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Relazione Hume

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TEOFILO GIORGIA

Relazione sulla sostanzialità della mente in Hume e Cartesio.

L’oggetto di questa relazione è il confronto tra la posizione di Hume e quella del Cartesio delle “Meditazioni metafisiche” sullo statuto ontologico della mente e dell’individuo.Renè Descartes (universalmente noto col nome latino Cartesius, da cui l’italiano Cartesio) nacque nel 1596 a La Hayne, in Turenna da una famiglia di modesta e recente nobiltà. Come egli stesso riporta nell’ autobiografia fornitaci nella prima parte del “Discorso sul metodo”, compì i suoi studi presso il collegio La Flèche, probabilmente dal 1605 al 1613, in quella che si può considerare “una delle più celebri scuole d’Europa”1 del suo tempo. Cartesio non mancò di criticare duramente l’insegnamento scolastico che vi veniva impartito, anche se tali pesanti giudizi sembravano ispirati da ragioni polemiche (la volontà di Cartesio di presentarsi come il “nuovo Aristotele” sulla scena filosofica del tempo) e non impedirono all’autore di nutrire anche in seguito sentimenti di stima e gratitudine verso i suoi antichi maestri. Inoltre va considerato che sembra ormai accertato che Cartesio non studiò mai la scolastica per via diretta, attraverso i testi dei grandi autori, ma sempre per via indiretta, ossia sui manuali e commenti. Terminati gli studi presso La Flèche, si recò a studiare diritto a Poitiers, dove ottenne la licenza nel 1616; quindi si arruolò nell’esercito di Maurizio di Nissau (principe protestante) in Olanda, dove nel 1618, dopo essersi congedato dall’esercito, decise di riprendere gli studi scientifici, stimolato anche dall’amicizia con il matematico Isacco Beekman. Dopo un viaggio in Danimarca e Germania, si arruolò nell’esercito del duca cattolico di Baviera impegnato nella guerra dei trent’anni; nella notte del 10 novembre 1619 scoprì i mirabilis scientiae fondamenta ed ebbe un sogno al quale lo stesso Cartesio attribuì il significato di rivelazione della sua vocazione filosofica.Trascorse gli anni dal 1620 al 1628 in Francia, recandosi spesso a Parigi e compiendo un viaggio in Italia nel 1623-1624; a questo periodo risale l’amicizia con Marsenne che avrà il ruolo di intermediario nei rapporti con i dotti francesi dopo il suo ritiro in Olanda. Alla fine del 1627 ebbe un importante incontro con il cardinale Bèrulle, particolarmente impegnato nella lotta contro il libertinismo: si tratta di un incontro importante perché alcuni biografi gli attribuiscono un ruolo decisivo nel confermare la vocazione scientifica di Cartesio. Nel 1628 decise di trasferirsi in Olanda per dedicare, in un clima più tollerante, tutti i suoi sforzi al compito di una radicale riforma della filosofia; così vennero alla luce le prime opere rilevanti. Nel 1627-28 compose le “Regulae ad directionem ingenii”, negli anni seguenti si occupò oltre che di scienza anche di metafisica, esponendo in alcune lettere del 1630 quella teoria delle verità necessarie che secondo alcuni è a fondamento sia della sua fisica che della metafisica.

1 R. DESCARTES, Discorso sul metodo a cura di M. GARIN, Laterza editori, Bari 2001 p. 71

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Tra il 1630 e il 1633 compose “Il Mondo” e “L’Uomo”: nel primo Cartesio sosteneva, prudentemente sotto forma di ipotesi fantasiosa, la teoria copernicana, ma la condanna di Galilei lo indusse a non pubblicare il trattato. Pubblicò invece, nel 1637, i tre trattati “La diottrica”, le “Meteore” e la “Geometria” che esponevano teorie innovative nei campi dell’ottica, della fisica e della matematica; ma soprattutto questi tre scritti erano accompagnati dall’opera forse più famosa di Cartesio il “Discorso sul metodo”. In questo scritto, che fungeva da introduzione, era esposta in nuce tutta la sua filosofia. Dopo la pubblicazione del “Discorso”, in francese, Cartesio sentì la necessità di una presentazione più ufficiale della propria dottrina al pubblico dei dotti, nacquero così le “Meditazioni metafisiche”, pubblicate a Parigi nel 1641, contenenti anche le “Obiezioni” di alcuni dei maggiori filosofi e teologi dell’epoca e le “Risposte” dell’autore. Negli anni quaranta vi fu una larga diffusione del cartesianesimo, non senza molte opposizioni da parte degli ambienti accademici e delle autorità religiose; mentre scriveva le “Meditazioni” e le “Risposte” (l’edizione definitiva , tradotta in francese, uscì a Parigi nel 1647) continuò ad occuparsi di scienza e nel 1644 pubblicò “I principi di filosofia” . In quest’opera Cartesio si occupò di filosofia, nella prima parte, e nelle altre tre parti di fisica, biologia e fisiologia (ampliata quest’ultima parte nel trattato del 1649 “Le passioni dell’anima”). Nel 1649 la regina Cristina di Svezia, lo invitò alla sua corte per farsi impartire lezioni di filosofia, ma il clima rigido della Svezia gli fu fatale: morì l’11 febbraio 1650.Il testo a cui si farà riferimento per comprendere quale statuto ontologico Cartesio attribuisce alla mente è rappresentato dalle “Meditazioni metafisiche” nella loro totalità, ossia comprendendo anche le “Obiezioni” e le “Risposte”; sarà anche utile fare un accenno allo sviluppo del pensiero del filosofo, guardando a “I principi della filosofia”.Va detto, quasi come avvertenza preliminare, che le “Meditazioni” sembrano andare verso uno spiritualismo rigoroso, come se il filosofo avesse voluto estremizzare la propria posizione per chiudere ogni possibile spazio al materialismo, infatti nella prefazione al lettore afferma che “il mio sentimento era, che io non conoscevo nulla che sapessi appartenere alla mia essenza, se non che ero una cosa che pensa, o una cosa che ha in sé la facoltà di pensare”2.Dunque inizialmente il pensare si configura come una disposizione o facoltà, se è così è necessario che ci sia una sostanza cui inerisca tale facoltà, perché secondo la metafisica aristotelica, cui Cartesio rimane fedele, ogni atto presuppone una facoltà e ogni facoltà inerisce in una sostanza. Però se si definisce il pensiero come una semplice facoltà, allora l’uomo sarebbe una “cosa” anche nel momento in cui non esercita il pensiero, quindi dovremmo chiederci che “cosa” sarebbe? Finirebbe con essere una sostanza la cui essenza non si identifica interamente con il pensiero, l’implicazione di ciò è che si aprirebbe la strada al materialismo: il passaggio dal dire “una cosa che ha la facoltà di pensare” al dire “una cosa materiale che ha la facoltà di pensare” è ovvio. Questo è il motivo per cui Cartesio ha dovuto modificare la

