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IN RIVA AL MARE Cerco di capire perché questa poesia di Saba non mi piaccia… Dissonanze, esagerazioni, immagini poco credibili, una simbologia che mi pare sprecata, qualche grossolanità, l’abborracciatura complessiva del linguaggio: cosa esattamente?… Il linguaggio di questo poeta – dico – così poco liceale, così poco letterario; o almeno malavvezzo alla cultura colta del tempo (basti pensare al D’Annunzio). Soprattutto, penso al suo atteggiamento spirituale: che riesco a desumere da codesto suo frangente circostanziato ‘in riva al mare’, che descrive fra l’oracolo e l’epigrafe; il quale mi sembra di persona incazzata e vinta, volubile, istericoide, radicale e vile… Sì, un po’ introspettiva, ma al minimo. E plateale al massimo, come lo sono i comici di grado inferiore e le soubrette che battono i teatri di periferia (tutta gente sana e rispettabile – intendiamoci) che finiscono col farti dolere le mascelle. Ma vado con ordine qui… (Perché vorrei veramente capire il disagio che ha finito col crearmi internamente questa poesia.) L’attacco mi sembra ridicolo: alle sei del pomeriggio! E non dici neppure così, Saba, ma “Eran le sei del pomeriggio…” a far cadere per forza il primo accento del verso sulla quarta sillaba. L’effetto è tuttavia come di un ‘ei fu siccome’ di manzoniana memoria, strombettato carduccianamente e finito a gambe all’aria in una sottospecie di lamento lorchiano. Viene voglia di chiederti: hai visto veramente bene l’orologio?… sei certo che non fossero le sei meno dodici? Il dettaglio da casalinga indaffarata che sta attenta ai rintocchi va poeticamente o trattato come metafora (nel “Lamento di Ignazio” la ripetizione delle ‘cinque della sera’ è la campana che suona a morto) o senz’altro omesso ché ci si fa più bella figura. “Dietro al faro…”: Saba, mettiamoci d’accordo. Un faro sta in faccia al mare – è il mare il suo grande punto di riferimento: tra lui e il mare – cioè – ci può essere un po’ di sabbia e qualche macigno, tutt’al più. Ed io, con la mia nave, ci passo davanti, al faro! Dietro il faro c’è solitamente altra sabbia e molto cemento (anche se siamo all’inizio del secolo scorso), il porto se del caso e più lontano ancora la città. Ora proprio in quello spazio interno, dal faro, prima di giungere al porto eventuale, ci si può trovare in abbandono di anni anche un rottame di “naviglio” – parola che ti suggerisco – e più facilmente di barcone o di chiatta… (Ma rottame di nave addirittura, anzi di navi assai/più d’una, no, Saba: e che?, c’è addossato al faro un intero deposito di navi in disarmo, dio mio!) Per cui navi a parte, ritornando al discorso, se io lì intorno – poniamo – me ne sto a lanciar sassi

