, di ordinarli, analizzarli, interpretarli o, meglio,‘distinguerli’ gli uni dagli altri: innanzitutto cronologicamente, mettendoli in fila. E permetterli in fila è perlomeno opportuno saper ‘distinguere’: oltreché un fatto dall’altro,anche (innanzitutto, secondo Winckelmann), ciò che è l’essenza di quel fatto, cioè lasua verità, ripulita da tutte le mutazioni (interpretazioni, modificazioni, trasformazio-ni) che quel fatto potrebbe aver subìto nel corso del tempo, dal momento in cui accad-de, o apparve, magari lasciando tracce concrete di sé; questa ‘verità’ è ciò che per lostorico illuminista (positivista ancor più) è necessario conoscere.È il momento in cui la storia, come è noto, si va progressivamente distinguendo dallenarrazioni storiche e, di conseguenza, anche la parola cambia: il termine Geschichte,divenuto singolare collettivo sostituisce, ad esempio nella cultura tedesca, quello diHistorie; quella cioè assume, tra i materiali utili per la ricostruzione degli avvenimen-ti storici, anche ciò che di quegli avvenimenti è stato narrato, ma come testimonian-ze tra le altre.Capire un avvenimento significa ripristinarne, per quanto possibile oggettivamente,l’identità, sulla base dell’autenticità dei documenti. Significa perciò distinguere, in unfatto, ‘il vero dal falso’, ciò che anche con buona approssimazione è ‘originario’, da ciòche è invece successivo alla sua origine, sotto forma di significati o di segni.Una intenzionalità conoscitiva, in senso lato, è documentata dagli album di disegni erilievi che tra Quattro e Cinquecento vengono compilati da artisti ed architetti italia-

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ni e stranieri, i quali prevalentemente documentano la condizione degli antichi monu-menti romani in gran parte ridotti a ruderi; dapprima con curiosità antiquaria, poi consenso critico e rigore sempre più scientifico, alla ricerca di quelle ‘belle forme’ cheavrebbero dovuto garantire agli artisti e agli architetti moderni di divenire grandi,appropriandosi del linguaggio degli antichi, per “aguagliarli e superarli”.Nel rilievo del Colosseo di Francesco di Giorgio, ad esempio, è del tutto evidente ilfine conoscitivo dell’operazione che, sulla carta, si traduce in ‘restauro’; un restaurovirtuale che consente all’architetto-rilevatore di antichità di comprendere le fabbricheantiche, non solo come apparato compositivo ma anche e soprattutto, nel caso spe-cifico, come organismo costruttivo.Tale intenzionalità conoscitiva-restaurativa, che si attua attraverso il rilievo ed il dise-gno ed è finalizzata quasi esclusivamente all’apprendere per avanzare nell’arte, vaattenuandosi - a partire dalla seconda metà del Seicento - per la convinzione, da partedei moderni della ormai raggiunta superiorità nei confronti degli antichi; esemplareè, al riguardo, lo schizzo prospettico del Pantheon (di cui già si è detto) di GianLorenzo Bernini, che è insieme comprensione dell’antico, capacità di evocarne lapurezza concettuale e, forse - considerato il successivo intervento di ammodernamen-to - consapevolezza ante litteram della necessità di comprendere per restaurare.

In ogni caso per gli architetti, il confronto con l’antico ha costituito, dalla metàQuattrocento in poi un esercizio elitario, certamente non estraneo alla cultura lette-raria e filosofica; e la lettera di Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori (10 dicembre1513) esplicita, inimitabilmente, il senso di quel rapporto (con gli Antichi): quellegiornate sempre uguali nell’esilio di S. Andrea in Percussina, seppure a due passi daFirenze, al mattino a caccia o nei campi, al pomeriggio all’osteria

(…) quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugnaio, due fornaciai. Con questiio m’ingaglioffo per tutto dì giocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono millecontese e infiniti dispetti di parole ingiuriose, e il più delle volte si combatte un quat-trino e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Così rinvolto in tra que-sti pidocchi traggo il cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorta,sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.