2 CARTESIO Meditazioni metafisiche. Obiezioni e risposte in Opere filosofiche vol. II, Editori Laterza, Bari 2005, pag.102

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definizione del pensare nel corso delle “Meditazioni”, passando da “res habens in se facultatem cogitandi” a “res cogitans” nella seconda meditazione: “ma che cosa, dunque, sono io? Una cosa che pensa. E che cos’è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente”3. Il latino, in questo caso, è più incisivo dell’italiano perché il participio presente cogitans rende in modo efficace l’attualismo di Cartesio per cui la mente non solo pensa, ma pensa sempre. La sua essenza coincide con il pensare in atto, come lo stesso filosofo dice in un altro passaggio “puto de mentis esse actu cogitare”. Quindi per lo spiritualismo cartesiano la mente è una cosa che sta pensando sempre “io sono, io esisto: questo è certo; ma per quanto tempo?Invero per tanto tempo per quanto penso; perché forse mi potrebbe accadere, se cessassi di pensare, di cessare in pari tempo d’essere o d’esistere”4. Il pensare si definisce come condizione necessaria per l’esistenza, ossia finchè penso esisto, quasi una identificazione tra pensiero ed esistenza; il corollario di una simile concezione è la continuità del pensare, ossia non permanenza nel pensiero, bensì successione. Si è detto che Cartesio ha rettificato, nel corso delle “Meditazioni”, la definizione dell’essenza della mente con l’obiettivo di chiudere ogni possibile spazio al materialismo e teorizzare un attualismo e spiritualismo rigoroso, invece, così facendo ha aperto la strada al materialismo. Un tale spiritualismo attualistico è molto facilmente falsificabile, in quanto basta dimostrare che in un qualche tempo non si sia data la corrispondenza esistenza-pensiero; il primo filosofo ad accorgersene fu Gassendi. A questo punto ci spostiamo nelle “Obiezioni” ove Gassendi porta come esempi contrari alla teorizzazione cartesiana il sonno letargico e la vita intrauterina “e non so bene se, quando dite “che il pensiero è inseparabile da voi”, voi intendiate che, per tutto il tempo della vostra esistenza, non cessate mai di pensare. (…) sarà difficile persuadere quelli che non potranno comprendere come possiate pensare nel mezzo d’un sonno letargico, o come abbiate pensato nel ventre di vostra madre”5.La risposta di Cartesio è volutamente ingenua, semplicemente dice che anche in quegli stati l’uomo pensa ma non ricorda quei pensieri: “per ricordarsi dei pensieri concepiti una volta dallo spirito, mentre è congiunto col corpo, è necessario che ne restino delle vestigia impresse nel cervello, verso cui lo spirito volgendosi, ed applicando loro il suo pensiero, si ricorda; ora che v’ha di meraviglioso, se il cervello d’un fanciullo o d’un letargico non è atto a ricevere tali impressioni?”6.Prima di guardare ad alcune altre obiezioni fondamentali, utili a capire meglio la teoria cartesiana, si deve rimanere ancora un attimo sulle “Meditazioni” per spiegare un ulteriore punto problematico. Nella sesta meditazione Cartesio afferma “di più io trovo in me delle facoltà di pensare affatto particolari e distinte da me, e cioè la facoltà d’immaginare e di sentire, senza le quali posso bensì concepirmi chiaramente e distintamente tutto intero, mentre non posso concepirle senza di me, e cioè senza una sostanza intelligente cui ineriscano. Perché nella nozione che abbiamo di queste

3 CARTESIO Meditazioni cit., pag. 274 CARTESIO Meditazioni cit., pag. 265 CARTESIO Meditazioni cit., pag. 2586 CARTESIO Meditazioni cit., pagg. 343-344

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facoltà, o (per servirmi dei termini della scuola) nel loro concetto formale, esse rinchiudono qualche sorta d’intellezione: donde io concepisco che esse son distinte da me, come le figure, i movimenti, e gli altri modi o accidenti dei corpi sono distinti dai corpi medesimi che li sostengono”7. Il problema che pone questa affermazione è che si potrebbe fraintendere il pensiero di Cartesio: l’intellezione a cui qui fa riferimento, come propria dell’essenza della facoltà di immaginare e sentire è quell’intellezione che si dà sempre quando si pensa, ossia la coscienza. Non si deve attribuire all’ intelligere-coscienza lo statuto ontologico di essenza del pensiero perché l’essenza è per definizione immutabile, mentre la coscienza è occorrenziale, cioè accompagna necessariamente ogni pensiero ma è specifica di ogni atto di pensiero.Tornando alle maggiori obiezioni sollevate contro la teoria di Cartesio esposta nelle “Meditazioni”, è interessante analizzare quelle di Hobbes e ancora di Gassendi.Per cominciare dall’obiezione di Hobbes,si deve preliminarmente dire che i passaggi logici alla base di essa presuppongono: l’opposizione tipicamente aristotelica tra permanenza della sostanza/mutevolezza delle proprietà della sostanza e la novità cartesiana di definire la mente attraverso il pensiero. L’obiezione si articola in tre momenti:

1. Il passaggio dall’affermazione “io penso” a “cioè uno spirito, un’anima, un intelletto, una ragione”. L’errore di Cartesio consiste nel prendere “la cosa intelligente, e l’intellezione che ne è l’atto, per una medesima cosa (…) o dice che è lo stesso la cosa che intende, e l’intelletto che è una potenza o facoltà di una cosa intelligente”8. È come pretendere di dire che “io sono una cosa pensante” equivale a “io sono pensiero”, si tratta di due livelli di realtà differenti, il pensare è un atto, il pensiero è una res.

2. Se anche si volesse ammettere, con Cartesio, che il pensiero sia esso stesso substratum del pensare, si andrebbe contro quel postulato aristotelico, da tutti condiviso, per cui la sostanza è immutabile (nel pensiero non c’è permanenza bensì successione dei singoli pensieri. L’esempio che Cartesio aveva fatto nella seconda meditazione della cera paradossalmente viene in aiuto all’obiezione di Hobbes, dato che Cartesio aveva sostenuto che nonostante il mutare delle proprietà il sostrato, la cera in sé, permane immutabile).

