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Luca Di Ciaccio ________ Tesi di laurea specialistica UTOPIE DI STRAPAESE Urbanizzazione e potere, da Littoria a Milano Due passando per Disneyland - VERSIONE INTEGRALE - Università La Sapienza di Roma Facoltà di Scienze della Comunicazione Corso di laurea in Editoria, Comunicazione Multimediale e Giornalismo Cattedra di Teorie delle società complesse Anno Accademico: 2009/2010 Relatore: prof.ssa Giovanna Gianturco Correlatore: prof.ssa Silvia Leonzi

Utopie di Strapaese

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Tesi di laurea specialistica "Utopie di Strapaese - Urbanizzazione e potere da Littoria a Milano Due passando per Disneyland" (versione integrale), SdC La Sapienza Roma, 2010.

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Luca Di Ciaccio________

Tesi di laurea specialisticaUTOPIE DI STRAPAESEUrbanizzazione e potere,da Littoria a Milano Due passando per Disneyland

- VERSIONE INTEGRALE -

Università La Sapienza di RomaFacoltà di Scienze della Comunicazione

Corso di laurea in Editoria, Comunicazione Multimediale e Giornalismo

Cattedra di Teorie delle società complesseAnno Accademico: 2009/2010

Relatore: prof.ssa Giovanna GianturcoCorrelatore: prof.ssa Silvia Leonzi

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INDICE____________________

Introduzione p. 5

Capitolo 1Città da immaginare p. 9

Capitolo 2La terra nuova di regime p. 29

Capitolo 3Là dove c’era l’erba ora c’è una città p. 71

Capitolo 4La città dei numeri uno p. 105

Capitolo 5Il contagio p. 167

Conclusione p. 201

Bibliografia p. 205

Credits p. 213

Ringraziamenti p. 215

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INTRODUZIONE____________________

Qualunque analisi sociopolitica legga, con chiunque esperto o amico parli, ogni blogger specializzato che senta, da un po’ di tempo a questa parte da tutti sento ripetere che bisogna prestare attenzione al “territorio”, puntare le antenne sui luoghi e sulle città, sulla concretezza dei posti dove si svolge la vita delle persone in carne ed ossa. Ma basta capovolgere per un attimo il discorso e dagli stessi, con identica appassionata perizia, sento ripetere che bisogna non perdere di vista gli “immaginari”, osservare con attenzione gli spazi mediatici, di massa e pure di nicchia, investire sulla politica e sulla società come marketing. Quella che appare come una contraddizione in termini mi è sembrata alla fine l’unica strettoia possibile in cui infilarsi per analizzare e capire qualcosa di questo nostro Paese. In fondo davvero plasmato e trasformato, nell’ultimo secolo, dal cemento e dalla televisione. È così che ho cominciato ad accumulare, un po’ disordinatamente, idee per questa tesi di laurea specialistica che pur dovevo fare. Il nome della cattedra prometteva bene: teorie delle società complesse.

La ricerca che ne è uscita, e che sarà discussa in una mattina di gennaio 2010, è stata intitolata alle “Utopie di Strapaese”. Utopia intesa come ricerca di una forma ideale per la città e per i suoi abitanti, un’ambizione spesso indifferente ai destini di chi sarà destinato a viverla. Strapaese inteso come movimento culturale italiano di inizio Novecento e soprattutto come simbolo del ritorno alle origini, di una sempre vagheggiata cultura nazionale nostalgica e anti-urbana. Tutto quello che c’è attorno è un viaggio, per tappe e per capitoli. Una tappa – nel primo capitolo – è ad Atlantide, o meglio in una carrellata delle mille Atlantidi immaginate nella cultura umana, dai miti greci ai propositi rivoluzionari ai film di fantascienza contemporanei. Un’altra tappa – nel secondo capitolo – è nell’Agro Pontino, a sud di Roma, snodo principale del

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progetto di bonifiche e città costruite su diretta emanazione del regime fascista tra gli anni Venti e Trenta. Una ulteriore tappa – nel terzo capitolo – è alla ricerca delle impronte molteplici lasciate sul territorio italiano dalla sfrenata ricostruzione edilizia del dopoguerra, dai piani Ina Casa a taluni elefantiaci complessi residenziali di periferia fino al modello polverizzato e disordinato delle villette e del cosiddetto “paese dei geometri”. Una tappa centrale, e particolarmente accurata – nel quarto capitolo – è a Milano Due, il quartiere residenziale autosufficiente e destinato alla media-alta borghesia costruito negli anni Settanta alla periferia di Milano dall’imprenditore Silvio Berlusconi, e che rappresentò non una semplice edificazione immobiliare ma una vera e propria dichiarazione culturale. Ultima tappa – nel quinto capitolo – è nelle forme polimorfe e spesso recintate del paesaggio urbano (e suburbano) contemporaneo: da Celebration, città residenziale negli Stati Uniti costruita dalla Disney, ai parchi a tema, dalle banlieue in fiamme affianco Parigi ai nuovi quartieri della provincia italiana che sorgono accanto a centri commerciali o outlet, a loro volta ultime città del consumo.

È un viaggio eterogeneo, articolato, pieno di curve. Con vari fili conduttori che si incrociano e si sovrappongono. Il filo del potere e delle forme urbane che lo esprimono: potere politico espresso da regimi, governi, partiti, ma anche potere nelle sue forme derivanti dai mezzi di comunicazione di massa. Il filo della forma urbana che si fa cultura popolare, alta e bassa: film di fantascienza, bollettini propagandistici di regime, caratterizzazioni del neorealismo e della commedia all’italiana, opere e missioni intellettuali di Pasolini, ballate nostalgiche di Celentano, quiz educativi della tv di Stato, spettacoli di grande audience della tv commerciale, romanzi di Ballard, spot elettorali e pubblicità di merendine. Il filo delle forme architettoniche: il razionalismo, il modernismo, le unità abitative di Le Corbusier, il modello della Garden City, il New Urbanism. Il filo delle espressioni politiche della recente storia nazionale e del loro rapporto con il territorio: il regime fascista, il potere democristiano del dopoguerra, il

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segmento anti-moderno di certa sinistra italiana, il berlusconismo e il leghismo. Il filo dei diversi metodi di analisi adottati, capitolo per capitolo: ricostruzioni storiche, esempi letterari, brevi osservazioni sul campo, interviste informali o registrate a testimoni privilegiati, riferimenti sociologici, racconto in prima persona.

Comunque sia, di una cosa si viene a capo: lo spazio urbano è una metafora straordinaria della società. Uno spazio, al giorno d’oggi, sempre più privatizzato, controllato, ripulito per settori. Insomma, dovessi ricominciare da capo l’università farei volentieri qualche esame di sociologia urbana in più. Ma l’ho finita oggi, per fortuna. Probabilmente questo lavoro che ho realizzato risulterà, perlomeno per certi passaggi disinvolti di linguaggio, oppure per una scarsa chiarezza nei metodi di ricerca, poco accademico. Me ne rammarico, io in fondo l’accademia non l’ho mai capita fino in fondo.

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CAPITOLO 1Città da immaginare

È delle città come dei sogni: tutto l'immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che

nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure.

Italo Calvino, Le città invisibili

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1. Civitas, polis, communitas

Le città sono organismi. Viventi tanto quanto il mare, la terra, le montagne. Con organi diversi per funzioni diverse, corpi che masticano e digeriscono e producono escrementi, tonnellate di rifiuti. La parola città deriva dal latino civitas, e si applicava all’insieme dei cittadini che si riconoscono in istituzioni politiche e religiose comuni. Fin dall’antichità, tanto il termine greco polis (da cui poi deriva la parola politica, ovvero l’arte e la pratica del governo delle società umane) quanto il latino civitas hanno indicato la città stato, organizzazione contemporaneamente urbana e politica. Questa ambivalenza della parola “città” comprende bene sia il luogo fisico che i dipositivi sociali che vi agiscono, sia i modelli spaziali che la costruiscono sia le relazioni che la fanno vivere. La città è un organismo vivente, un organismo biologico, e non solo perché di anno in anno cambia e muta negli edifici, cambia e muta nelle strade; ma soprattutto perché cambia e muta nelle persone, nella propria storia, nella sua communitas. Prima di cominciare a scrivere queste pagine sono entrato nel Palazzo Pubblico di Siena. Sulle sue mura mi sono fermato a osservare due affreschi dipinti da Ambrogio Lorenzetti, in queste opere allegoriche il buono e il cattivo governo sono rappresentati da due paesaggi contrastanti. Da un lato una città dall’aspetto fiero e ordinato, dove le terre sono ordinatamente coltivate e i cittadini vanno in giro sicuri e benvestiti. E dall’altro lato una città in via d’abbandono, dove gli edifici cadono in rovina, i delitti allignano ad ogni angolo di strada, le campagne sono in abbandono e gli abitanti sembrano sfuggire agli invasori. Ho pensato che gli essere umani costruiscono le città a loro immagine e somiglianza, in un modo o nell’altro. Costruire città è un’attività che si porta dietro tutta una sua connessa mitologia. Difatti nell’antichità la fondazione delle città veniva sempre fatta risalire agli dei o ai semidei, eroi eponimi che dopo la morte assurgevano al divino. E quando

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gli uomini si sono messi a fondare le città, con consapevolezza urbanistica – a partire da Ippodamo da Mileto coi suoi comandamenti, l’urbanista greco del V secolo a.C. che teorizzò per primo l’opportunità di costruire della città secondo schemi planimetrici regolari1 – il primo comandamento è sempre stato economico e politico: quello di attirare e favorire i traffici. In altre parole, «da quando esiste la città, la pianificazione urbana e la costruzione dei monumenti è sempre stata in mano ai sacerdoti e ai re, ed è tuttora uno degli strumenti a disposizione di chi è al potere per comunicare insegnamenti o ideologie ai sudditi o ai cittadini, e per rappresentare se stesso»2. La città non è solo un posto dove la gente abita, ma soprattutto il luogo dove le persone possono intessere le loro relazioni, quelle economico-commerciali ma anche le altre. Non è un caso se tutti quelli che hanno in testa l’idea di conquistare e dominare una Nazione (o un regno, o un impero, o un immaginario popolare, o soltanto una corporation) prima o poi si confrontano sempre con la costruzione di città, con l’irresistibile mania della creazione urbana.

2. Atlantide e le altre

Per costruire una città bisogna saperla immaginare, ha detto in una recente intervista Oscar Niemeyer, architetto centenario. Intendeva, lo spiegava bene: il problema non è progettarla, per questo ci sono i bravi esecutori. Prima di tutto bisogna saperla pensare quando ancora non c’è: vederla nella mente, vederla prima. Sapere come sarà, che dolori e che gioie susciterà, come cambierà e come forse diventerà un’altra città ancora, una città nuova da quella solo pensata, un posto due volte diverso dal nulla di adesso. Non sono molte le persone al mondo che sanno (che possono, che hanno il coraggio o la condanna) di vedere prima: nella politica, nell’impresa, nell’arte e negli affari, 1 M. Torelli, Storia dell’urbanistica. Il mondo greco, 1983, p. 2332 R. Scramaglia, La dimenticanza negli abitati di una periferia milanese, 1991, cit. in A. Agustoni, Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, 2000, p. 45

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nello spirito del tempo. In genere, nella disgrazia o nella gloria, fanno la storia. In genere incontrano difficoltà, per usare un eufemismo. Suscitano speranze e spesso paure3. Immaginare è sempre stato il prerequisito necessario al disegnare e al costruire, quindi possiamo dare per scontato che le utopie architettoniche siano antiche quanto le prime costruzioni dell’uomo. Le città mesopotamiche, egiziane e indiane vennero infatti costruite come modelli di città perfette, con le grandi strade, le piramidi e i canali che dovevano essere dimore degli dei e degli uomini. Ma fin dagli esordi della civiltà, le metropoli – cioè la capitale non di uno Stato ma di un pezzo di mondo – erano realtà caotiche, stratificate, pulsanti. Nella culla del Mediterraneo, Alessandria d’Egitto, Roma, Costantinopoli furono le prime obesità urbane del pianeta (almeno in Occidente), le prime grandi stalle di umanità, i primi labirinti di palazzi, catapecchie, monumenti, fontane, templi, regge, bordelli, escrementi, carri, ladri, assassini, imperatori, scrittori, i primi spazi urbani che abbiano ospitato nelle loro mura, fino a farle scoppiare, oltre un milione di creature. Tuttavia, l’arte di pensare alla forma urbana perfetta, lontana dalle angustie del mondo, è qualcosa che nasceva già con la cultura greca.

La costruzione di città ideali, abitate da società perfette, è ricorrente nella Grecia del IV secolo avanti Cristo, e si tratta spesso di isole lontane, ricche, in cui vige preferibilmente un sistema di tipo socialista e autarchico, con suddivisione del lavoro e possesso comune dei beni. Società immaginarie che vengono sempre provvidenzialmente collocate nei luoghi meno noti, situati ai confini del mondo e dunque anche della realtà, in cui le condizioni ambientali sono abbastanza ricche e i governanti abbastanza saggi e colti da costruire un mondo felice e stabile. La costruzione più perfetta e leggendaria, allora, rimane l’isola di Atlantide, che Platone poneva in un luogo non solo lontano e inaccessibile ma anche passato, e oggi

3 C. De Gregorio, La strada sia lunga, in “L’Unità”, 10 marzo 2009

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scomparso4. Nei suoi due dialoghi intitolati Timeo e Crizia il filosofo greco menziona brevemente la storia di questa mitica isola situata «oltre le colonne d’Ercole» e che poi sprofondò «in un singolo giorno e notte di disgrazia»5. Un mito filosofico, una riuscita metafora, attorno alla quale sono fiorite numerose leggende. Un utopia, si dirà poi. D’altronde il termine utopia è composto dalle parole greche ou topos, la regione che non esiste in nessun luogo; oppure eu topos, la regione della felicità e della perfezione. Di certo Platone non dava importanza all’aspetto architettonico, o tantomeno urbanistico, della sua comunità perfetta. Le cose cambiano con l’umanesimo e il Rinascimento, dove accanto a famose opere utopiche come l’Utopia di Tommaso Moro6 (lui, per primo, coniò questo termine) e la Città del Sole di Tommaso Campanella7, i pittori dipingono città e architetture ideali e molti architetti, tra cui lo stesso Leonardo da Vinci, aspirano a creare la città perfetta.

I problemi delle città medievali di allora erano le strade anguste e sporche, la mancanza di una buona canalizzazione per rimuovere i rifiuti, le mura inadeguate alla difesa dalle nuove armi da fuoco. Per questo le città perfette del Rinascimento hanno strade ampie per permettere l’agevole traffico dei carri, grandi canali a pianta esagonale o pentagonale, utile sia come modello di perfezione geometrica che come necessità pratica per permettere ai cannoni di tirare fin sotto le mura8. Diverse “città ideali” vennero effettivamente realizzate nel territorio italiano, e molte mantengono tuttora la tipica pianta geometrica rinascimentale9. Pare di vedere la prospettiva fissata nella storia da Leon Battista Alberti, architetto nato vissuto nel XV secolo, guida per molta

4 M. Cavini, Atlantide, in http://spazioinwind.libero.it/cavinimaurizio 5 Platone, Le opere. Repubblica, Timeo, Crizia, 20056 T. Moro, Utopia, 20077 T. Campanella, La città del Sole, 20068 F. Defferrari, Utopie urbanistiche cinematografiche, in www.parametro.it9 E. Guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento, 1981

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urbanistica che verrà. Nel suo trattato De Re Aedificatoria del 1452 scrive: «Quando si giunge in una città, se questa è famosa e potente, esigerà strade dritte e molto ampie, confacenti al suo decoro e alla sua dignità. Se invece è una colonia o una semplice piazzaforte… le vie all’interno della città non dovranno passare in linea retta, ma piegare con ampie curve come anse di fiume, più volte da una parte e dell’altra… perché il fatto è di grande giovamento sia alla bellezza, sia alla pratica convenienza, sia alle necessità di determinati momenti… infatti chi vi cammina viene scoprendo man mano, quasi a ogni passo, nuove prospettive di edifici… inoltre la strada la strada a curve sarà sempre ombreggiata, anche d’estate; e d’altra parte non vi sarà casa ove non giunge la luce del giorno: mai vi mancheranno le brezze, né vi sarà pericolo di venti nocivi, che verrebbero subito respinti dai muri frapposti»10. Tra ampie vedute rinascimentali e densi modelli medievali, Alberti aveva capito che per l’urbanistica delle città non si potevano fissare modelli: la città non può essere la creazione del Principe, se mai lo è stata, ma è il prodotto di tanti soggetti che devono fissare regole condivise, spazi ordinati da norme11.

Nei secoli successivi, mentre la città dei ricchi si dotava di ampi palazzi e ampi viali (così ampi Napoleone III fece costruire i boulevards di Parigi, si dice, per evitare che a qualcuno venisse in mente di metterci qualche barricata e rifare la rivoluzione), i quartieri operai, che spesso occupavano le zone più vecchie delle maggiori città europee, restavano luoghi affollati e malsani, privi di sistemi fognari affidabili e sovrappopolati da persone che vivevano in condizioni tremende. I teorici che si occupavano del miglioramento della condizione operaia avrebbero voluto realizzare dimore popolari che permettessero anche ai poveri di vivere in una condizione dignitosa ed igienicamente migliore. Alcuni lo hanno fatto veramente, e Robert Owen ne è certamente l’esempio più

10 L. B. Alberti, L’architettura, 1981, p. 16111 F. Choay, La regola e il modello, 1986

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famoso. La sua ottocentesca utopia, come quella di Charles Fourier, prevedeva piccole comunità autosufficienti, nuovi paesi a dimensione umana in contrapposizione alle condizioni disumanizzanti dei quartieri operai cittadini. Tutta una stagione di progetti che rientrava nel filone del socialismo utopico12. Utopie che però non ebbero fortuna: nel corso del tempo le metropoli in espansione diventeranno sempre meno città di uomini e sempre più città di macchine.

Intanto, all’inizio dell’Ottocento, in Europa nasce con i passages parigini una tipologia assolutamente nuova di spazio urbano, il transito dei centri cittadini si affolla di scintillanti vetrine all’interno delle quali gli oggetti, la merce, assumono per la prima volta una dimensione magica. La metropoli diviene il luogo di ricerca e di sperimentazione delle nuove modalità di organizzazione industriale del lavoro e del tempo libero, di nuovi dispositivi delle leggi e del divertimento: un territorio su cui si espandono costruzioni materiali e immateriali. Walter Benjamin parlerà di “fantasmagoria”, grazie alla quale l’oggetto perde la sua qualità di bene per diventare sogno13. Quello che lui chiamerà flaneur, il consumatore perditempo, nell’analisi del sociologo Georg Simmel diventarà l’individuo blasé, colui che in virtù della quantità di stimoli a cui è sottoposto dalla vita nella metropoli, perfettamente in simbiosi con le esigenze dell’economia monetaria capitalistica, arriverà a sviluppare un atteggiamento asettico, indifferente, nei confronti delle altre persone, delle cose, dei luoghi14. Secondo il sociologo tedesco «la vita della piccola città, nell’antichità come nel Medioevo, imponeva al singolo tanti limiti di movimento e di relazione all’esterno, e di indipendenza e differenziazione all’interno, che l’uomo moderno vi avrebbe l’impressione di soffocare»; quindi «oggi, in un senso sublimato e raffinato, l’uomo metropolitano è “libero” in confronto alle piccinerie

12 A. Colombo, L’utopia: rifondazione di un’idea e di una storia, 199713 W. Benjamin, I passages di Parigi, 200714 G. Simmel, La metropoli e la dello spirito, 2005

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e ai pregiudizi che limitano l’orizzonte di chi vive la città di provincia»15. In ogni caso, la città si arricchisce delle sue strade incantante, sebbene patrimonio per pochi borghesi, al massimo da guardare e non toccare per tutti gli altri. Sezioni di città “protette” e totalizzanti, delle piccole zone in cui la vita urbana concentra tutta la propria capacità seduttiva, tenendo lontane le ombre e le paure.

Nella sociologia moderna c’è poi voluto Max Weber a spiegare che l’istituzione della città, almeno nell’Europa continentale settentrionale, fu questione più economica che militare16. Ciò accadde perché ai detentori extraurbani del potere mancavano le risorse amministrative per soddisfare, coi loro apparati, i bisogni economici delle città, quelle stesse città che ad essi fornivano sostanziose rendite attraverso le tasse e le dogane. Lo stesso si potrebbe dire della Chiesa. Per questo l’autogoverno delle città medievali rappresentò il primo passo della società borghese, che prosperava grazie al nascente capitalismo mercantile. È per questo che «tutti i poteri feudali senza eccezione, a cominciare dai re, hanno sempre guardato con la massima diffidenza il loro sviluppo»17. La città – nell’analisi di Weber – emerse come una sfera di “dominio non legittimato” che operava al di fuori dell’autorità ecclesiastica e feudale, e per questo costituiva una sfida alla pretesa dello Stato di detenere il monopolio dell’autorità legittima. L’era delle città-stato ebbe vita breve ma comunque la forza motrice della modernizzazione economica e politica continuò a riassumersi nella stessa parola: urbanizzazione.

La città “della borghesia”, descritta a un massimo livello di sintesi, resta quella del Manifesto del Partito Comunista. Un ritratto in dieci righe scomponibile sia nelle sue parti sia nelle intenzioni dei suoi due coautori, Marx ed Engels. È analisi, racconto, denuncia, ma anche scelta di campo da conquistare e da rivoltare. Attacca così: «La borghesia ha

15 Ivi, pp. 46-4816 M. Weber, Economia e società, 196117 Ivi, p. 653

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assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto a quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all’idiotismo della vita rurale…»18. Notevole questa istantanea con la sua caratteristica: la vita rurale e il suo idiotismo. Notevole anche perché ci porta in campagna, in un quadro comunitario, naturale. Nell’antitesi al vivere urbano della società. All’urbanesimo come modo di vita, per citare – dall’altra parte del mondo – i sociologi della Scuola di Chicago, i quali andavano empiricamente a ficcare il naso nel ventre delle città, dai ghetti più infidi al proletariato nomade, alle lettere degli immigrati poveri, dove la solitudine e il degrado morale e sociale sono l’inevitabile conseguenza del venire meno dei legami tradizionali. La sociologia americana di quell’epoca recepiva l’idea durkheimiana di anomia, in un mondo in cui la solidarietà si fa problematica. Nell’ambiente urbano, scrive Robert Park nel 1915, «è probabile la rottura dei legami locali e l’indebolimento delle coercizioni e delle restrizioni all’interno dei gruppi primari, responsabile dell’incremento del vizio e del crimine»19. Per far contenti gli amanti del rigore accademico è stato Luois Wirth, nel 1928, a identificare con ottima sintesi e sulla base di una serie di caratteristiche l’oggetto del suo argomentare, cioè la città. Primo requisito: il numero degli abitanti. Una città, per essere tale, deve avere tanti abitanti. Secondo requisito: la densità. Gli abitanti devono essere concentrati in uno spazio largo ma comunque definito. Terzo requisito: l’eterogeneità sociale. In una città gli abitanti devono essere diversi tra loro, possibilmente dispersi e atomizzati nelle loro relazioni20.

Un balzo in avanti, e nel 1968 il sociologo francese Henri Lefebvre, nel suo saggio intitolato Il diritto alla città,

18 K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, 2005, p. 3419 R. E. Park, La città, 1925, cit. in A. Agustoni, Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, 2000, p. 6920 A. Agustoni, Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, 2000, pp. 69-71

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propose l’utopia sperimentale: ovvero l’idea che ogni bravo pianificatore urbano della fine del XX secolo dovrebbe considerare se stesso come un utopista21. Nel frattempo la città vive la stagione della seconda rivoluzione urbana, diventando l’habitat privilegiato della stragrande maggioranza degli esseri umani. Costituendo quell’esperienza urbana che, scriverà David Harvey nel suo omonimo saggio, si muove concretamente su tre linee ordinate, sempre più in via di compressione: spazio, tempo, denaro22. Il vero decollo dell’urbanizzazione avviene nel Ventesimo secolo, soprattutto dagli anni Cinquanta, quando sotto la spinta della crescita della popolazione e delle migrazioni dalle campagne, i tassi di espansione delle città hanno iniziato ad aumentare rapidamente, prima nei paesi industrializzati e subito dopo nei paesi in via di sviluppo. Nel 1970 il 35% della popolazione del pianete viveva nelle aree urbane, alla fine del secondo millennio questa percentuale ha raggiunto ormai il 50%23.

3. Eterotopie occidentali

La vita umana è sempre di più vita urbana. E al suo interno nuove tensioni si manifestano. Anche a occhio nudo è possibile rilevare l’aumento delle diseguaglianze e dell’eterogeneità culturale della popolazione. Il sogno-incubo dell’omologazione urbana che la città moderna aveva cullato – con quella indifferenza un po’ distaccata del cittadino flaneur di cui ci parlava George Simmel cento anni fa – sembra oggi del tutto fuori tempo. Al suo posto, nella città frammentata e illegibile, nella quale si molitplicano i punti ciechi e si diffondono l’isolamento e la solitudine, a prevalere è quel senso di insicurezza e paura di cui più recentemente ha scritto Bauman24. Commenta il sociologo Mauro Magatti: «La convivenza tra diversi e

21 H. Lefebvre, Il diritto alla città, 197022 D. Harvey, L’esperienza urbana, 199823 L. Mencacci, L’eclissi dell’utopia urbana, 2009, p. 1024 Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, 2005

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diseguali nello stesso territorio – soprattutto quando i mondi culturali e i sistemi di interesse a cui si fa riferimento non si incrociano mai e gli assetti istituzionali si indeboliscono – rischia di rivelarsi una pericolosa alchimia sociale»25.