Ma, prosegue

Venuta la sera, mi ritorno in casa, ed entro nel mio scrittoio; ed in sull’uscio mi spoglioquella vesta cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rive-

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stito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da lororicevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e ch’io nacqui per lui(…) e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, nontemo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro. (…)

A tale atteggiamento di rispetto per l’antico, di fronte al quale Machiavelli si mette“panni reali e curiali”, gli architetti non sempre adeguarono le loro azioni; la stessapietas ‘archeologica’ di Leon Battista Alberti, ad esempio, è contraddetta sia dallostrappo dei marmi policromi dalle pareti interne di S. Apollinare in Classe per farne ilrivestimento del fondale dell’arco trionfale di ingresso al Tempio Malatestiano diRimini; sia dalla lacerazione delle parti angolari della zona bassa della facciata di S.Maria Novella. All’estremo temporale opposto, giusto cinquecento anni più tardi,anche Carlo Scarpa violenterà l’organismo pluristratificato - in verticale ed in orizzon-tale - del forte di Castelvecchio, realizzando quell’ampio squarcio nell’estremità dellacostruzione addossata alle mura medievali, per liberarne, sì, la trama ‘archeologica’evidenziandone i corsi dei mattoni e delle pietre, ma attribuendo sostanzialmente atale operazione una valenza compositiva; esaltando e legittimando il gesto ‘profana-tore’ con la collocazione, in quel varco, della statua di Cangrande.

Per gli architetti, in genere, il rapporto con le opere del passato si risolverà, nei casimigliori, in esiti che vanno dal confronto per differenze (il progetto di Mies van derRohe per Battery Park a New York), alla narrazione per intrecci (il Plan Obus per Algeridi Le Corbusier)); ma le condizioni del costruire dentro la storia saranno pressoché lestesse del costruire dentro la natura.Fatte alcune eccezioni. La prima riguarda lo sdoppiamento albertiano riguardo pro-prio alle questioni del restauro, da una parte inteso pragmaticamente come ‘ripara-zione’ di difetti costruttivi (congeniti o acquisiti), dall’altra come intervento di prose-cuzione di un’opera incompiuta. E se alla prima questione Alberti dà lucide risposteconseguenti alla sistematica rassegna dei casi e dei provvedimenti costruttivi, allaseconda, altrettanto coerentemente, correla un inequivocabile principio teorico

“avviene [scrive nel Libro IX del De Re Aedificatoria] che vengano guastati e manda-ti in rovina edifici che altri avevano cominciato bene. Io credo che occorra mantener-si fedeli alle intenzioni degli autori, le quali erano state certo frutto di matura rifles-sione. Difatti coloro che in origine diedero avvio all’opera possono essere stati guida-ti da determinati intenti che anche noi, con più attento e prolungato esame e un piùesatto giudizio, potremmo scoprire”.

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Fig. 2. Progetto di restauro del Pantheon com’era in

antico. Schizzo di G. L. Bernini, BAV, Chig., a I 19, c.

66 r (da R. KRAUTHEIMER, 1985).

Fig. 1. Progetto di restauro della piramide di Caio

Cestio con gli emblemi chigiani. Disegno di F.

Borromini, BAV, Chig. MIVL, c. 16 or (da R. KRAU-

THEIMER, 1985).

Fig. 3. G. B. Piranesi, La Via Appia. Secondo fronte-

spizio dalle Antichità Romane, Roma, 1756, II.

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Fig. 4. Le Corbusier, Plan Obus per Algeri, 1930.

Fig. 5. Mies van Der Rohe, progetto per la ristrut-

turazione di Battery Park a New York, 1957-58.

Fig. 6. C. Scarpa, restauro della Querini Stampalia a

Venezia, piano terra, 1961-63.

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Un invito, diremmo oggi, ad una cauta interpretazione critica dell’esistente, senza ‘tra-dimenti’.Eccezione, singolarissima, quella del già citato progetto di Instauratio Urbis propostoda Raffaello a Leone X (tra il ‘15 ed il ‘20 del Cinquecento), nella quale appare chia-ra l’intenzionalità restaurativa, ove l’ istanza conoscitiva è, insieme, strumento e finedel grandioso progetto di ripristino dello stato originario dei principali monumentiantichi.Ma nella norma il rapporto degli architetti con le preesistenze - soprattutto quelle dialto valore simbolico - si concretizza in atti che niente hanno a che vedere con ilrestauro (né nel senso albertiano di comprensione-interpretazione critica, né in quel-lo raffaellesco di conoscenza-ripristino filologico). Non c’è infatti alcuna volontà di‘riconoscimento dell’antico’ nella suggestiva sopraelevazione del Teatro di Marcello adopera di Baldassarre Peruzzi, né nei magnifici ‘restauri’ di Giulio Romano del duomodi Mantova e soprattutto della chiesa del Polirone, né nella trasformazione delleTerme di Diocleziano di Michelangelo, ove appare forte il significato ‘politico’ dellamutazione di quel luogo pagano in chiesa (S. Maria degli Angeli). Altrettanta, addi-rittura esibita, disinvoltura, sta nel già citato progetto di Francesco Borromini per latrasformazione della Piramide di Caio Cestio all’Aventino in cappella funeraria per lafamiglia Chigi, con il portale barocco addossato ad una faccia del monumento anti-co e, soprattutto, con il fuoriscala dell’arme nobiliare appoggiato sulla sommità. Nonva perciò dimenticato, come eccezione alla regola, il contributo restaurativo diSebastiano Serlio - nel libro del suo Trattato che porta sul frontespizio il celebre mottoRoma quanta fuit ipsa ruina docet - che mette in atto, seppure soltanto nelle stam-pe, la ricostruzione grafica degli antichi monumenti, dando così parziale risposta alprogetto raffaellesco.

