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SPECIALE SPIRITOTRAIL N o 7 inserto

SpiritoTrail2008-07UTMB

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Anche quest’anno la grande festa del trail si è consumata sui sentieri che circondano Sua Maestà montagne che hanno avuto la fortuna di percorrere uno degli anelli più belli che esista al mondo. E allora poco importa che si sia trattato del Tour completo (UTMB) oppure della “petite” come quando arriverai. Uno di quei viaggi che a chi ti chiede dove stai andando, rispondi semplicemente:

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SPECIALESPIRITOTRAIL No 7

inserto

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U l t r a T r a i l d u M o n t B l a n c

2008

foto © JP CLATOT - Ultra-Trail du Mont-Blanc®

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destinazioneP A R A D I S O

Anche quest’anno la grande festa del trail s i è consumata sui sentieri che circondano Sua Maestà

i l Monte Bianco, la vetta più alta d’Europa. In questa edizione sono stati oltre 5000 i sognatori di

montagne che hanno avuto la fortuna di percorrere uno degli anell i più bell i che esista al mondo.

5000 concorrenti per 5000 sogni e altrettante avventure, in cui c’è stato spazio per ogni tipo di

sentimento: l’entusiasmo e i l dubbio, la stanchezza e l’euforia. Ma anche i l pianto di gioia e la risata di

disperazione, la solitudine più assoluta e la solidarietà con i l trailer che si incontra per caso.

E allora poco importa che si sia trattato del Tour completo (UTMB) oppure della “petite” come

chiamano la CCC: i l sogno è per tutti lo stesso. E a ben vedere, poco importa perfino che si sia

tagliato i l traguardo oppure ci si s ia dovuti r it irare. Come dice Marco Olmo: “alla fine i l vincitore è

sempre i l Monte Bianco, lui è l ì e ci sarà anche l’anno prossimo”.

Noi di Spirito Trail avremmo voluto raccontare tutti i sogni che avete fatto, ma abbiamo potuto

raccogliere solo alcune delle vostre esperienze in uno speciale. Per chi c’era sarà un altro ricordo da

aggiungere a quell i indelebil i che i l Monte Bianco vi ha già impresso a fuoco sul cuore. A tutti gli altr i

farà pronunciare le fatidiche parole “prima o poi…”, preludio di uno di quei viaggi in cui non sai mai

quando arriverai. Uno di quei viaggi che a chi ti chiede dove stai andando, rispondi semplicemente:

“Destinazione Paradiso”!

testo di Leonardo >leosorry< Soresi

foto © JP CLATOT - Ultra-Trail du Mont-Blanc®

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Quest’anno sapevo esattamente a cosa andavo incontro da dopo il Gran Trail

Valdigne, però il gran caldo non mi ha permesso una preparazione come avrei voluto per cui non mi sentivo assolutamente al top. Avevo però fatto un po’ di più del minimo indispensabile per sentirmi a posto per partire. Sono partito tra gli ultimi come l’anno scorso e i primi 8 km li ho impiegati a recuperare posizioni. La prima salita l’ho corricchiata tutta, salvo poi scoprire che l’organizzazione aveva misteriosamente spostato più in basso il primo punto di controllo creando delle fastidiose code (va bene che il “tappino” è il sale del trail, ma stare fermi per un controllo chip fa girare le balle). Appena scollinato affronto la prima facile discesa che però poi devia dal percorso dell’anno passato verso un tratto pieno di radici. A Saint Gervais apprendo con gioia che i primi sono già al ristoro

successivo; breve pit stop e via, la prima parte della gara va presa di ritmo ma su un infido marciapiede rimedio una storta alla caviglia destra. Impreco l’imprecabile, fa un male boia, stringo i lacci e denti e vado avanti nella speranza che il dolore scompaia: così è stato. Arrivo a Les Contamines, cambio maglia e via: testa bassa e pedalare! Croix du Bonhome e discesa verso Les Champieux, dove per la prima volta chiedo l’ora (io corro senza cronometri e altimetri). Inizio la salita al Col de la Seigne con un francese che, una volta capito che lo avevo già fatto, mi chiede se le prossime salite sarebbero state terribili come il Bonhome. Mi metto a ridere e gli dico che il Bonhome a confronto “est une promenade!”. Non l’ho più visto... Scollinato il Col de la Seigne comincio a percepire il vantaggio rispetto all’anno scorso: a Lac Cobal infatti ci arrivo a notte fonda, mentre l’anno scorso era già giorno. Arrivo a Courma alle 7:45. Mi cambio per il giorno cercando anche di sbrigarmi, ma lascio il ravit alle 8.30. Da qui in avanti ho scoperto una cosa nuova di me stesso: ho la testa molto più dura di quello che pensavo. Cado infatti subito in una profonda crisi di sonno che mi fa fare la salita verso il Bertone a passo larvale. Al Bertone mi bagno e mi risveglio e affronto il traverso verso il Bonatti in teoria corribile, ma adesso è la pancia a non darmi tregua: male, male, male. Arrivo al Bonatti e risolvo il problema: “evacuo”.... Quindi via verso Arnuva dove, siccome la “via crucis” iniziata a Courma non mi era bastata, faccio la seguente valutazione: “se mangio ora prima del Ferret vomito, quindi non mangio”. Errorissimo! Affronto il Ferret alle 12.30 con più di 30° e lo sapete vero che l’ombra sul Ferret c’è solo se “ghe riva un veneto de quei boni!”. In salita strisciavo; scollinato mi girava la testa, avevo nausea e il cuore a 1000 Ero vuoto e l’altitudine faceva il resto. Cerco di strisciare verso il ravit di La Paule (me lo ricordavo dal 2007) ma... sorpresa: non c’è più! Solo acqua. Mi siedo, apro lo zaino e mangio 2 barrette enerzona, 2 barrette di carboidrati,

PIANO PIANO...MA NON TROPPOtesto di Gabriele >Mudanda< Bortolotto

Da un punto di vista del percorso,

l’UTMB 2008 ha fatto un salto di

difficoltà abbastanza deciso rispetto

all’edizione 2007. Variata la prima

discesa, il tratto di Saint Gervais e

Les Contamines. Il percorso rimane

poi invariato fino alla discesa dal

Grand Col Ferret dove è stato

tolto il ravit di La Paule ed è stato

inserito un interminabile traverso che

portava a La Fouly. Si prosegue sullo

stesso percorso del 2007 e poi al Col

du Monte la salita verso la Tet du

Vent composta da un “muro” con

500 m D+ e un traverso su pietraia

interminabile, poi 7 km con 1056 m

D- per chiudere in bellezza.

foto © JP CLATOT - Ultra-Trail du Mont-Blanc®

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4 gel, 4 gel diluiti.e acqua Con tutto questo ben di Dio nello stomaco affronto il traverso verso La Fouly dove giungo alle 15. Di nuovo gel, brodo, pane, prosciutto: un bel “ripiglino” e poi via verso Champex. Qui trovo Duff74, mio compagno di via tra il Col de la Seigne e Courma, che si era ritirato e che mi ha fatto assistenza. Mi ha nutrito e incoraggiato, ne avevo bisogno: correre così a lungo da solo e attraversare le crisi che vi ho descritto da solo è stato durissimo (ma la testa è stata più dura del previsto!). Solo chi ha fatto l’UTMB può capire cosa significa lasciare Champex conoscendo Bovine e Catogne... A dire il vero a me mancava l’ultimo supplizio. Riesco a fare la salita della Bovine con il chiaro, ma la discesa no, e questo mi rallenta molto. Arrivo a Trient, mangio cercando poi di affrontare la salita della Catogne “tenendomene un po’” per l’ultima salita, che secondo me è stata

la stonatura di questo UTMB. Un muro, tutto a gradini di roccia e “voltoline”, con il serio rischio di far cadere delle pietre su quelli sotto. Alle fine del muro partiva un traverso su pietraia dove di notte il sentiero non si vedeva bene. Io mi sono perso almeno 5 volte, trovandomi con il burrone sotto i piedi. In questo tratto inoltre non c’era ombra di assistenza. Insomma, l’insieme tra difficoltà della salita, percorso impervio e chilometraggio facevano di questo tratto un passaggio a mio avviso pericoloso. Arrivato al punto di controllo a Tet du Vent copro di insulti con il mio francese maccheronico il “benevol” di turno che si sciroppa tutto il mio sfogo e alla fine mi dice “mais tu l’as deja fait...” (ma l’hai già fatta). Non mi resta che concordare e proseguire. Segue un traverso in leggera discesa che poi risale fino a La Flegere, ultimo ristoro. Non mi fermo neanche,

ormai l’interruttore in testa era sulla posizione “Finisher”. E quindi giù a tutta per la discesa, ne avevo ancora. Verso la fine subisco l’unico sorpasso di tutta la discesa da parte di Jashid, un americano. Mancano meno di due km al traguardo e la cosa mi fa abbastanza girare le balle. Reagisco e non lo mollo, lui si gira in continuazione, e a 1 km dalla fine parto in progressione (sicuramente sotto i 5’ al km). Lui tenta la reazione ma il mio avvicinamento è inesorabile: TAM TAM TAM... Allora si ferma, mancano le ultime due curve e mi chiede di arrivare insieme. Gli dico che visto che lo avevo già finito l’anno scorso per me non c’erano problemi se voleva arrivare da solo per la foto all’arrivo. Lui mi risponde che vuole arrivare con me perché “you do a great job man!”. Non posso che concordare e alzare la sua mano nel tagliare il traguardo: GOOD JOB MUDANDA! ▼

Testo di Roberta >robychao< Peron

Svegliarmi nel cuore della notte per un tuono e pensare a come sarebbe andata se solo questo temporale fosse arrivato qualche ora prima. C’è un tempo per partire e un tempo per restare: è stato molto difficile capire il confine

tra le due cose in questa mia esperienza all’UTMB! Era già un paio di mesi che la pelle d’oca affiorava al solo pensiero dell’evento.

Al pomeriggio del venerdì mi dico: sono qui per caso, però ho tanta voglia di farlo, di partire assieme a questa interminabile parata di colorati ed emozionati trailers. Sembra di essere in una favola, non capisco niente, e dopo aver

perso i vari amici nella calca svuoto completamente la mia testa e lascio che tutto ciò che vedo e sento entri in me.

