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UNIVERSITÀ COMMERCIALE LUIGI BOCCONI Facoltà di Economia Corso di Laurea Specialistica in Marketing Management NEUROMARKETING E LIE DETECTION: UN’APPLICAZIONE PER SUPERARE LE BARRIERE DEL SOCIALLY DESIRABLE RESPONDING Relatore: Prof. Ssa Isabella SOSCIA Controrelatore: Prof. Ssa Giulia Miniero Tesi di Laurea Specialistica di: Roberto GIANNATTASIO Matricola n. 1284876 Anno Accademico 2009/2010

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UNIVERSITÀ COMMERCIALE LUIGI BOCCONI

Facoltà di Economia

Corso di Laurea Specialistica in Marketing Management

NEUROMARKETING E LIE DETECTION:

UN’APPLICAZIONE PER SUPERARE LE BARRIERE DEL

SOCIALLY DESIRABLE RESPONDING

Relatore:

Prof. Ssa Isabella SOSCIA

Controrelatore:

Prof. Ssa Giulia Miniero

Tesi di Laurea Specialistica di:

Roberto GIANNATTASIO

Matricola n. 1284876

Anno Accademico 2009/2010

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Perché farti 1000 km,

quando puoi fallire tranquillamente a casa tua?

Gianfranco Marziano

È stata tua la scelta

e allora adesso che vuoi?

Edoardo Bennato

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INDICE

INDICE ........................................................................................................................... 7

INTRODUZIONE .............................................................................................................. 9

CAPITOLO 1 .................................................................................................................. 11

PRESENTAZIONE DELLA PROBLEMATICA ..................................................................... 11

1.1 Perché l’individuo mente, e quando .................................................................... 11

1.2 Domande Sensibili ............................................................................................... 13

1.3 Response Bias ed effetti della desiderabilità sociale ........................................... 16

1.4 Socially Desirable Responding ............................................................................. 19

1.4.1 Gli studi sul fenomeno nella letteratura di marketing ........................................................ 19

1.4.2 Analisi del costrutto .............................................................................................................. 21

1.4.3 Le scale per la misurazione del SDR ................................................................. 23

CONCLUSIONI .............................................................................................................. 25

CAPITOLO 2 .................................................................................................................. 27

MODELLI DI RIFERIMENTO .......................................................................................... 27

2.1 Contributi e sviluppi della Neuroeconomia .......................................................... 27

2.1.1. Economia comportamentale: verso la neuroeconomia ...................................................... 27

2.2 Il Neuromarketing ............................................................................................... 29

2.2 Implicit Association ............................................................................................. 32

2.2.1 L’Implicit Association Test (IAT) ..................................................................................... 33

2.2.2 Il Go/No-go Association Task (GNAT) ................................................................................... 35

2.2.3 L’Autobiographical Implicit Association Test (aIAT) ............................................................. 35

2.3 I metodi di Lie Detection ..................................................................................... 36

2.3.1 Il Guilty Knowledge Test .................................................................................. 36

2.3.2 Control Question Test ....................................................................................... 37

2.4 Presupposti della lie detection Response Time based ......................................... 38

2.4.1 Il Timed Antagonisc Response Alethiometer (TARA) ................................................... 40

CONCLUSIONI .............................................................................................................. 41

CAPITOLO 3 .................................................................................................................. 43

METODOLOGIA DELLA RICERCA, PRESENTAZIONE E ANALISI DEI DATI..................... 43

INTRODUZIONE ............................................................................................................ 43

3.1 L’esperimento ...................................................................................................... 43

3.1.1 Metodo .......................................................................................................................... 45

3.2 Descrizione del database ..................................................................................... 47

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8

3.3 Analisi effettuate ................................................................................................. 47

3.3.1 Analisi dell’item 6 nella versione di controllo ....................................................................... 48

3.3.2 Analisi dell’item 6 nella versione test ................................................................................... 51

3.4 Sintesi e discussione dati .................................................................................... 53

BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................. 56

APPENDICI ................................................................................................................... 63

Appendice 1: Questionario cartaceo item 6, versione test ........................................ 63

Appendice 2: Questionario cartaceo item 6, versione di controllo ............................ 64

Appendice 3: Database item 6 test ............................................................................ 64

Appendice 4: Database item 6 di controllo ................................................................ 66

Appendice 5: e-prime, il software per la ricerca neuro scientifica e comportamentale ...................................................................................................... 66

Appendice 6: proposizioni dell’esperimento .............................................................. 67

RINGRAZIAMENTI ........................................................................................................ 69

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INTRODUZIONE

Ricorrendo a sondaggi e ricerche di mercato ci si può trovare nella necessità di

porre domande cui l'intervistato non sempre è disposto a rispondere, o almeno non

in maniera sincera. Queste domande, che in letteratura vengono definite sensibili

(Tourangeau, Rips e Rasinski, 2000), devono la propria pericolosità alla capacità di

mettere in discussione i meccanismi di autodifesa con cui l’individuo tende a velare

alcuni aspetti della propria personalità, che ritiene siano poco desiderabili.

L'attitudine a mentire per conseguire un proprio vantaggio (ingannando gli altri

e/o se stessi) è, d'altronde, una caratteristica che contraddistingue l'uomo da

sempre, e lo sviluppo scientifico ha fatto progressi anche verso la messa a punto di

strumenti che in determinati ambiti riescono a discriminare la verità dalla menzogna

senza lasciare spazio ad errori consistenti. L'obiettivo di questa tesi è quello di testare

la sensibilità di una domanda relativa al grado di public self consciousness, ed

individuare i soggetti che hanno incentivo a mentire, all'interno di un campione

sottoposto prima ad una domanda esplicita, poi al Timed Antagonistic Response

Alethiometer, un recente dispositivo di lie detection, utilizzato con efficacia in

criminologia.

Nel primo capitolo si prova a fornire una descrizione sintetica del complesso

fenomeno della menzogna, per poi far luce sul concetto di domanda sensibile e sui

problemi legati all’affidabilità delle risposte date a questo tipo domande. Nei paragrafi

successivi ci si concentra sulle modalità di distorsione delle risposte e sulla

desiderabilità sociale.

Nel secondo capitolo, alla luce dei limiti della teoria economica classica e dei

problemi più rilevanti per la ricerca di mercato, sono stati approfonditi i concetti di

Neuroeconomia ed associazione implicita, focalizzandosi sull’applicabilità delle

tecniche di neuro marketing e implicit association alla ricerca di mercato, sull’utilizzo

di tecniche di Lie Detection e sui modi per intervenire sulla distorsione da

desiderabilità sociale.

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Nel capitolo 3 si descrive un esperimento condotto nell’Ateneo Bocconi,

finalizzato a testare la sensibilità di un item della Public Self-Consciousness Scale,

attraverso l’applicazione del Timed Antagonistic Response Alethiometer (TARA), uno

strumento di Lie Detection che basa il proprio potere discriminante sull’analisi dei

tempi di risposta dell’intervistato.

Nell’ultimo capitolo si analizzano i risultati di tale esperimento, i limiti dell’analisi

e i possibili sviluppi della ricerca.

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CAPITOLO 1

PRESENTAZIONE DELLA PROBLEMATICA

In questo capitolo si prova a fornire una descrizione sintetica del complesso

fenomeno della menzogna, per poi far luce sui problemi legati all’affidabilità delle

risposte date a domande sensibili, sulle modalità di distorsione delle risposte e sulla

desiderabilità sociale.

1.1 Perché l’individuo mente, e quando

Secondo la definizione dell’enciclopedia UTET, la menzogna è un

comportamento sociale in cui si sostituisce consapevolmente la finzione alla realtà,

[…] è di natura istintiva, serve alla difesa, è influenzata dalla società ed è

massimamente favorita dal linguaggio.

Si tratta di un concetto complesso e decisamente articolato, che può

manifestarsi in forma di autoinganno, o come mezzo per ingannare gli altri. Mentire

ripetutamente può sovvertire le convinzioni di chi ascolta fino a conseguenze radicali

e disastrose (l’esempio di un popolo che subisce una dittatura e si costringe

all’autoinganno, condividendo la visione del futuro prospettatagli dal proprio leader, è

una manifestazione imperitura di questa eventualità) (Erber, 2002).

È logico, però, anche chiedersi se l’atto del mentire sia in se stesso sempre

sbagliato. In un editoriale del 2003, apparso sull’American Journal of Alzheimer’s

Disease & Other Dementias, il Professor Zeltzer sottolinea il valore dell’asimmetria

informativa, della lubrificazione sociale favorita delle omissioni e dalle piccole bugie

(le white lies). Egli evince che una bugia a fin di bene, rassicura l'individuo

ingannato, lo aiuta a credere che ci sia qualche valore in se stesso e contribuisce in

tal modo ad aumentarne l’autostima.

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Nel caso dell’autoinganno, il gioco delle parti si fa più sfumato, visto che

l’ingannatore è anche l’ingannato (Kirby, 2003).

La questione, però, rimane aperta: Perché gli individui mentono?

Per ora l’interpretazione più comune a questa domanda è legata a doppio filo

alla necessità dell’individuo di fare una buona impressione e/o acquisire un vantaggio

per sé, o per il beneficio di altri (De Paulo, 1996; De Paulo & Bell, 1996; Bell & De

Paulo, 1996). Harvey (2004) cerca di rispondere a questa domanda riferendosi alle

situazioni nelle quali è più probabile che l’individuo menta. Si tratta di situazioni

straordinarie ed eccezionali, come in tempo di guerra o durante una calamità e,

senza grandi sorprese in contesti permeati da un cinico realismo, come la politica.

Nei procedimenti giudiziari, invece, ci si attende una quasi totale assenza di

menzogne, come, del resto, in ambito scientifico.

Quando si tratta di menzogna, però, oltre a prendere in considerazione le

caratteristiche del contesto bisogna evidenziare anche le differenze personali dei

singoli: mentire sembra un’attività più frequente in coloro che adottano un approccio

machiavellico alla vita e ricorrono opportunisticamente ad ogni tipo di

comportamento necessario al raggiungimento di un obiettivo prefissato.

Feldman (2002), utilizzando una diade, ha esaminato gli effetti degli obiettivi di

autopresentazione sulla quantità e il tipo di inganni verbali usati da partecipanti, in

rapporto con interlocutori del proprio stesso sesso e del sesso opposto. A 121 coppie

di studenti under graduate è stato chiesto di prendere parte a una conversazione che

è stata segretamente filmata. E’ stato tenuto nascosto che il fine della conversazione

fosse l’autopresentazione, e ad un membro della diade (il self presenter) è stato

chiesto di mostrarsi, a seconda dei casi, (a) piacevole, (b) competente, o (c)

semplicemente di parlare con il/la suo/a partner normalmente (controllo

condizionato). Dopo la conversazione, al self presenter è stato chiesto di riguardare

una registrazione del video dell’interazione ed identificare i momenti nei quali stava

ingannando le altre persone. Dall’esperimento è emerso che i partecipanti cui veniva

chiesto di apparire piacevoli o competenti, mentivano molto di più rispetto ai

partecipanti nella condizione di controllo.

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Altri ricercatori (De Paulo et al., 2004) hanno notato che le bugie più serie

vengono dette da, o alle persone che ci sono più vicine. I partecipanti ad un loro

esperimento hanno affermato di mentire seriamente per ottenere ciò che volevano,

per fare quello che pensavano fosse un loro diritto, o per evitare una punizione. Le

bugie, inoltre, sono state usate per proteggersi dal confronto, cercando di apparire

quel tipo di persona che si vorrebbe essere, per proteggere gli altri e, in alcuni casi,

ferirli. Il grado secondo cui le bugie e i target sono turbati dalle menzogne differisce

significativamente a seconda delle diverse tipologie di bugie. Risultati simili sono stati

ottenuti da Grover (1997) in uno studio in cui è emerso che l’interesse personale è la

ragione principale dello stimolo a mentire.