A parte le autorevoli eccezioni, il rapporto degli architetti con i monumenti del pas-sato si svolge dunque prevalentemente sotto il segno della modificazione; tale atteg-giamento permane anche dopo che si sarà affermata la moderna cultura del restau-ro, dunque a partire dalle esperienze archeologiche dei primi decenni dell’Ottocento;ovviamente tale atteggiamento permane - manifestando insofferenza per tutto ciòche costituisca impedimento (normativo e culturale) alla reclamata libertà di azionesulle opere del passato - in parallelo con gli interventi ortodossi rispetto alla acquisi-zione del valore storico di quelle opere (e non solo dei monumenti) come testimo-nianze documentali da salvaguardare e conservare. Gli architetti, perciò, ben pocosaranno turbati dall’ammonimento dei teorici del restauro, in primis dall’affermazio-ne di Cesare Brandi secondo la quale, dalla metà dell’Ottocento in qua - cioè dalla

definitiva acquisizione di una coscienza storica - nient’altro sarà ammissibile se non ilrestauro della materia dell’opera - giammai dell’immagine - col divieto categorico dialterarne la figuratività. Gli architetti, quando potranno (magari anche soltanto peripotesi progettuale, o per esercitazione all’interno dei corsi universitari di progetta-zione architettonica) continueranno a misurarsi col tema ‘antico-nuovo’; ancor più inquesti ultimi anni, dal momento che la cultura architettonica internazionale - cen-troeuropea in particolare - ha progressivamente guadagnato spazio nel territorio delrestauro, ben oltre le possibilità operative del cosiddetto ‘restauro critico’ che già, apartire dagli anni Cinquanta del Novecento, aveva dato piena legittimità anche alleistanze interpretative, addirittura incoraggiando il ricorso alla fantasia.

C’è, comunque, un momento ‘ufficiale’ di crisi all’interno di una tale, ininterrotta -anche se più o meno legittimata - ‘tradizione’; quel momento, grosso modo, coincidecon il terzo quarto del Settecento, allorché, da una parte, la storia assume uno statu-to scientifico; e, dunque, la storia dell’arte e quella dell’architettura richiedono docu-menti attendibili sui quali lavorare per conoscere e ‘ricostruire’ un’opera del passato(analogamente alle scienze positive come l’antropologia, la paleologia, l’archeologia,il cui fine principale sarà la conoscenza del passato attraverso il recupero delle testi-monianze materiali, la loro osservazione e comparazione). Dall’altra allorché, anchecome opposizione alle certezze della scienza e della ragione, Piranesi - come detto -avanzerà il dubbio sistematico, opponendo complessità e compresenza in quel passa-to che egli, forzandone la rappresentazione, dichiarerà inconoscibile per mezzo uni-camente della ragione e del metodo.Secondo Winckelmann che, come è noto, fonda la storia dell’arte moderna (per anti-tesi con le narrazioni artistiche dei secoli precedenti) “la prima cognizione che sirichiede per esercitare il sentimento del bello, consiste nel poter distinguere nellastessa figura il nuovo dall’antico” [e perciò] “gli errori più frequenti in cui cadono glieruditi di cose antiche, nascono per la loro disattenzione per le parti di restauro; infat-ti essi non hanno saputo distinguere le aggiunte, fatte per sostituire parti mutilate operdute, da quello che è veramente antico”.L’antico e il nuovo, winckelmannianamente intesi, debbono allora essere riconosciuti,per essere poi separati (il caso è esemplarmente rappresentato nel celebre dipintodell’Antinoo Albani); ed il restauro, anche puramente mentale, è, per lui, un atto diseparazione. Il giudizio storico infatti non può prescindere dall’atto critico (in sensoproprio) del riconoscimento. Fare storia è perciò tutt’uno col produrre conoscenza o,meglio, per fare storia occorre conoscere i fatti nella loro massima integrità. Perciò lastoria della scultura antica, per essere veramente attendibile, per essere ‘scienza’, deve

