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Racconti Pallonari

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Ce lo sentiamo dire così spesso che a volte quasi ce ne convinciamo anche noi.Diritti tv, calcio scommesse, multinazionali che muovono miliardie procuratori che decidono il calciomercato in base alle loro provvigioni.

Allo stesso tempo, viviamo in un mondo sempre più asettico: forseè un meccanismo di difesa, per sopportare continue iperboli linguistiche

e tempeste pubblicitarie, ma siamo sempre più incapaci di emozionarci.Nonostante tutto questo, appena parliamo di calcio gli occhi si accendono,il cuore palpita più forte e nel nostro cervello scorrono immagini a velocitàsupersonica: ricordi d’infanzia, sogni di scudetti mai vinti, attesa spasmodicaper la prossima partita, ansie ed emozioni condivise in campo, in curvao davanti a uno schermo. Il pallone ha un potenziale evocativo sorprendente:forse perché ci ricorda il “mondo perfetto” di quando eravamo piccoli,o il mondo migliore per cui ognuno a suo modo lotta ogni giorno.O forse perché, come spiega Hornby, “c’è sempre un’altra stagione davanti” :possiamo sempre rifarci, provare il tiro ad effetto, rincorrere la personache abbiamo lasciato andare o dire le parole che non ci uscivano di bocca.

Il pallone è un piccolo pezzo di eternità, e inseguendolo diventiamo immortali.Quest’ebook è un’opera di storytelling, una raccolta sospesa tra il ricordoe l’attualità. Undici storie che ripercorrono il cammino di Zona Cesariniin questo primo anno. È un ringraziamento per chi è stato con noi,commentando, suggerendo o criticando il nostro lavoro.

Questo libro è per voi. E per noi.

Il calcio fa schifo.Al prossimo cinico che ve lo ripeterà , rispondete raccontando una storia.Se siete bravi, si ricorderà di quando entrò per la prima volta allo stadio,o dell’ultima volta che ha preso a calci un pallone. E se alla finevi ringrazierà, vi sentirete felici come noi dopo questo primo anno insieme.

Grazie,

la Redazione 

Prefazione

 «Il calcio fa schifo»

I

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In tutto il mondo, ci dicono, in ogni momento,ci sono un tot di persone che nascono, muoiono,

concepiscono un figlio, oppure si trovano una pistola puntata addosso.

A me piace pensare che in ogni istante da qualche parte 

nel mondo un giocatore dilettante qualsiasi stia segnando un gol straordinario.È successo a chiunque abbia giocato a calcio.

In qualche occasione, forse anche una volta sola,abbiamo spedito la palla in gol da 25 metri,

lasciando di sale il portiere, oppure abbiamo incornato il pallone (a occhi chiusi ovviamente) spedendolo 

nel sette come una fucilata.

Non tutti gli sport offrono questa emozione.Quante volte può capitare, andando alla piscina comunale,

che qualcuno batta il record del mondo? 

Eppure, per la legge delle probabilità,ogni domenica un pancione bolso che passa le giornate al pub segna un gol splendido quanto 

quelli dell’inarrivabile Pelé e del possente Bobby Charlton.Può accadere ovunque e se si sa aspettare abbastanza 

succederà praticamente dappertutto.

È questo il bello del calcio: qualche momento sublime,molti episodi ridicoli, e tutto ciò che sta nel mezzo 

tra i due opposti.

(C. Pierson, Il mio anno preferito)

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III

Sommario

LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO

LA FAVOLA DI MAURIZIO SARRI: QUANDO IL LAVORO NOBILITA L’UOMO

MICHAEL OWEN,

IL RAGAZZO CHE DOVEVA SALVARE L’INGHILTERRA

IL CIELO SOPRA BERGAMO

GLENN PETER STROMBERG: L’ANGELO BIONDO CHE STREGÒ UNA CITTÀ

UNION BERLIN,IL CUORE PULSANTE DI BERLINO

EDUARD STRELTSOV, IL TACCO MAGICOCHE INCANTÒ L’UNIONE SOVIETICA E FINÌ IN UN GULAG

LA STORIA DEL BNEI SAKHNIN,

LABORATORIO DI PACE NEL CALCIO ISRAELIANO

HOPE SOLO,

LA TIGRE DI WASHINGTON

C’ERA UNA VOLTA LA JUGOSLAVIA.

QUANDO LA STELLA ROSSA SOTTOMISE L’EUROPA

IL SOSTITUTO: VIKASH DHORASOO,

L’INTELLETTUALE RIBELLE CHE TRIONFA SUL TAVOLO VERDE

GENERAZIONE JOYPAD

IL MORBOSO AMORE PER BABANGIDA E WINNING ELEVEN 4

GRAPPA, SIGARETTE E VALANGHE DI GOL:DARIO HUBNER, IL BISONTE DI MUGGIA

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3

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Paolo Carelli

 Leonardo Capanni

Simone Bartalesi

Alessandro Bezzi

Federico Castiglioni

Jacopo Rossi

Giovanni Boniforti

Giuseppe Zotti

Simone Viaro

Matteo Aiello

Alessandro Bezzi

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LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO

LA FAVOLA DI MAURIZIO SARRI:QUANDO IL LAVORO NOBILITA L’UOMO

Schietto, vero e polemico. Ormai lo conoscono intanti, e non solo gli addetti ai lavori. A Empo-li qualcuno lo voleva come prossimo sindaco e

a Napoli l’hanno già infilato nel presepe natalizio. Sidiceva che sulle tribune del Castellani c’era semprequalche osservatore, perfino quelli dello Zenith di SanPietroburgo. Storia vecchia. È arrivato è il Signor DeLaurentiis e tanti saluti a tutti.

Mister Sarri è uno stakanovista del pallone: minu-zia di particolari, cura dei dettagli e grande spiritodi sacrificio. Ha preso per mano una piccola granderealtà di provincia e l’ha portata di nuovo in paradiso:la massima serie.

Ha confessato di essere un ammiratore di Bukowski,Fante e Vargas Llosa, un accanito fumatore di biondee un appassionato di politica, spostato decisamente asinistra, tanto da non aver perso occasione per chie-dere a Francheschini e Landini: “Ma perché la sinistra inItalia non fa mai una cosa normale?” 

Simone Bartalesi

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“Non scherziamo veramente. Sono figlio di operai,ciò che percepisco basta e avanza. Mi pagano per fareuna cosa che avrei fatto la sera, dopo il lavoro e gratis.

 Sono fortunato”

Partito su una panchina di SecondaCategoria del paesello di Stia, è ar-rivato in Serie A solamente l’annopassato. Una scalata lenta ma ine-sorabile, senza mai essersi fermatoneanche per un anno.

Il “compagno” Maurizio Sarri na-sce a Napoli il 10 gennaio di 56anni fa. Il papa’, Amerigo, lavora-va nell’edilizia, mentre la mamma,Clementina, faceva la corniciaia.Come ama sottolineare anche lui:“non mi sento toscano, lo sono” . Infat-ti, il piccolo Maurizio cresce nellapoco conosciuta Figline Valdarno,alle porte di Firenze.

Quando indossava le scarpette chiodate era un “difen-soraccio”. Uno di quei mastini che ti stanno col fiatosul collo. Ai tempi lavorava in banca per il Monte dei

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Paschi. Questa esperienza, come lui riconosce, è stataimportante per “aver appreso il valore dell’organizzazionee della capacita decisionale“ . Tutte cose che metterà sulcampo di pallone, perché come dice Mourinho, “chi sasolo di calcio, non sa niente di calcio“ .

Dice di non ispirarsi a nessunoin particolare, anche se ammette

di avere una certa simpatia per ilmodo di attaccare di Zeman e del-lo Spalletti  della Roma. È Ulivieriperò, quello che umanamente gliassomiglia di più. Un altro tosca-naccio come lui.Una cavalcata durata venti anni,prima di arrivare in Serie B, nel2005 a Pescara. La stagione, però,non si conclude come la dirigenzavorrebbe, ed ecco che Sarri vienemandato via. Dopo un inizio esal-tante, la sua carriera subisce un

contraccolpo. Si rimbocca le mani-che e riparte, passando tra Arezzo,Verona, Avellino, Grosseto e Sor-rento.

Quando, però, tutto sembra andarestorto, ecco che nel 2012 si fa avan-ti l’Empoli. Come Direttore Spor-tivo c’è Marcello Carli e tra i duenasce da subito un’intesa totale.Sarri raggiunge il quarto posto nelcampionato cadetto, si qualifica aiplay-off ma perde la finale col Li-

vorno. Niente di grave, il progettoè solido. Eccoci al 2013-14. L’Empoliarriva secondo ed è finalmente Se-rie A. Sarri ce l’ha fatta, la massimaserie è realtà dopo una galoppatadurata una vita.

Cronache dei giorni nostri. Al ter-mine della partita d’andata controla Roma, persa immeritatamenteper 1-0, Garcia gli va incontro com-plimentandosi per il gioco, special-mente quello in fase difensiva, econ un po’ di ironia gli confessa:

“Bravo Mister, ho visto come vi muo- vete in difesa. Vorrei provare anch’ioquei movimenti in allenamento. Ma se aMaicon gli dico che domani stiamo dueore solo a provare la linea difensivacome fai te quello mi manda a…”.

La gente comincia quindi a chie-dersi se Sarri può sedersi sullapanchina di una grande squadra.Per allenare un top club, la tattica,la conoscenza e la preparazionespesso non bastano. Conta molto

la gestione di uno spogliatoio zeppo di big e prime-donne. Mistero risolto quest’anno: il Napoli, dopo uninizio altalenante, ora veleggia tranquillamente nelleprimissime posizioni di classifica. Il lavoro costante,gli allenamenti selettivi, il suo continuo scrivere sul

taccuino, l’hanno fatto diventaregrande.

È una delle persone più eclettichedel campionato, uno degli allena-tori più colti della serie A, nono-stante l’ingannevole parlata tosca-na con la “C” strascicata. Quandoparla di calcio lo fa a tutto tondo:stadi da rifare, investimenti nelsettore giovanile e diritti televisivi.Sempre vestito di tutto punto conla sua tuta invece che con la con-sueta giacca d’ordinanza.