1.2 Domande Sensibili

Collegando il tema della menzogna all’ambito delle ricerche di mercato

introduciamo il concetto di domanda sensibile: con tale termine, in passato, si è fatto

generalmente riferimento a quelle domande circa l’utilizzo di droghe, i comportamenti

sessuali, le preferenze elettorali ed il reddito percepito. Con l’aumento della forza di

connotazione, che il consumo ha acquisito al giorno d’oggi, ci sembra ragionevole

che lo spettro delle domande sensibili si sia allargato anche a determinate pratiche di

consumo identitario. Si tratta, in ogni caso, di un genere di domande la cui

caratteristica peculiare è il produrre un grado di non risposta più alto rispetto a

domande che riguardano temi generali o generici.

Tourangeau, Rips, & Rasinski (2000) hanno identificato tre significati attribuiti

dalla letteratura al termine sensibilità. Il primo significato riguarda la natura intrusiva

delle domande: gli argomenti toccati sono degli argomenti considerati taboo dalla

collettività, generalmente tenuti fuori dalle conversazioni quotidiane, per cui le

domande che vertono su tali temi vengono percepite come un’invasione della

privacy, indipendentemente dalla risposta che l’intervistato sente sua. Questa

interpretazione di sensibilità dipende principalmente dal contenuto della domanda più

che da altri fattori situazionali, e tali domande rischiano di offendere tutti gli

intervistati indipendentemente dalla risposta.

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Il secondo significato attribuito al termine riguarda la minaccia di disclosure dei

dati comunicati. È naturale temere che, una volta fornite determinate informazioni

sulla propria persona, queste possano produrre spiacevoli conseguenze nel caso un

terzo venisse a conoscenza del contenuto delle risposte. Ciò si traduce nella paura

che agenzie o individui non direttamente coinvolti nel questionario vengano in

possesso delle informazioni. Per esempio, una domanda circa l’utilizzo di marijuana è

altamente sensibile per un adolescente con il timore d’essere scoperto dai propri

genitori, ma non rimane tale di fronte a garanzie credibili, che la risposta venisse

divulgata tra i soli ricercatori (soggetti diversi dagli educatori) o fosse ascoltata da

persone loro pari. Va da sé che il livello di timore degli intervistati che le proprie

risposte possano essere divulgate varia a seconda di ciò che hanno da nascondere.

È bene ricordare che, inoltre, anche se i ricercatori garantiscono la

confidenzialità dei questionari, gli intervistati in numerosi casi risultano essere

ugualmente timorosi ed evitare di rispondere in maniera veritiera, incidendo

negativamente sull’affidabilità di ricerche che trattano di temi appartenenti alla zona

grigia della (il)legalità o ritenuti socialmente inopportuni (Singer & Presser, 2007;

Singer, von Thurn & Miller, 1995).

Il terzo significato che viene attribuito alla sensibilità, quello approfondito in

questa tesi è strettamente collegato al concetto di desiderabilità sociale, ossia la

capacità della domanda proposta di portare l’intervistato a delle risposte che rivelino

attitudini o comportamenti socialmente inaccettabili, o indesiderabili (Tourangeau et

al., 2000). Questa concezione di sensibilità presuppone che ci siano delle determinate

visioni (o regole) di una società nei confronti di un determinato comportamento; le

risposte che riportano a comportamenti o atteggiamenti che aderiscono a quelle che

dovrebbe essere le norme sociali vengono definite socialmente desiderabili mentre

quelle devianti sono automaticamente definite socialmente indesiderabili. Per citare

un esempio pratico, una norma generale dice che i cittadini devono esercitare i propri

diritti (doveri) civici e votare per le elezioni. Quindi, ammettendo di non andare a

votare, un cittadino darebbe una risposta socialmente indesiderabile, così come uno

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studente che dichiara di non prepararsi adeguatamente per gli esami che deve

sostenere.

Una domanda è potenzialmente sensibile quando è considerata un’intrusione

nella sfera privata dell’intervistato, o quando egli si preoccupa della possibilità di

provocare la disapprovazione altrui rispondendo sinceramente. Rispondere a tali

domande non è un’attività di mera fornitura dati, quanto piuttosto una complessa

azione sociale mossa dal bisogno di conservare rispetto, ricercare approvazione e

sostegno altrui, e gestire un’immagine socialmente desiderabile di se stessi.

Gli intervistati, e più in generale buona parte degli individui, tendono ad

orientare i propri comportamenti alla luce di ciò che ritengono gli altri (intervistatori,

osservatori, la collettività) possano pensare sia adatto ad una data persona in una

determinata situazione. L’autovalutazione di un comportamento ritenuto

potenzialmente sensibile, indiscreto o criticabile, è inevitabilmente influenzata dalle

norme sociali del nucleo cui ciascun individuo appartiene.

La distorsione da desiderabilità sociale è un fenomeno molto più diffuso di

quanto si tenda ad aspettarsi. Probabilmente a molti è capitato di rispondere ad

alcune domande in maniera socialmente desiderabile, tale comportamento riflette il

bisogno di comportarsi secondo i dettami che la società ci fa avvertire appropriati,

accettabili o giusti: sotto questa, naturale, influenza non avvertiamo come negativa

la necessità di sacrificare l’accuratezza delle nostre risposte. Immaginiamo, ad

esempio, di esser posti di fronte alla domanda: Lei fa la raccolta differenziata?. Bene,

si tratta di un tema sensibile: sappiamo che dovremmo farla, e all’occasione, in

luoghi pubblici, gettiamo via diligentemente plastica e carta negli appositi contenitori,

nonostante in casa possiamo essere abbastanza distratti. In caso di risposta

affermativa alla precedente domanda, l’intervistatore si troverà a dover gestire una

white lie perfettamente credibile, sebbene influenzata dalla desiderabilità sociale

(visto che la risposta più onesta sarebbe stata un più semplice ma esecrabile, non

sempre).

Secondo Newman (2002) il livello di anonimato è correlato positivamente con la

quantità di dati sensibili forniti dall’intervistato, per cui è ipotizzabile che l’aumento di

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personalizzazione del questionario risulti essere una forma di pressione e una spinta

verso l’aderenza alle norme sociali. In questo modo l’eventualità di distorsioni da

desiderabilità sociale può essere evitata assicurando la massima privacy ed il minimo

grado di caratterizzazione personale, fino all’adozione di domande indirette (focus

sull’indirect questioning). Su quest’altro versante, però, una ricerca di Henson,

Carnell e Roth (1978) evidenzia la possibilità che le risposte degli intervistati in

condizioni impersonali siano distorte, comunque, dal self presentation bias.

Un aspetto della distorsione da desiderabilità sociale legato a fenomeni di

autoinganno, che verrà approfondito nei paragrafi successivi.

Per riassumere possiamo dunque definire sensibile una domanda quando può

portare l’intervistato ad ammettere di aver violato una norma sociale condivisa, ed il

grado di sensibilità è largamente dipendente dal contenuto della risposta

dell’intervistato: una domanda sulla partecipazione alle consultazioni elettorali non è

sensibile per quei cittadini che sono andati effettivamente a votare. La desiderabilità

sociale distorce le risposte degli intervistati perché minaccia la disclosure: il palesarsi

e la tematizzazione di un comportamento deviante o un’attitudine indesiderabile

dell’intervistato.

1.3 Response Bias ed effetti della desiderabilità sociale

Al di là delle problematiche legate alla desiderabilità sociale delle risposte ad

alcuni temi sensibili, è un dato di fatto che i ricercatori di Marketing facciano largo

affidamento su questionari auto compilati per raccogliere dati sul comportamento del

consumatore. Si tratta di una prassi del tutto condivisibile: i questionari sono più

veloci ed economici degli altri programmi di osservazione, sono costruiti facilmente e

sono trasportabili, in più, almeno in principio, superano le barriere del tempo,

esplorando potenzialmente sia i comportamenti passati che possibili atteggiamenti

futuri.

La maggior parte delle ricerche di mercato basate sulle osservazioni sono

ancorate al presente, sebbene esistano degli esempi di osservazioni indirette che

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indagano i comportamenti passati (Kinnear & Taylor, 1991). Attraverso questionari

ed altre tecniche di ricerca qualitativa auto compilate è, inoltre, possibile avere

accesso a costrutti sul consumatore altrimenti difficilmente osservabili con altre

tecniche (atteggiamenti, valori, cultura, personalità e soddisfazione). Ad ogni modo,

introspezioni e questionari sono ben lungi dall’essere perfetti, basti considerare che

gli assunti principali di chi fa ricerca utilizzando il questionario sono:

- I dati sono fedeli (Marradi 1990) ossia approssimano al vero.

- Le risposte date alle stesse domande da diversi intervistati sono

confrontabili. Per cui, se due intervistati di fronte alla domanda:indica su una

scala da 0 a 5, il tuo indice di gradimento nei confronti del brand x

risponderanno 4, essi avranno effettivamente il medesimo atteggiamento nei

confronti di quel brand.

Assunti sensati ma poco severi e spesso violati.

Piuttosto che dalla effettiva collocazione dell’intervistato sul continuum del quale

si occupa la ricerca, le risposte risultano dipendenti dalle tendenze significativamente

individuali a reagire agli stimoli forniti dal sondaggio.

In merito a ciò Kalton & Schuman (1982) hanno monitorato alcune delle

distorsioni (response bias) che hanno maggior probabilità di verificarsi durante la

risposta alle domande, e le dividono in due categorie: response bias content free e

response bias content sensitive, a seconda che dipendano dalla struttura del

questionario o dal significato delle domande.

I response bias content free includono:

- effetti dell’ordine delle domande (posizione della serie e relative risposte

immediate);

- tendenza all’acquiescenza (yeah saying).

Alcuni esempi di response bias content sensitive, sono, invece:

- L’ambiguità della domanda, che può portare ad un basso livello di affidabilità;

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- domande in cui si richiede l’impossibile (ad esempio un elenco delle date degli

avvenimenti storici più importanti) che inducono facilmente l’inquinamento dei dati;

- e distorsione da desiderabilità sociale (socially desirable responding, SDR).

Le distorsioni del primo tipo si manifestano perlopiù quando l’intervistato, male

incentivato o intrinsecamente poco motivato e scarsamente coinvolto nella ricerca,

fornisce risposte che, in un considerevole numero di occasioni, prescindono dal

significato della domanda, essendo finalizzate alla rapida compilazione per arrivare il

prima possibile alla fase del congedo.

L’acquiescenza (yeah-saying) è una tendenza leggermente più subdola. Essa è

la tendenza a dichiararsi d’accordo con l’affermazione espressa in una domanda

chiusa, o a rispondere affermativamente in maniera sorda, ed è riconosciuta in

letteratura come uno dei principali response set (nella classificazione di Paulhus si

parla di response set quando la distorsione è attribuibile ad una distrazione

temporanea e di response style, in presenza di una certa distorsione costante nel

tempo e nei diversi questionari). Negli esperimenti in cui viene dato al rispondente

l’ordine di segnalare se l’affermazione è vera o falsa, l’acquiescente risponderà

sistematicamente vero, evidenziando una personale propensione alla risposta

casuale. Ad esso si aggiungono dei response bias opposti nell’effetto ma identici nei

meccanismi d’innesco, rispettivamente, il negativismo, ossia il sistematico dichiararsi

in disaccordo, e la critica (nay-saying).

Un altro response set, particolarmente significativo, è l’extreme response set: la

tendenza a selezionare una risposta a prescindere dalle alternative a disposizione,

tendenza che si oppone alla propensione alla scelta ricorrente di categorie intermedie

(indifferent response set).

Nel caso delle distorsioni content sensitive, invece, il rispondente comprende il

significato della risposta, ma decide di indossare una maschera al fine di camuffare

(più o meno consapevolmente, a seconda del soggetto e del contesto) il proprio stato

vero. Il principale rappresentante della categoria è la distorsione da desiderabilità

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sociale ossia la tendenza a dare risposte non veritiere, ma finalizzate ad apparire

migliori di quello che si è, simulando di essere persone meritevoli di sanzioni positive

a livello sociale, a causa delle proprie disposizioni, dei propri stati d’animo, dei propri

atteggiamenti, delle proprie opinioni, dei comportamenti opportunamente messi e

non messi in atto (Roccato, 2002).

