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Rivista di diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente – 2003/1 Concorrenza sleale e tutela del consumatore Angelo Cacciatore * SOMMARIO: 1. Premessa – 2. La tutela indiretta dei consumatori e la dottrina tradizionale – 3. Gli orientamenti innovativi e i rilievi sui rapporti tra iniziativa economica e utilità sociale ex art. 41 Cost. – 4. La questione di costituzionalità dell’art. 2601 c.c. e la sua manifesta i- nammissibilità – 5. Segue: il successivo dibattito dottrinale – 6. L’opportunità di un inter- vento legislativo in materia – 7. Il Decreto Legislativo n. 74 del 1992 sulla pubblicità ingan- nevole – 8. La Legge n. 580/1993 di riforma dell’ordinamento delle Camere di Commercio – 9. La Legge n. 281/1998 e i diritti fondamentali dei consumatori – 10. Sui rapporti fra tutela del consumatore e la tutela della concorrenza sleale e sulla sussistenza o meno di una legit- timazione ad agire delle associazioni dei consumatori per la repressione della concorrenza sleale. 1. Premessa Il rapporto esistente fra concorrenza sleale e tutela dei consumatori si è sempre presentato come estremamente complesso, investendo il tema della individuazione e definizione dei presupposti e degli obiettivi che con l’una e l’altra disciplina si intendono perseguire. Invero, già in passato si era posto il problema se anche i consumatori po- tessero considerarsi soggettivamente legittimati ad intervenire a fronte di illeciti di carattere concorrenziale e se la disciplina della concorrenza tutelasse anche gli interessi dei consumatori. Sia in dottrina che in giurisprudenza si continuava, tuttavia, ad affermare prevalentemente che l’interesse dei consumatori costituiva soltanto un metro di valutazione al fine di stabilire se un atto concorrenziale dovesse ritenersi più o meno sleale. Si sosteneva, quindi, che ai consumatori veniva offerta solo una tutela indiretta e mediata dei loro interessi. E’ noto il crescente e progressivo interesse, anche sul piano normativo, per i consumatori e la loro importanza allo scopo di assicurare un grado elevato e qualificato di concorrenza. Molteplici sono stati, da più di un decennio circa, gli interventi normativi sui consumatori e sulla tutela dei loro interessi. * Dipartimento di Diritto dell’Economia e dell’Ambiente, Università degli studi di Palermo.

TUTELA CONCORRENZIALE E TUTELA DEL CONSUMATORE … · Rivista di diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente – 2003/1 Concorrenza sleale e tutela del consumatore Angelo

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Rivista di diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente – 2003/1

Concorrenza sleale e tutela del consumatore

Angelo Cacciatore*

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. La tutela indiretta dei consumatori e la dottrina tradizionale – 3. Gli orientamenti innovativi e i rilievi sui rapporti tra iniziativa economica e utilità sociale ex art. 41 Cost. – 4. La questione di costituzionalità dell’art. 2601 c.c. e la sua manifesta i-nammissibilità – 5. Segue: il successivo dibattito dottrinale – 6. L’opportunità di un inter-vento legislativo in materia – 7. Il Decreto Legislativo n. 74 del 1992 sulla pubblicità ingan-nevole – 8. La Legge n. 580/1993 di riforma dell’ordinamento delle Camere di Commercio – 9. La Legge n. 281/1998 e i diritti fondamentali dei consumatori – 10. Sui rapporti fra tutela del consumatore e la tutela della concorrenza sleale e sulla sussistenza o meno di una legit-timazione ad agire delle associazioni dei consumatori per la repressione della concorrenza sleale.

1. Premessa Il rapporto esistente fra concorrenza sleale e tutela dei consumatori si è

sempre presentato come estremamente complesso, investendo il tema della individuazione e definizione dei presupposti e degli obiettivi che con l’una e l’altra disciplina si intendono perseguire.

Invero, già in passato si era posto il problema se anche i consumatori po-tessero considerarsi soggettivamente legittimati ad intervenire a fronte di illeciti di carattere concorrenziale e se la disciplina della concorrenza tutelasse anche gli interessi dei consumatori.

Sia in dottrina che in giurisprudenza si continuava, tuttavia, ad affermare prevalentemente che l’interesse dei consumatori costituiva soltanto un metro di valutazione al fine di stabilire se un atto concorrenziale dovesse ritenersi più o meno sleale. Si sosteneva, quindi, che ai consumatori veniva offerta solo una tutela indiretta e mediata dei loro interessi.

E’ noto il crescente e progressivo interesse, anche sul piano normativo, per i consumatori e la loro importanza allo scopo di assicurare un grado elevato e qualificato di concorrenza.

Molteplici sono stati, da più di un decennio circa, gli interventi normativi sui consumatori e sulla tutela dei loro interessi.

* Dipartimento di Diritto dell’Economia e dell’Ambiente, Università degli studi di Palermo.

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Ed in relazione alle predette recenti disposizioni legislative, è stato afferma-to che: “anche sul versante soggettivo (cioè appunto della legittimazione), la repressione della concorrenza sleale sia indotta a servire non più esclusiva-mente gli interessi «dei concorrenti», bensì tuteli questi ultimi in una prospetti-va di necessario rispetto di tutti gli interessi protetti dalla costituzione econo-mica, e riferibili, come rilevato, vuoi alla “altrui libertà di concorrenza”, vuoi al-la corretta informazione (nel senso più ampio) del pubblico dei consumatori”1.

Al di là della autorevole affermazione di principio sopra riportata, si ritiene opportuno prendere specificatamente in esame il rilievo che possono avere gli interessi dei consumatori nell’ambito della normativa nazionale sulla tutela del-la concorrenza. Si tratta di una prospettiva per la quale occorre procedere con la massima cautela per evitare di trarre affrettate conclusioni, e ciò anche in considerazione dell’inevitabile ampliamento dei c.d. interessi in giuoco.

Punto di partenza di tale indagine saranno, pertanto, gli orientamenti che sul piano dottrinale e giurisprudenziale negavano od affermavano, specie in passato, la possibilità di ritenere la repressione della concorrenza sleale come strumento diretto a tutelare interessi generali e non solo di categoria.

2. La tutela indiretta dei consumatori e la dottrina tradizionale Anzitutto, sembra più aderente alla lettera dell’art. 2598 c.c. affermare che

sia l’autore dell’illecito concorrenziale, sia il soggetto danneggiato devono ap-partenere alla medesima categoria di imprenditori concorrenti e che la repres-sione della concorrenza sleale è diretta a tutelare gli interessi individuali dei concorrenti.

Del resto la norma sopra indicata menziona più volte il “concorrente”, indi-cando nel n. 3 l’idoneità “a danneggiare l’altrui azienda” e riferendosi non alla correttezza tout-court, ma alla “correttezza professionale”. Parametro questo che “presuppone che soggetto attivo e soggetto passivo appartengano alla stessa categoria professionale”2.

1 GHIDINI, Profili evolutivi del diritto industriale, Proprietà intellettuale e concorrenza, Milano, 2001, 188.

2 AUTERI, La concorrenza sleale, in Tratt. dir. priv. dir. da RESCIGNO, XVIII, Torino, 1983, 347; ASCARELLI, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1954, 927.

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Dalla parte della soluzione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, os-sia che la concorrenza sleale opera sul piano dei rapporti interprivatistici tra imprenditori concorrenti, militano, oltre all’argomentazione di tipo esegetico sopra indicata, anche considerazioni di carattere storico per essere la disciplina sulla concorrenza sorta con la finalità di regolamentare i conflitti fra imprendi-tori3.

Infine, si rileva che “non si saprebbe davvero ravvisare la giustificazione di una tutela privilegiata dell’imprenditore nei confronti di tutti i consociati, men-tre una tutela dell’imprenditore nei confronti degli altri imprenditori perde il ca-rattere di privilegio data la stessa reciprocità della tutela”4.

Seguendo tale impostazione, dunque, la disciplina della concorrenza “attie-ne ai rapporti tra imprenditori e concerne atti compiuti nell’esercizio di una im-presa e considerati in funzione del loro contrasto con un’altrui attività impren-ditrice; i limiti posti alla concorrenza nella normativa di determinati contratti o convenzionalmente vengono a loro volta sanciti a carico o a favore di imprendi-tori e hanno come contenuto l’obbligo di non svolgere determinate attività eco-nomiche o di non svolgerle se non con determinate modalità fissate ad esclu-sione di altre. Perciò la disciplina della concorrenza si coordina con quella dell’imprenditore e dell’attività di questo, che anzi mi sembra che, proprio sul terreno della disciplina della concorrenza (…), la nozione generale dell’imprenditore (…) trova la sua rilevanza”5.

Per i consumatori, dunque, non vi sarebbe spazio. Vengono considerati sol-tanto “quale strumento per determinare le iniziative preferibili”6. I loro interessi

3 ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano 1960, 26 s., 201 s.; v., pure, JAEGER, I soggetti della concorrenza sleale, in Riv. dir. ind., I, 1971, 186, che prende in esame, sia pure in modo critico, gli argomenti invocati a sostegno della tesi che richiede in via necessaria la qualifica di imprenditore nei soggetti degli atti di concorrenza sleale e perviene alla conclusione che, invece, si debba fare riferimento agli “operatori economici”; AUTERI, op. loc. cit.

4 ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, cit., 197; nello stesso senso, CASANOVA, Le imprese commerciali, Torino, 1955, 599. Secondo l’A. gli imprenditori non posso-no esigere “presidi maggiori o diversi da quelli offerti a tutti i cittadini dalle regole di diritto comune”. Tale considerazione è, poi, ripresa da AUTERI, op. loc. cit., il quale attribuisce alla stessa un “grandissimo peso”.

5 Così ASCARELLI, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, cit., 933 ss. 6 L’espressione è di ASCARELLI, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, cit.,

932.

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verrebbero protetti in modo indiretto e mediato, o, secondo altra espressione, la tutela loro accordata sarebbe “secondaria e riflessa”7, tant’è che la legittima-zione ad agire in concorrenza sleale sarebbe stata riconosciuta ai soli imprendi-tori concorrenti8.

Viene così sottolineato “il diverso piano su cui giocano, agli effetti della di-sciplina stessa, gli interessi dei concorrenti, oggetto di considerazione imme-diata, nella loro tipica relazione di conflitto, da parte del legislatore e dell’interprete, e quelli collettivi, difesi in via mediata attraverso la prevalenza assicurata nella valutazione comparativa dell’interesse diretto del concorrente che meglio assicuri la realizzazione” 9.

Per meglio comprendere in che cosa consista tale tutela indiretta e media-ta, è stato chiaramente affermato che gli interessi dei consumatori assumono il ruolo di “parametri di valutazione degli interessi degli imprenditori in conflitto, nel senso che il giudice dovrà, tra le posizioni in contrasto, assegnare la preva-lenza a quella che riterrà più conforme (o se si preferisce, meno difforme) dal vantaggio collettivo o dell’utilità sociale. Il giudizio, quindi, ha ad oggetto un ti-pico rapporto di strumentalità tra interessi; conclusione, questa, che conferma l’esattezza secondo cui gli interessi collettivi non sono tutelati in maniera im-mediata, ma solo attraverso la diretta difesa di interessi propri del singolo o di singoli concorrenti”10.

Quand’anche un atto di concorrenza sleale pregiudicasse i consumatori, la tutela inibitoria di cui agli artt. 2598 e ss. c.c. non troverebbe applicazione.

L’unico rimedio, sempre che ne sussistono i presupposti, sarebbe la tutela aquiliana di cui all’art. 2043 c.c.

Sembra perciò che fuori dall’ambito dei rapporti fra concorrenti “tornano a

7 RAVÀ, Diritto industriale, Torino, 1973, 147; VANZETTI, La repressione della pubblicità men-

zognera, in Riv. dir. civ. 1964, I, 584 ss., 593, nota 20; SENA, La repressione penale della con-correnza sleale. Premesse di diritto industriale, in Riv. dir. ind., 1965, I, 173 ss.; GUGLIELMINETTI, Violazione di norme di diritto industriale e concorrenza sleale, in Riv. dir. comm., 1965, I, 274.

8 AUTERI, La concorrenza sleale, cit., 348. 9 JAEGER, I soggetti della concorrenza sleale, cit., 171, 101 ss. 10 JAEGER, Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, in Riv. dir. ind. 1970, I,

101 ss.

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vigere i principi generali dell’art. 2043, valevoli per tutti i consociati”11.

3. Gli orientamenti innovativi e i rilievi sui rapporti tra iniziativa economica e utilità sociale ex art. 41 Cost.

L’autorevole sostenitore della tesi sopra illustrata ammette, tuttavia, che “un dialogo fondamentale nella disciplina dell’attività imprenditrice mi sembra quello tra la tutela di un interesse che in via generale potremmo dire dell’astratto consumatore (o se si preferisce, della massa dei consumatori) e la tutela di un interesse che potremmo dire privilegiato dell’imprenditore ……” 12.

