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DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010 D omenica La di Repubblica i sapori La cucina belga, capolavoro-fusion ANDREA BONANNI e LICIA GRANELLO l’incontro Giorgio Diritti, film ad altezza d’uomo DARIO CRESTO-DINA spettacoli Heavy Rain, rivoluzione nei videogiochi JAIME D’ALESSANDRO e UMBERTO GALIMBERTI cultura Le Petit Nicolas, bambino all’antica MICHELE SERRA l’attualità Patagonia, la guerra dell’acqua è italiana OMERO CIAI e PAOLO HUTTER 31 ottobre 1977 unedì, ore 15 – Tornato solo, per la prima volta, nel- l’appartamento. Come è possibile che io sia in grado di vivere qui tutto solo? E simultaneamente, l’evi- denza che non esista nessun altro luogo alternativo. 31 ottobre Una parte di me veglia nella disperazione; e simultaneamente un’altra si agita per riordinare mentalmente i miei affari più futi- li. Sento tutto ciò come una malattia. 31 ottobre Talvolta, brevissimamente, un momento vuoto – come di insen- sibilità – che non è un momento di oblio. Tutto questo mi spaventa. (segue nelle pagine successive) VALERIO MAGRELLI ROLAND BARTHES Il diario di Roland Barthes Una rivista interamente dedicata a lui e il racconto inedito del suo lutto per la madre A trent’anni dalla morte, l’autore dei “Frammenti di un discorso amoroso” torna in libreria ILLUSTRAZIONE DI TULLIO PERICOLI L a parabola di Roland Barthes è quella di un critico che nello studio delle opere altrui trovò la propria vo- cazione alla scrittura. La sua vicenda è quella di uno stile che, nato per commentare degli oggetti lettera- ri, giunse a proporsi, esso stesso, come tale. A trent’anni dalla sua scomparsa, ci si continua a interrogare sulla progressiva trasformazione che portò il Barthes teorico a diven- tare un singolare tipo di narratore. Certo, già a partire dagli anni Cinquanta, premeva, dietro la severa figura dello “scienziato del- la letteratura”, quella più prensile e mobile dell’interprete, del diagnosta. Eppure, solo adesso è possibile misurare in tutta la sua ampiezza il passaggio avvenuto. (segue nelle pagine successive) L Repubblica Nazionale

Roland Barthes - La Repubblica.it - News in tempo …download.repubblica.it/pdf/domenica/2010/21022010.pdfDOMENICA 21FEBBRAIO 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27 “Torno per la prima

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DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010

DomenicaLa

di Repubblica

i sapori

La cucina belga, capolavoro-fusionANDREA BONANNI e LICIA GRANELLO

l’incontro

Giorgio Diritti, film ad altezza d’uomoDARIO CRESTO-DINA

spettacoli

Heavy Rain, rivoluzione nei videogiochiJAIME D’ALESSANDRO e UMBERTO GALIMBERTI

cultura

Le Petit Nicolas, bambino all’anticaMICHELE SERRA

l’attualità

Patagonia, la guerra dell’acqua è italianaOMERO CIAI e PAOLO HUTTER

31 ottobre 1977

unedì, ore 15 – Tornato solo, per la prima volta, nel-l’appartamento. Come è possibile che io sia in gradodi vivere qui tutto solo? E simultaneamente, l’evi-denza che non esista nessun altro luogo alternativo.

31 ottobre

Una parte di me veglia nella disperazione; e simultaneamenteun’altra si agita per riordinare mentalmente i miei affari più futi-li. Sento tutto ciò come una malattia.

31 ottobre

Talvolta, brevissimamente, un momento vuoto –come di insen-sibilità– che non è un momento di oblio. Tutto questo mi spaventa.

(segue nelle pagine successive)

VALERIO MAGRELLI ROLAND BARTHES

Il diariodi

RolandBarthes

Una rivista interamentededicata a luie il racconto ineditodel suo lutto per la madreA trent’anni dalla morte,l’autore dei “Frammentidi un discorso amoroso”torna in libreria

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La parabola di Roland Barthes è quella di un criticoche nello studio delle opere altrui trovò la propria vo-cazione alla scrittura. La sua vicenda è quella di unostile che, nato per commentare degli oggetti lettera-ri, giunse a proporsi, esso stesso, come tale. A

trent’anni dalla sua scomparsa, ci si continua a interrogare sullaprogressiva trasformazione che portò il Barthes teorico a diven-tare un singolare tipo di narratore. Certo, già a partire dagli anniCinquanta, premeva, dietro la severa figura dello “scienziato del-la letteratura”, quella più prensile e mobile dell’interprete, deldiagnosta. Eppure, solo adesso è possibile misurare in tutta la suaampiezza il passaggio avvenuto.

(segue nelle pagine successive)

L

Repubblica Nazionale

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010

la copertinaCarte private

Trent’anni fa moriva il grande studioso francesema l’autore della “Camera chiara” è tutt’altroche sparito dalla scena editoriale. La rivista “Riga”gli dedica un intero numero. Contemporaneamente,esce “Dove lei non è-Diario di lutto”, scritto dopola scomparsa della madre. Ne anticipiamo alcuni brani

(segue dalla copertina)

Semiologo, teorico del teatro(quello che Ionesco aveva ri-battezzato Bartholoméus),critico, linguista (ma sedi-cente dilettante), Barthes si èsempre sottratto a ogni ten-

tativo di definizione, sgusciando fra lemaglie di generi e discipline per riaffer-mare, pur nell’assoluto rigore dell’anali-si, le sue qualità di “autore” nel senso piùampio del termine. Solo nella piena ma-turità, però, egli finì per abbandonarsi alflusso del racconto nel pieno senso deltermine, e tutto ciò sia sul piano verbalesia su quello pittorico. Infatti, per quan-to circoscritta e laterale, non bisogna di-menticare la sua produzione artistica,con lavori che si situano, secondo GiulioCarlo Argan, nella costellazione di Mas-son, Pollock, Twombly e degli amatigiapponesi. Il risultato è un’arte che te-stimonia della stessa indagine intorno alsegno condotta, su un altro piano, dallostudioso. Ciò non significa, è bene preci-sare, che la produzione del Barthes sag-gista abbia rappresentato solo un mo-mento preparatorio rispetto all’ultimoperiodo della sua attività: il suo acume, lasua originalità, la sua indiscussa mae-stria basterebbero a inficiare tale ipote-si. Piuttosto, colpisce il fatto che la pros-simità, la devozione al testo letterario, sisiano pian piano spinte fino a modifica-re la strumentazione del critico. Lo ha

mostrato molto bene Eric Marty: «Tra ilmomento iniziale in cui Barthes infran-ge il mito letterario, e quello terminale incui lo fa suo, troviamo molte fasi […]. Sol-tanto in ultimo, con Frammenti di un di-scorso amoroso, con La camera chiara econ Incidenti, arriverà a stringere amo-rosamente quello che aveva tanto co-scienziosamente distrutto e ricostruito.Insomma, egli seppe applicare fino infondo la formula mistica che recita:“Brucia ciò che hai adorato e adora ciòche hai bruciato”».

Di questa singolare metamorfosi ciparlano ora due libri usciti in contempo-ranea. Si tratta del numero monograficodella rivista Riga, “Roland Barthes”, a cu-ra di Marco Consolini e Gianfranco Mar-rone (con un magnifico apparato icono-grafico), e di Dove lei non è - Diario di lut-to, tradotto da Einaudi, che Barthescompose dopo la morte dell’amatissimamadre. Per quanto riguarda il nutrito vo-lume di Riga, specificamente dedicato altema dell’immagine, difficile riassu-merne la ricchezza. Si inizia con alcunitesti dello stesso Barthes sull’arte, sull’o-pera lirica, sulla fotografia, sul cinema(Greta Garbo, Antonioni, Pasolini), su sufino a scritti più variegati che affrontanola natura dell’inconscio o la funzione delfrancobollo. Si continua con un florile-gio di ricordi e saggi fra cui spiccano levoci di Calvino, Eco, Arbasino, Damisch,Robbe-Grillet o Susan Sontag, cui fannoseguito interventi più dettagliati, circa irapporti di Barthes con la fenomenolo-gia dell’immagine o con la mistica. Men-

tre sfogliamo l’indice, ci fissa in bianco enero una fotografia di Henriette Barthes,la madre dell’autore, scomparsa il 25 ot-tobre 1977… E forse, a ben vedere, è pro-prio la sua tacita presenza ad animare untesto complesso ed erudito intitolatoCome vivere insieme (tratto da un corsoal Collège de France tenutosi tra il 1976 eil 1977, di imminente uscita presso Ei-naudi).

Lo studio riportato nel numero di Ri-ga spazia dal monachesimo orientale alFalansterio sognato da Fourier, dai mo-nasteri buddisti alle strutture labirinti-che, dall’ascesi ai sequestri di persona,per soffermarsi infine sul cibo, sul suocosto e sulle sue modalità di assunzione.La trattazione si apre con Deleuze, ma ilvero interlocutore sembra essere Fou-cault. Dopo un’ampia panoramica sulconcetto di coabitazione, arriviamo al«problema del Mangiare-Insieme», conuna serie di cinque varianti, al primo po-sto delle quali troviamo quella dedicataal cosiddetto «orrore» del mangiare dasoli, integrata da questo corollario. «No-ta di maledizione», aggiunge Barthes:«La solitudine nella sua essenza». Ebbe-ne, forzando l’interpretazione, possia-mo dire che proprio qui si potrebbe in-nestare la lettura di Diario del lutto. Per-ché un libro simile, nato da schede ordi-nate cronologicamente, racconta ap-punto di come lo scrittore dovette smet-tere di “vivere insieme” alla madreHenriette, con la quale aveva sempreabitato, imparando così a “mangiare dasolo”.

IL LIBRO

Il brano

di Roland Barthes

che qui anticipiamo

è tratto da Dove leinon è - Diariodi lutto26 ottobre 1977-15 settembre 1979in uscita da Einaudi

(a cura di Nathalie

Léger, traduzione

di Valerio Magrelli,

260 pagine, 18 euro)

Frammentidi una solitudine

ROLANDBARTHES

VALERIO MAGRELLI

LA RIVISTA

Riga 30 (a cura

di Marco Consolini

e Gianfranco Marrone,

marcos y marcos)

esce dedicata

a Barthes. Verrà

presentata il 15 marzo

al Teatro Parenti

di Milano nella serata

En amitié fidèlecon Alberto Arbasino

e Umberto Eco

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010

“Torno per la prima voltanella mia casa vuota”

ROLAND BARTHES

(segue dalla copertina)

A31 ottobre 1977

cuità nuova, strana, nel vedere (per strada) la bruttezzao la bellezza della gente.