3. Infine ammettendo che il pensare stesso fosse substratum del pensare, ciò vorrebbe dire che il substratum di un pensiero sarebbe un altro pensiero in un regresso ad infinitum.

La risposta di Cartesio è poco convincente e sostanzialmente inadeguata al livello dell’obiezione di Hobbes: per prima cosa giudica inadatto il paragone con la cera , si mostra stupefatto dell’incapacità di comprendere la distanza che separa ciò che è corporeo da ciò che è spirituale e ritiene che solo Hobbes abbia pensato all’obiezione del punto 3 “e non serve a niente dire, come fa qui questo filosofo, che un pensiero non può essere il soggetto di un altro pensiero. Poiché chi ha mai immaginato ciò, oltre che lui?”9. Il grande merito dell’obiezione di Hobbes è che porterà Cartesio a

7 CARTESIO Meditazioni cit., pag. 738 CARTESIO Meditazioni cit., pag. 1639 CARTESIO Meditazioni cit., pag. 166

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ridimensionare il suo netto dualismo e a indirizzare la sua teoria verso un parallelismo mente-corpo.Per quanto riguarda l’obiezione di Gassendi, questa ha come oggetto la definizione della sostanza pensante, infatti a conclusione dell’esame della seconda meditazione il filosofo dice “parlando della natura del corpo, avete detto voi stesso, o Spirito, che noi ne conosciamo parecchi aspetti (…) ma di voi cos’altro avete detto, se non che non siete un’accolta di parti corporee, né un’aria o un vento o una cosa che cammina o che sente, ecc? (…) tutte queste cose non sono se non negazioni, e non vi si domanda che ci diciate quel che non siete, ma che c’insegnate quel che siete” 10. Il presupposto di quest’obiezione è il principio aristotelico per cui le negazioni sono parassitarie, ossia nel momento in cui si dice di un ente ciò che non è, la negazione è utile alla conoscenza dell’ente solo se di esso si conosca già almeno un predicato positivo. Per cui, secondo Gassendi, Cartesio non solo non ha detto nulla di nuovo dicendo che è una cosa che pensa, ma, soprattutto, non è andato abbastanza a fondo nel farci conoscere la natura di questa cosa che pensa. La risposta di Cartesio si articola in due momenti: la risposta immediata che non aggiunge nulla di nuovo a quanto detto la si ritrova nelle risposte alle obiezioni, ma la vera risposta è la teoria dell’identità tra la sostanza e il suo attributo principale esposta ne “I principi”. Cartesio si era reso conto che l’obiezione di Gassendi poteva aprire la strada al materialismo perché richiedeva una preliminare definizione della cosa che pensa, sarebbe come dire che c’è una sostanza e di questa sostanza si può dire che pensa. Il filosofo francese nega proprio questo passaggio (sostanza di cui si può dire che pensa) nel momento in cui afferma che in una res cogitans non c’è altro se non il pensare eliminando ogni possibile sostanzialismo.A questo punto si rende necessario un approfondimento della nozione di sostanza in Cartesio, perché ha un ruolo fondamentale ne “I principi”. Con l’obiettivo di comprendere il terreno su cui ci si muove, sarà fatto anche nella trattazione della teoria di Hume, in entrambi i casi è un concetto dalla portata determinante. Si tratta di un termine di antica tradizione, proprio per questo soggetto a numerose interpretazioni, a tale riguardo il filosofo tedesco Wolff ha sostenuto che Cartesio ha avuto il grande merito di aver condotto dalle tenebre scolastiche alla luce sul concetto di sostanza. Infatti secondo Wolff la nozione scolastica di sostanza è immaginaria e non è altro che una costruzione dell’uomo che si produce eliminando tutte le proprietà di un ente, ovviamente a livello mentale, per giungere ad un substratum nudo a cui non si può attribuire nulla proprio perché risultato di un processo di astrazione in cui tutte le proprietà sono ridotte ad accidenti di un qualcosa esistente per sé.La definizione della sostanza più chiara la ritroviamo ne “I principi della filosofia”, in particolare nel paragrafo 51 della prima parte laddove afferma che “Per sostanza null’altro possiamo intendere che una cosa che esiste così da non aver bisogno di nessun’altra cosa per esistere”11, anche se propriamente parlando solo a Dio spetterebbe, in senso forte, questa definizione. Nel paragrafo seguente il filosofo 10 CARTESIO Meditazioni cit., pag. 26811 CARTESIO I principi della filosofia, Boringhieri, Torino 1967, pag. 97

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fornisce il criterio per distinguere la sostanza dagli accidenti, un criterio che secondo Wolff non era definibile finchè si aveva una nozione della sostanza come quella scolastica: “invece la sostanza corporea e la mente, ossia la sostanza pensante creata, possono intendersi sotto questo concetto comune: sono cose che abbisognano del solo concorso di Dio per esistere. Tuttavia la sostanza non la si può scorgere innanzitutto da ciò solo, che è cosa esistente; poiché ciò solo da sé non ci tocca: ma facilmente arriviamo a conoscerla da qualsiasi suo attributo, per quella nozione comune, che il nulla non ha nessun attributo (…) dacchè infatti percepiamo che è presente qualche attributo, concludiamo che necessariamente è anche presente qualche cosa esistente, ossia sostanza, cui quello possa attribuirsi”12. Questa lunga citazione serve per far capire l’operazione tattica compiuta da Cartesio: la scolastica non faceva altro che, a partire dall’ente, eliminare progressivamente tutti gli attributi per giungere al substratum; il filosofo francese, invece, ritiene che l’individuazione degli attributi dell’ente fondi la sostanza, poiché il nulla non ha proprietà nè attributi, è come se riabilitasse gli attributi.Inoltre continua dicendo che rispetto ad una sostanza noi conosciamo un attributo principale, che ne costituisce l’essenza e le altre proprietà: “Ora da qualsiasi attributo si conosce una sostanza: tuttavia ciascuna sostanza ha una sola proprietà principale, che costituisce la sua natura ed essenza, e alla quale tutte le altre si riferiscono”13. In realtà questo discorso sugli attributi della sostanza porta ad una nuova definizione dello statuto ontologico della mente, con una particolare attenzione alla differenza di esso rispetto ai corpi. Ricordando che l’estensione costituisce la natura della sostanza corporea e il pensiero la natura della sostanza pensante, sembra esserci un’asimmetria tra corpo e mente (la res extensa e res cogitans delle “Meditazioni”), laddove nel paragrafo 53 Cartesio dice che “ogni altro attributo del corpo presuppone l’estensione, ed è soltanto un certo modo della cosa estesa; come anche tutto quanto troviamo nella mente si riduce a diversi modi del pensare”14. L’asimmetria consiste nel fatto che per quanto attiene la mente il filosofo parla di diversi modi del pensare mentre i modi dei corpi presuppongono l’attributo principale della res extensa, ossia l’estensione: “il pensiero e l’estensione possono anche essere assunti come modi della sostanza; in quanto cioè una sola e medesima mente può avere più pensieri diversi; e un solo e medesimo corpo, mantenendo uguale la sua quantità, può estendersi in più modi”15. Il problema è che se è legittimo ritenere che i modi della sostanza corporea presuppongono l’estensione, come si può dire che i pensieri diversi, cioè i singoli pensieri, sono modi del pensiero, cioè presuppongono il pensiero? Il singolo pensiero è già esso stesso pensiero, mentre un qualsiasi attributo dei corpi, ad esempio la figura, presuppone la quantità di materia ma non è questa quantità.La soluzione del problema è nell’utilizzo del termine “modo” con diverso significato in riferimento alla mente e al corpo. Nei corpi i modi sono gli accidenti aristotelici infatti la figura, la posizione sono soggetti al mutamento, senza che ciò provochi un