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IN RIVA AL MARE Cerco di capire perché questa poesia di Saba non mi piaccia… Dissonanze, esagerazioni, immagini poco credibili, una simbologia che mi pare sprecata, qualche grossolanità, l’abborracciatura complessiva del linguaggio: cosa esattamente?… Il linguaggio di questo poeta – dico – così poco liceale, così poco letterario; o almeno malavvezzo alla cultura colta del tempo (basti pensare al D’Annunzio). Soprattutto, penso al suo atteggiamento spirituale: che riesco a desumere da codesto suo frangente circostanziato ‘in riva al mare’, che descrive fra l’oracolo e l’epigrafe; il quale mi sembra di persona incazzata e vinta, volubile, istericoide, radicale e vile… Sì, un po’ introspettiva, ma al minimo. E plateale al massimo, come lo sono i comici di grado inferiore e le soubrette che battono i teatri di periferia (tutta gente sana e rispettabile – intendiamoci) che finiscono col farti dolere le mascelle. Ma vado con ordine qui… (Perché vorrei veramente capire il disagio che ha finito col crearmi internamente questa poesia.) L’attacco mi sembra ridicolo: alle sei del pomeriggio! E non dici neppure così, Saba, ma “Eran le sei del pomeriggio…” a far cadere per forza il primo accento del verso sulla quarta sillaba. L’effetto è tuttavia come di un ‘ei fu siccome’ di manzoniana memoria, strombettato carduccianamente e finito a gambe all’aria in una sottospecie di lamento lorchiano. Viene voglia di chiederti: hai visto veramente bene l’orologio?… sei certo che non fossero le sei meno dodici? Il dettaglio da casalinga indaffarata che sta attenta ai rintocchi va poeticamente o trattato come metafora (nel “Lamento di Ignazio” la ripetizione delle ‘cinque della sera’ è la campana che suona a morto) o senz’altro omesso ché ci si fa più bella figura. “Dietro al faro…”: Saba, mettiamoci d’accordo. Un faro sta in faccia al mare – è il mare il suo grande punto di riferimento: tra lui e il mare – cioè – ci può essere un po’ di sabbia e qualche macigno, tutt’al più. Ed io, con la mia nave, ci passo davanti, al faro! Dietro il faro c’è solitamente altra sabbia e molto cemento (anche se siamo all’inizio del secolo scorso), il porto se del caso e più lontano ancora la città. Ora proprio in quello spazio interno, dal faro, prima di giungere al porto eventuale, ci si può trovare in abbandono di anni anche un rottame di “naviglio” – parola che ti suggerisco – e più facilmente di barcone o di chiatta… (Ma rottame di nave addirittura, anzi di navi assai/più d’una, no, Saba: e che?, c’è addossato al faro un intero deposito di navi in disarmo, dio mio!) Per cui navi a parte, ritornando al discorso, se io lì intorno – poniamo – me ne sto a lanciar sassi in acqua per i cavoli miei, vuol dire che sto davanti al faro e non dietro al faro. Ma la cosa che mi urta in questi primi tuoi, Saba, è il ragazzino che giuoca da solo senza corredo d’altri ragazzini (li hai visti mai giocare insieme, tu, i bambini?). Metafora di cosa?… la solitudine del giuoco del ragazzino – vuoi dire – che prelude alla solitudine del dolore dell’uomo? Tu chiamalo pure ‘fanciullo giocante’, ma se io ne vedessi uno aggirarsi sulla carcassa d’un barcone di sera e in riva al mare (figuriamoci nell’immensità cimiteriale di cotanto deposito di navi!) la sentirei, quella figuretta, in tutta la sua improbabilità teatrale, evocativa, misterica… Come a tirarmela fuori da un quadro di De Chirico. (Fra l’altro me lo fai star seduto il tuo fanciullo giocante sulle carcasse delle navi… – ma va!) L’immagine di te che scagli i sassi sull’acqua poi (sorvolo sul bersaglio puerile e forzato del travotto, anzi della travotta – altra metafora? – che galleggia) è patetica… Patetica, in primo luogo, perché sproporzionata al dolore che dici di vivere. E patetica perché è di per sé divertita/curiosa, dinamica/forzuta, giovanilistica/spensierata (penserei, ecco, che lo faccia se mai il fanciullo che dici, ma non tu in quello stato). Oltre tutto – altra annotazione di fondo – mi sembra che tu stia, per come ti racconti, non tanto al culmine del dolore, ma soltanto all’inizio: perché reagisci, sbraiti e tiri sassi stupidamente al mare. Ma chi tocca veramente il culmine del dolore sperimenta – penso – il silenzio tragico della maschera immobile che guarda…. Giacché se mai guardi il mare, lo fa/lo vede come lo vedrebbero gli occhi d’una perla dentro l’ostrica: nero, annullato, nullificato (vorrei dire, ad inventarmi una parola che mi suona, ‘nullico’). Ed eccoci al coccio… Va bene, ammettiamolo: fra le mani che grufolano per terra in cerca di sassi, ti capita un coccetto di qualche cosa che ti si presta ad un paragone, ad una metafora, ad una analogia (io ho il culto dell’analogia). Anche se mi sembra che tu la fai un po’ brodosa (tanto che