Ed è, forse, nel solco di tale prospettiva, che taluni autori iniziarono a so-stenere, sulla base di una lettura in chiave pubblicistica dell’art. 2598 c.c., che gli interessi dei consumatori avrebbero dovuto ritenersi non più interessi stru-mentali, ma interessi che ricevono tutela immediata e diretta.

Già a partire dalla seconda metà degli anni ’60 si riteneva come “ormai af-fermata” la “tendenza della legislazione e dell’interpretazione in materia di di-sciplina della concorrenza sleale, verso un’evoluzione pubblicistica che si mani-festa con l’assumere a criterio dell’illiceità dell’atto concorrenziale la violazione degli interessi del consumatore o di quelli dello sviluppo economico generale. Si tratta della tendenza di cui è stato in Italia fra i più autorevoli assertori l’Ascarelli, ma che ormai può ritenersi universalmente accettata, e che sul pia-no legislativo si manifesta soprattutto attraverso la concessione della legittima-zione ad agire per concorrenza sleale ad associazioni di imprenditori e di con-sumatori E’ chiaro che in questa luce la repressione della concorrenza sleale viene a trascendere il quadro di una mera tutela degli interessi di singoli im-prenditori concorrenti, evolvendosi a strumento per la tutela di interessi gene-rali” 13.

Quanto sopra riportato lascia perplessi.

11 ASCARELLI, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, cit., 927. Per una rico-

struzione dell’orientamento tradizionale: GHIDINI, La concorrenza sleale, in Giur. sist. dir. civ. e comm. fondata da BIGIAVI, Torino 1982, 3 ss.

12 ASCARELLI, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, cit., 935 e la nota 129. 13 Così SCHLESINGER-VANZETTI, Aspetti privatistici delle cosiddette «vendite a premio», in Riv.

dir. ind., I, 1966, 175.

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Anzitutto, perché l’inversione di tendenza, cui si fa riferimento, era nella seconda metà degli anni ’60, ma anche successivamente, tutt’altro che “uni-versalmente accettata”.

Neanche sul piano normativo era possibile individuare disposizioni che at-tribuivano alle associazioni dei consumatori la legittimazione ad agire per la re-pressione della concorrenza sleale.

Era, invece, senz’altro vero che una parte minoritaria della dottrina iniziava ad orientarsi verso una lettura costituzionalmente orientata delle norme codici-stiche sulla repressione della concorrenza sleale.

Si faceva leva in particolare sull’art. 41, comma 2, Cost., per il quale l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, norma questa che “esprime una chiarissima indicazione funzionale (……) sotto il profilo della coerenza dell’esercizio dell’iniziativa economica con interessi «so-ciali» riconosciuti come possibilmente confliggenti con quelli imprenditoriali e, in vista di tale possibilità, ad essa sovraordinati”14 e che ha sostituito un nuovo parametro a quello degli “interessi dell’economia nazionale” di cui all’art. 2595 c.c.15

Muovendo dal presupposto che “nell’ambito di una necessaria considerazio-ne sistematica dell’ordinamento giuridico, l’esercizio dell’autonomia e i compor-tamenti «dei privati» non possono essere valutati in completo scollamento ri-spetto alle direttive fondamentali tracciate dall’ordinamento in materia di rap-porti economici”16, nonché dalla considerazione che il parametro costituzionale della “utilità sociale” sarebbe espressione di interessi non imprenditoriali, si perveniva da parte di taluni ad un indirizzo, certamente innovatore17, per il

14 GHIDINI, Monopolio e concorrenza, in Enc. Dir., XXVI, Milano, 1976, 803; più ampiamente,

dello stesso A., Lealtà della concorrenza e costituzione economica, Padova, 1974, 79 ss. 15 In tal senso MINERVINI, Concorrenza e consorzi, Milano 1965, 8; AULETTA-MANGINI, Della di-

sciplina della concorrenza e dei consorzi, in Commentario del codice civile a cura di SCIALOJA e BRANCA, Libro V, Del Lavoro (artt.2584-2601), Bologna-Roma, 1973, sub art. 2595, 123.

16 GHIDINI, Monopolio e concorrenza, cit., 809. 17 SANTAGATA, Le nuove prospettive della disciplina della concorrenza sleale, in Riv. dir.

comm., 1971, 141 ss.; ID, Concorrenza sleale e interessi protetti, Napoli, 1974; GHIDINI, Mo-nopolio e concorrenza, cit., 786 ss.; ID., Slealtà della concorrenza e costituzione economica,Padova, 1978, 79-130; LIBERTINI, Azioni e sanzioni sulla disciplina della concorrenza, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia dir. da GALGANO, IV, Padova 1981, 237-

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quale l’ambito della concorrenza sleale ricomprenderebbe non solo i contrappo-sti interessi degli imprenditori concorrenti, ma anche quelli dei consumatori.

Gli imprenditori concorrenti non sarebbero l’unico punto di riferimento della tutela concorrenziale; anche ad altri interessi, come quelli dei consumatori e della collettività, occorrerebbe riconoscere altrettanta rilevanza perché contri-buirebbero ad uno svolgimento corretto della concorrenza.

Tale nuovo indirizzo iniziava ad affermarsi anche sulla scorta delle tenden-ze dottrinali e giurisprudenziali tedesche e svizzere che già negli anni ’60 e ’70, riconoscendo alla disciplina della concorrenza una portata sociale e non indivi-dualistica, avevano affermato che la tutela della lealtà della concorrenza com-prendeva gli interessi di tutti i soggetti del mercato.18

Oltre a prendere come punto di riferimento l’art. 41, comma 2, Cost. ed il parametro della utilità sociale, il nuovo orientamento dottrinale poneva, altresì, la sua attenzione sul paragrafo contraddistinto con il n. 3, aggiunto all’art. 10 bis della Convenzione di Unione nella Conferenza di Lisbona del 31 ottobre 1958.

Con tale nuova ipotesi si avrebbe una “consapevole apertura verso una nuova dimensione della disciplina della concorrenza sleale”19, in quanto non implicherebbe, contrariamente alle prime due ipotesi di concorrenza sleale pre-viste dalla stessa norma, “un diretto ed immediato riferimento ad imprenditori concorrenti: risulta per converso in primo piano una situazione conflittuale che si svolge ad un diverso livello e, cioè, tra imprenditore ed il pubblico al quale le

270; AULETTA, Delle invenzioni industriali, dei modelli di utilità e dei disegni ornamentali, della concorrenza, in Commentario al Codice civile a cura di SCIALOJA e BRANCA, Libro V, Del Lavoro (artt. 2584-2601), Bologna, 1973, 137-187; JAEGER, Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, cit., 145 ss., seppure nell’articolo successivo, I soggetti della concorrenza sleale, cit., precisa che “le conclusioni raggiunte nel precedente saggio, in merito alla ricono-sciuta rilevanza nella disciplina di interessi collettivi facenti capo ai «consumatori» ed alla «uni-versalità» dei consociati, non possono essere utilizzate apriosticamente per sostenere l’esistenza di una legittimazione ad esercitare le azioni di concorrenza sleale in capo a soggetti appartenenti a queste categorie, ed estranei al rapporto concorrenziale”, prendendo così le di-stanze da quanto sostenuto dal Santagata con riferimento alla attribuzione ai singoli consuma-tori della legittimazione ad agire per concorrenza sleale.

18 Ricorda tale matrice tedesca e svizzera, JAEGER, Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, cit., 46 ss. e le note 96, 97, 98, 107, nelle quali riporta gli autori e la giuri-sprudenza, nonché i riferimenti legislativi riguardanti il coinvolgimento diretto dei consumatori nell’ambito della disciplina della concorrenza.

19 SANTAGATA, Le nuove prospettive della disciplina della concorrenza sleale, cit., 142.

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merci sono destinate. Va infatti sottolineato che, per integrare la fattispecie dell’illecito, è condizione necessaria e sufficiente l’idoneità delle «indications ou allégations» a trarre in inganno il pubblico: deve dedursene che l’interesse pre-so direttamente in considerazione agli effetti della «protection effective contre la concurrence déloyale», è esclusivamente quello della collettività, cioè di tutti quei soggetti con i quali, a tutti i livelli, potrebbe instaurarsi un contratto nella fase di offerta delle merci”20.

Si passava, poi, da parte dello stesso Autore ad un raffronto tra gli artt. 2598 c.c. e 10 bis della Convenzione per sottolinearne le differenze e per af-fermare la piena applicabilità della norma convenzionale e, segnatamente, di quella di cui al n. 3, che sarebbe posta a tutela degli interessi dei consumato-ri21.

Le tesi sopra illustrate, secondo cui la disciplina della concorrenza sarebbe stata posta anche a tutela degli interessi dei consumatori, trovavano eco, sia pure in modo piuttosto contenuto, nella giurisprudenza di merito.

Alcune pronunce, infatti, come osservato criticamente dalla dottrina tradi-zionale, iniziavano ad “inserirsi in quel movimento letterario giurisprudenziale che, rompendo quasi ogni collegamento con le origini della norma di cui all’art. 2598 n. 3 c.c., si era messo a ricercare la giustificazione di tale norma nell’art. 41 della nostra Costituzione”22.

In particolare, tali sentenze enunciavano il principio secondo il quale l’art. 41 Cost. rileverebbe nella interpretazione dell’art. 2958 n. 3 c.c., riempendo di contenuto concreto il dovere di correttezza professionale.

Altra pronuncia23, successiva a quelle del Tribunale di Milano, enunciava anch’essa il principio che “nell’individuazione dei principi della « correttezza

20 SANTAGATA, op. ult. cit., 146 ss. 21 SANTAGATA, op. ult. cit., 209-210, che così osserva: “la norma dell’art. 2598 cod. civ. non

corrisponde a quella dell’art. 10 bis della Convenzione che ha indubbiamente una portata più vasta e comprensiva …….”.

22 R. FRANCESCHELLI, Sulla legittimazione ad agire in concorrenza sleale delle associazioni professionali e dei consorzi e sulla pretesa giustificazione dei principi della correttezza profes-sionale con l’art. 41 della Costituzione e la protezione dei consumatori, in Riv. dir. ind. 1983, II, 29 ss. Si tratta, come anche ricordato dall’illustre A., di Trib. Milano, 22.03.1976, in Foro it.,Rep. 1978, voce Concorrenza (disciplina), n. 167; Trib. Milano 22.03.1976, id., Rep. 1978, vo-ce cit., n. 169; Trib. Milano, 29.04.1974, in Giur. dir. ind., 1974, 643; Trib. Milano, 26.11.1973, in Foro it., Rep. 1975, voce cit., n. 53.

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professionale» di cui all’art. 2598 n. 3, la cui violazione rende «sleale» l’atto di concorrenza e nella ricostruzione del significato della clausola generale (di cui sono l’espressione), non è possibile prescindere dall’art. 41, 2° comma della Costituzione il quale dispone che l’iniziativa economica privata non può svol-gersi « in contrasto con l’utilità sociale»”.

In ordine alle critiche riguardanti la immediata precettività dell’art. 41 Cost., l’anzidetta decisione osservava che esse “non hanno, a ben vedere, ra-gion d’essere posto che, dal punto di vista del loro contenuto normativo, nes-suna differenza sostanziale sussiste tra le disposizioni costituzionali che enun-ciano principi generali già in atto e quelle che pongono principi generali pura-mente programmatici, il cui contenuto è destinato ad essere sviluppato dal le-gislatore ordinario con l’emanazione di apposite norme. I c.d. principi pro-grammatici hanno pertanto anch’essi piena efficacia e, come tali, ben possono essere utilizzati dall’interprete per chiarire ed integrare il significato delle nor-me subordinate regolanti la materia cui essi si riferiscono ……”24.

4. La questione di costituzionalità dell’art. 2601 c.c. e la sua manifesta i-nammissibilità

Alcuni autori, sostenitori della nuova tendenza diretta ad ampliare l’ambito della concorrenza sleale fino a ricomprendervi gli interessi dei consumatori, tendenza che divenne “ben presto prevalente tra le giovani generazioni di giu-risti”25, si posero subito il seguente interrogativo: “ma come si configura allora, sul piano positivo, il problema dell’apertura della legittimazione all’azione di concorrenza sleale ai portatori di interessi (in sintesi) extra-imprenditoriali coinvolti nelle lotte di concorrenza?” 26.

23 Trib. Roma, 18.01.1982, in Riv. dir. ind. 1983, II, 29 ss. 24 In motivazione, Trib. Roma, 18.01.982, cit., 37-38 25 Così R. FRANCESCHELLI, Concorrenza, II) Concorrenza sleale, in Enc. giur. Treccani, VII,

Roma, 1988, 21 ss. 26 GHIDINI, Della concorrenza sleale – artt. 2598-2601, in Commentario al codice civile diret-

to da SCHLESINGER, Milano, 1991, 464 s., che osservava come “il sistema della legittimazione ad agire per concorrenza sleale è tutt’ora improntato al principio della «esclusività» (professiona-le). Tutte le evoluzioni registratesi negli orientamenti giurisprudenziali si sono collocate all’interno, per così dire, dell’esclusivo riferimento a un’area di interessi latu sensu imprendito-riali”. Già prima e nello stesso senso, ID., Introduzione allo studio della pubblicità commerciale,

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La dottrina più attenta, infatti, si accorse agevolmente delle molteplici diffi-coltà, in relazione allo stato della legislazione esistente, a riconoscere sul piano processuale la legittimazione dei consumatori ad agire in giudizio per rimuove-re un atto di concorrenza lesivo dei loro interessi.