1° novembre

Ciò che mi colpisce di più: il lutto a placche –come la sclerosi.[Il che significa: nessuna profondità. Placche di superficie –o

piuttosto che ogni placca è totale. Blocchi]

1° novembre

Momenti in cui sono «distratto» (parlo, scherzo, se serve) –ecome secco – ai quali succedono bruscamente emozioni atro-ci, fino alle lacrime.

Indecidibilità del senso: si può dire altrettanto bene che so-no - se non insensibile, se non articolato su un’emotività ester-na, femminile («superficiale»), contraria all’immagine seriadel «vero» dolore – che sono profondamente disperato, lottoper mascherare, non gettare oscurità intorno a me, ma in cer-ti momenti non ne posso più, e mi sento «scoppiare».

2 novembre

In tutte queste note, ciò che stupisce è un soggetto devasta-to in preda alla presenza di spirito.

2 novembre

(Serata con Marco) Adesso so che il mio lutto sarà caotico.

3 novembre

Da un lato lei mi chiede tutto, tutto il lutto, il suo assoluto (maallora non è lei, sono io che la investo del compito di chieder-mi questo). E dall’altro (rivelandosi allora davvero se stessa) miraccomanda la leggerezza, la vita, come se mi dicesse ancora:«Ma vai, su, esci, distraiti…»

4 novembre

L’idea, la sensazione che avevo avuta questamattina, di una raccomandazione di leggerez-za nel lutto, oggi Éric mi dice d’averla appenaletta in Proust (tra il narratore e la nonna).

4 novembre

Questa notte, per la prima volta, l’ho sognata;era stesa, ma non malata, nella sua camicia danotte rosa dei magazzini Uniprix…

4 novembre

Quest’oggi, verso le 17, tutto è più o meno classi-ficato; la solitudine definitiva è presente, opaco,senza ormai nessun altro termine che la mia propriamorte.

Nodo in gola. Il mio sgomento si attiva preparan-do una tazza di té, abbozzando una lettera, siste-mando un oggetto – come se, cosa orribile, godessidell’appartamento sistemato, «tutto per me»; maquesto godimento aderisce alla mia disperazione.

Tutto questo definisce il distacco da qualsiasi lavo-ro.

4 novembre

Verso le 18: l’appartamento è caldo, dolce, illumina-to, pulito. Lo rendo tale con energia, dedizione (ne go-do con amarezza): ormai e per sempre io stesso sono lamia propria madre.

5 novembre

Pomeriggio triste. Breve giro di spese. In salsamenteria(futilità) compro una finanziera. Mentre serve una clien-te, la piccola commessa dice: “Ecco qua!”. Erano le paroleche dicevo quando portavo qualcosa a mamma, mentrela curavo. Una volta, verso la fine, in uno stato di semi-in-coscienza, lei mi fece eco ripetendo: “Ecco!” (“Sonoqui!”, parole che ci siamo detti fra noi tutta la vita).

Queste parole della commessa mi fanno venire le la-crime agli occhi. Piango a lungo (tornato nell’appar-tamento insonorizzato).

Così posso circoscrivere il mio lutto.Non lo si trova direttamente nella solitudine, nel-

l’empirico, ecc.; c’è in tutto ciò una specie di agio,di padronanza che deve fare credere alla gente cheio soffra meno di quanto non avrebbe pensato.Esso è piuttosto là dove torna a lacerarsi la rela-zione d’amore, il «noi ci amammo». Il punto piùbruciante nel punto più astratto…

6 novembre

Ovatta della domenica mattina. Solo. Prima domenicamattina senza lei. Sento il ciclo dei giorni della settimana. Af-fronto la lunga serie dei tempi senza lei (...).

9 novembre

Cammino alla meno peggio attraverso il lutto (...).– Sempre meno cose da scrivere, da dire, se non questo (ma

non posso dirlo a nessuno).

10 novembre

Si augura «coraggio». Ma il tempo del coraggio è quello in cuilei era malata, in cui la curavo vedendo le sue sofferenze, le suetristezze, e in cui bisognava che nascondessi a me stesso le la-crime. Bisognava a ogni istante assumere una decisione, unvolto, ed è questo il coraggio. – Adesso, coraggio vorrebbe direvoler vivere, e ce n’è sin troppo.

© 2009 Éditions du Seuil / Imec, Paris© 2010 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Traduzione di Valerio Magrelli

Diario di luttosi colloca all’intersezio-ne di diverse opere, dal corso al Collègede France sul Neutro, fino alla Camerachiara. D’altronde, la predilezione per ildiario come genere letterario caratte-rizzò la biografia intellettuale dell’auto-re. Come ha notato Susan Sontagnel bel testo presen-tato su Riga, se il pri-mo saggio in assolutopubblicato daBarthes riguardava ilDiariodi Gide, l’ultimoapparso in vita è una ri-flessione sulla propriaabitudine di tenere undiario. Inevitabile, dun-que, che un sisma comequello rappresentatodalla morte della madre siriflettesse in un insieme dipagine stilate giorno dopogiorno, a partire da quel fa-tidico 26 ottobre 1977 in cuisi legge: «Prima notte dinozze. Ma prima notte dilutto?». Spingendosi nelpaese del dolore, Barthes af-fronta un autentico giornaledi viaggio, in cui si susseguo-no osservazioni meticolose estrazianti sul proprio stato, suiricordi, sul paesaggio socialedel lutto. Quanto al movente, èquello che trapela in un appunto delgiorno successivo: «Chi sa? Forse un po’d’oro in queste note?».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LE IMMAGINICopertine e libri di Roland BarthesLe immagini di queste paginesono tratte dalla rivista Riga 30In copertina Barthesin un disegno di Tullio Pericoli

I RITRATTIQuattro ritrattidi BarthesA sinistra,i suoi genitori

Repubblica Nazionale

le poche volte che sono stati interrogati sul pro-getto Hidroaysen hanno risposto che «gli organipreposti faranno le valutazioni di impatto am-bientale, e le decisioni saranno tecniche».

Il duello di carte bollate ha raggiunto livelli al-tissimi. L’impresa Hidroaysèn deve risponderea 1.114 osservazioni presentate dalla Conama, eha chiesto più tempo, fino al 30 giugno. Avevapresentato la sua prima Valutazione d’impattoambientale nel 2008. Il Consiglio di difesa dellaPatagonia aveva riversato sugli uffici della Co-nama migliaia di osservazioni di cittadini. Gli uf-fici avevano quindi presentato 2.698 obiezioni.Hidroaysen aveva chiesto nove mesi di proroga,poi altri due, consegnando le sue risposte il 20 ot-tobre 2009. Le attuali 1.114 osservazioni sono larisposta alla risposta dell’impresa.

Le contestazioni riguardano innanzituttol’impatto delle cinque grandi dighe sul corso dei

fiumi, sul paesaggio circostante, sulla biodiver-sità e sulle specie in via di estinzione. Per i cinquebacini verranno inondati oltre quattromila etta-ri adiacenti ai fiumi Baker e Pascua. Poca roba,ribatte Hidroaysen, rispetto alle dimensioni del-la regione e a quanto inondano le nuove dighe ingenere nel mondo. Qualche anno fa vi fu un for-te conflitto con alcune decine di famiglie di ma-puches — l’etnia indigena del Cile — che vivonoin quello che doveva diventare il bacino dellacentrale idroelettrica Ralco, sempre di Endesa(allora non ancora Enel) nel centro sud del Cile.L’immagine della donna mapuche che, furente,sputa in faccia a un dirigente di Endesa fece il gi-ro del paese. Ma questa volta non c’è un proble-ma di indigeni da delocalizzare. E forse per que-sto Endesa, all’inizio, pensava che il progettoavrebbe avuto la strada spianata. Dopo tutti iproblemi che ci sono stati con l’approvvigiona-mento di gas dall’Argentina puntavano sull’ar-

SANTIAGO DEL CILE

D a una parte le promesse di indi-pendenza energetica, tutta infonti rinnovabili. Dall’altra l’ac-cusa di devastazione ambienta-

le in una delle ultime macro-aree intatte del pia-neta. Il progetto di cinque grandi dighe nel cuo-re della Patagonia cilena, nei fiumi Baker e Pa-scua, duemilatrecento chilometri a sud di San-tiago del Cile, ha suscitato il più vasto e colto mo-vimento di protesta nella storia dei conflittiambientali in Cile. Non solo manifestazioni epetizioni locali, ma documentari, libri di foto-grafie, manifesti appesi in tutto il Cile, concerti,canzoni, omelie, studi, controinchieste. Una vi-cenda che, sorprendentemente, ha anche un

forte risvolto italiano. Da una parte c’è Enel, pro-prietaria di Endesa e quindi azionista di mag-gioranza dell’impresa Hidroaysèn, proprietariadei diritti dell’acqua e promotrice dell’iniziati-va. Dall’altra ci sono le forze locali e i gruppi am-bientalisti uniti nel Consiglio di Difesa della Pa-tagonia che hanno deciso di farsi rappresentaredal vescovo di Aysèn, Luigi Infanti, nato a Udine,e di contare sulla sua prossima “missione diplo-matica” in Italia.