Per lui l’immagine non conta, è la

sostanza che fa la differenza. Èdifficile sentirlo dire una banalità.È un continuo spunto di riflessionee, nonostante il successo degli ulti-mi mesi, Sarri è rimasto schivo edintroverso, ma la grinta, l’energia ela passione sono ancora quelle diun tempo. E anche se in serie A èuno degli allenatori che guadagna-no meno, non è certo un problema.

“Siamo una categoria di privilegia-ti, è giusto che chi sia forte come

De Rossi prenda tanti soldi. Non cidobbiamo lamentare di nulla. Anzidovremmo ringraziare il cielo ognigiorno per il lavoro che facciamo.”

È l’antieroe del calcio italiano. Enoi non vogliamo certo che cambi.In bocca al lupo, Mister.

Mister Sarri è uno stakanovista

del pallone: minuzia di partico-lari, cura dei dettaglie grande spirito di sacrificio.

Quando parla di calcio lo faa tutto tondo: stadi da rifare,investimenti nel settoregiovanile e diritti televisivi.

MAURIZIO SARRI

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MICHAEL OWEN: IL RAGAZZOCHE DOVEVA SALVARE L’INGHILTERRA

C’è stato un giocatore che a 21 anni aveva vintotutto, e che a 25 aveva già imboccato un’intermi-nabile parabola discendente: Michael Owen, il

talento incompiuto più vincente di sempre.

Michael nasce nel 1979 a Chester, a pochi chilometridal Galles. Il padre Terry, ex calciatore, è rimastolegato alla città dopo aver portato la squadra localein Third Division. Mi piace pensare che otto mesi primadi diventare padre, Terry sia stato allo stadio a vedereil Chester City, e che sia tornato a casa felice per ildebutto di un promettente attaccante gallese, Ian Rush.

Ogni stagione il divario con gli altri ragazzi aumenta:nel 1988 segna 92 gol nel campionato del Galles set-tentrionale, superando il record che apparteneva pro-prio a Ian Rush.

A dodici anni Michael diventa opzionabile per unoschoolboy   contract : può entrare nelle giovanili di una

Alessandro Bezzi

Niente è più affascinante del talento sprecato: la storia di Michael Owen è un po’ la storia di ognuno di noi. Tra promesse non mantenute, primi baci e corse impazzite contro il Tempo che passa

squadra che ne curerà anche lacarriera scolastica.A spuntarla è il Liverpool: Michaelgiocherà nella squadra di Rush, nel-la città di suo padre.Nel 1996 il giovane Owen guida iReds alla conquista della FA YouthCup contro il West Ham di Fran-kie Lampard. Tutto il Paese parla diquesto enfant prodige : Michael non èpiù “il figlio di Terry”, ma il talentopiù cristallino di una new wave chel’Inghilterra aspetta da decenni.

Il 6 maggio 1997 Owen debutta inPremier segnando contro il Wim-

bledon: i tabloid già lo esaltano come “il nuovo Rob-bie Fowler”. E saranno proprio gli infortuni dello SpiceBoy a favorire l’ascesa di Michael. Del resto, Fowler eOwen sono in perfetta antitesi. Guardando Robbie,la working class vede realizzarsi i suoi sogni; è uno diloro, il ragazzo di strada che solidarizza con i lavora-tori dei Docks. Owen è educato, impeccabile, vincente:ma è freddo, quasi altezzoso nella sua regolarità.La stagione successiva Owen è capocannoniere dellaPremier: logico che venga convocato in Nazionale per

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Quando inizia a giocare con gli Under 11, la madreè costretta a firmare dichiarazioni perattestare che quel bambino esile ha almeno 8anni, l’età minima.

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Francia ‘98. Michael parte in panchina, ma è promossotitolare a furor di popolo alla terza partita del girone:l’Inghilterra arriva seconda e agli ottavi si trova da-vanti l’Argentina. Dodici anni dopo l’Azteca, le Malvi-nas e la Mano de Dios.

Saint-Etienne, 30 giugno 1998: Owen rincorre un rilan-cio della difesa inglese, supera Chamot e Ayala e insac-

ca alle spalle di Roa. È la risposta inglese al gol del siglo :il golden boy che emula il Pibe de Oro, in un gioco chesarebbe perfettamente speculare senza l’eliminazio-ne inglese ai rigori. I britannici tornano a casa a manivuote, ma con una certezza: Michael ha le stimmate delPrescelto, e presto riporterà a casa la Coppa, in barbaa tedeschi e argentini. Michael salverà l’Inghilterra.

Definitely, maybe .Dopo quella sera, Michael non si ferma più: l’anno suc-cessivo segna altri 18 gol, mentre l’Academy dei Reds

sforna talenti come Gerrard e Carragher. Il 2000/2001è la stagione della consacrazione definitiva: il Liverpo-ol vince cinque coppe e a dicembre Owen conquista ilPallone d’oro. Le rive della Mersey sembrano un palco-scenico perfino troppo piccolo per Michael.

A Euro 2004 tutti si aspettano grandi cose dall’Inghil-terra, che accanto a Owen schiera il diciottenne Way-ne Rooney. Il ragazzino con la faccia da pugile segnaquattro gol in tre partite, prima che il Portogallo elimi-ni i Three Lions. Gli inglesi tornano a casa delusi, ma

con un’altra epifania: c’è un nuovo golden boy in cuisperare e immedesimarsi: più giovane, emotivo e pas-sionale rispetto all’algido Owen.

In agosto Michael passa al Real Madrid per 17 milionidi sterline. Anche nella Liga Owen segna con regolari-tà, ma la coesistenza con Zidane, Figo, Ronaldo, Raul eBeckham è matematicamente impossibile. Come spessoaccade al Real, le esigenze di merchandising trionfanosu qualsiasi disegno tattico. Mentre si parla di un suoritorno in Inghilterra, a maggio il Liverpool vince laChampions League. L’esplosione di Rooney e Gerrard che trionfa a Istanbul:

un doppio infortunio all’anima che sembra frenareuna corsa fino a quel momento inarrestabile.

Chiusa la parentesi spagnola, Owen passa al Newcast-le per affiancare il leggendario Alan Shearer: Michaelsi ambienta subito segnando 7 gol in 10 partite.Il 27 dicembre 2005 torna ad Anfield, e la Kop loaccoglie come un’amante tradita: sulle profetiche notedi “What a waste” risuona beffardo il coro “Dove eri a Istanbul?” . Pochi giorni dopo Owen si infortunaal metatarso: stop di tre mesi, ma tornerà in tempoper i Mondiali tedeschi.

In Germania, contro la Svezia, il ginocchio sinistro cedee Owen crolla a terra. È in quel momento che la sua

corsa si interrompe definitivamente: lesione al lega-mento crociato e stop dai 9 ai 12 mesi.

Mentre il Newcastle ottiene risarcimenti milionari, perOwen inizia un calvario infinito. Rientra in campo amarzo, ma bisogna aspettare agosto per vederlo se-gnare. La stagione 2007/2008 è contrassegnata da 13gol e una sfilza di infortuni; l’anno successivo le reti diOwen sono poche, i punti del Newcastle pochissimi.I Magpies retrocedono e Owen si mette tristemente invendita: il suo agente invia un dossier ai club poten-zialmente interessati, spiegando i ritorni economici diun suo tesseramento. La mossa, per quanto desolante,

convince il Manchester United a tesserarlo e affidarglila mitica maglia numero 7. In tre anni all’Old TraffordOwen alterna gol e infortuni, rimanendo un compri-mario, incapace di un apporto decisivo.

Nel 2012 Michael ha solo 32 anni, ma è già vecchis-simo. Rimane solo il tempo di un ultimo atto, con lamaglia dello Stoke City: alla sua partita d’addio, il 29maggio 2013, i tifosi di Stoke e Southampton gli tribu-tano un’indimenticabile standing ovation.

“There’s only one Michael Owen” 

Cantano sapendo di aver visto qualcosa di bellissimo,

che è stato infinitamente meno di quello che sarebbepotuto essere. Mentre guardano quelle rughe, vedonoun ragazzo di 18 anni che fulmina l’Argentina.Perché quel gol è come il primo bacio: ha dentrola promessa di tutto quel che può accadere dopo.E tanto basta per renderlo immortale.

MICHAEL OWEN

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La paura di non essere più indispensabile è unfantasma che inizia a sussurrare nell’orecchiodell’ormai 26enne Michael.

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Il cielo sopra Bergamo:

Glenn Peter Stromberg,l’angelo biondo che strego’ una citta’

Ci sono istanti, nella vita di un calciatore, che dasoli sono in grado di spiegare intere biografie.Piccoli gesti, talvolta impercettibili, frammenti

di passato che riaffiorano dalla memoria.Per Glenn Peter Strömberg, quell’attimo si è materia-lizzato in un freddo mercoledì di gennaio del 1990. ABergamo si sta giocando un’Atalanta - Milan di CoppaItalia; i padroni di casa conducono per 1-0, risultatoche li qualificherebbe alle semifinali. E’ il 90’, al centrodell’area c’è un giocatore del Milan a terra; Strömbergappoggia la sfera in fallo laterale. Sulla rimessa che

segue, invece di restituire il favore, Massaro scodellaun cross in mezzo all’area dove Borgonovo viene ste-so. Rigore che Baresi trasforma per l’1-1 che manda ilMilan in semifinale.

In quel naturale atteggiamento di chi sa che il calcioè solo un gioco sta tutta l’essenza spontanea di que-sto vichingo, che proprio tra le nebbie e il calcio ru-spante della provincia bergamasca ha trovato la suadimensione, trasfigurando in eroe epico e imperituro.

Nato nel 1960 a Brämaregården, sobborgo di Göteb-org, da bambino Strömberg coltiva due amori spor-

Paolo Carelli

 Dai ghiacci di Goteborg alle nebbie della Valpadana. La storia di Glenn Peter Stromberg, il vichingo che fece innamorare la Dea

tivi: il calcio e il ping-pong. Poi, a sedici anni, il bi-vio: l’IFK Göteborg lo chiama, lui tentenna ma alla finesceglie il calcio, tra le due la disciplina in cui eccelledi meno.