Per cogliere talune di queste implicazioni torna utile seguire il suggerimento di Michel Foucault, il quale distingue tre grandi passaggi storici nell’organizzazione spaziale della vita sociale26. La prima fase, che si può far risalire fino agli esordi della modernità, è caratterizzata da una netta prevalenza della localizzazione. Ogni luogo, stabile e ben delimitato, è collocato entro una gerarchia spaziale che coinvolge non solo la sfera terrena, ma anche quella celeste. Un po’ come nel viaggio compiuto da Dante nella Divina Commedia. Un’organizzazione incarnata da due figure simboliche meglio di altre: il monaco e il contadino. La seconda fase nasce con la modernità ed è caratterizzata dalla logica dell’estensione. Le grandi scoperte geografiche, le revisioni delle conoscenze astronomiche, l’avvento dei nuovi mezzi di trasporto, la diffusione dell’innovazione economica e sociale scardinano le vecchie gerarchie e aprono nuove possibilità. I comportamenti acquistano valore in base alla loro carica di innovazione. L’epoca è segnata dall’emergere di nuove figure: il viaggiatore, l’inventore, il commerciante. Comunque sia, rimane uguale l’aspirazione all’omogeneità. La terza fase introduce una diversa logica di spazializzazione, che Focault chiama della “dislocazione”. Ciò che definisce questo momento è la sua capacità di stabilire delle relazioni tra punti differenti e lontani: nessun luogo esiste più per se stesso, ma sempre in relazione ad altro. Dunque, ogni luogo viene continuamente dislocato, aperto, interconnesso. All’interno di questa configurazione c’è una pluralità di logiche che non risponde più a un disegno unitario. Figure archetipiche di questa fase sono il

25 M. Magatti (a cura di), La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, 2007, p. 1926 M. Focault, Eterotopia. Luoghi e non luoghi metropolitani, 1994

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pendolare, il turista, l’uomo d’affari. Secondo Focault quest’attuale fase coincide con il passaggio dal dominio dell’utopia, che ha caratterizzato la modernità, al prevalere dell’eterotopia. Con il primo termine, la modernità aveva immaginato il suo futuro in un altrove che doveva essere costruito. Un luogo ideale, una proiezione di speranze, un’omogenizzazione forzata, e proprio per questo irreale. Il concetto di eterotopia si muove, invece, in tutt’altra prospettiva. Esso è orientato alla varietà e alla diversificazione, e ha a che fare con l’esistenza di luoghi reali, effettivi e che pure «costituiscono dei contro-luoghi, specie di utopie effettivamente realizzate, nelle quali i luoghi reali vengono al contempo rappresentati, contestati, sovvertiti»27. Con il concetto di eterotopia Foucault sembra dire che lo spazio nel quale viviamo tende a differenziarsi al proprio interno, creando una varietà di realtà ed esperienze qualitativamente diverse, che sono sempre meno sovrapponibili tra di loro. Le eterotopie, scrive ancora Foucault, «sviluppano con lo spazio restante una funzione (…) esse creano un altro spazio reale, così perfetto, così meticoloso, così ben arredato al punto da far apparire il nostro come disordinato, maldestro, caotico»28. Così l’eterotopia riassume in sé elementi opposti: da un lato il desiderio di sfuggire all’ordine sistemico per trovare contesti di creatività e libertà, dall’altro il rischio di una differenziazione funzionale, per puntare a logiche di segregazione. Tuttavia è innegabile che la città contemporanea crea continuamente eterotopie, luoghi sempre più specializzati e dotati di un codice proprio, che vale solo al loro interno. Parchi di divertimento, centri commerciali, isole pedonali, centri sociali, piazze attrezzate. Infine le eterotopie si formano anche come luoghi in cui vengono concentrati tutti coloro che sono inadatti rispetto alla vita contemporanea. “Discariche” in cui collocare “vite di scarto” che non si vogliono vedere e che non si sa come integrare: centri di permanenza per immigrati, carceri superaffollate, ghetti urbani, campi rom,

27 Ibidem, p. 1328 Ibidem, p. 19

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palazzi abusivi. Si sfilaccia il tessuto connettivo del luogo, della città. La socialità pubblica, gratuita, si rattrappisce29.

Dunque la città diventa culla di ambizioni, emulazioni, maledizioni, immaginazioni. Per denunciare una città simbolo, i suoi modi di vivere e le sue presunte perversioni, bisogna essere in genere degli efficaci architetti di immagini. A volte basta un termine intonato in un certo modo: megalopoli. Oppure un titolo da cinema diventato una visione impressionante: giungla d’asfalto. O anche due bersagli canonici: Babilonia, Sodoma. Alla televisione francese, recentemente, veniva citata questa espressione per descrivere l’attacco alle Torri Gemelle di New York: «Due oggetti nomadi scagliati contro due oggetti sedentari». Nel loro bel saggio Occidentalismo, Ian Buruma e Avishai Margalit analizzano prima di tutto la polemica, e gli insulti conseguenti, contro la città occidentale: «Superbia, edifici imperiali, secolarismo, individualismo e fascino del denaro sono elementi associati alla scandalosa Città dell’Uomo. I miti sulla sua distruzione esistono da quando l’uomo costruisce città nella quali si commercia, si accumulano saperi e si vive nel benessere»30.

4. Utopie e omelettes

La tradizione utopica ha una sua storia e variegate espressioni, ma sempre con un filo di caratteristiche che le lega nel tempo. Frutto dell’intelletto, gli ambienti utopici sono immaginati come il risultato dello sforzo umano, senza la partecipazione del sovrannaturale. Tutti hanno molto in comune con l’Arcadia, l’età dell’oro o del paradiso, sia quando è brevemente evocata, sia quando è assolutamente distinta da essa. Spesso inventate in epoche di profonde agitazioni sociali, opera di pensatori frustrati dal loro 29 M. Magatti (a cura di), La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, 2007, pp. 21-2830 I. Buruma, A. Margalit, Occidentalismo. L’Occidente agli occhi dei suoi nemici, 2004, p. 42

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stretto margine di manovra e dalla loro mancanza di potere nel mondo reale, le città ideali rivelano i sogni di questi potenziali candidati riformatori. L’ideatore di città ideali si augura vivamente di realizzare la propria utopia, anche se spesso non rende esplicita questa aspirazione, e quindi, cosciente dell’incapacità di poter agire da solo, cerca nella maggiorparte dei casi una sorta di contratto d’associazione con un sovrano potenzialmente intenzionato a realizzare le sue proposte31. È scritto in ricerche sull’argomento: «Presentate come delle soluzioni di sostituzione a delle realtà caotiche, la grande ambizione delle utopie è sempre l’armonia, l’estensione della felicità collettiva, realizzata attraverso i mezzi di un’efficace riorganizzazione sociale o del progresso scientifico. Esse sono generalmente urbane (o suburbane) e sviluppate secondo delle logiche geometriche, che suggeriscono il dominio razionale dell’umanità sulle forze oscure della natura. Le utopie sono presentate come delle soluzioni assolute, delle panacee applicate non importa dove per il mondo e indifferenti ai multipli fattori del contesto locale, siano essi storici, geografici, culturali o altri. Esse sono generalmente fondate su un suolo vergine, piano o artificialmente spianato. Platone fa dire a Socrate che gli autori di un progetto di città non cominciano a lavorare senza aver ricevuto preliminarmente un sito vergine o aver assicurato un’operazione che sia tabula rasa. Le utopie restano disconnesse dalle influenze del tempo, la loro rottura con il passato è sottolineata in alcuni casi dall’adozione di un calendario, di un linguaggio o di un vestiario differenti, ed esse non sono che in rari casi programmate per conoscere futuri cambiamenti. Altre volte l’impiego di materiali di costruzione trasparenti o di piante che facilitano la sorveglianza – come nel Panopticon carcerario di Bentha, – scoraggia il comportamento privato, giudicato potenzialmente antisociale. Insulari e spesso xenofobi, nella loro applicazione pratica, i piccoli mondi apparentemente utopici si ritrovano simbolicamente e

31 F. Orsini, Le utopie urbane e la forma della città, Dottorato in Progettazione Urbana – Università degli studi Federico II Napoli, pp. 12-14

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fisicamente preservati dalle pericolose influenze esterne, grazie all’ausilio di barriere che possono essere sia naturali, come l’acqua o le catene montuose, sia realizzate dagli uomini, come le fortificazioni o le “cinture verdi”»32.

Il fondo della questione è che cittadini non interessano molto agli inventori delle città utopiche: nel loro desiderio senza compromessi di realizzare i loro ideali, essi se ne sbarazzano con la nonchalance di un Lenin che adotta il proverbio popolare “Non si possono fare delle omelettes senza rompere le uova”33. In realtà non sempre le motivazioni e le finalità degli autori di utopie sembrano chiare, altre volte il progetto dell’ambiente costruito sembra innovatore ma in realtà è destinato a rinforzare solamente una struttura di potere recentemente stabilita. Le città utopiche più che svilupparsi, al massimo, possono riprodursi, come per clonazione. Le mille città utopiche immaginate nella storia e nella mente degli uomini rappresentavano un sogno di standardizzazione, puntavano nel bene come nel male a un ammorbidimento delle differenze tra gli uomini, all’uniformità. I creatori delle utopie storicamente hanno privilegiato il collettivo e il lavoro, presumendo che la volontà e l’interesse dell’individuo dovessero essere in armonia perfetta con quella del gruppo sociale e precisamente programmate. Così le utopie spesso si tramutano in distopie, ovvero utopie perverse in cui il sogno diventa incubo e in cui predomina il lato rovescio, oscuro e totalitario, della medaglia.

Due mitici conflitti hanno segnato la cultura urbanistica del Novecento: l’assedio della città borghese, capitalistica, mercantile da parte degli operai rivoluzionari della cintura rossa, come a dire la metropoli della meccanica, degli schieramenti di classe e di cultura contrapposti, la Metropolis di Fritz Lang; e l’altro assedio, planetario, della campagna povera che accerchia e conquista la città ricca secondo le massime di Mao o del Che Guevara, oppure

32 Ivi33 Ivi

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secondo le immagini reali dei flussi globali dei migranti. E sono schemi che ci portiamo ancora dietro mentre viviamo nella metropoli del presente e del prossimo futuro, ibrida, ambigua, in perenne mutazione dove lo stesso concetto geografico e classista di periferia subisce infinite eccezioni e capovolgimenti. È strano: come ha scritto l’etnologo e antropologo francese Marc Augé, «l’architettura è il mestiere che più di tutti deve fare i conti con i problemi del mondo, ma al tempo stesso ne è sopraffatta»34. A suo parere, i “grandi architetti” del Ventunesimo secolo sembrano più affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi più importanti del pianeta (e chi potrebbe rimproverargli questa ambizione?) che dall’idea di affrontare i problemi tecnici e sociali causati dall’urbanizzazione mondiale. L’esempio di Le Corbusier dovrebbe spingere alla prudenza: il maestro di tanta architettura moderna, con il suo ideale dell’alloggio autosufficiente, il suo rifiuto della città storica, la passione per la tabula rasa, ha fatto molti danni35. Oggi quei testi, insieme a tanti altri sogni, hanno fatto la fine di quei “grandi racconti” utopici di cui Jean-François Lyotard celebrava la scomparsa36.

Nella storia, fuori dal mondo spesso consolante delle idee, la “città del sole” di cui parlava il filosofo Tommaso Campanella ha avuto molteplici tentativi di realizzazione, almeno in piccolissima scala, spesso in maniera effimera. Si può risalire alle comunità dei socialisti utopisti dell’Ottocento oppure ai giorni nostri con esempi che spesso hanno preso ispirazione dai modelli della controcultura hippy degli anni Sessanta e Settanta. Per esempio Christiania, in Danimarca: un quartiere della città di Copenaghen nato negli anni Settanta e rigorosamente autogestito secondo alcuni principi come il rifiuto dello Stato e della violenza, l’inesistenza della proprietà privata, la libera circolazione di droghe leggere. Oppure il caso di

34 M. Augé, L’architecture globale, in “Le Monde”, 17 ottobre 200935 A. Agustoni, Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, 2000, pp. 73-8536 J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, 1981

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Arcosanti in Arizona, negli Stati Uniti: una piccola “città esperimento” tirata su dall’architetto italiano Paolo Soleri e da numerosi volontari a partire dal 1970, secondo una filosofia architettonica basata sull’ecologia ambientale e sull’alta densità abitativa, con strutture compatte a forma di abside e strade strette e senza automobili, come nella rappresentazione delle antiche città di strade, di pietra e di uomini, dove le macchine non avevano ancora conquistato e formato lo spazio. Minuscole comunità, piccole idee dove futuro e passato, utopia e nostalgia, si mischiano in una perfettibile realtà, giacché quello dell’avvenire è un concetto che si sposta continuamente in avanti, come l’avvenire stesso.

5. Blade Runner

E se adesso volessi scrutare le città utopiche dei giorni nostri? Forse non mi resterebbe che rivolgermi all’immaginario cinematografico: può essere lo specchio di come noi uomini sogniamo la città ideale, o forse di come percepiamo le città in cui viviamo37. Se provo a immaginarmi nella città di Blade Runner (Ridley Scott, 1992) mi troverò a camminare per strade buie e affollate, dove il giorno sembra uguale alla notte. La luce che mi colpisce dall’alto non è quella del sole o della luna. Sono gli enormi schermi della pubblicità digitale, dove i volti umani sembrano immagini di divinità che mi deridono come un suddito insignificante. Nella agghiacciante città-macchina divisa tra il sotto e il sopra, quella di Metropolis (Fritz Lang, 1927), dove le membra della città sono costituite dagli operai imprigionati nei sotterranei, rimarrei invece assordato dalle ruggenti e implacabili sirene che richiamano all’ordine le masse di lavoratori, dal ruggito delle macchine che invocavano cibo, dalla voce della città che voleva uomini come cibo. Nella sovraffollata New York del Quinto Elemento (Luc Besson, 1997) non potrei

37 F. Defferrari, Utopie urbanistiche cinematografiche, in www.parametro.it

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nemmeno camminare nelle strade, perché i livelli inferiori della città sono ricoperti da un unico mare di nebbia. Potrei attraversare questa città di macchine solo con la mia macchina volante, passando dal cubicolo del mio miniappartamento al cubicolo del mio ufficio. Senza aver modo di volare però, perché anche in cielo sarei obbligato a seguire strade invisibili. Nella Washington futura di Minority Report (Steven Spielberg, 2002) dovrei considerarmi fortunato ad avere una casa con giardino in periferia. In città potrei muovermi dentro capsule senza finestre che viaggiano su torri di rotaie, in uno spazio urbano che si attraversa e non si vive, con la possibilità di camminare solo davanti ai grandi palazzi, dove le immagini azzurre degli schermi digitali mi seguirebbero senza sosta, con sensori addestrati a leggere la mia retina di consumatore per sapere cosa amo comprare e consigliarmi il prossimo acquisto. In Codice 46 (Michael Winterbottom, 2003) avrei la possibilità di entrare nelle città perfette e sterili solo avendo un lasciapassare. Altrimenti c’è il fuori abitato soltanto dai poveri e dai clandestini, temuto da chi vive nelle città ma colorato e vivo. Se fossi catapultato nella Londra del 2027 dei Figli degli uomini (Alfonso Cuaròn, 2006) mi troverei in un mondo dove il cielo è lurido, le acque spesse e nessuno partorisce più bambini da diciotto anni. I cartelloni pubblicitari sparano ovunque il nome del miracoloso medicinale “Quietus”, kit per eutanasia fai da te, bombe esplodono all’improvviso, immondizie tracimano senza pudore, sugli autobus una voce femminile registrata, ferma e cortese, ripete che “non denunciare un immigrato è reato”, i profughi sono incarcerati e nei recinti c’è ancora spazio. Se mi inoltrassi nella Los Angeles giardino di Demolition Man (Marco Brambilla, 2003) mi sembrerebbe invece un ambiente di pace e tranquillità, ma potrei scoprire che si tratta soltanto di un luogo di ricca ipocrisia, che ha eliminato le periferie degradate nascondendo la povertà e la disperazione nel sottosuolo. In Artificial Intelligence (Steven Spielberg su un progetto di Stanley Kubrick, 2001) dovrei attraversare in barca la New York del futuro, diventata come una Venezia fatata in cui i grattacieli emergono dalle acque come isole verticali, e

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tutto ciò per effetto della natura che si è rimpadronita del mondo, grazie al catastrofico scioglimento dei ghiacci polari. Nella città astratta, iperurbanizzata, alienante di Alphaville (Jean-Luc Godard, 1965) il mio spirito verrebbe manipolato, come quello di tutti gli abitanti, dal potere del computer Alpha 60 che trasforma tutti in “alfabeti” e mutanti. Come il detective Lemmy Caution che arriva dai “Paesi esterni” col compito di indagare su quella “capitale del dolore”, uscendo da un corso di semantica domanderei a una ragazza alphavilliana «Perché qui la gente ha l’aria così triste?», e lei risponderebbe: «Perché manca l’elettricità».

Scrive Francesco Defferrari in un articolo su utopie architettoniche e cinematografiche, dopo aver portato ad esempio vari film, tra cui alcuni di quelli appena citati: «L’immaginario fantascientifico è spietato, perché mostra in uno specchio limpido come gli uomini giudicano il futuro delle moderne città votate al progresso: un ambiente che pare non avere altro destino se non quello di diventare sempre più alieno e disumano»38. Insomma, sembra che gli uomini moderni possano sognare una città perfetta solo se la immaginano completamente diversa dalle nostre città. In alternativa ciò sembra fare il palo con la visione opposta propugnata dalla comunicazione di massa, quell’iconografia idilliaca degli spot televisivi alla Mulino Bianco, idilliaca, patinata, a tinte flou, la rassicurante utopia di noi stessi. Forse due facce della stessa medaglia. Utopie e nostalgie si scavalcano, come la realtà che si nutre dell’immaginario e viceversa. Nell’attesa di trovare un compromesso tra la città macchina che tutti temono e la città giardino che tutti sognano.

38 Ibidem

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CAPITOLO 2La terra nuova di regime

Ogni compagnonei sogni affioranti alle pupille

sull’ali stellate della nottelibera una città sepolta

nel folto delle sue carni.Pietro Ingrao, Coro per la nascita di una città

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1. Fantasmi

Certe notti, dai campi attorno alla via Appia, c’è ancora qualche vecchio colono che giura di sentirlo. Vroooom, vrooom, come un rombo di motore in avvicinamento. Di lato agli alberi di eucalyptus ancora superstiti, in tutti quei Borghi piantati in mezzo agli incroci stradali, vicino ai canali e alle piantagioni di kiwi, pare di sentirlo ingrossarsi man mano quel rumore, il ruggito di una moto in avvicinamento, una folata di vento improvvisa, la sagoma di una Guzzi 500. Nessuno l’ha mai vista, in verità. Ma certi vecchi, gente che parla in romanesco e ricorda in veneto, ne sono sicuri: quello, è il fantasma del Duce39. Un altro poco di strada, moto o non moto, e si arriva al centro della città. A Latina. Nel mezzo della piazza del Popolo, dove c'è quella specie di fontana con un’enorme palla al centro, anche lì nelle notti di temporale a qualcuno pare di udire dei rumori sinistri. Lì sotto in effetti qualcosa c’è: un camion tutto intero, sepolto. C’è affondato il 17 dicembre 1932, in un pomeriggio di pioggia. Fervevano i lavori, la mattina dopo doveva essere tutto finito. Il camion era carico di pietrame. Prima affondò da una parte, con la ruota motrice. Poi, a forza di farlo girare per tirarlo fuori, affondò pure l'altra. Provarono a tirarlo su prima con le braccia, poi con le macchine, ma niente: la piccola voragine di fango lo risucchiava. Siccome non c’era tempo da perdere decisero di scavare un po’ intorno e seppellirlo lì. Sopra ci misero altro pietrame, e l’asfalto. Il camion sta ancora là sotto, insieme alle pietre e al gattino dell’autista, che non era voluto scendere, spaventato dal rombo dei motori e della gente che stava intorno. Miagolava, finché non è stato ricoperto40. L’indomani sarebbe stato il grande giorno: quello dell'inaugurazione della città. Di Littoria. Il Duce avrebbe parlato dal balcone, lì sopra la piazza, e proclamato alla folla osannante che «l’aratro traccia il

39 A. Pennacchi, Palude, 2000, pp. 10-1340 Ivi, p. 87

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solco, ma è la spada che lo difende»41, manifesto di un'epoca.

Raccontano le cronache dell’allora regime che solo la città di Latina, fu creata dal nulla in 232 giorni, dopo che sessantamila uomini avevano portato via la terra a carrettate e l’acqua coi secchi, e seimila persone almeno erano morte, quasi tutte di malaria. Fu la prima delle “città di bonifica” realizzate all’interno del piano di bonifica integrale delle paludi pontine. “Un deserto paludoso-malarico” lo definivano i geografi. Fu un’opera immensa: dal 1926 al 1937, per bonificare l’area che si trova a sud di Roma, grande 240 chilometri, delimitata ad ovest e sud dal mar Tirreno, a est dai primi rilievi appenninici dei monti Lepini ed Ausoni, a nord dal medio corso del fiume Astura e dai primi rilievi dei Colli Albani, furono impiegate ben 18.548.000 giornate-operaio su un’ampiezza di 80.000 ettari. Oltre al prosciugamento delle paludi, alla costruzione dei canali, ci fu l’azione di disboscamento delle foreste e la costruzione dei nuovi centri, che sorgevano man mano sui nuovi territori42. Littoria (poi chiamata Latina dopo la seconda guerra mondiale, dal 1946) fu il primo, nel 1932, e divenne il capoluogo della nuova provincia. Seguirono i comuni di Sabaudia nel 1933, Pontinia nel 1934, Aprilia nel 1936, Pomezia nel 1939, insieme ad altre tredici borgate rurali di più piccole dimensioni.

In effetti, ogni volta che si passa da queste parti, è facile farsi venire il pensiero che se non fosse stato per lui forse oggi non l’avrebbe fatta ancora nessuno, questa benedetta bonifica. Sicché adesso ci sarebbe toccato di ammirare Berlusconi sulla poltroncina bianca di “Porta a porta” a spiegarci perché e percome il precedente regime comunista l’avesse trascurata e adesso ci pensa lui a risolvere il problema. Altro che Ponte sullo Stretto e monnezza di Napoli.

41 B. Mussolini, Scritti e discorsi IV, 1934, p. 15342 P. Incardona, P.G. Subiaco, La palude cancellata. Cenni storici sull’Agro Pontino, 2005

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Ci sono passato decine di volte per l’Agro Pontino, ogni volta butto l’occhio su quei cartelli che indicano i borghi dai nomi di trincea del ‘15/18 – Borgo Sabotino, Borgo Piave, Borgo Isonzo eccetera – mi tornano in mente pure quei vecchi compagni di classe un po’ camerati che quando si litigava sul fascismo a un certo punto, per stanchezza, se ne uscivano sempre con l’argomento che non ammette repliche: “Vabbe’, il Duce qui e là avrà pure sbagliato e la guerra l’abbiamo persa, ma volete mettere la bonifica dell’Agro Pontino?”. Eh figuriamoci, a questo punto – come mi disse una volta un mio vecchio professore delle medie – non valeva la pena sacrificare vent’anni di suffragio universale maschile e libertà politica; non valeva la pena di scontare un po’ di embargo internazionale, di allearsi coi franchisti e i nazisti, importare le leggi razziali, morire a milioni su un po’ di fronti in tutto il mondo, combattere un’ultima disperata guerra civile contro il proprio stesso popolo, collaborare con un invasore folle e invasato, pur di aver bonificato, una volta per sempre, l’Agro Pontino?

2. Idee anti-urbane

L’Italia che si affacciava al Novecento era una nazione rurale, dedita ad attività prettamente agricole. Quasi tutte le pianure, soprattutto nel centro-sud, erano completamente abbandonate da secoli. Erano almeno sette od ottocento anni che la gente si era ritirata tutta sopra i monti: prima per la difesa dalle invasioni, poi per i latifondi e la malaria43. In molti casi, soprattutto vicino alle coste, la pianura italiana era un deserto spesso lasciato a vecchie fortificazioni e pericolose paludi, oppure incolto o malcoltivato in maniera estensiva e latifondista. La rivoluzione urbana era rimasta un fenomeno marginale. La struttura urbana alle soglie del ‘900 è ancora scarsamente industriale, da qui il suo sesto posto nella scala dei paesi “sviluppati”. Al 1901 l’Italia è un paese fondamentalmente agricolo, l’unico dato sulla popolazione residente dentro le

43 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, 1962

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grandi città è di 101 abitanti su 1000, seguita dalla Russia con 49 e preceduta dalla Gran Bretagna con 328. Dal primo censimento nazionale del Novecento, tenutosi nel 1901, si rileva che solo undici Comuni Italiani avevano più di 100mila abitanti e che la loro popolazione complessiva ammontava a 3.206.354 unità. Tra questi Napoli aveva il primo posto con 564mila abitanti, seguita da Milano e Roma rispettivamente con 491mila e 463 mila. Dal 1871 al 1911 la popolazione nei 10 comuni superiori a 100mila abitanti era quasi raddoppiata passando da 2.492.193 a 4.398.794, con un aumento del 77% contro il 29% di tutto il regno, mentre per quel che concerne l’addensamento nei comuni questo era ripartito in massima parte nei centri urbani. Dopo la prima guerra mondiale l’Italia contava 18 comuni con popolazione superiore ai 100mila abitanti contro gli 11 del periodo precedente, per una popolazione complessiva di 5.363.000 abitanti, pari al 138 per mille dell’intera popolazione del paese, contro il 101 precedente44. I primi studi demografici sulle realtà urbane nazionali già riportavano casi di particolare disagio, ad esempio le pessime condizioni di vita con famiglie di dieci o più persone stipate in una sola stanza, oppure lo stupore sul rapporto tra nati e morti coi secondi che superano i primi, tuttavia si può dire che in generale ancora in quel tempo le città italiane vivevano un periodo di relativa stabilità, se messe a confronto con quanto accadeva contemporaneamente in ogni simile città francese o inglese o tedesca.