E’ magnifico. Elettrica l’attesa.

ELETTRICA ATTESAfoto © JP CLATOT - Ultra-Trail du Mont-Blanc®

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Tutti di corsa, almeno tutti quelli che sono vicini a me. Guardo la gente, non so se ridere o piangere, so solo che

sarò protagonista. Sul Monte Bianco c’è il tramonto che mi fermo a fotografare. Che meraviglia, riesco a vedere le tracce di salita verso il Grand Mulets e penso a quanto siamo fortunati. Dopo un po’ la calca assurda per il controllo: rompe proprio doversi fermare per una motivazione del genere. Affronto la prima discesa senza pila, da incosciente, poi però ragiono e la metto. Dopo un po’ si avvicina un ragazzo che riconosco come compagno di Cromagnon 2007. Non ci vedevamo da più di un anno, lui è qui da solo e non è molto motivato. Parliamo un po’, fino a quel momento io me ne ero rimasta zitta zitta con me stessa ad assaporare il viaggio. Mi fa piacere stare con lui, così decidiamo di proseguire insieme. L’arrivo a Saint-Gervais è veramente emozionante, è una grande festa per noi. A Les Contamines comincio già a vedere qualcuno che sta male. “Porca miseria –penso- di già...”. Via, preferisco ripartire quasi subito e iniziare la salita strepitosa verso La Balme. Che dire questa lunghissima colonna di lucine davanti e dietro: magnifico! Sempre gente ad ogni dove a dirci “bravò!”, tamburi, falò; a dire il vero ho visto anche tanta gente ubriaca... un festone insomma.

Lentamente siamo arrivati all’alba al border tra Francia e Italia. Eravamo passati bene a Les Chapieux, poi abbiamo un po’ ridotto il ritmo. Salita al Col de la Seigne e giù alla vista del Rifugio Elisabetta. Il Bianco sempre lì: imponente ed immobile in perenne stato meditativo. Felice mi dice che vuole ritirarsi, ha i piedi che gli fanno malissimo, è molto indeciso. Lo lascio alle sue decisioni: qui non si può forzare una persona, ma Courmayeur è troppo vicina per mollare adesso. Ripartiamo quindi alla volta del Mont Favre e poi ci lasciamo andare giù al colle. Danzatrici del ventre in action: non resisto, faccio una foto e mi metto a fare un po’ di “spettacolo” con loro. Sono qui anche per divertirmi! Courmayeur mi accoglie con l’abbraccio degli amici di Dolonne, erano lì fuori dal bar dello skilift ad aspettarmi, è stato bellissimo. Bene, mi dico, 78 sono fatti.

Con gioia vedo Felice che si prepara per ripartire, siamo stati fermi un bel po’, ma che ci vuoi fare: ti cambi, la fila per mangiare, la fila per andare in bagno... è la nostra pausa. La cosa che non mi piace da questa partenza è la presenza del troppo asfalto, ma tra un “batti 5” e un altro raggiungiamo l’inizio del sentiero molto ripido per il Rifugio Bertone. Massacrante questa salita, ma niente al confronto dell’infinito traverso per raggiungere il Rifugio Bonatti e poi Arnuva: sotto un sole cocente è stato uno dei pezzi più duri, non si arrivava più. Da questo lato l’imponenza del massiccio è

ancora più evidente. Cerco di individuare i rifugi, ma sono così lontani da non capire la quota. Mi fa una strana impressione, penso già all’anno prossimo e alla salita che vorrò fare alla cima dal Gonella.

Salgo al Col Ferret molto lentamente, siamo quasi al novantesimo chilometro con una notte alle spalle, mai avuto una crisi, una fortuna bestiale e... siamo in Svizzera. Nella discesa comincio ad avvertire dolore alle ginocchia, poco poco, poi sempre di più. Sembra un agonia, Felice mi chiede se il suo passo va bene, sta camminando lento in discesa ma io non riesco a stare con lui. Piano piano lo perdo di vista e lo vedo allontanarsi sempre di più. Impreco, spero non mi senta nessuno. Mi fermo e comincio a prendere dallo zaino l’arnica e le bende. Mi faccio un massaggio e tento di bloccare con una fasciatura la rotula in modo da ridurre il dolore, ma mi tocca aggiungerci anche un Aulin. Lentamente parto e comincio ad arrabbiarmi: non esiste che adesso mi debba bloccare per questa cazzata, così stringo i denti e a ritmo alterno cerco di raggiungere la tappa successiva che è La Fouly. Entro al ristoro e la prima cosa che faccio è cercare Felice: non sarà già partito spero! Ma non lo vedo; poi intravedo il suo cappello, lo raggiungo e... ammazza se è stata dura arrivare lì, è stupefatto anche lui. Andiamo. Si aggiunge a noi anche Paolo di Torino che altrimenti avrebbe mollato. E’ buio e comincia per noi la seconda notte fuori.

E’ pazzesco, un po’ mi tocca andare piano per le ginocchia, un po’ comincia a prendermi il sonno. Le allucinazioni non tardano ad arrivare su un sentiero che mi è parso uscito da un libro di Tolkien. Questo stretto sentiero con parete attrezzata da un lato e strapiombo dall’altra. Ogni tanto guardo se qualcuno è caduto giù e devo assolutamente concentrarmi per non finire sotto: mi è parso interminabile e parecchio pericoloso. Barcollo ma non mollo, con i miei due amici è difficile, mi aiutano tanto in questa parte di percorso, mi aspettano e si prendono cura di me. Qui comincio a vedere i primi crolli, ogni tanto c’è qualcuno che cade addormentato sul sentiero e lì rimane. Come siamo masochisti però... Tutte questa allucinazioni ci portano a Champex, secondo cambio, 122 km dall’inizio. Qui la decisione di farsi curare: Felice alle innumerevoli vesciche ai piedi, io mi faccio fare una fasciatura decente a tutte e due le ginocchia, un lavoro certosino che allo stesso tempo mi permette di riposare una mezz’oretta, e manca poco che mi addormenti. Un piatto di pasta in velocità e via, si deve ripartire, c’è il Bovine che ci aspetta.

Ero terrorizzata da questa ultima parte del percorso, me l’avevano descritta come

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micidiale, dura, al limite. Cominciamo la salita e subito mi piace, è un terreno tra i miei preferiti e nonostante il sonno che continua a perseguitarmi lo vivo bene. La discesa a Trient invece è un po’ più dura, non mi fa ancora effetto il secondo antinfiammatorio che ho preso e ho un po’ di problemi. Trient non me la dimenticherò mai... La raggiungiamo all’alba, un freddo cane, il sonno ghiacciato pure lui. Finalmente riesco ad andare in bagno e questo mi fa stare meglio. Ci stiamo mettendo un po’ di fretta perché ora si cominciano a fare calcoli, ci rendiamo conto che i chilometraggi sono sbagliati, dobbiamo arrivare con un buon margine di sicurezza al prossimo cancello, dopo ci aspettano altri 17 km con un “millino” D+ e non vorrei arrivare oltre il tempo massimo. Salita al Catogne con “ritmo Felice”, piano, regolare, senza sosta. Assieme anche a Fabio e Paolo di Verona scendiamo a ritmo semiveloce fino al cancello, raggiungendolo alle 10, un’ora e un quarto prima della chiusura: un buon lavoro. Siamo a Vallorcine, c’è il sole ma è un po’ coperto. Mi fermo solo il tempo di riempire la borraccia, prendere 3 o 4 biscotti al

cioccolato e riparto. Non sento più male, comincio a tirare il falsopiano senza però mai correre, sarebbe controproducente. Cominciamo a guardarci attorno per tentare di capire dove dobbiamo salire, non si vede niente finché, non mi par vero, vedo questa parete verticale e una lentissima fila di colori che sale. Accidenti, io ho lasciato a casa l’imbrago, le corde, i moschettoni... questi sono pazzi. Ci guardiamo: chi fa il passo? Io parto lentamente, tutti gli altri mi seguono e mi tengono d’occhio. Non aumentare -mi dico- e tieni questo passo. Comincio il mio mantra, comincio a contare, controllo il mio respiro e mi accorgo che funziona. Stiamo salendo bene, tutti in silenzio, una piccola processione. Qui non c’è acqua porca miseria, ci sarà un punto d’acqua lì sopra... Niente, cerchiamo il pallone giallo del ristoro ma non si vede. E allora ci arrabbiamo, ma vedi un po’ se non devono mettere acqua in un posto così, e per fortuna che il sole non batteva. Quando raggiungiamo il pallone ci vogliono dare solo un bicchiere, ci dicono che c’è il ristoro poco più avanti: proprio non ci capiscono nulla delle distanze ‘sti francesi, e gli vomitiamo addosso un po’ di incazzatura.