Ma ovviamente la controversia è soprattuttoun grosso nodo da sciogliere per il governo delprimo presidente di destra appena eletto, Seba-stian Piñera, il cui cuore batte per dighe e tralic-ci, ma il cui cervello suggerisce estrema pruden-za per non passare fin da subito da uomo chepreferisce gli affari all’ambiente. In campagnaelettorale il tema è stato abbastanza rimosso, so-prattutto nel ballottaggio. I candidati minori disinistra — Marco Enriquez Ominami e Jorge Ar-

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010

l’attualitàControversie

Da una parte l’Enel, proprietaria dell’impresalocale. Dall’altra il vescovo di Aysèn, Luigi Infantida Udine. In mezzo il super-progetto contro cuistanno lottando ambientalisti, scrittori e artisticileni: la costruzione di cinque dighe nel cuoredi una delle ultime aree intatte del pianeta

rate — hanno sposato la causa di Patagonia “sinrepresas” (senza dighe) ma non l’hanno enfatiz-zata. Sia Piñera che Frei (il candidato del centro-sinistra che ha perso le elezioni, ndr) erano e so-no invece comunque favorevoli allo sfrutta-mento idroelettrico dei fiumi, ma non potevano

rischiare di perdere voti preziosi. Soprattuttodopo che tre differenti sondaggi hanno mostra-to una percentuale di contrari alle dighe in Pata-gonia oscillante tra il 52 e il 58 per cento. Nei pro-grammi elettorali dei due principali candidati siè parlato genericamente di energie rinnovabili e

PAOLO HUTTER

La battaglia dell’acquasfida italiana in Patagonia

Le barriere dovrebberosorgere sui fiumi Bakere Pascua, a sud di Santiago

Con i nuovi bacinigrandi ghiacciai rischianolo scioglimento

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010

gomento “energia pulita prodotta al di qua del-le Ande”.

Ma gli ambientalisti sostengono che i bacini,soprattutto quelli più alti, altereranno la tempe-ratura favorendo lo scioglimento dei ghiacciai.Gli operatori turistici della Patagonia sono con-trari. Lucio Cuenca della Ocla — dell’Osservato-rio Conflitti Ambientali — sostiene che le cinquegrandi dighe provocherebbero più emissioniperché danneggerebbero le capacità di assorbi-mento della CO2 da parte della flora acquaticache verrebbe stravolta. Apparentemente sonoargomenti tecnici raffinati e opinabili. Ma nellecorde di Patagonia sin Represas c’è molto di più.Il vescovo di Aysen, Luis (in origine Luigi) Infan-ti, rappresenta bene il mix di argomenti ideali,sentimentali e scientifici che hanno reso cosìpopolare la causa del “no alle dighe”, anche a mi-gliaia di chilometri di distanza.

L’ho incontrato qualche giorno fa, in un asso-lato pomeriggio estivo, nella canonica di unaparrocchia di Santiago del Cile. Appuntamentonon facile, poiché Infante rifiuta di possedere uncellulare. Mi sono trovato di fronte un cinquan-tasettenne alto e dinamico, che veste come unparroco in clergyman e il cui principale motivod’orgoglio è quello di aver portato nella sperdu-ta Coyhaique dal Brasile il teologo della libera-zione Leonardo Boff. Persona affabile e appas-sionata, ha tagliato una fetta d’anguria e me l’haofferta. Ma ad emozionarmi è stato altro. Infan-te mi ha raccontato di essere arrivato in Cile,sbarcando a Valparaiso dall’Italia, il 12 agostodel 1973, per terminare il seminario e laurearsiin teologia. È lo stesso giorno, mese e anno in cuiio, studente di Lotta Continua, entravo in Cile inpullman dal Perù, per andare a conoscere da vi-cino l’esperienza di Unidad Popular. Poi, lui, inCile ci è rimasto, fino a diventare vescovo. E oraci incontriamo, trentasei anni dopo, per parlaredelle dighe dell’Enel.

Nelle interviste, come nella sua Lettera pasto-rale — “Dacci oggi la nostra acqua quotidiana”— Infante evoca significati simbolici, teologici,antropologici in difesa del corso naturale deifiumi della Patagonia: acqua fonte di vita, sorel-la acqua. Tra le citazioni c’è il discorso del capo

indiano Seattle, della tribù Squamish, che nel1865 ammoniva il governatore bianco: «I fiumisono nostri fratelli. Dovreste trattare i fiumi conla stessa delicatezza con cui trattereste un fratel-lo». Su un filone analogo del resto troviamo buo-na parte dei testi delle canzoni del disco Voci per

la Patagonia, brani realizzati per Patagonia sin

Represas da quattordici autori pop e folk di suc-cesso, Inti Illimani compresi (hanno compostoper la causa la Cueca de los Rios).

Il vescovo sa bene che questi argomenti nonbastano e altrettanto bene ha imparato, dagliambientalisti di Ecosistemas, Chile Sustentable,Ocla a declinare il tema generale dell’energia.«Non c’è bisogno di ferire la Patagonia quandoci sono immense potenzialità di energia grazie alsole, al vento, alla geotermia». Del resto la lun-ghezza e l’impatto dell’elettrodotto che si do-vrebbe realizzare, quella striscia di duemilatre-

cento chilometri di tralicci per portare l’energiada Aysèn a Santiago, sono forse il punto più de-bole del progetto. Per l’opinione pubblica c’è poiun aspetto che travalica le questioni ambienta-li: la proprietà delle acque. Luis Infanti parteci-pa anche alla campagna per la rinazionalizza-zione dell’acqua. Il regime di Pinochet ne avevaavviato la privatizzazione con il Codice delle ac-que del 1981, attribuendo in concessione interibacini fluviali. Stiamo parlando di tutta l’acqua,non solo — come in Italia — della gestione degliacquedotti. «Comprando Endesa, Enel ha ac-quisito automaticamente la proprietà delle ac-que dei fiumi» dice il vescovo, e preannuncia co-sì uno dei temi delle conferenze che farà a Romaa fine aprile: «È legale, ma eticamente è una si-tuazione insostenibile. Chiederemo a Enel ditrovare il modo di restituire questa concessioneal popolo cileno».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LE IMMAGINILa regione dell’Aysèn, nella Patagonia cilena, in una fotografiadi Jorge Uzon. Sopra, uno striscione di protesta degli ambientalisticontro il progetto di costruzione delle cinque dighe in Patagonia,che sorgerebbero in una delle ultime aree intatte del pianeta

L’oro blu, ricchezza contesache spacca l’America Latina

OMERO CIAI

© RIPRODUZIONE RISERVATA

l’acqua” dei prossimi decenni.Al Bid (Banca interamericana di sviluppo)

e al Fondo monetario sono ancora convintiche una soluzione si possa trovare attraver-so la privatizzazione dell’acqua come pro-posero all’inizio degli anni Novanta quando,dopo le crisi del debito, il reinserimento delSudamerica nel mercato globale venne trai-nato dall’esportazione delle materie prime edalla svendita delle risorse naturali. Conser-varne la proprietà pubblica — sottolineano— non ha risolto i problemi infrastrutturali,per esempio, né a Cochabamba, dove alme-no il 30 per cento delle case è, dieci anni do-po, ancora senz’acqua; né a Lima dove, neisobborghi, i più poveri si forniscono con i ca-mion cisterna e pagano il servizio quattro ocinque volte di più che nei quartieri borghe-si di Miraflores. Due emergenze, estreme erecenti, sono quelle rappresentate da Cittàdel Messico, con il 40 per cento delle risorseidriche che si perdono per assenza di manu-tenzione; e da Caracas, dove Hugo Chavezha inventato la “doccia del buon socialista”,mai oltre i tre minuti.

Tra i fiumi dell’Amazzonia, il tesoro sot-terraneo dell’Acquifero Guaranì, le Ande o laPatagonia, l’acqua è distribuita malissimoma ce n’è in abbondanza. Però il tema del-l’acqua si lega a quello dell’energia (le conte-state dighe da costruire in Amazzonia) e al-l’agricoltura (il polemico intervento sul RioSao Francisco per irrigare il desertico Nord-Est). Così, “sviluppo o ambiente” finirà peressere l’altro bivio foriero di conflitti.

Il vescovo: “Verrò moltopresto a Roma per chiedereun ripensamento”

La più famosa guerra dell’acqua inAmerica Latina scoppiò a Cochabam-ba nel gennaio 2000. Il governo boli-

viano — alla presidenza c’era l’ex dittatoreHugo Banzer — aveva ceduto ad un gruppoamericano, Bechtel, il compito di distribuirel’acqua potabile ai 600mila abitanti dellacittà. Il primo effetto fu un sostanzioso au-mento delle tariffe che scatenò una rivoltapopolare e la revoca della concessione. Daitumulti per l’acqua a Cochabamba nacqueanche il movimento che, sei anni dopo,portò alla presidenza un indio aymara, l’ex“cocalero” Evo Morales, affidandogli l’o-biettivo di “rinazionalizzare” le risorse (ac-qua, gas, petrolio, litio) e difenderle dallemultinazionali straniere.

Episodi analoghi avvennero in quegli an-ni anche in Uruguay, Argentina, Ecuador:tanto che a partire dal 2003 le grandi compa-gnie internazionali si sono ritirate dall’areascoraggiate da perdite finanziarie, regole po-che chiare e clima politico ostile. Riguardoall’oro blu l’America Latina ha un situazionesingolare. Tutto il subcontinente (compresal’America Centrale) rappresenta il 12 percento della superficie terrestre, il 6 per centodella popolazione mondiale, ma possiede il28 per cento delle riserve di acqua dolce delpianeta. Non solo: secondo i dati Fao appe-na il 19 per cento dell’acqua viene usata peril consumo domestico, il 9 dall’industria e il73 per l’agricoltura. Ma quasi cento milionidi persone non hanno accesso diretto all’ac-qua potabile e diventeranno 130 milioni nel2015. Scenario perfetto per le “guerre del-

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Repubblica Nazionale

metto francesi ci sono in buona parte familiari, specie in quelleforme di raffinata leggerezza, o di elegante malinconia, che dallenostre parti sono vissute anche come una fuga dalla grana grossadi tanta nostra commedia. Ma tra le folte schiere dei francofili ita-liani, innamorati di Tin Tin e Asterix, del cinema di Rohmer e Truf-faut, delle canzoni di Trenet e Brassens, il francesissimo Nicolas èancora un estraneo, o quanto meno una novità degli ultimi mesi.

Il suo fascino discreto e persistente non è di immediata defini-zione. A confronto dell’entertainment per l’infanzia oggi in auge,ipertecnologico e barocco, Nicolas è una briciola, uno schizzo. Staa Harry Potter come un pennino da inchiostro sta a un raggio-la-ser, come un tiro a segno di Luna Park sta alla playstation. In Fran-cia il tam-tam promozionale, anche per semplificare, parla di“operazione nostalgia”. Per quanto trito, lo slogan coglie abba-stanza nel segno. L’infanzia di Nicolas e dei suoi amici è pre-tele-visiva. È l’infanzia dei prati, di ginocchia sbucciate e giochi all’a-ria aperta, dei pianti mocciosi che si intrecciano ai primi atteggia-menti “da grandi”, dei pomeriggi meravigliosamente lunghi e li-beri da impegni, delle bande e delle parole d’ordine segrete.