Preme, ora, far luce sulle diverse motivazioni da cui la distorsione da

desiderabilità sociale scaturisce, le varie istanze che la compongono ed i modi in cui

si manifesta.

Questo, e non solo, il ruolo del prossimo paragrafo.

1.4 Socially Desirable Responding

1.4.1 Gli studi sul fenomeno nella letteratura di marketing

La ricerca sul Socially Desirable Responding (abbreviato in SDR) ha una lunga

storia nel campo delle scienze sociali in generale, e della psicologia in particolare (per

una panoramica si veda Paulhus, 1991; Paulhus 2002).

Purtroppo, i ricercatori di marketing non hanno posto l'accento sul SDR come i

loro colleghi in altri campi: solo alcuni studi di marketing (soprattutto nell’analisi del

comportamento dei consumatori) hanno esaminato gli effetti della desiderabilità

sociale, e meno della metà di questi riportava dati significativi.

Ad oggi pare lecito chiedersi perché non sia stato posto un accento più

pronunciato sull’argomento, e perché non siano stati riscontrati effetti più

significativi. Forse la barriera più evidente e decisiva, sia per la sperimentazione che

per la valutazione degli effetti SDR, è stata semplicemente la sua complessità

intrinseca.

La distorsione da desiderabilità sociale si manifesta quando l’intervistato

enfatizza al di là del ragionevole gli aspetti socialmente desiderabili del proprio

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comportamento o delle proprie opinioni, alterando le relazioni tra le variabili

indagate. Si pensi, per esempio, ad un’intervista o ad una comunicazione

interpersonale: spesso, quanto più l’individuo è consapevole della propria dimensione

sociale tanto più è forte la tendenza a proiettare su di sé un’immagine che sia

accettabile e positiva rispetto alle norme culturali. Una tendenza che può essere

dovuta o all’incapacità di individuare le proprie motivazioni, o ad una precisa volontà

di nascondere fatti, opinioni e comportamenti di vario genere.

Per rendersi conto di quanto la ricerca empirica in forma di sondaggio sia

necessaria per la ricerca di marketing, è sufficiente citare uno studio recente

(Steenkamp, de Jong, & Baumgartner, 2010), nel quale sono stati monitorati i 636

studi empirici apparsi in dieci anni sulle due principali pubblicazioni di marketing (il

Journal of Marketing ed il Journal of Marketing Research, nel periodo 1996 - 2005),

evidenziando che in una percentuale di casi molto vicina al 30% sono stati utilizzati

dei sondaggi come strumento di ricerca (Rindfleisch et al. 2008).

Alla luce della tendenza degli intervistati a fornire informazioni che gli

permettano di apparire migliori (Paulhus, 2002; Tourangeau & Yan 2007) quando

sottoposti a domande sensibili, è chiaramente necessario che i dati raccolti dal

questionario autosomministrato siano veritieri oltre un ragionevole dubbio: risulta

evidente che le misure di desiderabilità sociale rappresentano, quindi, uno strumento

impagabile ai fini della determinazione di tale validità e sorprende, quindi, che

nonostante l’importanza generalmente riconosciuta al SDR nelle ricerche di mercato,

siano apparsi solo due articoli relativi al problema sulle principali pubblicazioni di

marketing (Fisher, 1993; Mick, 1996).

Entrando nel dettaglio, i response bias, e con essi anche il Socially Desirable

Responding, sono stati presi in considerazione in alcuni studi di scale development,

ma il più delle volte è accaduto che il ricercatore si limitasse a riportare

semplicemente la correlazione tra il costrutto principale ed una scala volta a misurare

il SDR, per poi concludere, in caso di correlazione nulla, che il SDR non fosse un

problema, o che fosse una minaccia trascurabile, nel caso la correlazione fosse

relativamente bassa.

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Steenkamp, de Jong e Baumgartner (2010), nel lavoro sopracitato hanno

evidenziato almeno quattro false credenze sul SDR, diffuse tra chi si occupa di

marketing:

• Il SDR può essere validamente concettualizzato come

costrutto monodimensionale;

• Tutte le scale presenti in letteratura possono parimenti

essere utilizzate per individuarlo, in quanto misurano tutte lo stesso

costrutto;

• L’obiettivo di ricerca è quello di evitare di riscontrare una

forte correlazione tra il concetto principale e le scale di SDR, visto che

un’associazione del genere implicherebbe contaminazione dei dati;

• L’impatto distorsivo del SDR può essere superato grazie

alla mera adozione di una misura del SDR come variabile di controllo.

1.4.2 Analisi del costrutto

Per superare tali assunti si può cominciare la discussione sul SDR con un’analisi

del costrutto, prendendo criticamente in esame diverse concettualizzazioni sulle

misure auto-riferite proposte in letteratura e facendo un resoconto delle scale volte a

misurare il SDR nella letteratura di marketing.

Come affermato in precedenza le risposte socialmente desiderabili sono

informazioni fornite dall’intervistato allo scopo di apparire migliore, alla luce di

specifici valori e norme culturalmente desiderabili in un dato contesto. In passato la

desiderabilità sociale è stata studiata sia in quanto caratteristica intrinseca degli item

oggetto d’analisi che come tratto della personalità, in particolare come la reiterata

tendenza degli intervistati a fornire descrizioni di se stessi esageratamente positive.

Alla nascita del dibattito (il primo a parlare di Social Desirability Bias è stato

Edwards, nel 1957) il SDR veniva concettualizzato come un costrutto

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monodimensionale, ma le scarse correlazioni tra le scale create per misurare le

differenze individuali portarono ben presto alla formulazione di numerosi modelli

bidimensionali. Una proposta interessante è che il SDR scaturisca sia come frutto di

una auto percezione esagerata ma sincera – la tendenza inconscia a pubblicizzare gli

aspetti positivi e nascondere quelli negativi – che come tentativo consapevole di

fornire agli altri un’immagine positiva di se stessi. Queste due componenti sono state

definite in diversi modi: errore alfa ed errore gamma, autoinganno ed inganno

esterno oppure, nella terminologia più utilizzata, Self Deceptive Enhancement (SDE)

ed Impression Management (IM) (Paulhus, 2002).

Ultimamente alcuni ricercatori, invece di enfatizzare le distinzioni tra le due

forme di SDR in base ai livelli di consapevolezza (conscia ed inconscia), si sono

focalizzati sulla differenza tra due livelli di contenuto in cui il SDR può essere

collocato. Secondo questa visione del fenomeno la tendenza a fornire risposte auto

indulgenti diventa meglio comprensibile nel contesto di due modalità fondamentali

dell’esperienza umana: la propensione ad agire ed il senso di comunità (Paulhus &

John, 1998). Si è notato che alcuni individui sono più propensi ad adottare un

atteggiamento di risposta socialmente desiderabile in contesti legati all’azione,

all’affermazione del carattere dominante, alla capacità di farsi valere, di influenzare

gli altri, mostrare padronanza della situazione, unicità, potere, status, ed

indipendenza. Altri soggetti tendono invece a fornire risposte contaminate dal SDR in

contesti comunitari, legati allo spirito di affiliazione, al senso di appartenenza,

all’intimità, all’amore, al bisogno di approvazione e di sostegno familiare. Paulhus e

John, in un loro contributo del 1998, danno un nome specifico a tali forme di SDR:

tendenze egoistiche alla risposta (egoistic response tendencies, ERT) e tendenze

moralistiche alla risposta (moralistic response tendencies, MRT).

La più aggiornata concettualizzazione del SDR è stata proposta da Paulhus

(2002) che opera una classificazione incrociata tra il grado di consapevolezza e il tipo

di contenuto. In questo modo possono manifestarsi delle distorsioni nell’auto-

percezione delle proprie qualità intellettuali, sociali ed emotive tendenti al

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23

superomismo (ERT), sinceramente ed inconsciamente sostenute (SDE), oppure

mostrate deliberatamente e strategicamente (IM). All’opposto, nel caso di distorsione

percettiva tendente ad un autoritratto agiografico (MRT), la percezione di

caratteristiche come la responsabilità e la cura dei rapporti interpersonali, possono

essere generate sia da una visione conscia e strumentale che da un inconscio

autoinganno. Paulhus sostiene che l’impression management consapevole sia più

suscettibile all’influenza del contesto e quindi meno resistente in tempi e contesti

diversi, a differenza della self deception inconsapevole, tratto molto più sedimentato

nella personalità dell’individuo.

1.4.3 Le scale per la misurazione del SDR

Ovviamente nell’arco degli anni sono state create numerose scale che si

proponevano lo scopo di misurare le differenze individuali riguardo al SDR (per una

panoramica completa si veda Paulhus, 1991). Le più significative tra queste sono la

Edwards SD scale, la Wiggins SD scale, la Marlowe-Crowne Social Desirability scale,

alcune scale del grado di verità come la EPI Lie scale, ed infine il Balanced Inventory

of Desirarable Responding (BIDR), creato dallo stesso Paulhus.

Figura 1: Le componenti del Socially Desirable Responding.

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24

Tra le scale citate, il BIDR è l’unico strumento multidimensionale ad operare la

distinzione tra Self Deceptive Enhancement (SDE), che si assume misuri la

distorsione inconsapevole della positività, e Impression Management (IM), misura

della deliberata falsificazione delle descrizioni di sé.

Si è ipotizzato, inoltre, che una terza scala, detta Self Deceptive Denial, potesse

misurare la distorsione inconsapevole, ma in base agli studi compiuti risulta essere

fortemente correlata solo con l’IM, e non viene utilizzata spesso. Di tutte le scale di

misura la sola ad essere correlata significativamente al SDE è quella di Edwards,

mentre la scala di Wiggins e la EPI

scale sono correlate all’IM.

Paulhus nel 1991 ipotizzava che, nonostante la Marlowe-Crowne Social

Desirability scale fosse significativamente correlata con entrambe le componenti del

SDR, rappresentava innanzitutto una misura della distorsione consapevole, sebbene

alcuni studi, come quello di Helmes e Holden, del 2003, mostrino che le correlazioni

tra le due componenti siano abbastanza simili.

Studi recenti hanno dimostrato quanto sia importante distinguere tra le

tendenze egoistiche alla risposta e quelle moralistiche e soprattutto che è possibile

utilizzare a tal fine le sottoscale del BIDR relative all’IM e al SDE (Konstabel, Aavik e

Allik, 2006; Lalwani, Shavitt e Johnson, 2006; Paulhus, 2002; Paulhus e John, 1998;

Pauls e Crost, 2004; Pauls e Stemmler, 2003). Gli studi di Paulhus del 1991

riportavano gradi di affidabilità dal .68 al .80 per il SDE, e da .75 a .86 per l’IM,

mentre studi più recenti hanno riscontrato gradi più bassi, intorno al .60-.65 per il

SDE e il .70 per l’IM (Pauls e Stemmler, 2003; Mesto et al., 1996; Reid-Seiser e

Fritzsche, 2001; Roth e Herzberg, 2007), con correlazioni di validità discriminante, da

.05 a .40.

In seguito Paulhus (2002) suggerisce che la scala relativa al SDE sia utile a

valutare la tendenza inconsapevole alla risposta egoistica, che la scala relativa alla

negazione dell’autoinganno valuti la tendenza alla risposta moralistica inconsapevole

e che la scala per l’IM intercetti la tendenza alla risposta moralistica consapevole.

Non esiste, ad oggi, scala preposta a rivelare efficacemente la risposta egoistica

consapevole, e l’idea che la scala SDE valuti la distorsione inconsapevole e la scala

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25

IM valuti quella deliberata, è stata confutata da ricerche successive (Pauls e Crost,

2004; Roth e Herzberg 2007).