Una certa idea anti-urbana dell’Italia cominciava a farsi sentire. Giorgio Mortara, massimo studioso di economia e statistica dell’epoca, nel 1907 conclude il suo lavoro confessando di ritenere il processo di immigrazione nelle città un processo «non necessario, anzi transitorio», determinato dalla rapida trasformazione dei mezzi di produzione45. L’urbanizzazione liquidata in due parole, come una qualunque moda passeggera. Strano, no? Più che

44 R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 4545 G. Mortara, Lo sviluppo delle grandi città italiane, 1907

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una svista stupefacente, il segnale di una corrente di pensiero destinata a imprimersi nella cultura nazionale. Semplicemente quella di andare controtempo rispetto al tempo che viviamo, rimanere sulla soglia di una modernità che ovviamente ci appare confusa e corrotta, una tentazione cui resistere, alle forze che spingono opporre il modello puro e innocente del passato incorrotto. Insomma, nel nostro Paese il fenomeno urbano veniva ancora considerato di scarsa rilevanza, come di fatto era, ma se ne immaginavano ben poco gli sviluppi, e questo è testimoniato dai quasi inesistenti istituti di rilevamento dati, che verranno incrementati e poi creati dal regime fascista per ovvi motivi di controllo. Gli studi sulla città, sul suo senso, la sua complessità, erano assai rari e i pochi circolanti venivano dall’estero. Le considerazioni di sociologi come Weber o Simmel, che ponevano la città in termini problematici o come parametro di lettura della storia, erano pressoché sconosciuti. In uno studio di Mortara del 1912 che paventava “l’incubo dello spopolamento” per l’Italia del ventesimo secolo si comincia a riconoscere un certo legame tra politica e problemi urbani, quando si associa il decremento demografico alla penetrazione della propaganda socialista. «La pittura a cupe tinte degli svantaggi di numerose famiglie e l’esaltazione dei benefici che derivano dalla mancanza, o scarsezza, di prole, agiscono potentemente sull’incolta folla, capace bensì di profondi affetti e di sublimi sacrifici ma impreparata alla comprensione dei doveri più modesti, e facile preda a cupidigie basse e materiali, spinta com’è, per la vaga cognizione di teorie socialistiche, ad eccessive o premature rivendicazioni di diritti»46. E si sa che i grossi agglomerati urbani sono considerati terreno ideale per fare entrare in gioco interessi e aspettative di nuovi soggetti politici e sociali. La metropoli diventa l’epicentro da cui parte il contagio della modernità.

Molti filoni culturali denunciavano in quegli stessi anni, e con sempre più accanimento dopo il trauma della prima

46 G. Mortara, L’incubo dello spopolamento e l’Italia, 1912, p. 48

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guerra mondiale, la “decadenza” e la “degenerazione” delle società europee dell’epoca borghese e industriale. E naturalmente, tra i simboli del moderno su cui puntare il dito, c’era la città. Il best-seller intellettuale che andava forte nella Germania reduce dalla sconfitta bellica e orfana del vecchio impero era Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler. Nell’opera dominava la paura del numero, del prevalere della quantità sulla qualità, e quindi il rifiuto categorico della democrazia come regime politico delle masse, le quali costituivano il vero spauracchio dell’establishment e dei ceti colti di inizio Novecento47. Il primo palcoscenico delle masse era stato quasi sempre la città, in particolare la metropoli figlia di quell’urbanesimo industriale paragonato ad un nuovo morbo dilagante. Poco importava che le dimensioni della città fossero davvero quelle di una metropoli, contava semmai la percezione che se ne aveva48. È sull’antitesi netta tra città e campagna – o meglio fra “metropoli cosmopolita” e “provincia” – che Sprengler costruì la sua teoria ciclica delle civiltà. Nel momento in cui la grande città diventava “cosmopoli”, scriveva il filosofo tedesco, «l’uomo della civiltà, che era stato formato spiritualmente dalla campagna, diviene proprietà e strumento della sua stessa creatura, della città, e infine ad essa viene sacrificato»49. Entrando nella metropoli cosmopolita l’uomo perdeva il contatto con la terra e diventava preda di quel denaro che da sempre regolava ogni aspetto della dimensione urbana, comprese le relazioni interpersonali. Quella che si andava a paventare, e a produrre, era ritenuta una vera e propria degenerazione antropologica. La Kultur, caratterizzata da una forma di comprensione organica ed empatica della vita come destino, si irrigidisce in una Zivilization fredda ed esangue, che porta a concepire il mondo come un insieme di nessi casuali e meccanici. Una dicotomia che ricorda quella famosa tra Gemeinschaft e Gesellschaft, dovuta a

47 O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, 198148 D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in “Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005, p. 249 Ivi, p. 793

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Ferdinand Tonnies già sul finire del secolo precedente, ovvero da una parte una comunità fondata sul sentimento di appartenenza e sulla partecipazione spontanea, dall’altra parte una società basata sulla razionalità e sugli aridi rapporti di scambio50. Questi temi saranno destinati a riaffiorare e tornare, sotto varie forme sia benigne che maligne, quasi ossessivamente, nella cultura del Novecento: la servitù dell’uomo contemporaneo, la dissacrazione della persona, la responsabilità delle macchine, la violazione della natura. Ciò che è moderno non coincide più con ciò che è umano51. Non solo. Gli anni Venti e Trenta rappresentano, per la prima volta, un’epoca in cui va in crisi l’idea stessa di modernità, di progresso. Crolla l’ideale positivista legato allo sviluppo industriale che sembrava garantire alla società una prosperità illimitata nello spazio e nel tempo. Il moderno inizia a fare paura. Il linguaggio delle possibili utopie fiduciose nella tecnica e nel progresso prendeva a ripiegarsi sulle nostalgie verso quei valori e quelle radici che paiono abbandonati. Dopo la grande guerra, e dopo la rivoluzione d’ottobre, cominciò a farsi sempre più largo la sensazione che contro l’anarchia e la disgregazione dei vecchi assetti sociali e delle vecchie gerarchie politiche e morali fosse ormai quasi impossibile trovare adeguate contromisure che proteggessero l’esistente e addomesticassero il “nuovo che avanzava”, fascinoso e minaccioso al tempo stesso.

3. Mistica fascista

Quando il regime fascista prende il potere di città non ne vuole proprio sentir parlare. Il Duce, nato come socialista di provincia e finito come dittatore fanatico della romanità, non aveva dubbi: lui era per la ruralizzazione e il primo nemico da abbattere era l’urbanesimo. Era quella la fonte di ogni male: la gente lasciava le campagne dove aveva

50 F. Tonnies, Comunità e società, 197951 P. Rossi, Naufragi senza spettatori. L’idea di progresso, 1995, p. 94

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lavorato in pace e per benino, ognuno per conto suo, senza dare fastidio a nessuno, e veniva in città, soprattutto ad ammassarsi nei quartieri operai, a fare gli scioperati, o i disoccupati. E magari pure a bere nelle osterie, finendo per parlare di politica. “Altro che urbanesimo” disse in sostanza Mussolini, “tutti in campagna” e fece pure chiudere le osterie. Venticinquemila in tutta Italia. E in quelle poche che restarono aperte fece attaccare un cartello con tanto di marca da bollo: “Qui non si parla di politica”52. Un discorso che, come si è visto, si inserisce nel mutato clima culturale e psicologico dell’Europa a cavallo tra guerre mondiali e totalitarismi. Quando la presunta razionalità delle élite al potere viene fagocitata dall’irrazionalità delle masse guidate da élite escluse dal potere. La diffusione dell’igienismo sociale – ovvero la “ripulitura” delle sacche di marginalità, povertà, devianza rispetto all’ordine costituito – quale presunto rimedio all’enorme, e a tratti incontrollabile, crescita di molti centri urbani costituiva un segnale in tal senso53.

La storiografia ha fino ad oggi individuato nel cosiddetto “discorso dell’Ascensione”, pronunciato da Mussolini alla Camera dei Deputati nella seduta del 26 maggio 1927, l’avvio ufficiale della lotta all’urbanesimo54. Che questo discorso fosse importate per l’intera futura linea politica adottata dal regime lo ammise lo stesso Duce del fascismo, dichiarando già in apertura che la terza parte del suo intervento avrebbe indicato «le direttive politiche generali attuali e future dello Stato». Nella prima parte Mussolini esaminò la «situazione del popolo italiano dal punto di vista della salute fisica e della razza», mentre nella seconda valutò il complessivo «assetto amministrativo della nazione». Un lungo monologo fatto di annunci, preannunci, inviti, richiami, programmi, bilanci, fino a delineare qualche intenzionalità e scelta precisa, «perché ho molte cose da 52 A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 2953 G. Zucconi, La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti 1885-1942, 198954 B. Mussolini, Discorso dell’Ascensione, 1927

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dire, e oggi è una di quelle giornate in cui io prendo la nazione e la metto di fronte a se stessa». Le considerazioni relative all’urbanesimo facevano seguito a quelle relative alla situazione demografica dell’Italia. Menzionava l’imposta sui celibi appena istituita, la quale costituiva un primo avvertimento agli italiani, «una frustrata demografica alla nazione». Soprattutto affermava con forza un principio che ribadirà più volte negli anni successivi: il numero è forza, politica e militare, ossia una nazione occupa un posto di rilievo nel consesso internazionale anche in misura della quantità di popolazione, possibilmente giovane e sana, che la abita. Passando in rassegna gli indici di natalità e mortalità dei vari paesi confinanti, si soffermava allarmato sulla situazione italiana. Questa non era ancora disperata né irrecuperabile, ma vi erano a suo avviso sintomi preoccupanti che andavano affrontati. Molte regioni d’Italia erano scese al di sotto del 27 per mille, per quel che riguardava l’indice di natalità. Tra quelle positivamente in controtendenza, spiccava la Basilicata, una delle regioni più povere del Paese ma al contempo una delle più prolifiche, ed era quest’ultimo aspetto ad entusiasmare il Duce. Il quale poneva come traguardo demografico per la metà del secolo quello dei sessanta milioni di abitanti. La causa principale del decremento demografico in atto, apparentemente inarrestabile, era individuata chiaramente e senza ombra di dubbi nell’urbanesimo. Affermava Mussolini nel suo discorso alla Camera: «Ma voi credete che, quando parlo della ruralizzazione dell’Italia, io ne parli per amore delle belle frasi che detesto? Ma no! Io sono il clinico che non trascura i sintomi e questi sono sintomi che ci devono fare seriamente riflettere. E a che cosa conducono queste considerazioni? 1) Che l’urbanesimo industriale porta alla sterilità le popolazioni. 2) Che altrettanto fa la piccola proprietà rurale. Aggiungete a queste due cause di ordine economico la infinita vigliaccheria morale delle classi cosiddette superiori della società. Se si diminuisce, signori, non si fa l’impero, si diventa una colonia […]. Vi spiegherete quindi che io aiuti l’agricoltura, che mi proclami rurale; vi spiegherete che io

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non voglia industrie intorno a Roma; vi spiegherete quindi come io non ammetta in Italia che le industrie sane, le quali industrie sane sono quelle che trovano da lavorare nell’agricoltura e nel mare»55.

Insomma, Mussolini attribuisce alla “civiltà contemporanea” il grave difetto di ridurre l’incremento demografico, l’ordinario ordine sociale e di conseguenza la potenza della nazione. Dunque la lotta all’urbanesimo si affiancava al lancio della campagna demografica, e di questa l’antiurbanesimo rappresentava un aspetto complementare e per certi versi supplementare, diciamo una sorta di effetto collaterale. Nella pubblicistica fascista, quando ci si riferiva alla legislazione pro-natalista varata dal regime, si dava abbastanza per scontato il nesso automatico, come di causa-effetto, tra urbanesimo e denatalità. In realtà la letteratura precedente, e diciamo meno irreggimentata, nonché molti studi più recenti, confermano come non in tutti i casi esista un collegamento così meccanico tra urbanizzazione e decremento della natalità, tra crescita urbana e limitazione volontaria delle nascite. Il ruolo che la città assume nel processo di modificazione dei comportamenti demografici non è legato infatti agli effetti meccanici dell’inurbamento ma dipende da un delicato intreccio tra mobilità, età media della popolazione, speranza di vita, riduzione della fecondità. Indubbiamente il livello di reddito, i livelli sociali e culturali, hanno generalmente una correlazione negativa con il livello di fertilità. Chi studia di più e chi guadagna meglio spesso poi fa meno figli. Ma è sbagliato pensare che il trasferirsi tutti in città, finché non sia provocato o accompagnato da un adeguato sviluppo produttivo, comporti repentini cambiamenti per le masse, né della situazione economica né della collocazione sociale, né tantomeno della mentalità e delle consuetudini familiari. Per esempio, dove ci sono più giovani, e comunque un maggior numero di soggetti in età attiva, i tassi di natalità saranno comunque più alti, indipendentemente dal trovarsi

55 Ivi, p. 23

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in città o in campagna56. Tuttavia questo ragionamento può valere nella primissima fase dell’inurbamento, che pressappoco era quella in cui ci si trovava sul finire degli anni Venti, mentre Mussolini pronunciava il suo famoso discorso dell’Ascensione. In realtà gli effetti all’epoca temuti si sarebbero poi realmente verificati nel medio-lungo termine. Per alcuni studiosi l’antiurbanesimo fascista sarebbe da intendersi come un capitolo della più generale politica demografica e pro-natalista lanciata da Mussolini in quella fase del regime. In altre parole, politica antiurbana sarebbe un modo diverso per dire politica antimigratoria. “Tutti in campagna” continuavano a ripetersi, “questa è la vera mistica fascista”. Ma il più delle volte la gente, lì in campagna, ce la tenevano con la forza, anche se continuava a scappare da tutte le parti verso le città57. Dovevano costruire l’uomo nuovo – secondo la mistica fascista – e lo dovevano fare con le buone o con le cattive. Per spostarsi da campagna e città e viceversa in alcuni casi ci voleva l’autorizzazione, una specie di passaporto.

A tale proposito, nel dicembre 1928 viene varato un disegno di legge contro l’urbanesimo. Il provvedimento scaturiva dalla necessità di dare una risposta al progressivo aumento della popolazione residente nei centri urbani, e per comprovarlo si faceva notare che nei soli 92 capoluoghi di provincia vivevano ben 10 milioni di individui, pari al 25% della popolazione nazionale. I pericoli venivano indicati soprattutto nella corruzione della “sanità fisica e morale della stirpe”. Senza varare regole assolute, si concedeva ai Prefetti la facoltà di emanare ordinanze sul numero e sugli spostamenti migratori interni della popolazione. L’approccio generico del provvedimento, che aveva più che altro natura di “monito” o “richiamo”, è dovuto anche al fatto che non vi fu in generale un’accoglienza favorevole. Negli ambienti industriali si

56 D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in “Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005, p. 557 A. Treves, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, 1976

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ebbero reazioni negative, seppur mascherate da semplice cautela e perplessità. Il fatto che riuscissero a filtrare persino la stampa ufficiale del regime induce a pensare che l’entità del disagio alla base di queste reazioni critiche fosse consistente. Diffuso era il timore che si potessero ingabbiare movimenti di uomini e cose che avevano un’utilità sia sotto il profilo economico-industriale sia sotto il profilo politico del prestigio di governare città in crescita58. Senz’altro non si può ignorare il momento storico in cui la campagna contro le grandi città e l’urbanesimo fu lanciata. Si era in piena “crisi da rivalutazione della moneta” e l’appello reiterato dalla propaganda alla “ruralità” era anche un tentativo di alleggerimento delle conseguenze negative del processo deflattivo (dall’aumento del costo di produzione alla disoccupazione, specie nel Sud). Protezionismo, interventismo statale e concentrazione industriale: erano queste le grandi linee di una strategia che mirava a stabilizzare – gli operai nelle fabbriche, i contadini nei campi e i disoccupati nei cantieri – la società italiana. E c’era un’altra questione aperta: quella del rapporto con la borghesia. È chiaro che alla lenta urbanizzazione dell’Italia corrisponde – pari pari – una lenta formazione di una matura classe borghese, come avviene nelle altre nazioni europee. Dietro la proclamazione dell’antiurbanesimo c’erano anche motivazioni di ordine pubblico, legate al controllo del territorio ai movimenti della popolazione che vi risiedeva. Ciò che più si temeva, negli ambienti di regime, era che una crescita senza freni delle città, soprattutto se dovuta allo sviluppo industriale, avrebbe comportato la perdita di un controllo politico e sociale del territorio che il fascismo faticosamente andava costruendo. Mussolini si fidava delle masse rurali, secondo lui ancora da “fascistizzare”, ma guardava con immutato sospetto la popolazione di città, e ancor più quella proletaria, che sentiva, a pelle, irriducibilmente aliena.

58 D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in “Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005, pp. 11-12

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Nello stesso tempo in cui si esaltava l’antiurbanesimo, veniva dato il via libera alla creazione di 19 nuove province del regno. Un’innovazione basata sulla necessità di “meglio ripartire la popolazione” e di frenare l’esodo dalle campagne e dai piccoli centri verso le grandi città59. Un motivo centrale di questo esodo era individuato dallo stesso Mussolini nella monotonia della vita di provincia. L’accorpamento e la dotazione di nuovi strumenti decisionali connessi alla promozione al rango di provincia costituivano in primo luogo una gratificazione psicologica per l’abitante del piccolo centro, per il cittadino comune (che tale cominciava a sentirsi: cittadino) oltre che per i notabilati locali, modificandone innanzitutto l’auto-percezione. La presenza diretta e costante di autorità rappresentative dello Stato centrale rendevano possibili soluzioni immediate e concrete a richieste e problemi che nascevano sul territorio. O almeno questa era la speranza che si dava alle popolazioni locali con la creazione delle province. È in tal senso che va letta la motivazione che venne addotta dal capo del governo: «Questi centri provinciali, abbandonati a se stessi, producevano un’umanità che finiva per annoiarsi, e correva verso le grandi città, dove ci sono tutte quelle cose piacevoli e stupide che incantano coloro che appaiono nuovi alla vita»60.

Certo, con questa affermazione la posizione di Mussolini risultava meno ideologica di quanto a prima vista apparisse. Non che nelle sue posizioni non riecheggiassero già temi spengleriani, ma appartenenti più in generale al clima culturale dell’epoca. Rurale è – secondo il già citato Tramonto dell’occidente – mettere «radici nel suolo stesso che si è coltivato» e «l’anima dell’uomo scopre un’anima nel paesaggio; si annuncia un nuovo sentire, una nuova connessione dell’esistenza con la terra»61. A conferma di

59 Ivi, p. 560 B. Mussolini, Discorso dell’Ascensione, 192761 O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, 1981, p. 634

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queste letture e influenze culturali di marca germanica si può vedere la recensione che Mussolini dedicò nel 1928 al libro di Richard Korherr, Regresso delle nascite: morte dei popoli, e che poi uscì come prefazione alla traduzione italiana. «La metropoli cresce attirando verso di sé la popolazione della campagna – scriveva Mussolini – la quale però appena inurbata diventa al pari della preesistente popolazione infeconda. Si fa il deserto nei campi; ma quando il deserto estende le sue plaghe abbandonate e bruciate la metropoli è presa alla gola: né i suoi commerci, né le sue industrie né i suoi oceani di pietre e di cemento armato possono ristabilire l’equilibrio irreparabilmente spezzato: è la catastrofe»62. Sul finire degli anni Venti il pensiero politico di Mussolini si impregnò di molti di questi temi e umori, e dalla cultura tedesca il Duce del fascismo trasse non pochi elementi per alimentare la propria visione della società contemporanea e dell’intera storia mondiale. Tra questi, l’avversione alla metropoli e, in generale, alla civiltà urbana e industriale63. Non si trattò certamente di un trapianto di idee interamente nuove, quanto semmai della conferma autorevole di tesi e concezioni che Mussolini già si era formato autonomamente, seguendo un proprio percorso in cui avevano influito sia l’origine provinciale e piccolo-borghese sia il tipo di socialismo assorbito in gioventù, nonché altre letture giovanili, da Nietzche a Gustave Le Bon, il quale gli sarà utile nel fornirgli alibi teorici indicandogli la strada per penetrare “l’anima delle folle”64.

Influenze e alibi culturali a parte, nel capo del fascismo agivano prima di tutto considerazioni di ordine pratico. L’avversione contro l’urbanesimo non era indiscriminata e totalmente accecata da un’ideologia antimodernista, pure se questa si faceva sentire di fronte a una modernità che minacciava di scardinare i costumi morali e sessuali

62 B. Mussolini in R. Korherr, Regresso delle nascite: morte dei popoli, 1928, pp. 209-21663 R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, pp. 73-8564 G. Le Bon, Psicologia delle folle, 2004

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tradizionali, e quindi “liberare” e maturare in qualche misura una società civile italiana. Nostalgie paesane non mancavano nei fratelli Mussolini, sia Benito che Arnaldo. Quest’ultimo deve essere menzionato perché la sua influenza sulle decisioni del fratello era importante, senz’altro era tra le persone cui il Duce prestava maggiore attenzione65. In una ricerca di Danilo Breschi sul tema di “Fascismo e antiurbanesimo”, pubblicata dalla rivista Storia e futuro, si trovano molti materiali che ricostruiscono questo rapporto66. In un’editoriale sul Popolo d’Italia del 29 dicembre 1928, dunque a pochi giorni di distanza dalla promulgazione della prima legge anti-urbana, Arnaldo precisava i termini entro i quali si muoveva la politica ruralista del governo fascista: definiva «pericolosi e denigratori» gli attacchi di quegli «ultramoderni intenti a dimostrare che la politica rurale è un regresso nella vita civile», un modo per «arenare nei campi il corso della modernità». Invece «noi ci chiediamo prima di tutto: le città che sono affollate in modo inverosimile nel dopoguerra, che cosa hanno guadagnato in fatto di civiltà e che cosa hanno acquisito per la storia?»67. Arnaldo cita i sobborghi malfamati di Londra, New York e le sue “follie borsistiche”, Parigi città regina della “corruzione dei costumi”, Berlino affogata nel “cemento armato”, Mosca e la sua “miseria”, Vienna ancora città dei “divertimenti” anche se ormai priva del suo impero. In generale, quindi, da «queste capitali non viene dunque la luce per il genere umano», afferma Arnaldo. Insomma, «non è detto che l’agglomerato affini la sensibilità e migliori la razza, è vero precisamente il contrario». Come si vede però, il fratello del Duce faceva riferimento alle metropoli, alle «città giganti, piene di esigenze materiali, di null’altro perplesse e preoccupate che di uno sciopero dei trasporti, di una epidemia infettiva, della mancanza di approvvigionamenti». È in questo tipo di città che «la vita diventa arida, il carattere dei più si fa 65 R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1926-1936, 1974, pp. 303-30466 D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in “Storia e futuro”, n. 6, aprile 200567 A. Mussolini, La città, in “Il Popolo d’Italia”, 29 dicembre 1928

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nevrastenico»68. L’alternativa non era però individuata nel ripudio di qualsiasi centro urbano e nella fuga indiscriminata dalle città. Significativa conferma in tal senso è una lettera che Arnaldo scrive al fratello il 10 maggio 1927, dunque poche settimane prima del discorso dell’Ascensione. Relazionando sulla situazione fascista milanese, che languiva per leadership e iniziative, Arnaldo osserva: «Certamente, se qui non si prende quota, entro dieci anni Milano sarà un grosso borgo e per moltissime ragioni – soprattutto di forze economiche – ciò sarebbe gran male ed è un gravissimo errore non cercare di evitarlo. Non dimentichiamo che Milano concorre per la sesta parte a formare il bilancio dello Stato»69.