Per uno così c’è bisogno di un allenatore rigido checoncepisca il calcio come una macchina perfetta-mente organizzata, anche al punto da risultare noio-sa. Quell’uomo è Sven-Göran Eriksson, che nel 1979viene chiamato sulla panchina dell’IFK.

Eriksson si è formato nei campionati minori di Svezia,dove ha sperimentato un 4-4-2 con una difesa a zonaportata all’eccesso, ritmi di lavoro serrati e una veraossessione per la tattica.

Nel 1982, l’IFK Göteborg mette in bacheca campiona-

È un solitario, non ama il gioco di squadra equando ha la palla tra i piedi s’intestardiscenei dribbling: per uno così c’è bisognodi un allenatore rigido

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to, Coppa di Svezia e Coppa Uefa.La colonna di quella squadra èproprio Glenn Peter Strömberg;capace di recuperare palloni e didettare i tempi di schemi offensi-vi costruiti a memoria, lo svedesediventa nodo essenziale degli au-tomatismi di Eriksson che lo portacon sé al Benfica. Ma l’ambienta-mento è complicato e Strömbergtrascorre gran parte della stagionea giocare con le riserve.

Nel 1984, Eriksson approda in Italiaalla Roma. Anche Strömberg atter-

ra nel campionato italiano, ma sei-cento chilometri più a nord, in unatranquilla città adagiata ai piedidelle Alpi. L’angelo di Göteborg fa-tica a integrarsi; i tifosi lo chiama-no “Marisa” per la lunga chiomabionda e un rendimento non par-ticolarmente propenso al sacrifi-cio. Nel 1987 arriva la retrocessio-ne, ma anche un’inattesa finale diCoppa Italia contro il Napoli, frescovincitore dello scudetto.

E con i partenopei in Coppa dei Campioni, a rappre-sentare l’Italia in Coppa delle Coppe ci andrà l’A-talanta. C’è da conquistare il campionato cadetto escendere in campo nelle notti europee e un solo alle-natore in Italia può tenere insieme queste due dimen-sioni con naturalezza: Emiliano Mondonico.

Nell’estate del 1987, la dirigenza atalantina si affidaa lui: Mondonico e Strömberg si piacciono subito,hanno entrambi quell’indole ribelle e un po’ scanzo-nata per cui è facile capirsi senza che una persona-lità prevalga sull’altra. Hanno in comune la passioneper i Rolling Stones, si attirano, si amalgamano im-

mediatamente. Mondonico guardaStrömberg e gli affida la fascia dacapitano.

E l’angelo biondo allontana tutte lesue paure, smette i panni di “Ma-risa” e indossa quelli dell’indoma-bile guerriero destinato a popola-re in eterno la memoria dei tifosiatalantini. Durante un’amichevolepre-campionato, uno spettatore siostina a dileggiarlo con quel nomeda donna. Strömberg scavalca larete di recinzione, prende il buon-tempone per la giacca e gli urla tut-to il suo ritrovato orgoglio. “Io nonsono Marisa. Io sono Glenn Strömb-erg, capitano della Svezia e dell’A-talanta. Non lo dimentichi mai” .

Ora Strömberg è a tutti gli effetti

l’anima dell’Atalanta; la sua imme-desimazione con il club è totale.L’incredibile cavalcata  in Coppadelle Coppe fino alla semifinaleè l’iconografia perfetta di quelsentimento di “atalantinità” da lui

magistralmente incarnato.Al termine della stagione ’91-’92, Strömberg stupiscetutti e annuncia il ritiro dal calcio giocato. È comese volesse fermarsi un attimo prima della consacra-zione, proteggere il ricordo di sé stesso da uno sportche in quegli anni sta mutando pericolosamente pelle.Se ne starà lì, sulle rive del torrente Morla, a scioglier-si in bocca l’amato tabacco svedese e a parlare dellaDea con immutata passione.

Perché da Bergamo non se ne andrà mai veramente,continuerà a viaggiare sopra e dentro la città, comel’angelo disincantato di Wim Wenders. E ancora

oggi, lungo le strade della provin-cia bergamasca, da Dalmine allaVal Brembana, non è raro incon-trare sui muri scritte e disegni cheinneggiano al numero 7, da tempoconsegnato alla mitologia.

Perché lui è Glenn Peter Strömberg,il capitano dell’Atalanta. Ed è beneche nessuno se lo dimentichi. 

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Glenn Peter Strömberg

i tifosi lo chiamano “Marisa”per la lunga chioma bionda e unrendimento non particolarmen-te propenso al sacrificio.

“Io non sono Marisa. Io sonoGlenn Strömberg, capitanodella Svezia e dell’Atalanta.Non lo dimentichi mai”

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Union Berlin,il cuore pulsantedi Berlino Est

L’iconica Alexanderplatz dista 30 minuti di U-Bahnda qua, ma ci troviamo nel centro di gravità socia-le di Berlino Est, a Köpenick, dove soffia un vento

popolare e solidale. È l’affascinante storia della societàpiù anticonformista che ci sia, ultimo baluardo dellatradizione sportiva della defunta DDR: l’Union Berlin.È la parabola di una società diventata cult senza maiaver vinto un trofeo.

Perché l’Union nasce nel cuore est di Berlino, in uncontesto in cui la parola Germania veniva affiancatada un punto cardinale: Est o Ovest. Linea geo-politicadi divisione del mondo. E a Köpenick siamo spostati aEst, anche se a giudicare da ciò che succede in curvanon sembrerebbe. Eppure ci troviamo a pochi metri didistanza da MagdalenStrasse, coi suoi alberi in fila e ilprofilo dominato da un inavvicinabile edificio: la sededella Stasi.

Gli uffici di Erich Mielke e Erich Hoenecker si trovanoqua. Sono, sostanzialmente, gli uomini che controllanoogni dettaglio nella DDR. Uno è il capo assoluto della

 Leonardo Capanni

 Lo stadio ricostruito pezzo su pezzodai tifosi, i cori contro la Stasi e l’inno cantato da Nina Hagen: la via

 fai da te al socialismo

Stasi: fondatore del servizio segreto che guiderà dallanascita fino al 1989; l’altro è il Presidente del Consigliodi Stato: il politico egemone che ha l’ultima parola suogni evento al di qua del Muro. Insomma, non esistebisbiglio che i due non conoscano.

Ma a pochi kilometri da quelle finestre con gli infissiin acciaio, una curva canta incessantemente cori con-tro la nomenklatura, sfidando le autorità e dando vocead un sentimento di rivalsa popolare all’interno di unostadio dal nome strampalato: la Vecchia Foresteria.

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Con un nome così è un luogo davvero singolare. Un ca-tino in stile anni ’10, con le tribune incassate sul terre-no e l’assenza di barriere. Qui dentro si respira un’ariaanarchica ma incredibilmente coesa: un pericolo datenere sotto sorveglianza per la Stasi. I tifosi dell’U-nion abitano qua, nei sobborghi razionali disegnati atavolino attorno alla Foresteria; il grigiore architet-tonico di questo blocco stride col popolo passionale

che affolla quello stadio dal nome romantico. I tifosidell’Union sono un pubblico sui generis: fra loro si mi-schiano operai e punk, eroinomani e famiglie. Tutti asostenere una squadra che non vincerà niente, ma cheandrà sempre in direzione ostinata e contraria.In questo senso, i derby contro la Dinamo Berlin trat-teggiano al meglio la situazione.

L’Union Berlin è rossa e anarchica, sia sugli spalti chein campo. È l’anima di un popolo soffocato dalle spiredi un controllo totalizzante, che rivendica con orgogliola sua natura autonoma.

Il tutto all’interno di un torneo, la Oberliga, disputa-to sotto un regime dilettantistico data l’incompatibilitàdel professionismo con il Comunismo. I derby giocatialla Foresteria non hanno storia: la Dinamo è un tre-no inarrestabile che schiaccia ogni resistenza sotto isuoi clangori. È la versione calcistica del TransEurope

Express di kraftwerkiana memoria. Ha alla base unapreparazione atletica e mentale di alto spessore.

Ma sugli spalti non c’è storia. Sulle gradinate quelli diKopenick riescono a fare di tutto: cori contro la Stasi e in favore dell’altra squadra di Berlino, l’Hertha. Quellidell’Ovest. Scavalcando così muri e controlli oppressivie sviluppando una radicata coscienza comune che nonsi può arginare. Sono un popolo libero, un’oasi colora-ta nel cuore cemento di Berlino.Su quelle gradinate c’è pure una bambina che saltellaogni sabato e che diverrà una star, fuggendo dalla DDRper imporsi nella Londra incendiaria del ‘77.

Union Berlin

La Dinamo è la squadra della Stasi, l’emanazionedell’Io di Mie lke: spartana e razionale; qualcosadi simile più al KGB che a una squadra di calcio.L’Union Berlin è ro ssa e anarchica

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È la regina della new-wave tedesca: una col truccopesante e con un’attitudine punk maturata proprio inquella curva. È Nina Hagen, una che va indifferente-mente a cena con Vivienne Westwood e Sid Vicious,è colei che canterà l’inno che risuona all’ingresso incampo dell’Union: synth e stilettate contro il regime.

Ma per una tifosa d’eccezione ne esistono migliaia che

hanno guadagnato le prime pagine grazie alla lorofede. Si chiamano Eisern, “Uomini di Ferro”, e sono lafrangia cult del tifo dell’Union. Quelli che hanno lette-ralmente ricostruito la Vecchia Foresteria, lo storicostadio che stava cadendo a pezzi; oltrepassando i ritar-di burocratici, hanno preso la situazione in mano conpale, mattoni e travi. Tifosi, ma pure artigiani e volon-tari del cemento: esponenti della classe operaia che quala fa da padrone.