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poter disporre di opere il più possibile autentiche, anche se incomplete: ripulite cioèdelle aggiunte e reintegrate delle parti mancanti, con un atto - anche soltanto men-tale - di restauro: quell’ “improvviso completamento” (del Torso del Belvedere) che“nasce” nel corso dell’osservazione da parte dello storico. Restaurare un’opera, perWinckelmann, significa addurre elementi per la sua conoscenza, per ‘comprenderla’all’interno del quadro storico che, anche grazie ad essa, lo storico va componendo.Su questi principi si fonderà la cultura ufficiale del restauro architettonico indirizzatae controllata dagli storici dell’arte (per i successivi due secoli, da Carlo Fea, Prefettoalle Antichità di Pio VII, fino a Cesare Brandi fondatore e direttore dell’IstitutoCentrale); e ciò a seguito della vittoria definitiva, da parte appunto degli “eruditi”,nella battaglia per la ricostruzione della basilica di S. Paolo fuori le Mura, chiusasidefinitivamente nel 1825 col chirografo di Leone XII, nel quale si affermava - per det-tato dello stesso Fea - che l’antico monumento dovesse venire ricostruito esattamen-te com’era al momento della sua costruzione, contro le proposte innovative degliarchitetti che ne reclamavano la riedificazione, con l’inglobamento dei ruderi entroforme moderne:

(…) vogliamo in primo luogo che sia soddisfatto compiutamente il voto degli eruditi,e di quanti zelano lodevolmente la conservazione degli antichi monumenti nello statoin cui sorsero per opera de’ loro fondatori. Niuna innovazione dovrà dunque introdur-si nelle forme e proporzioni architettoniche, niuna negli ornamenti del risorgente edi-ficio (...).

Da queste posizioni partirà, immediatamente dopo, Quatremère de Quincy per laprima formulazione di una definizione di Restauro in architettura, nel suo Dictionnairehistorique d’Architecture pubblicato a Parigi nel 1832. Quatremère si autodefinisce il‘Winckelmann francese’; per lui

(…) Restauro, in senso meno materialmente meccanico, si dice in architettura del lavo-ro […] che consiste nel ritrovare, basandosi sui resti, i ruderi e le descrizioni di un monu-mento, il suo insieme originale, definendone le misure, le proporzioni e i particolari.

Per Quatremère “Le talent ne sauroit même entrer dans une semblable opération, quipeut se réduire au plus simple mécanisme”; è il teorico che sistematizza per primo - edefinitivamente - il rapporto ‘operativo’ tra storia e architettura, individuando nelrestauro il necessario, ineludibile, nesso. Il restauro come disciplina accademica (aVilla Medici, soprattutto) diviene l’indispensabile ‘ponte’ attraverso il quale lo stu-

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dente-architetto potrà inoltrarsi nel territorio dell’architettura ove potrà, moderata-mente, fare ricorso anche all’invenzione. La capacità di sapere valutare storicamenteun’opera del passato dopo averla pienamente compresa, è così il segno della maturi-tà dell’architetto.Giovan Battista Piranesi oppone a tale ottimismo illuminista, non solo la sua predile-zione per la forza (la Magnificenza) delle costruzioni romane in opposizione alla ‘quie-te’ delle ‘belle forme’ greche; ma, per quanto maggiormente attiene alla questione delrapporto con l’antico, afferma, rappresentandola ed esaltandola, ogni genere di modi-ficazione degli antichi monumenti, come concrezioni, stratificazioni e intrecci tra natu-ra e rovine. Per Piranesi, insomma, la storia non è soltanto una; ma è molteplicità dieventi, che si sovrappongono e si intrecciano, ragion per cui noi moderni non possia-mo essere autorizzati a far luce, illuministicamente, entro quella complessità.Dovremo limitarci a prenderne atto e dunque, tassativamente, a conservarla, cosìcome essa ci appare. Così la storia dell’arte - e dell’architettura - per Piranesi nonammettono giudizi di valore nei termini wickelmanniani; non esiste un unico logos alquale riferirsi per selezionare all’interno di quel passato, che emblematicamente è rap-presentato nella ‘ricostruzione’ della Via Appia, come un accumulo disordinato edebordante di forme che non appartengono a nessuna delle storie conosciute.Da una tale biforcazione nella valutazione del passato e, più in generale, della storiacome magistra vitae, scaturiscono i due atteggiamenti ‘restaurativi’ che, seppure conintenzionalità diverse, entrambi sottendono l’istanza conoscitiva: quella del ripristinofinalizzato alla conoscenza del passato come documento storico depurato dalle stra-tificazioni del tempo; e quella della conservazione come garanzia di intangibilità deldocumento storiografico, comunque necessario alla conoscenza del passato intesocome accumulazione di eventi.Nel corso del primo ventennio dell’Ottocento, la storia del restauro architettonicoregistra due episodi altissimi, simboli di quella divaricazione concettuale: l’interventodi conservazione delle arcate del Colosseo realizzata, nelle forme del ‘congelamento’del crollo in atto, da Raffaele Stern nel 1807, e quello di ripristino dello stato origi-nario dell’Arco di Tito, terminato da Giuseppe Valadier poco dopo il 1820.