Meno 7 km, discesa, sto bene, il mio cuore vede già l’arrivo. Comincio ad agitarmi e non riesco a trattenermi. Ciao ragazzi, ci si vede laggiù alla fine, ognuno faccia il suo! E parto, prima corricchiando la discesa, poi vedo che tengo anche nella salitina che mi aspettavo ben più dura. Un bicchiere al ristoro intermedio e via: uno-due, uno-due, uno-due, ogni tanto controllo l’altimetro e guardo le case giù a Chamonix. Ci siamo quasi, dovrei chiuderla prima delle 44 ore. E’ interminabile ma non mi fermo mai, Felice è più avanti, va bene così. Comincio a vedere più gente, quando si accorgono che sono una donna incitano di più, io sono gasatissima, un po’ me ne vergogno ma mi prendo tutto e continuo a correre, vedo l’asfalto, riconosco il viale... ci siamo. Mi viene un nodo alla gola ma continuo a sorridere. La sfilata in piazza, non capisco più nulla, mi chiedo quanto durerà, non sento neanche cosa dicono ma faccio salti di gioia fino al traguardo. Non mi pare vero, sono arrivata, chi l’avrebbe detto... forse dovrei ringraziare qualcuno. ▼ ROBERTA - FINISHER UTMB 2008 - 43:35.40

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positivo dà un’ottima mano a superare le crisi, ma anche il non dimenticare di ascoltare il proprio corpo. Vediamo un po’ di cosette che oggettivamente non sono da sottovalutare: di giorno ha fatto un caldo bestiale con un sole a picco e una polvere che seccava la gola; le salite presenti sono tutt’altro che tenere; non era così difficile farsi male.

di MUDANDA il mercoledì 3 settembre 2008, 21:22 L’edizione 2008 ha avuto il 52% di arrivati contro il 62% del 2007 (record) e le percentuali sotto il 50% degli anni passati. Le edizioni più “omogenee” per essere confrontate significativamente sono il 2007 e il 2008. Nel 2006 infatti la pioggia dalle 16 del sabato pomeriggio aveva aggiunto un fattore esterno e negli anni prima chilometraggio e dislivello erano inferiori. Il perché del 10% in più di ritirati del 2008, che sono circa 250 persone, secondo me va ricercato nel gran caldo della giornata di sabato. Il versante italiano era un forno, e nella durezza dell’ultima parte del percorso (ultima salita) dove era facile uscire fuori tempo massimo se non si arrivava con un buon margine. Un altro aspetto a mio avviso “fisiologico” dell’elevato numero di ritirati è l’approccio “nazionale” alla gara. Mi spiego: tendenzialmente un italiano cerca di allenarsi scrupolosamente per affrontare una gara del genere, i francesi invece, che hanno a disposizione il numero più elevato di posti, hanno un approccio a queste gare molto alla “va là che va ben”… e pagano dazio.

di marcobummi il giovedì 4 settembre 2008, 10:21 Un primo elemento che determina tanti ritiri è la mancanza di altre gare simili all’UTMB sulle quali poter fare dei test attendibili che permettano ai partecipanti di partire con una ragionevole speranza di poter arrivare fino in fondo. Un altro elemento che secondo me non va sottovalutato è il blasone e l’alone di mito che questa competizione possiede. Se in Italia questa gara è un mito nel

Abbiamo assistito durante i giochi olimpici al clamoroso ritiro del

cinese Liu Xiang nei 110 ostacoli, considerato un eroe in patria e che ha mandato in “lutto” l’intera Cina.

Anche noi, nel nostro piccolo, a volte dobbiamo gettare la spugna

e abbandonare l’impresa, forse con meno clamore mediatico

ma certamente con altrettanto sconforto. Dalla nostra abbiamo

perlomeno il fattore distanza, che non si limita a 110 metri; gli ostacoli

poi, li misuriamo in D+… Ma perché si registrano così tanti

ritirati all’UTMB? Se ne è discusso sul forum di www.spiritotrail.it

di MIKI il mercoledì 3 settembre 2008, 17:32 Quello che mi sorprende dell’UTMB oltre alla magnificenza dell’organizzazione è il numero di ritirati sia nella gara lunga che in quella corta. Per me è intrigante capire la causa di una simile ecatombe. L’ inesperienza? L’ inadeguatezza del metodo che regola le gare di selezione? L’ allenamento? La preparazione mentale? Oppure il fascino della gara fa dimenticare i propri limiti, che poi ritrovi tutti lungo il percorso?

di fioldelbosk il mercoledì 3 settembre 2008, 18:31 Penso che ogni gara sia una storia a sé per ciascuno di noi e questo vale ancor di più per gare come UTMB e CCC. La fatica si fa sentire e la testa ad un certo punto se ne va a zonzo. Si mette alla prova il fisico, ma soprattutto la mente e la psiche ed è facile ad un certo punto mollare, soprattutto se si prova dentro di sé un senso di sconfitta imminente. Questione di allenamento? Se fosse solo per l’allenamento fisico, io avrei dovuto aver benzina per correre al massimo 60 km. Questione di motivazioni? Il pensar

mondo degli appassionati, in Francia l’alone di mito ha sfondato la ristretta cerchia dei trailer. Ovvio che in condizioni simili finisce che si iscrivano anche persone non adeguatamente preparate, se vogliamo è un po’ il prezzo che si deve pagare sull’altare della popolarità. Più in generale mi sembra che le competizioni ultra vengono ancora associate troppo spesso alle maratone su strada, c’è molta gente che pensa che camminare sui sentieri in montagna, sia pure per due giorni di seguito, sia una cosa molto simile alla corsa su strada protratta per 4 ore. Mentre sulla maratona si sta cominciando a diffondere un po’ di cultura diffusa, sulle competizioni ultra c’è ancora molta strada da fare.

di Checo il giovedì 4 settembre 2008, 10:48 Io penso sia essenzialmente un problema di distanza in rapporto alla fisiologia umana. Se su una dieci km hai qualche problema, in qualche modo alla fine ci arrivi. Se in una maratona hai qualche problema, e capita spesso, in qualche modo stringendo i denti alla fine ci arrivi. Se in una ultra hai qualche problema, è normale che succeda, devi essere preparato fisicamente e mentalmente per superarlo, e stringendo i denti alla fine ci arrivi. Quando vai sui cento e passa, sai che i problemi sono i tuoi compagni di viaggio, e che per arrivare alla fine devi fare violenza su te stesso. Il problema vero è capire quando è il caso di fermarsi, quando il continuare farebbe troppi danni all’organismo. In una dieci km si rischia il mal di gambe, dalla maratona in su si può rischiare anche la vita. Personalmente ho la più grande ammirazione per chi porta a termine le corse, rispetto e ammiro anche di più chi sa accettare la sconfitta e si ritira per non farsi troppo male; per divertimento non avrebbe senso.

di lamberto il giovedì 4 settembre 2008, 11:32 Dall’UTMB di quest’anno ho imparato che oltre all’allenamento e alla forza di volontà serve anche una buona

arrivare o non arrivare...QUESTO E’ IL PROBLEMATesto di Francesco >checo< Zanchetta

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pianificazione per come affrontare l’evento, soprattutto se l’impegno previsto è superiore alle 35/40 ore. Se manca uno dei requisiti, allenamento, forza di volontà e pianificazione, o durante la gara intervengono dei problemi fisici non facilmente risolvibili, ritengo inopportuno oltre che molto difficoltoso proseguire. Si ritira anche Olmo, atleta fantastico, pertanto anche se è difficile da accettare, e io ne so qualcosa, bisogna anche considerare di dover gettare la spugna.

di ticci il giovedì 4 settembre 2008, 14:40 Allenamento, inesperienza, fattori climatici, un infortunio: sono diverse le motivazioni per cui molti si sono ritirati, ma questo fa parte della “quota fisiologica”. La vera differenza secondo me è nel fattore mentale: l’unico atteggiamento possibile è quello della sofferenza, perché non è questione se arriva la crisi, ma quando e quanto! Se uno la fa per dire io c’ero... difficile superare le crisi. Molti credo affrontino l’utmb con questo atteggiamento, e questo e’ dovuto al travaso dalla strada al trail. Da questo punto di vista ben venga l’obbligo di aver finito altri trail per poter partecipare, in modo da arrivare per gradi.

di Cubettoz il giovedì 4 settembre 2008, 16:11 Io penso che muscolarmente tutti i partecipanti abbiano nelle gambe la gara; i problemi sono altri. Ognuno di noi ha un tallone d’Achille o un piccolo acciacco che all’UTMB vengo ingigantiti a dismisura! Nel mio caso sono arrivato a Courmayeur fresco come una rosa, ma le mie tibie non la pensavano così. Questo è il mio punto debole: nel 2007 alla CCC stesso problema, solo che mancando 10 km stringi i denti e arrivi nei 300! Qui non sei nemmeno a metà e se non corri in discesa…

di rafblu il giovedì 4 settembre 2008, 17:34 Ho affrontato l’utmb nei primi anni della sua comparsa quando non c’erano problemi di iscrizione e faccio parte anch’io di quelli che si sono ritirati. Dal mio punto di vista ho commesso tanti piccoli errori ma quello principale è stato aver affrontato la gara con la mentalità sbagliata, più da alpinista che da trailer. Ero molto in vantaggio sui cancelli, non avevo problemi fisici e stavo abbastanza bene, eppure mi sono ritirato. Per me è stato come se fossi arrivato quasi in cima ad una montagna e per avverse condizioni o pericoli oggettivi troppo alti avessi deciso che era meglio tornare indietro per non rischiare la vita. Io non mi sono mai considerato un ritirato, ma una persona che a un certo punto ha deciso di fermarsi. ▼

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Julien Chorier (Team Lafuma, 3° assoluto) Venerdì a mezzogiorno ho consumato l’ultimo pasto sulla terrazza dell’hotel Mercure con tutto il Team Lafuma, un po’ di pasta, del riso e del pesce, poi la “siesta”. In generale lungo tutto il percorso ho bevuto 05, litri/ora di bevanda Authentic Booster (ricostituisce le riserve di glicogeno) e ogni 40’ ho preso un Authentic Energy Gel. Nella prima parte della gara, fino a la Fouly, sono riuscito a nutrirmi con qualcosa di solido, in tutto 4 dolci di fiocchi d’avena, della minestra con spaghettini. Ricordo con piacere il Col

Checrouit, un’accoglienza eccezionale e una pasta di qualità! A Courmayeur e Arnouva sono riuscito a mangiare della pasta e del prosciutto, ma a partire da La Fouly nella Val Ferret svizzera, non sono più riuscito a nutrirmi, non so se il problema è stato il caldo, ma nello stomaco passavano solo i gel.

Antoine Guillon (Team Lafuma, 6° assoluto) Avevo preparato la gestione dell’alimentazione e della reidratazione nei giorni precedenti, ma in genere posso cambiare in corsa la strategia in funzione delle sensazioni. Sono partito da Chamonix con 2 barrette

di cereali, un gel nel fondo del camelbag in caso di necessità e qualche dattero. Per quanto riguarda la bevanda, avevo una boccetta con sciroppo (zuccheri rapidi, zuccheri lenti e sali) One di Go2, ho usato questo prodotto solo fino a Les Chapieux. Dopo non avevo delle buone sensazioni con i prodotti energetici, così ho attuato la stessa tecnica del Grand Raid de la Reunion (dove è giunto secondo, n.d.r.), acqua e coca cola mischiate nel camelbag. Per quanto riguarda l’alimentazione, non sopportavo i prodotti zuccherati, ho mangiato quindi della minestra con spaghettini,

Dopo tre edizioni passate a fare assistenza all’ultratrail del Monte Bianco, mi sento di dire che la parte più difficile da gestire è sicuramente l’alimentazione. In queste ultime edizioni ho visto fior di campioni doversi arrendere a causa di

problemi di vomito o perché non più in grado di alimentarsi, atleti ben preparati fisicamente, che hanno potuto provare il percorso precedentemente, che non hanno mai avuto problemi alimentari nelle altre gare.