12 CARTESIO I principi cit., pagg. 97-9813 CARTESIO I principi cit., pag. 9814 CARTESIO I principi cit., pag. 9815 CARTESIO I principi cit., pag. 104

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mutamento nella sostanza e sono necessari perché un corpo può avere figure diverse in tempi diversi, ma in ogni tempo dovrà avere una figura. Nelle menti, invece, i modi sono le specie aristoteliche: quando nel paragrafo 65 elenca i modi del pensare “come l’intellezione, l’immaginazione, il ricordo, la volizione”16 con il termine modo evidentemente fa riferimento semplicemente a specie del pensare. I modi reali del pensare, quindi, non sono altro che i singoli pensieri classificabili in specie, il chè significa che nel caso della mente non c’è una proprietà presupposta alle altre, ma il pensiero è identico ai suoi modi. L’unica via d’uscita potrebbe passare attraverso quella distinzione che abbiamo visto essere presente nella sesta meditazione tra il pensare e il sapere di pensare, ma si è già detto che l’intelligere-coscienza non può assurgere al ruolo di essenza del pensiero.A questo punto vediamo come sviluppa il tema Hume.David Hume nacque ad Edimburgo il 26 aprile del 1711 da una famiglia appartenente alla piccola nobiltà terriera; dal 1721 frequentò il college di Edimburgo, qui coltivò soprattutto gli studi classici, sognando la secura quies di Virgilio. Fu avviato dalla famiglia verso gli studi di legge, per cui, però, avvertì subito una insopportabile avversione, il suo unico interesse era l’apprendimento della filosofia. Insoddisfatto delle dottrine filosofiche del suo tempo, si dedicò alla ricerca di una propria via di indagine che lo impegnò in intensi studi, portati avanti nonostante una profonda crisi spirituale e fisica che lo affaticò lungamente. Per non intaccare le sue scarse fortune economiche e per migliorare la salute tentò di intraprendere una vita più attiva, nel 1734, lavorando a Bristol presso un mercante di zucchero. Ben presto si rese conto di essere totalmente inadatto per quel tipo di vita, per cui si imbarcò per la Francia, soggiornando prima a Reims e poi a La Flèche, dove compose gran parte del “Trattato sulla natura umana” (pubblicato a Londra nel 1739). Ritornato in Scozia, entrò in rapporti con Hutcheson, professore di filosofia morale all’università di Glasgow. Nel 1741-42 pubblicò i “Saggi morali e politici” che lo fecero conoscere ad un pubblico più vasto; negli anni seguenti fu dapprima uomo di compagnia di un nobile malato di mente e poi segretario del generale Saint Clair, allo scopo di migliorare le proprie condizioni economiche: si può considerare come l’unico periodo di interruzione degli studi. Nel 1748 pubblicò la “Ricerca sull’intelletto umano” e nel 1751 la “Ricerca sui principi della morale”, giudicato dallo stesso autore come il migliore di tutti i suoi scritti. Nel 1752 ultimò i “Discorsi politici” che gli valsero l’approvazione di Montesquieu , a questi anni risalgono i “Dialoghi sulla religione naturale” e la “Storia naturale della religione”. Nonostante la sua filosofia fosse oggetto di violenti attacchi da parte dell’ortodossia religiosa, Hume era ormai un intellettuale stimato nella società scozzese tanto che nel 1752 venne nominato conservatore della Advocates’ Library, dove iniziò la stesura della monumentale “Storia d’Inghilterra”, completata nel 1761.Nel 1763 fu invitato dal conte di Hertford a seguirlo in Francia come segretario, le bon David fu accolto con entusiasmo nei salotti parigini, qui conobbe D’Alembert, Buffon, Diderot, Helvétius e Holbach. Gli ultimi anni di vita Hume li trascorse