In un breve scritto di Boullée possiamo cogliere, da una parte il ritorno alla riflessio-ne teorica albertiana sul restauro come cauta interpretazione critica; dall’altra l’anti-cipazione di quella modernità del restauro che Viollet le Duc affermerà lapidaria-mente nell’incipit della voce Restauration del suo Dictionnaire d’Architecture. Boulléeintuisce che anche il semplice ampliamento di una costruzione monumentale poneproblemi ai quali non è sufficiente dare risposta, né nei termini della libera invenzio-

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ne, né della rigorosa riproduzione delle forme; pare esserci, insomma, qualcosa dialtro: gli “altri”, per Alberti, “il primitivo architetto” per Viollet, che rappresenta meta-foricamente l’impotenza del suo tempo - e sua in particolare - ad esprimersi con paro-le nuove, nell’autoritratto in veste di guerriero medievale posto tra le sculture restau-rate di Notre Dame. Pare davvero che ci sia, per Boullée, ‘qualcosa d’altro’ col quale fare i conti.

Se già il progetto di un palazzo [egli scrive] è la creazione che richiede ad un artistail maggiore talento e le conoscenze più estese, quanto diviene difficile tale compitoquando vi sono dei vincoli che richiedono di accordare i nuovi edifici con quelli pree-sistenti! Tali sono le mie prime riflessioni sul restauro del castello di Versailles (…)Cercai dunque di addentrarmi profondamente nel mio soggetto.

Boullée è ‘l’ultimo degli antichi ed il primo dei moderni’ a mostrare la volontà e adimostrare la possibilità di dominare la memoria dell’antico, sia spazialmente, siatemporalmente. Ne esprime il senso profondo con l’introduzione e la traduzione - del-l’antico nel nuovo - nel Progetto per una Biblioteca Pubblica ove prefigura di riempi-re il vuoto della corte del convento dei Cappuccini nei pressi di piazza Vendôme, conuna gigantesca ‘Scuola di Atene’. Nella premessa alla Dissertazione del progetto egliscrive:

Profondamente colpito dalla Scuola d’Atene di Raffaello, ho cercato di metterla inopera (…) Questo progetto consiste nel trasformare la corte, che misura trecento piedidi lunghezza per novanta di larghezza, in un’immensa basilica illuminata dall’alto (…)Per convincersi che tale basilica offrirà l’immagine più grandiosa e sbalorditiva maiesistita, è sufficiente gettare un’occhiata al sito di cui mi servo e immaginare che lavolta si eleverà dall’altezza delle murature attuali (…) Gli edifici esistenti, senza alcuncambiamento, saranno destinati ad ospitare i diversi depositi (…) un vasto anfiteatrodi libri [in] un sito che si pensava di dover abbandonare (…)

Cinquant’anni più tardi John Ruskin, come già detto, introdurrà l’istanza etica comeineludibile fattore nel dibattito sul restauro; gli uomini, egli dirà, tendono a dimenti-care, per questo la poesia e l’architettura sono utili a ricordarci il nostro passato (e l’ar-chitettura è più potente della poesia). Perciò dobbiamo avere cura dei nostri edificiantichi - “Watch an old building with an anxious care” -; dobbiamo assisterli come siassiste un vecchio malato, ma senza forzare le leggi del tempo, senza inganni, senzarestauri vistosi. Ma dobbiamo anche ricominciare a costruire edifici solidi, per assicu-

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rare loro una lunga vita, per garantire al futuro un ricordo il più possibile esteso delnostro passato, ivi comprese tutte le tracce, tutti i segni, tutti gli accidenti che il tempoavrà depositato sulle sue murature e nelle sue stanze. Perciò, dice Ruskin, dobbiamoopporci ad ogni intervento dell’uomo che cancelli quelle tracce, quei ricordi che altriuomini hanno lasciato passando la loro vita all’interno di quegli edifici, ove tracce esegni, da semplici testimonianze del trascorrere del tempo, si tradurranno in valoriottici e tattili, fino ad assumere le valenze di una inedita religiosità pagana.