Una specie di infanzia in purezza, incontaminata, allegra,struggente, sulla quale il mondo degli adulti ha poca (e bene irri-sa) influenza. Una infanzia che forse da qualche parte esiste an-cora, forse non più, e in ogni caso merita, per la sua evidente “clas-sicità”, di essere onorata e magari rimpianta. Molto giustamentela traduttrice italiana, Gaia Panfili, spiega di avere accuratamen-te evitato quelle espressioni tecnologiche oppure gergali (Nicolasdice “sei matto”, non certo “sei sclerato”) che avrebbero costret-to i piccoli protagonisti ad una contemporaneità del tutto fuoricontesto. L’infanzia di Nicolas e dei suoi amici è un campo anco-ra non invaso, quel genere di promiscuità linguistica e intergene-razionale che la televisione ha via via imposto, e che così spessocancella precocemente dai bambini la loro bambinitudine, nel1959, anno di nascita di Nicolas, non era percepibile e neppureimmaginabile.

Non è un caso che Nicolas non abbia quasi avuto emuli o eredi,e abbia invece molti possibili antenati, o parenti coevi. Chi ram-menta il film francese — sempre francese — La guerra dei bottoni(1962, regia di Yves Robert), che all’epoca fu un caso e quasi unoscandalo, può ritrovarci un’immagine dell’infanzia ugualmenteincontaminata. Si combatte per strapparsi i bottoni dei pantalo-ni e mettere a nudo, non metaforicamente, il bambino avversa-rio, con grave disdoro dei benpensanti dell’epoca. I bambini nu-di e bellicosi di quel film, che ebbe un grandissimo successo po-polare, sortivano dalle pagine di un classico per l’infanzia scrittonel 1912 da Louis Pergaud, poi morto nella guerra vera, quella del‘14 che cancellò dalla faccia della terra quasi una generazione diragazzi francesi.

Nella piccolezza spavalda, nella maniera di osservare gli adultie intuirne le grossolane incoerenze, in Nicolas ritrovi anche i bam-bini di Truffaut (ancora Francia), dai Quattrocento colpi agli Anniin tasca. Poi, volendo, pensi ai ragazzi della via Paal, già più avan-ti negli anni e oramai quasi iniziati alla vita vera, ma anch’essi, co-me Nicolas e i bambini di una volta, cresciuti e formati nell’esal-tante vuoto dei pomeriggi dopo la scuola, all’aria aperta, soli conla propria smania: definire l’infanzia (anche in Nicolas?) equivalea descriverne la brevità, il suo imminente scomparire tra le faucidella vita adulta.

Ed ecco che l’“operazione nostalgia” che sospinge Nicolas, inpieni anni Dieci, verso una rinnovata fama, non è soltanto la no-stalgia di epoche trascorse (quando non c’era la tivù, quando i

Il bambino che ci insegna la libertà

Le Petit Nicolas è fatto (quasi) di niente. Ci sono i trattistilizzatissimi, minimalisti di Jean-Jacques Sempé,illustratore e fumettista tra i massimi al mondo, chefanno capolino a bordo pagina. Nella pagina, i rac-contini rapidi, finto-ingenui come l’infanzia, delloscrittore umorista René Goscinny, celebre padre e

narratore di Asterix e del suo mondo gallico. Sono piccole storie,libretti agili e brevi che non respingono neppure il più renitentedei lettori. Eppure stiamo parlando di un eroe nazionale france-se, nato nel lontano 1959 sul quotidiano bordolese Sud-ouest, cre-sciuto sulla rivista Pilote (una specie di Corrierino dei piccoli mol-to più scafato) e approdato trionfalmente, mezzo secolo dopo, aun successo cinematografico clamoroso: il film di Laurent Tirard“tratto da” ha sbancato il botteghino, primo assoluto in Francianel 2009, dando il la a un revival festoso e dilagante.

In Italia l’editore Donzelli, che manda in libreria, un anno do-po il buon successo del primo, un secondo libro di Nicolas, provaa colmare una lacuna annosa e abbastanza misteriosa: da noi Ni-colas è praticamente uno sconosciuto, nonostante le culture“pop” dei due paesi abbiano una fitta storia di scambio e simpa-tia, specie nella direzione Francia-Italia. Cinema, canzone, fu-

PETITNICOLAS

Nato cinquant’anni fa dalla penna agile di René Goscinnye dalla matita minimalista di Jean-Jacques Sempé, è il protagonistadi un’infanzia pre-televisiva fatta apposta per alimentare

un’operazione-nostalgia. Per questo il film di Laurent Tirard tratto dai suoi raccontiè risultato primo ai botteghini nella Francia 2009. Ora sta per sbarcare in Italia,mentre va in libreria per Donzelli una nuova raccolta di queste piccole, preziose avventure

CULTURA*

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010

MICHELE SERRA

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010

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bambini erano davvero bambini) ma è la ben più irrimediabilenostalgia di qualunque infanzia, comprese le infanzie recenti,quelle che il tratto sornione e spiritoso di Sempé non basterebbepiù a disegnare: comprese le infanzie ormai brevissime dei nostrifigli, rese precarie dalla full-immersion in un mondo adulto inva-dente, pervasivo, omologante, tanto che vederli giocare in un pra-to, o correre in un giardino, ci pare una miracolosa eccezione, unasospensione commovente del troppo rapido farsi uomini.

Da noi, in Italia, qualche parentela con Nicolas potrebbe esse-re attribuita al molto più anziano Giannino Stoppani, in arteGianburrasca, rispetto al quale però Nicolas è meno riottoso econflittuale, più poetico, più bambino. La monelleria, che inGiamburrasca è quasi una critica militante dell’oppressioneadulta, in Nicolas è una recita autonoma, felice, priva di calcolo.Nei raccontini di Goscinny, che riuscì con raro talento a “bambi-nizzare” la sua prosa senza renderla bamboleggiante, gli adultisono descritti da Nicolas come buffi e vanitosi intrusi, non tantoostili quanto non necessari, non influenti. L’infanzia di Nicolas èsempre e comunque vittoriosa, non è passibile di veri attacchi, nédi autentiche sconfitte. È gioiosa, svagata, indolore. È gioco ed èlibertà. Soprattutto libertà, e basterebbe questo a spiegare l’amo-re eterno dei francesi per il piccolo Nicolas.

IL LIBRO E IL FILM

Il Piccolo Nicolas e i suoi Genitori,cinque racconti inediti di René

Goscinny e Jean-Jacques Sempé,Donzelli Editore, ha 84 pagine

con 62 illustrazioni, costa 12 euroe sarà in libreria da martedì prossimo

Il film di Laurent Tirard, BimDistribuzione, ha lo stesso titoloe sarà nelle sale italiane il 2 aprile

LE IMMAGINIIl Piccolo Nicolas, i personaggi,

le avventure e gli elementi caratteristicidell’universo del Piccolo Nicolas sono

una creazione di René Goscinny e JeanJacques Sempé. Per tutte le immagini

© 2004 IMAV Editions/Goscinny-Sempé e © 2010 Donzelli Editore

Repubblica Nazionale

Niente guerre, invasioni di alieni, epopee fantasy. L’ultimo prodottodel genere, in uscita mercoledì, mette in scena l’amore disperato

di un padre che tenta di salvare il proprio bambino. Lo abbiamo vistoin anteprima a Parigi. Insieme all’ideatore e a due critici d’eccezione

SPETTACOLI

Rivoluzione videogamevince chi sa piangere

HeavyRain

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010

PARIGI

Ecco quel che Steven Spiel-berg sognava di fare da an-ni: un videogame che sap-pia commuovere. A riu-

scirci però è stato un quarantunennefrancese di origine italiana, David DeGruttola, in arte David Cage. Il suoHeavy Rain, che esce mercoledì in tuttaEuropa per PlayStation 3, è uno spar-tiacque. Non ha nulla in comune con leinvasioni aliene, le epopee fantasy equell’esercito di eroi digitali così senzamacchia da non lasciare mai un ricordonella memoria. Stavolta in scena c’è unpadre e il suo amore incondizionato peril figlio di otto anni, come in La Strada, ilromanzo di Cormac McCarthy. Unastoria struggente ambientata nei sob-borghi di una Philadelphia povera, bat-tuta dalla pioggia, terrorizzata da un se-rial killer di bambini. Una storia impre-vedibile dato che, secondo le sceltecompiute, la trama può prendere dire-zioni diverse, avere finali differenti e ri-solversi in dieci come in venti ore. Alcu-ni personaggi, anche quelli principali,possono morire se magari non si ab-bandona quella stanza in tempo o nonsi è in grado di difendersi. E non si tornaindietro, non c’è mai una seconda chan-ce. Semplicemente il tessuto narrativosi ricompone prendendo un altro per-corso.

«Né film, né gioco. Semplicementequalcosa che prima non esisteva», com-menta Terry Gillian, regista di Brazil e

L’Esercito delle 12 Scimmie, che abbia-mo incontrato alla presentazione diHeavy Rain. Assieme a lui ancheMathieu Kassovitz, L’odio e Fiumi diPorpora, e Neil LaBute, regista statuni-tense che sul tema di fondo del videoga-me ha girato un breve documentariodove compaiono fra gli altri Samuel L.Jackson e Stephen Frears. Si intitolaHow far would you go for love? — quan-to saresti disposto a rischiare per amo-re? — che è poi la domanda centrale delgioco. Quella che segna la vita, nel beneo nel male, dei suoi quattro interpretiprincipali. Interpreti veri e in carne e os-sa, selezionati sulla base di trecento pro-vini, poi filmati e digitalizzati nel corsodi diciotto mesi seguendo una sceneg-giatura di oltre duemila pagine.

Un lavoro mastodontico che ha por-tato a un risultato fuori dal comune. An-che se in realtà Heavy Rainè l’insieme dielementi e soluzioni tecniche che il ric-co, ricchissimo, mondo dei giochi elet-tronici ha a disposizione da tempo. So-lo che, stranamente, nessuno ha maiavuto il coraggio di usarli in questo mo-do. Salvo rarissime eccezioni, non al-

trettanto mature, come il gioco prece-dente di Cage, Fahrenheit. E così nei ne-gozi hanno continuato a proliferare ti-toli di guerra — come Call of Duty: Mo-dern Warfare 2, sette milioni di copievendute in ventiquattro ore — che in uncolpo solo uniscono un realismo visivoda telegiornale al piglio ottuso del mac-cartismo anni Cinquanta.