16 CARTESIO I principi cit., pag. 1057

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serenamente, dedito soprattutto alla revisione dei suoi scritti; nel 1775 improvvisamente le forze gli vennero meno e nel 1776 morì. Nella “Autobiografia” stesa mentre attendeva la morte, così Hume aveva descritto il suo carattere: “ero un uomo di carattere mite, padrone del proprio temperamento, di umore aperto e brioso, capace di amicizia e ben poco capace di inimicizia, estremamente moderato in tutte le sue passioni”.Le due fonti per l’analisi del pensiero di Hume sono il libro I del “Trattato sulla natura umana” e la “Ricerca sull’intelletto umano”; si tratta di due opere scritte a distanza di una decina di anni che ad una prima lettura, poco attenta, potrebbero sembrare identiche nei contenuti, ma in realtà ci sono alcune differenze rilevanti. Per prima cosa va detto che la pubblicazione dei primi due libri del “Trattato” non fu seguita dal successo sperato dall’autore. Hume era perfettamente consapevole che si trattava di un’opera difficile e rivoluzionaria, che quindi non avrebbe avuto un’accoglienza trionfale. La delusione per l’insuccesso della sua opera filosofica giovanile lo condusse addirittura a prenderne le distanze, ovviamente il suo distacco non si potrà giustificare semplicemente come una reazione ad una fredda accoglienza, nonostante si stia parlando di un autore che ha sempre ricercato la gloria terrena. L’abbandono del “Trattato” andrà piuttosto ricercato “nel progressivo passaggio da una concezione della filosofia come impegno sistematico a una tendenza a vedere nel lavoro filosofico una ricerca rivolta a più limitati obiettivi, alla quale dunque si confaceva più la forma del saggio cui lo scozzese ricorrerà nelle opere successive”17. Non si può nemmeno liquidare la questione della differenza tra le due opere in esame considerando, così come suggeriva lo stesso autore, le “Ricerche” solo come una nuova versione del “Trattato” sotto forma di saggio, si tratta di un giudizio troppo riduttivo che non rende nemmeno ragione della differente sorte toccata ai due scritti. A dimostrazione di quanto detto si possono mostrare alcune differenze sostanziali, per esempio si può notare come non ci sia una perfetta corrispondenza degli argomenti trattati, in particolare nelle “Ricerche” Hume aggiunse due sezioni sui miracoli e sulla provvidenza, ma non trattò a fondo delle idee di spazio e tempo così come dell’identità personale. Oppure se consideriamo un concetto fondamentale nella filosofia di Hume come la belief vediamo che nel “Trattato” è considerata non una qualità ma un grado di intensità delle idee, mentre nelle “Ricerche” si configura come una specie di sentimento aggiunto alle idee e paragonabile ai sentimenti di odio o di amore aggiunti alle rappresentazioni. Infine va sottolineato che il “Trattato” si deve considerare come una sorta di opera inedita, praticamente sconosciuta ai contemporanei di Hume, perfino Kant non conobbe la filosofia dello scozzese attraverso quest’opera, peraltro più sistematica, ma solo attraverso le “Ricerche”; l’interesse per lo scritto giovanile è rinato solo a partire dal XIX secolo, con un’attenzione sempre maggiore nel XX secolo. Per l’oggetto di questa relazione, però, il riferimento fondamentale sarà proprio il “Trattato”, semplicemente perché è all’interno di questo scritto che Hume dedica alcune sezioni alla trattazione dell’oggetto del presente scritto.

17 E. LECALDANO E. MISTRETTA Hume. Opere, Editori Laterza, Bari 1971 pag. XXXI8

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Fondamentale per capire a fondo il tema dell’identità personale e dello statuto ontologico della mente per Hume, così come per Cartesio, è lo studio della nozione di sostanza. Il filosofo scozzese affronta la questione dell’idea di sostanza per ben due volte all’interno del “Trattato”. Dapprima parla della sostanza durante l’analisi delle idee dell’uomo, in un secondo momento ne parla quando vuole esaminare in modo critico le “finzioni” della filosofia antica. Nella sezione sesta della prima parte del libro primo “Sull’intelletto” Hume sottopone l’idea di sostanza al vaglio della propria teoria della conoscenza. Schematicamente quest’ultima si può riassumere nei suoi elementi fondamentali, in primo luogo il principio basilare è che “tutte le percezioni della mente umana si possono dividere in due classi”18: impressioni ed idee; intendendo per impressioni “tutte le sensazioni, passioni ed emozioni, quando fanno la loro prima apparizione nella nostra anima”19. Invece le idee vengono definite come “le immagini illanguidite delle impressioni, sia nel pensare che nel ragionare” 20. Inoltre le percezioni si distinguono in semplici e complesse, le prime non sono distinguibili o separabili mentre le seconde permettono una loro separazione in parti, questa distinzione vale tanto per le impressioni quanto per le idee. A questo punto Hume è già in grado di fornire un primo principio generale: “tutte le idee semplici, al loro primo presentarsi, derivano dalle impressioni semplici corrispondenti e le rappresentano esattamente”21. Prima di tornare alla sostanza va detto che il filosofo scozzese fa un’ulteriore distinzione, ossia che le impressioni si dividono in due specie: di sensazione e di riflessione. Le impressioni di sensazione “nascono nell’anima originariamente, da cause ignote”22 mentre le impressioni di riflessione “derivano in gran parte dalle nostre idee”23. Bastano questi principi fondamentali del pensiero humeano per affrontare la questione della sostanza.Il filosofo pone il problema in questi termini: “Mi piacerebbe molto chiedere a quei filosofi che fondano la maggior parte dei loro ragionamenti sulla distinzione di sostanza e accidente (…) se l’idea di sostanza ci derivi dalle impressioni di sensazione o da quelle di riflessione”24. Ovviamente essa non può derivare dai sensi, altrimenti si ridurrebbe a nient’altro che un colore, un odore o un sapore, per cui l’idea di sostanza, “se realmente esiste”25, dovrà derivare dalla seconda specie di impressioni, ossia le impressioni di riflessione. Hume considera impossibile anche questa alternativa, poiché in definitiva le impressioni di riflessione altro non sono che nostre passioni o emozioni e nessuno vorrà, o potrà, dire che una di queste rappresenta una sostanza. L’idea di una sostanza “non è altro che una collezione di idee semplici unite dall’immaginazione, e che hanno un nome particolare a loro assegnato, col quale possiamo richiamare in noi stessi e negli altri questa

18 D. HUME Trattato sulla natura umana, in Id., Opere, a cura di E. LECALDANO e E. MISTRETTA, Editori Laterza, Bari 1971, pag. 13 19 HUME, Trattato cit., pag. 1320 HUME, Trattato cit., pag. 1321 HUME, Trattato cit., pag. 1622 HUME, Trattato cit., pag. 1923 HUME, Trattato cit., pag. 1924 HUME, Trattato cit., pag. 2725 HUME, Trattato cit., pag. 28