Hanno organizzato cene e raccolte fondi, un’operazio-ne di crowdfunding  che ha portato migliaia di euro subase volontaria e ha permesso di dare nuova forma a

quello stadio unico. Gli Eisern hanno speso weekende ferie nella costruzione di questo sogno operaio. Daqueste parti, per anni, era normale scorgere gli abitan-ti del quartiere impiegare il sabato a mischiare rena,pranzare insieme e posizionare mattoni.Una saga working class  che ha cementato una grandefamiglia attorno ad un vecchio stadio dimenticato dalleautorità. Ma non da loro.

Gli Eisern, con il loro nome à-la Tolkien, si sono pureguadagnati una statua: una stele in ferro con un elmorosso da operaio. Grazie a loro è rimasta un’affasci-nante testimonianza dell’impianto che fu, il tabellone

manuale che segna il punteggio: è congelato sul risul-tato di 8-0, rifilato pochi anni fa agli storici rivali dellaDinamo, decaduta nelle serie regionali. Quel risultato èuna cesura, un tocco retrò alla Goodbye Lenin. Con ladifferenza che oggi l’Union non gioca più in Oberliga,ma in Bundesliga2.

Così il sogno popolare si è avverato e il puzzle ricom-posto. Union Berlin, la via fai-da-te al Socialismo.Con buona pace del compagno Mielke. Perché il tempo,a volte, sa essere galantuomo.

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Eduard Streltsov, il tacco magicoche incantò l’Unione Sovieticae finì in un gulag

Stiljaga. È una parola russa che si può tradurrecome “decadente”. Così la stampa sovietica, al cul-mine della campagna denigratoria nei suoi con-

fronti, finì per additare il giovane Eduard Strel’cov:talento sopraffino prima di Pelé, amante di donne ealcol prima di Best.

Riavvolgiamo il nastro. Nel 1953 in Urss muore Sta-lin. È l’anno zero anche per il calcio. Sembra scacciato

per sempre lo spettro della nazionale olimpica del ‘52,quella rea di aver perso contro l’odiata Jugoslavia titi-na e quindi pur-gata insiemeal suo blocco, ilCSDA (l’odiernoCSKA, ovvero lasquadra dell’e-sercito).

È il tempo del-la generazioned’oro del calcio

Federico Castiglioni

 Dribbling, gol, vodka e donne. La gioventù ribelle e la morale comunista. Dall’Olimpiade del ‘56 alla prigionia, storia di uno dei maggiori talentidel calcio d’oltrecortina.

sovietico, quella del mitico portiere Yashin. Ma non c’èsolo lui: nel 1954 salta agli onori della cronaca un nonancora 17enne dal ciuffo sbarazzino e amante dei

numeri ad effetto, che gioca in una squadra minoredi Mosca, la Torpedo. Si chiama Eduard Strel’cov, ed èappena diventato il più giovane marcatore di sempredel campionato sovietico.

Nei tre anni seguenti Edik (così lo chiamavano) di-venterà il più giovane capocannoniere della Klass A,esordirà in nazionale con una tripletta e ne diventeràil perno, trascinandola alla vittoria dell’oro olimpicoa Melbourne ‘56, e finirà anche in lizza per il palloned’oro del ‘57. Per i russi “Strel’cov” ora è sinonimo dicolpo di tacco. Bello, giovane e popolare, era l’incar-nazione dell’Homus Sovieticus , il cittadino modello.

nel 1954 salta agli onori della cronaca un nonancora 17enne dal ciuffo sbarazzino e amantedei numeri ad effetto

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Ma Edik, esteta e giocoliere in cam-po, divo e sbarazzino fuori, non ène vuol essere un modello. Anzi,vuol esser un ribelle, libero daglischemi rigidi del mondo sovietico.

Olimpiadi ‘56, dicevamo. Il torneocalcistico è orfano della Grande

Ungheria, in fuga dal proprio paeseinvaso. In compenso, brilla la stelladi Edik. L’esordio è Urss - Germa-nia 2-1. Il gol della vittoria è suo.Contro la Bulgaria, negli ultimi 6minuti segna e s’inventa l’assist peril 2-1 che ribaltano una partita or-mai compromessa.

È finale, c’è di nuovo la Jugoslavia.Ma non c’è Strel’cov, per la ferrearegola del ct che voleva colleghi direparto che fossero compagni nei

club. L’attaccante della TorpedoIvanov è andato KO, quindi fuoritutti e dentro l’attacco dello Spar-tak. Edik si guarderà la finale in panchina. E semprein tema di regole ferree, per questo motivo non potràritirare l’oro olimpico, che spetta solo a chi è sceso incampo in finale.

Simonyan, che ha sostituito Edik, gli offre la propriamedaglia, consapevole del fatto che l’Urss, in finale, cel’ha portata lui. Strel’cov rifiuta, dicendo che ne hadi tempo per vincere altre medaglie, al contrario suo.Non sarà così.

Gli ori olimpici sono festeggiati in pompa magna alCremlino, di fronte a Krusciov e a litri di vodka. Ediklì incontra Yekaterina Furtseva, membro di spiccodel Comitato Centrale del Partito,che ha in mente nientemeno di farsposare Strel’cov con la figlia sedi-cenne. Strel’cov non solo di rifiuta,ma ribatte che “non avrebbe mai

sposato quella scimmia”.

Parole avventate che sono l’iniziodi un calvario. Viene ripreso dallastampa per ogni cosa, da un rossoin campo ad una sbronza di trop-po, e la cosa non è usuale. Ma perquanto fa in campo è ancora intoc-

cabile; le sue 12 reti fanno sfiorareil titolo alla Torpedo, e in nazionaleè un leader. Ma anche questa non èuna cosa usuale, in Urss.

Lo chiama il risorto CSKA, lo chia-ma la Dinamo. Lui rifiuta, vuo-

le rimanere nella Torpedo. Ma inUnione Sovietica è pericoloso ri-fiutare una chiamata, specie se

dell’Armata Rossa o del KGB.

25 maggio 1958, due settimane all’inizio dei mondialiin Svezia. In una dacia nei dintorni di Mosca vi èuna festa con un alto tasso di donne e alcol. Edik nonpuò mancare, ma il post-sbronza sarà particolarmen-te drammatico: si risveglia accanto ad una giovaneragazza, Marina Lebedeva, con un’accusa di stuprosul capo. Dopo poche ore è arrestato e spinto a firma-re una confessione, con la promessa che tutto finirà

in una bolla di sapone e lui potrà andare in Svezia.Invece andrà alla Butyrka, il famigerato carcere diMosca, per poi finire condannato a 12 anni di gulag.

Rimarrà internato per 7 anni, finoal cambio di inquilino del Cremlino.Strel’cov viene graziato, e può puretornare nella sua Torpedo, anche secon tanti chili in più e tanti capelliin meno. Ma il piede è sempre fata-to e i suoi colpi di tacco nei 5 anni aseguire portano alla squadra delleautomobili ZIL uno scudetto e unacoppa dell’URSS. Nel 1970, a causa

di un fisico debilitato dalla prigio-nia, si ritira appena 33enne.

Se ne andrà a soli 53 anni, il 20 lu-glio del 1990, per un tumore allagola dovuto agli anni di lavoriforzati in miniera. L’Unione Sovie-tica, di cui era stato eroe e tradito-re, non gli sarebbe sopravvissuta alungo.

Eduard Streltsov

Le grandi del calcio moscovita lovogliono: perché è un fenomenoe perché va rimesso in riga.

Rimarrà internato per 7 anni,fino al cambio di inquilino delCremlino

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La storia del Bnei Sakhnin, laboratoriodi pace nel calcio israeliano

C’è una piccola cittadina di nemmeno venticin-quemila abitanti, poco distante da Acri, in Israe-le, dove si cerca di risolvere uno dei più antichi

ed emblematici conflitti del contesto geopolitico mon-diale. Prendendo a calci un pallone, per di più.Si tratta di Sakhnin, distesa placidamente su tre col-line e circondata da tre montagne. È, in apparenza,uno dei tanti piccoli agglomerati della zona, sommersida fichi, olivi, cespugli di sesamo e origano, circonda-ti dal deserto. Come molte altre città e paesi che co-stellano questa terra volutamente martoriata, sin dai

tempi delle Crociate Sakhnin ha conosciuto l’odio, laviolenza, la morte.

Fu la prima città dove, nel 1976, si svolse la marciaper il Land Day, durante la quale morirono sei arabiisraeliani, uccisi dalle forze d’occupazione. Chi sonogli arabi israeliani? Sono coloro che, per un motivo oper un altro, hanno deciso di restare dopo la sconfittasubita nella guerra (di liberazione, per gli israeliani,nakba, ossia catastrofe, per i palestinesi) del 1948.

In quell’anno la piccola Sakhnin fu araba, israelia-na, di nuovo araba e infine israeliana. Rimase sotto

Jacopo Rossi

“Non c’è religione. Non ci sono arabi, né ebrei, né stranieri. Siamo un’unica famiglia” (Abbas Suan, Capitano del Bnei Sakhnin)

la legge marziale fino al 1966 e, nel 1967, con la risolu-zione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, divennedefinitivamente israeliana. Nel 2000, durante la Se-conda Intifada, Sakhnin pianse tredici morti.Non sarebbe quindi una storia originale, per questiterritori, niente che sarebbe purtroppo degno di rac-contare, se non fosse per il calcio.

C’è una squadra infatti, nel paese, che rappresenta lavoglia di pace e mescolanza dei suoi cittadini e tifosi:l’Ihud Bnei Sakhnin. Il nome (i Figli Uniti di Sakhnin)

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può non dire molto, ma la storia non può che appas-sionare. Non tanto per la bacheca dei trofei, scarnama rispettabile, quanto per la vocazione.