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alcuni tuoi esegeti hanno pensato/potrebbero seguitare a pensare che il coccio è di un oggetto proprio che ti è appartenuto!). Addirittura, nella prima edizione del tuo Canzoniere, del ’21, ci aggiungi giustiziere e teleologico “e che da me s’aveva | l’ultimo moto” (dico il coccio, lanciandolo in acqua, eh!… e che comunque elimini nella trascrizione del ’65 perché solo vuoi dare alla tua una distribuzione di tre ottave – tutto qui). E arrivo in ultimo alla tua ‘barca gialla’ assai naïf. Qui non ho molto da dirti se non che riguardi il mero verseggiare elegante e ordinato in endecasillabi… Io ti propongo, Saba, la mia trascrizione, a seguire… In cui rendo la tua visione meno realistica e più trasognata, come conviene – ad esempio – alla metafora della Morte, che si vuole nell’immaginario nostro noiosamente giallognolo/pallida. Inoltre, il tuo stato d’animo è più credibile (ripristinando, fra l’altro, in luogo di ‘vergogna’ del ’65 zeppo di risentimento il ‘rimorso’ del ’21 meno sdegnato). Infine ti rendo più comprensibile, a noi mortali, il tuo pensiero – mi sembra… (Ma certo penso fra me quanto ti meritassi iroso e geloso com’eri quel giorno in quella tua riva quel ‘soave viso’.)

CITTA’ VECCHIA Le due poesie sono formate da tre strofe di cui la seconda è prolungata e l’ultima è molto breve. I versi variano da endecasillabi a settenari e la rima è sparsa, a volte baciata e a volte alternata; è interessante vedere che nella poesia “Città vecchia” ha fatto rimare le parole: lupanare, mare; detrito, infinito; friggitore, amore, dolore, Signore. Si può notare che ha fatto rimare una parola che rappresenta una cosa quotidiana e una parola aulica facendoci così capire che anche nella quotidianità, banalità e semplicità di un friggitore noi possiamo trovare l’amore, il dolore e il Signore, come possiamo trovare l’infinito in un detrito; se per esempio prendiamo il terremoto di Haiti, la gente trovava in quei detriti del terremoto i resti della felicità della casa e della fraternità.

Il poeta nella poesia “Città vecchia” usa un lessico quotidiano come “lupanare”, “dragone”o “bega” sia per farci immaginare di essere anche noi a Trieste (questo si può vedere anche con la ripetizione di “qui”) sia per far capire che anche se ci sono cose brutte, come le prostitute o il marinaio che bestemmia, lui trova l’umiltà dell’infinito. Infatti l’ultima strofa sottolinea proprio che lui si sente più a suo agio e più se stesso tra gli umili, anche se ha ripreso comunque questo contrasto tra l’odio e l’amore di questa città con un’antitesi all’inizio: oscura via↔giallo di qualche fanale.

Mentre nella poesia “Città vecchia” Saba descrive più le sue emozioni, nella poesia “Trieste” descrive la città dall’alto di una rupe, e non più dalla via turpe. Questa poesia descrive anche il contrasto tra i sentimenti vivi nell’autore che risaltano nelle quattro antitesi: popolosa↔deserta; scontrosa↔grazia; amore↔gelosia e aria tormentosa↔aria natia. “Trieste” presenta un climax discendente che parte dalla città (parola che viene ripetuta molto spesso) e arriva fino alla descrizione di una casa con il ringraziamento dell’autore rivolta alla città per avergli lasciato un angolino, come se il poeta ci volesse far conoscere Trieste dalla sua esteriorità fino al suo cuore e a quello che è veramente, infatti l’uso della parola “scopro” nella seconda strofa ci fa rimanere incerti perché quella era la città dove era nato, quindi la conosceva, ma lui vuole immedesimarsi nel lettore e vuole condurlo a scoprire che Trieste è una bellissima città esteriormente ma che non ti può donare nulla e perciò la paragona ad un ragazzaccio bellissimo che ha mani troppo grandi per donarti un fiore.

Possiamo scoprire con i numerosi enjambement che Umberto Saba si sentiva solo, per questo tende a isolare le parole importanti come appunto la parola “solo” nella prima strofa,

“scontrosa”,“intorno” e “tormentosa” nella seconda, “vita” nella terza.