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collezione”26. L’errore fondamentale che si compie è di riferire a qualcosa di sconosciuto le qualità particolari formanti una sostanza, qualità che si suppone siano ad essa intrinseche. Ancora più netta è la posizione a riguardo nella sezione dedicata alla critica della filosofia antica, laddove Hume afferma che l’immaginazione forma l’idea di sostanza per superare una difficoltà insita nella natura delle cose, ossia il fatto di essere soggette a mutamenti durante il corso del tempo. L’immaginazione non fa altro che formare “naturalmente la finzione di qualcosa d’ignoto, d’invisibile, ch’essa suppone restare identico sotto tutte le variazioni; e questo inintelligibile qualcosa, lo chiama sostanza o materia prima, originaria”27.Hume dedica due sezioni della quarta parte del “Trattato” all’analisi dell’immaterialità dell’anima e dello statuto ontologico dell’identità personale; va detto che la quarta parte è dedicata alla trattazione dello scetticismo in sé e in relazione agli altri sistemi filosofici, proprio lo scetticismo sarà oggetto dell’ultima parte della relazione perché, una volta compresi i termini del discorso sull’individuo si può meglio comprendere la scelta scettica di Hume così come di Cartesio (se di scetticismo vero si può parlare anche per Cartesio).Il filosofo scozzese giunge ad una soluzione del problema dell’immaterialità dell’anima attraverso una critica articolata e puntuale nei confronti delle principali teorie che, a riguardo, si sono succedute nel tempo. La sezione quinta si apre con una premessa che ci fa ben sperare di poter risolvere in modo positivo la questione, infatti Hume ha nelle sezioni precedenti affrontato la questione degli oggetti esterni e dell’idea di materia e si è ritrovato in un labirinto di contraddizioni, ma nella parte iniziale della sezione ci dice che “il mondo intellettuale, benché avvolto da un numero infinito di oscurità, non è implicato in contraddizioni simili a quelle che abbiamo scoperto nella natura: ciò che di quello conosciamo, è coerente con se stesso, e ciò che è ignoto dobbiamo contentarci di lasciarlo così”28. Ancora una volta il problema da affrontare è definito nei termini di un problema di limiti della conoscenza umana, ossia primariamente si deve capire intorno ad un oggetto di ricerca cosa si può conoscere e cosa non si può arrivare a conoscere con l’esperienza. I primi filosofi che vengono interrogati da Hume sono coloro che “fanno dei ragionamenti molto curiosi sulla sostanza materiale o immateriale, alla quale suppongono inerenti le nostre percezioni”29. Il primo passo da fare, secondo il filosofo, è chieder loro cosa intendano per sostanza e per inerenza, inoltre dato che il principio fondamentale della teoria della conoscenza di Hume è che ogni idea deriva da un’impressione, tali filosofi dovranno spiegare l’impressione che produce la nostra idea di sostanza della nostra mente. Ovviamente si tratta di un quesito che non trova risposta. Si potrebbe sfuggire a queste difficoltà semplicemente dicendo che la sostanza è qualcosa che può esistere da sé, ma la conseguenza di una tale definizione è che in realtà essa si può ascrivere a qualsiasi cosa si possa concepire, per cui non potrà mai servire per distinguere l’anima dalle sue percezioni.

26 HUME, Trattato cit., pag. 2827 HUME, Trattato cit., pag. 23328 HUME, Trattato cit., pag. 24429 HUME, Trattato cit., pag. 244

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Questo basta per poter dire che “né considerando la prima origine delle idee, né con una definizione, siamo in grado di giungere a una soddisfacente nozione della sostanza”30, per cui non si può, anzi non si deve, far altro che abbandonare la questione della materialità o immaterialità dell’anima. Attraverso l’analisi dei limiti della conoscenza umana, siamo arrivati a dire che il problema è irrisolvibile perché incomprensibile, cioè non si può sviluppare perché non abbiamo conoscenza e comprensione dei suoi termini, non abbiamo nessuna idea né della sostanza né dell’inerenza.È chiaro che la profondità della questione richiede che non ci si fermi a questo primo livello di analisi. Il passo successivo consiste nel passare al vaglio critico la posizione di coloro i quali sostengono l’immaterialità dell’anima e la sua unione con il corpo: la prima difficoltà sta nell’affermare l’unione di ciò che è divisibile (il corpo) con ciò che è indivisibile (il pensiero). Se pure volessimo affermare una loro unione allora si avrebbero conseguenze assurde, la più importante delle quali è quella per cui “se il pensiero è unito a tutte le parti, dev’essere anch’esso esteso separabile e divisibile, non meno del corpo: ciò ch’è assurdo e contraddittorio”31. Si giunge quindi ad una conclusione fondamentale, che ci ricorda molto il dualismo cartesiano, per cui il pensiero e l’estensione hanno “qualità totalmente incompatibili, e non possono mai fondersi in uno stesso soggetto”32.La parte successiva è dedicata all’analisi dell’unione locale, perché superata, come irrisolvibile, la questione della sostanza dell’anima ora il problema è quello della sua unione locale con la materia. I risultati a cui Hume giunge attraverso questa analisi sono molto interessanti, in primo luogo fornisce una massima “condannata da molti metafisici e stimata contraria ai principi più certi della ragione umana”33, ossia che un oggetto può esistere e non essere in nessun luogo: è il caso delle nostre percezioni. Per di più tali percezioni, non solo non chiedono un luogo particolare, ma sono incompatibili con esso, il chè conduce il filosofo all’altro risultato fondamentale, che peraltro era stato già accennato prima, cioè: “non è necessario spiegare come quelle percezioni che sono semplici e non esistono in nessun luogo, sono incapaci di un’unione locale con la materia o con i corpi estesi e divisibili, poiché è impossibile fondare una relazione tra cose che non abbiano qualità comuni”34.Fino ad ora Hume ha passato al vaglio critico la posizione dei materialisti, che uniscono il pensiero all’estensione, ora si propone di dimostrare l’infondatezza anche della posizione contraria al materialismo, ossia di coloro che uniscono il pensiero ad una sostanza semplice ed indivisibile. L’analisi dei termini del presente discorso porta alle stesse difficoltà ritrovate nel precedente, cioè se si dice che, per esempio, l’idea di estensione, in quanto altro non è se non la copia di un’impressione, dovrà accordarsi con essa e quindi sarà essa stessa estesa. Il chè ci porta a chiedere a coloro che legano il pensiero ad una sostanza semplice ed indivisibile come si possa

30 HUME, Trattato cit., pag. 24431 HUME, Trattato cit., pag. 246-24732 HUME, Trattato cit., pag. 24733 HUME, Trattato cit., pag. 24734 HUME, Trattato cit., pag. 248