«Mi sono sempre sentito un alieno inquest’industria», confessa Cage. «Il cheda un lato è anche una cosa buona, si-gnifica che quel che faccio è originale,ma allo stesso tempo mi ha spinto a do-mandarmi se le mie idee avessero unsenso». Di certo nessuno, fra i game de-signer più quotati, avrebbe mai ideatoun gioco partendo da un episodio comequello accaduto allo stesso Cage e che fasubito venire in mente Bambini nel tem-po, il libro di Ian McEwan. Cage si trova-va in un centro commerciale con la fa-miglia quando perse di vista uno deisuoi due figli. Credeva fosse con la mo-glie e la moglie credeva fosse con lui.«Siamo entrati in una stato di puro pani-co e per dieci minuti abbiamo visto l’in-ferno», ricorda. «Heavy Rain nasce daquei dieci minuti: dal baratro emotivoapertosi con la possibilità che non avreipiù rivisto mio figlio».

Per fortuna il bambino venne ritrova-to. A Ethan Mars, il protagonista del gio-co, non è andata altrettanto bene. Suo fi-glio maggiore muore attraversando lastrada davanti a un centro commercia-le. Due anni dopo la vita di Ethan è ri-dotta a un’ombra e il senso di colpa è

talmente opprimente da anestetizzareanche l’amore per l’altro figlio, Shaun. Apeggiorare le cose degli strani vuoti dimemoria che lo colpiscono all’improv-viso. E così, quando Shaun viene rapito,Ethan inizia a perdere la ragione e arri-va a ipotizzare che dietro il killer dell’o-rigami, chiamato così perché lasciasempre sulle vittime degli animali dicarta, ci sia proprio lui. Per le preceden-ti vittime, fra la scomparsa e il ritrova-mento del corpo, passano quasi semprequattro giorni. Ha quindi una manciatadi ore per trovare il figlio — e in fondoper redimersi dal senso di colpa.

«Le scelte, la cosa che mi ha colpitosono le scelte», racconta Gillian alla fi-ne. «E poi la lentezza, la lentezza di cer-ti movimenti, quando ad esempio culliun neonato nei panni dell’investigatoreprivato Shelby o quando cucini per tuofiglio vestendo quelli di Ethan». Forseperò la conclusione migliore è quella diKassovitz: «Dopo aver finito HeavyRain, mi è stato subito chiaro che il ter-mine videogame non era più adatto.Ora bisogna trovarne uno nuovo».

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JAIME D’ALESSANDRO

Terry Gillian:“Non si può neppuredire sia un filmÈ qualcosa cheprima non esisteva”

Mathieu Kassovitz: “Il termine videogioconon è più adattoOra dovremoinventarcene un altro”

IL GIOCOHeavy Rain

è il videogamedel franceseDavid Cageper PlayStation 3che escemercoledìin tutta Europa

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010

Attenti a sostituire le emozionicon i miraggi del virtuale

UMBERTO GALIMBERTI

De-realizzazione è la parola chiaveche sta alla base dei videogame, do-ve la realtà viene gradatamente, ma

ineluttabilmente, sostituita da scene, im-magini e situazioni che sempre meno sitoccano con mano e sempre più con que-gli indicatori che le significano, senza piùmettere in gioco la nostra esperienza ef-fettiva e vissuta, perché nel videogame lanostra azione compare solo con la vicariacomplicità di quel sosia che è il nostro al-ter ego digitale.

Finora i videogame evidenziavano ilfondo opaco e oscuro del nostro incon-scio, sollecitato nelle sue pulsioni più pri-mitive quali la sessualità selvaggia e la vio-lenza omicida. Oggi col videogioco HeavyRain si è fatto un passo innanzi nella si-mulazione dei nostri vissuti psichici: nonpiù la simulazione delle nostre passioni,ma un’interrogazione rivolta al nostrosentimento morale a cui si chiede: che co-sa siamo disposti a fare per una personache amiamo?

Il tema del videogame di cui stiamo di-scutendo è il rapporto padre-figlio, inquella situazione limite dove in gioco è lavita del figlio e le possibili scelte che un pa-dre può fare. E qui la prima domanda chedobbiamo porci è se le scelte che compia-mo in una realtà virtuale sono veramentein grado di arricchire la nostra esperienza,e quindi di fornirci più esperienza di quel-la che avremmo potuto accumulare, sen-za la mediazione del gioco virtuale, in unrapporto davvero vissuto nella realtà.

La risposta è no. E questo “no” vale pertutti i videogiochi, perché l’esperienza chegiocando se ne trae avviene nell’ambitoprevisionale al cui interno è costruito l’in-sieme delle situazioni possibili. Ed è a par-tire da queste soluzioni che ognuno di noi,operando virtualmente, dispone di unaserie di percorsi che sono poi quelli previ-sti dal codice di costruzione. Per cui laproiezione nel virtuale offre solo quel ven-taglio di esperienze previste dall’invento-re del gioco, le quali non arricchiscono ilfruitore che si sente libero solo perchéignora di operare in un sistema codificato.Ma, al di là di questo condizionamento, re-sta da chiedersi che tipo di uomo può na-scere quando verrà meno quell’anticaesperienza su cui l’uomo storico è cresciu-to, ossia l’esperienza del mondo reale dacui trae origine il nostro vissuto psichico?Certamente un uomo radicalmente diver-so, che più non conosce le sue possibiliscelte al di là di quelle offerte dalla simula-zione codificata.

Muovendosi tra le possibili scelte codi-ficate, il giocatore finisce col perdere il suo

sentimento morale, che non può costruir-si e solidificarsi al di fuori dell’esperienzavissuta, perché là dove il tempo e lo spaziosono artificialmente costruiti e gli scenaripre-configurati, anche il nostro senso mo-rale finisce con l’essere pre-costituito epre-rappresentato nella vischiosità dellascene che rifluiscono e si perdono l’unanell’altra, nella retroazione dell’effettosulla causa, nell’ingigantimento della par-te sul tutto, nella condensazione delle im-magini e nel loro spostamento in nessuntempo e in nessun luogo.

Dopo quindici o venti ore, quale è iltempo di durata del videogame in que-stione, come è mutato l’indomani il nostrosguardo sul nostro ipotetico figlio, cheproprio perché eravamo intenti a giocare,presi da quella situazione-limite che era ilsuo imminente pericolo di vita, non ab-biamo seguito nel suo quotidiano percor-so di crescita, nella sua richiesta di atten-zione e di riconoscimento, che sono allabase della costruzione della sua identità?

Salvandolo dalla situazione-limite o la-sciandolo semplicemente morire (come èanche in alcune soluzioni previste dal vi-deogame) perché incapaci di reggere lanostra angoscia, ci siamo semplicementeallontanati dalla pratica quotidiana dellacura, non perché ci siamo distratti per ven-ti ore, ma perché in quelle venti ore abbia-mo a tal punto eccitato il nostro senti-mento morale, il quale finisce col non piùritrovarsi nei percorsi della quotidianità,dove ciò che si chiede è il lento e progres-sivo maturare delle forme di cura, che tro-vano espressione nella ponderazione,nell’ascolto, nella misura delle parole, chesono l’esatto contrario del gesto eroico otragico.

Il legame tra padre e figlio, quando esi-ste, è un legame incondizionato, a diffe-renza di tutti gli altri legami che sottendo-no sempre un interesse, un calcolo, e in ge-nerale un reciproco vantaggio, anchequando è mascherato dagli inganni d’a-more. I sentimenti “incondizionati” pen-so che non debbano mai essere “messi ingioco” e tantomeno in un gioco “condi-zionato” da chi l’ha costruito. Perchéquando affidiamo agli altri anche quelloche di incondizionato c’è in noi come frut-to dell’esperienza reale e non virtuale, al-lora abbiamo abdicato alla nostra iden-tità, alla nostra libera scelta, e quindi pro-prio a ciò che distingue la condizioneumana da quella animale, avverando in talmodo la profezia di Nietzsche secondo laquale: «Quando l’umanità diventa greggel’unica cosa che cerca è l’animale capo».

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NANNI MORETTI PRESENTA

BERLINOFILM FESTIVAL

PREMIO DELLA CRITICAINTERNAZIONALE FIPRESCI

PREMIO EUROPA CINEMAS LABEL

TRIBECAFILM FESTIVAL

MIGLIOR REGIA

TORINOFILM FESTIVAL

IN CONCORSODA VENERDI AL CINEMA

“MOLTO BELLO.” L’ESPRESSO

“UNA DELLE PIÙ BELLE SORPRESE DEL FESTIVAL.” IL SOLE 24 ORE

“VISIVAMENTE MAGNIFICO, QUESTO ESORDIO HA LA STOFFA PER COLPIRE NEL SEGNO.” VARIETY

UN FILM DI

RUNE DENSTAD LANGLO

Repubblica Nazionale

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010

i saporiMenu Europa

Bruxelles: appena un milione di abitantima tantissimi ristoranti premiati, una solidatradizione gastronomica e tanta vogliadi sperimentare. Tra cibo di stradae piatti multietnici, birra, praline, aringhe,cavolini, choux e giovani chefè nata una miscellanea di gusti tutta da provare

itinerari

Una laureain storiae due anniin Cinaa scoprire

i segreti delle spezieper Laurent Gerbaud,mastro cioccolatiereche nel suo ateliercrea praline con pepidolci, frutta seccasalata e agrumi orientali

DOVE DORMIREWHITE HOUSE B&BRue Washington 142Tel. (0032) 02-8507719Doppia da 65 eurocolazione inclusa

L’ART DE LA FUGUE Rue de Suède 38Tel.(0032) 0478- 695944Doppia da 110 eurocolazione inclusa

HOTEL MOZARTRue M. aux Fromages 23Tel. (0032) 02-5026661Doppia da 100 eurocolazione inclusa

FLORIS ARLEQUINRue de la Fourche 17Tel. (0032) 02-5141615Doppia da 110 eurocolazione inclusa