Veniva, infatti, acutamente osservato, che la tesi di taluni,27 che avevano ampliato la legittimazione ad agire per concorrenza sleale in stretta correlazio-ne alla rilevanza diretta ed immediata attribuita agli interessi dei consumatori, “per quanto suggestiva …… manca però in pratica di ogni dimostrazione, giac-ché il Santagata non può attribuire ad essa altra base normativa che quella rappresentata dall’art. 100 cod. proc. civ. (……). Ma questo richiamo appare non conclusivo, e neppure pertinente. Malgrado non siano pacifici, nella dottri-na processualistica, i caratteri distintivi tra interesse e legittimazione ad agire, è peraltro, certo che tale distinzione deve essere tenuta ben ferma, soprattutto ai fini pratici. In altre parole, il criterio dell’art. 100 può incidere su una situa-zione giuridica in cui un soggetto appaia strettamente legittimato a proporre una determinata azione, che tuttavia gli viene negata perché si rileva la man-canza, in esso, del necessario interesse «concreto», in relazione al provvedi-mento demandato al giudice; ma non può servire ad attribuire tale legittima-zione a chi già non la possiede.”28.

Il mero interesse del consumatore, dunque, non sarebbe sufficiente per at-tribuire allo stesso la legittimazione ad agire, occorrendo dimostrare prelimi-narmente che l’ordinamento abbia riconosciuto anche a chi non sia imprendito-

Milano, 1968, nel quale riteneva che, in mancanza di una modifica normativa inerente al si-stema della legittimazione ad agire, sarebbe stato “platonico” il vantaggio che era possibile ot-tenere con l’affermarsi dell’orientamento più sensibile alla tutela degli interessi generali.

27 Si tratta della tesi del SANTAGATA, Le nuove prospettive della disciplina della concorrenza sleale, cit., 141 ss.

28 JAEGER, I soggetti della concorrenza sleale, cit., 171-174, che alle nota 8 riporta il seguen-te esempio pratico sul rapporto tra le due nozioni di legittimazione ed interesse: “si pensi all’impossibilità per i creditori della società di impugnare una deliberazione assembleare annul-labile che li danneggi, dato che la legittimazione attiva è riservata ai «soci assenti e dissenzien-ti», agli amministratori ed ai sindaci (art. 2377, secondo comma cod. civ.)”. Secondo l’A. solo de iure condendo le prospettive per riconoscere la legittimazione ad agire dei consumatori sa-rebbero diverse e conclude che “chiunque non sottovaluti la rilevanza latu sensu pubblicistica della problematica della concorrenza, non può accontentarsi di una disciplina che condizioni la tutela di interessi generali dei consumatori e della collettività dei consociati alla (eventuale) ini-ziativa di un imprenditore concorrente del soggetto agente dei comportamenti concorrenziali illeciti e dannosi”.

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re tale legittimazione. Ed è proprio in considerazione della difficoltà di riconoscere ai consumatori

la legittimazione ad agire per concorrenza sleale e della ulteriore difficoltà di attribuire a tale legittimazione una base normativa più o meno solida, che il di-battito si sposta sull’art. 2601, la cui norma, sopravvissuta alle soppressione dell’ordinamento corporativo con il quale era nata29, consente alle associazioni professionali e agli enti che rappresentano la categoria di agire in giudizio per la repressione di quegli atti di concorrenza sleale che siano lesivi degli interessi “di una categoria professionale”.

Seppure, a tutt’oggi, è controverso l’ambito di operatività della norma30 ed il titolo della legittimazione 31, id est se le associazioni agiscono o meno iure proprio, la ratio sottesa alla norma stessa è quella di riconoscere tutela ad interessi superindividuali32 in relazione agli atti di concorrenza sleale.

29 E’ stato a seguito della caduta del regime fascista e della soppressione, ad opera del D.L.

23.11.1944 n. 369, del sistema corporativo che si pone in dottrina e in giurisprudenza il pro-blema se l’art. 2601 c.c. fosse rimasto o meno in vigore. La dottrina e la giurisprudenza preva-lente hanno dato risposta affermativa. In tal senso si veda ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, cit., 263 – 264; GHIRON, La concorrenza e i consorzi, in Trattato di dirit-to civile italiano diretto da VASSALLI, Torino, 1954, 67 ss.; JAEGER, Sulla legittimazione delle «associazioni professionali» ad agire per concorrenza sleale (art. 2601 c.c.), in Problemi attuali di diritto industriali, Milano 1977; R. FRANCESCHELLI, Sulla legittimazione ad agire in concorrenza sleale della associazioni professionali e dei consorzi e sulla pretesa giustificazione dei principi della correttezza professionale con l’art. 41 della Costituzione e la protezione dei consumatori, in Riv. dir. ind., 1983, II, 29; FLORIDIA, Legittimazione ad agire delle associazioni professionali di categoria e qualificazione di illiceità dell’atto di concorrenza ex art. 2601 c.c., in Mon. trib.,1970, 712 ss.; LIBERTINI, Azioni e sanzioni nella disciplina della concorrenza sleale, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia dir. da GALGANO, IV, Padova, 1981, 267; SANZO, La concorrenza sleale, Padova, 1998, 433-434. Contra Giannantonio GUGLIELMINETTI, La concorrenza e i consorzi, Torino, 1970, 211 ss.; ID., Sulla legittimazione ad agire in materia di concorrenza sleale dei consorzi di produttori, in Riv. dir. ind. 1961, II, 321 ss.; SANTINI, I diritti della personalità nel diritto industriale, Padova, 1959, 117. In giurisprudenza, fra le tante che ritengono che la norma sia ancora in vigore, Cass. 29.08.1995, n. 9073, in Riv. dir. ind. 1997, II, 43 ss., con nota di BROCK, Sulla legittimazione ad agire ex art. 2601 c.c. Secondo tale pro-nuncia la norma di cui all’art. 2601 c.c. “è sopravvissuta all’ordinamento corporativo che ne costituisce il presupposto storico, ben potendosi configurare sul piano del diritto positivo un in-teresse rilevante al fine della tutela da atti di concorrenza sleale. Purché tuttavia si tratti di as-sociazioni rappresentative di un interesse generale, perciò stesso di categoria, quale sia in con-creto il grado di rappresentatività raggiunto dalla singola associazione”. Contra, App. Milano, 29.03.1974, in Giur. ann. dir. ind., 1974, 577; Cass. 10.01.1990, n. 1719, in Dir. giur., 1990, 484.

30 V. BROCK, Sulla legittimazione ad agire ex art. 2601 c.c., cit., 47 ss. 31 Per una sintesi dei diversi orientamenti esistenti su quest’altro aspetto, TONI, La legittima-

zione ad agire delle associazioni di categoria per la repressione della concorrenza sleale, in Riv. dir. ind., 1997, II, 387 ss.; GHIDINI, Della concorrenza sleale – Art. 2598-2601, cit., 459 ss.

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teressi superindividuali32 in relazione agli atti di concorrenza sleale. Come precisato dalla giurisprudenza, per la speciale legittimazione ad agire

di cui all’art. 2601 c.c. occorre che sussista “un interesse ulteriore differenziato rispetto a quello che legittima a denunciare il fatto concorrenziale l’imprenditore aderente”33.

In considerazione della possibilità che, per il tramite della norma in esame, vengano tutelati, dunque, interessi diversi da quelli dei singoli imprenditori, è stata sostenuta dalla dottrina, sensibile ad attribuire rilevanza agli interessi dei consumatori, la illegittimità costituzionale dell’art. 2601 c.c. per la mancata previsione in favore delle associazioni dei consumatori della loro legittimazione ad agire per concorrenza sleale34.

La soppressione nell’art. 2601 c.c. del requisito della “professionalità”, che

32 La tutela dell’interesse superindividuale è stata a partire dalla metà degli anni ’70 una delle questioni più dibattute e controverse. In ordine a tale interesse, occorre, però, fare alcu-ne precisazioni, considerato che non è possibile accostare, neanche sul piano terminologico, l’interesse collettivo e l’interesse diffuso o utilizzare, come sembrano fare taluni, indifferente-mente tali due espressioni. Come anche recentemente puntualizzato da PUNZI, La tutela giudi-ziale degli interessi diffusi e degli interessi collettivi, in Riv. dir. proc., 2002, 64 ss., “esistono nella realtà sociale interessi che, in un primo stadio della loro vita sarebbero «adespoti», cioè privi ed anzi alla ricerca di un qualche portatore e tali interessi potrebbero dirsi «diffusi» sino a quando non l’abbiano trovato. Solo allorquando riescono a trovare un loro portatore, tali inte-ressi entrano nel secondo stadio e possono assurgere al rango di «interessi collettivi». Ma tali interessi trovano un portatore in quanto costui è espressione di un gruppo. Solo l’interesse dif-fuso è, quindi, «adespota» e non è qualificato necessariamente sulla base di requisiti di appar-tenenza ad un gruppo, anche se solo nel gruppo si può individuare. L’interesse collettivo, inve-ce riguarda sempre gruppi organizzati, ai quali normalmente il legislatore annette rilevanza: ad esempio un’associazione, un sindacato, un partito o un ordine professionale. Ma anche l’interesse diffuso, pur se non si individualizza con l’appartenenza ad un gruppo e se alla ricer-ca di un portatore, per la sua stessa connotazione di diffuso, compete ad una pluralità di sog-getti”. Alla luce delle considerazioni sopra riportate, l’interesse di cui all’art. 2601 c.c., in quan-to relativo ad organizzazioni cui la stessa norma attribuisce rilevanza, non dovrebbe qualificarsi come “diffuso”, ma “collettivo”.

L’interesse dei consumatori, che l’indirizzo dottrinale minoritario, favorevole ad un amplia-mento dell’ambito di tutela dell’art. 2598 c.c., riteneva rilevante, in quanto non si riconnetteva, sul piano del diritto positivo allora esistente, ad un gruppo cui il legislatore attribuiva rilevanza, doveva, invece, qualificarsi come interesse diffuso. In ordine alla distinzione fra interesse diffu-so ed interesse collettivo e nel senso indicato da PUNZI, cfr. VOCINO, Sui cosiddetti interessi dif-fusi, in Studi in memoria di Salvatore Satta, II, Padova, 1982, 1879 ss., M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, I, Milano, 1990; ALPA, Interessi diffusi, in Digesto delle discipline privatistiche,IX, Torino, 1993, 610. Sugli interessi collettivi e diffusi, con specifico riferimento ai consumato-ri, v. RUFFOLO, Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, I, Milano 1985, 10 e ss., con ampie note di richiami.

33 Così Cass. 20.12.1996, n. 11404, in Giust. civ., 1997, I, 1851.

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determina un inevitabile collegamento con gli interessi di una “categoria” non extraimprenditoriale, avrebbe consentito, secondo tale orientamento, alle as-sociazioni dei consumatori di agire in giudizio e di ottenere quella legittimazio-ne che era priva di supporto normativo.

Si auspicava, dunque, o un intervento legislativo, ovvero una pronuncia additiva della Consulta, che avrebbe dovuto rilevare la irragionevole disparità di trattamento con quelle associazioni portatrici di interessi superindividuali, costituzionalmente rilevanti ai fini della tutela dei consumatori, essendo anche questa ricompresa nell’ambito della concorrenza sleale35.

E la questione di legittimità costituzionale venne sollevata dal Tribunale di Milano con l’ordinanza del 7 febbraio 198036, che costituisce il portato degli in-dirizzi innovatori per i quali la disciplina della repressione della concorrenza sleale sarebbe volta anche alla tutela di interessi generali.

Dopo una premessa diretta ad illustrare le ragioni che renderebbero prefe-ribile l’interpretazione sulla legittimazione delle associazioni ad agire iure pro-prio e non come portatori degli interessi individuali dei singoli che fanno parte della associazione, nonché a sostenere che l’art. 2601 eleverebbe a rango di diritto soggettivo un interesse collettivo e, cioè, “un interesse diffuso di catego-ria imprenditoriale contro il pregiudizio derivante da atti di gestione non con-formi alla correttezza professionale purché tale interesse faccia capo ad un’associazione oppure ad un ente che rappresenti la categoria”, l’ordinanza passa ad esaminare la configurabilità o meno di una questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 3 Cost. “per il fatto che la norma in esame pur avendo reso tutelabile l’interesse collettivo pregiudicato dall’altrui atto di gestione illecito, non ha esteso tale tutela fino a comprendere in essa anche l’interesse collettivo di categorie non qualificabili come professionali, ed in pri-mo luogo della categoria dei consumatori”.