Il supporto a tale teoria era inizialmente basato sull’idea che l’IM fosse

abbastanza sensibile alle manipolazioni contestuali sulla bontà apparente, a

differenza del SDE, ma le seguenti ricerche hanno mostrato come ciò fosse

principalmente dovuto alla connotazione di empatia finta che avevano le

manipolazioni sul fingere bontà e che, in caso di utilizzo di istruzioni che

enfatizzassero la predisposizione all’azione, le due scale fossero ugualmente sensibili

alla manipolazione.

Dunque, mentre le scale per il SDE e l’IM possono essere usate per

differenziare efficacemente le tendenze egoistiche da quelle moralistiche non sono in

grado di rivelare, rispettivamente, la distorsione inconsapevole e quella consapevole.

Nei casi in cui la necessità di una favorevole presentazione di sé stessi sia

minima (ad esempio quando l’argomento non è delicato e i dati sono raccolti

anonimamente), le scale sopracitate sono in grado di cogliere la distorsione

inconsapevole. All’opposto, quando le pressioni esterne a fornire un’immagine

positiva sono numerose (nel caso in cui la ricerca non sia anonima, le domande siano

delicate, vi sia per l’intervistato la possibilità di commettere errori o i risultati vengano

dichiarati in pubblico), le due scale colgono sia le distorsioni inconsce (che emergono

al di là del contesto) che quelle consapevoli (incoraggiate dalla situazione).

CONCLUSIONI

Fatta chiarezza (quello era, almeno, l’intento) sulla natura del SDR, sugli studi

compiuti in passato e sull’efficacia delle scale utilizzate, nel prossimo capitolo si

passerà ad illustrare l’universo concettuale e l’ambito scientifico, da cui nascono le

tecniche e la metodologia che in questo studio sono state utilizzate per propvare a

rispondere alla domanda di ricerca: di fronte ad una domanda sensibile, è possibile

discriminare la tendenza a mentire degli intervistati?

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26

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27

CAPITOLO 2

MODELLI DI RIFERIMENTO

In questo capitolo si approfondiscono i concetti di Neuroeconomia ed

associazione implicita, focalizzandosi sull’applicabilità delle tecniche di neuro

marketing e implicit association alla ricerca sulla distorsione da desiderabilità sociale.

2.1 Contributi e sviluppi della Neuroeconomia

La Neuroeconomia è un recente ambito di ricerca interdisciplinare in cui

convergono studi di economia, psicologia e neuroscienze, rivolti principalmente

all’indagine dei processi decisionali nella soluzione di problemi economici (Babiloni,et

al., 2007). Questa scienza è interessata alla base teorica dei comportamenti

economici e sociali e ai loro correlati neuronali che possono spiegare le scelte e le

prese di decisioni vincolate. Ciò che essenzialmente costituisce la novità di questo

approccio sperimentale è l’impiego di tecniche e metodi mutuati dalle neuroscienze

cognitive al fine di costruire modelli fedeli alla realtà del comportamento economico

(Glimcher et al., 2004). Secondo Camerer et al. (2005), impiegare le risorse del brain

imaging nella ricerca economica permette di aprire la mente dell’agente, la black box

umana, grazie alla misurazione diretta dei pensieri e delle emozioni.

2.1.1. Economia comportamentale: verso la neuroeconomia

Quando si parla di studio del comportamento umano, sarebbe opportuno

ricordare che, storicamente parlando, le discipline della psicologia e dell’economia

erano già all’inizio strettamente legate tra loro. Secondo Ashraf et al. (2005), è

possibile individuare agli inizi del XX secolo il momento storico in cui è avvenuta la

separazione accademica tra le due discipline. Nonostante entrambe le scienze

fossero fondamentalmente interessate alla comprensione del comportamento

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28

economico umano, la psicologia scelse di privilegiare un approccio empirico

procrastinando la formalizzazione dei risultati, mentre all’opposto, l’economia scelse

di costruire prima le fondamenta teoriche, pagando in termini di eccessive

semplificazioni e, dunque, proponendo irrealistiche assunzioni sui processi che

governano il comportamento umano (Loewenstein et al., 2008). Di conseguenza,

mentre la psicologia divenne una disciplina prevalentemente empirica, l’economia

divenne una scienza prevalentemente teorica.

A partire dal pioneristico articolo di Thaler, che nel 1980 focalizzava l’attenzione

su quanto i modelli economici comportamentali si discostassero dalla realtà di alcune

situazioni di scelta, sono stati numerosi i tentativi di riunire sinergicamente le due

discipline. La definitiva svolta critica si è avuta alla fine degli anni ’80, quando grazie

al contributo di Newsome e colleghi (Newsome et al., 1989) le scienze delle decisioni

riconobbero implicitamente la condivisione di un terreno di ricerca comune, per

tentare di spiegare quelle azioni e decisioni umane per cui gli approcci deterministici

di mappatura sensorial–motoria si erano rivelati insufficienti (Glimcher e Rustichini,

2004).

In quegli anni, la crescente attenzione degli economisti sulle limitazioni della

teoria delle scelte razionali condusse alla nascita dell’economia comportamentale

(intesa come la branca dell’economia che incorpora assunzioni maggiormente

realistiche dal punto di vista psicologico, per migliorare la capacità descrittiva e

predittiva della teoria economica). In questo contesto, si cominciò ad attingere alle

evidenze fornite dalla ricerca di impronta comportamentista sui processi decisionali.

Attualmente l’economia comportamentale si muove anche su altri canali di ricerca,

che comprendono la psicologia sociale e la psicologia cognitiva. Vista la crescente

importanza delle neuroscienze all’interno del campo della psicologia (Jeannerod,

1997) e dell’apertura dell’economia comportamentale alle nuove metodologie, può

essere individuato alla fine degli anni novanta il momento storico della nascita della

neuroeconomia (Loewenstein et al., 2008). La convergenza delle due discipline

(economia e psicologia) nel campo della neuroeconomia è d’altronde esclusivamente

attribuibile a cambiamenti avvenuti all’interno dell’economia. Questa considerazione

muove dall’osservazione che le scoperte più significative nel campo delle

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29

neuroscienze cognitive hanno posto una sfida più diretta alla visione economica

classica, rispetto alle prospettive dominanti all’interno della psicologia. Ad esempio,

la visione economica del processo decisionale come unitario (con l’unico obiettivo di

massimizzare l’utilità in modo logico–coerente ed integrato) è una delle assunzioni

economiche fondamentali più discusse dalla ricerca neuroscientifica.

Una delle più importanti intuizioni della ricerca neurocognitiva (e in seguito,

neuroeconomica) consiste nel superamento della concezione del cervello come di un

processore omogeneo, in quanto coinvolge una combinazione di diversi processi

specializzati che si integrano in diverse modalità quando il cervello affronta problemi

diversi. La disciplina emergente della neuroeconomia offre una nuova strategia per

testare i modelli teorici esistenti di qualunque tipo ma anche, radicalmente, di

sviluppare nuovi modelli con tecniche empiriche mutuate dalle neuroscienze.

L’approccio della neuroeconomia alla spiegazione dei fenomeni economici può

dunque essere debole o forte. Il primo accetta di ristrutturare gradualmente la teoria

economica standard alla luce delle modifiche sperimentali dell’indagine psicologica,

confermate dalle tecniche di analisi delle neuroscienze. Il secondo, invece, si pone

l’obiettivo di rifondare completamente l’economia sulla base dei concetti neurali,

sottendendo una teoria della mente di tipo monista radicale (Rizzolatti et al., 2008),

ovvero una ricerca basata sull’identità tra linguaggi e modelli del cervello.

2.2 Il Neuromarketing

L’aumento esponenziale nelle capacità dei neuroscienziati di studiare

direttamente l'attività corticale in termini di frequenza, tempo e spazio, grazie

soprattutto alle tecniche di visualizzazione in vivo dell’attività cerebrale (brain

imaging), hanno consentito un aumento consistente delle attività di ricerca.

La psicologia e le scienze neurologiche hanno rapidamente applicato tali

tecniche e portato progressi sorprendenti nella nostra comprensione del cervello e

dei processi cognitivi. Tuttavia, la maggior parte delle scienze sociali deve ancora

adottare il neuroimaging come strumento standard o, comunque, come procedura

per la ricerca. In particolare, mentre l'economia ha iniziato a utilizzare questo tipo di

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30

tecnica nella sua ricerca – che ha portato alla nascita della Neuroeconomia (ad es.

Braeutigam, 2005; Kenning e Plassmann, 2005; Rustichini, 2005) - la scienza è stata

in qualche modo più lenta nel comprendere i benefici di questo tipo di ricerca basata

sull’osservazione diretta delle reazioni del cervello umano agli stimoli esterni,

nonostante entrambe le discipline condividano un interesse comune nello studio dei

meccanismi che sottendono i processi decisionali e di scambio.

Nonostante tali e tanti entusiasmi è bene tenere in considerazione che esistono

diverse ragioni per cui le metodologie di brain imaging non hanno attecchito

repentine nel campo della ricerca di marketing (Lee et al., 2007):

- Dal punto di vista di un certo marketing accademico,

neuroscienze e psicologia cognitiva in generale possono risultare materie

distanti ed ostiche;

- Per i dipartimenti di marketing di Università di medie dimensioni

molti strumenti di ricerca non sono solo culturalmente distanti, ma anche

praticamente irraggiungibili. Si pensi a strumenti come la tomografia ad

emissione di positroni (PET), l’encefalografia magnetica (MEG), la risonanza

magnetica funzionale (fMRI) o l’elettroencefalografia (EEG) che non sono di

facile accesso, e richiedono ingenti investimenti (sia per l’acquisto che per la

manutenzione) che vengono sostenuti solo da atenei medio-grandi, in cui

esiste la possibilità di proficue sinergie tra la ricerca medicale e quella

economico-sociale.

Le barriere pratiche, inoltre, convivono anche con ampie limitazioni di tipo

culturale ed etico; barriere generate da un dibattito acceso e non trascurabile che si

è sviluppato attorno alla liceità, e alla moralità dell’applicazione delle tecnologie di

brain imaging allo studio delle reazioni inconsce agli stimoli pubblicitari,

paventandol’occulto obiettivo della ricerca del famigerato interruttore dell’acquisto (il

temutissimo buy button).

In realtà, la Neuroeconomia si definisce come: L’applicazione delle tecniche

neuroscientifiche alla comprensione e all’analisi dei comportamenti economicamente

rilevanti (Kenning and Plassmann, 2005) e, seguendo tale concetto, il

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31

neuromarketing come ambito di ricerca può essere definito semplicemente come

l’applicazione del metodo neuroscientifico all’analisi del comportamento dell’uomo in

relazione ai mercati. Con tale definizione si fa chiarezza sulla natura non puramente

commerciale e manipolatoria del neuromarketing (lontano dalla ricerca della pietra

filosofale del bottone d’acquisto nella mente del consumatore, o almeno non limitato

ad essa) si amplia lo spettro dei contenuti, non limitando l’applicazione delle tecniche

di neuroimaging al solo scopo commerciale, o allo studio del comportamento del

consumatore, ma anche ad altri temi tipici dalla letteratura di marketing, quali la

ricerca intra ed inter-organizzativa.

Risulta facile anche la comprensione dell’idea che la valutazione dei correlati

neurologici del comportamento del consumatore mediante le tecniche di brain

imaging abbia causato un’eccitazione considerevole negli ambienti del marketing.

Sebbene sia lecito pensare che il neuromarketing sia solo l’applicazione delle tecniche

di neuroimaging al comportamento del consumatore in risposta agli stimoli delle varie

marche e prodotti, questa definizione risulta essere riduttiva.

Il Neuromarketing, o la neuroscienza applicata allo studio del consumatore è

semplicemente una sotto area della neuro economia che si occupa dei problemi

rilevanti per il marketing utilizzando metodologie e suggerimenti dalla ricerca

cerebrale. Grazie al supporto delle tecniche di scanning più innovative, è possibile

provare a decodificare la scatola nera dell’organismo. Ma si tenga bene a mente che

le neuroscienze del comportamento del consumatore sono in uno stato embrionale e

non vanno interpretate come una sfida alle teorie esistenti, piuttosto come una serie

di strumenti complementari alle tecniche tradizionali di indagine dei meccanismi

decisionali, utili a rafforzare la validità scientifica dei risultati.