BE MANOS HOTELPlace de l’Aviation 23 Tel. (0032) 02-5206565Doppia da 145 eurocolazione inclusa

DOVE MANGIAREBRASSERIE GEORGESAvenue Churchill 259Tel. (0032) 02-3472100Sempre apertomenù da 25 euro

LE WINE BAR SABLONRue des Pigeons 9Tel. (0032) 02-5036250Chiuso lunedìmenù da 5 euro

LA PAIXRue Ropsy-Chaudron 49Tel. (0032) 02-5230958Chiuso sabato e domenicamenù da 45 euro

MOEDER LAMBICPlace Fontainas 8Tel. (0032) 02-5036068Sempre aperto, birreda 3 euro al bicchiere

BELGA QUEENRue Fossé aux Loups 32Tel. (0032) 02-2172187Sempre apertomenù da 40 euro

DOVE COMPRAREBIO-BIÈRESCANTILLONRue Gheude 56Tel. (0032) 02-5214928

FROMAGERIE DELINKEBEEKRue de Vieux Marché 4Tel. (0032) 02-5123510

CHARCUTERIECATHERINERue du Midi 23Tel. (0032) 02-5127564

BISCUITERIE DANDOYRue du Beurre 31Tel. (0032) 02-5110326

RENDEZ-VOUSCHOCOLATAvenue Hansen Soulie 84Tel. (0032) 02-7358200

NEUHAUS GALERIEDE LA REINEGrote Markt 27Tel. (0032) 02-5126359

Questione di stelle. Bruxelles, col suomilione di abitanti, ha tanti ristoran-ti premiati con almeno un macaronMichelin quanti Milano e Roma in-sieme. Più di tutta la Danimarca e ditutta la Svezia, uno meno di Las Vegas

e tre meno di Los Angeles. Eppure, la capitale delBelgio viene gastronomicamente identificata confumanti marmitte di cozze e cartocci di patatine,pinte di birra e cespi di indivia, tavolette di cioc-colato e aringhe.

Sapori robusti per palati senza troppe pretese,nulla che rilevi la complessità della cucina belga,

Polvere di stellenon solo “frites”

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Cucinabelga

capace di distendersi su entrambi gli assi carte-siani: sviluppo verticale dei grandi classici — dal-l’anguilla in salsa verde ai cavolini gratinati, se-condo modalità alleggerite — ampliamento oriz-zontale delle frontiere gourmand, grazie alla pre-senza delle delegazioni della Comunità europea el’espansione continua della comunità musulma-na (un terzo degli abitanti). Il tutto, declinato nel-le tre lingue praticate sotto la stessa bandiera:fiammingo al nord, francese al sud, tedesco nel-l’enclave germanofona dell’est Vallonia.

Sono pigri apparenti, gli abitanti di Bruxelles.Affezionati al comfort food dell’infanzia, ma bendisposti a provare nuovi gusti e abbinamenti ori-

ginali, come dimostrano le bancarelle dei merca-ti dei diciannove arrondissement, ricche di ognibendidio etnico perfino più di Londra e Parigi. Co-sì, se intorno alla maestosa Grand Place è tutto unbrulicare di localini turistici, basta regalarsi unbreve percorso gourmand composto da una fittatrama di piccoli e grandi indirizzi, campioni di tra-dizione e simboli del nuovo che avanza.

Divertimento assicurato per gli appassionati dipatatine fritte grazie ai “fritkot” — assimilabili aichioschi delle piadine — che punteggiano viali epiazze, dove le chips sono preparate a regola d’ar-te, degnissimo esempio di street food (nota di me-rito per Chez Antoine, in place Jourdan). In alcunicasi, le “frites”diventano vere fuoriclasse del ciboda strada. Succede quando la doppia cottura, fon-damentale per assicurare la consistenza morbi-da-croccante, viene effettuata in grassi diversi —bue, oca, cavallo, olio extravergine — da compa-rare al momento della degustazione, proposta inspeciali ciotole dedicate.

Anche più sorprendente l’offerta birraria. A dif-ferenza del resto del Belgio, dove spopolano le bir-re di abbazia, le cosiddette trappiste (in buonaparte banalizzate dall’acquisizione delle indu-strie), la capitale vanta ancora una brasserie — dabrasser, rimestare — ultima sopravvissuta delletrenta che affollavano Bruxelles nei decenni scor-si, con lavorazione aperta al pubblico.

Chiusura in gloria con il cioccolato, che quitrionfa in decine di botteghe, quasi tutte con la-boratorio a vista. Se avete energie residue, regala-tevi una gita nella vicina, incantevole Bruges,gioiello sospeso tra canali, merletti e cinquantacioccolaterie, compresa quella del funambolicoDominique Persoone (The Chocolate Line). Frapraline con pipette di Tequila e tavolette al mostodi Cabernet, vi tufferete nel futuro della pralineriabelga. Chissà che ne direbbe Georges Simenon.

LICIA GRANELLO

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010

Ma qui la vera specialitàè la gioia di stare a tavola

ANDREA BONANNI

BRUXELLES

Racconta una leggenda che le prime “frites” sianostate inventate nella valle della Mosa nel Diciassettesimosecolo. Un inverno che il fiume era gelato, i pescatori di-sperati (o meglio le loro mogli) ebbero l’idea di tagliarepezzettini di patata e di metterli a friggere nello strutto,come facevano con la minutaglia del pescato. Da allora lepatatine fritte, che in effetti qui sono davvero più buoneche altrove, hanno fatto molta strada. Tanto che il chio-sco di place Jourdan a Bruxelles che si vanta di fare le mi-gliori “frites” del Belgio, e quindi del mondo, si è guada-gnato qualche anno fa la prima pagina del Wall Street

Journal come esempio di micro-impresa povera ma ba-sata sulla qualità.

Un’altra leggenda, questa davvero poco credibile, vuo-le che l’indivia, l’insalata belga che qui chiamano “chi-con”, sia apparsa miracolosamente nel giardino botani-co di Bruxelles nel 1830, anno dell’indipendenza del Pae-se. Una terza leggenda racconta che le “pralines”, inven-tate dai cioccolatai belgi nel 1912, derivino da una anticaricetta rubata nei conventi spagnoli che custodivano ge-losamente il segreto della tostatura del cacao ai tempi incui le Fiandre facevano parte dell’impero d’Asburgo: unaspecie di beffarda rivalsa per la lunga e malsopportatadominazione di Madrid.

E che dire delle birre? Oltre cento qualità, molte dellequali possono ancora essere gustate solo facendo la coda

per acquistarle alla foresteria dei conventi. Ma la birra,che qui non era intesa come una bevanda quanto piutto-sto come un alimento, entra anche nella preparazionedella maggior parte dei piatti belgi: dal coniglio alla Goeu-ze alla famosa “carbonade flamande”, uno spezzatinocotto appunto nella birra.

Il Belgio, si sa, non è una grande nazione. E per di più hauna identità incerta, divisa com’è tra fiamminghi e vallo-ni. Ma pochi paesi al mondo si identificano così piena-mente con la propria gastronomia. E forse nessuno si ada-gia con tanta voluttà sul piacere della gola e identifica nelcibo una propria sommessa ma ostinata “joie de vivre”che diventa cifra dell’anima. Forse è esagerato dire, comefanno qui, che «la gastronomia belga è cucina francesemigliorata». Ma pochi popoli hanno conservato con al-trettanto bonario affetto l’attaccamento ai propri piattitradizionali. Dai cioccolatini alle “gauffres”, dalle “frites”alle “moules”, le cozze, che sono un altro piatto naziona-le, al “waterzooi”, una specie di zuppa di pesce o di pollo:la cucina belga non è confinata nei ristoranti tipici mapervade le strade, le vetrine e le mense del Paese.

Certo, oggi Bruxelles è una capitale gastronomicamondiale. I grandi chef incrociano piatti di ogni cultura ele vie della città sono invase da ristoranti e ristoratori diogni nazionalità. La più alta concentrazione pro capite distelle Michelin al mondo non è dovuta ai meriti della cu-cina belga. Ma senza quell’amore di fondo per il mangiarbene che risale a Lancelot de Casteau, maestro cuoco deiprincipi-vescovi di Liegi nel Sedicesimo secolo e autoredel primo libro di ricette belghe, l’Ouverture de cuisine,difficilmente oggi questo Paese sarebbe il paradiso deigourmet europei.

MoulesSono olandesi (Zelandia)le cozze da scaltrire con un trito di cipolla, sedano,aglio, prezzemolo e carota,sfumando con vino biancoA coté, pane, burro demi-salé,patatine e maionese correttacol sugo di cottura

FritesNon banali patatine,ma il risultato di una ricettacodificata: le patatesubiscono una doppiacottura – a 160 e 180 gradi –nel grasso di bue. Asciugatesulla carta assorbente,si servono con maionesemontata a mano

GaufresSottili e croccanti, le cialdepreparate con un mix di farina, burro, zucchero,uova, lievito e latteCotte nella piastra a libro(gaufrier), e spolveratedi zucchero a velo, si servono con marmellata,cioccolato, chantilly

SpeculoosUn ventaglio di spezie– cannella, noce moscata,zenzero, pepe bianco,cardamomo, chiodidi garofano – profumal’impasto che riposa dodiciore prima di trasformarsi in biscotti al burro, con zucchero grezzo

CroquettesUna notte di riposo in frigoper la spessa besciamellaall’uovo, integrata con un fondo di testee carapaci e con la polpadei gamberi grigiDall’impasto, piccoli cilindriin pangrattato e chiarad’uovo prima della frittura

LambicÈ rigorosamente cittadina,fresca, acida e fruttata,la birra fermentatasenza lieviti esterni, ottenutagrazie ai batteri prodotticon una notte all’aria apertanelle brume invernaliMiscela di tre annateper la “Gueze”

PralinesLa tradizione dolciariabelga si traducein un’incredibile varietà di cioccolatini, da quelliclassici (caffè, marzapane,ganache, scorze candite)ai più nuovi e arditi, comequelli ai pistacchi salati, alla birra, al foie gras

PâtéPane scuro e compostadi cipolla accompagnanole diverse varietàdi “spalmabili”(coniglio, fegato, trota)Il più tradizionale è a base di vitello e maiale marinatiin un misto di cipolle, aglio,timo, alloro e infine cognac

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Jambon d’ArdenneUno dei tre prodottidelle Ardenne belghe Aop(appellation d’origineprotégée) insieme a burroe pâté. Coscia di maialesalata – e affumicata – con stagionaturacaratteristica grazie al microclima montano

Choux de BruxellesIl segreto per esaltarei cavoletti, piccoli scrignidi vitamina C, è la doppiasbianchitura in acquabollente salata: la prima,rapida, per togliere l’amaroe conservare il colore,la seconda per completarela cottura

l’iniziativaSi chiama Scoperte gastronomiche

il mini-trip messo a punto da BruxellesTurismo (www.bedandbrussels.be)

Per tutto il 2010, a partireda 71 euro a persona,

offerta di una notte in B&B e visita di “Planète Chocolat”, nel cuore

della città, tra degustazionidi praline e dimostrazioni dei Mastri Cioccolatieri

Repubblica Nazionale

le tendenzeAccessori femminili

Grandi, grandissime, a volte giganti: sono le nuovissimesacche in pelle trattata, le super-shopper in tessuto mistoche hanno fatto impazzire le spettatrici delle passerelleUn trend già visto negli anni Settanta che oggi tornapiù tecnologico che mai. Perché le donne possano averecon sé tutto ciò che serve. E anche qualcosa di più...