Ebbene la questione veniva ritenuta non manifestamente infondata per

34 Fra i sostenitori della illegittimità costituzionale dell’art. 2601 c.c., GHIDINI, Slealtà della concorrenza e costituzione economica, Padova, 1978, 200-201; FLORIDIA, Correttezza e re-sponsabilità dell’impresa, Milano, 1982, 298 s.

35 GHIDINI, La concorrenza e i consorzi, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia dir. da GALGANO, Padova, 1981, IV, 146.

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contrasto con l’art. 3, comma 1, della Costituzione nella parte in cui l’art. 2601 c.c. “a) circoscrive la tutela giurisdizionale ordinaria ai soli atti di concorrenza sleale che pregiudicano gli interessi di una categoria professionale anziché di una categoria tout court; b) parallellamente conferisce la legittimazione ad agi-re alle sole associazioni professionali anziché alle associazioni tout court”.

Com’è noto, essa veniva decisa con una pronuncia di manifesta inammissi-bilità “perché compete al legislatore apprestare adeguati strumenti di salva-guardia per il consumatore”37.

Il Giudice delle leggi riteneva che l’art. 2601 “si colloca nell’ambito della di-sciplina della concorrenza sleale” per cui “non appare neppur ipotizzabile il con-fronto con enti ed associazioni che abbiano finalità istituzionali diverse dal po-tenziamento del commercio di un determinato prodotto e che fanno quindi va-lere interessi del tutto estranei alla correttezza dei rapporti economici di mer-cato”.

E’ di tutta evidenza che la Corte Costituzionale ritiene che la normativa sul-la concorrenza sleale riguardi i soli imprenditori concorrenti e non comprenda anche gli interessi dei consumatori, tant’è che afferma che gli unici strumenti di tutela di tali interessi sono quelli penali (art. 44 c.p.) e che compete al legi-slatore prevedere “e le forme e l’ambito di azioni specifiche, sul modello di quelle contemplate dalla legislazione tedesca e svizzera in favore delle associa-zioni dei consumatori”.

5. Segue: il successivo dibattito dottrinale All’indomani della pronuncia del Giudice delle leggi le tendenze ad una

maggiore estensione della tutela concorrenziale, in relazione alle esigenze di protezione del consumatore, subivano senz’altro una battuta d’arresto.

Non mancava, tuttavia, chi riteneva la questione di costituzionalità posta “in maniera alquanto sbrigativa e aproblematica”, anche se, nel contempo, qualificava come “troppo lapidaria” e non convincente la conclusione cui i giu-

36 in Giur. ann. dir. ind., 1980, 204, e in Giur. cost. 1982, II, 74, con nota di SPOLIDORO, Co-stituzione e limitazioni soggettive della legittimazione ad agire per concorrenza sleale.

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dici costituzionali erano pervenuti.38 Che la questione sarebbe stata mal posta era già stato messo in luce da

quella dottrina39 secondo la quale la via interpretativa seguita dal giudice a quo finiva per riconoscere una “subalternità” dei consumatori e dei loro interessi al-le associazioni di categoria degli imprenditori concorrenti, posto che, profilando un intervento di enti esponenziali non giuridicamente riconosciuti per atti che avrebbero dovuto essere pregiudizievoli “in pari tempo e in pari misura, non-ché sotto il medesimo profilo di valutazione” di entrambi gli interessi, non sa-rebbe stata attribuita giusta rilevanza a tutti quei casi nei quali a dover essere salvaguardate sono anzitutto le esigenze dei consumatori e solo in via indiretta quelle della impresa.

L’altro limite veniva individuato nell’aver ritenuto violato il solo art. 3 Cost., senza aver tolto in esame i principi desumibili dall’art. 41 Cost. e, soprattutto, cogliere i collegamenti fra tale norma e gli artt. 2 e 3 Cost.

Oltre alle censure riguardanti la ordinanza di rimessione, i sostenitori della estensibilità agli interessi dei consumatori delle norme sulla concorrenza sleale osservavano che la decisione della Corte Costituzionale e l’affermazione peren-toria della insussistenza di una qualsivoglia interferenza fra la tutela della lealtà della concorrenza e la tutela dei consumatori sarebbe poco attenta sia alla di-mensione pubblicistica e sociale del fenomeno concorrenziale, privilegiando, dunque, un’ottica di tipo individualistico della iniziativa economica, sia al rilievo che l’azione dei consumatori contribuirebbe a rendere più efficace il meccani-smo diretto ad assicurare la repressione degli atti di turbativa e a ripristinare la fair competition 40.

37 Corte Cost., Ordinanza, 21.01.1988, n. 59, in Foro it., I, 1988, c. 2158 ss., con nota di COSENTINO, L’art. 2601 c.c. e la tutela dei consumatori al vaglio della Corte Costituzionale.

38 COSENTINO, op. cit., c. 2160 ss. 39 RUFFOLO, Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, cit., 99, sub nota 41. 40 Cfr. COSENTINO, op. cit.,, c. 2161, che così osserva: “I benefici che derivano da un merca-

to concorrenziale (…) riguardano l’intero sistema economico, prima ancora ed oltre che i con-sumatori. La concorrenza – che in teoria, anche se attuata in forme leali, rappresenta comun-que un danno per i singoli imprenditori – è voluta e protetta dall’ordinamento non solo a ga-ranzia dell’iniziativa economica individuale, ma per il bene dell'intero gruppo sociale (...). L’atto di concorrenza sleale, oltre a turbare un delicato sistema economico, basato principalmente sui rapporti di mercato, si risolve in effetti in una perdita di risorse ……. Anche se la legittimazione degli enti di categoria e delle associazioni favorisce l’attività di repressione della concorrenza sleale da parte degli imprenditori, permettendo l’aggregazione delle domande (…) con riduzio-

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Si rafforzava senz’altro l’orientamento tradizionale contrario ad un allarga-mento dell’ambito di applicazione dell’art. 2598 c.c.

Si rilevava, infatti, che “non si possono distorcere le norme sulla concor-renza sleale, dettate cinquant’anni fa per proteggere reciprocamente gli im-prenditori nel loro competere nel mercato, a coprire un problema del tutto di-verso, e cioè quello della protezione dei consumatori”.41

6. L’opportunità di un intervento legislativo in materia Un intervento legislativo in materia era più che opportuno e la tendenza al-

la estensibilità delle disposizioni normative sulla concorrenza sleale agli inte-ressi dei consumatori esprimeva senz’altro uno stato di malessere determinato da una disciplina sulla tutela dei consumatori piuttosto carente.

A prescindere dalla fondatezza o meno degli indirizzi dottrinali che, a parti-re degli anni ’70, ritenevano che al consumatore doveva essere riconosciuta la legittimazione ad agire a fronte di illeciti concorrenziali, v’era sicuramente un vuoto normativo da colmare o, comunque, la necessità che degli idonei stru-menti venissero apprestati per tutelare più efficacemente il consumatore.

La loro tutela non poteva più essere mediata, indiretta o, comunque, su-bordinata a quella degli imprenditori concorrenti e dei loro interessi.

Una siffatta tutela non poteva ritenersi adeguata ed efficace in quanto di-retta a perseguire interessi appartenenti ad una categoria diversa (quella degli imprenditori) e per nulla coincidenti, nella maggior parte dei casi, con quelli dei consumatori. ne e divisione tra tutti gli aderenti all’organizzazione dei «costi amministrativi» dell’azione giu-diziale (…) il meccanismo potrebbe non funzionare …”. Rinvia espressamente a tali considera-zioni, GHIDINI, Della concorrenza sleale artt. 2598-2601, cit., 469, il quale, peraltro, osserva come la Corte non si sarebbe preoccupata di collegare il principio di parità di trattamento di cui all’art. 3 Cost. con quello dell’art. 41, comma 2, Cost. al fine di verificare la legittimità della norma sospettata di incostituzionalità.

41 Così R. FRANCESCHELLI, Concorrenza II) Concorrenza sleale, cit., 24-25, il quale ritiene che la questione della tutela degli interessi dei consumatori e della loro legittimazione ad interveni-re nelle vicende concorrenziali esprime una visione politica del problema. Secondo l’A. non è possibile neanche utilizzare l’art. 41, comma 2, Cost. atteso che tale norma mancherebbe di

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Non può di certo qualificarsi come un sistema idoneo ed adeguato di difesa quello di tutelare i consumatori solo nelle limitate ipotesi in cui i loro interessi collimano con le finalità perseguite dagli imprenditori concorrenti ed, ancora, far dipendere una siffatta eventualità, già di per sé riduttiva, dalla iniziativa al-trui.

A ciò si aggiunga che per tutti gli altri casi, nei quali gli atti sleali posti in essere dai concorrenti abbiano refluenze pregiudizievoli nei confronti dei con-sumatori, ad essi non rimaneva che la tutela penale e quella prevista dalle norme sulla responsabilità civile.

Sotto un profilo penalistico vengono in rilievo, infatti, gli artt. 516 e 517 c.p. che sanzionano la messa in vendita o in commercio come genuine sostan-ze alimentari che tali non sono, nonché la messa in vendita o in commercio di “opere dell’ingegno o prodotti industriali con nomi, marchi o segni distintivi na-zionali od esteri, atti ad indurre in inganno il compratore sull’origine o prove-nienza o qualità dell’opera o del prodotto”.

Altre norme del codice penale che possono ledere gli interessi del consuma-tore sono quelle degli artt. 440, 441 e 442 sulla adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari e di altre cose in danno della salute e, ancora, le dispo-sizioni di cui agli artt. 443, 444 e 445 sulla messa in commercio di sostanze a-limentari contraffatte o adulterate, di medicinali nocivi e sostanza alimentari anch’esse nocive.

Accanto a tale tutela, che consente di poter inibire una determinata attività e di evitare che il consumatore subisca un pregiudizio, l’altra e l’unica che sul piano privatistico poteva essere, come già detto, utilizzata era quella risarcito-ria dell’art. 2043 c.c.

Erano, dunque, configurabili due sole forme di tutela: una che operava sul piano penale che richiedeva che la condotta fosse sussumibile nelle fattispecie di reato previste; l'altra che faceva capo alla applicabilità dei principi e delle norme sull’illecito aquiliano.

E’ di tutta evidenza che ancorare la tutela del consumatore allo schema dell’atto illecito costituisce una prospettiva per nulla soddisfacente. diretta precettività e che prima della sua applicazione occorrerebbe colmare le riserve di legge

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Anzitutto perché, com’è noto, una protezione sarebbe possibile solo nella ipotesi in cui un danno realmente e concretamente si verifichi, mentre una tu-tela che voglia ritenersi pienamente adeguata e, soprattutto, effettiva deve an-che prevenire il verificarsi del pregiudizio e consentire, quindi, al consumatore di intervenire anticipatamente per inibire che gli atti posti in essere dall’imprenditore producano i loro effetti.

Va, ancora, considerato, nel senso sopra indicato, che v’è una nutrita “serie di interessi che si pone a monte del fenomeno risarcitorio, anche se a questo, in un certo senso, collegata. Infatti l’interesse del consumatore, prima ancora di essere risarcito per il danno subito, è quello che siano predisposte delle mi-sure, delle forme di contratto perché il danno non si verifichi. E’ l’interesse che i prodotti siano genuini e non nocivi e che, se pericolosi, siano accompagnati da adeguate istruzioni per l’uso; è l’interesse che la stessa concorrenza tra produttori si svolga secondo i principi della lealtà e correttezza; è l’interesse quindi che la pubblicità non sia menzognera, che con i marchi labels ecc., non si crei quella confusione tra prodotti che inganni il pubblico; è l’interesse che i prodotti abbiano le qualità e siano effettivamente composti dagli ingredienti in-dicati dal produttore”42.

La frammentarietà di un siffatto sistema costituisce un rilievo che accomu-na i contrapposti orientamenti sopra riportati ed unisce, quindi, sia gli autori a favore della tesi della estensibilità agli interessi dei consumatori delle disposi-zioni codicistiche sulla concorrenza sleale, sia la dottrina che, negando un pos-sibile ampliamento, era per la netta ripartizione fra l’illecito concorrenziale e l’illecito lesivo degli interessi dei consumatori.

Tutti, ancora, ritenevano non più procastinabile una disciplina unitaria di-retta ad offrire al consumatore non una tutela indiretta, ma una tutela piena ed immediata, nonché idonea a superare le lacune esistenti. Per taluni, infatti, oc-correva un intervento del legislatore diretto a riconoscere alle associazioni dei in essa contenute.

42 G.B. FERRI, In tema di tutela del consumatore, in Tecniche giuridiche e sviluppo della per-sona a cura di N. LIPARI, Torino, 1974, 288 ss., che, dopo una disamina delle possibili forme di tutela esistenti, così conclude: “Certamente la ricostruzione di questa prospettiva di tutela ap-parirà lacunosa e frammentaria (noi stessi del resto non ci nascondiamo le perplessità che pro-

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consumatori la necessaria legittimazione ad agire43; per altri, come già detto, lo stesso risultato poteva essere ottenuto, oltre che per la via normativa, anche con una pronuncia additiva della Corte Costituzionale44, ovvero con un’interpretazione evolutiva delle norme esistenti45.