Arnaldo – come racconta Breschi70 – mostrava quindi di non perdere di vista le contingenze storico-economiche, di non trascurare le esigenze reali a vantaggio di pure e semplicistiche reazioni ideologiche antimoderne. La posizione sua e del fratello nei confronti dell’urbanesimo era dunque più complessa. L’obiettivo principale era impedire l’elefantiasi metropolitana, secondo una preoccupazione che era già diffusa in America e nel resto d’Europa tra fine Ottocento e inizio Novecento. Certo, nei suoi scritti e articoli Arnaldo Mussolini evocava anche piccoli borghi rurali e semi-rurali, come la Barga del poeta Giovanni Pascoli. Erano quindi ben presenti accenti che potremmo definire “strapaesani”, proprio in quella misura in cui si coglieva “l’italianità” nella tradizione municipale, nelle piccole realtà di provincia, compresi i borghi rurali, da cui erano scaturite esperienze artistiche e intellettuali di assoluta grandezza, tali da essere esportate fuori dalla penisola, nel mondo intero. Anche realtà urbane più grandi e complesse, come poteva essere la Firenze di fine Quattrocento, erano assai lontane dalle metropoli europee

68 Ibidem69 D. Susmel (a cura di), Carteggio Arnaldo-Benito Mussolini, 1954, p.8570 D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in “Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005, p. 7

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affollate fino all’inverosimile, necrotizzanti e alienanti e tutt’altro che fonti di creatività e crescita dell’individualità in armonia con le leggi della comunità che abitava entro le mura. Insomma, la grande città dei Medici era da considerare più “a misura d’uomo”71. Questa era la visione dell’urbanesimo che aveva il fratello del Duce e che il Duce stesso condivideva almeno in parte, perlomeno associandoci quel senso pratico e di opportunità che contraddistingueva l’animale politico dal semplice studioso di scienze agrarie. Secondo Arnaldo, mancava anzitutto un impero coloniale capace di soddisfare quell’aumento del livello medio dei consumi che tutti – anche gli esperti – addebitavano alle città di dimensioni medio-grandi. Addirittura il fratello del Duce rovesciava il rapporto città-campagna, almeno nei termini in cui questo si era configurato all’indomani della rivoluzione industriale. La città in funzione della campagna: questo pare in filigrana il pensiero di Arnaldo Mussolini e del pragmatico urbanesimo fascista, o quanto meno l’auspicio. Il modello di società vagheggiato dai due Mussolini era una campagna che sapesse trasmettere alla città uno stile di vita austero, sobrio, incline al rispetto delle gerarchie sociali e delle tradizioni culturali. In linea con quelli che effettivamente furono i provvedimenti di legge del regime, l’idea di fondo dello studioso fratello del dittatore era che la distribuzione della popolazione non mutasse, se non nel senso di un ripopolamento di certe zone su cui incombeva una vera e propria emorragia demografica, come quelle montane. Sia Arnaldo che Benito nutrivano una visione del rapporto città-campagna non molto diversa dalla teoria corporativa che sosteneva l’articolazione di una società si base gerarchica e funzionalista. Non a caso, quindi, rimandava ad una divisione dei ruoli: città del mare, città dell’interno. Negli anni Trenta, con il varo delle cosiddette “città nuove” e delle “città autarchiche”, si assisterà allo sviluppo di questa visione “corporativistica” dell’insediamento umano sul territorio nazionale.

71 A. Mussolini, La città, in “Il Popolo d’Italia”, 29 dicembre 1928

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Erano dunque varie e stratificate le motivazioni che nutrivano l’avversione nei confronti delle grandi città. Molte venivano agitate anche nelle aule parlamentari del regime. In particolare da esponenti della vecchia classe dirigente pre-fascista che si era fatta fiancheggiatrice del regime mussoliniano. Era un’ala conservatrice, prevalentemente legata al mondo agrario o a un patriziato urbano, concorde nel ridimensionare un proletariato che minacciava di addensarsi e crescere. Proviamo a soffermarci un attimo su questo tipo di retorica anti-urbana, dai toni spesso paternalistici, prendendo ad esempio (sempre citato dal lavoro storiografico di Breschi) qualche discorso di Arturo Marescalchi, uno dei protagonisti della battaglia che in Senato si conduceva contro l’urbanesimo ancor prima che il Duce ne facesse una bandiera ideologica del regime72. Importante possidente agrario piemontese, deputato liberal-conservatore da lungo tempo, tenuto in grande considerazione fino alla nomina a sottosegretario all’Agricoltura dal 1929 al 1935. Eccolo nell’interpretazione di un refrain già ascoltato e che abbonderà nella pubblicistica degli anni Trenta, dove alla salubre e patriottica vita di campagna si contrappone la corrotta e corruttrice vita di città. «Le sappiamo le lusinghe della città: i comodi tram che si sostituiscono all’igienica camminata, i teatri, tutti i divertimenti più a portata. Belle cose! Ma esse ti invitano a sprecare danaro che invece tu sai risparmiare per comprarti il pezzo di terra e la casetta; essi ti corrompono l’animo, ti tolgono la serenità e i tuoi sonni tranquilli e riposanti, e le gioie pure della tua famiglia… La maggior paga che prendi ti va tutta appunto in quelli che ti sembrano i nuovi comodi e gli ambiti divertimenti; ti va nelle maggiori pigioni che paghi per abitare un quarto piano in piccole stanze dove i tuoi figlioli cercano invano lo spazio per correre, e l’erba, le piante per giocare; ti va nel maggiorato prezzo cui sei costretto a pagare ogni più modesto ortaggio e ogni altro cibo. Fa conto, e a fine anno ti troverai con minori avanzi e con

72 D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge 1926-1929, in “Storia e futuro”, n. 6, aprile 2005, pp. 14-15

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minor salute. E penserai con nostalgia ai tuoi campi, alla vita libera, all’aria sana, e rimpiangerai di aver lasciato la tua dimora della campagna semplice, l’aria di pace e di tranquillità… Contadino, non lasciarti sedurre da false teorie. Tieniti alla tua terra, buona madre di tutti»73.Insomma, Marescalchi pretendeva di dire al contadino quale fosse e dovesse essere la “giusta aspirazione”, coltivata da “mille e mille anni”: «diventare padrone di un pezzo di terra e di una casetta che serva a sostentare e ad albergare la tua famiglia»74. Nonostante siano passati già cento anni dalla rivoluzione industriale e la cultura disponga di una considerevole mole di studi su questo fenomeno, in Italia l’uomo che si “inurba” è paragonato a una stupida farfalla, abbagliata dalla luce sfolgorante della città, e che in quella luce rischia di bruciarsi le ali. La politica governativa di “sbracciantizzazione”, lanciata nel 1929, assecondava questa visione del mondo, cercando di aumentare la stabilità sociale nelle campagne mediante l’aumento del numero dei mezzadri, dei coloni parziari e dei compartecipanti.

Nel frattempo il regime fascista cominciava a godere di una certa solidità tecnica, le voci di dissenso erano state messe fuorilegge, e tuttavia mancava la sostanza della “rivoluzione” fascista. Occorreva qualcosa di “grande” che funzionasse da centro focale del regime, qualcosa in cui potersi riconoscere, che galvanizzasse le masse. Il regime era cresciuto senza una propria ideologia, anzi si era detto contrario alla sua individuazione e applicazione, aveva bisogno di una forza numerica per disegni imperialistici ancora oscuri, doveva tenere sotto controllo la vita delle città industriali, dare un sollievo agli effetti della crisi monetaria internazionale sempre più acuta. Ognuno di questi elementi spingeva verso una grossa scelta che orientasse l’attenzione comune; e la scelta fu quasi condizionata: ruralità. Oppure, pragmaticamente: urbanizzazione rurale. È a questo punto che Mussolini

73 A. Marescalchi, Una parola amica al contadino, in “Il Traguardo”, 193074 Ibidem

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sente il bisogno concreto di una maglia culturale e teorica che leghi le sue operazioni mostrandole come parti di un unico insieme. Una missione che contribuisca a celebrare presso un’opinione pubblica esacerbata le virtù taumaturgiche del capo del regime. Così lui tenta di coinvolgere ogni alta gerarchia dello Stato nel suo disegno per la grande bonifica. Scrive più volte al ministero del Tesoro chiedendo aiuti e disponibilità finanziarie, riceve esperti agrari e ingegneri idraulici. Di città il regime non ne voleva sapere, eppure ora si mette a fondarle.

4. Bonifiche e borghi

Quindi il Duce di città non ne voleva. Solo borghi di campagna, niente città. Non erano previste, almeno in questa plaga che il fascismo stava redimendo, e che doveva plasmare a sua immagine e somiglianza. L’Agro Redento – là dove prima stava l’inferno delle paludi pontine – doveva esserne l’emblema, il monumento millenario del regime. Da un punto di vista propagandistico la zona si rivelò un’ottima scelta: per la vicinanza con Roma, la capitale, e per la vicenda ormai leggendaria degli innumerevoli tentativi di trasformazione falliti. Tentativi di bonifica miseramente arenati ci furono fin dai tempi dei Cesari e dei papi. Nei secoli le paludi erano diventate un posto infido abitato da radi contadini e pastori, spesso uccisi dalla malaria. Nel suo Viaggio in Italia il poeta tedesco Goethe descrisse le paludi pontine come «l’angolo più selvaggio e affascinante d’Europa»75. Di bonifiche ne cominciarono a parlare e a realizzare anche i governi dello stato unitario, di matrice liberale riformista, dalla fine dell’Ottocento a prima dell’avvento del fascismo. Quasi sempre furono fatte nelle zone della Val Padana, su iniziativa dei privati e con sfondo di redditività76. Nei primi anni del regime, tra il 1925 e il 1931, vennero avviati interventi di “bonifica integrale” da parte di privati e consorzi di proprietari dei terreni, con

75 J.W. Goethe, Viaggio in Italia, 2006, p. 13676 M. Rossi Doria (a cura di), Le bonifiche in Italia dal ‘700 a oggi, 1984

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sovvenzionamento dello Stato in varie zone paludose-malariche della penisola, soprattutto al Nord ma anche nel pontino. L’ideologia alla base di questi interventi era in linea con quella dei precedenti governi di matrice liberale: modernizzare e bonificare le terre, coi soldi dello Stato, per poi darle ai privati che le potessero far fruttare. Tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, una volta trovati fondi economici sufficienti e consolidata la politica del regime, l’impostazione ideologica cambia radicalmente. Quel che occorre non è solo la bonifica e lo sfruttamento proprietario dei terreni, ma un piano sociale e politico di ruralizzazione che coinvolga le masse agricole e i contadini. Non basta solo bonificare, a vantaggio di latifondisti e capitalisti, bensì ruralizzare, anche al fine di realizzare una vera e propria redistribuzione delle terre. E i maggiori sforzi si concentrano sulle paludi pontine a sud di Roma. Nel febbraio 1931 Mussolini mette l’operazione Agro Pontino nelle mani dell’Opera Nazionale Combattenti comandata dal conte Valentino Orsolini Cencelli, e lì ha inizio la seconda fase. Cencelli entra in campo con la frusta: deve bonificare e dare le terre ai contadini, la “ruralizzazione” che ha ordinato il Duce. La bonifica idraulica rimane formalmente competenza degli appositi Consorzi, che l’avevano avviata in quelle zone fin dal 1926. All’Onc tocca invece carta bianca per realizzare la bonifica agraria, la trasformazione fondiaria, la colonizzazione e la messa in coltura e in valore di tutti i terreni. Già nel 1928 il governo aveva cambiato decisamente l’impostazione della bonifica: da un accordo coi privati latifondisti a un approccio decisamente statalista. Tutti i terreni improduttivi o abbandonati furono espropriati di circa due terzi, in alcuni casi superando le resistenze dei proprietari, alcuni restii alla bonifica. Da secoli i terreni paludosi-malarici pontini erano proprietà di importanti famiglie nobiliari romane, in particolare i Caetani. Le paludi, senza toccarle né vederle, davano loro comunque una discreta rendita, grazie ai mercanti di campagna e ai diritti di pascolo. Dal suo arrivo l’Onc diventa nell’Agro Pontino il braccio armato della ruralizzazione: accelerazione dei lavori, espropri e appoderamenti a rotta di collo su 70mila

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ettari, frazionati in unità produttive di estensione medio-piccola con promessa di vendita ai coloni che già sono pronti ad arrivare da altre zone del Paese77. Ma questo cambio di marcia non fu una decisione unanimemente accettata e applaudita. Tutt’altro. Le polemiche e le resistenze interne allo stesso regime e al blocco di interessi socio-economici che lo sosteneva furono moltissime e feroci. Al di là delle lotte di potere sottotraccia, lo scontro vedeva in campo da una parte il blocco agrario e i consorzi dei proprietari, stretti attorno al Ministero dell’Agricoltura, favorevoli a una capitalizzazione dei terreni bonificati a vantaggio dei grandi possidenti fondiari, dall’altra parte l’Onc di Cencelli che perseguiva un obiettivo politico di modellizzazione sociale delle terre bonificate attraverso l’assegnazione di queste a contadini e piccoli proprietari ex novo, da una mano statale. La linea dell’Onc fu quella che si impose in buona parte della bonifica pontina – sotto la già esaminata parola d’ordine di “ruralizzazione” – determinando la particolarità di questo “esperimento sociale di regime”78. I “segni urbani” costituiti dai borghi, dai poderi, dal reticolo delle strade poderali e dalle città, testimoniano questa lotta tra opposte visioni. Talmente che il “fasciocomunista” scrittore Antonio Pennacchi può arrivare a sostenere – con un’equazione che a taluni apparirà spericolata – che «quello avrà pure fatto le guerre, ma togliere la terra ai grandi proprietari e darla ai contadini è una riforma di struttura marxianamente intesa, è rivoluzione. Qui l’hanno fatta»79.

C’è qualche storico che sostiene che solo uno Stato forte, quale era indiscutibilmente il regime fascista all’apice del suo dominio, poteva essere in grado di bonificare le paludi pontine, sia per gli enormi interessi che si andavano a toccare, sia per gli ancor più enormi sacrifici umani che si andavano ad imporre: masse di operai bonificatori e, dopo,

77 A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, pp. 216-22078 Ivi, pp. 265-26679 Ivi, p. 220

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di coloni, sottoposte a migrazioni, malaria, duro lavoro e stenti. Con problemi, oltretutto, di governabilità di questi flussi e di vero e proprio ordine pubblico. Eppure c’è un fatto storico su cui quasi tutti concordano: ed è quel certo pressapochismo ed improvvisazione che avrebbe caratterizzato gli interventi messi in atto. In particolare sarebbe mancata la pianificazione generale dell’urbanizzazione di questo territorio, sarebbe mancato a priori un modello progettuale compiuto, determinando nei fatti gravi guasti e diseconomie80. Riassume infatti Pennacchi, nei panni un po’ dello scrittore un po’ dello storico: «Si sarebbe andati avanti dalla sera alla mattina. Mo’ intanto leviamo l’acqua e poi si vede; anzi, mo’ facciamo i borghi; anzi no: facciamo una città, Littoria; ma perché solo una? Fàmone un’altra, Sabaudia; anzi un’altra ancora, Pontinia, e via di questo passo»81. A pensarci bene emerge sempre una delle tipiche attitudini nazionali: a proclami roboanti seguono realizzazioni confuse o quantomeno rassicuranti. Non è importante cosa proponi, se vincere la partita, o se prometti un milione di posti di lavoro, o se vuoi bonificare una palude, e nemmeno è importante se riesci a raggiungere il tuo obiettivo, quello che importa è la strada che scegli, la proclamazione dei tuoi intenti. Tuttavia se si tratta di analizzare un fenomeno va tenuto conto che una cosa sono i dati di fatto, altra cosa sono i giudizi storici. Il giudizio storico è un’altra cosa: è la “comprensione” del fatto, l’individuazione degli elementi e delle dinamiche che lo hanno prodotto, la sua contestualizzazione e la sua comparazione a quanto, eventualmente, nelle stesse condizioni è stato fatto altrove. Dunque, nonostante le frenate e le accelerazioni, quello dell’Agro Pontino lo si può definire come un progetto con una sua coerenza storica, geo-fisica e sociale, figlia del regime fascista ma allo stesso tempo perfettamente in linea con molti filoni culturali di quello che potremmo chiamare il paesaggio anti-urbano dell’Italia.

80 R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 6981 Ivi, p. 201

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Da qualche parte bisognava pur cominciare. Fu necessario per prima cosa preparare una completa rete di canali collettori che, aiutati da impianti idrovori, portassero verso il mare le acque superflue, infliggendo in questo modo un colpo durissimo alla malaria. Il piano di bonifica fu condotto dall’Onc sulla base di uno studio già approntato nel 1918 dal Genio Civile di Roma, che a suo tempo però era rimasto lettera morta per quanto riguardava il miglioramento dei terreni sotto l’aspetto agrario e idraulico, soprattutto a causa delle resistenze dei proprietari. L’impasse fu superato grazie alla facoltà di esproprio concessa dalla legge di regime e alla determinazione di Cencelli a partire dal suo insediamento nel 1931. Il problema della sistemazione agraria della zona si presentava difficile per la completa assenza di una tradizione agricola e per la stessa natura dei terreni, che ancora non avevano rivelato le loro capacità produttive82. Ma non c’era tempo da perdere. Dopo la bonifica idraulica e il prosciugamento delle paludi era partita, quasi assieme, la cosiddetta bonifica integrale. Le terre andavano messe subito a coltura. E già nel ’31 cominciarono ad arrivare dal Veneto i primi coloni. L’Atlantide bonificata di regime cominciava velocemente a prendere forma.

Strade, ponti, canali, case coloniche, appezzamenti, dissodamenti, dicioccamenti, porcili, magazzini, migliaia di operai “pionieri” in baraccamenti di legno. Una selva di poderi spuntava giorno dopo giorno, come funghi. Nel mezzo bisognava tirare su i primi embrionali centri di urbanizzazione: i borghi. Inizialmente i borghi dell’Agro Pontino – Borgo Faiti, San Michele, Isonzo, Grappa, Sabotino, Bainsizza, Montello, Podgora, Piave, Carso – sono solo centri di servizio. Non li hanno concepiti gli architetti, ma i tecnici dell’Onc. Sono centri di servizio collocati all’interno della maglia di terreni e poderi in cui è stato diviso l’Agro appena bonificato, affinché possano essere facilmente raggiunti dai coloni in bicicletta o coi carri, ma

82 L. Nuti, R. Martinelli, Le città di Strapaese. La politica di fondazione del Ventennio, 1981, p. 27

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anche a piedi, da una distanza massima di 3-4 chilometri. Non hanno la minima presunzione o idea – ancora – di una qualsivoglia forma urbis. Sono prevalentemente collocati all’incrocio di strade e sorgono, spesso, sullo stesso sito che aveva ospitato i “villaggi operai”, ovvero i baraccamenti che avevano dato asilo alle migliaia di operai utilizzati per i lavori di scavo dei canali e bonifica idraulica. Ci sono quattro case in tutto: la chiesa, la canonica, la dispensa (una specie di bottega generica dove trovare dai farmaci di base ai generi alimentari fino alle attrezzature agricole e di ferramenta), l’ambulatorio, la sede e i magazzini dell’Opera. In alcuni casi c’è anche la caserma dei carabinieri. Ma fin dall’arrivo dei coloni arrivano, al seguito stesso, commercianti privati ed artigiani che aprono nei borghi osterie, botteghe di fabbro e tutto quello che serve83. Così i borghi diventano in breve tempo parte essenziale e fondante del paesaggio urbano pontino. Non è il caso di mettersi ad approfondire se nel mezzo di questa opera fascistissima c’entrerà qualcosa il modello “prassi-teoria-prassi” tanto caro al leninismo, ma c’è da dire che l’Onc dimostra un notevole pragmatismo pratico e teorico – seppure fedele a una matrice ideologica e urbana fondante – nelle sue realizzazioni in terra pontina. Nei borghi si vanno aggiungendo edifici come la Chiesa, la Casa del Fascio, il campo sportivo, l’ufficio postale, il cinema, gli spazi per il dopolavoro. Inoltre tutti sono serviti di energia elettrica, fognature, acqua potabile. Il cambio di direzione è suggellato anche da un imprimatur chiaramente politico: così, su impulso dell’Onc, tutti i vecchi borghi vengono ribattezzati con nomi che onorino i gloriosi fatti della Grande Guerra del ‘15/’18. Così negli anni seguenti, in particolare tra il 1933 e il 1935 sorge una seconda generazione di borghi – Borgo Pasubio, Montello, Vodice, Hermada, Montenero, il secondo Carso eccetera – concepita in maniera più articolata. L’architettura degli edifici è riconducibile a uno stile rurale ma ormai moderno, «né ruraleggiante né tardofloreale come la prima

83 A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 138

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generazione, è un rurale razionale, anche se non razionalista. Punta all’efficacia e all’efficienza; è roba di campagna, con la copertura a tetto, a capriate di legno e senza decorazioni, ma deve essere fatta bene e deve funzionare»84. C’è infine tutto quello che serve perché la comunità che vi gravita attorno possa farne il fulcro e lo snodo di tutte le sue relazioni: economiche, sociali, sanitarie, interpersonali e di intrattenimento, civili e religiose, affettive e politiche ma sempre sotto la rigida cappa autoritaria del regime. Insomma emerge in maniera sempre più scientifica un “problema-città”, il quale – per dirla con Pierotti, «esiste quando la creazione di un nuovo insediamento ha come scopo esclusivo o prevalente la costituzione di un nuovo organismo urbano, pensato nelle sue esclusive articolazioni costruttive e funzionali»85.

5. Littoria

Partivano nelle tradotte. Famiglie intere. Con gli attrezzi e le masserizie – poche, trattandosi di gente povera in canna – oche, galline, maiali, qualcuno anche il somaro. Tutti dentro i vagoni merci. Alla stazione di Cisterna, in primo tempo, e poi a quella di Littoria Scalo, trovavano i camion che li prendevano e poi li scaricavano a destinazione: ogni famiglia nel podere assegnato. La selezione delle famiglie coloniche destinate a popolare definitivamente le zone di nuova bonifica spettò al Commissariato per le migrazioni interne. Funzionari governativi furono inviati nelle varie province della pianura padana, dove centinaia di famiglie avevano manifestato il desiderio di migrare. Quasi tutti ex mezzadri o fittavoli, rovinati fin nel poco che avevano dalla crisi del ’29 o della politica monetaria “quota 90” del regime, abituati a vivere in condizioni assai disagiate. Le prime famiglie giunte nell’Agro per le aziende dell’Onc, negli ultimi giorni dell’ottobre 1932, provenivano dalle 84 Ivi, p. 22685 P. Pierotti, Le non-città della ragione, in R. Martinelli, L. Nuti (a cura di), Le città di fondazione. Atti del 2°convegno internazionale di storia urbanistica, Lucca, 1978, p. 120

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province di Rovigo, Padova, Treviso, Verona e Vicenza86. L’appoderamento venne fatto sulla base di un’unità poderale media di 20 ettari, ma tenendo conto della diversa fertilità dei terreni. Su un lato perimetrale era collocato il casale, fornito di stalla, pozzo, fienili, forno, concimaia, locali di abitazione su due piani. Questi poderi erano posti a coppia, sulla strada, e ogni 250 metri, mediamente, ce n’era una coppia87. In ogni podere era sistemata una sola famiglia colonica. Questa infrastruttura in cui si privilegiava il modello “individuale”, cioè basato su una gestione familiare, comportò una spesa sensibilmente maggiore da parte dell’Onc ma fu preferita perché meglio rispondente al criterio generale dell’operazione “bonifica”: legare alla terra, alla piccola proprietà, un discreto numero di diseredati, e al contempo quello di evitare il più possibile rapporti stretti tra famiglie. Arrivano col contratto a mezzadria, ma il Duce aveva formalmente promesso che col tempo sarebbero diventati proprietari del loro podere. Questa è la ruralizzazione che lui vuole: costruzione di una nuova classe di contadini piccoli proprietari (ed anche ex combattenti) che sia la base sociale granitica – lo “zoccolo duro” – del fascismo. Una vera e propria opera di costruzione, anzi potremmo dire di eugenetica, sociale. Come scrive Mariani, nel suo Fascismo e città nuove, «la campagna, sanata dall’insidia dei conflitti di classe, si realizza come il polo positivo in opposizione alla città e alla fabbrica, che sono invece le sedi nelle quali si forma e si riproduce la tensione sociale. La prolificità, la laboriosità, la vita “sana” che sarebbero state tipiche del mondo contadino diventano capisaldi del progetto fascista di riorganizzazione della nazione»88. Perfino i gatti furono certosinamente importati: nelle paludi in via di bonifica era pieno di topi, così fecero arrivare un paio di camion da Roma, riempiti di gatti presi al laccio tra il Pantheon e i Fori, tra le gattare che urlavano contrariate, e li liberarono

86 R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 15787 L. Nuti, R. Martinelli, Le città di Strapaese. La politica di fondazione del Ventennio, 1981, pp. 28-2988 Mariani, Fascismo e città nuove, pag. 82

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lì, a Borgo Grappa89. I primi tempi non furono affatto facili: alcuni coloni furono ricacciati indietro perché ritenuti incapaci o disturbatori, molti di loro non avevano la necessaria cultura agraria, altri pativano la scarsa produttività di molti terreni appena bonificati, qualcuno addirittura azzardò degli scioperi. Ma il sistema di controllo autoritario e la stessa immagine politica del regime non potevano permettere di sgarrare.