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incorporare un soggetto semplice ed indivisibile con una percezione estesa; di qui l’impossibilità di dare una risposta che non sia assurda e non giustifichi anche la posizione dei materialisti a domande del tipo “la sostanza immateriale si trova alla sinistra o alla destra delle percezioni?”35.Hume, quindi, fin’ora ha sottoposto ad esame critico la posizione dei materialisti, quella dei loro avversari e la nozione di sostanza dell’anima, proprio su quest’ultima questione può tornare ora, dopo aver liquidato le precedenti posizioni filosofiche a riguardo. Nella seguente trattazione vengono confrontate due posizioni : quella di Spinoza e quella dei teologi; vengono considerate queste due concezioni perché l’obiettivo di Hume è di dimostrare come entrambe siano ateismi, non solo la posizione di Spinoza condannata dai teologi, ma anche quella dei teologi stessi che parlano di una sostanza pensante immateriale, semplice ed indivisibile. I presupposti alla critica di queste teorie sono due: la breve esposizione della teoria di Spinoza (per cui nel mondo esiste un’unica sostanza alla quale ineriscono tanto il pensiero quanto l’estensione) e il principio per cui ciò che è fra gli oggetti si estende alle impressioni, ma non è ugualmente vero il contrario (cioè che tutti i rapporti tra le impressioni sono negli oggetti). Il percorso di Hume è a questo punto abbastanza semplice, non fa altro che applicare il precedente principio al caso presente, considerando due sistemi di esseri a cui attribuisce una sostanza come fondamento d’inerenza. Da un lato vi è l’universo degli oggetti corporei: il sole, la luna, le stelle e “appare” Spinoza che considera tali oggetti solo come modificazioni del soggetto a cui ineriscono, che di per sé rimane semplice e indivisibile. Dall’altro lato abbiamo l’universo del pensiero, qui troviamo un altro sole, un’altra luna , ossia le rappresentazioni nella mia mente di tutto quanto è nel primo sistema; qui ad “apparire” sono i teologi che dicono che sono solo modificazioni della sostanza pensante, che in sé rimane, anch’essa, indivisibile, semplice e non composta. È abbastanza evidente che si tratta di due sistemi speculari e soprattutto che le obiezioni che si possono muovere verso l’uno si possono muovere anche verso l’altro, inoltre vengono definiti da Hume, entrambi i sistemi, come inintelligibili. Quindi il filosofo scozzese analizza le principali critiche che sono state mosse a Spinoza per dimostrare che, tutto ciò che è stato detto per screditare il sistema dell’unica sostanza si può, allo stesso modo, rivolgere contro i teologi. Una delle critiche più significative è quella per cui la sostanza unica, essendo substratum di ogni cosa, “dovrebbe in ogni istante modificarsi in forme contrarie e non compatibili”36. Se è dato per presupposto che tutto ciò che è negli oggetti è nelle corrispondenti impressioni, allora la critica si potrà muovere alla sostanza unica di Spinoza ma anche alla sostanza pensante semplice e indivisibile dei teologi. Si cade in simili difficoltà anche se consideriamo il pensiero non come una modificazione dell’anima, bensì come una azione, questo perché il cambiamento è solo nella terminologia e non nella sostanza della teoria.

35 HUME, Trattato cit., pag. 25236 HUME, Trattato cit., pag. 256

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L’ultima questione che viene affrontata nella quinta sezione è quella riguardante la causa delle percezioni, questione definita più intelligibile rispetto a quella della sostanza delle nostre percezioni e più importante della questione della loro unione locale. Hume svolgendo l’argomento arriva ad un risultato stupefacente: pensiero e movimento sono differenti l’uno dall’altro, per esperienza si vede che sono costantemente uniti per cui il movimento può essere, ed effettivamente è, la causa del pensiero e della percezione. Il ragionamento si basa sulla relazione di causa-effetto, cardine dello scetticismo di Hume, lungamente analizzata all’interno del “Trattato”. Basta dire che la relazione di causa-effetto nasce solo dall’esperienza e che tutti gli oggetti che non sono contrari possono essere uniti, per giungere ad affermare che ogni cosa può produrre ogni cosa e questo, in quanto risultato generale, applicabile a tutti gli enti esistenti, ci conduce a porre in relazione causale movimento e pensiero. Si tratta di una conclusione coerente con il sistema filosofico humeano, perché deriva da un precedente esame delle relazioni tra oggetti e tra impressioni, come dire che se si vuole mettere in discussione una simile conclusione, si dovrà andare a ritroso e mettere in discussione anche il principio di causalità, che così come è stato formulato nella prima parte del “Trattato” è assolutamente indiscutibile per il filosofo scozzese.A questo punto Hume può tirare le somme del discorso e dire che “la questione della sostanza dell’anima è assolutamente inintelligibile; che non tutte le nostre percezioni sono suscettibili di un’unione locale né con ciò che ha un’estensione né con ciò che non ne ha, ma alcune sì, altre no; e che, l’unione costante degli oggetti costituendo la stessa essenza della causalità, la materia e il movimento posson esser spesso considerati come causa del pensiero, per lo meno stando alle nozioni che abbiamo di questa relazione”37.La sezione successiva affronta un altro argomento interessante: l’identità personale. La trattazione inizia con il riferimento a quei filosofi che ritengono che l’uomo sia in ogni istante cosciente di se stesso, ossia creano una nozione di io perfettamente identico a se stesso col passare del tempo e semplice, inoltre sostengono che non c’è nessun fatto di cui siamo più certi. Hume subito, come sempre, fa crollare quest’altro cardine della filosofia, sostenendo che queste affermazioni sono contrarie all’esperienza e l’uomo non ha alcuna idea dell’io, almeno nel modo appena detto. Per il solito principio-base della conoscenza humeana ogni idea deve derivare da un’impressione, quindi anche nel caso dell’idea dell’io bisogna chiedersi “Da quale impressione potrebbe derivare tale idea?”38. Il nodo della questione sta nel fatto che l’io non è un’impressione ma è ciò a cui vengono riferite le impressioni; anche perché se ci fosse un’impressione dell’io questa dovrebbe rimanere invariata durante tutto il corso della vita, ma per esperienza si vede che non si può trovare nessuna impressione che sia costante e invariabile. Se pure si accettasse questa idea, dice Hume, bisognerebbe poi spiegare cosa diventano in questo caso le percezioni.