Anche i più autorevoli sostenitori dell’indirizzo tradizionale non si limitavano a censurare i ripieghi sopra indicati, ovvero ad escludere soltanto la possibilità per le norme costituzionali e codicistiche di tutelare direttamente gli interessi dei consumatori.

Invero, sottolineavano che “solo un intervento legislativo potrebbe mutare la conclusione della dottrina tradizionale” ed, ancora, che “il principio costitu-zionale dell’art. 41, 2° co., non ha trovato attuazione (……). Ed è certo che lo si dovrebbe fare e che attraverso le iniziative comunitarie sopra accennate, lo si farà. Ma con nuove norme, e non leggendo in quelle esistenti quello che non c’è”46.

Del resto, già ancor prima e con una lungimiranza sorprendente, era stato osservato che “la funzione invero di tutela assolta per i consumatori dalla libera concorrenza dovrà bensì, a volte, essere integrata (……), ma non lo può certo essere attraverso misure a favore delle stesse imprese. E’ questo aspetto della tutela del consumatore (con la quale, a mio avviso, poi si coordina anche la tu-tela del lavoratore, vuoi perché è poi questi che specialmente subisce l’onere della mancata tutela dei consumatori, vuoi perché, come osservato, la posizio-ne privilegiata dell’impresa si tradurrà anche in rafforzamento dell’imprenditore nei confronti dei lavoratori) che è poi anche tutela del progresso tecnico, che a me sembra bensì conciliabile vuoi con libera iniziativa, vuoi con interventi pub- viamo nel proporla) perché non nasce dall’esame critico di una normativa unitaria che, in qual-che modo, affronti omogeneamente il problema”.

43 JAEGER, Pubblicità e « principio di verità», in Riv. dir. ind., 1971, I, 359; AUTERI, La concor-renza sleale, cit., 348.

44 GHIDINI, Della concorrenza sleale, cit., 465–466, che si dichiara contrario ad una interpre-tazione evolutiva della normativa esistente.

45 SANTAGATA, Le nuove prospettive della concorrenza sleale, cit., 141; nello stesso senso, RUFFOLO, Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, cit., 37, il quale così osserva: “Il tema degli interessi diffusi, e quello degli interessi collettivi, vedono in Italia carente la norma-tiva specifica, ma assai aperto il sistema (soprattutto quello costituzionale) e quindi il sentiero della interpretazione sistematica evolutiva. Tale opera appare d’essenziale importanza in un contesto dominato da quel ruolo « di supplenza» del giudice che il vuoto normativo ha finora imposto”; LIBERTINI, Lezioni di diritto industriale, II, Concorrenza sleale, Catania, 1979, 64.

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blicistici e socializzazioni, potendo tutte queste vie, per quanto diverse, concor-rere in questa finalità, ma pericolosamente sottovalutata dagli orientamenti che fanno capo all’impresa, come organismo meritevole, come tale, di peculia-re tutela”47.

V’era, dunque, la consapevolezza della inidoneità della tutela solo indiretta del consumatore.

Occorreva, infatti, eliminare “l’incongruenza di una disciplina legislativa, che sanzioni un atto che pregiudica un interesse (quello dell'imprenditore), nel presupposto che sia avvenuta la lesione di un altro interesse (quello del con-sumatore), che però rimane privo di una tutela pregnante come quella che ri-ceve il primo interesse (dell’imprenditore)48.

Ma bisognava ancora, con il tanto auspicato nuovo apporto normativo, far fronte a nuove e diverse esigenze nascenti dal progresso tecnologico, dal po-tenziamento del commercio, da un sistema economico che si era notevolmente evoluto, allontanandosi da quello che il legislatore degli anni ’40 aveva preso come punto di riferimento.

Alla base, dunque, del predetto fermento vi era la considerazione che “l’emergere dei rapporti e contratti sociali di massa, quale fenomeno nuovo e nuovo modo di atteggiarsi della società civile, che è causa ed effetto al tempo stesso della produzione in serie e dei consumi di massa, non è compiutamente censibile sulla base degli istituti, figure ed interpretazioni tradizionali. Emerge la insufficienza di strumenti propri di momenti in cui quei fenomeni erano so-cialmente meno incidenti, o comunque ispirati ad una logica prodotta dalla cul-tura giuridica a quei momenti dominante”49.

I tempi erano ormai maturi per una risposta in termini di piena ed adegua-ta tutela del consumatore a seguito dei cambiamenti delle condizioni di merca-to, della sua espansione, dell’attuazione di nuovi metodi di fabbricazione e di vendita, dello sviluppo dei mezzi di comunicazione, dell’aumento della produ-

46 R. FRANCESCHELLI, Concorrenza II) Concorrenza sleale, cit., 23 – 24. 47 Così ASCARELLI, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, cit., 935 – 936, sub

nota 129. 48 Così GAMBINO, La tutela del consumatore nel diritto della concorrenza: evoluzioni ed invo-

luzioni legislative, anche alla luce del d.lgs. 25 gennaio 1992 in materia di pubblicità inganne-vole, in Contratto e Impresa, 1992, 421.

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zione, dell’offerta e della vendita di beni e servizi nuovi e correlati all’ampliamento dei bisogni di una società in crescita.

La rilevata anacronistica incongruenza di tutelare i consumatori solo in via mediata od indiretta costituisce l’effetto di un equilibrio fra imprenditori e con-sumatori che si era ormai modificato, e ciò per la sopra accennata evoluzione del mercato, la crescita economica e la più veloce circolazione dei beni e dei servizi.

7. Il Decreto Legislativo n. 74 del 1992 sulla pubblicità ingannevole Non è un caso che le considerazioni sulla necessità di tutelare il consuma-

tore e di colmare il vuoto normativo esistente muovevano da alcuni casi di ille-citi pubblicitari o da esempi riferiti quasi sempre al contenuto menzognero dei messaggi pubblicitari50.

E’, infatti, con riferimento alla pubblicità ingannevole che diventano più e-videnti le incongruenze di una disciplina che non consentiva ai consumatori di poter intervenire, che li rilegava al ruolo di “sudditi”51, lasciando che altri, a-venti lo status di “cittadini”, assumessero per loro l’opportuna iniziativa giudi-ziaria52.

E’ sufficiente a tal fine riportare uno degli esempi prospettati dalla dottrina per dimostrare che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Consulta con l’ordinanza del 21.01.1988 n. 59, sopra indicata, il consumatore non sarebbe affatto estraneo alla correttezza dei rapporti economici di mercato.

E’ stato così considerato “il caso - tipico - di pubblicità non veritiera intorno

49 RUFFOLO, op. cit., 106. 50 Già, in tal senso, SCHLESINGER-VANZETTI, op. cit., 175 – 176, i quali ritengono che alla nuo-

va tendenza verso un’evoluzione pubblicistica della concorrenza sleale ed all’assunzione in es-sa, come criterio di illiceità dell’atto di concorrenza, degli interessi dei consumatori “si riferisce una delle più interessanti discussioni che si conducono in materia, e precisamente quella relati-va agli illeciti pubblicitari”.

51 L’espressione è di GALGANO, La democrazia dei consumatori, in Riv. trim. dir. e proc. civ.,1981, 39.

52 Osserva il MANGINI, in AA.VV., Diritto commerciale, Bologna, 1999, 79-80, che tutelare il consumatore “contro le insidie della pubblicità commerciale anche mediante l’impiego delle norme sulla concorrenza sleale poteva considerarsi come dato acquisito, ma non certo del tutto appagante, dal momento che, come s’è visto, al consumatore vittima del mendacio pubblicita-

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a caratteristiche e proprietà di prodotti che non ammettono diversificazioni sul piano della qualità, dove allora nessun imprenditore avrebbe incentivo a reagi-re contro le false informazioni immesse nel mercato, in quanto anch’egli ne trae vantaggio”53.

Al di là degli esempi e dei casi esposti dalla dottrina, non v’è dubbio che la comunicazione ingannevole incide maggiormente sui consumatori per il forte impatto che ha su di loro e sul processo di scelta che compiono, tant’è che con riferimento agli interessi propri del consumatore ed alla possibilità che essi ve-nissero pregiudicati si faceva menzione, ancor prima dell’introduzione di una specifica ed organica disciplina in materia, alla pubblicità “che tende sempre meno a esaltare o informare sulle qualità del prodotto e sempre più ad indurre all’acquisto, agendo su elementi irrazionali o emotivi”54.

Ebbene, la ormai rilevata improcrastinabile necessità di tutelare il consu-matore unitamente alla mancanza di una disciplina organica della materia, es-sendo stati previsti sia dalla legislazione d’anteguerra, sia da quella successiva, solo divieti specifici, concernenti taluni settori merceologici, ha determinato la emanazione del D.L.vo 25.01.1992 n. 74 sulla pubblicità ingannevole (modifi-cato dal D.L.vo 25.02.2000 n. 67 riguardante le condizioni di liceità della pub-blicità comparativa), che ha recepito la Direttiva n. 84/450/CEE.

Tale decreto, come espressamente enunciato all’art. 1, comma 1, è diretto a tutelare “dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali: i sog-getti che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o profes-sionale, i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari”.

Con la norma testè riportata, dunque, i consumatori vengono posti accanto agli imprenditori e si fanno rientrare, con pari dignità, nel novero dei soggetti che l'ordinamento si propone di tutelare. Viene, poi, riconosciuta agli stessi la legittimazione ad agire al fine di ottenere dall’Autorità Garante della concorren-za e del mercato la più efficace delle misure sanzionatorie: inibire gli atti di rio non è consentito, né individualmente né in quanto appartenente ad un’associazione espo-nenziale, di agire in giudizio”.

53 Così COSENTINO, L’art. 2601 c.c. e la tutela dei consumatori al vaglio della Corte Costitu-zionale, cit., c. 2159.

54 FERRI, In tema di tutela del consumatore, cit., 266.

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pubblicità ingannevole o la loro continuazione, nonché ottenere la eliminazione degli effetti.

Il rimedio di carattere risarcitorio, che presuppone la sussistenza e la dimo-strazione del danno e del nesso causale con la diffusione del messaggio secon-do le norme del codice civile (artt. 2043, 1337 e 1428 c.c.), non è il solo. Alla stessa stregua degli atti di concorrenza sleale, v’è un’anticipazione della soglia di tutela per impedire che l’evento si verifichi e che maturino e si consolidino le intuibili conseguenze lesive.

L’art. 7 del Decreto Legislativo, infatti, concede ai “concorrenti, ai consu-matori, alle loro associazioni ed organizzazioni” la legittimazione a ricorrere all’Autorità affinché sia inibita la pubblicità che “in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone fisi-che o giuridiche alle quali è rivolta o che possa raggiungere e che, a causa del suo carattere ingannatorio, possa pregiudicare il loro comportamento economi-co ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente” (art. 2, comma 1, lett. b) del D.L.vo n. 74/1992)55.

Quel che interessa a questo punto è stabilire se, come è stato recentemen-te affermato, l’attuazione della Direttiva 84/450/CEE con il D.L.vo n. 74 del 1992 determina un mutamento di prospettiva.

Afferma la dottrina in proposito che con la normativa sulla pubblicità in-gannevole si aprirebbe “una profonda breccia, assai suggestiva agli occhi di quanti hanno più volte ricercato, invano, un indispensabile bilanciamento di in-teressi tra categorie non imprenditoriali all’interno della disciplina della concor-renza sleale”.56

Nello stesso senso, si sostiene che “i primi segnali di erosione di questa ri-gorosa concezione della concorrenza e della sua disciplina ristretta ai rapporti tra imprenditori commerciali, sono venuti dalle direttive comunitarie e, in parti-colare, dalle leggi che ne hanno perseguito l’attuazione: prima tra esse, il d.lg. 25 gennaio 1997 n. 74 in tema di pubblicità ingannevole (…) che all’art. 7 ha riconosciuto – nella salvezza della competenza giurisdizionale del giudice ordi-

55 Per una trattazione approfondita dell’impianto sanzionatorio apprestato dal D.L.v. n. 74/1992 ed, in particolare, sulla inibitoria e sull’ordine di pubblicazione si veda MELI, I rimedi per la violazione del divieto di pubblicità ingannevole, in Riv. dir. ind., 2000, I, 5 ss.

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nario in tema di azione ex art. 2598 – al consumatore uti singulus ed all’ente esponenziale un potere di iniziativa e di controllo giurisdizionale (sebbene di pertinenza del giudice amministrativo)”.57

Anche se sulla questione si ritornerà più avanti, giova rilevare sin da ora che le affermazioni di principio sopra riportate vanno senz’altro attentamente e rigorosamente verificate dall’interprete.

Già i primi commentatori delle disposizioni normative in esame non erano molto propensi ad accedere a tale nuova e diversa prospettiva.