Analisi

In Città vecchia è la città di Trieste (e i suoi eterogenei abitanti...) che diviene protagonista, insieme a Lina 1, la moglie del poeta, della sezione Trieste e una donna del Canzoniere: il contatto con la

realtà di quel “detrito | di un gran porto di mare” (vv. 7-8), che ingloba in sé, quasi ponendoli sullo

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stesso piano, merci e uomini, è volutamente ricercato dal poeta, che spesso decide di immettersi per quelle strade. È anzi proprio immergendosi in quel mondo che Saba riesce a trovare “l’infinito |

nell’umiltà” (vv. 9-10), e quasi un “sentimento di religiosa adesione”, come ebbe a dire il poeta stesso in Storia e cronistoria del Canzoniere: ed ecco che un “Signore” (v. 19) gli disvela il lato più

puro e autenticamente umano dell’umanità, proprio laddove “più turpe è la via”. Metro: componimento di endecasillabi, intervallati da versi più brevi (dal ternario al settenario), con

libero gioco di rime.

Contenuta nella sezione Trieste e una donna (1910-1912) del Canzoniere , Città vecchia è ovviamente ambientata nel capoluogo giuliano, di cui descrive, quando in apertura il poeta prende sommessamente la parola, il degradato quartiere portuale (appunto il “gran porto di mare” del v. 8).I toni sono volutamente dimessi e colloquiali, come a voler narrare un’esperienza comune e non affatto esclusiva: il rientro a casa implica il contatto con la realtà concreta (“affollata è la strada”), introdotto dalla posizione rilevata del “Giallo” del v. 3, ed è, per chi scrive, un’importante occasione di indagine su se stesso. La seconda strofe presenta infatti l’eterogeneo mondo della “città vecchia”: dall’abitazione privata alla bettola di marinai (l’“osteria”) fino al bordello (il “lupanare”, individuato con un cultismo quasi stridente), è chiaro che l’occhio del poeta si sofferma, nella sua piana descrizione, su una realtà mediocre e - a tratti - infima. Anche il quadro umano tende ad aprirsi verso i ranghi più bassi della scala sociale, come la terza strofe, costruita quasi come un elenco, spiega: uomini di mare, prostitute, figure popolaresche (il “vecchio | che bestemmia, la femmina che bega”) e soldati (il “dragone” alla “bottega | del friggitore”) sono, tuttavia, con un salto di valore netto ed evidente, “creature | della vita e del dolore”, figlie di un Dio che è comune a loro e al poeta medesimo.

Già alla fine della seconda strofe, Saba aveva annunciato di ritrovare “nell’umiltà” dei luoghi della “città vecchia” un che di “infinito”; ora, nei tre versi conclusivi egli può dar conto esplicitamente della sua scoperta per le vie del quartiere popolare: il contatto con la vita nelle sue manifestazioni più semplici ed immediate (o anche “turpi”) è preziosa occasione per una paradossale purificazione (“sento in compagnia | il mio pensiero farsi | più puro”) del proprio intimo essere, della propria identità di uomo.

 

Il gioco, finemente organizzato da Saba, tra realtà esterna e riflessione privata è allora funzionale a mettere al centro di Città vecchia il tema dell’“umiltà” (che non a caso ritorna, variata, al v. 10 e al v. 20), che l’autore trasfigura poeticamente, nel tentativo di unire aulico e prosastico, ricomponendo il disordine del mondo alla luce di una verità (esistenziale e poetica) superiore e nascosta. Come spesso nel Canzoniere   la sensazione di esclusione dalla vita percepita dal poeta diventa la spinta più urgente e pressante per solidarizzare con gli altri, per rinvenire in loro una comune traccia di umanità. La struttura metrica obbedisce a questo proposito: il rispetto delle misure tradizionali e la tecnica tipica dell’autore di unire versi lunghi e brevi (Città vecchia si compone di endecasillabi e misure più brevi, dal ternario al settenario, con schema rimico libero) danno il senso di quello che è stato definito il “conservatorismo metrico” di Saba che, nel quadro della poesia della prima metà del Novecento, colpisce semmai per la sua innovazione tematica, in una sorta di canto dimesso della quotidianità che si apre, in certe occasioni, ai valori più profondi dell’uomo. Come dirà Saba stesso in Storia e cronistoria del "Canzoniere", Città vecchia è “una delle poesie più intense e rivelatrici” da lui composte.