A un certo punto cominciarono a tirare su delle vere e proprie città. L’idea venne originariamente al conte Cencelli, che comandava da proconsole l’Opera Combattenti e la bonifica delle paludi pontine. Quando nel giugno del 1932 invitò il Duce per la posa della prima pietra della “città di Littoria” però quello non la prese affatto bene. E lo prova una sua “velina” urgente in cui proibiva di dare risalto alla notizia: «Tutta quella retorica a proposito di Littoria, semplice comune e niente affatto città, est in assoluto contrasto colla politica antiurbanistica del Regime. Stop. Anche la cerimonia della posa della prima pietra est un reliquiato di altri tempi. Stop. Non tornare più sull’argomento»90. Giù nell’Agro Pontino però i lavori procedevano a tamburo battente, e si andava avanti con le imprese e con gli appalti. L’architetto Oriolo Frezzotti, col suo piano regolatore approvato da Marcello Piacentini, sforna una sull’altro gli edifici del centro: il Municipio, la sede dell’Onc, la caserma della milizia e dei carabinieri, la sede della Direzione Agricola, del Monte dei Paschi di Siena, dell’Onc e delle associazioni combattentistiche, l’albergo, il cinema, la chiesa, l’ospedale, il palazzo delle Poste, la stazione ferroviaria. Il centro non era destinato ad essere abitato dai coloni, ma sarebbe stato sede di pubblici servizi, di impiegati, di mediamente benestanti. Già mentre Littoria era in costruzione, lo venne a sapere la stampa estera e la notizia rimbalzò in tutto il mondo. “Questi fanno le città” dicevano ammirati. Cominciarono a venire a

89 A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 22090 R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, pp. 141-142

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guardare perfino dall’America e dalla Russia. Tanto che lo stesso Mussolini rinunciò ai suoi dubbi e non esitò a cavalcare l’operazione91. Un articolo di G.C. Napolitano nella Gazzetta del Popolo del 17 dicembre 1932 rileva il senso dell’intervento e la sua apparente contraddizione con la politica anti-urbana del regime: «Il contrario di uno di quegli enormi paesi che ho visto in Sicilia, borgatone di sessanta, settantamila anime, abitate quasi interamente da contadini, che raggiungono i campi ogni giorno, e ogni sera li lasciano per il paese. Gli abitanti di Littoria, invece, abiteranno sulla terra, e verranno nel centro cittadino solo quando ne avranno voglia, o necessità. Il podere contro il latifondo. Una città contro l’urbanesimo»92.

Nel giro di sei mesi, il 18 dicembre 1932, Mussolini viene ad inaugurare Littoria, la prima “città nuova” sorta nella zona delle ex paludi. In quella occasione preannuncia la costruzione di altre 4500 case da aggiungere alle 500 esistenti e un aumento fino a 40-50mila abitanti, che si aggiungeranno ai 10mila presenti. Agli occhi di quelli che arrivavano ad abitarci o solo a rimirarla Littoria si presentava con i tipici canoni dell’architettura razionalista allora in voga. Senza orpelli estetici ma anche senza le grandiosità che poi si vedranno, per esempio, nella cittadella romana dell’Eur. La forma della città era ottagonale, con vie che si snodano attorno alle due piazze centrali, quelle ora chiamate piazza del Popolo e piazza della Libertà. Una rigorosità architettonica che, qui come altrove, sarà ingoiata dall’espansione informe e a macchia d’olio del boom edilizio del secondo dopoguerra, senza alcun ordine.

Quanta gente abitava e poi abiterà nella prima città nuova di regime? Gli abitanti il giorno dell’inaugurazione sono 6.308 (oltre a 11.492 temporanei) e si prevedeva che sarebbero aumentati a 15mila circa l’anno successivo, con l’estensione della bonifica e la costruzione di nuove case.

91 Ivi, p. 14192 Ivi, p. 90

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Nel 1934 Littoria viene elevata a capoluogo della nuova provincia, l’anno successivo la previsione del numero di abitanti è portata a 50mila, l’area urbana a 170 ettari di cui 150 per la residenza. Al censimento del 1936 la popolazione residente assomma a 19.654 unità. Da allora rimarrà pressoché stazionaria, e solo dopo la guerra l’incremento riprenderà, specialmente alla fine degli anni Cinquanta (nel 1951 i residenti saranno 35.187), e poi in maniera sempre costante (all’ultimo censimento, datato 2001, risulta una popolazione di 107.898 abitanti). Ma Littoria, ormai ribattezzata Latina, dopo la guerra è diventata nel frattempo un centro per l’industria leggera. Lo sfasciarsi della struttura agraria, e il cambiamento funzionale con il connesso boom edilizio hanno reso pressoché irriconoscibile perfino il centro cittadino93. Alla fondazione della città, i primi abitanti furono immigrati italiani originari del nord-est dell’Italia, come nei borghi del territorio pontino e nei comuni limitrofi istituiti con la bonifica, principalmente coloni dell’Onc. Combattenti ed artigiani, che diedero vita a quella che si chiama “comunità veneto-pontina”. Accanto ad essi inoltre la città di Latina vide presenti fin dal primo popolamento anche contributi da altre regioni d'Italia, soprattutto dal Lazio (principalmente da Roma e dalla adiacente area Lepina), dalle Marche e dall'Umbria, i cui emigrati furono addetti perlopiù all'artigianato, alla prima debole industria, al settore impiegatizio ed a ruoli vari negli enti pubblici e della bonifica e della colonizzazione. A partire dal dopoguerra, il crescente sviluppo industriale (dovuto anche, in seguito, ai finanziamenti erogati dalla Cassa del Mezzogiorno) finirà per attrarre persone e famiglie da tutta Italia, in gran parte meridionale: dal resto della provincia (anche dal sud-pontino), dalla Ciociaria, da Roma, dalla Campania, dalla Sicilia. Inoltre l'operatività, fino agli anni '60 e '70, di un grande centro di smistamento profughi nazionale porterà alla costituzione, in città, di consistenti presenze di esuli dalmati e giuliani, nonché di

93 V. Cotesta, Modernità e tradizione. Integrazione sociale e identità culturale in una città nuova. Il caso Latina, Milano, 1988

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espulsi italiani dall'Algeria e dall'Egitto e in misura superiore dalla Libia. Poi, dagli anni '90, saranno presenti anche qui diverse comunità di immigrati: in particolare vi saranno indiani, pakistani, nordafricani impiegati prevalentemente in piccole attività commerciali e come operai nelle industrie; rumeni, polacchi e moldavi (che formano la comunità più numerosa) impiegati soprattutto nell'edilizia e nell'assistenza agli anziani; infine persone originarie dell'Africa subsahariana e dell'area del Golfo di Guinea, impiegate nel settore agricolo.L’evoluzione, ovviamente, è stata anche linguistica: la varietà di contributi alla parlata locale è stata piuttosto ampia e ha subito varie modificazioni nel corso dei decenni. Le originali parlate settentrionali (veneto, friulano e emiliano) dei primi abitanti del ceto contadino ed artigiano sono sostanzialmente scomparse nella città ma sopravvivono, anche se debolmente, nei borghi, o a livello familiare. Al contrario il romanesco, presente dalla fondazione nel solo capoluogo, e dovuto alla principale provenienza del ceto dirigenziale e impiegatizio della nuova città, ha avuto una prima espansione nel dopoguerra e una seconda, più forte, negli anni Settanta, a seguito della quale è divenuto la parlata comune della città94.

In quello stesso soleggiato mattino di dicembre, di fronte alla piazza stracolma di operai e coloni in camicia nera, Mussolini non si ferma: annuncia la costruzione di altre città nell’Agro Pontino, altro che “cerimonie e reliquiari di altri tempi”. Negli anni a venire, in tempi celeri, sarebbero venute Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Pomezia. La notizia fece fracasso dappertutto. Perfino Le Corbusier scrisse al Duce, e si fece raccomandare dal governo francese, perché gliene facessero progettare almeno una, pure gratis. Ma non c’è stato verso95. Si preferì un’architettura autarchica, senza guizzi d’avanguardia, povera e compilativa, tranne nel caso – esteticamente più affascinante – di Sabaudia.

94 Aa. Vv., Latina, in it.wikipedia.org95 N. Ajello, Le Corbusier e il viaggio in Italia, in “La Repubblica”, 9 dicembre 2007

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Alla fine è stato calcolato che il regime fascista ne costruì circa 150 di città, tra grandi e piccole, in tutta Italia: Istria, Friuli, Sardegna, Campania, Puglia, Sicilia, oltre al più famoso Agro Pontino, in soli dieci anni, dal ’32 al ’43. Generalmente all’interno di piani di ruralizzazione agraria o industrializzazione specializzata96. Riconoscibili da qualche costante architettonica, una su tutte: la torre littoria. Ha cominciato Frezzotti a Littoria, appunto, con la torre del Comune. Poi Sabaudia, Pontinia e così via, con queste torri più alte del campanile della chiesa. L’idea, evidentemente, era di ricollegarsi all’età dei Comuni medievali: la torre municipale, come segno del potere comunitario e laico, primo su tutti gli altri, pure su quello religioso. Il segno dello Stato. Una visione estetica e politica che nel corso dell’evoluzione del regime è destinata a cambiare. Difatti, nelle “città nuove” degli ultimi anni del regime (ad esempio Carbonia in Sardegna, anno 1938) le “torri littorie” non sono più le torri campanarie del Comune ma quelle della Casa del Fascio, sede del partito unico di regime. Il fascismo si fa Stato etico, corporativo e centralizzato, e anche l’ideologia urbanistica si radicalizza97.

Alla visione dei posteri l’Agro Pontino passa come una delle prime esperienze di pianificazione del territorio in Italia, tuttavia solo molto parzialmente si può considerare sotto questa veste. Si può parlare infatti di pianificazione idraulica, nel senso che un piano per la “bonifica idraulica” e il convogliamento delle acque fu realmente predisposto, ma mancò completamente una pianificazione che congiungesse razionalmente ogni punto sparso in cui si realizzava l’intervento. Mancò la previsione del comune di Littoria; dopo averlo realizzato Mussolini annunciò la costruzione di Pontinia e Sabaudia senza conoscerne preventivamente l’ubicazione, in seguito nacquero Aprilia e Pomezia, e la scelta della loro localizzazione derivò da un frettoloso sopralluogo dei tecnici dell’Onc. La medesima

96 A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 3197 Ivi, p. 34

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cosa vale per il tratto stradale, che al di là dell’asse di scorrimento centrale, realizzato per motivi tecnici e secondo vecchi piani precedenti, fu improntato di volta in volta al seguito della localizzazione dei centri rurali. Insomma, l’ideologia c’era ma una pianificazione degna di questo nome non ci fu. Ci fu la volontà di Mussolini che inaugurando un centro fissava lì per lì la data di inaugurazione di quello successivo, poco badando se per rispettare i tempi della sua “pianificazione” le maestranze dovevano lavorare anche di notte e i podestà incollare le ultime mattonelle dei balconi qualche minuto prima che arrivasse il Duce. Ma se era possibile anche facendo doppi turni98.

6. Sentirsi pionieri

Sta di fatto che in mezzo a una rovente propaganda antiurbana il regime realizzò la costruzione di cinque “città nuove”, mascherate da centri rurali che hanno una funzione di controllo sulla vita dei lavoratori. Nelle città nuove risiedeva soltanto una massa di piccoli e medi burocrati di Stato che amministrava il lavoro degli immigrati coatti ma “scelti” per formare la “nuova società italiana”. Mettiamola così: quello voleva ruralizzare, ma per poter ruralizzare ha urbanizzato99. Ha perseguito l’obiettivo di “nazional-massificare” le masse100, dirigerle, egemonizzarle e controllarle, ma per farlo ha dovuto tenere i suoi “nuovi italiani” isolati, a distanza di sicurezza, protetti da insediamenti sparsi e abitudini patriarcali101. Non esistono indagini complete sulla vita di vaste comunità italiane durante il fascismo, ma da qualche stralcio di relazione di funzionari governativi emerge la particolare condizione di precarietà in cui versava la maggiorparte dei coloni pontini 98 R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 6999 A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 149100 G. L. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, 1982101 D. Ghirardo, K. Forster, I modelli delle città di fondazione in epoca fascista, in Storia d’Italia. Annali 8. Insediamenti e territorio, Torino, 1985

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nei primi anni. E se questa delle ex paludi è sempre menzionata come la migliore e più emblematica delle esperienze, non sarà difficile farsi un’idea di cosa fosse nelle altre regioni italiane la vita delle campagne.

Chiaramente, il carattere dominante in Agro Pontino è l’autoritarismo più palese, con il quale vengono imposti tutti i rapporti tra le alte gerarchie, i coloni e i ceti medi residenti nelle città nuove. Praticamente si tratta di almeno tre categorie sociali fisse e assolutamente non comunicanti tra loro: i gerarchi dell’Onc, dei sindacati, del partito che risiedevano a Roma e raramente a Littoria; i piccoli funzionari di queste organizzazioni decentrati con le loro famiglie nelle città nuove; i coloni sparpagliati nei poderi e nei piccoli borghi. Tra loro – come riporta Mariani nella sua ricerca sull’argomento – non esiste nessuno scambio sociale, né matrimoni, né parentele, né occasioni in cui intrecciare una relazione anche casuale. I rapporti tra funzionari e coloni sono particolarmente improntati a una profonda diffidenza e intolleranza, alimentate anche dalla rete di informatori e delatori tipica della vita sotto ogni regime. «I coloni invidiano la vita dei funzionari, il loro “fare niente” negli uffici e il loro tenore di vita; i funzionari trovano inconcepibile il disinteresse del colono per il suo podere e la sua smania “consumistica”»102. D’altra parte l’Agro Pontino è ormai diventato un enorme campo di lavoro dove ognuno ha un numero di riconoscimento e un “lasciapassare per l’interno”, «tutti gli operai che lavorano nell’Agro Pontino devono essere provvisti di questa tessera e la mancanza di essa rappresenta un motivo per il rimpatrio», in più ogni colono è oppurtunatamente schedato in merito al suo comportamento morale, politico e religioso103.

Nonostante ciò nell’Agro Pontino, in particolare nelle campagne e nei borghi, gli abitanti riescono a costruire una

102 R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, pp.166-167103 S. Nannini, Le migrazioni e la colonizzazione, in “Le conquiste della terra”, dicembre 1935, pag. 93

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comunità e il suo senso. C’è da notare che mentre quasi tutta la letteratura storiografica sull’argomento insiste sulla versione delle totali condizioni di isolamento e asocialità dei coloni nell’area pontina104, le testimonianze dirette, riportate anche da vari volumi, raccontano di una socializzazione informale ben riuscita, grazie alla comunanza di origini di molti coloni veneti e all’esistenza di svariati luoghi di aggregazione, comprese sale da ballo e osterie105. A chi credere? Di certo risulta troppo facile cavarsela dicendo “comunità” e basta. In realtà sui concetti delimitativi ed i caratteri stessi che andrebbero rigorosamente riscontrati prima di poter parlare a pieno titolo di “comunità” gli antropologi e i sociologi non sembrano essersi messi d’accordo. Per Mia Fuller, un’antropologa americana che nei suoi studi si interessa proprio di fascismo e colonizzazione, «quando si dice “comunità”, oggi si intende significare un gruppo che abbia almeno un tratto in comune; ne basta uno, per esempio “gay”, oppure “chi ha tale caratteristica genetica. Ovvero queste persone possono non avere null’altro che le leghi, ma forse hanno o vogliono avere una presenza politica. Nell’altro caso – quello di un quartiere, di una cittadina, o di una classe sociale ed economica – c’è la massima concentrazione di ambiguità, come se la parola “comunità” togliesse le divisioni interne, le differenze di potere, di opportunità ecc. In antropologia, grazie a Victor Turner, parliamo anche della “communitas”, come “sentimento della comunità”, quale hanno ad esempio i pellegrini che vivono e subiscono assieme il loro pellegrinaggio. Quindi qualcosa di più limitato ed anche più preciso nel tempo: esiste per un periodo breve e definito, e fra un gruppo che è “gruppo” per quella occasione e basta. Poi ci sono le “imagined communities” di Benedict Anderson che sono le nazioni, e anche questo è uno strumento utile ma non esaustivo»106.104 R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 166105 A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 132106 M. Fuller, cit. in A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 131

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Nella “terra nuova” di regime la communitas si crea, e pure con un forte senso di identità e di appartenenza. Scrive Pennacchi, nipote e figlio di coloni veneti migrati a Borgo Piave, raccontando della riscoperta di un forte senso di religiosità che in molti casi non era presente nelle terre d’origine dei coloni pontini, che in molti hanno operato una vera “riscrittura” della propria storia, personale e familiare: «Eravamo i disperati. Quelli che non avevano niente da perdere. Quelli che avevano, probabilmente, le peggio storiacce sui pedigree. E qui ci siamo rifatti una verginità. Ci siamo riscritti la storia. Guai quindi, per esempio, a chi diceva una parolaccia in casa mia»107. Probabilmente la verità sta nel mezzo: stretti tra la volontà isolazionista e dirigistica del regime e la politica degli interventi diretti del partito nella vita dei suoi cittadini (basti pensare ai balilla, alle varie organizzazioni giovanili e corporative, eccetera), i coloni sono riusciti a costruirsi da soli i loro spazi comunitari. Sembrerà una battuta, ma a quei tempi la televisione non esisteva, non era ancora nata e diventata il nuovo focolare domestico, altrimenti – chissà – la presunta volontà isolazionista avrebbe avuto lavoro più facile. Comunque sia, è il morbido potere del vissuto quotidiano che plasma un territorio e chi lo vive: «L’uomo, – come raccontavano certe apologetiche cronache di regime – metro per metro, metterà un ordine familiare e umano, stabilendo le sue consuetudini di vita, il geranio e la margherita davanti alla casa, e l’aiuola su cui disegna con la ghiaia bianca le sue scritte di Evviva la Stella e il Fascio»108. Ma non mancano i momenti di passaggio che hanno formato la communitas: il “pellegrinaggio” di partenza, quello che li ha portati dal deserto e dalla miseria delle terre d’origine alla “terra promessa” del regime, ma anche – una decina d’anni dopo – il passaggio della guerra per quasi sei mesi, dal gennaio al giugno del 1944, del fronte Anzio-Nettuno, col suo carico di pene e sofferenze. In

107 A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, 2009, p. 143108 C. Alvaro, Terra nuova. Prima cronaca dell’Agro Pontino, 2008, p. 21

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alcuni casi, specialmente in taluni borghi, tracce di queste comunità originarie rimangono strutturate ancora oggi, mentre nei comuni cittadini il vortice dello sviluppo economico e dei flussi migratori ha portato una situazione molto più stratificata.

Nonostante tutto, c’è generalmente nelle ex paludi un vago senso di utopia, non intesa come “utopia fascista” – forse anche quella – ma soprattutto il recupero di ricordi utopici ottocenteschi di comunità appartate e perfette, come punti di origine di una nuova società. Questa intenzione non è mai manifestata in maniera palese, né tra gli scritti né tra i tanti discorsi, ma dall’assemblaggio dei punti salienti dell’intera realizzazione esce l’immagine di un organismo con particolari parentele, che a qualcuno può addirittura far venire in mente l’idea del falansterio di Fourier. Mettiamoci ad osservare, per esempio, la planimetria di una delle città nuove, come l’affascinante Sabaudia, ma anche la ben più banale Pomezia o le altre, e vediamo che si basa su un sistema geometricamente chiuso, come una specie di borgo medievale. C’è sempre un nucleo centrale in cui sono raccolte le “funzioni sociali”: comune, chiesa, casa del fascio, associazioni combattentistiche, dopolavoro, scuola elementare, casa del balilla, caserma della milizia e dei carabinieri, poste e telegrafo, mercato, ospedale. A raggiera intorno al nucleo (città nuova) una serie di “borghi” equidistanti dal centro comprensivi di chiesa, scuola, poste, armadio farmaceutico. Tra il centro e i borghi una serie di unità produttive costituite dai poderi che forniscono la materia prima, di trasformazione e di scambio. I caratteri fondamentali di questa “comunità” dovrebbero essere: il lavoro, la moralità, il numero chiuso, in espansione ma come frutto della comunità stessa, la mutualità dell’impegno, infatti i coloni devono prestare la loro opera per interventi che riguardano l’intero nucleo, il recupero sociale dei componenti “salvati” dalla crisi generata dall’urbanesimo, un recupero che avviene grazie all’osservanza di rigide regole di vita. Il momento di

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massima concentrazione resta il lavoro agricolo, il ritorno alla “terra”109. Tentativi di questo tipo non erano inediti, anzi ricordano cose già avvenute nell’Inghilterra industriale e nell’America di fine Ottocento, dove però il carattere religioso impregnava quasi tutte le iniziative del genere. In ogni caso non si ricorda che esperienze simili abbiano avuto successo. Anche nelle città utopiche di Owen gli operai fuggivano dopo un po’ di tempo e comunque, se restavano per convenienza, boicottavano sistematicamente l’apparato che li ospitava. Nelle Paludi Pontine il caso diventa un po’ più paradossale: il colono pontino non è come l’operaio di New Lanark, non ha mai visto né immaginato l’inferno suburbano delle periferie industriali, è già nato e cresciuto sulla “terra” o al massimo in una delle tante città rurali italiane, quindi per lui la vita “insana” della città è una grossissima tentazione e non certo un mostro da evitare. E però il colono pontino, a differenza dell’operaio di qualche falansterio, non può fuggire, così quello che gli rimane da fare è agire passivamente o trascorrere la sua vita per mezzo di espedienti. La propaganda del regime gli dice che lui sarà l’uomo nuovo della nazione e che da lui nascerà la nuova razza, ma guardandosi intorno vede più che altro tipi laceri e miseri come lui, allora quel che rimane da fare è “reinventarsi” una propria memoria, basata sul senso di identità e su una gratitudine, quasi “sentimentale” rispetto a quel fascismo che tutto ciò ha permeato110. Nel frattempo, le autorità e la propaganda ufficiale continuano a sostenere che in Agro Pontino si realizza la «prima grande esperienza in grande stile di un popolamento selezionato, esperienza che non ha mancato di sollevare gli interessi degli studiosi di eugenetica»111. Solo che gli studiosi di eugenetica – in quel periodo pericolosamente in voga – rimarranno molto delusi dalla riuscita dell’esperimento, primo perché non ci fu nessuna

109 R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, pp. 170-173110 Ivi111 S. Nannini, Le migrazioni e la colonizzazione, in “Le conquiste della terra”, dicembre 1935, p. 93

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selezione se non di tipo politico, secondo perché la prolificità dei coloni appena giunti sul posto ebbe un brusco arresto112.

Ora, la voglia di creare una sorta di “villaggio utopico” è tutt’altro che campata in aria. Gli indizi ci sono, a cominciare dall’abolizione delle classi con l’istituzione delle corporazioni stabilita del regime, ed è plausibile pensare che Mussolini, mirando a una forte espansione imperialista, cercasse un metodo di trasformazione sociale da usare in situazioni successive, e in questo l’Agro Pontino assume un considerevole valore sperimentale. Uno delle parole d’ordine della politica del regime e della sua opera di modellizzazione sociale era la “piccola proprietà”. La piccola proprietà che era già stata uno dei cardini di una soluzione teorica di “riforma sociale” destinata a essere ripresa a più ripetizioni e in salse diverse: quella di Frédéric Le Play a metà dell’Ottocento. Una riforma che mirava all’abolizione della lotta di classe, all’introduzione di un nuovo “ordine morale” di tipo cattolico, al ripristino della centralità dell’istituto della famiglia, a sua volta sottoposto all’autorità sociale113. Questo progettò ebbe una vastissima eco nell’Europa industriale e intrigò anche quelli che mai si sarebbero detti reazionari. Di certo, fu sempre utilizzato parzialmente e – guardacaso – sempre con finalità antiurbane e reazionarie. Uno degli strumenti per la realizzazione di questo ordine suburbano e morale era, secondo Le Play, la “casa con giardino”. Nella casa individuale si ricostruisce la famiglia e l’autorità paterna, nella cura del piccolo orto si ricompone il perduto senso della proprietà, nei due elementi – casa e orto – rinasce la morale. Fu questo l’alibi teorico, funzionale a ideologie diverse nel tempo e nello spazio, per le operazioni di “colonizzazione suburbana” riservate alla piccola borghesia114.

112 R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 167113 F. Le Play, Famiglia e sviluppo sociale, 1981114 R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, pp. 172 - 173

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Sta di fatto che, da un certo momento in poi, l’Agro è diventata un’opera “da mantenere”, anche in senso finanziario, ad ogni costo. Un’opera che assume un carattere quasi esclusivamente politico per l’estero e ideologico per l’interno. La propaganda del regime all’interno del Paese si basava su un largo impiego di immagini fotografiche accuratamente selezionate, presente un’esaltazione anche fisica del ruolo del capo, ecco Mussolini a mensa con gli operai, Mussolini a torso nudo che trebbia il grano, Mussolini sul trattore che traccia il solco del perimetro di Aprilia – poi uno dice il presidente operaio – il tutto a corredo di centinaia di articoli ovviamente d’elogio ma sempre molto generici115: mai si trova un pezzo pertinente sull’architettura delle città nuove, sulla loro struttura, non diciamo su eventuali difetti dell’organizzazione ma perlomeno su suggerimenti da parte dei coloni, anzi le famiglie coloniche sembrano scomparire dall’orizzonte della visibilità, come mute comparse sulla scena116. A conti fatti, si trattava comunque di un successo del regime. Pure il socialista Sandro Pertini non si trattenne dall’ammettere che negli anni Trenta «Mussolini progettò la bonifica e riuscì a far crescere il grano dove prima c’erano paludi e malaria. Fu una grande opera, sarebbe disonesto negarlo. Ricordo che il mio amico Treves era preoccupato: Sandro, mi diceva, se questo continua così siamo fregati»117. Molta era anche l’attenzione dell’estero: l’anti-urbanesimo in chiave italiana interessava a molti. D’altronde il momento coincideva con la fase in cui in tutto il mondo capitalistico si accentuava la ricerca pratica e teorica su criteri che fossero una via di mezzo tra liberismo e pianificazione, sulla linea tracciata dai piani regionali agricoli e industriali della Gran Bretagna e della Germania, dai centri urbani minerari della Ruhr, delle nuove città industriali in Unione Sovietica, primi passi verso il decentramento urbano.