Dobbiamo, oggi, noi ‘restauratori’, qui allo IUAV, assumerci senza remore e, soprat-tutto, senza nascondere le nostre variegate insufficienze di corpo docente di un’Area(ICAR 19) tra le più difficili da tenere unite anche a livello nazionale, il compito dirifondare, ma forse sarebbe più appropriato dire, di ‘fondare’, una scuola. Non dico dicostruirla: perché per far questo, penso, occorreranno anni, decenni, e, soprattutto,persone serie, preparate, intelligenti e, soprattutto, oneste (non solo intellettualmen-te). Fondare, dicevo; il che significa tracciare un solco, perimetrare un’area, appunto,mettere dei capisaldi, orientare, infine, l’impianto generale della costruzione.Ritengo che ciò debba essere fatto - per continuare nell’allegoria - nel rispetto deicaratteri del sito, del luogo che, nel nostro caso è ancora, per tradizione, seppure unpo’ vacillante, luogo culturale di eccellenza, fisicamente situato in una città d’eccel-lenza, anch’essa per la sua storia, ancor più che per il suo presente, certamente nongrande quanto lo fu il suo passato; e che d’altronde, come è ovvio, non può che noncondividere la sua condizione con noi, che in questo momento vi conduciamo lanostra esistenza di intellettuali.Lo IUAV, come è noto, diventò scuola riconosciuta di livello internazionale grazie allariorganizzazione - alla sua seconda fondazione, si potrebbe dire - ad opera di GiuseppeSamonà, proprio allo scoccare della metà del Novecento. Samonà, come sappiamo,puntò tutto, o molto, sull’insegnamento dell’Architettura cioè sul progetto dell’archi-tettura e della città, al quale, ovviamente sapeva di dovere garantire un adeguato,autorevole, innovativo nutrimento da parte della storia.Fu così che prese corpo, fece corpo, un gruppo di giovani di grande talento con unagrande passione e grandi capacità progettuali e didattiche: da Saverio Muratori aBruno Zevi, a Luigi Piccinato, Franco Albini, Ignazio Gardella, Ludovico Belgiojoso; daCarlo Scarpa (l’unico non giovanissimo) a Giancarlo De Carlo, a Carlo Aymonino – chediverrà anche Direttore nella seconda metà degli anni Settanta - a Vittorio Gregotti,Aldo Rossi, Gino Valle, Manfredo Tafuri.Entro una tale struttura didattica di livello internazionale, l’insegnamento delRestauro architettonico - o meglio, del Restauro dei Monumenti come generalmente

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si indicava l’area fino a non molti anni orsono - era stato, fin dall’inizio, piuttosto tra-scurato; o, comunque, non era certamente stato rappresentato da nomi eccellenti,almeno per quanto ci è dato di ricordare da ciò che i docenti, rispettabilissimi, di que-gli anni, hanno lasciato in eredità sia dal punto di vista degli scritti sia da quello dellatradizione, cioè della ‘scuola’.Non era insomma lo IUAV, per quel che riguarda il Restauro, all’altezza della altrefacoltà italiane, ove già si facevano strada, invece, alcuni dei protagonisti di questaparticolarissima disciplina che, come è noto, spesso venne - e tuttora viene - conside-rata come luogo culturale ed operativo ibrido, tra la progettazione e la storia, se nonaddirittura come luogo di confluenza della generalità dei settori disciplinari: dalla pro-gettazione alla tecnologia, alla scienza delle costruzioni.A Venezia, all’interno dello IUAV, soprattutto grazie agli studi di un grande intellet-tuale ed appassionato docente, Saverio Muratori - peraltro anche valente architetto -e grazie, soprattutto, alle sue continue e serrate sperimentazioni nella didattica uni-versitaria, prende l’avvio, dalla cattedra di ‘Caratteri distributivi degli edifici’ alla qualeSamonà lo aveva chiamato, quel nuovissimo e vasto campo di interessi e di studio chevedeva coinvolti la storia, la progettazione, il disegno e soprattutto il rilievo della cittàstorica, ove la forma urbana - la ‘morfologia urbana’ - non si sarebbe più disgiuntadallo studio della ‘tipologia edilizia’. Per una operante storia urbana di Venezia è iltitolo del libro che raccoglie gli studi e le esperienze didattiche di quegli anni, cheMuratori dà alle stampe nel 1959. E’ la sintesi ed il manifesto di quella particolarecultura, tangente alle problematiche del restauro, che, di lì a poco, allo IUAV si bifor-cherà: da un lato negli studi sulla forma urbana, come struttura fondante la proget-tazione del nuovo, con Carlo Aymonino ed Aldo Rossi, soprattutto; e, dall’altro, neglistudi e nei rilievi raffinati di Egle Trincanato dell’edilizia minore veneziana che nonlascerà però eredità significative.