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Analisi del testo poetico “Città vecchia” di U. Saba e confronto con l’omonima canzone di Fabrizio De André. Il quartiere più antico e più malfamato di Trieste è popolato da personaggi umili e squallidi, “detrito di un gran porto di mare”, governati solo dai loro impulsi più infimi. Saba legge nei volti, nei gesti e nelle parole di questa gente ai margini del vivere borghese, la condizione profonda di tutta l’umanità la fusione di vita e dolore insita in ogni creatura. La verità che in esse si manifesta è espressione del divino e l’autenticità della loro bassezza purifica il pensiero poetico. Il componimento presenta una struttura metrica articolata in 4 strofe. La più regolare è la prima, composta da endecasillabi di stampo classico con rima incrociata, ma con assonanza tonica ai vv. 1e 4. La lunghezza dei versi sostiene la narrazione e sembra assecondare il lento e timoroso procedere del poeta mentre attraversa il quartiere antico della città. Nelle strofe seguenti prevalgono altri versi imparisillabi brevi, settenari ( vv. 8 e 21), quinari (vv. 10,14,18), un ternario (v. 16). In quest’ultimi si stagliano parole dense di significato (umiltà – dolore – amore) e che collegate esprimono il nucleo semantico di fondo della poesia: identità di dolore e vita tanto più evidente negli strati più profondi del vissuto e dell’istintualità, non condizionati dalle razionalizzazioni della civiltà. Nella parte centrale del componimento le rime sono prevalentemente alternate, è presenta una rima baciata ai vv.12 e 13 ad evidenziare due immagini di vita popolare( la popolana che litiga e il soldato che siede alla sedia del friggitore). Nel suo procedere attraverso i vicoli oscuri della città vecchia, Saba vive una condizione ignota, quasi di attesa suggerita dalla forte anastrofe dell’aggettivo giallo, nettamente separato dal sostantivo fanale cui si riferisce. Proprio “qui”nei vicoli squallidi il poeta incontra una folla di uomini e merci accomunati indistintamente dall’efficace metafora “detriti di porto”.L’anafora “qui”della 2^, 3^ e 4^ strofa sottolinea la distanza di quel luogo popolato dalle creature più degradate dell’umanità (il bestemmiatore, la popolana litigiosa, la prostituta, la giovane sconvolta..) dal mondo civilizzato,controllato dal progresso e dalla razionalità. In quest’abisso d’umiltà il poeta riconosce l’infinito e Dio stesso che vive in tutte le creature accomunandole. L’ultima strofa contiene una dichiarazione di poetica: mentre il poeta scopre nelle cose piccole le cose più grandi, sente che anche il suo pensiero si eleva. Quindi la sua poesia di purifica e diventa più onesta quando attraversa la “via turpe”, cioè quando parla e racconta la naturalezza istintiva della vita. L’aggettivo turpe in apparente contrasto con puro, smaschera l’ipocrisia del giudizio morale della società borghese che reprime la vera e profonda essenza dell’esistenza, cioè la sua religiosità, anche con la complicità di una certa poesia elitaria e altisonante come quella dannunziana. La ricerca della solidarietà con il reale inteso come profonda totalità vitale,sottolineano la distanza del poeta triestino, da un lato, dai toni aulici della poesia di regime, dall’altro, dall’incomunicabilità della poetica ermetica. La canzone di F. De André si sviluppa in 8 strofe cadenzate quasi sempre da doppia rima baciata, l’ultimo verso di ciascuna strofa, più lungo e seguito da una pausa forte, asseconda il ritmo della mazurca. Il cantautore genovese si ispira spesso a testi letterari che elabora e reinterpreta.