Tornando allo studio oggetto di questa tesi, un test che si basa sulla

misurazione dei tempi di risposta e di reazione dell’intervistato può essere

considerato come il più semplice tipo di test di Neuromarketing: il fattore comune

consiste nell’aggirare le informazioni esplicite, per focalizzarsi sui segnali indiretti,

impliciti che il corpo e la mente dell’intervistato forniscono al ricercatore attento e

preparato, al di là della volontà esplicita di comunicare.

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32

Il marketing prende così, lo spunto per investigare l’effetto del brand o dei suoi

valori (fin qui territori di ricerca ampiamente battuti) con l’innovativo supporto di

algoritmi che misurano il ritardo nei tempi di risposta, e grazie a ciò riescono a

fornire informazioni sugli atteggiamenti reali del consumatore.

Rispetto alle tecniche sviluppate precedentemente per superare il problema

delle distorsioni nelle risposte, ed individuare le effettive preferenze del

consumatore/intervistato, l’Implicit Association Test fornisce misure quantitative per

determinare i valori di una domanda qualitativa.

Questa tesi si focalizza su un modello di test che si prefigge, sulla scorta degli

insegnamenti del Neuromarketing, di analizzare il comportamento dei consumatori, le

loro scelte, ed in fondo anche i loro bisogni, non in base a domande dirette, vittime

potenziali di numerosi response bias (social desirability bias in primis), ma in base

allo studio degli effetti degli stimoli, e le relative associazioni mentali inferite grazie

ad algoritmi che monitorano i tempi di risposta.

2.2 Implicit Association

Nell’ultimo decennio la comunità scientifica ha manifestato un notevole

interesse verso l’utilizzo di tecniche di misurazione implicita nell’ambito delle scienze

sociali.

Le ricerche hanno riguardato un’ampia serie di ambiti, tra cui le attitudini (Fazio

et al. 1995, Greenwald et al. 1998), gli stereotipi (Wittenbrink et al. 1997, Nosek et

al. 2002), l’autostima (Hetts et al. 1999, Bosson et al. 2000, Koole et al. 2001,

Rudman et al. 2001), le relazioni interpersonali (e.g., Banse 1999), e le abitudini

sanitarie (Stacy et al. 1997) impiegando diverse tecniche di ricerca implicita.

La ricerca implicita, al pari del neuro marketing, si pone l’ambizioso obiettivo di

rilevare i pensieri, le convinzioni, i valori sedimentati a livello semicosciente

nell’intervistato (tra cui le già citate istanze del socially desirable responding e della

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33

public self consciousness). Ma, mentre il neuromarketing si avvale di tecniche

mutuate dalla ricerca accademica neuro scientifica (elettroencefalogramma,

risonanza magnetica e brain imaging, per citarne alcune) la ricerca implicita prende

l’avvio dalla necessità dei criminologi di affinare tecniche di rilevamento della

menzogna.

Ci sono numerose buone ragioni per cui un intervistato sia restio a fornire

risposte completamente sincere ed articolate, ad esempio quando si trova a non aver

nulla di preciso da dire in merito all’argomento dell’intervista; quando vuole

presentarsi in maniera migliore e più accettabile socialmente, oppure, infine, nel caso

in cui abbia deliberatamente deciso di mentire.

È dall’attività di osservazione delle reazioni del soggetto intervistato, alla base di

ogni metodo di lie detection, che il marketing può prendere lo spunto per investigare

l’effetto sulla percezione da parte della collettività di un brand o dei suoi valori (fin

qui territori di ricerca ampiamente battuti da tecniche tradizionali sia quantitative che

qualitative) con l’innovativo supporto di algoritmi che misurano il ritardo nei tempi di

risposta, e grazie ad esso riescono a fornire informazioni sugli atteggiamenti reali del

consumatore, sulle sue effettive tendenze.

Rispetto alle tecniche sviluppate precedentemente per superare il problema dei

response bias, le tecniche di ricerca implicita forniscono misure quantitative per una

domanda qualitativa (Greenwald, 2003; Gregg, 2007).

2.2.1 L’Implicit Association Test (IAT)

Molti psicologi hanno sospettato a lungo dell’esistenza di pensieri e sentimenti

che non fosse possibile portare alla luce attraverso una domanda esplicita. È

probabile che un soggetto non sia disposto ad esplicitare ciò che prova o che pensa,

o, più probabilmente, in alcuni casi, tale soggetto non sia pienamente cosciente dei

propri pensieri e delle proprie convinzioni più radicate. Per questo motivo dall’inizio

degli anni ’80 sono stati individuati dei metodi di inchiesta che si ponessero come

alternative ai questionari diretti, ovviando al problema dei response bias riguardo le

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34

misure self-report, per studiare le forme di pensiero inconsce. Uno dei metodi più

utilizzati è l’Implicit Association Test (IAT).

Lo IAT necessita che l’intervistato inserisca gli item appartenenti a quattro

categorie differenti, in determinati gruppi, sulla base di un fattore comunce

discriminante.

Carney et al. in un lavoro del 2007 propongono un esempio tanto semplice

quanto pregnante del meccanismo di funzionamento dello IAT: si immagini di avere

di fronte a sé un classico mazzo di carte francesi e di doverlo dividere in due, due

volte. La prima volta le carte verranno separate in base al colore, cosa ben facile da

fare vista l’immediatezza del criterio discriminante. La seconda volta si immagini

invece di separare i mazzi sistemando da una parte fiori e quadri, dall’altra cuori e

picche; va da sé che questa volta il processo non sarà altrettanto agevole, vista la

minore forza del criterio discriminante.

L’idea sottostante il meccanismo di associazione implicita è che gli oggetti (o le

frasi) accomunati da una stessa determinata caratteristica, siano più facili da mettere

in relazione, rispetto ad altri.

Si immagini, per chiarezza, che alcune categorie sociali diventino il legame

implicito tra gli oggetti, il genere può essere un esempio della relativa robustezza con

cui le categorie maschile e femminile vengono associate con concetti come carriera e

famiglia: secondo uno stereotipo abbastanza diffuso le associazioni tra femminile e

famiglia, maschile e carriera saranno più facili di quelle tra maschile e famiglia e

femminile e carriera. Lo IAT, inoltre, può fornire una misura del grado di associazione

tra categorie (maschile e femminile) da un lato, e attributi (famiglia e carriera)

dall’altro. Diventa così una misura per la forza dell’associazione tra categoria ed

attributo in base al tempo impiegato per compierla ed il numero di errori compiuti

per via della consegna di rispondere il più velocemente possibile.

La correlazione tra categorie ed attributi valutativi (come buono e cattivo)

fornisce misure della disposizione implicita, la forza dell’associazione tra categorie e

attributi valutativi fornisce una misura dell’autostima.

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35

Lo IAT viene somministrato al computer, rappresentando i concetti attraverso

parole, immagini o suoni che permettono un’ampia flessibilità nella somministrazione

includendo categorie difficilmente raggiungibili in altri modi, come analfabeti, bambini

e non vedenti.

2.2.2 Il Go/No-go Association Task (GNAT)

Altre tecniche di associazione implicita nascono per soddisfare bisogni peculiari

della ricerca: Il GNAT è una tecnica flessibile creata per misurare la percezione

sociale implicita. Concettualmente simile alle altre misure, come l’Implicit Association

Test (IAT; Greenwald, McGhee, & Schwartz, 1998), ma l’esigenza per cui nasce è

valutare le associazioni automatiche tra un concetto (ad es. il genere) ed un attributo

(ad es. una categoria di valutazione. Sono due le caratteristiche che lo distinguono

dagli altri metodi di misurazione di cognizione sociale implicita:

Primo, il GNAT è costruito per utilizzare statistiche di rilevamento dei segnali

durante il calcolo delle associazioni automatiche, ma può anche essere adattato per

l’analisi dei tempi di latenza delle risposte come variabili dipendenti.

Secondo, il GNAT è flessibile nel definire le caratteristiche contestuali per la

situazione di valutazione. Per esempio, lo IAT necessita che l’atteggiamento verso

una categoria sia definito in relazione ad una seconda categoria. Con lo GNAT, I

ricercatori possono scegliere se la categoria principale deve essere valutata in base

all’altra categoria, ad una macrocategoria superiore, ad una categoria generica o

anche essere valutata senza nessun confronto.

2.2.3 L’Autobiographical Implicit Association Test (aIAT)

Lo IAT autobiografico, è una variante testata sia in ambito accademico che nei

test della medicina legale; può essere utilizzata per stabilire la presenza di una

traccia autobiografica codificata nella mente del partecipante all’esperimento.

Il test si compone di due blocchi critici di categorizzazione, in ognun dei quali

accosta un avvenimento potenzialmente autobiografico è accostato ad altri fatti reali.

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36

Poiché la presenza nelle associazioni di un avvenimento autobiografico facilita la

risposta, il percorso di risposta nei differenti blocchi indica quale evento

autobiografico sia vero.

2.3 I metodi di Lie Detection

Da tempo immemore l’uomo, spinto dall’atavico bisogno di riduzione

dell’incertezza, è alla ricerca di metodi inconfutabili (o almeno affidabili) che siano in

grado di rilevare la menzogna.

Sfortunatamente -ad oggi- sia i neofiti che i professionisti della rilevazione della

menzogna non sono capaci di individuare le menzogne a livelli sensibilmente al di

sopra del caso (Bond & DePaulo 2006; DePaulo 1994; De Paulo & Pfeifer, 1986)

eppure vari tentativi sono stati fatti per sviluppare tecnologie di lie-detection efficaci,

che riuscissero a discriminare in base ad un presupposto scientifico l’atto del mentire.

Esistono due tecniche, però, comunemente utilizzate in criminologia, che sono

mutuabili nell’ambito della ricerca di mercato. Queste tecniche utilizzano la poligrafia

e la risonanza magnetica. Il primo metodo si basa sul principio che l’atto del mentire

causi nel bugiardo una risposta fisiologica, che uno specifico dispositivo è in grado di

misurare monitorando i cambiamenti nel ritmo della respirazione, nella pressione

arteriosa, nei battiti cardiaci e nella conduttività della pelle durante l’esposizione della

persona testata ad una serie di domande da parte dell’operatore. Il secondo metodo,

brevettato dall’impresa No Lie Mri™, supera i processi consapevoli della mente

misurando direttamente l'attività del cervello e della colonna vertebrale (sistema

nervoso centrale).

2.3.1 Il Guilty Knowledge Test

La tecnica del Guilty Knowledge Test (GKT; Lykken, 1959, 1960, 1998) compara

le reazioni a due tipi di informazioni: quelle vere, che solo i colpevoli conoscono, e

quelle false che sono plausibili per tutti gli intervistati. La premessa sottostante, in

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37

questo caso, è che solo detti colpevoli riconosceranno il primo tipo di informazione,

producendo risposte rivelatrici (Siddlet, 1991; Sokolov, 1963).

2.3.2 Control Question Test

La tecnica del Control Question Test (CQT; Bull, 1988; Honts, Raskin, & Kircher,

2002; Raskin, 1989), compara le reazioni dell’interrogato a due tipologie di domande:

domande rilevanti (ad esempio relative al crimine) e di controllo (come quelle

generalmente inquietanti). La premessa sottostante a questo test è che i bugiardi

risponderanno con maggiore veemenza alla domanda test (la prima) mentre gli altri

intervistati (gli onesti, o i non coinvolti) mostreranno intensità simile nella reazione

sia alla domanda di controllo che a quella test.