L’UTMB deve essere proprio una “brutta bestia” da domare; fra le cause principali, mi sentirei di dire, c’è la partenza anomala alle 18.30. Credo che partendo a quest’ora, in molti possano sentire particolarmente la gara, dovendo gestire un’attesa eterna sin dal risveglio mattutino. Anche l’attesa dello start sotto il sole del pomeriggio può indurre a bere più

del necessario nella prima parte, per trovarsi poi dopo qualche ora al buio con temperature decisamente più basse. Questo notevole sbalzo di temperatura può causare qualche problema di stomaco e intestino, anche senza avvertire

nessun segno premonitore (freddo) Ma non c’è nulla di meglio che sentire i pareri dei protagonisti.

PANCIA MIA...Testo di Maurizio >maudellevette< Scilla

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banane, datteri e qualche barretta. Riepilogando: Partenza: 1 litro d’acqua con bevanda energetica One di Go2, 2 barrette, 1 gel e qualche dattero Le Houches: nulla St. Gervais: stop per 1 litro d’acqua e bevanda One, ho mangiato una mezza banana e preso una decina di datteri Les Contamines: preso 5 datteri, 2 barrette e mangiato mezza banana La Balme: acqua + coca (2 bicchieri per un 1 litro d’acqua) Les Chapieux: mangiato una minestra e una mezza banana, acqua e prodotto energetico Rifugio Elisabetta: mezza banana e svuotato il camelbag per rimpiazzare il prodotto energetico che non mi va più giù, con acqua e coca Courmayeur: visto che lo zucchero proprio non mi andava, ho mangiato della pasta nella minestra, poi una mezza banana; mia moglia Anne mi ha dato della frutta secca, datteri, fichi e 2 barrette Rifugio Bertone: sono nauseato, di dolce non ne voglio sapere, così mangio una minestra e prendo mezza banana, faccio scorta d’acqua Rifugio Bonatti: va meglio, così rimetto della coca nell’acqua Arnuva: minestra, mezza banana, acqua e coca La Fouly: minestra, banana, prendo della frutta secca, acqua e coca Champex: minestra, banana, composta di frutta, acqua e coca Bovine: acqua & coca, un po’ di gel sulla salita al col de Bovine Trient: minestra, banana, acqua e coca Vallorcine: minestra, banana, prendo della frutta secca, acqua e coca Flégère: acqua e coca, nient’altro.

Massimo Tagliaferri (Polisportiva Pagnona, 10° assoluto e primo italiano) La gestione alimentare e la reidratazione per l’UTMB è stata preparata e provata

accuratamente prima della partenza. Per le prime ore di gara ho cercato di utilizzare barrette “a zona” che apportano anche un discreto contenuto proteico, fondamentale per una gara così lunga. Poi ho iniziato ad alternare barrette a gel e, dal 100° km. circa, quasi esclusivamente gel più qualche pezzo di formaggio. Oltre a trarne beneficio fisico, erano le uniche cose che riuscivo ad ingerire. Nonostante ciò credo di essermi ben alimentato, tranne forse negli ultimi 20 km dove ho trascurato un po’ l’apporto alimentare, cosa che mi ha causato una crisi poi superata con dei gel ad assorbimento rapido; penso non si riesca comunque ad assumere abbastanza cibo rispetto alle calorie bruciate. A fronte di un consumo medio di 800kcal/ora, penso di avere integrato 300/400kcal/ora massimo e i 6 kg persi a fine gara lo dimostrano. Per la reidratazione, ho preparato un mix di sali, maltodestrine e aminoacidi in soluzione bilanciata, ma soprattutto gradevole al gusto personale. Credo di avere assunto più o meno 1 litro di liquidi ogni ora. Ho fatto inoltre uso di molta Coca-Cola, sempre gradita in ogni momento, così come di caffè e qualche sorso di sali misti a polvere di guaranà. Queste comunque sono scelte molto personali; consiglio quindi ad ognuno di provare e riprovare fino a trovare quello che più soddisfa e soprattutto non crea problemi a sé stessi.

Jerome Challier (Team Lafuma, 16° assoluto) Per quanto mi riguarda, l’alimentazione è stata determinante nella riuscita della mia gara; sovente soggetto a crampi dopo 3/4 ore di corsa, ho modificato la mia dieta un mese prima dell’UTMB seguendo i consigli di Karine Herry. Pensavo di far parte dei buoni allievi in termini di alimentazione con molte verdure (del mio orto), di semi

germogliati, poca carne e pochi eccessi; ma ho migliorato ancora la situazione con l’eliminazione quasi totale del formaggio, del caffé e un apporto più frequente di pesce. Questo ha dato i suoi frutti, nessuna sensazione di crampi lungo tutto il tracciato, anche durante la mia agonia al rif. Bertone dove non avevo più forza né energia. Per quanto riguarda la gestione della corsa, ho bevuto della bevanda isotonica e ho cercato di prendere una barretta di cereali o un gel ogni 30’. Durante le prime 6 ore ho potuto alternare gel e barrette, dopo invece anche forzando non riuscivo più ad alimentarmi, solo il brodo. Era dunque inevitabile che arrivasse il momento critico, infatti la salita al rif. Bertone è stata un calvario con una fatica enorme! Mi sono permesso il lusso di dormire 10 minuti al rifugio su un buon letto, ringrazio il volontario che è venuto a risvegliarmi, c’è voluta una buona mezz’ora prima che ritrovassi un po’ di forza. Ho potuto così ricominciare a mangiare, ogni 30’ una barretta e soprattutto una grande tazza di brodo a ogni ristoro. Il brodo è stato veramente l’elemento più importante perchè riuscivo a berlo anche quando le barrette mi erano indigeste, ho sempre consumato le mie perché quelle fornite dall’organizzazione erano troppo dure e difficili da digerire. Quanto alle bevande, il mio orologio suonava ogni 10 minuti per ricordarmi di bere: con la fatica a volte ci si dimentica! ▼

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MENTRE LUI CORRE,LEI . . .

Mio marito non ha avuto molti hobby, ma quei pochi li ha vissuti sempre con moltissima

passione... forse troppa? Da 4 anni corre, ha iniziato con mezz’oretta qualche sera alla settimana per tenersi in forma; dopo 2 mesi la prima maratona e oggi se la corsa non è tra salite e discese ripidissime e lunga tanto che chiunque altro prenderebbe l’auto o il treno per coprirne la distanza, non è contento. Ho imparato che quella in montagna non si chiama più corsa, ma trail e che le gare che lui ama sono gli ultra, ovvio, sempre perché dev’essere esagerato! Non ci vuole un genio per capire che per correre tanto bisogna allenarsi tanto, il che significa che lui corre ogni giorno. Vento, pioggia, freddo, afa, caldo: non lo ferma niente. Il giorno di Natale? Pasqua? Un sacrificio: un po’ di tapis roulant. Nei fine settimana ci sono le gare, in tutti i fine settimana, anzi, avendo il dono dell’ubiquità

se ne potrebbero fare ancora di più. Va beh, in fin dei conti deve pur ammortizzare le spese fatte per avere il top dell’attrezzatura, no? Vogliamo parlare dei calzini coi fili d’argento? Io sinceramente i fili d’argento li metto al collo, anzi, ora che ci penso preferisco i fili di perle... E che dire delle circa 20 paia di scarpe che una volta si chiamavano semplicemente “scarpe da ginnastica”? Io gliele butto tutte in un cesto, tanto sono praticamente tutte uguali! Lui inorridisce e le differenzia con tanta cura: ci sono quelle per l’asfalto, per il fango, la salita, la discesa, insomma una per ogni occasione, come me con le diverse misure di tacco! Ho perso il conto invece di maglie e magliette, anche perché a ogni gara gliene regalano una, quindi tra queste e quelle che lui compra, la crescita è

esponenziale, l’armadio trabocca. Anche qui ovviamente avrei qualcosa da ridire, sugli accostamenti cromatici, chissà che col tempo migliorino, ma mi sa che non è fondamentale per andare più forte, però in questo potrei dare una mano io! Una volta dopo una gara l’ho scoperto a spalmarsi sulle gambe la mia crema anticellulite perché dava un effetto fresco sulla pelle! Ehm... mi sa che sto scendendo un po’ troppo nell’intimo, meglio tornare ad argomenti più seri. Avevo iniziato a seguirlo in qualche maratona: Roma, Barcellona, dove per le 3 ore e poco più di gara potevo gironzolare in bei posti mentre lo aspettavo, ma poi quando le gare hanno iniziato a durare 8, 10, 18 ore… non l’ho più fatto. Vi sembrerò malata: è molto strano che io non abbia questa passione? E va beh, è così. Poi scusate, io amo girare per negozi e fare shopping, e lui certo non mi accompagna! Inoltre più la gara è lunga e più l’organizzano in luoghi sperduti

tra i monti e in quei posti, sapete, non ci sono mica tante vetrine da guardare! Così gli anni scorsi, nei week end in cui lui era in montagna a correre (da maggio a settembre tutti), io me ne andavo al mare: ero talmente abbronzata che mi chiedevano se fossi straniera. L’anno scorso ero incinta e gli ho fatto promettere che quest’anno avrebbe partecipato a meno gare, che sarebbe stato a casa per trascorrere più tempo con me e la nostra bimba, ma figuriamoci, andando avanti così mi dirà che se la bimba vuole stare con lui deve corrergli dietro! In questo periodo, un po’ per il solito detto che se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto, anche se io e la bimba non lo accompagniamo nelle varie trasferte, mi interesso di più a questa sua passione e gli sono “più

vicina” (no, non intendo che gli stiro le mise per la gara...). E sto migliorando: ho imparato che le salite e le discese sono i dislivelli, che ogni tanto durante queste sfacchinate si ferma, mangia, e soprattutto ho appreso che c’è un sacco di gente che ha la sua stessa passione. Beh, esagerati come lui ce ne sono pochi. Ho seguito la sua ultima impresa on line, è sufficiente la citi con la sigla (non chiedete a me il perché, ma in quest’ambiente abbreviano tutto con le sigle): UTMB. Ricevevo dall’organizzazione un sms ad ogni suo passaggio registrato e controllavo in internet chi stava vincendo, chi si ritirava. Ho sbirciato nel sito in cui lui scrive e tramite il quale ha trovato tanti compagni di avventura e così... eccomi qua, ammaliata anch’io! Ho scoperto che ha addirittura un sacco di ammiratori delle sue imprese, ecco perché non mi ascolta quando gli dico di stare a casa! Chissà, magari prossimamente andrò in giro per negozi correndo... ▼

Testo e foto di Sabrina >M’s wife< Natante

Chi partecipa a gare lunghe, si sa, ha bisogno di allenarsi molto,

e spesso questo significa fare i conti con chi, pur amando il

proprio “ultra-partner”, non ne condivide la passione. Ecco

come una delle “vittime” vive questo ruolo, con un misto di

rassegnazione e di comunione.