Anzi, si sottolineava da parte di taluni che “sarebbe un errore considerare la pubblicità ingannevole nell’ambito strutturale e funzionale della concorrenza sleale, come sarebbe erroneo considerarla a protezione del solo consumatore. La disciplina della pubblicità ingannevole ha una sua propria autonomia giuridi-ca, diretta a creare chiarezza e trasparenza nei rapporti commerciali e profes-sionali, senza richiedere la necessaria qualifica imprenditoriale delle due parti, che prima della nuova normativa era indispensabile, nonché gli altri requisiti prescritti dall’art. 2598 cod. civ.”58.

E’ indubbio che sussistano rapporti fra il fenomeno della pubblicità ingan-nevole e la concorrenza, come, peraltro, enunciato dal secondo “Considerando” della direttiva 84/450/CEE, che così afferma: “la pubblicità ingannevole può condurre ad una distorsione della concorrenza all’interno del mercato comune”. E’ ovvio, infatti, che “Se la pubblicità opera quale mezzo di orientamento della domanda essa è idonea ad influenzare le condizioni generali di mercato”59.

Ma, come costantemente rilevato dalla dottrina, “vi sono atti o attività di per sé non dannosi per i consumatori, che possono risultare tali se riferiti inve-

56 GAMBINO, op. cit., 432 ss. 57 BONAJUTO, in Nuova Rassegna di giurisprudenza sul codice civile, 1998 – 2000 a cura di

RUPERTO e SGROI, Milano 2001, sub. art. 2601, 1059 s. 58 Queste le parole dell’allora Presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mer-

cato, FRANCESCO SAJA, La Direttiva n. 84/450 del 10 settembre 1984, relativa al ravvicinamento delle discipline in materia di pubblicità ingannevole e il D.lg. di attuazione, 25 Gennaio 1992 n. 74: le funzioni dell’Autorità Garante istituita ex art. 10 della Legge 287/1990, in Quaderni per l’Arbitrato e per i contratti internazionali, Milano, 1992, 121.

59 Cfr., MELI, La repressione della pubblicità ingannevole, Torino, 1994, 9 ss.; per un esame ricognitivo della legislazione italiana anteriore all’attuazione della direttiva 84/450/CEE, il vo-lume di ALPA, Diritto privato dei consumi, Bologna, 1986; per una sintesi, ALPA–ROSSELLO,L’attuazione della direttiva comunitaria in materia di pubblicità ingannevole (D.lg. 25 gennaio

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ce ai rapporti concorrenziali tra imprenditori. Vi sono atti o attività dannosi per i consumatori che non risultano tali nella disciplina della concorrenza come ac-cade per la pubblicità superlativa”60.

La pubblicità denigratoria avente ad oggetto affermazioni vere non costitui-sce un’ipotesi lesiva degli interessi dei consumatori; anzi, è tale da offrire loro quelle informazioni idonee a determinare le proprie scelte di acquisto in modo consapevole e sulla base delle reali caratteristiche dei prodotti.

Allo stesso risultato conduce presumibilmente la pubblicità comparativa. Alla luce di tali considerazioni sembra possibile affermare che la tutela di-

retta del consumatore e la legittimazione riconosciuta in capo allo stesso ed al-le associazioni dei consumatori non implica necessariamente un ampliamento sul piano soggettivo della disciplina della concorrenza sleale, né conduce a ri-tenere superata la tradizionale impostazione corporativistica.

Non sempre il consumatore ha interesse a reagire nei confronti di ogni forma di comunicazione pubblicitaria scorretta. Solo per quelle comunicazioni che siano tali da indurlo in errore e da alterare la sua libertà di scelta egli può denunciare i fatti all’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.

Vi possono così essere delle situazioni che, per la plurioffensività della con-dotta posta in essere dell’operatore pubblicitario, consentono a più soggetti, appartenenti a categorie diverse, di agire in giudizio.

Ma una siffatta coincidenza non sembra che possa determinare una commi-stione di interessi e non giustificherebbe l’affermazione secondo la quale con il decreto in esame la c.d. esclusività corporativa della concorrenza sleale si sia incrinata.

Non va, poi, trascurato che, secondo una certa impostazione, l’interesse dei consumatori a non essere ingannati dalla comunicazione pubblicitaria “altro non è se non un particolare aspetto di ciò che un tempo si definiva la «fiducia commerciale», ricollegabile alla più vasta nozione di «fede pubblica», che già 1992, n. 74), in Quaderni per l’arbitrato e per i contratti internazionali, Milano, 1992, 105 ss.; FUSI-TESTA-COTTAFAVI, La pubblicità ingannevole, Milano, 1993, 33 ss.

60 ALPA – ROSSELLO, op. cit., 107 ss., che nel primo caso di atti non pregiudizievoli per i con-sumatori annoverano la pubblicità comparativa che, per la giurisprudenza formatosi prima del D.L.vo n. 67/2000, “non assume rilievo al di fuori dell’effetto del discredito commerciale a

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trovava e trova riconoscimento in diverse norme del nostro ordinamento, fra cui quelle dell’art. 18 lett. e) della Legge Marchi e degli artt. 515 e 517 del Co-dice Penale”61.

La tutela della c.d. fede pubblica riguarderebbe, detto più chiaramente, “quell’interesse generale – in quanto non personalizzato in capo a soggetti de-terminati o a categorie di soggetti – che secondo la nota definizione rocchiana si indirizza al mantenimento della fiducia del pubblico in determinati oggetti o simboli, sulla cui genuinità o autenticità deve potersi fare assegnamento al fine di rendere certo e sollecito lo svolgimento del traffico economico e/o giuridi-co”62.

La legittimazione ad agire dei consumatori non avrebbe, dunque, alcuna refluenza sulla disciplina della concorrenza sleale, atteso che gli interessi tute-lati sarebbero diversi e solo in via mediata si ripercuoterebbero sul mercato.

Anzi, secondo una parte della dottrina, i soggetti portatori di interessi tute-lati dal decreto ed indicati dall’art. 1, comma 1, non potrebbero considerarsi su un piano di parità, poiché “obiettivo primario” sarebbe la tutela del consumato-re, mentre “la tutela degli interessi ulteriori rispetto a quello dei consumatori assume sì qualche rilievo autonomo, ma ciò avviene …… solamente sul piano della legittimazione a ricorrere, non su quello dei presupposti della tutela. L’assenza di un profilo di potenziale lesione dei consumatori impedisce di azio-nare la tutela, dove, al contrario, la sua presenza lo consente, indipendente-mente dall’esistenza di un potenziale pregiudizio ad altri interessi. La relazione tra lesione di tali altri interessi e lesione di quello dei consumatori, è, pertanto,

danno dei prodotti o servizi sfavoriti dal confronto, e quindi come fattispecie di concorrenza sleale per denigrazione”.

61 Così FUSI – TESTA – COTTAFAVI, La pubblicità ingannevole, cit., 82, i quali ritengono che l’interesse dei consumatori che viene in rilievo è quello proprio dei soggetti utilizzatori dei beni e dei servizi offerti dalle imprese, per cui escludono “che quelli facenti capo ai consumatori possano considerarsi alla stregua di «interessi di categoria». In tal senso si era già pronunciato ALPA, Considerazioni generali sull’elaborazione di un progetto di legge per la difesa del consu-matore anche con riferimento alla tutela degli interessi diffusi, in La pubblicità nell’era informa-zione, Pavia, s.d., 13 ss.

62 MELI, op. cit., 11-12, il quale ritiene che sia difficile sostenere che “tale ulteriore profilo sia stato autonomamente preso in considerazione, ed in che termini, dalla disciplina”, e ciò in rela-zione alla considerazione che gli interessi perseguiti nella definizione degli obiettivi non verreb-bero esplicitati.

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eventuale”63.I concorrenti potrebbero, dunque, agire in giudizio solo nelle ipotesi in cui

l’avvenuta lesione degli interessi dei consumatori determini per loro conse-guenze sleali.

Un capovolgimento della impostazione tradizionale, che, tuttavia, solo in via eventuale tocca la disciplina della concorrenza sleale e, comunque, non in-ciderebbe su di essa.

A ciò occorre, anche, aggiungere, come costantemente affermato in dottri-na, che, se è vero che il decreto sopra citato ha attribuito uno specifico stru-mento di protezione alle associazioni dei consumatori, è altrettanto incontesta-bile che “questa legittimazione è diffusa ed amplissima e l’organo competente non è un giudice ordinario, ma l’Autorità Garante della concorrenza e del mer-cato, istituita con legge 10 ottobre 1990 n. 287” e che “non sembra modificato in alcun modo l’ambito di applicabilità dell’art. 2601 c.c.”64.

8. La Legge n. 580/1993 di riforma dell’ordinamento delle Camere di Commercio

Secondo altri Autori la prima “robusta incrinatura” all’orientamento tradi-zionale sulla natura individuale e “professionale” della disciplina concorrenziale si avrebbe, invece, con la L. 29.12.1993, n. 580, di riforma dell’ordinamento delle Camere di Commercio.65

Con tale normativa si modificherebbe il loro ruolo di rappresentanti delle categorie professionali e la loro azione potrebbe essere anche volta a “far ces-sare atti di concorrenza lesivi degli interessi generali di mercato”.66

E’ opportuno, anche in tale ipotesi, prendere specificamente in esame le di-sposizioni della predetta legge che riguardano i consumatori e che consenti-

63 MELI, op. cit., 13 ss. 64 PUNZI, op. cit., 661 e sub nota 44. 65 GHIDINI, Profili evolutivi del diritto industriale, cit., Milano, 2001, 187. Sulla riforma delle

Camere di commercio, sui principi ispiratori della L. n. 580/1993, nonché sui successivi inter-venti normativi v. MORANA, Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, in Enc. dir., Aggiornamento, VI, Milano, 2002, 211 ss.

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rebbero di affermare quanto autorevolmente sostenuto dalla dottrina. L’art. 2 della citata L. n. 580/1993 nel prevedere i compiti svolti dalla Ca-

mera di Commercio stabilisce, anzitutto, al comma 1, che queste esercitano funzioni “di supporto e di promozione degli interessi generali delle imprese nonché .……funzioni nelle materie amministrative ed economiche relative al si-stema delle imprese”.

Nel successivo comma 4 dello stesso art. 2 vengono previste, in termini di possibilità, la promozione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzio-ne di controversie che insorgano anche fra le imprese e i consumatori o utenti, la predisposizione e promozione di “contratti-tipo tra imprese, loro associazioni e associazioni di tutela degli interessi dei consumatori e degli utenti”, nonché la promozione di “forme di controllo sulla presenza di clausole inique inserite nei contratti”.

Infine, il successivo comma 5 del citato art. 2 stabilisce la possibilità per le Camere di Commercio di “promuovere l’azione per la repressione della concor-renza sleale ai sensi dell’art. 2601 del codice civile”.

Occorre, anzitutto, sottolineare, sulla base delle disposizioni sopra conside-rate. che la funzione principali delle Camere di Commercio rimane quella legata agli interessi delle imprese con riferimento alle quali esercitano un importante ruolo di supporto e di promozione.

Le altre attribuzioni previste dall’art. 2, commi 4 e 5, e che riguardano i consumatori, sembra che possano essere svolte solo in via eventuale, per cui non sarebbe peregrina l’affermazione che si tratti di una mera facoltà il cui e-sercizio è rimesso all’apprezzamento delle Camere di Commercio o delle loro associazioni.

In tal senso depone l’uso, nella formulazione della norma in esame, del verbo “possono”, che precede l’elencazione di cui alle lett. a), b) e c) del com-ma 4.

Sempre in termini di possibilità viene previsto l’esperimento dell’azione di repressione della concorrenza sleale.

Alla luce di tali considerazioni non si ritiene che con la legge in esame la

66 GHIDINI, op. loc. cit.

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concorrenza sleale assuma contorni più ampi e ricomprenda anche gli interessi dei consumatori.

Sembra, infatti, che il ruolo principale delle Camere di Commercio rimanga quello enunciato dall’art. 2, comma 1, della legge di riforma e, segnatamente, quello di supporto e di promozione degli interessi generali delle imprese. In re-lazione a tale funzione ben si comprende la possibilità per esse di esercitare l’azione di cui all’art. 2601 c.c., essendo questa volta a tutelare gli interessi superindividuali di una intera categoria imprenditoriale.

Né, dall’altra parte, si potrebbe fare leva sulla composizione delle Camere di Commercio per argomentare che l’azione ex art. 2601 c.c. non sarebbe più riservata alla difesa di interessi imprenditoriali.

L’art. 10, comma 6, della L. n. 580/1993 prevede che del consiglio fanno parte, in rappresentanza delle associazioni di tutela degli interessi dei consu-matori, solo due componenti designati dalle organizzazioni maggiormente rap-presentative nell’ambito della circoscrizione territoriale di competenza.

Ebbene la partecipazione a tale organismo delle associazioni dei consuma-tori è più che minoritaria, certamente non significativa, considerato che la qua-si totalità del consiglio è composta dai rappresentanti dei diversi settori nei quali le imprese operano (si ponga mente che, su un numero di 20 consiglieri nel caso in cui le imprese iscritte non superino le 40.000 unità, solo due consi-glieri rappresentano i consumatori).