37 HUME, Trattato cit., pag. 26238 HUME, Trattato cit., pag. 263

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Giungiamo quindi alla classica definizione di Hume dell’ uomo, in quanto essere pensante, ossia “noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento”39.E per far comprendere meglio ciò che ha detto, Hume usa un paragone con il teatro, sostenendo che la mente è una specie di teatro dove fanno la loro apparizione le percezioni. Per non cadere in alcun materialismo, subito, però, il filosofo ci dice di non prendere alla lettera il paragone , perché potrebbe indurci a ritenere che la mente sia una sostanza invariabile,come il palco teatrale, in cui si succedono le apparizioni, come le scene sul palco. Hume ci tiene a sottolineare che “noi non abbiamo la più lontana nozione del posto dove queste scene vengono rappresentate, o del materiale di cui è composta”40.L’ultimo problema da affrontare sta nel cercare di capire perché siamo indotti ad attribuire un’identità alle percezioni successive e quindi a creare un io invariabile a cui riferirle, che rimane identico per tutto il corso dell’esistenza. La risoluzione di questo problema passa attraverso l’analisi dell’idea di identità, dapprima in generale , analizzando quell’identità che attribuiamo anche agli altri enti, e poi riferendo tale nozione all’io. Da un esame del concetto di identità risulta che questa idea è un’idea fittizia che nasce a causa di un fraintendimento: l’uomo tende a confondere la nozione di uguaglianza e quella di diversità, di oggetti in successione. Si tratta di una sorta di automatismo dell’immaginazione, di cui difficilmente riusciamo a renderci conto e a liberarci, che attribuisce ad oggetti variabili un’identità invariabile. Spesso, poi, a questa prima operazione mentale se ne aggiungono altre, volte a giustificare la distanza fra la realtà dell’oggetto variabile e la finzione mentale dell’identità, un esempio tipico si ha quando si adatta l’insieme delle parti a qualche fine comune, pur di mantenere il principio identitario. Il discorso fatto fin’ora è valido anche per la trattazione dell’identità personale, e infatti Hume ci dice che “l’identità che noi ascriviamo alla mente umana è un’identità fittizia, dello stesso genere di quella che ascriviamo ai vegetali e agli animali. Essa quindi non può avere un’origine diversa, ma deve procedere da un’operazione simile dell’immaginazione su oggetti simili”41.L’ultimo passaggio della sezione si occupa di comprendere in che modo sorge l’identità che si attribuisce alla mente umana rispetto alle percezioni, alla loro estensione e continuità. Fondamentale in questo caso è la memoria, ad essa Hume ascrive il ruolo di origine dell’identità personale in quanto essa sola “ci fa conoscere la continuità e l’estensione di questa successione di percezioni”; è come se la memoria permettesse di andare oltre la percezione attuale e guardare alle singole percezioni non come elementi isolati ma come un flusso continuo che scopre l’identità personale perché riferisce questo flusso al singolo individuo.L’esame della mente e dell’identità personale termina qui nel “Trattato”, di tutte queste disquisizioni non vi è traccia nelle “Ricerche”, solo nella sezione dodicesima della prima parte si parla di “un certo qualcosa sconosciuto”, che starebbe al di sotto

39 HUME, Trattato cit., pag. 26440 HUME, Trattato cit., pag. 26541 HUME, Trattato cit., pag. 271

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delle percezioni, impossibile da conoscere “nozione tanto imperfetta che nessuno scettico la penserà degna di combattervi contro”42 (si tratta oltretutto di un periodo aggiunto nell’edizione del 1777). Sembra che ci sia un cambiamento nel punto di vista di Hume, ma il riferimento è troppo breve per poter costruire sopra un nuovo sistema.È abbastanza evidente la distanza che separa le concezioni di questi due autori, può essere utile fare una precisazione sullo scetticismo di entrambi, proprio in relazione alla costruzione dello statuto della mente. Il radicalismo del dubbio in Cartesio può far pensare ad un atteggiamento di tipo scettico laddove il filosofo afferma la necessità di dubitare di tutte le cose, ma a preservarci da un tale risvolto del dubbio è l’affermazione con cui si apre il “Discorso sul metodo”che esprime una fiducia senza riserve nella ragione. Come è a tutti noto, il dubbio cartesiano è un dubbio metodico, che serve a ricostruire su fondamenta nuove il sistema delle conoscenze. La prima certezza raggiunta, dopo aver sottoposto tutto al dubbio, è proprio quella del cogito. Questa è la classica interpretazione del dubbio cartesiano, è proprio tale sorta di esercizio scettico che viene citato e in parte criticato da Hume nelle “Ricerche”, nella sezione della prima parte dedicata alla filosofia accademica o scettica. Il filosofo scozzese nell’elencare le varie specie di scetticismo fa riferimento al francese e dice che c’è una sorta di scetticismo antecedente ad ogni studio ed ogni filosofia “che è molto raccomandato da Descartes e da altri, come un preservativo sicuro dagli errori e dai giudizi precipitosi”43. Egli sostiene che Cartesio raccomanda di revocare ogni conoscenza e le nostre stesse facoltà in dubbio e poi assicurarci di queste attraverso una catena di ragionamenti “dedotti da qualche principio originale che non possa ingannarci e farci errare”44. È proprio un tale principio che secondo Hume non esiste o se dovesse esistere non ci permetterebbe di avanzare di un passo nel percorso conoscitivo, perché dovremmo usare quelle stesse facoltà poste precedentemente in dubbio. “perciò se il dubbio cartesiano fosse mai raggiungibile da qualche creatura umana (ed evidentemente non è), sarebbe assolutamente irrimediabile, e nessun ragionamento potrebbe mai condurci a uno stato di sicurezza e di convinzione su qualche soggetto”45. C’è però anche un riconoscimento a Cartesio, laddove Hume vede nel suo scetticismo, che però richiede di essere moderato, un’utile preparazione allo studio della filosofia; come si vede un’interpretazione non molto lontana da quella che ancora oggi è data del dubbio cartesiano.Per quanto attiene invece lo scetticismo di Hume, molto è stato detto, quello che a questo punto risulta essere più interessante è la relazione tra tale scetticismo e lo statuto della mente umana e dell’individuo. Sicuramente lo scetticismo humeano non va considerato come solo distruttivo, ciò che si deve sempre tener presente è che l’uomo non ha altre conoscenze al di là delle proprie percezioni e delle associazioni a esse collegate. Non si deve respingere tutto quello che è oggetto di credenza e

42 D. HUME Ricerche sull’intelletto umano e sui principi della morale, Editori Laterza, Bari pag. 159 43 HUME Ricerche cit., pag. 15344 HUME Ricerche cit., pagg. 153-15445 HUME Ricerche cit., pag. 154

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abitudine, in primo luogo perché queste conoscenze hanno un’utilità pratica e poi perché si impongono in modo prerazionale. Questo significa che una qualche scienza e conoscenza non solo è possibile, ma è necessario che si possa costruire, sempre a partire dagli elementi primari di tutta la conoscenza, ossia le percezioni. È ovvio che, in questa prospettiva, nozioni come la sostanzialità del soggetto o l’oggettività del mondo esterno, rivelano la medesima infondatezza, non è difficile comprendere, quindi, tutta la distanza che separa il cogito cartesiano dal fascio di impressioni humeano. Non sorprende nemmeno l’atteggiamento antimetafisico del filosofo scozzese, che sulla base del suo sistema può a fine “Ricerche” dire: “quando noi scorriamo una biblioteca (…) quale distinzione dovremmo noi fare? Se noi prendiamo in mano un volume, di scienza del divino o di metafisica scolastica, per esempio, ci chiederemo: contiene qualche ragionamento astratto rispetto a quantità o numeri?No. Contiene qualche ragionamento sperimentale intorno a questioni di fatto e di esistenza?No. E, allora gettatelo nel fuoco; perché non contiene che sofismi ed illusioni.”46

46 HUME Ricerche cit., pagg. 168-16916