Nato solo nel 1991 dalla fusione dei due club cittadini,Maccabi e Hapoel (Sakhnin, ovviamente) per voleredel giovane imprenditore Mazen Hanayem, il Bnei è,a oggi, l’unica squadra mista di tutta la Ligat ha’Al,la Serie A israeliana. La sua breve storia sembra fin-ta, sembra una paziente ma folgorante cavalcata da

prodigiosi giocatori di Football Manager, di quelli cheportano il Bassano in Champions a giocarsela con ilReal o il Chelsea, per dire. E vincono, a tarda notte. Undecennio dopo la sua nascita, nella stagione 2002-03,batte l’Hapoel Jerusalem e si guadagna l’accesso allaprima serie israeliana. Lei, unica squadra che crededavvero nelle speranze di pace di questa terra. L’annosuccessivo succede tutto in fretta, forse troppo.

Capitano della squadra è Abbas Suan, idolo della città,e non potrebbe essere altrimenti: lui a Sakhnin ci ènato, là ha imparato a tirar calci alla sfera. È lui a gui-dare i suoi attraverso il tabellone della Coppa di Sta-to. Tra una vittoria e l’altra, pochirimpianti e molte gioie, i Figli Unitisi trovano di fronte il Maccabi TelAviv. Una sorta di Juventus di Ga-lilea, una corazzata invincibile dadiciotto scudetti. Che, però, vieneasfaltata senza scuse dalla Cene-rentola biancorossa. 4 a 1 e a casa.In finale, il 18 maggio 2004, c’èl’Hapoel Haifa. Bazzecole. Dopo no-vanta minuti Abbas alza la coppa, mentre arabi e israeliani in città impazziscono e si rotolano in ter-ra davanti alla tomba dello Sceicco

Ibrahim.

Quella vittoria concede loro unabreve comparsata in Europa, finitapresto e tra gli applausi, per manodel Newcastle. Arrivano i soldi, fi-nalmente. Un po’ li mette l’emiro delQatar, un po’ il discusso magnaterusso Arkady Gaydamak, l’ultimoche avrebbe potuto versar soldiin quelle casse. Perché? Perché è ilpresidente dei Leoni della Capitale,la nemesi non solo calcistica del

Bnei: il Beitar Jerusalem. Contro di loro il Bnei, quat-tro anni dopo, rischia di vincere lo scudetto, deciso

solo all’ultima giornata. È una delle sue migliori anna-te, ma non basta: dopo una stagione monstre, a undicimetri da quello che sarebbe stato ben piùdi uno scudetto, le speranze del Bnei e di un’interaminoranza crollano miseramente.

Sorride il Beitar, gioiscono i suoi ultras, già capaci di distinguersi per violenza e attaccamento alla causa sionista. In curva comanda La Familia: i loro cavallidi battaglia sono “Morte agli Arabi”  e “Maometto è gay” .La società, unica in tutta la Ligat, non ha mai tesseratoun musulmano. Quando ci ha provato i risultati sonostati tristemente stupefacenti. Uno, il nigeriano Ndala

Ibrahim, scappò dopo due settimane. Quando provòad acquistare due ceceni, musulmani anch’essi,si trovò gli uffici messi sotto sopra, vandalizzati ecosparsi di scritte contro ciò che “non è puro”, comerecita uno striscione della stessa tifoseria. Quandouno dei due, Zaur Sadaev, segnò contro il MaccabiNetanya, in molti abbandonarono lo stadio.

Oggi, fuori dal campo, altri sono gli avversari da teme-re per la piccola Sakhnin, come la frangia del Knesset(il Parlamento israeliano) meno incline al dialogo, senon ostile a prescindere. Spicca, dalle file del Likud,partito dell’ex premier Sharon,  la battaglia di Miri

Regev. Qualche tempo fa un postsul suo profilo Facebook recitava:“Ritengo inaccettabile che la tifose-ria di una squadra di calcio che ri-ceve supporto dallo Stato di Israelesventoli bandiere palestinesiin curva”.

Qualche giorno prima, durante ilderby ideologico-sportivo, l’en-nesimo, tra Bnei e Beitar, i tifosibiancorossi avevano sventolatodue bandiere della Palestina. Que-sto, beninteso, mentre gli ultras

de La Familia, dalla parte oppostadel Doha Stadium, il Corano. I suoisforzi sono stati vani: durante l’ul-timo incontro-scontro a Sakhnin,di bandiere palestinesi nella curvadel Bneine sono state sequestrateuna cinquantina.

Il Bnei Sakhnin è uno straordina-rio laboratorio di pace: raccontar-ne la storia è anche un modo persostenerlo, augurandosi che la sualuce continui a brillare.

Bnei Sakhnin

In finale, il 18 maggio 2004, c’è l’Hapoel Haifa.Dopo novanta minuti Abbas alza la coppa, mentrearabi e israeliani in città impazziscono

In curva del beitar comandaLa Familia: i loro cavalli dibattaglia sono “Morte agli Arabi”e “Maometto è gay”. La società nonha mai tesserato un musulmano

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Hope Solo, la tigre di Washington

Giovanni Boniforti

“Le persone mi considerano pazzaed alienata: nella maggioranzadelle situazioni è vero”

La campionessa olimpica americana Hope Solo èuno dei personaggi più politicamente scorrettimai visti su un campo da calcio. Figlia di un ho-

meless di origine italiana e di una donna gravementealcolizzata, Hope nasce 34 anni fa accanto alla cen-trale nucleare di Hanford, a Richmond, Washington.

Il suo amore per il soccer si deve al padre Gerry, fi-gura di riferimento nella seconda parte della vita diHope, ma persona scomoda e destabilizzante nellaprima: Hope ha infatti solo 7 anni quando, assieme alfratello Martin, viene rapita dallo stesso padre. Dopo5 giorni di fuga, i due ragazzini vengono recupera-ti e il padre -un reduce del Vietnam- arrestato. Nelfrattempo, la passione per il calcio cresce irrefrena-bilmente: Hope lo utilizza come veicolo di riscattosociale e come valvola di sfogo.

Assieme alle prime convocazioni nelle nazionali gio-vanili arrivano anche nuovi contrasti con la madre:“Costa troppo pagarti le trasferte: dovrai smettere”.Fortuna che il suo quartiere si mobilita, raccogliendo

fondi per permettere ad Hope di continuare a vivereil suo sogno. Intanto, Hope si diletta anche nel “pugila-to”: indimenticabile il gancio destro sferrato alla nuo-va fiamma del fidanzato fedifrago, dopo il più classicodei “Hey you, fucking slut!”. 

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Hope si diletta anche nel “pugilato”:indimenticabile il gancio destro sferratoalla nuova fiamma del fidanzato fedifrago, dopoil più classico dei “Hey you, fucking slut!”.

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Il naso rotto alla rivale le costa una settimana di so-spensione da lezioni ed allenamenti, dando a tuttil’impressione che quella carriera così promettentepotesse naufragare a causa di quel carattere schivo,violento e destabilizzante.

Incidenti liceali a parte, nel 1999 ottiene una borsa distudio per meriti sportivi alla Washington University;

decide di lasciare, vicinissima alla laurea, per un con-tratto professionistico con le Philadelphia Charge. Male opportunità di giocare latitano, e Hope si convincea tentare la strada del professionismo in Europa.

Tra i ghiacci svedesi e il tosto campionato franceseHope trova la sua giusta dimensione, crescendo siacome giocatrice che come persona, tanto che il ritornoin patria sembra scontato. Ma deve aspettare qualcheanno, anche perché la WPS viene rifondata solo nel2007; nel frattempo Hope esor-disce in Nazionale, dove è titolaresin dalla prima convocazione. Alta,

esplosiva e carismatica nel guidarele compagne, Hope è la rivoluzionedel ruolo al femminile. Una sorta diNeuer d’antan.

Tutt’altro che politically correct,desta scalpore quando accoglie il nuovo allenato-re della Nazionale dichiarando ai media come fosse“difficile trovare un coach più incompetente e meno adatto” .Nonostante l’uscita poco conciliante, i due trovano unloro equilibrio in vista dei Mondiali. Manifestazioneche la Solo gioca da titolare, salvo vedersi inspiega-bilmente esclusa dalla sfortunata semifinale in favore

della veterana Briana Scurry.La nuova litigata sfocia pure sul-la stampa e costa cara ad Hope: lasquadra la ostracizza, costringen-dola addirittura a rientrare in pa-tria con un aereo diverso.La frattura si ricompone solo dopoil ritiro di alcune veterane, che per-mette ad Hope d’essere reintegrataper la vincente spedizione olim-pica del 2008. Hope festeggia ilsuccesso posando nuda per ESPNMagazine, per poi pentirsene in un

secondo momento tentando di fer-marne la pubblicazione.

Tra un nuovo titolo di MVP delcampionato e l’ennesimo trionfomondiale a stelle e strisce, Hopesi regala un altro paio di scanda-li: dapprima ottiene una mezza squalifica per doping;poi passa un pomeriggio su Twitter ad insultare pe-santemente i tifosi delle Breakers. Ma l’apoteosi dellavita sregolata di Hope avviene dopo il successo olim-pico a Pechino, che celebra presentandosi ubriacaal “Today Show”, e rilasciando un’epocale intervista

in cui descrive candidamente il li-bertinaggio sessuale del villaggio

olimpico: “Ho visto e fatto veramentedi tutto” .

Tutt’ora detentrice del record d’im-battibilità del campionato ameri-cano, Hope nel 2013 balza agli ono-

ri della cronaca per la partecipazione a “Ballando conle Stelle” , oltreché per un matrimonio lampo con unastella della NFL, siglato dopo un mese di fidanzamento.

Viene anche coinvolta nello scandalo a luci rosse ri-nominato poi “Fappening August”, quando alcune suefoto osé vengono hackerate  e diffuse sul web insieme aquelle di diverse star hollywoodiane.

Tra balzi felini, eccessi notturnisfrenati, trofei e litigi social, Hopetuttora pare non aver trovato unsuo equilibrio: lo scorso anno è stata arrestata, ubriaca, dopo aver 

malmenato la sorella e il nipote di-ciassettenne per motivi ancora nondel tutto chiariti.

Quali che siano le sue vicissitudiniextra-calcistiche, nulla togliea questo straordinario giocatore e

personaggio. E pazienza per quel carattere vulcanicoe un po’ fuori dalle righe.Anzi, la tigre di Washington noi la preferiamo così:pazza e dissennata. “We catch in a few, Hope”.E grazie di tutto. 