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Ricordo ancora il 9 gennaio. Adrenalina pura e tensione muscolare al 100% per una

“semplice” iscrizione alla CCC: un piccolo, grande sogno, nato insieme a Roby e a Giorgio da Cornuda. Passano però pochi giorni e Selena, mia moglie, si fa sempre più nervosa, scontrosa e distratta. Forse l’ho trascurata, forse le parlo troppo delle mie corse? Macché, è incinta! Faccio, facciamo due conti al volo: “ma sì dai, alla CCC ci vai lo stesso”, dice lei. Poi i vari esami. E ai primi di febbraio, con le orecchie basse, confesso a Roby: “mi sa che forse...”.

Oggi, 29 agosto, è il grande giorno: partono la CCC e l’UTMB. Dopo un’ora e mezza di lotta con mio figlio Ludovico, sul lettone, tornata Selena dall’ospedale per gli esami di rito, vado in studio. E’ tardi e ho poco o nulla da fare, ma soprattutto non ci sono con la testa: penso a Roby che sta per partire, anzi, è partito. Allora mi connetto al sito e seguo “live” i suoi passaggi e quelli degli altri amici conosciuti su Spirito Trail.

Passa la mattina, e sono le due passate quando entro in casa e vedo Selena stesa, con una strana faccia. La devo accompagnare a prenotare il cesareo ma... “è meglio che prendi su la borsa, non si sa mai!”. “Parcheggiamo” il bimbo da un’amica e in 10 minuti siamo all’ospedale. Tempo di capire dove andare e il mal di pancia si trasforma in contrazioni: ogni 8’, ogni 7’, ogni 5’: ci dicono che si sta preparando

al parto...

Via d’urgenza allora e, tempo di fare 2 telefonate e 3-4 sms, sento una voce: “chi è il papà di VIOLA?” “Eccomi”, faccio io, e me la ritrovo in braccio, la guardo e ripenso subito a quel messaggio che ho ricevuto in mattinata: “Se la scodella in questi giorni sarà sicuramente una grande ultratrailer”, scritto da un amico in partenza per l’UTMB.

29 AGOSTO: O CON

VIOLA? Testo e foto di Matteo >emme< Grassi

Allora il mio pensiero va a lui, Gabriele “mudanda”, ma anche a Roby e a Giorgio, a Giovanni, a Roberto, a Luciano, a Stefano, a Cristiano, ad Andrea, a Roberta, a Maurizio... a tutti gli amici che sono impegnati nella loro piccola, o grande, avventura: CCC, UTMB. Io ho V I O L A, grazie. ▼

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Courmayeur-Champex- Chamonix

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Credevo di aver vissuto, seppur con le ovvie, soggettive dimensioni che ciò può avere per ognuno di noi, delle emozioni uniche date dal fatto di aver svolto ad alto livello uno sport unico come l’apnea. E questo soprattutto in un’età nella quale la maturità raggiunta mi doveva far assaporare ogni minimo gesto, ogni minimo momento come l’unicità che la vita stessa rappresenta. Ma così non è stato e provo a spiegarvi perché. Continuo a ripetere dentro me stesso che questo è stato per me, sportivamente parlando, un anno veramente generoso di soddisfazioni. In poco meno di dodici mesi ho raccolto due maratone, centrando entrambi gli obiettivi che mi ero prefissato: finire la prima e correre sotto le 3 ore la seconda. Correre

dei Trail di preparazione (tre), con l’obiettivo di ben figurare al Campionato Italiano (la Lavaredo Ultra Trail), e così è stato. Sono altresì consapevole di essermi preparato bene, svolgendo il lavoro che mi ero prefisso con la precisione che, in questo campo, mi è consueta. In più, mai come in questo periodo ho curato con particolare attenzione la parte alimentare, forse perché a 46 anni suonati mi sono reso conto che per poter almeno partire con atleti che anagraficamente potrebbero essere miei figli, non posso e non devo lasciare nulla al caso. Sennò, meglio stare a casa sul divano! I dubbi però restano e sono molti: non ho mai corso più di 55 chilometri, non sono mai stato più di 7 ore sulle gambe, pagando peraltro un

alto prezzo in termini di unghie rotte e vesciche ai piedi. E mi trovo spesso, nei momenti in cui il lento incedere del fondo rigenerante mi lascia ossigeno per farlo, a pensare alla corsa come all’apnea, ad una corsa più lunga, la “mia” corsa come ad un tuffo più profondo, il mio tuffo. E mi prende un’ansia piacevole, quell’ansia che stimola e sprona per chissà quale strana alchimia ad esplorare l’infinito che abbiamo dentro, un infinito fatto di quel continuo mettersi alla prova, quasi volessimo dimostrare a noi stessi, prima ancora che agli altri, che il tempo non passa, che siamo come eterni bambini alla ricerca di situazioni sempre nuove che ci diano nuovi stimoli, conferme, insomma per metterci alla prova, anche se di che cosa, francamente, non l’ho ancora

UN’APNEA lunga 16 ORETesto e foto di Roberto >Vuppauer< Chiozzotto

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capito. Però mi dico che l’apnea è pericolosa, che il tuffo profondo va pensato e calcolato secondo i propri limiti, limiti che sono poi quelli che il tuffo precedente ci ha imposto. E che comunque difficilmente si va oltre, molto difficilmente si riesce a superare quella barriera che il nostro io più profondo ci pone davanti; come dire che la voglia di vivere prevale sempre sulla voglia di essere. Nella corsa non è così. O almeno credo. Se ti si rompe un’unghia del piede il dolore è forte, però con la determinazione di riuscire lo puoi superare e questo è un primo step. Se cadi e ti abradi gambe e braccia, vale lo stesso discorso. Se ti sloghi una caviglia o peggio ancora ti fratturi non ci sono alibi con noi stessi, non si bara, ci si ferma e basta. Ma se tutto questo non accade, e il logorio lento e impercettibile del nostro organismo non viene da noi avvisato o peggio ancora viene sottovalutato, dove ci possiamo trovare? Quale può essere il punto di non ritorno? Quello stesso punto che in un tuffo profondo ci fa dire “non ce la faccio a risalire”, che cosa ci dirà quando le ultime stille di energia saranno oramai consumate e la propulsione ci verrà data dalla semplice inerzia fisica? Questo è il dubbio che mi ha accompagnato fino a venerdì 29 agosto 2008. Ore 6.45, la sveglia non suona, non ce n’è bisogno: sono sveglio da un po’. Sono a Chamonix con la mia famiglia da domenica scorsa. Alla partenza della Petit Trotte (altri matti quelli che partecipano a questa interminabile gara di 220 km con 17.000 metri di dislivello da correre rigorosamente in tre) ho incrociato Kim, moglie di Tohper Gaylord; molto dispiaciuta mi ha detto di non partecipare alla gara a causa di un ginocchio malconcio che dal Gran Trail Valdigne è andato peggiorando. Facevo molto conto su di lei per la sua grande esperienza e indiscussa capacità di calcolare ritmi e tempi di passaggio. Era lei la leader sulla quale riponevo le mie speranze di ben figurare, l’avevo detto più volte: “in ricognizione ho visto che la posso tenere il salita, in discesa non ho problemi anzi la dovrò aspettare”. E invece niente, con lei mi abbandona l’ultima o forse l’unica certezza che avevo di far bene. Sarò solo con me stesso. Anche stanotte, l’ultima prima della grande prova, ho dormito male, mi alzo con un gran mal di schiena e con le solite ginocchia che si lamentano, nonostante le coccoli da una settimana a suon di arnica e massaggi. Bella riconoscenza. Inizio la robusta colazione, fatta del solito pane e prosciutto crudo, abbondante succo d’arancia, fette biscottate e marmellata senza zucchero, e nel frattempo preparo