Tale esiguo numero di consiglieri non sembra che possa giustificare il supe-ramento della concezione tradizionale della disciplina concorrenziale.

Infine, gli altri compiti, elencati dal citato art. 2, comma 4, e concernenti la predisposizione di contratti–tipo tra le imprese e i consumatori ed il controllo sulla presenza di clausole abusive, non inciderebbero sul fenomeno della con-correnza sleale se non in via mediata o indiretta.

Peraltro, come osservato in dottrina, le Camere di Commercio “difficilmente sembrano potersi atteggiare efficacemente al descritto ruolo di raccordo tra le imprese – alle quali appartengo, nella normalità dei casi, i «professionisti» uti-lizzatori delle clausole abusive – e i «consumatori» (……), ergendosi, allo stesso tempo, a tutela dei consumatori, ponendosi così, in antitesi alla figura

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dell’imprenditore professionista”.67 Peraltro, fra gli stessi autori che avevano da sempre sostenuto la necessità

di ampliare l’ambito degli interessi suscettibili di protezione da parte della di-sciplina concorrenziale, venivano da subito sollevate perplessità sulla reale por-tata innovativa della L. n. 580/1983, ponendo il seguente quesito: “……se e come le Camere di Commercio eserciteranno tale potestà e se la eserciteranno per tutelare gli interessi degli antagonisti contro gli abusi imprenditoriali, appa-re per tutelare gli interessi produttivistici della categoria contro comportamenti concorrenziali dei singoli imprenditori che siano scorretti in quanto devianti ri-spetto agli obiettivi produttivistici della categoria”68.

Essendo necessario verificare, poi, in una prospettiva di carattere pragma-tico, l’impatto del nuovo modello nella realtà giuridica, occorre rilevare che a tutt’oggi nessuna pronuncia v’è stata su azioni promosse dalla Camera di Commercio per la repressione della concorrenza sleale.

Nessun interesse della categoria imprenditoriale è stato protetto esperendo l’azione di cui all’art. 2601 c.c.; quanto precede rende ancor più improbabile che una siffatta azione possa essere utilizzata per la difesa degli interessi dei consumatori.

Una conferma, sia pure successiva, di quanto sin qui esposto potrebbe es-sere costituita dalla norma di cui all’art. 3 della L. n. 281/1998.

Sulla base di tale norma le Camere di commercio, infatti, assumono un in-dubbio ruolo di terzietà, che è senz’altro inconciliabile con quello di soggetti che possono esperire l’azione inibitoria a tutela degli interessi dei consumatori nel quadro della concorrenza sleale.

Esse, invero, non rientrano più, ai sensi del citato art. 3 comma 1, della L. n. 281/1998, nel novero dei soggetti legittimati ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori a differenza della previsione contenuta nell’art.1469-sexies c.c., introdotto dalla L. 05.02.1996 n. 52 sulla clausole abusive.

Come osservato in dottrina, “il legislatore della n. 281, in discontinuità con la norma codicistica, coinvolge le Camere di commercio in posizione di terzietà

67 CALVI, in Clausole vessatorie e contratto del consumatore a cura di CESARÒ, I, Padova, 1998, 684.

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arbitraria, prevedendo che dinanzi alle stesse si svolga la procedura di concilia-zione ex art. 3, comma 2, probabilmente più in linea con le funzioni di control-lo, promozione e coordinamento nell’interesse generale del sistema delle im-prese, che a questi enti vengono attribuite dalle legge n. 580/93 (sul riordina-mento camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura). E’ evidente che, a fronte della previsione dell’art. 3, comma 2, sarebbe stato quanto meno contraddittorio, oltre che «spurio» dal punto di vista sistematico, includere le camere di commercio nel novero degli organismi legittimati a promuovere la procedura di conciliazione e l’azione giudiziale. Un ulteriore elemento decisivo ai fini di tale «dietrofront» politico-normativo si ritiene sia stato costituito da quanto inequivocabilmente suggerito proprio dalla prassi applicativa dell’art. 1469-sexies c.c., che ha segnalato la marginalità del ricorso allo strumento ini-bitorio da parte delle camere di commercio”69.

9. La Legge n. 281/1998 ed i diritti fondamentali dei consumatori E’ stato felicemente osservato che “la legge generale sui diritti dei consu-

matori e degli utenti approvata il 2 luglio 1998 costituisce l’atteso «bill of rights» dei consumatori nell’ordinamento italiano”70, ovvero, secondo altra e-spressione, “una sorta di tavola costituzionale dei diritti del consumatore, cor-rispondente a quell’elenco che già nel lontano 1975 la Comunità aveva inserito nella Risoluzione del Consiglio 14 aprile 1975, la quale, in seno al «Programma preliminare della CEE per una politica di protezione ed informazione del con-sumatore», scolpiva, per la prima volta, alcuni dei c.d. diritti fondamentali del consumatore, quali il diritto alla protezione della salute e della sicurezza, alla tutela degli interessi economici, al risarcimento dei danni, all’informazione e all’educazione, alla rappresentanza”71.

68 FLORIDIA, Concorrenza sleale e Camere di commercio: un ritorno al futuro, in Dir. ind.,1994, 856-857.

69 CAMERO-DELLA VALLE, La nuova disciplina dei diritti del consumatore, Milano, 1999, 148 – 149.

70 ALPA, in I diritti dei consumatori e degli utenti – Un commento alle Leggi 30.07.1998 n. 281 e 24.11.2000 n. 340 e al Decreto Legislativo 23.04.2001 n. 224 a cura di ALPA e LEVI, Mi-lano, 2001 sub art. 1, 4.

71 CAMERO-DELLA VALLE, La nuova disciplina dei diritti del consumatore, cit, , 56 s.

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E la matrice comunitaria della normativa interna sui consumatori è senz’altro fondamentale72; anzi, si può ben affermare che la promozione della tutela dei consumatori all’interno del nostro Paese è quasi esclusivamente il frutto di una politica comunitaria che alla effettività di quella tutela ha attribui-to una importanza prioritaria, di un recepimento, sia pure non tempestivo, di trattati e direttive che ha dato ormai luogo ad un impianto normativo assai im-ponente e complesso.

In relazione a tale complessità è stata avvertita l’esigenza di creare un te-sto unico sulla tutela del consumatore, esigenza questa che ha interferito sul lungo ed accidentato iter legislativo di approvazione del testo della legge in e-same.73

Non può che essere, dunque, nel giusto chi afferma che “fu l’Europa il trai-no decisivo, ed anzi primario, per l’introduzione, anche da noi, di moderne normative in materia di qualità, sicurezza, pubblicità, responsabilità dell’impresa”.74

72 I numerosi interventi delle istituzioni comunitarie a tutela del consumatore sono ampia-mente trattati da CHINÈ, Il consumatore, in Trattato di diritto privato europeo a cura di LIPARI,I, Padova, 2003, 435 ss.

73 Osserva ALPA, op. ult. cit., 4, che “Il percorso di questo provvedimento è stato accidenta-to, sia per le forti opposizioni ad esso manifestate dalle categorie economiche, sia per le divi-sioni interne che hanno contrapposto le associazioni più estese o comunque più forti, alle ag-gregazioni occasionali o più recenti, sia per il nodo costituito dalla inclusione o meno tra le as-sociazioni dei consumatori delle cooperative di consumo. L’approvazione del testo ha subito quindi rallentamenti, revisioni, ripensamenti che non hanno giovato né alla sua formulazione definitiva, né alla determinazione dei confini dell’intervento. Con questa vicenda – a complicar-ne il percorso – ha interferito pure la vicenda della redazione di un testo unico sulla tutela del consumatore, di cui la legge generale avrebbe potuto costituire il provvedimento di apertura ……”.

Sul quadro normativo di riferimento concernente i diritti dei consumatori e sulla “svolta”rappresentata dal trattato di Amsterdam sottoscritto nel 1997 e ratificato con L. 16.06.1998, n. 209, cfr. ALPA, La nuova disciplina dei diritti dei consumatori, in Studium iuris, 1998, 1310; v., altresì, CAMERO – DELLA VALLE, op. cit., 1 ss., che prendono in esame le disposizioni comuni-tarie in materia che vanno dal Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea, firmato a Roma il 25 marzo 1957 (art. 39) e da quello di Maastricht sull’Unione Europera (artt. 3, lett. s) e 129 A) alle direttive di respiro settoriale.

74 GHIDINI-CESARINI, Consumatore (tutela del), in Enc. dir., Aggiornamento, V, 2001, 265, i quali evidenziano come in Italia “il processo di costruzione normativa fu contrassegnato da un’adesione ai fermenti comunitari assai più lenta rispetto alle generalità degli altri Stati mem-bri” e che “fu solo grazie alla pressione comunitaria che, in seguito, la situazione riuscì ad e-volversi”. Gli autori provvedono ad una interessante reductio ad unitatem delle direttive comu-nitarie e della disciplina di tipo settoriale con esse dettata, utilizzando, con riferimento alla normativa sostanziale, cioè a quelle norme “che conferiscono diritti ai consumatori e/o propon-gono obblighi e divieti in capo agli imprenditori” il criterio delle tre “fasi fondamentali del ciclo

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La legge n. 281 del 1998 si compone di appena otto articoli ed articola la tutela del consumatore su diversi livelli: “il livello definitorio della nozione di consumatore e di associazioni di consumatori, il livello codificatorio dei diritti fondamentali dei consumatori, il livello istituzionale riguardante il ruolo delle associazioni in giudizio e nell’attività istituzionale, il livello rappresentativo degli interessi dei consumatori ottenuto sia attraverso la registrazione e la legittima-zione ad agire delle associazioni, sia attraverso la rappresentanza di secondo grado mediante la previsione di agevolazioni e finanziamenti alle organizzazioni dei consumatori”.75

In relazione alle finalità del presente lavoro è interessante soffermarsi sull’art. 1 della citata L. n. 281/1998, che riconosce ai consumatori alcuni dirit-ti, definiti come “fondamentali”,76 e, segnatamente, il diritto “alla sicurezza e

persuazione-negoziazione-fruizione (“visto” dal lato del consumatore)”. Nella fase della persua-sione all’acquisto vengono indicate, quali normative fondamentali, il D.L.vo 25.01.1992, n. 74 in tema di pubblicità ingannevole, modificato dal D.L.vo 28.02.2000, n. 67 sulla pubblicità comparativa e vengono inserite anche le “varie disposizioni, generali e specifiche, volte ad im-porre obblighi di informazione all’etichettatura (labeling) dei prodotti”. Nella fase negoziale, la L. 06.02.1996 n. 52 sulle clausole abusive, il D.L.vo 15.01.1992, n. 50, sui contratti negoziati fuori dai locali commerciali, il D.L.vo 22.05.1999 n. 185 sui contratti a distanza, il D.L.vo 17.03.1995, n. 111, sui contratti relativi ai viaggi, vacanze e circuiti “tutto compreso”, nonché il D.L.vo 01.09.1993, n. 385, in materia bancaria e creditizia con riferimento al credito al con-sumo. In ordine, infine, alla fase della fruizione dei prodotti, vengono indicati il D.L.vo 17.03.1995 n. 115 sulla sicurezza generale dei prodotti e gli altri testi normativi concernenti la sicurezza in specifici settori, nonché il D.P.R. n. 224 del 1988 in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, modificato dal D.L.vo 02.02.2001, n. 49. Si tratta di una ricostru-zione della normativa in materia senz’altro apprezzabile, poiché consente di superare l’elevato grado di frammentarietà e di settorialità che la caratterizza.

75 Così ALPA, in I diritti dei consumatori e degli utenti, cit., 4. 76 In ordine alla natura dei diritti previsti dal comma 2 dell’art. 1 della L. n. 281/1998 la dot-

trina ha evidenziato sin da subito come la qualificazione di “diritti fondamentali” non deve in-tendersi in senso proprio, cioè come diritti irrinunciabili, inviolabili, come diritti da intendersi alla stregua di quelli costituzionalmente garantiti. In tal senso, ALPA, La nuova disciplina dei di-ritti dei consumatori, cit., 1315 e 1316 il quale ritiene che l’espressione “diritti fondamentali”deve intendersi “come «diritti essenziali», diritti che non possono essere violati senza adeguata sanzione. Il loro riconoscimento esplicito e compiuto implica che tali disposizioni non possono essere considerate meramente programmatiche”. Certamente taluni diritti rientrano in quelli inviolabili costituzionalmente garantiti, come il diritto alla salute previsto dall’art. 32 Cost. o il diritto all’associazionismo tra consumatori ed utenti previsto dall’art. 18 Cost. Un interessante distinzione è quella operata da BIANCO, Brevi considerazioni sui diritti fondamentali dei consu-matori e degli utenti, in La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, a cura di BARBA,Napoli, 2000, 199 ss., che, sulla base della distinzione fra diritti fondamentali originari e diritti fondamentali derivati, afferma che il catalogo dei diritti previsto dalla legge n. 281/1998 con-tiene “sia diritti strettamente inviolabili ed immediatamente riferibili alla persona umana; sia diritti fondamentali «di settore»”, diritti, cioè, che sembrano assicurare particolari status o po-sizioni giuridiche.