Hope Solo

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Tra i ghiacci svedesi e il tosto

campionato francese Hope trovòla sua giusta dimensione.crescendo sia come giocatriceche come persona

Tra balzi felini, eccessi notturnisfrenati, trofei e litigi social,Hope tuttora pare non avertrovato un suo equilibrio

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C’era una volta la Jugoslavia.

Quando la Stella Rossa

sottomise l’Europa

Giuseppe Zotti

 La grande Stella Rossa Belgrado nell’anno più belloe tragico del calcio jugoslavo: quello della Coppa Campionialzata al cielo e dell’inizio della catastrofe.

Quando il 19 settembre 1990 ebbe inizio la 36ªCoppa dei Campioni, la Jugoslavia stava giàscricchiolando.

La decade post-Tito era culminata con gli scontriavvenuti al Maksimir il 13 maggio 1990, poco dopola vittoria elettorale dei nazionalisti dell’UnioneDemocratica Croata: gli ultras della Stella Rossa -illeader dei Delije era il futuro criminale di guerra

Arkan- iniziarono una maxi-rissa con i tifosi dellaDinamo Zagabria, resa celebre dalla foto del calcio diBoban a un celerino che attaccava un tifoso croato.

Nello stesso anno, però, una giovane Jugoslavia feceun grande Mondiale, cedendo nei quarti solo ai rigo-ri contro l’Argentina.A stravincere la Prva Liga nel 1990 fu la Stella Ros-sa, che fornì alla nazionale giocatori come DarkoPančev, Dragan Stojković (ceduto al Marsiglia inestate), Robert Prosinečki e Dejan Savićević, “il Ge-nio”.

La squadra in patria non cono-sceva rivali, ed i suoi giocatori, adiscapito della giovane età, sem-bravano già pronti ad affrontarel’avventura europea.All’esordio in Coppa la Zvezdadelude: con il Grasshoppers finisce1-1 e solo Binić si salva dai fischidei tifosi. Al ritorno, però, non c’è storia: la Crvena,

con Pančev sugli scudi, vince facilmente 4-1.Agli ottavi ci sono i Rangers di McCoist e Hateley.L’andata è accompagnata da ben 70.000 spettatori,con i Delije che sono il dodicesimo uomo in camposin dal prepartita.

La gara è dominata e finisce 3-0: Jugović e Prosi-nečki sono inarrestabili  ed il temuto attacco deiblues è frenato alla perfezione.Il ritorno è una formalità, visto che i Rangers non cicredono più: alla fine è 1-1, ed è da segnalare il gran-de gol dello 0-1 di Pančev.Ai quarti tocca alla Dinamo Dresda, rappresentante

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Stella Rossa

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della già scomparsa DDR.I 100.000 posti del Marakana sono tutti occupati, econ il gran supporto dei Delije il risultato è ancora3-0, con i gol di Prosinečki, Binić e del sublime Sa-vićević.Il ritorno non dura neanche 90 minuti: la Dinamo se-gna subito con Gütschow su rigore; poi però c’è solola Zvezda, trascinata da Savićević (autore dell’1-1) eMihajlović.Pančev al 71° chiude l’incontro: dopo il gol i tifosi dicasa lanciano di tutto sul campo, causando lo 0-3 atavolino.

La Stella è già in semifinale, e l’avversario è il BayernMonaco guidato da Heynckes e Brian Laudrup.L’andata all’Olympiastadion è ben più equilibratarispetto agli altri turni della Zvezda, ma al 23°, com-plice Prosinečki, Wolfharth sigla l’1-0.La Stella Rossa però non demorde: Mihajlović sfioral’1-1 da 30 metri, e allo scadere Prosinečki lancia Bi-niċ, che poi serve Pančev, che pareggia in scivolata.Nella ripresa le squadre sono più prudenti, ma Sa-viċeviċ segna il 2-1 in contropiede; la Zvezda sfiorapoi due volte il 3-1 che avrebbe assicurato la finale.Per il ritorno il Marakana è sold out, e al 25° unapunizione di Mihajloviċ da quasi

30 metri sigla l’1-0 che accende glianimi Delije.La Stella Rossa ha fretta di arri-vare a Bari: Pančev va vicinissimoal 2-0, poi sfiorato da Savićević eBiniċ.

Nella ripresa il Bayern tenta l’ul-timo assalto: Wolfharth sbagliaa porta vuota, poi una papera diStojanoviċ dà ad Augenthaler l’1-1al 65°. Pochi minuti dopo, un in-nocuo traversone di Effenbergviene gestito malissimo dalla dife-sa e Bender può segnare il gol che

significa supplementari.

La Zvezda si butta in avanti condisperazione: una girata di Biniċva fuori di poco, ma al 90° un’an-ticipo di Augenthaler disegna unaparabola beffarda per Aumann.L’urlo di gioia del Marakana èquasi disumano:la Stella Rossa è in finale, e affron-terà l’Olympique Marsiglia (che ai quarti aveva eli-minato il Milan) di Stojkoviċ, gravemente infortuna-tosi in stagione.

Nella finale entambe le squadre puntano sulle difese,che si dimostrano all’altezza: la gara non decolla, e senel primo tempo è più pericolosa la Stella Rossa, nelsecondo lo sono i transalpini.Nell’extra-time non succede niente: ai rigori Prosi-nečki non ha difficoltà a segnare, mentre Amorosnon angola il tiro: Stojanoviċ para.Nessuno sbaglia i penalty, ed il quinto, segnato daPančev, porta il calcio jugoslavo al suo zenit, proprioa poche settimane dalla catastrofe: il 25 maggio laCroazia dichiara l’indipendenza, e la reazione dellaJugoslavia inizia la guerra che chiude l’esperienza

jugoslava.

La nazionale nel 1992 vieneesclusa dagli Europei dei qua-li sarebbe potuta essere sicuraprotagonista -poi vinti a sorpre-sa proprio dal suo rimpiazzo, laDanimarca- e nel 1998 il mondoassisterà allo strepitoso debuttoiridato della Croazia: terzo posto.

Boban, Staniċ, Šuker, Bokšiċ (chesaltò il Mondiale per infortunio),Prosinečki, Jarni. Difficile immagi-nare una squadra capace

di battere una Croazia del generese fosse stata ancora parte dellanazionale jugoslava, che a queiMondiali schierò Jugoviċ, Saviċev-iċ, Mijatoviċ, Stojkoviċ, Mihajloviċe Stankoviċ.Questa è l’ultima epopea -per ora-delle utopiche avventure che simescolano con il calcio.

E forse, è il miglior modo possi-bile per spiegare la strana storiadella Jugoslavia.

La nazionale nel 1992 vieneesclusa dagli Europei, dei qualisarebbe potuta esseresicura protagonista,

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Il sostituto: Vikash Dhorasoo,l’intellettuale ribelle che trionfasul tavolo verde

Simone Viaro

‘’Queste persone che vengono allo stadio e mi fi- schiano, mi detestano, sono il tipo di persone cheamo e che difendo. Immagino facciano parte della

 massa e, nonostante mi renda conto di non esserepiù uno di loro, continuerò a difenderli’’

Vikash Dhorasoo nasce nelle Isole Mauritius,abbacinante arcipelago al largo del continenteafricano e agognata meta degli occidentali per

i loro soggiorni vacanzieri.

Nemmeno il tempo di iniziare a gattonare tra le

spiagge assolate, che è tempo dipartire: armi e bagagli, si va inEuropa, destinazione Le Havre.È l’amaro destino degli ultimidella terra, di chi per svincolarsidalle spire soffocanti di una lividaindigenza si vede costretto anchecontrovoglia a giocarsi tutto sulleopportunità offerte da fantomatici eldoradi oltreo-ceano. Per buona sorte, il destino sembra sorridergli:ad accoglierlo è la città portuale, coacervo di multi-culturalità in territorio francese.

Questa, però, è anche una storia di orgoglio maisopito, di resistenza e di lotta per la conservazionedell’identità personale. Infatti, anche nella rossa LeHavre e nella Francia illuminata, il Nostro inizierà afare i conti con gli scorni che solo un’esistenza basa-ta sul non allinearsi mai può riservare.

Vikash è un outsider e nella suapersona l’esser fuori dagli schemiassurge a cifra stilistica: Vikashveste troppo dandy, flirta eccessi-vamente con l’ideale dell’intellet-tuale maudit, non riesce a tenere afreno la lingua; Vikash non in-

dietreggia di un passo e se proprio deve compierlo,come insegnano i Madness nel loro brano più cele-bre, lo compie oltre. Oltre le convenzioni sociali, oltrele mode e le posizioni.

Questa, però, è anche una storiadi orgoglio mai sopito, di resi-stenza e di lotta per la conser-vazione dell’identità personale.

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Vikash Dhorasoo

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Durante la sua lunga militanza inLigue 1 si esprime a favore dellacausa omosessuale nel mondodello sport e avalla politiche diuguaglianza sociale e in favoredelle classi meno abbienti.Approda poi nel Lione, compagi-ne nella quale il centrocampista

mauriziano è interprete di spicco,abituando il pubblico della Ger-land al suo calcio intelligente macreativo, veloce ma ragionato.Grazie alle annate nelle dominan-ti truppe di Le Guen, la figura diDhorasoo provoca languori dif-ficilmente estinguibili al Milanancelottiano che ne richiede i servigi.Il Club di via Turati, incarnazione del calcio padro-nale, non sembra però il luogo adatto per un uomocon i piedi così ancorati al terreno e il cui egualitari-smo è la pietra angolare su cui fonda il suo essere.

Le istantanee scelte per rievocare le sensazioni dellospogliatoio rossonero, alla vista del nuovo arrivatosembrano tratte da una sorta di remake nostranodell’esilarante Hollywood Party: il protagonista, Vika-sh nei panni dello splendido Peter Sellers, si scontracon l’universo di convenzioni degli uomini di Ance-lotti, con stuoli di yes-man e spin doctor berlusco-niani, con avveniristici e quanto mai deficitari labo-ratori per il miglioramento delle prestazioni e con leimmancabili e impettite cene da Giannino.