la borraccia con le maltodestrine che mi servirà come “ritocco” (così dice Nicola, amico fraterno nonché specialista in scienza dell’alimentazione sportiva) prima della partenza. Sono sulla linea di partenza alle 10, un’ora prima dello sparo. Arrivo sempre prima perché così mi piace fare. Evito di dover stare attento fin da subito alle cadute o, peggio, rimanere imbottigliato nel gruppo per chissà quanto tempo, di dovermi sorbire lunghe file ai ristori o attese interminabili ai check-point. Un’ora di tempo per pensare e ripercorrere tutto quanto ho fatto in questi ultimi mesi e non solo. La mente va più indietro, all’esatto opposto di dove mi trovo ora, al mare. Quel mare che mi ha donato soddisfazioni ed emozioni, dove ho raccolto dei bei risultati, che fanno sì che mi ripeta che non devo dimostrare niente a nessuno e tantomeno a me stesso. Ma so che non è così. Ricorro alla respirazione diaframmatica e constato che la cintura del camelbag è troppo stretta. La allargo a sufficienza perché il respiro diventi ampio ed appagante; così non è per chi mi sta vicino che vedo iperventilare. Mi dico: questo non ha mai fatto apnea e si vede! Mi alzo in piedi, come tutti, per ascoltare gli inni delle Nazioni che ospitano la competizione: Italia, Svizzera e Francia, in ordine di passaggio. Poi, la musica di sottofondo che precede il via. Parto come se fosse un allenamento qualsiasi, con impresse le parole di Topher e sua moglie Kim “be carefully, be slow”, come una litania mi ripeto le loro parole, macinando i primi chilometri in assoluta tranquillità, fregandomene altamente delle posizioni che inevitabilmente perdo, pensando che poi questa tattica al risparmio, probabilmente, mi permetterà di arrivare all’obiettivo finale: il traguardo. Percorro strade mai fatte prima, neanche durante la ricognizione di qualche settimana fa, e mi dico che è come un tuffo in costante: per quanti tu ne abbia provati, quello decisivo è diverso da tutti. Da un paio di chilometri sono al fianco di due francesi belli imbellettati nella loro divisa d’ordinanza: pantaloncini neri e maglietta arancione, camelbag nero/arancio e cappellino bianco; dopo averli squadrati ben bene mi azzardo a chiedere in quanto tempo si sono prefissi di terminarla. “Seize”, mi rispondono. Azz, mi dico, farebbero al caso mio, ma mi sento un pochino imballato dietro a loro, e procedendo del mio passo dopo pochi tornanti non li sento più ansimare alle mie spalle. Arrivo dopo 12 km al primo controllo e relativo ristoro sotto un sole cocente, mi piace il sole e il caldo, li preferisco di gran lunga a pioggia e vento. Rifugio Bertone, m 1.989. Passo il

controllo e via, non mi serve rifornimento, sono partito con il camel bag pieno e ho calcolato che con questo arrivo fino al Bonatti, secondo punto di controllo. Ma così non è. Poco dopo aver lasciato il Bertone, mi accorgo che per quanto aspiri dalla manichetta acqua non ne arriva: sono vuoto! Mi prende il panico, cerco di rilassarmi e di convincere la mia testa prima che il mio corpo che posso fare comunque senza (pur senza sapere come). Ho in cintura la borraccetta dei sali minerali, l’equivalente di un bicchiere d’acqua, la vuoto e chiedo acqua a qualcuno, penso; no, con questo caldo e questa umidità i sali mi servono eccome. Vedo due escursionisti inglesi (hanno la bandierina legata allo zaino, che kitsch) e chiedo loro quanto manca al Bonatti; “a lot” mi rispondono. Approfitto del gancio per chiedere un po’ d’acqua ma la loro risposta è che ne hanno poca anche per loro. Più su un Italiano mi incita, finalmente uno che parla la mia lingua; in due parole gli spiego il fatto, lui molto gentilmente mi passa la borraccia, faccio due sorsi e ringrazio. Finalmente trovo un ruscello grazie al quale mi disseto, sono in discesa, lascio andare le gambe senza forzare, ma ad un cambio di pendenza sento il femorale sinistro contrarsi, sento il crampo farsi avanti. No, non può essere vero! Da quando ho iniziato a correre un anno fa non ho mai avuto un avviso di crampi, non può essere proprio oggi al 20° km con altri 80 davanti! Imputo il tutto al mancato rifornimento del Bertone, mi dico che era inevitabile, con questo caldo e con quello che sudo io, dai calcoli fatti avrei dovuto bere da lì a qui un litro d’acqua e la borraccetta di sali. E invece niente, e questa ne è la causa, ma stranamente non mi abbatto, anzi rallento, accorcio il passo e cerco per quanto possibile di rilassarmi. Arrivo al Bonatti dove trangugio un bicchiere di Coca e uno di acqua fintanto che mi riempiono il camelbag; chiudo tutto e riparto. Avanti così, sempre concentrato e attento ai segnali che il mio corpo mi lancia, mi accingo ad affrontare la salita che conduce al Grand Col Ferret che con quota 2.537 è il punto più alto dell’intera gara. Questa sì me la ricordo, tutta esposta al sole con l’elicottero che volteggia sopra di noi come fosse un fringuello in attesa delle briciole. Salgo regolare con buona lena come mi fa notare un distinto signore che incrocio a tre quarti di salita: “vai Roberto che hai un bel passo” mi dice con voce pacata e rassicurante; poco più su una signora mi comunica la posizione: “sei 65° su 2000, hai di che essere contento!”. Eccome che lo sono, penso, mentre mi accingo a scollinare consapevole di aver fin qui corso con molta testa e poche gambe, gambe che adesso faranno la loro parte nella lunga discesa tecnica che conduce dal Ferret a

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La Fouly. L’ho già fatta in ricognizione questa discesa, è ben corribile per i primi quattro chilometri, mi si addice e infatti recupero una decina di posizioni correndo sciolto, decontratto e rilassato. Arrivo in spinta nel rettilineo che precede il paese di La Fouly e da lontano vedo una figura femminile con i pantaloncini corti. Riconosco le gambe: quella è mia moglie! Alzo i bastoncini per farmi riconoscere e lei lancia un urlo: “è qui, è qui!”. Il tam tam raggiunge i miei figli che mi aspettano alla curva successiva per accompagnarmi al trotto fino al centro ristoro, rigorosamente interdetto ai non atleti. Esco dopo aver fatto il pieno d’acqua, mi sento benissimo, fuori c’è la mia famiglia: averli visti e avere la conferma di rivederli tra 15 km a Champex Lac mi fa ripartire con una carica notevole. Che bello sapere di avere qualcuno a cui vuoi bene, che ti aspetta a che ti fa sentire in condivisione con quello che vivi, sembra quasi che una parte di fatica la facciano anche loro, che bello... Mangio al passo la crostata con in testa la salita successiva, memore di quanto detto qualche giorno prima dal nostro inquilino francese: “la Bovine, trés doura”. Io la ricordo in ricognizione, ma non mi pareva tanto terribile, almeno non quanto l’ultima, quella che conduce a Teté aux Vents. Che presunzione, e che sprovveduto io che mi reputo da sempre un calcolatore meticoloso che non lascia nulla al caso! E’ la salita più dura di tutte, fatta in ricognizione dopo una notte di riposo e in compagnia è una cosa, in gara con già 55 km sulle gambe è tutt’altro. Mi duole non poco ammettere che il francese aveva ragione... Per fortuna a mitigare la fatica ci pensa un gruppo che mi incita; tra questi una figliuola che mi grida “courage!” La discesa la ricordo bene, l’ho fatta in ricognizione attaccato ai garretti di Topher e mi immagino con lui anche ora, mentre il terreno scorre veloce sotto i miei piedi e la frequenza dei passi sembra aumentare. Penso che finora non ho mai perso la concentrazione e di questo ne vado fiero; mai un attimo di sbandamento, come invece mi è più volte successo in altre circostanze, l’ultima a Cortina due settimane fa risoltasi con un ruzzolone, del quale porto ancora oggi i segni. Al check-point che precede il paese di Trient metto la Petzl in cintura, è l’imbrunire e non mi voglio trovare a dover armeggiare lo zaino al buio. Proseguo la discesa dove mi faccio volutamente raggiungere da due inseguitori che di luci ne hanno due, una in cintura e una sulla testa. Penso che giù anch’io tirerò fuori la seconda e intanto mi accodo a loro e procedo veloce e sicuro. Arrivo spedito a Trient dove in classifica risulto ancora attaccato ai primi 50, entro, mi cambio la maglia e metto i pantaloni lunghi in vista della notte che arriva. Esco dalla tenda e piombo nel buio più profondo. Ci sono solo io, con i miei pensieri a tenermi compagnia. La mente mi porta ovunque e più volte mi trovo a ripetermi che sto vivendo un sogno, mi sembra di essere in statica dove le sensazioni e i pensieri si equivalgono, solo che nella statica durano una manciata di minuti, qui si susseguono oramai da un paio d’ore! E la sensazione che provo è meravigliosa e indescrivibile, per la prima volta in vita mia mi

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sento felice e tranquillo nella mia prolungata solitudine, so che a Vallorcine troverò i miei, ma non so tra quanto e questo non mi crea preoccupazione alcuna. Godo appieno di questi momenti magici, impareggiabili e sicuramente unici; mi sento come dentro una grande sfera che ingloba tutto il massiccio del Bianco, rendendolo una sorta di Paradiso per poche ore. Con questa splendida sensazione arrivo a Vallorcine con quasi 13 ore di corsa sulle gambe e ahimè sui piedi, ancora in 56a posizione. Sento che i miei piedi sono in sofferenza totale, mi sembra di avere dei sassolini sotto l’avampiede, anche se so bene di che cosa si tratta. So che se tolgo le calze ora non le rimetto più. Riparto al passo da Vallorcine non dopo aver baciato mia moglie e abbracciato tutti i miei angeli custodi, veri compagni d’avventura senza i quali, forse, la solitudine non sarebbe stata così piacevole. Nella notte estraggo l’ultimo panino al prosciutto crudo che divoro e l’ultimo cubetto di parmigiano reggiano. Mentre affronto l’ultimo tratto in leggera salita prima dell’erta finale, la mente corre libera a cercare situazioni analoghe, situazioni da confrontare per intensità emotiva ed emozione ma... niente. Niente è paragonabile a quanto sto provando, guardarsi dentro per scoprire i propri limiti, lo ripetiamo sempre durante i corsi di apnea, ma di quali limiti parliamo? Siamo consapevoli di quello che diciamo? I limiti, quelli veri, sono quelli che ti impegnano a fondo, corpo e mente, altro che una statichella di 5 minuti! Mi accorgo che il paragone è improponibile, troppo diverse le situazioni, l’impegno, il sacrificio, la gioia... Forse è questo uno dei veri modi per guardarsi veramente dentro e capire, stare da soli per ore immersi nella notte a 2000 metri di altitudine con solo le stelle a farti compagnia, le tue gambe come propulsore finale di un motore che funziona non a benzina ma a sentimento, a forza di volontà, con determinazione e amore. Perché in fondo senza amore non si va da nessuna parte. Penso e mi scopro felice. Niente di niente mi viene in mente che possa distogliermi dall’immensa gioia che provo in questo momento, gioia che, con l’arrivo a Chamonix, so che finirà. Mi trovo a fare la conta di quanto ho fin qui trangugiato: circa 12 litri d’acqua, 8 bicchieri di coca cola, 6 di sali minerali e 3 di acqua gassata, 10 gel, 4 bustine di sali minerali, 3 panini con prosciutto crudo, 1 crostatina, 5 cubetti di parmigiano reggiano stagionato 30 mesi, 3 compresse di Magnofit. Mi pare ci sia tutto. Procedo con lento ma costante passo costeggiando la statale che porta giù in paese, pensando che l’anno scorso qui era già finita la gara nel senso che la salita che sto per fare è stata inserita proprio quest’anno, quale ulteriore regalo degli organizzatori. Nel buio della notte arrivo ad un bivio che non ricordo di aver mai visto in ricognizione; ho un attimo di incertezza, e mentre cerco invano dei segnali che mi indichino la direzione, sento una voce che ben conosco: è mia moglie, che mi ha atteso all’attacco della salita e che, non vedendomi arrivare, mi è venuta incontro. Percorro con lei al mio fianco le ultime decine di metri che mi portano all’attacco dell’ultima, interminabile salita che porta a Tete aux Vents. La ricordavo molto dura, ma