Nonostante il rilevamento di informazioni manipolate sia ad un livello sopra la

media, entrambe le tecniche sono soggette a critiche. Il CQT è stato criticato per

aver prodotto risultati di colpevolezza errati in alcuni campi (Moore, Petrie e Braga

2003; Patrick e Iacono, 1989), mentre il GKT ha dimostrato dei limiti nella capacità di

discriminare tra i veri colpevoli e le persone coinvolte nel test che fossero

semplicemente ben informate (Bradley, MacLaren e Carle, 1996; Podlesny, 1993).

Inoltre, sia il CQT che il GKT hanno un limite comune: entrambi richiedono

attrezzature ingombranti ed operatori addestrati per utilizzare tali macchinari. Lo

stesso si può dire per quelle tecniche che cercano di trarre gli indici di colpevolezza

dai sistemi di attivazioni neurobiologici (ad esempio l’fMRI; Ganis, Kosslyn, Stone,

Thompson, & Yurgelun-Tod 2003; Kozel, Padgett, & George 2004; Lee et al 2002,

Rosenfeld, Soskin, Bosh, & Ryan, 2004; Spence et al, 2001). Altrettanto ingombranti,

data la richiesta di un intenso lavoro di codifica, sono le tecniche che cercano di

inferire la colpevolezza dalla stranezza dei comportanti verbali e non verbali.

(DePaulo et al, 2003; Ekman & O’Sullivan, 1991; Vrij, 2000, 2005; Vrij, Akehurst,

Soukara, & Bull, 2004).

Non è sorprendente, pertanto, che i ricercatori, seguendo le orme dei primi

pionieri (English, 1925, Marston, 1925) abbiano iniziato a studiare la capacità di

Page 36: TS1284876

38

determinare la menzogna a partire dal ritardo nei tempi di risposta (RT) (Holden,

1998; Holden e Hibbs, 1995; Saymour, Seifert, Shafto, e Mossmann, 2000;

Verschure, Crombets e Koster, 2004; Verschure, Crombets, Declercq, e Koster, 2004;

Walkzyk, Roper, Seemann, e Humprey, 2003; Walkzyk et al, 2005).

2.4 Presupposti della lie detection Response Time based

Oltre ai metodi che utilizzano le reazioni fisiche dell’intervistato, sono state

svlupate alcune tecniche che utilizzano, invece, il tempo di risposta come

discriminante della menzogna. Walczyk et al. (2003) hanno osservato che mentire

costituisce un’attività cognitiva più complessa rispetto al rispondere sinceramente, e

postulano che, mentre la prima attività implica la semplice attivazione di pensieri

conformi alla realtà fattuale, mentire necessita un’ulteriore decisione, seguita dal

processo di costruzione della menzogna effettiva. Per portare a termine queste due

azioni ulteriori l’individuo ha bisogno di più tempo, permettendo così di distinguere

verità e falsità delle affermazioni.

Rimane ancora poco chiaro se sia possibile utilizzare realmente il tempo di

risposta per discriminare con precisione l’eventualità della menzogna, e se sia

possibile discriminare tra stimoli di controllo e stimoli target.

Ad esempio, Verschure et al. (2004) hanno rilevato che nonostante I

partecipanti avessero classificato le immagini a loro familiari più lentamente di quelle

estranee, non avevano classificato le immagini scelte più lentamente di quelle

scartate. In più, in un ulteriore esperimento, gli stessi autori attribuiscono alle

caratteristiche psicologiche, piuttosto che ai tempi di risposta, il potere di

discriminare le immagini relative ad un crimine simulato (target) da quelle di

controllo (si vedano anche Vincent & Furedy, 1992).

Per concludere, Gronau, Ben-Shankar, e Cohen (2005) hanno riscontrato che I

partecipanti all’esperimento impiegavano un tempo maggiore solo nel riconoscere gli

oggetti a loro più cari, non quelli che avevano precedentemente rubato durante una

Page 37: TS1284876

39

simulazione, e resta da verificare se i ritardi nei tempi di risposta su cui si basano le

ricerche di Walczyk e Holden possano essere seriamente replicati.

Esistono studi che non sono riusciti a trovare una connessione tra tempi di

risposta più brevi e la sincerità delle affermazioni (Brunetti, Schlottmann, Scott, &

Hallrah, 1998; Kruger, Reilly, & Russell, 1991; McManus, 1990), ed in uno studio si è

riscontrata persino una correlazione negativa (Hsu, Santelli, & Hsu, 1989).

Ma la confusione di questi risultati probabilmente è riconducibile alla natura dei

dati dei tempi di risposta (Pachella, 1974). Holden et al. (1992) hanno ipotizzato che

gli intervistati con la tendenza a simulare onestà e buoni sentimenti (Moralistic self

enhancement) utilizzassero uno schema cognitivo che ritardava i tempi delle risposte

riguardanti tratti indesiderabili (ed incompatibili con tale schema cognitivo). Numerosi

studi successivi (Holden, 1995, 1998; Holden & Kroner, 1992; Holden & Hibbs, 1995)

hanno avallato e rinforzato tali assunti, arrivando a dichiarare che sia possibile

discriminare le persone che mentono da coloro che dicono la verità con un grado di

certezza del 70% circa.

Un ulteriore problema è dato dalla possibilità per un rispondente informato di

aggirare l’ostacolo del tempo di risposta come discriminante. Nello specifico, un

soggetto informato potrebbe deliberatamente decelerare nella risposta alle domande

target, ed accelerare nelle domande in cui sa di star mentendo.

È bene, poi, non dimenticare che i tempi di risposta degli intervistati hanno

comunque diversi fattori determinanti, oltre alla disonestà: vale la pena ricordare gli

aspetti precedentemente studiati da altri ricercatori, come la complessità delle

domande poste (Dunn, Lushene, & O’Neil, 1972), l’accessibilità all’informazione

richiesta (Fazio, 1995; Fazio, Williams, & Powell, 2000; Higgins, 1996), e le naturali

differenze personali dei tempi di reazione (McFarland & Crouch, 2002; Duncan,

Phillips, & McLeod, 2005). Nonostante si tratti di fattori controllabili resta intatta la

difficoltà della generalizzabilità dei risultati.

È per questo motivo che ogni tecnica basata sui tempi di risposta che aspiri ad

essere realmente adottata deve apportare risultati che siano generalizzabili, affidabili,

ampi e robusti.

Page 38: TS1284876

40

Il Timed Antagonistic Response Alethiometer nasce con l’obiettivo di soddisfare

tali necessità, a differenza dei principi alla base dei metodi di lie detection tradizionali

(Lykken, 1998; Moore et al., 2003) quello che sottende il TARA è semplice ed

disambiguo: tenendo costante il tasso d’errore, i blocchi incompatibili richiedono un

tempo maggiore per essere portati a termine rispetto a quelli compatibili.

2.4.1 Il Timed Antagonisc Response Alethiometer (TARA)

Il metodo TARA è stato ideato da Aiden P. Gregg, un ricercatore della facoltà di

Psicologia dell’Università di Southampton (tra i fondatori della società Project Implicit,

specializzata in ricerche di mercato e sondaggi d’opinione, attraverso tecniche di

associazione implicita), che lo ha mutuato sulla base dell’Implicit Association Test (è

possibile affermare che il TARA sia una versione isomorfa dello IAT canonico, sulla

base di quanto dichiarato dallo stesso Gregg); anch’esso si compone di una struttura

multi-blocco, ma differisce dallo IAT per quattro ragioni fondamentali:

1. Durante lo IAT gli stimoli sono composti da singole parole o

determinate immagini mentre nel metodo TARA vengono utilizzate frasi

complete di due tipi: Target e Control. Quelle del primo tipo esprimono

proposizioni vere o false riguardanti l’intervistato, mentre quelle del

secondo riguardano un argomento irrilevante ai fini della ricerca.

2. Le categorie nello IAT possono essere sia valutative che

semantiche e la classificazione delle risposte avviene in base alle

caratteristiche degli specifici item; nel caso di utilizzo del metodo TARA la

classificazione avviene in base alla veridicità o falsità delle risposte, dato

le categorie di item sono logiche.

3. Le variazioni nella compatibilità dello IAT cambiano a seconda

della configurazione delle etichette di categoria mentre nel TARA è a

seconda della strategia di risposta degli intervistati (dire il vero o il falso)

che esse si verificano.

4. L’output dello IAT consiste in un indice composto: la differenza

nel tempo medio di risposta tra blocchi compatibili o incompatibili. Con il

Page 39: TS1284876

41

TARA, invece, si ottiene un indice singolo: il tempo medio di risposta nei

vari blocchi (siano essi compatibili o meno), dipendente dalla veridicità

delle risposte dell’intervistato.

Nella versione del TARA sperimentata da Gregg (2007), l’intervistato è

sottoposto a cinque blocchi di domande vero-falso cui dovrà rispondere utilizzando la

tastiera del personal computer il più velocemente possibile. Nel primo Blocco è

tenuto a rispondere sinceramente ad una serie di domande di controllo, utilizzando il

tasto sinistro per le risposte false ed il destro per quelle vere. Il secondo Blocco

segue la struttura del primo, ma in questo caso l’intervistato è sottoposto alle

domande test. Nel Blocco numero 3 vengono combinati il Blocco 1 ed il Blocco 2, in

modo che l’intervistato si trovi a dover rispondere sinceramente ad entrambi i tipi di

domanda (le categorie logiche associate ad ogni tasto combaciano, rendendo

compatibile la strategia di risposta). Il quarto Blocco è impostato sulla stessa

struttura del secondo, ma introduce la richiesta di risposte disoneste: in questo caso

l’intervistato si troverà a servirsi del tasto sinistro per esprimere falsità a livello del

significante e verità a livello di significato. Il quinto ed ultimo Blocco utilizza la stessa

struttura del Blocco numero 3, ma in questo caso agli intervistati viene chiesto di

mentire alle domande test, e rispondere sinceramente a quelle di controllo (le

categorie logiche associate ai tasti di risposta non combaciano, costringendo ad una

strategia di risposta incompatibile).

In base alla costruzione del metodo, a parità del livello di precisione,

l’intervistato sarà costretto a tempi di risposta più alti nei blocchi in cui viene chiesto

di mentire. Se il principio psicologico che sottende questa tecnica è valido, in tutti i

partecipanti si riscontreranno tempi di risposta significativamente maggiori nel quinto

Blocco rispetto a quelli relativi al Blocco 3, ed analizzando la rilevanza statistica di tali

dati sarà possibile stimare in quali casi il soggetto sia incentivato a mentire.

CONCLUSIONI

Con l’excursus sulla Neuroeconomia e sulla necessità di utilizzare tecniche di

ricerca che scavalchino la mediazione della volontà dell’intervistato di presentarsi in

Page 40: TS1284876

42

una luce socialmente accettabile, si sono mostrate le ragioni alla base dell’adozione

di metodologie di osservazione diretta delle reazioni del consumatore, che ovviassero

al problema.

Di fronte alle palesi difficoltà pratiche dell’utilizzo di una delle tecniche

fondamentali del neuro marketing (risonanza magnetica o tomografia a emissione di

positroni), si è scelto di ricorrere ad una tecnica di Lie Detection basata sui tempi di

risposta. L’esperimento di cui si discuterà nel capitolo successivo è stato progettato

per misurare la desiderabilità sociale di un item della Public self-consciousness Scale

(Fenigstein, Scheier & Buss, 1975) e la conseguente tendenza a mentire degli

intervistati, coniugando la somministrazione di un questionario tradizionale con un

test TARA.

Page 41: TS1284876

43

CAPITOLO 3

METODOLOGIA DELLA RICERCA, PRESENTAZIONE E

ANALISI DEI DATI

INTRODUZIONE

Il capitolo descrive un esperimento di Lie Detection, condotto nell’Ateneo

Bocconi, volto ad investigare la possibilità di discriminare la tendenza degli intervistati

a mentire di fronte ad un item della Public self-consciousness Scale, e la relativa

sensibilità di tale item.

In seguito si procederà all’analisi dei dati ed alla loro interpretazione.