Il microcosmo rossonero lo rigetta come agisce il

sistema immunitario nei confronti di un ospite nongradito (emblematico il monito di Costacurta che,tra il serio e il faceto, redarguirà Vikash dalla letturadel quotidiano comunista Libèration) e il giocatore,risentendo anche di una concorrenza difficilmentesormontabile, galleggerà per una stagione ai margini

della rosa, collezionando una manciata di sparute edeludenti apparizioni.

Rispedito in patria, tra le file dei capitolini del PSG,strappa il lasciapassare per la prima ed unica ker-messe mondiale della sua carriera. Proprio in Ger-mania, Vikash scrive, ancora una volta lontano daiverdi prati rettangolari, la pagina più romanzescadella sua esistenza.Gli allenamenti sono spossanti, la

tensione alle stelle, l’aspettativa al-tissima. Il Nostro, accettato il ruolodi comprimario nella spedizionetransalpina, si sofferma a riflette-re sulla carriera ormai agli sgoc-cioli, sulla vita e sugli affetti.Fatto tesoro di queste amare ri-flessioni e armato di una Super8,

compie il suo personalissimo estruggente testamento. È un do-cumento che sintetizza l’essere diVikash, l’espressione pura di quel-lo che è il Dhorasoo uomo e calcia-tore.

Ne esce un caleidoscopio di sen-timenti, un bignami di celluloide del senso d’ina-deguatezza: percepiamo l’anelito verso la sua gentenonostante l’incomprensione di questa, la soffertacondizione di subordinato, il ritenersi vittima dellasfortuna più che delle scelte, la difficoltà nei rapporti

umani e l’alienazione che lo attanaglia.

Con ‘’The Substitute’’, sbatte in faccia al mondo comeil calcio può influenzare l’esistenza e ne mette in lucegran parte delle sue contraddizioni, in un ulterioreatto di chiusura, di arroccamento sul proprio inte-gralismo.Rientrato dalla Germania, termina di fatto il suo rap-

porto col calcio giocato: è ora e tempo di raccoglierei cocci e tirare le somme di una carriera vissutasul crinale del fallimento, ma con la sensazione chemancasse davvero poco per affermarsi definitiva-mente.

In controtendenza con la maggior parte dei colle-ghi, abbandona il calcio e si dedica anima e corpo alpoker. L’epilogo perfetto lo vedrebbe devolvere l’inte-ro montepremi di un grosso torneo ai più bisognosi,dando in un sol colpo lustro imperituro al propriopersonaggio e uno smacco irrimediabile all’iniquomondo contemporaneo.

Questa è però anche la storia di promesse non man-tenute a fondo e speranze disilluse.Questa è la storia di Vikash Dhorasoo, talento maisbocciato davvero, bandiera mal digerita della classeoperaia, outcast pallonaro. Ma anche monumentodella controcultura francese, eterno straniero inpatria e uomo “contro” per eccellenza.Almeno finché non provvederà a scrivere una nuo-va, sorprendente pagina.

Con ‘’The Substitute’ ’, sbatte in faccia al mondocome il calcio può influenzare l’esistenza e nemette in luce gran parte delle sue contraddizioni

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Generazione Joypad

Il morboso amore per Babangida

e Winning Eleven 4

Matteo Aiello

All’alba del terzo millennio, potevamo fare a meno del modem a 56k,del cellulare, di MTV, della patente e delle prime vacanze in Riviera. Potevamo fare a meno di tutto. Ma non di Winning Eleven 4.

“Pronto”.“Matte, sono io”.

“Ciao Ale, com’è?”.“Tutto bene. Senti, ho bisogno di farti vedere una cosa.

Ce la fai a passare?”.“Ok, vengo per un’oretta che poi devo studiare”.

“Datti una mossa. Lorenzo mi ha prestato un giochino.Non puoi capire”.

“Così allucinante?”.

“Non puoi capire...”.“Mi vesto e arrivo”.“Fai veloce!”.

Anche se negli ultimi anni ci siamo persi divista, considero Ale, ovvero Alessio, il mio piùgrande amico. Pur avendo due caratteri oppo-

sti ma simili, andavamo così d’accordo perché ave-vamo gli stessi gusti. Dalla venerazione per SylvesterStallone ai pomeriggi a giocare a Wolfenstein 3D.Non sapevo di cosa stesse parlando, ma dal tono eu-forico con cui mi aveva detto di correre da lui dove-va trattarsi di una roba grossa.

Appena entrai in casa, sua madre mi disse che si erachiuso in camera. Bussai alla porta e lo trovai sedutocon il joypad della Play in mano, davanti ad un vide-ogioco calcistico a volume sostenuto. Era talmente

preso che a malapena si era accorto di me.Guardai il monitor e mi cadde l’occhio sul risultato:2-0 per il Camerun. Lui era la Nigeria.

“Ma che partita è?” gli chiesi.“Coppa d’Africa”.

“Sarebbe questo il giochino bomba?”.“Sì”.

“Ma è scritto tutto in giapponese?”.“Sì”.

Anche il telecronista parlava giapponese e mi venneda sorridere quando mi accorsi di come pronun-

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Tijani Babangida

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ciava i calciatori africani. Continuavo a non capire.Avrei voluto chiedergli qualcos’altro, ma temevo checontinuasse a rispondermi a monosillabi. O che nonmi rispondesse proprio.

Un passaggio filtrante di Okocha mise davanti allaporta il numero 13. Finta, Song’o per terra, appoggiodi sinistro a porta vuota e Nigeria che accorcia lo

svantaggio.

“Eccolo lì il Fenomeno!” gridò Alessio alzando lebraccia al cielo, “dai che la pareggiamo!” .

Il gol del 2-1 lo portò in trance agonistica ed iniziòad inveire contro chiunque. Compreso il telecronista.Dopo aver sofferto gli attacchi dei camerunensi, dauna ripartenza, il pallone arrivò sulla fascia sinistraancora al numero 13 che partì in progressione, spin-to dall’incitamento di chi, sulla sedia, stava premendoR1. Staccò i difensori avversari e appena entrato inarea di rigore, lasciò partire un diagonale che bucò

per la seconda volta Songo’o. Camerun 2, Nigeria 2.“Il Fenomeno! Ancora lui!”.

Non so se è mai capitato anche voi, ma certe volte midiverto più a vedere qualcuno che gioca ad un vide-ogioco piuttosto che a giocarci.

“Ma chi è quell’imprendibile?” gli chiesi.“Babangida” rispose, “il calciatore più forte del mondo!” .

Per alcuni di voi, la scenetta che ho appena descrittopotrà sembrarvi assurda ma, oltre a Zidane e Ronal-

do, il terzo gradino del podio di miglior calciatore delmondo di fine anni ‘90 spettava a Tijani Babangida e non per reali meriti, dato che la sua carriera haavuto una sola stagione di rilievo con l’Ajax.Eppure, TJ è il simbolo di un’epoca e della genera-

zione dei trentenni di oggi che passavano giornateintere a sfidare gli amici (rischiando molto spesso

di rovinare l’amicizia con il proprio avversario echi ha tirato o subìto un rigore centrale sa di cosasto parlando) abbandonando del tutto la propria vitasociale.

Winning Eleven 4 ha avuto lo stesso impatto di AreYou Experienced della Jimi Hendrix Experience per ichitarristi. Ha spazzato via la concorrenza ed è sta-to il primo videogioco di calcio “difficile” dove sonostate introdotte una serie di modernizzazioni chesono servite come apripista per i capitoli successi-vi. A partire dal poter cambiare la tattica durante lapartita e che un calciatore destro aveva più difficoltà

a calciare con l’altro piede e viceversa.

Ha curato nel dettaglio di una console a 32 bit i par-ticolari estetici dei giocatori: le treccine di Davids,la chierica di Zidane, le scarpe bianche di Beckhame Roberto Carlos che calciava le punizioni prenden-do la rincorsa lunghissima. Ma quella che reputol’innovazione più rivoluzionaria è stata la MasterLeague, con l’obbligo di vincere per sostituire glisconosciuti di default con i calciatori reali.

Per quanto oggi, la Konami sia in ritardo, ma in ri-presa, rispetto alla EA, Winning Eleven 4 è e resta ilmiglior gioco di calcio di sempre, grazie al romanti-cismo di quelle teste cubiche e alla telecronaca grot-

tesca e sguaiata di Jon Kabira.Queste sono le formazioni che utilizzavamo io, Ale edaltri due amici. Tutti rigorosamente con il 4-2-1-3.

Matteo, Inghilterra:Seaman; Neville, Campbell, Southgate, Le Saux; Butt, Scho- 

les; Beckham; McManaman, Shearer, Owen.

Alessio, Nigeria:Rufai; Finidi, Okechkwu, West, Babayaro; Adepoju, Oliseh;

Okocha; Amokachi, Kanu, Babangida.

Lorenzo, Argentina:Roa; Sensini, Ayala, Pochettino, Zanetti; Almeyda, Veron;

Ortega; Crespo, Batistuta, Claudio Lopez.

Francesco, Brasile:Rogerio Ceni; Cafù, Odvan, Cesar, Zè Roberto; Emerson, Fla- vio Conceiçao; Rivaldo; Roberto Carlos, Romario, Ronaldo.

Perché se prendevi il Brasile e non mettevi RobertoCarlos in attacco non eri nessuno.

P.s. Nigeria-Camerun finì 3-2. Indovinate chi fece ilterzo gol?

Non so se è mai capitato anche voi, ma certe voltemi diverto più a vedere qualcuno che gioca ad unvideogioco piuttosto che a giocarci.

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Grappa, sigarette e valanghe di gol:Dario Hubner, il Bisonte di Muggia

Alessandro Bezzi

Il bisonte ha una struttura fisica particolare […] presenta una gobbapiuttosto pronunciata. La testa è grossa e tondeggiante ed è avvolta dauna fitta peluria scura. (“Bisonte americano”, Wikipedia)

Gli anni Novanta sono stati l’ElDorado del calcio italiano:ricordarli scatena un’incre-

dibile tempesta emotiva in tutta lamia generazione. Ed è inevitabileche, in mezzo a Ronaldo, Batistutae Shevchenko, si finisca per rievo-care Dario Hubner. Se già allora sipercepiva la sua unicità, è sempli-cemente improponibile accostarloai patinati top player di oggi, sem-pre più distanti dal pubblico cheva ad applaudirli.