per lei vale lo stesso discorso fatto prima per la Bovine; dovrò redigere meglio i miei road book, tenendo conto di più fattori e non solo di lunghezze e pendenze! Mentre salgo, il dolore ai piedi viene mitigato da una sorta di felicità mista a tristezza: la felicità per quello che sto vivendo e provando e la tristezza data dalla consapevolezza che tutto questo sta per finire. Dall’alto del monte scorgo i bagliori di Chamonix, ma non so se esserne contento. Al seppur veloce passo arrivo all’ultimo punto di controllo dove all’ennesimo, piacevole “sa va?” rispondo con lo stesso tono “sa va, sa va”. Subito mi torna in mente quanto questa richiesta, tipica nei costumi francesi, mi veniva rivolta durante i soggiorni di allenamento nei vari club Med, quando a chiedermi “sa va?” era un o una turista distesa sul suo lettino con tanto di bibita ghiacciata in mano. E sa va bien, rispondevo io, come vuoi che vada, mi dicevo, sono qui in febbraio al caldo dei Caraibi a fare niente, solo mare e basta, tutto spesato e in compagnia di amici, meglio di così... Mai avrei immaginato che il meglio di così esisteva, eccome se esisteva! Magari diverso, magari meno modaiolo, meno “in”, meno trendy, meno... meno niente, esiste e basta! Esiste e in questo momento si chiama Flegere. Mi aspetta quella che ho descritto a tutti come la discesa più terribile (scoprirò poi che proprio in virtù di ciò e stata tolta dagli organizzatori), fatta di sassi e rocce, in inverno pista nera che da Flegere porta dritta dritta a Chamonix, in estate un’autostrada tutta discesa, senza respiro alcuno, fatta di ampie ma ripide curve, con i ciottoli che ti fanno perdere aderenza sotto le scarpe e i sassi appuntiti che si fanno breccia sotto un oramai provato battistrada, incapace, dopo 15 ore di corsa e migliaia di balzi sopportati, di assorbire la seppur minima sollecitazione. Questa era ed è la mia preoccupazione, l’ho sofferta da morire durante la ricognizione, l’ha descritta allo stesso modo Giorgio il Colonnello durante un rendez-vous al termine della ricognizione stessa in quel di Courmayeur davanti ad un bicchiere di rosso rubino; dello stesso avviso Topher Gaylord e Scott Jurek, atleti di vertice tra i possibili vincitori dell’UTMB. Per tutti questa sarà la prova più difficile, dove si potranno perdere decine e decine di minuti durante questi pochi, terribili, ultimi chilometri. Inizia la discesa, accenno a qualche passo di corsa spinto più dall’inerzia che dalla volontà di farlo, ma niente da fare, il dolore ai piedi è insopportabile. Cerco ai lati un po’ di sterrato ma niente, c’è mi pare dell’erba e con non poca diffidenza mi avvicino, ma tanto basta per sentire il piede sinistro che cede verso l’interno; come sempre sotto i manti erbosi si nascondono buche che per quanto piccole possono risultare insidiose. Riguadagno mestamente il centro carreggiata, ripetendo al mio corpo di stare calmo e alla mia testa di staccarsi dallo stesso, così dall’esterno mi analizzo meglio e circoscrivo il male ai piedi: “training autogeno” si chiama, le provo tutte oramai. Non vedo ancora le luci della teleferica, ma dove cavolo sono, avrò mica sbagliato strada? Non c’è pericolo, questa è l’unica che porta a valle, mettiti calmo che va bene questa, mi dico.

Mi trovo, come spesso mi accade nei momenti più intensi, a pensare a mia madre. Mi manca da tanti anni, ma la penso sempre e sempre in lei trovo conforto. La prego da lassù di fare qualcosa, fino ad ora sono stato bravo da me, ma adesso avrei bisogno di lei. Non sto vaneggiando, il dolore è insopportabile, l’idea che manchi tutta la discesa dall’arrivo della funivia (che ancora non vedo) a Chamonix mi fa rabbrividire. Non sono un credente, lo ero poi mi sono perso, credo solo nelle cose concrete, la sorte per me uno in buona parte se la crea, a questo mondo ci insegnano fin da piccoli che non ci regala niente nessuno, tantomeno da lassù, ed è per questo che stento a credere a ciò che vedo; i segnali rifrangenti indicano una svolta in mezzo al bosco! Ma come, non sono ancora arrivato alla funivia e c’è una svolta, com’è possibile? E’ che alla funivia non si arriva più, né si fa la discesa “della morte”, si gira e basta. Inizio un pianto liberatorio fatto di gioia e dolore, la gioia è facilmente comprensibile, il dolore è per non poter gioire nemmeno questa volta con chi mi ha aiutato... Procedo con le luci di Chamonix ben visibili alla mia sinistra, mancheranno sì e no 5/6 km e penso che questa mia prima CCC sarà anche l’ultima. So che le cose riescono bene solo una volta nella vita, difficilmente la vita stessa ti concede una seconda chance. Con il mio passo veloce raggiungo un atleta che pur correndo va più lento di me, un altro che corre davvero mi sorpassa proprio prima del rifugio dove due giorni fa siamo saliti con i miei a fare una passeggiata. Percorro l’ultimo tratto a memoria, discesa tecnica, ruscello, ponticello in legno, altro ruscello, discesa lunga con in fondo le luci dalla strada asfaltata: ci siamo! Non c’è molta gente in strada, alle 3.30 del mattino i più sono a letto, l’arrivo importante è domani, quando alle 16 circa arriveranno i campioni dell’UTMB, ma comunque c’è chi basta per farti sentire un eroe, per farti capire che ce l’hai fatta, che la fatica è finita e che la gioia che tu provi la puoi, se vuoi, condividere con loro. Transito sotto lo chalet che ci ospita, più avanti c’è mia moglie ad attendermi sulla linea del traguardo, che valico alle 3 e 50, dopo 16 ore 49 minuti e 8 secondi. Abbraccio mia moglie e i miei amici, i bambini dormono in auto, li abbraccerò domani. E’ finita. Il sogno è finito, mi resta la stanchezza e due piedi come due zamponi, ma sono felice.

Felice per aver concluso una corsa che mai avrei pensato di terminare. Felice per averlo fatto con a fianco la mia famiglia e i miei amici. Felice per aver rivisto mia madre. Felice per aver vissuto un’esperienza unica, che mi ha fatto capire molte cose e sentire piccolo piccolo. Felice per aver fatto una cosa unica che non ripeterò mai più. ▼

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Testo e foto di Stefano >tetano< Bettio

Erano da poco passate le 18 e l’intensa luce, che per tutto il giorno aveva illuminato panorami

mozzafiato, cominciava ad affievolirsi e a colorare di rosa un cielo terso senza una nube. Alzai gli occhi per l’ennesima volta, lo facevo ormai ad ogni passo, davanti a me si stagliava minacciosa la vetta brulla del Gran Col Ferret. Un’interminabile colonna di persone arrancava a perdita d’occhio sul crinale che portava alla cima. Un lungo sospiro, poi per tirarmi su di morale volsi lo sguardo alle mie spalle e provai sollievo alla vista della medesima colonna snodarsi sotto di me ben oltre Refuge Elena, verso il ristoro di Arnuva. Guardai l’orologio e l’ora confermò il forte ritardo accumulato sulla tabella di marcia prevista, quasi un’ora e trenta minuti; un breve calcolo e capii che in cima ci sarei arrivato alle 19. Tardi, troppo tardi. Mille pensieri, mille sensazioni si accumulavano nella testa facendomi sorgere il dubbio più nefasto: “non sono nemmeno al 30° km, neanche a un terzo della corsa, e non sono più sicuro di arrivare a Chamonix”. I miei sei compagni d’avventura, con i quali formavo il gruppo veneziano che da otto mesi preparava l’impresa della