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alla qualità dei prodotti e dei servizi”, il diritto “ad un’adeguata informazione e ad una corretta pubblicità”, il diritto “alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi” e il diritto “all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità ed efficienza”.

I diritti sopra enunciati sono quelli che sembrano meglio prestarsi ad un esame volto a verificare se esista un rapporto tra la tutela dei consumatori predisposta dalla legge in esame e la disciplina della concorrenza sleale ed, an-cora, se tale legge possa ritenersi rivolta alla protezione degli interessi dei con-sumatori nell’ambito del diritto della concorrenza.

A tale quesito alcuni autori hanno risposto affermativamente, ritenendo che la legittimazione delle associazione dei consumatori, prevista dall’art. 3 della legge in esame, ad agire in giudizio per la tutela dei diritti enunciati dall’art. 1 costituirebbe “la seconda, ancor più profonda ed anzi «simbolica» incrinatu-ra”77 alla visione tradizionale della disciplina della concorrenza sleale.

E’ stato, in particolare, rilevato che la L. n. 281/1998 “attribuisce a qualifi-cate associazioni di consumatori il potere di adire la giustizia per la repressione di atti contrari agli interessi di consumatori e utenti (art. 3). Ora, è lapalissia-no, molti atti di concorrenza sleale sono lesivi anche (……) degli interessi dei consumatori: ricordo, per tutti, i comportamenti confusori e ingannatori. E’ dunque oggi anche positivamente corretto affermare che la originaria preclu-sione all’allargamento della legittimazione ad agire alle associazioni dei consu-matori – confermata dalla Corte Costituzionale nel 1982 sulla base di una lettu-ra (ultra) tradizionale (e asistematica: proprio rispetto ai principi della costitu-zione economica) – della disciplina repressiva della concorrenza sleale, possa oggi considerarsi superata alla luce appunto della legge 281/998. E che pertan-to, anche sul versante soggettivo (cioè appunto della legittimazione), la re-pressione della concorrenza sleale sia indotta a servire non più esclusivamente gli interessi «dei concorrenti», bensì tuteli questi ultimi in una prospettiva di necessario rispetto di tutti gli interessi protetti dalla costituzione economica e riferibili, come rilevato, vuoi alla “altrui libertà di concorrenza”, vuoi alla corret-

77 GHIDINI, Profili evolutivi del diritto industriale – Proprietà intellettuale e concorrenza, cit.,

187-188.

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ta informazione (nel senso più ampio) del pubblico dei consumatori”78.Si ritiene, dunque, che la legge n. 281 del 1998 costituisca quell’auspicato

intervento diretto a far entrare dalla porta del legislatore ciò che la dottrina e una parte minoritaria della giurisprudenza avevano tentato di far entrare dalla finestra con una sentenza additiva della Corte Costituzionale.

A tale questione si tenterà di dare una risposta, verificando se può ritenersi aderente al dato normativo esistente la tendenza diretta ad ampliare l’ambito della repressione della concorrenza sleale e a superare i limiti soggettivi tradi-zionalmente stabiliti.

10. Sui rapporti fra la tutela del consumatore e la tutela della concorrenza sleale e sulla sussistenza di una legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori per la repressione della concorrenza sleale

E’ certamente innegabile che il consumatore ha un ruolo rilevante nel mer-cato.

Come rilevato dalla dottrina, “la tutela dei consumatori non è (solo) politica sociale. E’, anche, un preminente strumento di governo della concorrenza e di sollecitazione della competitività. Irrobustendo le tutele dei diritti dei consuma-

78 GHIDINI, op. ult. cit., 188, nello stesso senso e più recentemente, ID, Note sull’evoluzione

della disciplina italiana della concorrenza sleale alla luce dei principi antitrust, in Riv. dir. ind.,2002, 426 ss., che così osserva: “….pur faticosamente, e con gravi ritardi e tenaci resistenze (peraltro più sul versante dottrinario che su quello, ben più significativo per cittadini e imprese, della giurisprudenza), si avviò una estesa opera di riqualificazione di fattispecie tipiche (o tipiz-zate dagli interpreti), espressiva del passaggio da un paradigma di mercato di ispirazione cor-porativa – originariamente imperniato su una funzione integrativa delle norme a tutela di mar-chi e brevetti, a difesa ulteriore dell’avviamento commerciale – ad un diverso paradigma, ap-punto ispirato ad un modello di mercato concorrenziale e «socialmente compatibile». Un’opera che in tempi più recenti è stata ulteriormente accelerata sia dalla emanazione e poi dall’attuazione in ambito nazionale delle Direttive comunitarie sulla pubblicità ingannevole e su quella comparativa, sia dalla nuova legislazione (l. n. 281 del 1998) in tema di tutela consuma-tori e di legittimazione ad agire delle loro associazioni per inibire atti, anche di concorrenza, contrari agli interessi rappresentati: spezzando così quel pilastro del modello corporativo rap-presentato dalla legittimazione «riservata» ai concorrenti e alle associazioni di imprese. Si è così incisivamente modificato il quadro dei principi e dei criteri che guidano l’interpretazione e l’applicazione della disciplina, «scacciando», dalla nozione normativa di «correttezza professio-nale» - paradigma generale della qualificazione – molti dei precedenti indirizzi protezionistici e corporativi, per far posto ad altri, espressivi de su ricordati nuovi principi-guida della nuova co-stituzione economica: e da qui mutando profondamente, direi rivoluzionando, la fisionomia, anzi: la stessa morfologia delle fattispecie, lecite ed illecite, nelle quali la disciplina si atteggia”.

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tori e delle sue associazioni, l’operatore economico più efficiente riesce a mar-ginalizzare quello meno scrupoloso, destinato altrimenti a sopraffarlo”.79

Il consumatore, quindi, rappresenta un punto di riferimento del mercato dal quale ormai non è possibile discostarsi o prescindere.

Ma un siffatta rilevanza è divenuta tale in relazione agli interventi normativi sopra ricordati che hanno creato uno status di consumatore ed hanno attribuito al consumatore stesso diritti e prerogative nei confronti dell’imprenditore.

Tale nuova prospettiva ben si coglie prendendo in esame gli artt. 1 e 3 del-la L. n. 281 del 1998.

Rimane, però, il dubbio se tale tutela si spinga fino al punto di investire il consumatore singolo o le associazioni dei consumatori della legittimazione giu-ridica a dolersi dei comportamenti concorrenziali sleali e di far ritenere che la normativa sulla concorrenza sleale tuteli oggi in via diretta ed immediata anche i consumatori.

E’ indubbia la mancanza nel citato comma 2 dell’art. 1 della L. n. 281/1998 di un esplicito riferimento al diritto del consumatore ad una concorrenza corret-ta e leale.

Tuttavia, tra i diritti riconosciuti ai consumatori, è annoverato il diritto ad una corretta pubblicità che è correlato, strettamente, al diritto ad un adeguata informazione. Ed ancora sono riconosciuti i diritti alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali, nonché alla erogazione di servizi secondo criteri che assicurino standard di qualità ed efficienza.

Si potrebbe argomentare che tali diritti sono diretti a sanzionare compor-tamenti confusori o ingannatori e che, quindi, si rivolgono a favore del consu-matore collegandosi in qualche misura con gli atti ed i comportamenti previsti dall’art. 2598 c.c.

Siffatta conclusione, tuttavia, non sembra corretta e, comunque, potrebbe essere considerata come semplicistica e non idonea a dimostrare l’avvenuto superamento della concezione tradizionale della natura professionale della di-

79 Così GENTILI, Sull’accesso alla giustizia dei consumatori, in Contratto e impresa, 2000, 691; in tal senso si veda, anche, JANNARELLI, La disciplina dell’atto e dell’attività: i contratti tra imprese e tra i consumatori, in LIPARI, (a cura di), Diritto privato europeo, II, Padova, 1997, 521 ss.

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sciplina della concorrenza sleale. Il fatto in sé di censurare nell’interesse dei consumatori determinati atti non può condurre in via immediata ad affermare che la portata dell’art. 2598 c.c. è stata ormai modificata ed ampliata, atteso che, in questo modo, si rischia di accostare fattispecie diverse per il solo fatto che i comportamenti, ad esse riconducibili, hanno più o meno le stesse caratte-ristiche e, nello specifico, sono ingannatori e confusori.

Anche l’affermazione secondo la quale molti atti di concorrenza sleale sono lesivi anche degli interessi dei consumatori si limita a cogliere sul piano empiri-co un aspetto, quello della plurioffensività di taluni comportamenti. Nulla, inve-ce, dimostra in ordine all’avvenuto ampliamento sul piano soggettivo della normativa codicistica sulla repressione della concorrenza sleale. E ciò perché, come già autorevolmente affermato in passato proprio con riferimento ai rap-porti fra la tutela del consumatore e la tutela dell’interesse dell’imprenditore, “lo studio strutturale del diritto che potremmo dire genericamente dell’economia (……) deve integrarsi con uno studio che direi funzionale, volto appunto ad esaminare le finalità, eventualmente diverse, perseguite da una normativa, che pur può presentare strutturalmente gli stessi caratteri. Pianifi-cazione o intervento da un lato, libertà d’iniziativa dall’altro, possono in realtà perseguire, nonostante la loro diversità, la stessa finalità, ma possono anche perseguirsi, nelle varie ipotesi, nonostante la ricorrenza ad istituti struttural-mente identici, finalità tra loro apposte…… .”80

Già tale fenomeno è stato esaminato con riferimento alla pubblicità ingan-nevole ed alla relativa specifica normativa introdotta con il D.Lgs. 25.01.1992 n. 74.

Dalla pubblicità, infatti, cui, peraltro, l’art. 1, comma 2, lett. c) della L. n. 281/1998, fa esplicito riferimento, possono sorgere interessi disgiunti che in taluni casi possono coincidere, ma che non necessariamente si sovrappongono.

La lesione dell’interesse del consumatore non necessariamente deve avere refluenze che investono il profilo della slealtà, essendo questo solo eventuale.

L’azione, dunque, del consumatore singolo e della associazione dei consu-matori non può che essere volta a censurare la sola ingannevolezza del mes-

80 ASCARELLI, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, cit., 935 -936

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saggio e non anche le sue conseguenze sleali. Non può, ancora, essere trascurata la possibile natura ricognitiva dei diritti

enunciati dalla L. n. 281 del 1998 ed il loro collegamento con quelli tutelati dall’art. 2 Cost., di cui i primi costituirebbero l’espressione e la concretizzazio-ne.

Il riconoscimento dei diritti dei consumatori potrebbe cogliersi e spiegarsi con la esigenza di tutelare la persona umana anche all’interno del mercato e di garantire “la libertà positiva dell’individuo di farsi persona e, specularmente, di considerare i diritti fondamentali del consumatore come diritti sociali, ossia come le strutture normative destinate a realizzare condizioni di legalità pure necessarie ad assicurare il primato della dignità umana”81, nonché di attribuire il giusto risalto agli interessi collettivi nella disciplina dell’attività economica.

Aver creato uno status82, una categoria dei consumatori e aver riconosciuto prerogative e diritti per tutelare la sua dignità non sembra, dunque, che possa condurre tout-court ad affermare che la concorrenza sleale e le sue regole sia-no dirette a tutelare interessi diversi da quelli dei concorrenti.

Tuttavia, non può neanche essere trascurato che il complesso delle norme che tutelano i consumatori vanno inevitabilmente ad incidere sui comporta-menti degli imprenditori concorrenti. Si tratterebbe, però, di un intervento che proviene dall’esterno e non dall’interno, di un’azione posta in essere da parte di soggetti estranei a quelli considerati in via immediata e diretta dalle norme co-dicistiche sull’illecito concorrenziale, di un intervento che ha finalità diverse an-che se in parte eventualmente coincidenti con quelle dell’imprenditore concor-rente leso da atti di concorrenza sleale.

81 BARBA, Consumo e sviluppo della persona, in La disciplina dei diritti dei consumatori e de-gli utenti a cura di BARBA, cit., 428 ss.

82 Sulla nozione di status di consumatore v. CHINÈ, Il consumatore, cit., 467 ss., il quale precisa che si tratta di status in funzione sociale e protettiva e, quindi, diverso dagli status tra-dizionali c.d. legittimanti o privilegianti. Secondo l’A. “lo status ha perduto il tradizionale rilievo di condizione privilegiata (…) per riassumere la condizione del singolo rispetto ad un filone normativo avente natura promozionale e tuzioristica, il cui scopo ultimo sia quello di operare una netta distinzione di trattamento giuridico nel panorama generale dei rapporti interprivati. Ma ciò non per creare un’area di privilegio, bensì (da qui la connotazione positiva della nozio-ne) per rafforzare una posizione di debolezza sostanziale foriera di conseguenze negative sia per la sfera giuridico-patrimoniale dell’individuo, sia per l’intero sistema economico”.