 “Il giorno dell’esame di terza media dissi ai professori:mi diate o no il diploma, domani andrò a lavorare. Me lo

diedero e il mattino dopo alle 7 ero al forno, assunto comegarzone”.

La storia di Dario Hubner inizia così: le scuole finitea fatica, la voglia di giocare a pallone e la certezza didover faticare per vivere. Ma Hubner, nato a Triestenel 1967, non è uno che si fa problemi quando c’èda rimboccarsi le maniche: neanche a fine turno,

quando raggiunge i compagni perallenarsi con la Muggesana. Darioè tifosissimo dell’Inter e in allena-mento prova a emulare le gesta delsuo idolo Altobelli. A diciotto anniDario inizia a lavorare in un’a-zienda di serramenti. Di giornocostruisce porte, di sera le sfon-da: è goffo, Hubner, ma dannata-mente efficace e svelto, con i piedie con la lingua. Quando gli fannonotare la scarsa eleganza nei mo-vimenti, risponde:

“Certo che sono grezzo, vorrei vedere voi dopo dieci ore di lavoro.” 

I trevigiani della Pievigina decidono di puntare suquel ruvido ventenne e lo fanno debuttare nel cam-pionato interregionale. Hubner non è più giovanis-simo, è sgraziato e fuma troppe sigarette: anchedurante l’intervallo, mentre il mister sbotta e i com-pagni riprendono fiato. Non sarà il prototipo dell’at-leta perfetto, ma ha una dote particolare: ogni anno

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Dario Hubner

diventa più forte, adattandosi aqualsiasi categoria. Dieci gol conla Pievigina, prima di diventareprofessionista con il Pergocremain C2. Nel suo unico anno con ilombardi segna sei gol: non tanti,ma abbastanza per conquistare ilpubblico.

“Spacca il palo, la traversa Hubner gol, Hubner gol.

Forza vecchio mulo, forza vecchio mulo,

 facci un gol, facci un gol” 

A 21 anni, Hubner è già un “vec-chio mulo”: domina l’area come un

veterano, e suda come un asino. Nei venti anni suc-cessivi lo spartito non cambierà mai.

Dopo l’anno al Pergocrema Hubner passa al Fano,

dove esplode definitivamente. Viene soprannomina-to Tatanka, il nome che i nativi americani danno albisonte: per quell’andatura agile ma al tempo stessopesante e ingobbita; per quel pizzetto nero come lanotte; per la solennità con cui riempie l’area di rigo-re, quasi fosse una prateria dove pascolare, libero difare quel che vuole.

Venticinque gol in tre anni e il titolo di capocanno-niere in Serie C1: dal campionato cadetto lo chiama ilCesena, e Hubner dimostra ancora una volta di nonsoffrire i salti di categoria. Il Bisonte non rinuncia aniente: né alle Marlboro rosse, né al grappino dopo

i pasti, ma si allena con l‘entusiasmo di un bambi-no, e tanto basta. È fedele alla suafilosofia, Hubner: testa bassa elavorare. Verrà pure la gobba,ma vengono anche i gol. Con ibianconeri Tatanka va in doppiacifra per cinque anni consecutivi,

laureandosi capocannoniere dellaSerie B nel campionato 1995/96.L’Inter propone ai romagnoli unoscambio con Del Vecchio, che peròrifiuta di scendere nel campio-nato cadetto: Del Vecchio finiscealla Roma in cambio di Branca. IlBisonte resta un altro anno in Bcon il Cesena, finché non arriva lachiamata dal Brescia: a trent’anniHubner approda finalmente in

Serie A. Il suo debutto è in programma il 31 agosto1997 a San Siro, proprio contro i suoi amati neraz-zurri. Quella sera, la Scala del calcio è gremita perun altro esordio: quello di Ronaldo, appena acquista-

to dal Barcellona.Tutti aspettano il Fenomeno, ma è il Bisonte a se-gnare e a gelare un intero stadio. Hubner riceve illancio in verticale di un giovanissimo centrocampi-sta, Andrea Pirlo, stoppa con la coscia destra e giradi sinistro in porta. Pagliuca non può far nulla e lerondinelle si portano in vantaggio.

“Portai in vantaggio il Brescia e c’erano 70mila persone in silenzio.” 

Ci pensa un altro debuttante, Alvaro Recoba, a ribal-tare il risultato con due gol; la giornata successiva

Hubner segna una tripletta allaSampdoria, ma neanche questobasta a ottenere i tre punti. Duepartite che diventano l’allegoria diun’intera stagione: i gol del Bisontenon sono sufficienti a salvare unBrescia zeppo di talenti ancoratroppo acerbi.Servono due anni e 42 gol di Hub-ner per tornare in Serie A: mastavolta Corioni ha imparato lalezione, e decide di puntare tuttosull’esperienza di due grandi vec-

chi. Carlo Mazzone in panchina eRoberto Baggio in campo.

“Il Brescia di Serie B era una squadra di ignoranti 

che remavano tutti dalla stessa parte.L’anno dopo arrivò Baggio, ma 

la grinta l’avevamo già.Arrivammo settimi.” 

Grazie alle magie di Baggio e aidiciassette gol di Hubner, la sta-gione 2000/01 diventa la migliore

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Il Bisonte non rinuncia a niente:né alle Marlboro rosse,né al grappino dopo i pasti,ma si allena con l‘entusiasmodi un bambino, e tanto basta

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Dario Hubner

nella storia del Brescia. A chi gli chiede cosa si provaa giocare accanto a Baggio, Hubner risponde così:

“A me non cambia niente.Io ho sempre segnato anche 

senza di lui”.

Corioni arriva perfino a dire: «Senza sigarette e grap- 

pa Dario Hubner sarebbe il più forte di tutti» . Vero, ma ilBisonte continua a fumare 40 Marlboro al giorno e abersi i suoi grappini. Il Brescia, forse immaginandolo

già al tramonto, decide di metterlo in vendita e pun-tare su Luca Toni. Arrivano offerte anche dalla Pre-mier League ma la volontà di Hubner è decisiva peril suo trasferimento a Piacenza. Ma perché, a 34 anni

e all’ultimo contratto importante della sua carriera, ilBisonte sceglie proprio Piacenza?

“Io abito vicino a Crema: da casa mia a Brescia ci sono 40chilometri, da Piacenza invece soltanto 30. Così, finito l’alle- 

namento, faccio prima a tornare”.

Le frontiere a volte si possono scegliere: per Hubnerla qualità della vita vale più di tutto. Meglio finire lacarriera a due passi da casa e dal bar che intanto haaperto con la moglie. Toro Seduto, chiamato ancheTatanka, si unì al Circo Barnum di Buffalo Bill: per ilTatanka di Trieste non ci sarà nessun circo, nessun

Far West dove recitare il proprio Viale del tramonto . Albisonte di Trieste non servono pianure più lontane diquella padana, e a 34 anni si riparte dal Piacenza.

Hubner non mostra certo problemi ad ambientarsi,ma il Piacenza stenta comunque: l’ultima giornatagli emiliani sono obbligati a vincere contro il Veronaper rimanere in Serie A. È il 5 maggio 2002: mentreall’Olimpico si consuma lo psicodramma interista, alGarilli di Piacenza si scrive un’al-tra pagina di storia. La doppiettadi Hubner affonda l’Hellas: il Pia-cenza è salvo e il Bisonte raggiun-ge David Trezeguet in testa alla

classifica cannonieri.

Nonostante i 24 gol in campionato,Trapattoni decide di non portarloin Corea del Sud: così, Hubner siguarda i Mondiali da casa. O la-vorando al bar “Tatanka”: mentreByron Moreno ridicolizza la FIFAin mondovisione, probabilmenteDario è a imprecare con il grappi-no in mano e la sigaretta in bocca.Ad agosto torna a indossare lamaglia del Piacenza: non è bastata

una tournée primaverile a con-vincere il Milan a tesserarlo. Lastoria non si fa con i “se”, ma l’ideadi Hubner assistito da Pirlo, RuiCosta e Seedorf manderebbe inestasi chiunque. Nessun rimpiantoper il Bisonte, che con la magliabiancorossa segna altri 14 gol, in-

sufficienti per salvare il Piacenza.Hubner, diventato il bomber piùprolifico della storia degli emilia-ni in serie A, finisce all’Ancona di Jardel, Ganz e Luiso: un cimiterodegli elefanti, non una prateriaper bisonti. Dopo sei mesi Hubnerpassa al Perugia, dove segna tregol prima di tornare in C1, a Man-tova.

Il vecchio bisonte ha il pizzetto ingrigito ma continuaa segnare: non vuole saperne di diventare barista a

tempo pieno e continua a giocare fino ai 44 anni. C’èun episodio che spiega meglio di mille parole il ca-rattere di Hubner: tesserato per l’Orsa Franca (Eccel-lenza), viene squalificato sei mesi dalla FIGC perchépercepisce un salario da professionista. Potrebbesmettere, Dario, o quantomeno scontare la squalifi-ca: invece, a 42 anni, per continuare a giocare si fatesserare da una squadra del Campionato AmatoriAIC, il Passarera.

A 44 anni anche Hubner, finalmente, appende lescarpette al chiodo. In ogni caso, nessun rimorso: ilcalcio per Dario è un divertimento; quasi un vizio,

che dà più assuefazione della nicotina. Se c’è qual-cuno che rimpiange quei gol, siamo noi: quelli comeDario Hubner, quando se ne vanno, lasciano un vuo-to incolmabile.

Perché i bisonti, nel calcio di oggi, sono una speciein estinzione

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Corioni arriva perfino a dire: «Senza sigarette egrappa Dario Hubner sarebbe il più forte di tutti».