FENDIRicorda le borse delle nonne la grandesacca di Fendi. Dalla preziosa lavorazionea ricamo, è un capo unico destinatoa far innamorare parecchie fashion victim

LOUIS VUITTONPer chi vuole avere le mani liberec’è lo zaino in denim con monogrammidella maison di Louis VuittonSi può indossare anche a tracolla

FERRAGAMOSarà il colore dell’estate e Ferragamoha battuto i tempi creando la sacca gialloacceso. Supersize può contenere di tutto:telefonino, iPhone, libri e mazzi di chiavi

ROBERTO CAVALLIPer gli animi dark, la proposta di RobertoCavalli. Lavorata con mini borchie in pellee con il manico in doppio cinturino,è perfetta con i jeans o una gonna mini

DIORPensata per le donne più elegantiè la morbida maxi bag di Dior. In pellepreziosa, è così bella che vale la penadi portarla anche quando è semivuota

HERMESSembra un bauletto d’altri tempil’originale borsa cilindrica di HermesCon impunture a vista e lucchetto laterale,è un accessorio destinato a durare

CHANELUn classico senza età. Ecco la propostain matelassè di Chanel. Piaceràa tutte le donne che pensano: «Una borsaè per sempre, come i diamanti»

GIORGIO ARMANIEcco l’ultima sacca griffata propostada Giorgio Armani. Morbida e capiente,può risolvere tante situazioni quotidiane,aggiungendo eleganza alla praticità

IRENE MARIA SCALISE

Per Sigmund Freud erano il simbolo dell’universo femmini-le. Addirittura l’emblema dell’utero. Sono le borse che, diquesti tempi, diventano grandi, grandissime anzi giganti.Semplificando il per niente semplice pensiero dello psica-nalista austriaco, scegliere come organizzarle equivale a fa-re ordine nella propria testa. Tenere in ordine le supersize

non è però cosa facile. Esattamente come succede per le idee. E, in tem-pi in cui la psicanalisi è quasi una fede ma anche i social network vannoper la maggiore, su Facebook trionfa il gruppo: “Per quelle che amano leborse grandi ma non riescono mai a trovarci nulla dentro”. Le donne,nei loro messaggi multimediali, scrivono di tutto: anche che nelle borsegrandi, per semplificarsi la vita, infilano quelle piccole. Il dottor Freudavrebbe, sicuramente, avuto qualcosa da aggiungere.

La questione dei centimetri, spesso, rifugge da argomenti così raffi-nati e si traduce più banalmente in un fatto di peso. Troppo. Anche seuna ricerca della catena di negozi britannici Debenhams dimostra co-me le sporte delle signore di oggi si aggirino sul chilo e mezzo. La pesan-

tezza, assicurano soddisfatti, sarebbe diminuita del 57 per cento negliultimi due anni. Il motivo dell’alleggerimento? Telefonini e iPod sem-pre più sottili ma, soprattutto, la qualità dei tessuti e delle pelli che, trat-tate con intelligenza, gravano meno sulla bilancia.

Chilogrammi a parte, tra gli effetti collaterali delle amatissime borsec’è l’inevitabile momento di panico quando, in preda a un’emergenza,bisogna rintracciare al tatto una penna o un accendino. D’altronde, lesacche esagerate sembrano pensate per quelle che non amano le mez-ze misure. E, di conseguenza, le extralarge si amano o si odiano. A pre-scindere dalla praticità. È la moda, bellezza.

Per molte invece, soprattutto durante il giorno, prevale la necessità diun contenitore a geometria variabile in grado di soddisfare mille esi-genze. Per le mamme tutto il necessario, dai cerotti alla felpa di ricam-bio, per i frugoletti capricciosi. Per le ginniche l’attrezzatura indispen-sabile per un improvviso salto in palestra. Per le intellettuali un libro dadivorare in metropolitana o nella pausa pranzo.

E gli stilisti hanno colto il messaggio. La parola d’ordine nelle sfilate èstata dunque oversize. Con infinite variazioni. La maxi bagsi porta a tra-colla come quella dei postini, a mano come una piccola valigia o in spal-la secondo le regole classiche. Jacqueline Kennedy Onassis è stata forsela prima. A passeggio per le vie di New York, negli anni Settanta, è statafotografata così tante volte con una grande sacca griffata Gucci sotto ilbraccio, da far sì che la borsa prendesse il suo nome: The Jackie. Tantealtre star di oggi amano il fuori misura. Katie Holmes e Kate Moss. Clau-dia Schiffer e Penelope Cruz. Magari, loro che conducono una vita sen-za esigenze pratiche, dentro hanno solo un cellulare ma tant’è. E allora,almeno per quest’anno, via libera al fuori misura.

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Effetto Mary PoppinsTrionfa la “portatutto”

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010

Di giorno e di seraviva le supersize

Irene Pivetti

Per Irene Pivetti le borse di unadonna vanno distinte in due ca-tegorie. Quelle pensate per i

giorni feriali e quelle destinate ai finesettimana. Due borse come due vite.Quella di presidente della Camera,che l’ha resa famosa intorno aitrent’anni, e quella di donna di spet-tacolo e di giornalista che sta vivendoormai da qualche anno.

Anche Irene Pivetti, come la mag-gior parte delle donne, va pazza perle borse?

«Non sono innamorata del concet-to di borsa come valore assoluto. Masono una che le sacche le usa tantissi-mo e, di conseguenza, le ama per la lo-ro utilità. Impossibile farne a meno».

Grandi o piccole?«La mia distinzione è più tra lavo-

rative e festive. A seconda dei casicambia completamente il contenu-to: nella borsa del weekend metto tut-to quel che mi è utile per motivi fami-liari, dai pupazzi dei Gormiti a un golfdi ricambio per i bambini. È una sor-ta di esercizio per prevenire l’inevita-bile domanda: “Mamma mi dare-sti?...”. Quella lavorativa è invecemolto più professionale, con ogni ti-po di telefono, blocchi per gli appun-ti e mini computer. In entrambi i casi,alla fine, prevale la dimensionemaxi».

Da una ricerca britannica di unacatena di abbigliamento risulta che,negli ultimi anni, il peso delle borsefemminili si è ridimensionato di piùdel cinquanta per cento. Cosa nepensa?

«Se è successo, indubbiamentenon è perché noi donne ci mettiamomeno cose all’interno. Penso sia me-rito dei materiali sempre più leggeri.Io, per esempio, avevo una sacca dicuoio meravigliosa ma ho dovutometterla nell’armadio perché anchevuota era pesantissima».

Quando era presidente della Ca-mera, che tipo di borse utilizzava?

«Ovviamente erano sempre stra-colme di carte ma, comunque, ancheallora distinguevo tra tipologia digiornata. In ogni caso erano di formarettangolare. Che, allora come oggi, èla mia foggia preferita».

Quali sono le borse che, al contra-rio, non ama?

«Quelle piccolissime. Io farei unamozione per eliminarle. È vero che lasera servono meno oggetti, ma chesenso ha comprare una minuscolapochette in cui, se ci metti il telefono,non entra un pacchetto di fazzoletti oun mazzo di chiavi? Viva le supersize,anche dalle otto di sera in poi».

(i. m. s.)

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GUCCIRicorda i modelli storici della maisonla borsa giallo ocra di GucciSi può indossare di giorno e di seraPerfetta per ogni occasione

RALPH LAURENÈ all’ultima moda la grande bag firmataRalph Lauren. Un modello pensatoper un pubblico giovane ma che piaceràalle ragazze di ogni età

TOD’SSportiva e chic la superborsa di Tod’sIn ghiaccio e con rifiniture contrastanti,può diventare anche una mini ventiquattroreperfetta per un fine settimana fuori città

DOLCE & GABBANAPer le perenni indecise tra animalier

e uncinetto è nata la borsa rigida di Dolce& Gabbana. Con manico piccolo e rifiniturein oro, è adatta alle serate più eleganti

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l’incontroEmergenti Lo definiscono il vero erede di Olmi

Per Carlo Lizzani è nel ristretto gruppodei migliori registi italiani di oggi,con Moretti e Tornatore. Ma lui dribblai complimenti. Lontano anni luce

dal narcisismo del cinema,assomiglia ai suoi film,storie essenziali,raccontate dal basso:“Il vento fa il suo giro”e adesso “L’uomoche verrà” su Marzabotto

«Spero di mantenere la mia identitàartistica e la semplicità», dice

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Cerco di fare parlareil paesaggioVorrei essere capacedi pulizia assolutaper evitare l’enfasie la retorica. Filmotre battute per tenernepoi una sola

sconde in un interstizio della stalla co-me se fossero pane. Martina è bellissimae povera. Hai sbagliato a nascere, dove-vi venire alla luce in una famiglia di pa-droni, le dice la zia Alba Rohrwacher.Martina non può parlare, eppure custo-disce nelle mani e nelle gambe magre enude la lingua del film. Dice Diritti: «Cisono film in cui contano le parole, neimiei cerco di fare parlare il paesaggio ele parole non pronunciate. Vorrei esse-re capace di pulizia assoluta per evitarel’enfasi e la retorica. È la ragione per cuigiro tre battute per tenerne poi una sola.Al montaggio taglio le scene un attimoprima piuttosto che un attimo dopo».