E’ anche sul rapporto tra università e professione che, ritengo, si possa oggi tentaredi riunire dapprima le intenzioni, poi le idee ed infine il progetto, o i progetti, per iltracciamento di quello che all’inizio ho definito come un intervento di fondazione.Burocraticamente, come si sa, è stata, con l’ultima riforma universitaria, mutata, nondi poco, la natura stessa dell’istruzione, che di universitario in senso etimologico nonmolto ha conservato.Altrettanto burocraticamente è stato riorganizzato, con scarsa chiarezza, il sistemadelle cosiddette competenze professionali, correlazionate, appunto, alle lauree.Lauree che - nel caso delle ‘triennali’ - consentono, come sappiamo - a differenza diciò che avviene nei sistemi internazionali ai quali noi continuiamo, semplicemente, ad

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‘ispirarci’ - ad un diplomato qualunque di un istituto alberghiero delle Venezie (perrimanere in zona), di iscriversi e di laurearsi dottore in ‘Scienze dell’architettura’ dopo,appunto, tre anni (mentre, come è noto, ai tempi di Francesco Giuseppe, l’abitatore diquel territorio, di anni ne avrebbe dovuto impiegare dodici e, per di più, impegnan-dosi in uno studio vero e serio).Ora, tralasciando questi argomenti da un lato comici, dall’altro tragici, come d’altron-de diversamente non potrebbero essere, essendo anch’essi italiani nel senso menonobile dell’aggettivo sostantivato; tralasciando questi argomenti, potremmo cercarenoi, seriamente, di mettere un po’ di ordine al settore che ci riguarda e, spero, ci inte-ressi.Come è noto il progetto e, naturalmente, anche la direzione dei lavori di un restauroè, a tutt’oggi, riservato, in Italia, alle competenze professionali dell’architetto; in Italia,non in Europa, ove sono riconosciute anche le competenze del laureato in ingegneriacon indirizzo architettura. Va detto, peraltro, come è altrettanto noto, che, per restauro, la legge (o, meglio, ilRegio Decreto del 1925) intende i ‘restauri artistici’ su edifici vincolati dallo Stato(dalla legge del 1909 e successive, fino al Codice Unico dei Beni Culturali). Va ricor-dato altresì che non possono estendersi le competenze dell’ingegnere oltre, eventual-mente, ‘le parti statiche’ (sempreché, ovviamente, l’architetto non si senta in grado diaffrontarle: questione antica questa, come si vede; anch’essa importante per la pun-tualizzazione delle qualità dell’insegnamento del Restauro, a garanzia delle ‘reali’competenze degli architetti).Come si sa, le competenze in materia di restauro sono riservate agli architetti giàiscritti all’Albo prima dell’ultima riforma ed a quelli che vi si iscriveranno avendo con-seguito una laurea quinquennale od una laurea specialistica in Architettura (non inConservazione, che fa caso a sé).Gli architetti cosiddetti junior, i ‘triennali’, non possono redigere né, tantomeno fir-mare, progetti di restauro, né dirigerne i lavori: attenzione a non lasciarsi trarre ininganno dai bizantinismi del lessico del decreto sulle competenze che, per i triennali,abusa del termine ‘scienze’. Ma quale restauro intendiamo insegnare ai nostri studenti, futuri architetti junior; e,forse, ma non necessariamente, futuri Architetti?Qui allo IUAV abbiamo frazionato o, meglio articolato, la ‘Laurea specialistica inArchitettura’ in diverse lauree ‘specialistiche’ che, nella realtà, sono soltanto lauree inArchitettura con particolari indirizzi. E tra le cosiddette lauree specialistiche c’è quel-la denominata ‘Architettura per la conservazione’; denominazione che porta con sé ilresiduo (anche se soltanto nominale) del soppresso Corso di laurea in ‘Storia e