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Significativo a questo proposito è la canzone “Città vecchia”. Le analogie con la poesia di Saba sono evidenti non solo nella scelta del titolo, ma soprattutto nell’atmosfera creata dalla rappresentazione quasi pittorica di quadri divita popolare che animano i quartieri portuali: “... lungo le calate dei vecchi moli, in quell’aria spessa, carica di sale, gonfia di odori lì ci troverai i ladri gli assassini..”. Sono possibili accostamenti tra la canzone della donnaccia ela prostituta, oppure tra i pensionati avventori dell’osteria, avvelenatidal vino e il vecchio che bestemmia. Analogo è anche il senso di solidarietà con cui i due artisti guardano il mondo degli emarginati, i reietti dalla società civile, immagini della schiettezza e della verità che contrasta fortemente con l’ipocrisia e l’ambiguità del vecchio professore. Tuttavia è evidente la divergenza ideologica espressa dai dei due testi:nell’attacco della sua canzone, De Andrè afferma che i quartieri malfamati popolari da poveri emarginati non sono illuminati neppure dai raggi del buon Dio,indifferente e impegnato in altri paraggi; nei versi di Saba Dio è presente e s’agitanelle creature più umili come in tutti gli uomini.Questo flusso vitale comune a tutta l’umanità riscatta anche gli esseri più degradati, mentre De Andrè condanna più apertamente la mentalità borghese e invoca un sentimento di comprensione e di pietà per quei poveri che giudica vittime della società e della storia. MEDITAZIONE

Ogni aspetto della realtà, anche il più umile e consueto, per Saba è degno di amore.La parte centrale del testo svolge una meditazione sul valore immenso di tutto ciò di cui godiamo senza accorgercene, dai beni materiali che ci rendono gradevole la vita, al bene più grande, la parola, che consente i rapporti umani e la comunicazione dei sentimenti tra gli uomini.

La prima parte e l'ultima, separate dalla parte centrale da due grosse pause, costituiscono quasi una cornice intorno a questa meditazione e rappresentano lo scorrere del tempo, dall'inizio della notte, quando davanti alla finestra aperta il poeta comincia la sua riflessione, ai primi segni dell'alba.

In questa poesia Umberto Saba, un poeta che scelse di parlare dei diversi aspetti dell’esistenza con tono pacato, passa dalla contemplazione alla meditazione sul significato del mondo che lo circonda. Verso sera, quando cambia il colore del cielo e si cominciano a vedere le stelle, il poeta guarda dalla finestra e riflette sul valore delle semplici cose che si usano ogni giorno senza pensarci, ma che in realtà sono frutto della storia millenaria degli uomini, fatta di progressi ma anche di privazioni e di sofferenze. È un invito a vivere consapevolmente nel mondo, a non dare per scontato quello che abbiamo.

POESIA

Un altro capitolo sull’essenza della poesia: Umberto Saba in questi versi che risalgono al periodo 1933-1934, ci svela la potenza taumaturgica della poesia, la sua forza non solo di estraniarci dal mondo, ma anche di mutarne la visione. Quell’uomo che cammina in un paesaggio innevato e freddo – facile pensare a Trieste e alle giornate di bora – è lo stesso Saba, avvolto nella sua tristezza mai sopita. La porta che gli si spalanca è la via d’uscita, è la speranza della poesia: entra in quella stanza calda e vi ritrova il ricordo, lo confessa egli stesso in una delle sue prose: “Col passare insomma degli anni, poche cose mi facevano tanto piacere come ritrovare, intatto nella mia memoria, un sonetto composto da ragazzo o anche la lezione originale di un singolo verso”. Tornare fuori, tornare tra la gente dopo questa esperienza, è ritrovare mutato il paesaggio, sereno il cielo, pieno di speranza il giorno. L’angoscia, quella che gli fa dire “Fu come un vano / sospiro / il desiderio improvviso

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d’uscire / di me stesso, di vivere la vita / di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni”, per il momento almeno è superata. Grazie alla poesia.

Saba rappresenta i dolori e i travagli della vita umana come una terribile giornata invernale. Un uomo si aggira per la città percossa da una bufera di neve; l’inverno è così terribile da trasformarsi, con un gioco di parole, in un "inferno polare"; non ci sono luoghi dove ripararsi, quando improvvisamente in un muro si apre una porta. Il poeta entra: questa è la casa della poesia, nella quale si ritrovano persone ormai vive solo nella memoria, ma anche quelle reali e presenti. È il mondo degli affetti e degli amori, che dà al poeta conforto ma anche speranza. E difatti, quando il poeta rientra nella società, trova che il sereno è tornato, che mani operose lavorano per sgombrare la città dalla neve e dal ghiaccio; così scacciato via il gelo dell’inverno, torna l’ottimismo e si può affermare che da un male può nascere un bene-