3.1 L’esperimento

La tendenza al Socially Desirable Responding è stata misurata su un item della

Public self-consciousness Scale (Fenigstein, Scheier e Buss, 1975), il numero 6 ( mi

preoccupo di quello che gli altri pensano di me).

Secondo le teorie psicologiche Rogeriane, ed uno studio condotto da Tunnell

(1985), i soggetti ad elevata Public self-consciousness rivolgono un’attenzione molto

elevata (o eccessiva, che dir si voglia) verso il parere altrui, e pare che tale

focalizzazione dreni le riserve di creatività ed energia di tali soggetti, rendendoli

meno propensi al rischio, meno autonomi e orientati al risultato degli altri soggetti,

da qui l’ipotesi che rispondere a tale item inneschi in determinati soggetti la necessità

di rispondere in maniera socialmente desiderabile ad alcune domande sensibili.

Il test è stato svolto nel completo anonimato dei partecipanti, e, sulla base degli

studi sull’indirect questioning condotti da Fisher nel 1993, somministrato sia in forma

diretta che in forma indiretta. La forma indiretta del test richiedeva che i partecipanti

Page 42: TS1284876

44

pensassero ad una persona da loro ben conosciuta e rispondessero

immedesimandosi in questa persona. Secondo gli studi di Fisher (1993), infatti, le

domande indirette, riducono l’incidenza di risposte socialmente desiderabili, per

quanto riguarda le variabili soggette all’influenza sociale come l’item testato, ma non

hanno alcun effetto significativo sulle variabili socialmente neutrali.

Numerosi studi, ripetuti in contesti diversi, riportano che la natura sociale delle

differenze tra i gruppi, e l’attribuzione di un tratto poco desiderabile ad un individuo

al di fuori del gruppo target fanno si che il soggetto intervistato proietti i propri

atteggiamenti e le proprie credenze sul soggetto ipotetico cui la domanda fa

riferimento.

L’esperimento si compone di due parti: in una prima parte è stato chiesto agli

intervistati di rispondere ad una singola domanda, relativa all’item in questione,

utilizzando una scala Likert a 5 punti (la scala Likert è una scala non comparativa, o

metrica, che prevede una misurazione separata per ciascuno stimolo considerato).

Gli intervistati che hanno espresso un valore compreso tra 1 e 2 sono stati

considerati individui a bassa discrepanza tra sé pubblico e sé privato, mentre coloro

che hanno indicato un punteggio superiore a 3 sono stati considerati individui ad alta

discrepanza; chi ha espresso una valutazione mediana è stato assegnato in maniera

casuale ad uno dei due gruppi.

In una seconda parte, a seconda del punteggio indicato, agli intervistati sono

stati sottoposti, via computer, al Timed Antagonistic Response Alethiometer. L’ item è

stato misurato in versione test ed in versione di controllo (domanda indiretta) e

l’intervistato ha dovuto rispondere a domande semanticamente simili e

sintatticamente differenti (si veda l’allegato 6 per un elenco degli stimoli).

Al fine di non influenzare il loro comportamento ed evitare ulteriori distorsioni

dovute alla consapevolezza di essere testati da una macchina della verità (per via

dell’ansia o della volontà di resistere ad uno strumento di lie detection) si è scelto di

Page 43: TS1284876

45

non comunicare il nome del metodo utilizzato e non rendere note né il tipo di variabili

che è volto a misurare, né le reali finalità dello studio.

3.1.1 Metodo

Partecipanti

Per l’esperimento sono stati coinvolti 75 studenti universitari italiani (età media:

23 anni, 49% uomini), ricompensati con dei buoni per la colazione del valore di 3

euro.

Stimoli

Durante il test, ai partecipanti è stata sottoposta una serie di proposizioni

contenenti non più di 11 parole. Gli stimoli indicano stati d’animo ed esprimono

proposizioni chiaramente vere o false. Possiamo affermare si tratti di 10 affermazioni

di controllo (5 per tipo), riferite al contesto di svolgimento dell’esperimento, e 10

affermazioni target, semanticamente simili e sintatticamente differenti dall’item

testato (5 delle quali correlate inversamente con il significato dell’item).

Sia il contenuto delle affermazioni di controllo che quello delle affermazioni

target sono rimasti fissi e non sono cambiati a seconda dell’intervistato.

Procedura

L’esperimento si è svolto nel laboratorio del dipartimento di marketing e per

l’esecuzione del TARA si è utilizzato il programma E-prime, una piattaforma creata ad

hoc per la ricerca neuro scientifica, sviluppata da Psychology Software Tools (per

approfondimento vedi appendice).

Al gruppo test di intervistati è stato chiesto di esprimere il proprio grado

personale di accordo/disaccordo. Al gruppo di controllo è stato chiesto di pensare ad

una persona ben conosciuta e di immedesimarsi in essa per tutta la durata del test,

Page 44: TS1284876

46

al fine di verificare la riduzione dell’incentivo a rispondere in maniera socialmente

desiderabile (Fisher, 1993).

Il corpo principale del test parte in seguito ad una schermata di istruzioni per la

corretta esecuzione, in cui il partecipante viene istruito sul criterio da adottare per la

risposta e ad impiegare il minor tempo possibile. I Blocchi dall’1 al 5 del TARA sono

stati presentati in ordine invariato rispetto al primo esperimento di Gregg (2007).

Il primo ed il secondo Blocco si compongono di 20 domande, i Blocchi 3, 4 e 5,

invece, di 40 domande ciascuno. Non è stata prevista alcuna sessione di prova, e

tutte le risposte sono state utilizzate nella raccolta dei dati.

Gli stimoli target e quelli di controllo sono stati sottoposti all’intervistato in

maniera casuale (Blocchi 1,2 e 4) e semi-casuale (Blocchi 3 e 5). In particolare, tutte

e 10 le domande di controllo sono state presentate due volte nel primo Blocco,

altrettanto le 10 domande target nei Blocchi 2 e 4, mentre nei blocchi 3 e 5 sono

state presentate due volte sia le domande target che quelle di controllo. Negli ultimi

due Blocchi la casualità era limitata in modo che i due tipi di domande si

alternassero.

Tutte le proposizioni erano presentate al centro dello schermo; di colore verde

le proposizioni di controllo, blu le proposizioni target. Ai lati, in corrispondenza dei

relativi tasti, le etichette per le categorie VERO/FALSO. Il tasto a è stato assegnato al

VERO, il tasto l al FALSO.

Nelle schermate delle istruzioni che comparivano prima di ogni Blocco, ai

partecipanti è stato chiesto di rispondere il più velocemente possibile (mantenendo le

dita posizionate sui tasti di risposta a e l), di classificare le proposizioni onestamente

nei Blocchi 1,2 e 3, e in maniera disonesta le domande target dei Blocchi 4 e 5.

A differenza dei test effettuati dall’equipe del Professor Gregg, ai partecipanti

non è stata data la possibilità di correggere gli errori, né sono state fornite loro

informazioni sulla performance.

Page 45: TS1284876

47

3.2 Descrizione del database

Per ciascuna versione dell’item, versione di controllo e versione test, è stato

compilato un database (si veda allegato) con le seguenti variabili:

- Experiment Name: nome del’esperimento, visto che a seconda

della risposta data alla domanda sull’item, l’intervistato è stato

indirizzato ad una delle due versioni del test (versione 1 in caso di

risposta 1-2; versione 2 in caso di risposta 4-5; scelta casuale in caso di

risposta 3).

- Subject: soggetto, indicato solo da una cifra, al fine di garantire

l’anonimato funzionale all’esito dell’esperimento.

- Mean RT1.1, Mean RT1.2, Mean RT1.3, Mean RT1.4, Mean

RT1.5: tempo medio di risposta nei singoli Blocchi espresso in millesimi

di secondo (variabile quantitativa).

3.3 Analisi effettuate

Una caratteristica importante e distintiva del modello TARA, che ne rende

stimolante l’uso ai fini di questa ricerca, è che, per costruzione, si riscontra una

differenza significativa e sostanziale tra i tempi di risposta dei partecipanti nel Blocco

5 e nel Blocco 3: i partecipanti rispondono più lentamente quando viene chiesto loro

di mentire sulle proposizioni target (Blocco 5) rispetto a quando viene chiesto loro di

rispondere in maniera sincera (Blocco 3).

La tendenza degli intervistati a mentire è identificabile, quindi, quando la

condizione sopracitata non si manifesta: se l’individuo è incentivato a mentire il suo

tempo di risposta medio sarà maggiore nel Blocco 3, rispetto al Blocco 5.

Trattandosi di un disegno sperimentale è stata effettuata un’analisi ANOVA per

singolo partecipante per entrambe le versioni dell’item (test e controllo) in modo da

verificare, considerate le due variabili Blocco 3 (congruente) e Blocco 5

(incongruente) per singolo partecipante, se sussiste una differenza tra le medie delle

Page 46: TS1284876

48

popolazioni, ossia se le medie sono significativamente diverse tra loro, a conferma

dell’ipotesi alla base del metodo TARA.

Non è stato necessario condurre confronti post-hoc, poiché ci troviamo a che

fare con un confronto tra due sole medie e possiamo semplicemente osservarle per

identificare in che direzione si muove la differenza tra le medie ed individuare

l’eventuale incentivo a mentire.

3.3.1 Analisi dell’item 6 nella versione di controllo

Nell’analisi dell’item 6 di controllo è stato chiesto all’intervistato di rispondere

alla seguente domanda (trattandosi di un item di controllo è espressa in terza

persona): “Pensa ad una persona che sai di conoscere particolarmente bene. Non

devi essere tu. Può essere, ad esempio, un tuo familiare o un carissimo amico. Non ti

chiediamo di dirci chi sia, in modo che tu possa essere completamente sincero”.

In allegato vengono riportati l’esempio di questionario cartaceo ed il database

relativo alla versione di controllo. Si tratta di un database nel quale i valori etichettati

come non selezionati, sono valori estremi che si è preferito eliminare, per non

influenzare i risultati dell’analisi.

I criteri di pulizia del Database sono stati mutuati dal modello di Gregg (2007),

definendo outlier assoluti gli intervistati che per rispondere hanno impiegato meno di

700 millesimi di secondo o più di 8500 millesimi di secondo (tempi palesemente

incompatibili con una risposta cosciente), ed outlier relativi quegli intervistati i cui

tempi di risposta deviavano dalla mediana di ciascun blocco per più di tre volte il

range interquartile (nel database, i valori relativi ai rispondenti scartati sono indicati

con l’etichetta: non selezionato).

Nel blocco 1 è stato chiesto agli intervistati di rispondere sinceramente alle

proposizioni di controllo. Nel blocco 2 i partecipanti hanno dovuto rispondere in

maniera sincera alle proposizioni target. Nel blocco 3 hanno risposto sinceramente

sia alle proposizioni di controllo che a quelle target, mentre nel blocco 4 hanno

dovuto mentire sulle proposizioni target. Nel blocco 5 è stato chiesto loro di

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49

rispondere sinceramente alle proposizioni di controllo e di mentire sulle proposizioni

target.

Analisi della varianza a una via

Come si diceva, i dati validi di ogni singolo partecipante sono stati analizzati

confrontando le medie dei tempi di risposta nel Blocco 3 e nel Blocco 5.

I dati qui riportati si riferiscono all’intervistato 15 del gruppo di controllo: nella

tabella “descrittivi” sono riportate le statistiche descrittive relative ai due Blocchi.

Oltre alle medie, alle deviazioni standard, all’errore standard delle medie e al minimo

e al massimo valore nel gruppo sono riportati anche i limiti degli intervalli di

confidenza per la media della popolazione al 95%.