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Conservazione’, fortemente voluto fin dagli anni Ottanta da Manfredo Tafuri (sul cuicontributo di pensiero ai temi profondi del rapporto tra la Storia - nel senso delleopere come testimonianze architettoniche del passato - e Progetto, ancora, a quantomi risulta, poca attenzione è stata prestata).Tafuri, in altre parole, non è soltanto quello della famosa intervista a ‘Casabella’(580/1991); anzi, in quella, come di regola succede ai grandi teorici allorché tentinodi trascrivere il loro pensiero in progetti - Riegl stesso lo testimonia, nel momento incui si provò a tradurre il DenkmalKultus in normativa statale - mostra il lato deboledel suo progetto. Mentre, invece, il contributo forte sta tra le righe sia di Progetto eutopia del ‘73, sia, ancor prima, di Teorie e storia del ‘68 (basta anche solo scorrernecon occhio attento le illustrazioni).Nella laurea specialistica - se così si può dire, come di fatto continuiamo a dire - ‘inconservazione’, ovviamente il Restauro non può mancare; anche se il termine ‘restau-ro’, io ritengo, non debba essere sostituito, nella titolazione, a quello di ‘conservazio-ne’ (come invece i restauratori da tempo chiedono, inascoltati).Dunque il Restauro (dalla teoria e storia, al restauro dei monumenti, al restauro urba-no) qui non può mancare; ma non perché la laurea si intitoli ‘laurea specialistica inconservazione’; più semplicemente perché la laurea è - a tutti gli effetti di legge - lau-rea ‘specialistica in Architettura’. E la laurea in Architettura, in Italia, grazie a quel lon-tano Regio Decreto, riserva agli Architetti, solo a loro, le competenze professionali nelcampo del Restauro.Non v’è dubbio, perciò, che il massimo sforzo - volendo stare all’interno di una sanastruttura di formazione universitaria - dovrebbe essere fatto per assicurare agliArchitetti (quelli della Sezione A dell’Albo) tutte le conoscenze e quindi gli strumenticulturali per affrontare e risolvere dignitosamente ed in piena autonomia professio-nale tutti i casi del restauro: dal rilievo al progetto, ai capitolati, alla direzione deilavori: non solo per la parte storico artistica, tipologica, delle superfici, ecc., nelle qualisiamo effettivamente abbastanza preparati, ma anche per quella della cosiddetta‘parte statica’ che non possiamo continuare ad ignorare (anche perché, nella realtà,essa è molto meno ostica e antipatica di quanto comunemente si pensi).E se vogliamo rendere più esplicito negli atti e nei fatti il ruolo dell’architetto - e dell’architettura - oltre il puro, doveroso, rispetto del codice deontologico del Restauro,ecco che, inopinatamente, un suggerimento ci viene proprio dalla algida titolazionedi questa laurea ‘specialistica’di “Architettura per la conservazione”: basta sottolinea-re il per e scrivere conservazione con la ‘C’ maiuscola; tradurre quel ‘per’ con un a favo-re di e rispettare rigorosamente i limiti - che devono comunque essere molto stretti -di quell’a favore. Intendo dire: progettare nei termini dell’architettura tutto ciò che sia

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utile alla conservazione non solo dell’architettura, ma anche dell’edilizia, del territo-rio, di ogni testimonianza del passato; scoraggiando al contempo gli studenti a prefi-gurare inutili e quasi sempre bizzarri accostamenti del nuovo con l’antico, perdipiùalla grande scala e quasi sempre a scapito dell’antico. Ma indirizzandoli a progettaresu piccola scala - in tutti i sensi - senza smarginamenti, esuberanze, eccedenze: tra-durre insomma nei termini dell’attenzione ‘quel tanto che basti a far sì che’ un’archi-tettura storica si conservi ‘grazie a’ provvedimenti minimi, equilibrati; come sono lemaniglie di ferro ‘a bilancino’ di Le Corbusier, calibrate a tal punto da non ammette-re miglioramenti né di materiali né di forma.Dobbiamo insegnare ai nostri studenti che si può fare architettura per la conserva-zione anche solo progettando una grondaia, un infisso, un pavimento, un provvedi-mento per impedire all’acqua di entrare in casa (Carlo Scarpa, al piano terra dellaQuerini Stampalia, lungo la parete sul canale, ce lo ha già convincentemente dimo-strato, forse anche sovrabbondando nella dimostrazione); progettando anche, anzit-tutto, quelle ‘stampelle’ alle quali - secondo John Ruskin - noi dovremmo saperci limi-tare, per assicurare nient’altro che una dignitosa vecchiaia alle nostre costruzioni sto-riche.

Nota alle immaginiIl progetto di Bernini per il Pantheon e quello di Mies per New York traducono in architettura la

distanza (ovvero separazione) tra antico e moderno: nel primo il monumento è isolato nel tempo e

nello spazio, come forma pura; nel secondo i tre grattacieli sul fronte del porto sono isolati dalla città

vecchia alle loro spalle, sopra basamenti geometrici. Il progetto di Borromini e quello di Le Corbusier

traducono l’intreccio (ovvero la compresenza) di antico e moderno: nel primo il monumento è tra-

sferito nell’attualità con le aggiunte del portale barocco e dell’emblema pontificio; nel secondo l’or-

dine gigante dell’architettura lecorbuseriana e la città vecchia, col paesaggio, si compongono in una

inedita figura.

Nella Via Appia Piranesi traduce con enfasi estrema il senso della conservazione di tutto il passato,

affermando l’impossibilità di selezionarne i prodotti storici. Nel piano terra della Querini Stampalia,

Carlo Scarpa traduce in architettura, anche per accumulazione di antico e moderno, inaudite forme

della conservazione.

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