115 S. Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, 2003, p. 253116 R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 183117 C. Gregoretti, Conversazione con Sandro Pertini, in “Epoca”, 23 marzo 1984

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Passi che si affrettano anche nel regime italiano, col passare del tempo. Alla fine degli anni Trenta si parla di borgate suburbane con tutti i servizi della città, quartieri autonomi ubicati a qualche decina di chilometri fuori dal centro urbano e ad essi collegati con mezzi di trasporto, diametralmente all’opposto dell’esaltazione precedente della vita rurale e delle casette con podere. Passati i tempi in cui Pontinia veniva orgogliosamente presentata come il Comune che «non avrà bellurie, non avrà fregi, statue, colonne; non avrà sale da gioco, e ritrovi notturni. A Pontinia la notte si dormirà perché il giorno si lavora e la sera si è stanchi. Non avrà vetrine scintillanti, con cappellini per signore più o meno improvvisate, profumi e rossetti esotici: il paese è sorto sul presupposto che nessuno comprerebbe di codeste cianfrusaglie»118. Tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta, mentre il Paese si avvia nella catastrofe della guerra e il regime continua a costruire alcuni villaggi rurali nei latifondi del Meridione, non c’è dubbio che le paludi pontine siano ormai lontanissime, come un sogno infantile, ora si chiedono «borgate satelliti, che vogliamo spaziose e ridenti, in cui l’operaio, il capo-officina, l’ingegnere stanno ancora a contatto di gomito»119. Così il fascismo passa dalla terra alla borgata di periferia, pur senza abbandonare l’ordine autoritario e patriarcale. Gli ultimi anni del regime vedono un ritorno del fascismo nelle città con una lunga serie di sventramenti urbani e risanamenti, oltre che con la creazione di borgate e villaggi nelle immediate corone urbane di tutto il paese, con la netta caratterizzazione della città divisa in centro e periferia120. La vera data di nascita della maggior parte delle periferie urbane in Italia è appunto riferita a questo periodo. Quelle stesse borgate su cui, negli anni della Repubblica che verranno dopo la guerra, uno come Pasolini si dannerà l’anima. A Roma, in 118 Autore ignoto, Ruralità di Pontinia, in “La Tribuna”, 20 dicembre 1934119 A. Melis, Funzione sociale dell’urbanistica e limiti dell’urbanistica, in “Critica Fascista”, 1 maggio 1942, p. 111120 A. Cederna, Mussolini urbanista. Lo sventramento di Roma negli anni del consenso, 1979, p. 85

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seguito agli sventramenti di vecchi quartieri nel centro storico, intere porzioni di popolazione, spesso sottoproletaria, vengono deportate d’autorità nelle prima periferie. Questo vuole essere lo spazio della nuova “grande classe media”121. La soluzione prospettata contro l’affollamento urbano è quella delle borgate e città-satellite, ovvero spostare le città verso la campagna, far diventare la campagna uno spazio suburbano. In testa sempre il mito campestre e paesano da non abbandonare. Nel 1940 in un ennesimo articolo “Contro la città” sulla rivista Critica fascista si legge: «Per sfollare le grandi metropoli bisogna attirare in campagna anche le medie classi cittadine. Occorre creare villaggi semirurali, situati sulle grandi arterie ferro-tramviarie, alla periferia di una grande città, per una distanza non superiore ai 50 km e non inferiore ai 10 o ai 15, altrimenti sarebbero presto assorbiti dall’espansione delle metropoli. Queste borgate, destinate agli operai specializzati, ai capi tecnici, alle famiglie di impiegati e anche di professionisti, avrebbero un duplice scopo: anzitutto di sfollare le grandi città e far godere alle famiglie quei vantaggi che sono proprio della vita cittadina e campestre»122.

Il Duce, comunque, aveva davvero preso a cuore l’impresa della “terra nuova” pontina: controllava l’andamento, si faceva inviare dispacci, interveniva sui progetti degli architetti, faceva improvvisi sopralluoghi nei cantieri, a ogni ora del giorno. Come Berlusconi da giovane, quando andava a controllare alle 5 di mattina che il giardiniere avesse annaffiato l’erba dei prati a Milano Due.

7. Benvenuti a Strapaese

La città nuova fascista ormai realizzata, con l’intonaco fresco sui muri appena tirati sù, offriva, alle soglie della guerra, agli occhi di chi la visitava fuggevolmente e di chi

121 R. Mariani, Fascismo e città nuove, 1976, p. 245122 C. Manetti, Contro la città, in “Critica Fascista”, 15 agosto 1940, p. 31

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veniva ad abitarla, un’immagine che probabilmente oggi è avvertibile solo a sprazzi, a brandelli. C’è stata la guerra, c’è stato soprattutto l’impetuoso e disordinato sviluppo dei decenni successivi, e i mutati indirizzi produttivi: tutto si è allargato a macchia d’olio, una macchia informe. Eppure questa immagine resiste ancora oggi, e racchiude il cuore di tanta ideologia italiana, non solo a Littoria poi diventata Latina. E’ l’eterna – e trasversale – immagine dello Strapaese. Il ciclico incantesimo dello spirito del luogo (genius loci, per dirla in latino), il mito di ciò che è caratteristico, la vera vita di soggetti portatori di ordine e onestà. Questa immagine è già il portato specifico del modello concettuale che ha pianificato, progettato ed eseguito la maglia poderale, la rete dei borghi e dei centri urbani, i criteri di selezione dei coloni, la gestione del loro esodo e delle loro vite, insomma l’operazione Agro Pontino nel suo complesso. Di più, essa può costituire un vero e proprio vanto del fascismo, come fatto arci-italiano, miracolosamente al di fuori del fervido dibattito sulla città funzionale ed anche da ogni contatto con le parallele esperienze condotte oltralpe. Nella città nuova si celebra, difatti, il trionfo dell’inesausta genialità provinciale, protagonista di quella rivoluzione conformista la cui capitale è lo Strapaese, «e Strapaese non si trova in Europa, ma in Italia, nell’antica giovanissima Italia delle tradizioni e delle trasformazioni»123. Insomma tutto qui rimanda all’esaltazione della cultura rurale e municipale, a Longanesi, Maccari e Malaparte, «al vino buono e soprattutto nostrale», al genius loci e contemporaneamente ai difetti italiani assunti come limite e come forza, al selvaggio (allora fascista) che tira cazzotti intellettuali alla modernità. Lo Strapaese è un movimento culturale ed artistico, sviluppatosi in Italia dopo il 1926, di natura patriottica e a difesa del territorio nazionale. Ma l’insegna di Strapaese, piuttosto sterile sul piano letterario, si è trasformata nell’elemento portante della vicenda delle città di fondazione del Ventennio e poi, sotto diverse maschere,

123 C. Malaparte, Strapaese e Stracittà, in “Il Selvaggio”, 10 novembre 1927

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in tanta parte dell’architettura ideologica nazionale. «Strapaese è stato fatto apposta per difendere a spada tratta il carattere rurale e paesano della gente italiana; vale a dire l’espressione più genuina e schietta della razza, l’ambiente, il clima e la mentalità ove son custodite per istinto e per amore, le più pure tradizioni nostre. Strapaese si è eletto baluardo contro l’invasione delle mode, del pensiero straniero e delle civiltà moderniste, in quanto tali mode, pensieri e civiltà minacciano di reprimere, avvelenare o distruggere le qualità caratteristiche degli italiani, che nel travaglio contemporaneo debbono essere l’indispensabile base e l’elemento essenziale; come sono state, se si pensi, le impareggiabili nutrici del genio, dell’arte e dello spirito»124. C’è un aspetto anche violento dello Strapese e dell’arcitaliano che oggi è implicito ma allora era esplicito e rivendicato: «Ormai l’Italia è messa bene / ve ne potete andare a letto / ma rammentar sempre conviene / che la fortuna va presa di petto. / Mogli briache e botti piene / a Strapaese non fanno difetto: / qui ci sono legni per tutte le schiene / legni d’olivo benedetto. / A raddrizzar le gambe ai cani / bastano ormai gli Arcitaliani»125. La dimensione strapaesana rimane il dato più evidente comune a tutte le città nuove, dove la ruralità viene realizzata per trasposizione, cioè ruralizzando un’immagine cittadina profondamente radicata nella storia italiana, quella della gloriosa città stato comunale, rozzamente rivisitata dall’ideologia fascista126. Tutto ciò, che in anticipo sui tempi si sarebbe già potuto definire come “immaginario nazionale”, era già percepibile agli occhi dello scrittore Corrado Alvaro che in suo libretto-reportage dall’Agro Pontino appena bonificato, pubblicato nel 1934 dall’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, intitolato Terra Nuova, notava con un certo lirismo che «i borghi nuovi e non ancora in vita sembrano costruzioni di ragazzi posati su un tappeto verde; quelli già popolati 124 M. Maccari (sotto pseudonimo di Orco Bisorco), Gazzettino ufficiale di Strapaese, in “Il Selvaggio”, 1 settembre 1927125 C. Malaparte, L’arcitaliano e tutte le altre poesie, 1963, p. 19126 L. Nuti, R. Martinelli, Le città di Strapaese. La politica di fondazione del Ventennio, 1981, pp. 156-157

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acquistano subito color di paese, riproducono angoli di villaggi veduti altrove, e costruiti dalla frequentazione lunga degli uomini, e che sono il paesaggio fisso della vita campestre. Chi ricorda l’Emilia, la Romagna, il Veneto, specie il Veneto ricostruito dopo la guerra, ne ritrova qui lo schema; il senso è lo stesso, quello l’aspetto, e l’uomo ha reso vecchio questo paesaggio nuovo imposto alla natura in un anno»127. E ancora: «E’ l’utopia dell’Italia di piccoli proprietari divenuta fatto vivo: difatti in questo lembo di terra nasce un nuovo ordine, si tenta una costituzione umana che ha più d’un punto di contatto coi sogni di tutti i pensatori che fantasticano su uno Stato ordinato, senza servi né padroni, la comunità che assorbe gli individui e tuttavia non ne fa un numero»128.

Oggi le strade dell’Agro, intorno a Latina, sono un reticolo di cardi e decumani che si incrociano nel deserto dei campi. «La sera qui c'è poco da fare, puoi solo annaffiare le piante», mi dice la cassiera di un bar, in una di queste strade di pianura vagamente metafisiche, tra le serre di pomodori e i saloni di abiti da sposa e gli stabilimenti chimici, mentre tutt’attorno potrebbe risuonare una ballata country. Sembra, a vederla, una versione contadina dell’idea eterna di periferia: una modernità perennemente fuori tempo, come una giacca da matrimonio con il cartellino del prezzo ancora attaccato alla manica. Un certo genio del luogo si sente ancora, sarà l'architettura di travertino e mattoni, oppure i tombini sul corso coi littori di ghisa. A qualcuno magari non dispiacerebbe farla diventare una specie di Disneyland del fascismo, coi pellegrinaggi, l’indotto, sarebbero anche maturi i tempi. Le cronache dei giornali sollevano in maniera sempre più forte il problema delle infiltrazioni criminali nel tessuto sociale ed economico della zona. L’Agro Pontino di domenica è un deserto con pochi alberi in cui regna un silenzio irreale. Voci dai ristoranti prenotati per le prime comunioni e folle di auto in fila per entrare nei centri commerciali sempre in

127 C. Alvaro, Terra nuova. Prima cronaca dell’Agro Pontino, 2008, p. 38128 Ivi, p. 40

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espansione. Viene in mente una scena di “Latina/Littoria”, documentario del regista Gianfranco Pannone girato nel 2001, un dialogo tra lo scrittore Antonio Pennacchi e un amico librario nel suo negozio, proprio dentro uno di questi centri commerciali di recente costruzione, uguale a tanti altri, affollato come tutti. Pennacchi invoca, come al solito, il ritorno alla purezza dell’architettura di fondazione, al razionalismo e al mito fondativo, all’identità perduta della città. Il libraio indica con una mano il panorama attorno a loro, che in fondo potrebbe essere lo stesso di una qualunque città italiana, e gli risponde: «Anto’, questo che vedi invece è perfettamente coerente con Latina. La Latina che dici tu non c’è, è rimasta solo l’architettura. Latina è una produzione Mediaset. Questa è Latina».

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CAPITOLO 3Là dove c’era l’erba ora c’è una città

So’ tanti che vengono a fà ricerche sulle borgate, e io je dico sempre famo a cambio…

si volete capì qualcosa delle borgate, ce venite a stà du’ anni e io me trasferisco a casa vostra.

Walter Siti, Il contagio

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1. Via Gluck

Là dove c’era l’erba ora c’è una città. Riascolto quel vecchio ritornello e me ne accorgo. Come è andata la questione, a livello pop, era già stato detto, mentre la trasformazione era ancora in corso, oltre quarant’anni fa da Adriano Celentano, nel Ragazzo della via Gluck, canzone che dichiarava lo spaesamento di chi vedeva tutto cambiare nel breve volgere di pochi anni. Come ha spiegato l’architetto e scrittore Gianni Biondillo, erano gli anni della ricostruzione postbellica e tutto, da quel momento, non sarebbe stato più come prima. Anche Celentano era lì, nel mezzo della più grande trasformazione sociale e urbana degli ultimi tempi, e non capiva. E come al solito, quando non si capisce si diventa nostalgici, si vagheggia un passato bucolico. Un altro cantautore, suo coetaneo e amico, se ne uscì con un’opinione più razionale e ironica. Giorgio Gaber, con la sua Risposta al ragazzo della via Gluck, narrava di un ragazzo che non trova un appartamento con un fitto bloccato in cui poter andare a vivere con la sua ragazza, perché hanno demolito una casa per farci un prato. Dove andrò a dormire, si chiede il ragazzo, che ce ne facciamo dei prati se non abbiamo un tetto dove ripararci? La storia della musica leggera, e l’immaginario collettivo, hanno adottato Celentano, e la sua canzone è rimasta nella memoria più di quella di Gaber. Peraltro è innegabile che fosse anche più bella, la canzone del molleggiato. Ma la ragione ce l’aveva Gaber129. Il laboratorio della mutazione urbana si era già avviato dall’Ottocento e dalla rivoluzione industriale, coi milioni di persone che dalle campagne si spingevano verso i bordi delle città, spesso in condizioni esplosive per l’igiene e l’equilibrio sociale, questo dapprima in Europa e poi, solo in parte, nel nostro Paese. Ci si era, dunque, già esercitati a pensare una città nuova, e in molti casi a realizzarla. Da noi ci si cullava ancora con lo strapaese e la stracittà, provinciale e di regime, con gli

129 G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2001, pp.15-16

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elogi della vita rurale. Ma il secondo dopoguerra, in Italia come nel resto d’Europa, rappresentò una stagione ancora più dirompente dal punto di vista dell’urbanizzazione. C’era da rimettere in piedi un continente e con esso l’intera produzione industriale, c’era da rimettere in moto la macchina. In Italia le migrazioni verso l’estero o verso il Nord del Paese furono di dimensioni bibliche. C’era anche da fare i conti, in prospettiva, con uno sviluppo dei mezzi di comunicazione che avrebbe cambiato la percezione delle masse, dello spazio e del tempo. «L’Italia si rimpicciolì, e mentre cambiava il senso dello spazio cambiava anche la sua misura»130. Ma prima di tutto questa gente, che voleva lavorare, uscire dalla miseria, dare un futuro ai figli, aveva bisogno di case. E subito.

È legittimo chiedersi se il modo in cui questa fame di ricostruzione fu appagata sia stato il migliore, ma non possiamo chiederci, con Celentano, come mai continuassero a costruirle, quelle case. Perché prima ancora una larga e povera fetta di popolazione viveva in tuguri, senza servizi igienici, spesso in baracche di fortuna popolate di migranti dalle campagne, perché i centri storici, ora così amati e ricercatissimi dalla borghesia, erano ancora posti cupi e sovraffollati, dove si stava in dieci in una stanza, perché le campagne, oggi rimpiante sotto forma di agriturismi da frequentare nei weekend, erano luoghi di fatica immane, di fame, di scorbuto, di pellagra. Si poteva fare meglio certamente, e in alcuni casi lo si è fatto, soprattutto nel Nord Europa, ma si poteva fare anche peggio, e purtroppo lo si è fatto, non a caso soprattutto da noi, in Italia. Ma la volontà che stava a capo del cambiamento epocale del territorio e dell’urbanizzazione nazionale era, almeno in teoria, quella di dare una risposta che risolvesse i problemi contingenti di milioni di persone, cercando al contempo di elevare la loro socialità, di crearne una nuova. Il tutto sulla base dell’utopia di un inarrestabile cammino verso il progresso che avrebbe scalzato

130 E. Galli Della Loggia, Ideologie, classi e costume, in V. Castronuovo (a cura di), L’Italia contemporanea, 1976, p. 416

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definitivamente l’arretratezza economica insieme a tradizioni eccessivamente ancorate a uno spazio. Quell’utopia ha una regia forte, all’inizio: lo Stato nazionale. Qualcosa di somigliante, nelle intenzioni, a un solidarismo di matrice socialdemocratica che portasse alla costruzione di un welfare state, minato poi nella realtà da un’insopprimibile spinta all’individualismo più egoista, alla cronica e – per l’appunto – strapaesana arte di arrangiarsi.

È un crollo la scena che da inizio al film capolavoro di Francesco Rosi, Le mani sulla città, anno 1963, con lo spregiudicatissimo costruttore e politico napoletano che specula sui cambi di destinazione d’uso dei terreni, poi guarda il cemento ed esclama: “Quello è l’oro, oggi!”. A partire dagli anni Cinquanta le città italiane diventano teatro di un’attività edilizia che non ha precedenti nella storia del Paese. La ricostruzione sulle macerie della guerra, l’espansione demografica della popolazione e le forti migrazioni interne da Sud a Nord e da campagna a città, tutto contribuiva a creare una domanda poderosa di nuove abitazioni. Nei primi anni del dopoguerra circa un quarto degli italiani viveva ancora in case sparse o in piccole frazioni esterne agli ottomila comuni, spesso in situazioni di povertà estrema131. Poi il processo di urbanizzazione trasforma il volto della penisola, nei quindici anni che vanno dal 1955 al 1970 cambiano residenza 17 milioni di italiani. Gli spostamenti avvengono prevalentemente dal Mezzogiorno verso il triangolo Milano-Torino-Genova, dalle zone interne verso la fascia costiera, dai centri minori verso le città più grandi132. Nell’immaginario collettivo, il progresso stesso della nazione a un certo punto si identifica con l’attività edificatoria, con la cancellazione di campi e colline e l’avanzare del cemento, la crescita veloce di edifici e quartieri. D’altra parte, c’è una ragione politica generale che favorisce il fenomeno. Costruire case genera consenso

131 P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni ’50, 2001, p. 164132 V. De Lucia, Se questa è una città, 2006, p. 73

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politico: è un’attività che crea occupazione, sostiene la crescita economica generale attraverso l’indotto, fa arricchire le potenti famiglie dei costruttori e dei detentori di suoli in grado di movimentare consistenti pacchetti di voti nelle campagne elettorali. Il partito della Democrazia Cristiana, che si trova a detenere un potere sovrastante nel governo del Paese, non guarda certo per il sottile nella raccolta del consenso, tanto al centro quanto in periferia. Ed ecco che dodici anni dopo quel film, tra i capi d’accusa che Pier Paolo Pasolini imputava al partito democristiano, c’era appunto «la distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia»133. Ma non dovette servire a molto quel processo mai celebrato. Con particolare gravità l’opera di manipolazione del territorio si accanisce da Roma in giù, nelle regioni meridionali del Paese. L’impresa edile assicura un mercato sicuro e lucroso, necessita di manodopera generica, si nutre della benevolenza di politici e amministratori. Insomma il laterizio, il foratino, quindi il blocchetto e pure il tondino del consenso contribuiscono – dai primi anni della Repubblica – non solo alle distorsioni dello sviluppo economico, ma anche a quelle del comando politico e dell’autorità istituzionale, in un intreccio di mancati controlli, orrori e disastri del territorio, speculazioni, bustarelle e così via.

2. I piani Ina Casa e il neorealismo

C’era un’intera nazione da ricostruire e una popolazione senza lavoro nel dopoguerra. Anche a questo servirono i piani Ina Casa, ovvero il più consistente piano di edilizia pubblica che fino ad allora l’Italia avesse conosciuto. Costruire case e dare lavoro a un popolo, con una manovalanza spesso fatta di contadini inurbati, senza competenze edili particolari. Energicamente varati dal Parlamento nel febbraio 1949, in particolare grazie alla spinta dell’allora giovane ministro dei Lavori Pubblici Amintore Fanfani, con lo scopo di dare un’abitazione

133 P. P. Pasolini, Lettere luterane, 2009, p. 127

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dignitosa e riscattabile ai lavoratori e al tempo stesso provvedere alla mancanza di occupazione. Ebbene, i piani Ina Casa – da molta stampa ribattezzati anche “piani Fanfani” – furono uno dei più grandi successi della Ricostruzione: due milioni di vani, 355mila alloggi resi disponibili in poco più di dieci anni, perdipiù senza particolari scandali, bardature burocratiche o notizie di ruberie134. In Italia esisteva dall’inizio del XIX secolo un’istituzione pubblica con lo scopo di far fronte appunto al problema della casa, l’Istituto Case Popolari, però alla fine del secondo conflitto mondiale si ritenne che l’Icp fosse insufficiente ad affrontare il pesantissimo problema della ricostruzione e si creò un istituto apposito: l’Ina Casa. Esso non fu certo organizzato come un ufficio tecnico di un ente assicurativo, da cui prendeva il nome, ma come un’originale e completa struttura incaricata dell’attuazione di veri e propri piani di urbanizzazione popolare. Inizialmente il progetto prevedeva una durata settennale, ma successivamente venne prorogato fino al 1963. Per finanziarlo furono usati i fondi dei programmi di ricostruzione europei e delle apposite trattenute su salari, stipendi e compensi dei lavoratori. Questa complessa struttura mobilitò un grande numero di neo-laureati, studenti, giovani ingegneri, architetti, geometri, impresari eccetera, a dirigere i quali fu chiamato l’affermato architetto e docente universitario Arnaldo Foschini. Nel deprimente panorama dell’azione pubblica in materia di edilizia – tra centinaia di enti corporativi, leggi confuse e di breve durata, legami mai troncati con la speculazione fondiaria – l’esperienza Ina Casa si distinse positivamente135. I dati del piano, individuati da pubblicazioni in materia, mettono in evidenza la grande vitalità e l’impatto sulla vita economica e sociale del Paese. Infatti, solo pochi mesi dopo l’approvazione della legge, nell’estate del 1949 verrà aperto il primo cantiere, dei 650 che risulteranno aperti nell’autunno dello stesso anno. Il ritmo di costruzione della macchina dell’Ina Casa sarà

134 C. Giustiniani, La casa promessa, 1981, p. 82135 De Lucia, Se questa è una città, 2006, p. 80

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estremamente efficiente, e con la sua entrata a regime produrrà circa 2800 unità abitative a settimana con la consegna sempre settimanale di circa 550 alloggi alle famiglie assegnatarie. Nei primi sette anni di vita verranno investiti complessivamente 334 miliardi di lire per la costruzione con 735.000 vani corrispondenti a 147.000 alloggi. Alla fine dei quattordici anni di durata i vani realizzati saranno, invece, in totale circa 2.000.000, pari a 355.000 alloggi. Il piano Ina Casa alla sua scadenza avrà aperto 20.000 cantieri che porteranno, come era negli intenti dei legislatori, ad impiegare la manodopera stabile di circa 41.000 lavoratori edili all’anno, che da soli assorbivano il 10% delle giornate-operaio dell’epoca136.

L’Italia fu, in buona parte, ridisegnata, con l’ausilio delle migliori menti dell’architettura nazionale che progettarono consapevoli di avere a disposizione un comparto edile profondamente arretrato e artigianale. Furono costruite case isolate nei piccoli centri e sorsero nelle grandi città i primi “quartieri” veramente moderni: a Torino, a Milano, a Bologna, a Firenze, a Genova, a Roma, a Napoli, a Palermo, riuscendo a offrire standard tecnici fino ad allora impensabili per l’edilizia popolare. Quella creata coi piani Ina Casa appare a urbanisti e architetti italiani dell’epoca la prima vera occasione di creazione urbanistica, e i quartieri in costruzione vengono illusoriamente visti come parti utili a contrastare un incontrollato e informe processo di crescita urbana, composto da una miriade di singoli episodi edilizi. Valore generale è attribuito all’unità quartiere non solo per il suo essere un grande materiale urbano per la ricostruzione delle città italiane, ma per essere anche, con le sue case, servizi, spazi aperti, qualcosa di più di una parte di città in espansione: esso è unità sociale, ambito di formazione e vita di comunità di cittadini. Come una sorta di isola utopica137.