La tabella “ANOVA uni variata” riporta il risultato del test omnibus, ovvero il test

che esamina l’ipotesi nulla che non ci sia differenza tra le medie. I valori riportati

nella tabella si riferiscono alla somma dei quadrati (la devianza) tra ed entro i gruppi,

ai relativi gradi di libertà, alla varianza tra ed entro i gruppi (=devanza/gradi di

Page 48: TS1284876

50

libertà), al valore di F e al livello di probabilità della F. I risultati indicano che la

variazione dovuta ai gruppi, ovvero la differenza tra gruppi, risulta significativo all’1

per mille. Rifiutando l’ipotesi nulla, che le medie siano omogenee, si correrà un

rischio ridottissimo di sbagliare. Nel caso del partecipante numero 15 si è in presenza

di una differenza significativa tra i gruppi.

Analizzando nello specifico il valore delle medie nei due Blocchi notiamo che la

media nel Blocco 3 (1557,76) è inferiore a quella nel Blocco 5 (2945,51) per cui

l’individuo in esame, in situazione di controllo, non ha subito l’incentivo a mentire.

Questa analisi è stata svolta per ogni singolo partecipante e, per ragioni

espositive, i risultati sono stati sintetizzati in una tabella:

Dalla lettura dei dati emerge una differenza tra le medie dei blocchi

Page 49: TS1284876

51

statisticamente significativa per 10 partecipanti, 2 dei quali (il soggetto 20 ed il

soggetto 38) incentivati a mentire, nonostante si trattasse del gruppo di controllo.

Una motivazione plausibile, ma probabilmente non esaustiva, per tale situazione

potrebbe risiedere in un fenomeno riscontrato da Fisher (1993) nei suoi studi

sull’indirect questioning: alcuni intervistati, sentendosi “schermati” dall’anonimato

garantito dalla terza persona, proiettavano la propria personalità sull’immagine

dell’ipotetico altro che veniva chiesto loro d’immaginare, rispondendo effettivamente

in prima persona.

3.3.2 Analisi dell’item 6 nella versione test

Agli intervistati che hanno preso parte a questa fase dell’esperimento le

domande del questionario erano rivolte in prima persona. La procedura di screening

dei dati, di somministrazione dei questionari e le modalità di pubblicazione degli

allegati in appendice ricalcano le modalità dello studio sul gruppo di controllo.

Forniamo anche per un partecipante alla versione test l’esposizione dettagliata

dei risultati dell’analisi della varianza per la quale valgono le stesse considerazioni

metodologiche fatte per l’esempio precedente.

Si noti, a differenza dell’esempio precedente, però, l’andamento delle medie del

rispondente 2: in questo caso la media nel Blocco 3, è un valore maggiore di quello

della media dei tempi nel Blocco 5, il che induce a rilevare una forte tendenza a

mentire.

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52

Anche questa analisi è stata svolta per ogni singolo partecipante ed anche in

questo caso, per ragioni espositive, i risultati sono stati riassunti in una tabella:

Page 51: TS1284876

53

Nell’analisi test la differenza tra le medie dei Blocchi è statisticamente

significativa in più del 50% dei casi, mentre il numero dei “bugiardi smascherati”,

sebbene aumenti in percentuale non supera i quattro (4) individui.

3.4 Sintesi e discussione dati

L’uso congiunto della scala Likert esplicita e di uno strumento di misurazione

implicita come il metodo TARA ha permesso di rispondere alla domanda di ricerca

iniziale al netto di alcune limitazioni. Ciò che le analisi dimostrano è che il metodo

TARA può essere utilizzato efficacemente per discriminare la tendenza a mentire di

un intervistato e la relativa sensibilità dell’item testato, ma il fatto che l’analisi del

gruppo di controllo e del gruppo test non abbiano fornito risultati significativamente

differenti induce a riflettere sull’opportunità dell’utilizzo di uno strumento di Lie

Detection in terza persona. La presenza di quell’incentivo a mentire anche nella

versione di controllo, porterebbe ad ipotizzare, per una ridotta percentuale di

soggetti, una all pervading necessità di mentire sul tema della Self Consciousness,

come se le istanze dell’autoinganno, più che dell’impression management avessero la

meglio in qualsiasi contesto. Tale percentuale di mentitori però, come accennato in

sede di presentazione dei dati, potrebbe confermare l’innescarsi, nei soggetti più

sensibili all’item testato, dei meccanismi di proiezione della propria personalità anche

sull’ipotetica terza persona cui sono rivolte le domande, cui faceva riferimento Fisher

negli studi sull’Indirect Questioning .

Allo stesso tempo non si possono non prendere in considerazione altri limiti

strutturali del processo di ricerca, primo fra tutti l’inesperienza del ricercatore; come

non considerare che semplicemente il numero dei partecipanti all’esperimento fosse

troppo esiguo o che le modalità di reclutamento semi-formali abbiano in alcuni casi

favorito una concentrazione non costante da parte degli intervistati?

Alla luce dei risultati ottenuti, è pur sempre plausibile ritenere che uno

strumento di Lie Detection come il TARA sia utile ed efficace nella discriminazione

della veridicità delle risposte degli intervistati e sul loro grado di sensibilità.

Page 52: TS1284876

54

3.5 Discussione generale e limiti del lavoro

L’ascesa del green marketing, del marketing etico ed orientato verso cause

sociali, l’aumento della presa di coscienza della responsabilità sociale dei marchi e la

forte connotazione identitaria di un numero sempre crescente di pratiche di consumo

sociali, portano a porre in modo nuovo il problema della sensibilità delle domande.

La distorsione da desiderabilità sociale, in passato principalmente oggetto di

studi sociologici, tende a diventare, quindi, un tema che lo studio dei comportamenti

di consumo non può ignorare.

Gli individui interagiscono e tendono a condividere in forme diverse le proprie

esperienze personali, i comportamenti dipendono da status, prescrizioni culturali,

domande di ruolo e richieste del sistema sociale perciò agire in modo socialmente

sconveniente può precludere agli individui la soddisfazione del bisogno di affiliazione:

la tendenza a fornire risposte socialmente accettabili quindi potrebbe aumentare, ed

il ricercatore attento non può permettersi di ignorare strumenti preposti, se non ad

aggirare l’ostacolo, almeno a metterlo bene a fuoco.

Il metodo TARA può essere, sì, utilizzato solo in contesti sperimentali, ma ha un

elevato grado di flessibilità e personalizzazione, adattandosi facilmente a qualsiasi

tipo di informazione della quale si vuole verificare la veridicità. La velocità di

somministrazione ne è un altro innegabile vantaggio, sebbene, secondo l’esperienza

dell’esperimento potrebbe essere utile diminuire il numero di domande utilizzate, per

non stancare l’intervistato ed abbassare i livelli di accuratezza delle risposte (possibile

spiegazione per il numero di errori che ha portato scartare i dati relativi a determinati

rispondenti).

Vanno tenuti in considerazione, inoltre, le caratteristiche personali del soggetto,

la sua naturale velocità e l’eventuale volontà a falsificare i risultati del test.

I limiti della procedura ad ogni modo, sono da tenere in considerazione:

sarebbe impossibile testare item di scala multi item solo con il metodo Tara sia per

fattibilità tecnica che per efficacia, da ciò si evince che il metodo TARA trovi la

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55

propria collocazione ideale come strumento di triangolazione metodologica, più che

come tecnica autosufficiente. Inoltre, rispetto ai classici questionari self report il

metodo TARA è meno conveniente e facile, necessita un’elevata attenzione

all’anonimato dei partecipanti e soprattutto necessita di personale specializzato, di

una struttura adeguata e di intervistati che riescano a mantenere costante una certa

soglia di concentrazione.

In ambito manageriale supporterebbe molto efficacemente (come altri metodi

di ricerca implicita) la ricerca sugli atteggiamenti del consumatore nei confronti di

nuovi prodotti o di prodotti controversi come beni ad alto tasso di connotazione

simbolica.

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56

BIBLIOGRAFIA

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APPENDICI

Appendice 1: Questionario cartaceo item 6, versione test

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64

Appendice 2: Questionario cartaceo item 6, versione di controllo

Appendice 3: Database item 6 test

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Appendice 4: Database item 6 di controllo

Appendice 5: e-prime, il software per la ricerca neuro scientifica e comportamentale

E-Prime è una suite di applicazioni software per lo svolgimento di esperimenti

psicologici e neuroscientifici, sviluppato dalla Psychology Software Tools (PST)

rilasciato per la prima volta nel 1996. Esso offre il controllo su quasi ogni aspetto

della creazione di un paradigma, ha una precisione temporale dell’arco di pochi

millisecondi, un aspetto decisamente cruciale per molte delle esigenze di ricerca. Uno

dei vantaggi di E-Prime è la sua base utenti di oltre diecimila. In tal modo, PST è in

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67

grado di dirigere lo sviluppo dei suoi nuovi prodotti basati sui feedback di un grande

gruppo di utenti.

La suite di applicazioni E-Prime dà il controllo dell'utente su ogni aspetto

inerente alla raccolta dei dati in uno studio di ricerca. Il sistema di base comprende:

E-Studio, E-Basic, E-Run, E-Merge, E-DataAid, ed E-Recovery.

E-Studio è un programma utilizzato per la creazione del paradigma. Qui gli utenti

potranno definire il layout temporale del loro studio, oltre a definire tutti i parametri

da includere nel loro set di dati di ogni soggetto.

Secondo il sito della Psychology Software Tools, Inc., E-Prime ha una base di

utenti di 9000 unità circa. Ciò rende enormemente più semplice per i ricercatori,

raccogliere suggerimenti e idee attraverso una serie di bacheche dedicate al software

(vedi link esterni).

Appendice 6: proposizioni dell’esperimento

A: proposizioni di controllo

In questo momento sono in Italia.

Per rispondere sto usando una tastiera.

Attualmente sono seduto su una sedia.

In questo momento ho davanti a me un computer.

Oggi mi trovo alla Bocconi di Milano.

In questo momento ho di fronte un elefante.

Attualmente sono in piedi sul tavolo.

Sto rispondendo sdraiato su un letto.

Oggi sono venuto in pantofole.

In questo momento mi trovo a Dubai.

B: proposizioni target item 6 public self-consciousness scale nella versione test

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Mi disinteresso di ciò che gli altri pensano della mia persona.

Mi disinteresso di ciò che gli altri pensano di me.

Mi disinteresso di ciò che la gente può pensare di me.

Mi preoccupo di ciò che gli altri pensano della mia persona.

Mi preoccupo di ciò che gli altri pensano di me.

Mi preoccupo di ciò che la gente può pensare di me.

Tendo a disinteressarmi di ciò che gli altri pensano di me.

Tendo a disinteressarmi di ciò che la gente pensa di me.

Tendo a preoccuparmi di ciò che gli altri pensano di me.

Tendo a preoccuparmi di ciò che la gente pensa di me.

C: proposizioni target item 6 public self-consciousness scale nella versione di

controllo (forma indiretta)

MISTER X si disinteressa di ciò che gli altri pensano della sua persona.

MISTER X si disinteressa di ciò che gli altri pensano di lui.

MISTER X si disinteressa di ciò che la gente può pensare di lui.

MISTER X si preoccupa di ciò che gli altri pensano della sua persona.

MISTER X si preoccupa di ciò che gli altri pensano di lui.

MISTER X si preoccupa di ciò che la gente può pensare di lui.

MISTER X tende a disinteressarsi di ciò che gli altri pensano di lui.

MISTER X tende a disinteressarsi di ciò che la gente pensa di lui.

MISTER X tende a preoccuparsi di ciò che gli altri pensano di lui.

MISTER X tende a preoccuparsi di ciò che la gente pensa di lui.

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RINGRAZIAMENTI

Ringrazio la Professoressa Isabella Soscia per aver deciso di starmi vicino senza

interferire, come l’Italia e San Marino: la sua professionalità, la sua pazienza

smisurata ed il suo incoraggiamento vitale ed incondizionato sono stati determinanti

ai fini della stesura di questo lavoro, e non solo.

Ringrazio la Professoressa Giulia Miniero, dalla quale ho appreso molto durante le

sedute sperimentali in laboratorio e che non è stata mai avara di consigli, sia

accademici, che personali.

Ringrazio la mia famiglia allargata, sana sana.