Nel film sulla strage di Marzabotto lamorte è contadina. Piomba nei cortilicome le falciatrici. Un vecchio si arram-pica sulla punta di un albero e la guardaal lavoro, come se volesse sincerarsi chelo faccia bene. La morte viene racconta-ta mostrandole la schiena, come il sol-dato tedesco che scava la propria fossaimmaginando soltanto il fucile che ilpartigiano impugna alle sue spalle e chelo ucciderà. Le mitragliatrici tedeschesparano in faccia alla macchina da pre-sa. Di fronte ci sono famiglie intere av-vinghiate negli ultimi affetti, i corpi ven-gono fatti a pezzi ma lo spettatore nonvede. Sente. Ed è peggio. Dopo, l’inqua-dratura scivola sui cadaveri, gli abiti ri-dotti a stracci sanguinanti, i rumori del-l’agonia dei moribondi e quell’ufficialeragazzino che passa per il colpo di graziacon la precisione distratta dei meccani-ci. «La scena più dolorosa è stata la pre-cedente, quella del trasferimento dallachiesa al cimitero. C’erano molti bam-bini. Erano spaventati, ma i genitori so-no stati meravigliosi. Dicevo loro: è soloun gioco, ma un gioco serio. A un certopunto della discesa, Stefano Bicocchi,l’attore comico che tutti conosciamocon il nome di Vito, mi ha detto con la vo-ce rotta dall’emozione: ma questo è tut-to vero... I bambini mi hanno moltoamato». Dev’essere vero se il 21 dicem-bre gli hanno fatto una festa a sorpresaper i suoi cinquant’anni a Calderino diMonte San Pietro. La torta, le candeline,i canti con la musica del film. Nevicavaanche quella sera. «Mi sono squagliato».

Giorgio Diritti è un regista che vienedalla musica. Suonava la chitarra nei Te-baldi rock, il primo gruppo di Luca Car-boni. È nato a Bologna da genitori di Ro-vigno d’Istria, un destino da profughi. Ilpadre bancario lo ha portato a Biella, aGenova, di nuovo a Bologna che avevaormai vent’anni. Ha lavorato alla Foto-print, è stato assistente fonico per LucioDalla e Vasco Rossi. Un giorno CesareBastelli, che era aiuto regista di PupiAvati, gli dice: «Giorgio, ti faccio fare

qualcosa, se ti va di provare». Prima c’èuno stage con Avati sul set di Noi tre, poil’esperienza a Ipotesi Cinema, la scuolacoordinata da Ermanno Olmi, e unalunga attività di documentarista. «I filmche volevo fare io non li voleva produrrenessuno. Suonavo decine di campanel-li ma le porte non si aprivano mai. Mi so-no messo in proprio. Oddio, quasi. Hotrovato un socio coraggioso, SimoneBachini e assieme abbiamo creato ‘staroba qui, Arancia film».

Poche stanze al primo piano di un pa-lazzo di via Castiglione. Un ufficio pic-colo e spoglio. Una scrivania, tre sedie,neppure una sua foto da ciak azione al-la parete, solo un’immagine di MarcelloMastroianni e, su una bacheca di legno,qualche biglietto d’auguri, una cartoli-na con un babbo natale e una fotografiacon la dedica di ringraziamento firmatasul retro da Alessandra Agosti, la musi-cista trasformata in attrice nella storiadel Vento. Carlo Lizzani ha detto che, asuo parere, oggi in Italia ci sono soltan-to tre grandi registi: Tornatore, Morettie Diritti. Lui spiega di non ritenersi l’ere-de di Olmi, di non sapere nemmeno be-ne su quale sentiero professionale sta

camminando. Ha studiato i ritratti psi-cologici di Kieslowski, la capacità di Fel-lini nel consegnare il racconto alle facce,l’ironia feroce di Chaplin, l’essenzialitàcrudele di Kubrick. «L’ho fatto per purapassione, perché sono i maestri del ci-nema che amo andare a vedere». Quelche è certo è che Diritti non appartienealla casta narcisistica del cinema italia-no. «Spero di mantenere la mia identitàartistica e la semplicità».

Diritti racconta dal basso, come sepasseggiasse sulla terra con la cinepre-sa assieme all’altra gente. «Penso di es-sere anch’io nel basso, là dove tutti sispogliano degli abiti del re, della princi-pessa e pure del barbone. Non mi piac-ciono i film a tesi. I buoni da una parte ei cattivi dall’altra. La responsabilità delbene e del male è di ciascuno di noi e poicollettiva. Cerco di lasciare allo spetta-tore la possibilità di scegliere da che par-te stare, se decide per quella più sgrade-vole è libero di farlo». L’uomo che verrànasce da un lavoro di ricerca durato an-ni. Decine di interviste a ex partigiani,sopravvissuti, figli e parenti delle vitti-me. «Il cuore del film è la famiglia. Nonmi interessava né avevo la pretesa di fa-re una ricostruzione storica, bellica opolitica. Ho ascoltato uomini che mihanno raccontato i tedeschi come altriuomini. La familiarità del pane e pomo-doro, gli elmetti abbandonati nelle aie, ilsoldato che giocava con i bambini italia-ni ricordando i suoi lasciati in Germaniaai quali costruiva cavalli di legno. Eranogli stessi uomini che poi si sono trasfor-mati in carnefici, chi nell’obbedienza aun ordine, chi indottrinato e convintodall’ideologia nazista». Sulle montagnebolognesi vennero trucidati più di due-cento bambini sotto i dodici anni che finlì avevano avuto un’altra vita. «Ho cer-cato di descriverla anche attraverso i ri-cordi della mia infanzia. I segreti del bo-sco, i nascondigli, le file di formiche, lelucciole messe in un bicchiere e portatesul comodino di casa, la voglia di scopri-re il mondo affascinante e distante degliadulti. Curiosità rese macroscopichedalla guerra che si era ingoiata la nor-malità. In sala, dopo la proiezione delfilm a Marzabotto, si è alzato un giovanedell’Anpi e ha pronunciato poche paro-le: questa è la nostra storia, qui c’è il regi-sta al quale abbiamo affidato la testimo-nianza del senso della nostra vita e noiora dobbiamo dirgli qualcosa. Si è sedu-to. Ci sono stati cinque minuti di silen-zio, poi un vecchio partigiano si è solle-vato dalla poltrona e ha detto: grazie».

Ora Diritti sta riflettendo su due pro-getti. Vorrebbe cimentarsi sul mondodei giovani tra i venti e i trent’anni. «Nes-suno sembra accorgersi di loro, del ta-

lento che possiedono, del futuro cheportano dentro. Vengono usati soltantoin una dimensione commerciale». E poiun viaggio nella fede attraverso le voca-zioni e le missioni. «Sono partito da cre-dente, molto credente. Adesso comin-cio a nutrire qualche dubbio, coniugo lamia esistenza a Dio non più come un’a-desione dogmatica, ma come una sfida.Mi metto sempre dalla sua parte, d’ac-cordo, ma tocca a lui dimostrarmi cheesiste. Gli do atto che spesso avverto se-gnali molto forti, emozioni che non sipossono descrivere se non banalizzan-dole. Ma non mi basta». C’è una terza co-sa che gli sussurra nella testa. Ha presoforma con un titolo, solo questo per ora:L’apparenza, la sostanza e altre cose.«Immagino due personaggi che percor-rono l’Italia in senso contrario al fiumedi gente che corre verso l’apparire comese fosse l’autentica dimensione dell’esi-stenza. Ecco, quei due dovrebbero an-dare nella direzione opposta, verso lariappropriazione biologica del sensodell’uomo. Lo so, è un discorso confusoe forse velleitario, ma ogni giorno mettoda parte qualche piccola pietra di verità.Credo che in questo paese esistano leenergie per cambiare».

In Val Maira ha imparato che le pietresono ottimiste. Sanno più degli uominiche le cose possono cambiare. Le roccestanno lì e aspettano. Una grande nevi-cata bloccò le ultime riprese dell’Uomoche verrà. Il finale venne girato due me-si più tardi. La natura nel frattempo ave-va cambiato il paesaggio. Per il peso del-la neve un albero era precipitato proprionel posto in cui Martina sarebbe dovutapassare con il fratellino salvato dall’ec-cidio tra le braccia. Dice Diritti: «C’eraquell’albero, non potevo non utilizzar-lo». Così ha chiesto a Martina di sedersisul tronco caduto. E l’ha fatta cantare.

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DARIO CRESTO-DINA

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BOLOGNA

Èuna sera di neve a Bologna.Cade grande come palmi dimano. È una sera in cui hai bi-sogno di prendere un treno o

di sapere che c’è qualcuno che ti aspet-ta in un posto da dove si può guardarefuori. Giorgio Diritti questa sera nonparte. È stanco di treni. Dice: «Vado a ca-sa e preparo cena a mio figlio. Havent’anni, lo vedo pochissimo. Devomantenere una promessa». Accanto al-le scarpe ha posato lo zaino con la spesafatta nel pomeriggio. «Mi piace più ditutto girovagare attraverso i mercati diquartiere, nei negozi e nei grandi ma-gazzini, salire sugli autobus. Sono i luo-ghi che costituiscono la mia prima basedi realismo. Sto in mezzo alle persone.Osservo come sono vestite, come gesti-colano, come parlano o sono perdutedietro i loro pensieri e le loro preoccu-pazioni, come si nascondono aglisguardi di coloro che incrociano e comeall’improvviso possono diventare catti-ve e violente».

Diritti ama camminare da quandoera un ragazzo. Lo ha fatto anche nellevalli occitane con l’amico Fredo Valle,autore del soggetto da cui è stato tratto ilsuo primo film, Il vento fa il suo giro, laparabola di uno “straniero bianco”, unpastore fricchettone, sognatore e dal-l’umore straripante, respinto da un pae-se morente e duro. Ha solcato i costonibarbarici e dirupati della Val Maira, so-pra Cuneo, un posto incantato e immo-bile nella sua selvatichezza di crocifissi elupi. Ha raccolto lassù le rocce dell’ani-mo chiuso nello stesso modo in cui lapiccola Martina, sguardo muto e nar-rante nell’Uomo che verrà, ruba le pietrealla sua montagna bolognese e le na-

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Giorgio Diritti

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010

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