136 P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni ’50, 2001, pp. 15-18137 Ivi, pp. 21-22

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Le periferie italiane proposero ai cittadini uno “stile” inconfondibile che non si tardò a indicare proprio con il nome dell’Ina Casa. Un’architettura “democratica” che voleva contrapporsi alla monumentalità e simmetria dell’architettura dell’epoca fascista. Così nacquero quartieri spesso anacronistici, quasi come se dalla campagna quelle case non riuscissero a raggiungere la città, ma rimanessero profondamente “paesane”. Una rilettura “rurale” del moderno, in alcuni casi miracolosa. Come a Roma, al quartiere Tiburtino (1949-54) di Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi. Le stesse case che Pasolini definisce «altari della gloria popolare» in una sua poesia138, un’architettura apparentemente “spontanea”, “casuale”, in realtà disegnatissima in tutti i suoi particolari, inserita in un legame stretto con la tradizione, che portava ad una reinterpretazione dei temi razionalisti basata sulla coerenza compositiva e sulle interpretazioni sociologiche. O come a Cesate (1950-54), un quartiere alle porte di Milano, pensato dai migliori architetti allora disponibili sulla piazza meneghina, come Franco Albini, lo studio BBPR, Enrico Castiglioni, Ignazio Gardella, un complesso edilizio ordinato e organico di nuclei unifamiliari raggruppati in gruppi di case con spazi comunitari comuni, poi sommerso dal nulla edile che, negli anni a venire, dalla città l’ha raggiunto e avvolto139.

Insomma, l’allora ministro del Lavoro riuscì prodigiosamente a combinare San Francesco e Lord Beveridge, come a dire l’ispirazione cristiana a favore dei poveri con il keynesismo di stampo anglosassone che fondava il moderno Welfare State. «Intesi il piano casa – proclamò Fanfani qualche anno dopo in Parlamento – come un vincolo rinnovato di solidarietà, un invito ai senza tetto a riconciliarsi con la società che li attende operosi, controllori e attori della sua vita e del suo progresso»140. D’altronde

138 P. P. Pasolini, Le poesie, 1975, p. 339139 G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2001, p. 69140 F. Ceccarelli, Il sistema del mattone, in “La Repubblica”, 9 dicembre 2008

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Fanfani era un aperto sostenitore dei modelli corporativi in economia, compresi quelli promulgati a suo tempo dal regime fascista, intesi come una terza via, l’espressione di un volontarismo economico con richiami di matrice cattolica che si opponesse sia al capitalismo concorrenziale che al collettivismo comunista141.

Quella dei piani Ina Casa era un’architettura di matrice neorealista, che in un certo senso voleva riflettersi nel suo popolo minuto, dignitoso, umile, con l’ispirazione di tenere assieme una comunità nazionale con una sensibilità che sembra insieme paternalistica e populistica. Ripensarci oggi è come fare un salto in un passato che pare remoto. Come scrive Gianni Biondillo nel suo Metropoli per principianti, «l’architettura neorealista era un po’ come l’angelo della storia: si muoveva verso il futuro con lo sguardo pietoso rivolto al passato. Ma un passato non aulico, magniloquente, accademico. Quello che cercava di recuperare era la ricchezza del deposito millenario della cultura popolare, umile, quotidiana. Inconsapevole di raccoglierne gli ultimi segni, prima della rivoluzione sociologica del boom economico, quella della “omologazione” pasoliniana»142. Non si può non intravedere, in operazioni del genere, anche un certo intento pedagogico. E ciò ci porta a constatare non solo, nella gran parte dei casi, l’interesse di quelle architetture e di quegli spazi, ma talvolta anche il loro degrado, l’incuria alla quale sono soggetti, la frequente scorrettezza di inconsapevoli interventi di manutenzione e modificazione da parte di abitanti e di amministrazioni pubbliche143. Anche Paola Di Biagi, nel suo accurato studio sull’argomento, sostiene che «l’esperienza dell’Ina Casa attraverso una “pedagogia del disagio” ha contribuito a rendere gli italiani un po’ più consapevoli che una vita decente in un quartiere urbano o metropolitano non si 141 P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni ’50, 2001, p. 46142 G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2001, p. 69143 P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni ’50, 2001, p. 28

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ottiene solo acquisendo in proprietà la casa in cui si abita. Invece non è riuscita, attraverso una pedagogia dei rapporti sociali e politici, a convincere gli italiani che sia possibile partecipare tutti alla costruzione e gestione dello spazio urbano, sicché ne risultino salvaguardate le necessità e le convenienze di tutti o almeno di una maggioranza. E non di pochi»144.

144 Ivi, p. 204

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3. Corviale e l’ideologia

Un’altra risposta agli stessi problemi proverà a darla, tra gli anni Sessanta e i Settanta, un’architettura di matrice ideologica. Che non si accontenta di riflettersi nel “popolo” ma – in un certo senso – pretende di volerlo “ordinare”, come in un’equazione algebrica. Guardiamo quei palazzoni di periferia, macroscopici, elefantiaci, quelli tutti in cemento a vista. Quelli dove ogni tanto qualche troupe televisiva va, indignata, a fare servizi d’assalto sul degrado e la criminalità. Quelli che, a detta di molti, sono un obbrobrio, la sconfitta dell’architettura, la fine della civiltà. E tuttavia riconosciamo in loro una complessità, una ricerca tipologica che se non altro li eleva da tutto un piattume edile spesso circostante, molto più orripilante ma meno roboante. Per esempio il Corviale (1972-82), l’edificio lungo un chilometro di Mario Fiorentino costruito ad ovest di Roma145. Pianificato perché potesse essere autosufficiente, un villaggio autarchico lungo come una stecca di cemento alta nove piani, con gli appartamenti che fanno muro chiudendo la città dispersa per aprirsi alla campagna romana. Si nota un certo che di utopistico andato in malora. Quello che è uscito fuori è invece semplicemente un condominio deforme per dimensioni, un “mostro” di un’originalità un po’ sinistra. Per questa sua assoluta stravaganza, Corviale è apparso subito ingovernabile. Come immaginare riunioni di condominio, pulizia delle scale, manutenzione degli apparati, assegnazione dei posti macchina?Per esempio le Vele di Scampia (1962-75) progettate da Franz Di Salvo146, pensate, tra enormi corpi di fabbrica e lunghi ballatoi sospesi, come grandi unità abitative dove centinaia di famiglie avrebbero dovuto integrarsi e creare una comunità, grandi vie di scorrimento e aree verdi tra le varie vele; una vera e propria città modello. Invece ecco 145 P. O. Rossi, I. Gatti, Roma, guida all’architettura moderna (1909-2000), 2000, p. 323146 M. Magatti, La città abbandonata: dove sono e come cambiano le periferie italiane, 2007, p. 85

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che i giardini sono diventati il luogo di raccolta degli spacciatori di droga, i viali sono piste per corse clandestine, gli androni dei palazzi luoghi di incontro di ladri e ricettatori. Una cittadella completamente fuori dal controllo della polizia, dello Stato.Per esempio il complesso residenziale Monte Amiata al Gallaratese (1969-73), tirato su come un gigantesco alveare dal progetto di Carlo Aymonino nella periferia nord-ovest di Milano147, con stecche edilizie che si piegano e si intrecciano, gallerie sospese, tipologie di appartamenti dai tagli differenti, corti interne, potenziali ma inespressi spazi collettivi, cercando di riprodurre la vitalità di un autentico spazio urbano ma ottenendo a distanza di anni spazi tristemente vuoti e livelli bassissimi di socialità. Ingredienti etichettati da buona parte dell’opinione pubblica e della critica sociale sotto la definizione di “quartiere-ghetto”.Per esempio lo Zen (1969-73), quartiere di edilizia popolare su progetto di Vittorio Gregotti a Palermo148, che ormai da anni offre sempre lo stesso paesaggio, fatto di carcasse d’auto abbandonate, piccoli traffici, panni stesi alle finestre, latitanti mafiosi imprendibili, un’umanità formicolante nel dedalo delle insule, come vengono chiamati gli alveari sui quali si affacciano gli appartamenti. Una spirale negativa che continua da quando, all’inizio degli anni Ottanta, le case non ancora collaudate, senza acqua né luce, furono occupate abusivamente. Le insule vennero spartite tra vari piccoli “boss” di quartiere che poi trattavano direttamente col Comune. Dunque è successo che, qui come altrove, per mezzo di dolorose contrazioni, corruzioni e risurrezioni, il “mostro” ha dovuto produrre da se stesso leggi inedite che riuscissero ad amministrarlo.

Cos’hanno praticamente tutti questi progetti, in comune? Corviale, Le Vele, il Gallaratese, lo Zen, tutti questi macroprogetti (e molti altri ancora) prevedevano nuclei di servizi pubblici, asili, parchi, negozi, scuole, fasce verdi di

147 A. Gazzola, Intorno alla città. Problemi delle periferie in Europa e in Italia, 2008, p. 99148 F. Fava, Lo Zen di Palermo. Antropologia dell’esclusione, 2008

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rispetto, campi giochi eccetera che non sono mai stati realizzati. Anzi, molto spesso, costruiti male, di fretta, e appena edificati venivano occupati da gente disperata alla ricerca di un tetto. Tutto ciò inevitabilmente porta degrado. Fa cedere di schianto i freni su cui si regge il patto sociale, come nell’agghiacciante romanzo di Ballard sul Condominio, che a un certo punto viene visto dai suoi abitanti come «una specie di immensa presenza animata che incombeva su di loro e teneva lo sguardo autoritario fisso sugli avvenimenti»149. A questo proposito si confrontano sempre due diverse interpretazioni. C’è stato chi ha condannato questi esperimenti architettonici “ideologici” fin dalle loro premesse. C’è stato invece chi ha sostenuto che la responsabilità del fallimento andava attribuita alla loro incompiutezza: gli architetti hanno progettato macchine grandiose e ambiziose e gli amministratori del territorio le hanno abbandonate prima che fossero finite. Ovvio che marciscano, come esserini partoriti prematuri, senza avere tutti gli organi interni funzionanti. Tra i primi, l’architetto Massimiliano Fuksas: «Secondo me Brasilia, la capitale di Niemeyer, e il palazzo lungo un chilometro di Roma sono figli della stessa logica. Anzi della stessa utopia: dare un ordine al mondo, trovare un modello per il mondo. Ma nessuno di quei modelli ha mai funzionato, né Corviale né lo Zen avrebbero mai “funzionato”, nemmeno in presenza di tutti i possibili servizi sociali e di quartiere, di tutte le certezze organizzative e di sicurezza. Il problema è un altro: quando qualcuno desidera “fare ordine” fatalmente aggiunge un nuovo danno al danno preesistente»150. È vero. Ma chi è che non desidera fare ordine? Ognuno pensa che il mondo, senza l’intervento della propria cultura e civiltà, sia in balìa della violenza e dell’ingiustizia. E poi, come si fa a non essere d’accordo sul fatto che se si realizza una macchina da corsa poi bisogna arrivare fino in fondo e

149 J. G. Ballard, Il Condominio, 2003, p. 44150 P. Conti, Fuksas: Periferie rovinate dagli urbanisti di sinistra, in “Corriere della sera”, 6 luglio 2001

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non lesinare sul motore? Altrimenti bisognerebbe spiegare come mai, a differenza del nostro Paese, le unités d’habitation di Berlino o di Marsiglia o la stecca edilizia del Karl Marx Hof a Vienna sono considerate monumenti, con servizi funzionanti e tetti giardino ben curati, con residenti di diversa estrazione sociale, spesso affermati professionisti, che lì abitano orgogliosi. Difficile stabilire chi abbia ragione151. La certezza è che troppo spesso buone intenzioni progettuali in Italia vengono frustrate dalla pratica. I nuovi quartieri senza servizi e strutture non hanno nessuna possibilità di essere come sono stati pensati. Diventano sobborghi, luoghi di confino, a loro volta piccole città satellite slegate dal tessuto urbano. «Noi siamo il popolo dei grandi eroici slanci, ma poi l’ordinaria manutenzione non la vuole fare nessuno»152.

Queste macrostrutture abitative rappresentano comunque il tentativo di un’idea urbana sicuramente ideologica, elefantiaca, dispersiva. Eppure alternativa a un’altra opposta visione: l’idea della polverizzazione sul territorio di microvillette autonome, quella che deriva dal vincente mito abitativo statunitense ma che può portare al collasso urbano. «Le metropoli smisurate del terzo mondo – scrive Biondillo – non sono fatte di macrostrutture in cemento armato, o di grattacieli di vetro, ma di una infilata infinita di cubetti disperatamente identici e anomici, dove la socialità viene completamente depressa»153. Se tentassimo una lettura a grande scala di alcune aree della nostra penisola, avremmo la dimostrazione di come l’edilizia pubblica possa essere interpretata anche con la chiave di due differenti strategie di sviluppo insediativo: concentrazione e dispersione. Per accorgersi che l’intervento pubblico ha non solo favorito una crescita urbana compatta e per parti, ma ha anche depositato sul territorio numerosi, limitati e differenti frammenti154.

151 G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2001, p. 47152 Ibidem153 Ibidem

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4. La speculazione e la commedia all’italiana

«Quinto reagiva sempre buttandosi dall'altra parte, abbracciando tutto quello che era nuovo, in contrasto, tutto quel che faceva violenza, e anche adesso, lì, a scoprire l'avvento d’una classe nuova del dopoguerra, d’imprenditori improvvisati e senza scrupoli, egli si sentiva preso da qualcosa che somigliava ora a un interesse scientifico (“assistiamo a un importante fenomeno sociologico, mio caro...”) ora a un contraddittorio compiacimento estetico. La squallida invasione del cemento aveva il volto camuso e informe dell’uomo nuovo»155. È così che lo scrittore Italo Calvino, negli anni Cinquanta, raccontava l’irresistibile malia della speculazione edilizia all’italiana in un suo racconto. Il protagonista Quinto, giovane intellettuale, lasciando in secondo piano il suo impegno, si mette in affari, per sentirsi al passo coi tempi; così diventa socio di un impresario di cattiva fama dedito alla speculazione edilizia, collaborando ad ingrigire lo spettacolo paesaggistico del suo paese sulla riviera ligure. I tempi sono quelli di «bassa marea morale»156, per dirla ancora con Calvino, i tempi dell’industrializzazione italiana a passi svelti, che in cambio di un benessere minimo ha spesso devastato l’anima dei luoghi e delle persone. Negli anni Cinquanta e Sessanta si costruiscono in Italia oltre 20 milioni di vani, da confronti con altre nazioni si rileva che il nostro è il Paese in cui più si investe in abitazioni. Eppure, «più case si fanno più ce ne vogliono», è questo il paradosso157. Le case ci sarebbero per tutti, come confermano i dati del censimento. Nel 1971 ci sono in Italia 54 milioni di abitanti e oltre 63 milioni di stanze. Nel decennio 1961-71 la popolazione è cresciuta del 6,7% e il patrimonio edilizio del 33,8%. Ma quasi un quarto del 154 P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni ’50, 2001, p. 10155 I. Calvino, La speculazione edilizia, 2000, p. 27156 I. Calvino, La speculazione edilizia – Presentazione, in “Botteghe Oscure – quaderno XX”, autunno 1957157 V. De Lucia, Se questa è una città, 2006, pp. 74-75

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patrimonio esistente è inoccupato o sottoutilizzato. Le case ci sarebbero per tutti, solo che costano troppo, oppure sono lontane da dove ormai è costretta a vivere la maggioranza degli abitanti, oppure sono seconde o terze case158.

La “riforma urbanistica” di cui ci sarebbe stato bisogno, e di cui tanto si discusse in quegli anni, alla fine fu accantonata per l’insorgere di un potente “blocco edilizio”. In esso si intrecciavano interessi economico-speculativi consolidati, settori importanti del potere politico ma anche aspirazioni e pressioni diffuse, alimentate da una campagna di stampa che evocava paure di “nazionalizzazione della casa” e mobilitava al tempo stesso desideri di possesso finalmente realizzabili. Accantonata quella urbanistica così come molte altre riforme, ciò che alla fine venne sancita fu la sostanziale assenza di regole: finì per essere un vero e proprio modello per gli italiani, lasciando nei modi di vita del Paese tracce ben più profonde di quelle, pur gravissime, lasciate sul suo territorio. Tutto ciò, nel tempo, non fa che contribuire ad allontanare gli individui dalle istituzioni e a sfilacciare le già debili reti fiduciarie. Si stava nella “grande trasformazione” ma senza riuscire a orientarla: l’amara verità era che «lo sviluppo del nostro Paese non si coniuga con la definizione di regole collettive. Il messaggio ebbe conseguenze rilevanti in una società che conosceva allora la sua prima “opulenza” e aveva visto al tempo stesso incrinarsi un orizzonte arcaico di valori»159.

Tra l’urbanizzazione popolare e pedagogica dei quartieri Ina Casa, un’architettura da film neorealista, e l’urbanizzazione spesso assurdamente monumentale rispetto a un’idea di socialità, di collettività, alla Corviale per intenderci, un’architettura ideologica, da cineforum noioso e forse pure fantozziano, alla fine ciò che si è insinuato – e ha trionfato – è stata l’urbanizzazione individuale, il nuovo edificato frammentato e il più delle volte pure abusivo, il paese progettato dai geometri, «i

158 Ibidem159 G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica, 2009, pp. 87-88

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cazzi miei fatti edilizia», per allargare, sopraelevare, condonare, insomma un’architettura da commedia all’italiana. Una risposta dapprima ad appannaggio della piccola borghesia, poi sempre più ad appannaggio di tutti, perché tutti in fondo si sentono piccolo borghesi. Tra deroghe di legge, condoni, arrembaggi speculativi, complicità istituzionali, trasferimenti di funzioni dallo Stato centrale alle Regioni, si arriverà a una situazione di lassismo e abusivismo diffuso. C’è chi sostiene che il 70 per cento della periferia romana sia abusiva, cresciuta a macchia d'olio, tra abusivismo in grande stile, di intrepidi lottizzatori sicuri del successivo condono, e abusivismo dei poveracci, muratori che si tiravano su la casa di domenica, coi materiali rubati di notte nei cantieri160. La casa è il sogno e il bisogno, e per una generazione di italiani è stata la rinascita dalla tragedia della guerra, fino a trasformarsi, nell’Italia del benessere, nell’assedio implacabile della bruttezza, nella resa alla banalizzazione dei luoghi.

Osservo le case, per curiosità e per istinto di ricerca. Le vecchie case alle quali le antiche cornici decorative per poterci installare delle persiane in alluminio color bronzo. Le verande improvvisate, le superfetazioni abusive, sui tetti dei centri storici. Il nuovo edificato. Ogni anno una nuova selva di villette a schiera, simbolo di nuove ricchezze. Contraltare ai monumentali palazzoni stile Ina Casa anni Cinquanta, altari decaduti della gloria popolare. Ci si inoltra nel paese dei geometri. I serramenti di alluminio anodizzato, le tapparelle in plastica, l'intonaco ad effetto graffiato, le pavimentazioni in pseudocotto pseudoantico, le ringhiere in ferro prefabbricate, le fioriere in cemento. Ascolto architetti sconsolati: «Tutta l’Italia è costruita così, tutta. Da Trieste fino a Santa Maria di Leuca, tutte le coste adriatiche, di regioni tradizionalmente sia di destra che di sinistra, sono una colata di cemento armato e di alluminio anodizzato»161. Le recinzioni in blocchi di cemento, i leoni

160 P. Zanuttini, Pasolini non abita più qui. Visita guidata nelle borgate romane con Walter Siti, in “Il Venerdì di Repubblica”, 23 maggio 2008161 G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2001, pp. 19-22

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all’ingresso, nel Nord. I ferri dei pilastri scoperti in cima al tetto terrazzato e incatramato, nel Sud, in attesa di costruirci sopra, abusivamente, magari un piano in più, al prossimo condono. L’incasato spalmato sull’intera pianura padana. I neo-paesi di seconde e terze case sulle Alpi o sugli Appennini. Le villettopoli che annientano i confini tra comune e comune nel casertano. Gli interi paesi condonati. Gli stessi tetti, gli stessi spioventi, che tu sia sulle Prealpi o in Sardegna. Lo stesso identico sfoggio delle stesse “finiture di pregio”. Le emulazioni fallite. Siamo ancora lì, dopotutto e nonostante tutto, siamo al paese contadino che ha dovuto concentrare in pochi decenni quasi due secoli di trasformazione industriale e sociale, in più deportando mezzo Meridione, e lo ha fatto in fretta e malamente, stravolgendo il senso di un abitare antico e coeso, fatto di borghi, di piazze, di trattorie e caffè.

5. Pasolini e il miracolo

Il miracolo economico italiano trasforma il panorama urbano e culturale del Paese. La televisione diventa una presenza permanente nelle case degli italiani. Le automobili sostituiscono gli scooter che, a loro volta, avevano preso il posto delle biciclette. L’ondata migratoria da luogo a un crogiuolo di popoli, dialetti, stili di vita e consumi. Dieci milioni di italiani si spostano da una regione all’altra. Le campagne si spopolano sempre di più. Le spiagge si riempiono di villeggianti. Gli ingorghi e le file sulle lunghe nuove autostrade diventano una realtà quotidiana. I paesi del Sud si svuotano, mentre quelli del Nord sono invasi dai nuovi arrivati. Lo sviluppo economico, in particolare tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, conosce punte di particolare intensità162. Una grande trasformazione ma anche una rottura, poiché affrontata senza limiti e contromisure adeguate, «la fabbrica dei nuovi italiani» scriverà Giorgio Bocca in un’inchiesta, l’inizio di un processo che darà

162 G. Sapelli, L’Italia inafferrabile, 1989, p. 21

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progressivamente corpo a «una società disunita, senza tempo né legge»163. Non sono in pochi a identificare questo periodo con la morte delle antiche culture rurale e operaia, popolare in genere, sotto la pressione del consumismo di massa. Insomma, quello che sarebbe successo è che una “cultura” avrebbe distrutto e sostituito l’altra. Una mutazione irreversibile, destinata a non fare retromarcia anche quando poi la fase di sviluppo economico muterà di segno in fasi di crisi e di austerità. Per capire se e come tutto questo è accaduto forse bisognerebbe riprendere in mano le parole, cercare di aggrapparsi a qualche definizione. Di cosa si parla, per esempio, quando si parla di cultura? Con il termine “cultura” si intenderà il «complesso dei modi di vita, degli usi, dei costumi, delle strutture e organizzazioni famigliari e sociali, delle credenze, dello spirito, delle conoscenze e delle concezioni dei valori che si trovano in un aggregato sociale»164. Cultura, dunque, nel senso di «vasta gamma di usi caratteristici di una data società, dalle sue modalità di produzione materiale alle sue abitudini alimentari, codici di abbigliamento, celebrazioni, rituali» come sostengono Forgacs e Lumley165.

C’è un regista, uno scrittore, un intellettuale che più di tutti, nell’Italia degli anni Settanta, insiste ossessivamente su un punto: era in corso in Italia un livellamento culturale. La modernità del presente stava corrompendo la magica e finora immutabile cornice dell’età passate. Le classi più basse erano state culturalmente assimilate o integrate nel sistema. Le classi popolari avevano assorbito il mito consumistico del neocapitalismo e perso ogni traccia di autonomia culturale. Tutto questo significava egemonia, consenso, dominio, e si intrecciava con le modificazioni urbane del Paese, con la sua sciatteria edilizia, con le sue

163 G. Crainz, Autobiografia di una repubblica, 2009, p. 74164 T. Tentori, Antropologia culturale, 1977, citato in M. Morcellini, Lo spettacolo del consumo. Televisione e cultura di massa nella legittimazione sociale, 1986, p. 99165 D. Forgacs, R. Lumley, Cultural Consumption 1940s to 1990s, 1996, p. 2

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isole di periferie e le sue enormi borgate ai margini delle metropoli. Si tratta di Pier Paolo Pasolini. È lui a dare una lettura sociale della trasformazione a mutazione ormai compiuta, in una serie di scritti freddi, se non crudeli nell’analisi, ma nello stesso tempo malinconici e appassionati come di chi si sente l’ultimo cantore di una società sepolta166. La critica di Pasolini alla cultura consumistica e l’analisi della sua pervasività ebbero una poderosa influenza fin dalla pubblicazione degli articoli, principalmente sul prestigioso quotidiano Corriere della sera, negli anni Settanta. Vale la pena approfondire le sue idee, i suoi pensieri “corsari”, perché spesso contribuiscono il punto di partenza per spiegare o descrivere quel cambiamento culturale avvenuto tra le città e il potere e le masse. E allo stesso tempo per capire da dove passa l’eterno mito nazionale del sapere nostalgico, la modernità plasmata sul ricordo dei bei tempi andati.Pasolini attribuiva grande importanza all’urbanizzazione della società italiana e alla scomparsa delle tradizioni contadine: «Il mondo contadino, dopo circa quattordicimila anni di vita, è finito praticamente di colpo»167. I valori del villaggio o delle prime borgate erano stati sostituiti da un “livellamento” culturale, dell’”edonismo di massa”. Tutti i valori profondi delle classi popolari erano stati ridotti a un unico modello culturale: «Decidere se sognare una Ferrari o una Porsche […] con la pretesa che siano “libere”»168. Questo «passaggio da un’epoca umana a un’altra, dovuto all’avvento del consumismo e del suo edonismo di massa […] ha costituito, soprattutto in Italia, una vera e propria rivoluzione antropologica»169. Questa «nuova forma del potere, il potere dei consumi» era ben più influente ed efficace di «qualsiasi altro precedente potere al mondo»170. Il medium più importante in questa dislocazione di potere e di assimilazione culturale era costituito dalla televisione,

166 G. Biondillo, Pasolini. Il corpo delle città, 2001, p. 33167 P. P. Pasolini, Scritti corsari, 2009, p. 35168 Ivi, pp.47-48169 Ivi, p. 131170 P.P. Pasolini, Lettere Luterane, 2009, p. 33

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insieme all’urbanizzazione e alle politiche di pianificazione di diversi governi italiani. Quando si arriva a metà degli anni Settanta, l’ideologia consumistica aveva prevalso su tutte le altre ideologie e sottoculture esistenti, comprese quelle legate alla chiesa e alla sinistra. Le teorie pasoliniane ebbero un enorme impatto sulle analisi del tempo della società italiana, fino a essere considerate assiomi che non necessitavano di ulteriori dimostrazioni. Si sostenne che lo scrittore – al quale vennero spesso attribuiti poteri profetici dalla sinistra nazionale e, in seguito, anche da un certo conservatorismo di destra – avesse individuato una tendenza della società italiana. Questo è indubbio.