CCC, erano tutti avanti con un bel margine di vantaggio e se non avessi avuto la certezza che uno di loro, il poderoso RobyZam, fosse in vetta ad aspettarmi, lo sconforto sarebbe stato di gran lunga maggiore. Una folata di vento gelido mi accolse alla svolta di un ripido tornante e, nonostante il calore che emanava il mio corpo per lo sforzo della salita, provai un brivido sinistro. Poi una voce stridula dietro alle mie spalle mi sussurrò: - Che ci fa un veneziano sul Bianco? - Me lo sto chiedendo anch’io da cinque ore. Ero venuto quassù dalla laguna neo cinquantenne, per trovare me stesso e invece mi sto perdendo. - Il gonfalone che porti sullo zaino è simbolo d’orgoglio e fierezza, di una storia millenaria e gloriosa. -Belle parole- gli risposi- sconosciuto amico mio, ma io in questo momento con le glorie del nostro leone alato non sto andando da nessuna parte. Anzi, proprio come te, ogni persona che mi supera fa la stessa domanda o perlomeno la pensa: un veneziano in giro per il Bianco, ma non poteva starsene in laguna a nuotare? - Pensavi di venire sulle nostre montagne e fare una passeggiata? M’incalzò. - Proprio no, mi è sempre piaciuto correre

e la passione per la corsa in montagna è stata una logica conseguenza. Correre in mezzo alla natura è meraviglioso e farlo in montagna è rimasta la sua massima espressione. Mi dà tranquillità e un senso di libertà che non è possibile provare in città. Sono otto mesi che penso a questo giorno, dalle corse sul bagnasciuga del Lido ai ripidi sentieri delle Lavaredo, dalle nebbie delle Prealpi Trevigiane al fango dei Colli Euganei, sempre col pensiero rivolto ad oggi. Temo che tutto questo non sia stato sufficiente per il Bianco. A quel punto la sua voce si fece perentoria e ancor più sgradevole. - Senti veneziano, io non ti posso aiutare né tantomeno incoraggiare, fammi strada e lasciami passare. Ritirati da questa impresa troppo grande per te! Colto da un attacco di bile gli risposi: -Bella carogna che sei, ti manca solo l’accento francese e sei il ritratto perfetto dello stronzo napoleonico di triste passato! No caro mio, non solo non ti lascio passare ma, a costo di sputare sangue, arrivo in cima al Ferret prima di te! Con un ultimo sforzo arrivai in cima al Ferret a metri 2537 d’altitudine alle 18.46, dove l’amico Roby mi aspettava da una decina di minuti al riparo di una tendina gialla della North Face. - Dai, forza Stefano, è ancora lunga la gara, ma ce la faremo! Con ritrovata energia e con la bocca piena di una bevanda dal sapore d’ acqua stantia, plastica, polase, gli dissi: -Sì, ce la faremo, per me, per noi, e per quello stronzo che tutto vestito di viola sta salendo dietro di me! Già, viola: il colore della tristezza e della sconfitta sempre in agguato per approfittare delle debolezze umane. La mia paura si era materializzata passo dopo passo e i metri erano diventati chilometri, il Ferret il K2. Poi basta un raggio di sole, un sorso d’acqua fresca, l’incoraggiamento di uno sconosciuto sul ciglio della strada, una minestrina scotta e l’animo ritrova insperate energie e rinnovate, fantastiche sensazioni. Non mi superò nessuno con quel colore, mancavano ancora più di 68 chilometri, ma la scommessa del Bianco era già vinta sul Ferret.

Finisher CCC - 25h 11min ▼

Il colore della sconfitta

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Click Click Click: è il rumore prodotto dal frenetico digitare su tastiera e mouse che alla determinata ora di

un determinato giorno all’inizio del mese di gennaio percorre come un fremito l’intero globo. Siamo in migliaia con gli occhi pallati fissi davanti allo schermo, mani sudate e tremanti, carta di credito bene in vista per tentare la sorte e riuscire ad accaparrarci un pettorale per la felicità. Come Cento Chilometri? E’ la domanda che, con la faccia stupita da uno che non ha capito bene, ci fanno amici, colleghi e conoscenti quando raccontiamo cos’abbiamo in programma per l’ultimo fine settimana di agosto. Spesso cambiano argomento di proposito, altre volte la spiegazione la dobbiamo ripetere e, anche dopo la seconda volta, con le parole scandite per bene, non ci possiamo aspettare di essere compresi appieno. Se invece capiscono, scuotono la testa e il commento più delicato è: “Te ta set mia normale!” Coltivare Con Cura il nostro obiettivo della stagione vuol dire sottoporci ad un minimo sindacale di tre uscite alla settimana; il nostro pane diventano le ripetute, i lunghi, il fartlek, i progressivi al medio (ma non chiedetemi cosa sono!). Dobbiamo conciliare le esigenze familiari e lavorative con quelle dell’allenamento e quindi diventiamo animali notturni, quasi licantropi: uscite prima dell’alba o dopo il tramonto, con ogni tempo, anzi se piove ci piace anche di più. Ci diamo appuntamenti in luoghi poco raccomandabili e in orari ancora meno raccomandabili, come il cimitero di Cellatica alle 19.30 di una sera di febbraio o il municipio di Bovezzo alle 5 di una domenica mattina di marzo… Insomma facciamo cose strane che se le raccontiamo il commento più carino è: “Pota te l’ho dit che te ta set mia normale!” Cavoli Che Coda! Ci siamo allenati, abbiamo preparato tutto per benino e adesso è giunta la vigilia del giorno X. Arriviamo a Chamonix belli carichi e il nostro primo impatto con la manifestazione è una coda chilometrica per il ritiro del pettorale e il controllo dello zaino. Due ore sotto il solleone e già cominciamo a capire che non sarà una scampagnata. Chiacchiere Con i Compagni: sono quelle che ti aiutano a superare i momenti difficili della corsa e che non ti fanno pensare alla fatica che stai facendo. Chiacchiere con tutti quelli che ti passano a tiro, amicizie che si creano dopo aver rovesciato un bicchiere d’acqua al ristoro, persone che hai conosciuto su internet e che ritrovi al tuo fianco in carne e ossa, quelli che vedono la bandierina sullo zaino e ti prendono in giro: “Duri a morire questi bresciani, eh!”. Vi voglio bene.

Chi C’è C’è: è il paradigma dei cancelletti, le famigerate barrieres horaires. Ad un orario prefissato viene intimato il “tutti fuori” dal punto di ristoro: a questo punto si crea un fuggi fuggi, chi esce dal formicaio resta in gara e chi rimane dentro deve cercarsi posto sul primo pulmino per tornare a Chamonix. Quest’anno i cancelletti sono stati anche allungati da Champex in poi, ma hanno mietuto comunque parecchie vittime. Esilarante la scena vista a Vallorcine: cinque o sei ritardatari stanno raggiungendo il ristoro, sono al limite della barriera oraria, mancano otto minuti, hanno terminato la discesa e sono sempre più vicini al punto di controllo, ce la possono fare, devono solo attraversare i binari della ferrovia, quasi ci sono, si ci sono, ma… dlin dlin dlin si abbassano le sbarre del passaggio a livello e loro restano inesorabilmente bloccati dall’altra parte. Ca… Che Co... L’espressione viscerale di insofferenza tipicamente bresciana con la quale noi tutti ci siamo lasciati andare durante l’ultima penosissima quanto demenziale salita alla Tete aux Vents. Stentiamo ancora a comprendere il senso di questa punizione supplementare che ci è stata inflitta dagli organizzatori e pensiamo con raccapriccio e compassione a chi si troverà sotto a quel muro con nelle gambe 145 chilometri e non solo 80 come noi. Clap Clap Clap: il suono più dolce al mondo, la cosa più bella ed emozionante che le nostre orecchie possano udire, che ci ripaga di tante ore e tanta sofferenza e ci gonfia il petto di orgoglio. Il pubblico di Chamonix è spettacolare, ti chiama per nome, ha parole di incoraggiamento ed applausi ad ogni ora del giorno e della notte e per tutti quanti, dagli extraterrestri che arrivano al traguardo freschi come dopo una scampagnata ai “trop runners” che lottano per non finire fuori tempo massimo. Volete dirmi che mentre correvate tra le transenne e la linea d’arrivo era sempre più vicina siete riusciti a trattenere la lacrimuccia? Chi Ci Crede? Ciao Ciao Chamonix: la mattina di domenica è grigia e fresca, si fanno le valigie, si incontrano i grandi che hanno appena tagliato il traguardo della UTMB e si sale in macchina per prendere la via del ritorno. Un pizzico di malinconia al pensiero della grandezza di quello che si è vissuto nei giorni appena trascorsi, un bagaglio di emozioni e di pensieri interamente ed assolutamente nostro che ci accompagnerà nei prossimi mesi e che condivideremo con chi ha la nostra stessa passione. Ma appena acceso il motore dell’auto, non so se è capitato anche a voi, cominciamo già a percepire nel nostro cervello un sottilissimo rumore di sottofondo: Click Click Click... ▼

Le mie 10 CCCTesto e foto di Andrea >BradipoMissile< Zatti

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Dario Tartari si è infortunato durante

l’UTMB 2008, tra il Col du Bonhomme

e il Ref. de la Croix du Bonhomme.

Ecco, passo per passo, le fasi

del suo ritiro, tra cure mediche,

“coccole” e rientro a Chamonix.

1) il soccorso alpino mi trasporta in spalla: 4 ragazzi si alternano a trasportarmi per circa mezz’ora... non c’è altro sistema e loro lo fanno in modo encomiabile;

2) ricevo assistenza al Rif. de la Croix du Bonhomme: un’infermiera mi medica con una pomata-gel la caviglia, mi fornisce degli antiinfiammatori-antidolorifici, mi offrono un posto dove dormire (poi ho scelto io di riposare dov’ero: su un tavolo vicino alla finestra per vedere l’alba e provare poi subito a scendere) e cercano ripetutamente di sostenermi e incoraggiarmi a riprovare l’anno successivo;

3) il soccorso vorrebbe poi chiamare l’elicottero per il trasporto a valle; provo ad evitare questo epilogo, “scappando” all’alba con il mio amico: scesi un centinaio di metri, guardando verso il Rifugio, noto come uno dei soccorritori sia uscito a controllare il mio tentativo di discesa;

4) arrivo verso le 9.30 a Les Chapieux, ristoro e primo punto per un possibile recupero: qui l’organizzazione ha già tolto tutto e... Les Chapieux non è collegato con mezzi pubblici! Entro nell’unico bar per poter telefonare ad un mio amico a Chamonix per organizzarmi il recupero;

5) la titolare del bar mi invita a fare colazione, mentre si mette in contatto con l’organizzazione, la quale è al corrente che dal Rifugio devono scendere in tre: io, il mio amico e un altro ritirato che però non è ancora giù;

6) l’organizzazione dispone che si metta a nostra disposizione un pullmino con una autista lì presente, il tutto gratuitamente;

è così che verso le 10.15 partiamo per 2 ore di pullmino via Bourg S. Maurice - Passo del Piccolo San Bernardo - La Thuile, fino a Courmayeur/Dolonne;

7) scesi dal pullmino, dopo 5 minuti saliamo sul pullman dell’organizzazione che collega Courmayeur a Chamonix;

8) alla consegna del tagliando per ritirare la cauzione del chip, la

Ritirarsi... “doucement”

volontaria si prodiga in complimenti ed esorta a riprovarci l’anno successivo. La logistica e l’orario per il recupero non erano dei più semplici, ma io ho ricevuto il massimo dal punto di vista organizzativo e morale.

Chapeau!

Dario Tartari