Eppure per molti la risonanza che ebbe il contenuto di quegli articoli fu esagerata, e a molti gli argomenti di Pasolini sono sembrati poco convincenti e spesso paradossali. In primo luogo non è chiaro quale sia il contenuto di quella “cultura popolare” che sarebbe andata irrimediabilmente distrutta. Pasolini sembra identificare la cultura popolare con la cultura contadina, con il dialetto e, spesso, con tratti somatici, vitalità e vivacità. Franco Fortini, uno dei critici più severi del poeta dal punto di vista politico, lo accusò di identificare «il popolo» con «l’ignoranza e la pura vitalità»171. In fondo in molti sostengono ragionevolmente che anche l’esistenza di una cultura popolare “vitale” e autonoma prima dell’arrivo devastante del consumismo televisivo è difficile da dimostrare. Una critica efficace alla visione pasoliniana su livellamento e consumismo è quella dello storico inglese John Foot. A suo dire, «l’uso che Pasolini e quelli che hanno fatto proprie queste idee fanno del concetto di cultura è meccanicistico e semplicistico. Nessun tipo di cultura è semplicemente annullato o rimpiazzato da altri. Le culture si adattano, si modellano, si modificano nel tempo e nello spazio. Il concetto di un lineare “sopraggiungere” della cultura di massa e la conseguente scomparsa improvvisa della “cultura popolare tradizionale” non riesce a cogliere

171 F. Fortini, Attraverso Pasolini, 1993, p. 11

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né la complessità né la ricchezza del processo».172 In altre parole, come sostiene Forgacs, «i mutamenti nel consumo culturale, come quello risultante dall’avvento della televisione, non avvengono come semplice sostituzione o sradicamento del vecchio da parte del nuovo ma tendono a coinvolgere una serie di adattamenti degli schemi e rituali esistenti»173.

Va anche detto che la concezione pasoliniana della natura totalizzante della cultura consumistica non lascia spazio alle contraddizioni di quella cultura, alle sue opportunità, ai suoi limiti. Queste contraddizioni sono state intelligentemente analizzate, tra gli altri, da Alessandro Portelli. Infatti, una delle tesi centrali del suo libro The Battle of Valle Giulia è che il consumismo non porta necessariamente a un’accettazione passiva della cultura consumistica nel suo complesso, ma apre nuove possibilità di resistenza e di un impiego multiforme del tempo per fini culturali diversi174. Consumo non significava consumismo come unica ideologia possibile, e gli orizzonti potevano allargarsi oltre che restringersi. Si trattava, questo è certo, di uno stile di vita completamente nuovo, un modello, che avrebbe dominato tutte le azioni, le speranze e i sogni di un’intera popolazione. Secondo Stearns, la società consumistica «coinvolge un numero spropositato di persone che scommettono una parte significativa della propria identità personale e della propria ricerca di significato, persino della propria soddisfazione emotiva, sulla ricerca e l’acquisto di beni. È questo l’aspetto più difficile ma, allo stesso tempo, essenziale da definire. Significa che la gente inizia a interpretare il tempo impiegato nella ricerca di articoli di consumo come una parte importante della propria vita e non solo come un male necessario nella lotta per la sopravvivenza»175. Portelli ha individuato i cambiamenti verificatisi nella classe operaia dopo gli anni 172 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 35173 D. Forgacs, R. Lumley, Cultural Consumption 1940s to 1990s, 1996, p. 281174 A. Portelli, The Battle of Valle Giulia. Oral History and the Art of Dialogue, 1997

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Sessanta come un momento nel quale «il consumo diventa importante quanto la produzione»176. Ma il consumismo aveva anche un effetto liberatorio, creando spazio per la ribellione contro regole sociali conservatrici e stantie. Come non vedere un aspetto liberatorio nelle storie dei ragazzi che si facevano «crescere i capelli sopra le orecchie» o delle ragazze che andavano a ballare da sole e si truccavano, mentre i benpensanti dai sagrati delle parrocchie o dalle sezioni di partiti anche comunisti inveivano contro questo tipo di mode “consumiste” e “americanizzate”. Una simile analisi può essere applicata a diversi tipi di beni di consumo che allora andavano in voga. L’auto e lo scooter permettevano ai giovani e alle famiglie di motorizzarsi e diventare mobili, anche individualmente. Il frigorifero e la lavatrice cambiavano in modo radicale gli equilibri del lavoro domestico nelle famiglie. La moda del prêt-à-porter permetteva alle donne di scegliersi da sole i propri vestiti, per la prima volta177. Ci sono, comunque, alcuni intellettuali – uno di questi è Umberto Eco178 – che pongono obiezioni ai critici “apocalittici” della cultura di massa, per la loro prospettiva semplicistica e unidimensionale che ignorava le opportunità di cambiamento che essa forniva. Il livellamento poteva anche avere conseguenze positive, come per esempio l’eliminazione di “differenze di casta”179. Tuttavia, consumismo significava anche la corsa al prossimo acquisto e una serie di limitazioni su comportamenti e stili. Cambia anche lo sguardo del potere sulla società, basta poco ad accorgersi che per ottenere il consenso non basta più la reale diffusione della ricchezza, bensì attraverso «la

175 P. Stearns, Stages of Consumeris. Recent work on the Issues of Periodization, in “Journal of Modern History”, 1997, p. 105, citato in J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 46176 A. Portelli, The Death of Luigi Trastulli and Other stories. Formand Meaning in Oral History, 1997, p. 97, citato in J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 47177 Ibidem178 U. Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, 1993, pp. 29-64179 L. Gallino, Dizionario di sociologia, 1993, p. 200

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possibilità di accedere ad essa o ai suoi simboli: l’auto, gli altri beni di consumo durevoli, il televisore»180. Per la maggiorparte degli intellettuali italiani degli anni Sessanta e per gli storici, d’allora in poi, però, l’avvento del consumismo rappresentò un processo devastante che la “gente” avrebbe ingoiato in modo passivo e acritico.

E qui ci ritroviamo di fronte la sagoma di Pasolini, che ci fa pensare e quasi ci zittisce. Pare di sentirlo: «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Quello stesso Centro che, in pochi anni, ha distrutto tutte le culture periferiche dalle quali era assicurata una vita propria, sostanzialmente libera, anche alle periferie più povere e addirittura miserabili»181. Eppure ci viene il sospetto che Pasolini esagerasse il potere dell’ideologia consumistica quanto a capacità di soddisfare i bisogni e i desideri del “popolo”. Sogni spropositati portano a frustrazioni spropositate, quelli che «corrono, corrono, ma non ce la fanno», cosa particolarmente vera per le persone giunte nelle città negli anni del boom in cerca di lavoro, per le quali l’esperienza dominante non era l’integrazione, bensì l’esclusione182. Il fatto è che lui osservava tutto, i luoghi, le persone e le culture a lui familiari, le periferie urbane, le borgate romane, la sua famiglia, i «dannati che guardano la televisione ogni sera»183.

6. Il mondo perduto

Nel maggio del 1975, pochi mesi prima di essere ammazzato all’Idroscalo di Ostia, Pasolini descrive la propria nitida visione dei cambiamenti della società italiana in forma di lettera a un giovane napoletano, una specie di 180 R. De Felice, Nazione e sviluppo: un nodo non sciolto, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. 2, 1995, p. 838181 P. P. Pasolini, Scritti corsari, 2009, p. 22182 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 36183 P. P. Pasolini, Canzonissima (con rossore), in “Il Tempo”, 1 novembre 1969

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trattato pedagogico-filosofico. E scrive: «Se io alla tua età camminavo per la periferia di una città (Bologna, Roma, Napoli), ciò che quella periferia mi diceva era: qui abitano i poveri e la vita che vi si svolge è povera. Ma i poveri sono operai. E gli operai sono diversi da voi borghesi. […] se invece tu ora cammini per una periferia, tale periferia ti dirà “qui non c’è più spirito popolare”. Contadini e operai sono “altrove”, anche se materialmente abitano ancora qui»184. Se dunque per Pasolini la polemica linguistica è la metafora culturale e politica della trasformazione, la forma urbis ne è la metafora poetica. La scomparsa delle lucciole dalle campagne è vista come il simbolo della scomparsa dei cari vecchi valori della società contadina e paleoindustriale. La borgata è il punto di osservazione della trasformazione, essendo al contempo luogo causato dalle trasformazioni della società da parte del capitalismo ma anche luogo dove ancora i valori borghesi non hanno senso. La città della transizione diventa una città senza confini dove l’osservatore, parafrasando il vecchio Spengler, «riconosce esattamente l’epoca in cui la fase di una crescenza organica è terminata e in cui comincia un ammucchiamento inorganico e quindi illimitato, che oltrepassa ogni orizzonte»185. Allo sguardo di Pasolini le borgate – nate negli ultimi anni del regime fascista dalle deportazioni di abitanti proletari di interi quartieri del vecchio centro storico romano che furono sventrati e ripuliti dalle “ruspe di regime” – «persistono stilisticamente e psicologicamente come “isole”». Molte di esse sono state abbattute per essere sostituite dalle nuove borgate post-belliche. «Ma qual è il criterio stilistico, sociologico e umano di queste nuove abitazioni? Lo stesso. Siamo sempre alla nozione di campo di concentramento». Lo stesso motivo ossessivo di file e gruppi di case che si ripetono, due, cinque, dieci volte, sempre uguali a se stesse, dal nord al sud del Paese. Dunque il cambiamento di regime non ha cambiato la metodologia d’intervento sulla periferia, infatti «le borgate

184 P. P. Pasolini, Lettere luterane, 2009, pp. 57-58185 O. Spengler, Il declino dell’occidente, 1922, in F. Choay, La città: utopie e realtà, 1973, p. 435

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democristiane sono identiche a quelle fasciste perché è identico il rapporto che si istituisce tra Stato e “poveri”: rapporto autoritario e paternalistico, profondamente inumano nella sua mistificazione religiosa»186. E quando Pasolini si ritrova a camminare anche per Sabaudia, proprio una di quelle “città nuove” del fascismo, scopre che col passare degli anni ha assunto un aspetto tra il metafisico e il realistico estremamente affascinante. Al suo vedere la follia fascista, nonostante tutto, non è riuscita a incidere nemmeno lontanamente nella realtà dell’Italia di allora: «Sicché Sabaudia, benché ordinata dal regime secondo criteri di carattere razionalistico, estetizzante, accademico, non trova le sue radici nel Regime che l’ha ordinata, ma trova le sue radici in quella realtà che il fascismo ha dominato tirannicamente ma non è riuscita a scalfire. Dunque è la realtà dell’Italia provinciale, rustica, paleoindustriale, ecc. ecc. che ha prodotto Sabaudia e non il fascismo». Ora invece, secondo Pasolini, succede l’esatto opposto, e lui può affermare che «il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia»187.

A questo proposito viene in mente un aneddoto che spesso racconta lo scrittore Antonio Pennacchi, e che ho trovato riportato in un originale libretto di Antonio Pascale sui guai dell’Italia e i modi di affrontarli188. Sempre a proposito di Pasolini che si lamentava dell’arrivo della speculazione edilizia a Sabaudia. Pasolini stava facendo dei sopralluoghi per un film sulla spiaggia e si lamentava: non sapeva dove puntare la cinepresa. Dovunque la puntasse c’era un abbozzo di villa in costruzione. La civiltà dei consumi stava uccidendo un luogo bello e incantato. Un gusto barbaro avanzava. Vero: basta andare oggi a Sabaudia e cercare di accedere al mare, è difficilissimo. Chilometri e chilometri di

186 P. P. Pasolini, Viaggio per Roma e dintorni, in “Vie nuove”, 24 maggio 1958, p. 15187 P. P. Pasolini, Lettere 1955-1975, 1988. p. CXLII, citato in G. Biondillo, Pasolini. Il corpo delle città, 2001, pp. 92-94188 A. Pascale, Qui dobbiamo fare qualcosa. Si, ma cosa?, 2009, pp. 112-113

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case lungo la costa che ci privano dell’ingresso al mare. Pasolini dunque fu profeta. Pennacchi racconta questa storia inserendo però un particolare. Pasolini, ricorda lui, aveva una villa, insieme a Moravia, proprio a Sabaudia. E in molti a Sabaudia lo ricordano arrivare con la sua Alfa Romeo, felice di correre lungo l’antica strada che da Roma portava fino a Latina e poi curvare a sinistra verso Sabaudia. Chissà quante lucciole avrà ucciso Pasolini con quelle corse notturne, dice Pennacchi. E chissà, aggiunge, se Pasolini avrebbe provato piacere nel sapere che gli operai di un tempo, magari arricchiti, volevano anche loro la villa sulle dune, perché come Pasolini subivano il fascino di quei luoghi. Anche loro desiderosi di correre come Pasolini lungo la strada. Un problema questo, indubbiamente.

Quello che si sente evocare, di nuovo, è una specie di mondo perduto. Ma sarà esistito davvero? In molti casi, ciò che è evocato non è nemmeno il mondo di una società industriale dove grandi masse di persone lavorano nelle fabbriche durante il giorno, ma una comunità di tipo rurale. Vari storici e studiosi sono soliti paragonare la leggendaria città perduta di un tempo a quella odierna o a quella che sembrava prospettarsi già negli anni Sessanta e Settanta. A questo proposito è utile prendere spunti dalla carrellata che svolge John Foot su quello che a suo parere è stato il “mito della classe operaia” nella Milano che del boom economico fu la cosiddetta “capitale morale”189. Per esempio citando il regista Ermanno Olmi, secondo cui il quartiere meneghino della Bovisa, classica e quasi leggendaria roccaforte operaia dalle case di ringhiera, era «il proseguimento urbano del borgo contadino», dove «la casa era una comunità», e una «fiumana di operai» lo attraversava regolarmente a certe ore del giorno190. Ciò che molte ricerche definivano come una cultura comune acquisita nel tempo a livello di massa, lavorando nei

189 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, pp. 38-40190 E. Olmi, Quella mia Bovisa fatta di orti e civiltà, in “La Repubblica”, 27 aprile 1999

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medesimi luoghi di produzione e vivendo quindi i medesimi rapporti di produzione e sociali. La nostalgia è spesso circoscritta al ricordo del quartiere. Una persona intervistata durante un progetto di ricerca sulla periferia milanese lamenta il venir meno dello spirito comunitario: «Una volta c’era il quartiere, c’era un gruppo di persone che si ritrovavano sempre». Oppure: «La periferia non è più quella di una volta». La sensazione a volte è circoscritta a livello di caseggiato ed è vissuta in contrasto con un presente nel quale donne e bambini «non possono restare in cortile, fermarsi a chiacchierare sulle scale e sugli androni, non vengono più usati le cantine e i solai, terre di nessuno». Invece oggi c’è freddezza, «ognuno pensa a sé», la città sembra essersi trasformata da «luogo di incontro a luogo di scontro culturale perduto». Lo stesso discorso si potrebbe riferire alla classica piazza di paese, dove prima o poi ci si incontra tutti. Messo così, quel “mondo perduto” sembrerebbe più vicino alle brulicanti strade di una città non industriale come Napoli, che curiosamente è sempre stata l’eterna metafora del “bel paese” visto così come se lo immaginano i turisti stranieri meno esperti. Comunque sia, il ruolo prevalente della strada nella vita comunitaria – come scrive Foot – è un aspetto più consono a questo tipo di area urbana o semirurale che alle città industriali dove tempo e spazio sono (o erano) scanditi dal ritmo della sirena della fabbrica. In poche parole, «la visione della città è positiva quando è premoderna, una non-città, la negazione di se stessa»191.

A metà degli Anni Settanta, un giornalista milanese intervistò personaggi pubblici per un libro molto critico sulla direzione che la città stava prendendo. Fu pubblicato con il titolo Milano No, e alcuni estratti sono stati ripubblicati nell’opera di Foot. Il richiamo alla città mito, in questa pubblicazione, è chiarissimo, si potrebbe dire emblematico. Un intervistato sostiene che «Milano era quasi un paese, c’erano dei garzoni che cantavano a squarciagola in bicicletta, c’erano venditori di tutto, un

191 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 39

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aspetto molto paesano». Per un altro, la «Milano di allora era una cosa diversa, una grossa borgata». E Montanelli: «Rimpiango la periferia che non è più come quella di prima, una periferia calda, la campagna che cominciava a unirsi veramente alla città […] e poi c’era una cultura di vita che adesso è stata come schiacciata […] è stata la televisione a rovinare tutto»192. C’è indubbiamente del vero in alcune descrizioni della Milano passata e di quella odierna, come pare di risentirle per tante città italiane, comprese quelle rintracciabili in ricerche più scientifiche, ma in tutti questi giudizi troviamo una visione romantica del passato. La presenza costante della nostalgia. La maggiorparte di questi studi non tenta nemmeno di dimostrare che ci sia stata veramente una “cultura della strada” e una “socializzazione” semplice, o che Milano sia stata realmente “un paese”. Questi “fatti” sono dati per scontati e immutabili. Eppure è difficile dimostrare che la situazione così descritta corrisponda alla realtà. È indubbio che la situazione odierna a Milano sia improntata alla mancanza di socializzazione, ma questo non significa automaticamente che ci sia stato un processo di de-socializzazione, vale a dire che l’attuale assenza di qualcosa non ne dimostra la sua esistenza in un tempo passato. Insomma, «se il passato è leggenda, come è stato possibile distruggerlo o assimilarlo? Il fatto è che con la diffusione della cultura di massa i miti tendono a diventare sempre più forti e difficili da contestare»193. Dunque, Pasolini e gli altri stavano in realtà annunciando la morte di un mito, di una rappresentazione fondata su una visione distorta e ideologizzata della realtà, di una concezione romanzata del passato? Di sicuro toccavano un punto dolente tra i pieni e i vuoti, tra l’integrazione delle masse e la banale vita quotidiana.

7. Va ora in onda lo Strapaese

192 G. Moncalvo, Milano No, Elle, Milano, 1977193 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 40

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Tutto cambiò quando alle città in espansione, come corpi sempre più obesi e nervosi e famelici, spuntarono le antenne. Una foresta di antenne si moltiplicò sui tetti delle case, come evidente segno esteriore di consumo e benessere, gli enormi ripetitori della Rai, da collina a collina, divennero il simbolo del potere della televisione. Quelle foreste di antenne contraddistinsero paesaggi e fotografie da un certo periodo in avanti. Nelle aree urbane cominciarono a sorgere anche negozi di televisori, con gli apparecchi accesi esposti nelle vetrine. I passanti si fermavano a guardare certi programmi, senza audio, attraverso la vetrina, e spesso, a specifici orari, si formava un crocchio di persone. Nel 1963 Pasolini, in riferimento al fenomeno delle antenne, diede sfogo alla sua feroce ironia. «Sai cosa mi sembra l’Italia? Un tugurio i cui proprietari son riusciti a comprarsi la televisione e i vicini, vedendo l’antenna, dicono, come pronunciando il capoverso di una legge, “Sono ricchi! Stanno bene!”»194. In quegli stessi anni quasi tutti i quotidiani italiani inviavano cronisti per svolgere inchieste sugli immigrati più poveri delle grandi città. Molti scrivevano articoli commoventi, all’interno dei quali tuttavia prevaleva un’immagine ricorrente: quella del televisore, anche nella più povera delle baracche. Questa immagine, rimandata dalle fotografie e dalle storie popolari d’Italia forniva una prova decisiva dell’importanza della televisione per gli immigrati meno abbienti e per il sottoproletariato delle metropoli italiane. Il libro di Guido Crainz sul boom, uno dei primi tentativi accademici di storia del miracolo economico, prende spunto da questa immagine definendola un “mito”. Crainz cita un critico contemporaneo che scrive: «Il discorso del televisore nella baracca è uno di quegli argomenti che ispirano particolarmente l’insopportabile genia dei chiacchieroni ferroviari»195. Tuttavia l’immagine coglie un aspetto particolare del consumismo durante il boom: l’ago della bilancia dei consumi si sposta dai generi di prima necessità 194 P.P. Pasolini (a cura di M. Gallinucci), Interviste corsare sulla politica e sulla vita 1955-1975, 1995, p. 58195 G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni, 1996, p. 132

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verso i beni durevoli, e il televisore, magari acquistato a rate, effettivamente faceva la parte del leone. Vedere le foto dei tuguri o delle povere casette appena imbiancate con la loro brava antenna sopra può essere una prova a favore di conclusioni pasoliniane sul livellamento culturale, ma tutto ciò rappresentava pure una forma significativa di liberazione e un salto di status anche per le famiglie più povere. Numerosi sociologi hanno definito questa tendenza una “distorsione” dei modelli di consumo, ma questo presuppone che ci sia un modello “normale” (generalmente associato ad altre nazioni, come la Gran Bretagna o la Francia) al quale il consumo dovrebbe attenersi. Ci troviamo ancora una volta di fronte al “caso italiano” con le sue presunte diversità rispetto alla “norma”.

In parole povere la tv veniva (e viene) vista sostanzialmente come un fenomeno negativo con alcuni positivi effetti secondari, in particolare l’unificazione linguistica dell’Italia196. Alla televisione di Stato che, in Italia, inizia in condizioni di monopolio le trasmissioni nel 1954, è attribuito dagli storici e dagli studiosi della cultura un ruolo fondamentale nella “morte” delle culture tradizionali sia contadine che operaie. Gianni Bosio, per esempio, sostenne che il «capitalismo organizza in tv la cultura popolare alla rovescia»197. La televisione, secondo Pasolini, è il braccio secolare del nuovo potere, la classe dominante che «non si accontenta più di un uomo che consuma ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo»198. La soluzione di Pasolini era provocatoria, divertente, swiftiana: abolire la televisione (e la scuola) o manifestare contro la trasmissione di certi programmi popolari199. Eppure Pasolini non scherzava affatto. In Italia, questa analisi è diventata una verità riconosciuta e accettata. Il ruolo della televisione è stato ingigantito e

196 A. Grasso, La televisione a Milano, in A. Ferrari, G. Giusto (a cura di), Milano città della Radiotelevisione 1945-1958, 2000, p. 59197 G. Bosio, L’intellettuale rovesciato, 1975 citato in J. Foot , Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 42198 P. P. Pasolini, Scritti corsari, 2009, p. 23199 P. P. Pasolini, Lettere luterane, 2009, pp. 182-288

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promosso a precursore onnipotente della cultura consumistica borghese di massa.

Ma la televisione italiana degli esordi – la cosiddetta paleo-televisione – costituì uno stimolo in direzione della modernità in mille sottili e complesse maniere. Innanzitutto, l’urbanizzazione dell’Italia era sia un riflesso sia una conseguenza della diffusione della televisione. «La tv creò e reinventò la città, e la sua propagazione non coincise con la formazione di fasce suburbane, come in Inghilterra o negli Stati Uniti, ma con l’urbanizzazione e l’industrializzazione»200. Inoltre, la tv contribuì a rafforzare l’espansione economica del dopoguerra: basti pensare alla forza trainante delle prime pubblicità in bianco e nero racchiuse ogni sera in Carosello, o al telequiz Lascia o raddoppia che portava milioni e milioni di spettatori a incollarsi davanti ai televisori, e ovviamente a comprarseli. I primi anni della televisione sono ancora ancorati a una fase “collettiva”: gli apparecchi in circolazione sono ancora pochi, gli spettatori si riuniscono nei bar o nelle poche case già dotate di televisore. Già pochi anni dopo, all’inizio dei Sessanta, gli apparecchi privati, casa per casa, prendono il sopravvento.

La tv ha avuto effetti contraddittori in tutti i campi: per esempio, ha incoraggiato l’atomizzazione dell’unità familiare, ma ha anche favorito il consumo collettivo in luoghi destinati ad altre attività. Ha educato, ha allargato orizzonti, ma anche portato a un livellamento, verso l’alto e verso il basso, del modo di vivere e di pensare. Ha reso la mente schiava e libera allo stesso tempo. Ha incoraggiato il consumismo e la sua critica. Ha avuto effetti di breve durata, e altri che si possono percepire ancora oggi. Un impatto insomma niente affatto lineare. Ma una cosa è certa: come ha scritto Aldo Grasso, la televisione «ha accelerato i ritmi della vita sociale del Paese in maniera impressionante»201. La tv comincia a splendere nei

200 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 126201 A. Grasso, Storia della televisione italiana, 1992, p. 22

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panorami urbani, dietro le finestre dei reticolati abitativi, nel momento stesso in cui la piazza viene meno alle sue antiche funzioni di socializzazione “dal vivo”. La metropoli, dopo aver superato la città storica, a sua volta viene disgregata dall’avvento dei media di massa. Di fronte alla “scatola magica”, il dispositivo territoriale della piazza diventa, allo stesso tempo, troppo grande per far sentire le persone a casa loro e troppo piccolo per soddisfare le pulsioni a essere altrove. Dalla piazza si passa alla tv, dunque.

Proviamo a vedere come l’impatto della tv influenzi la realtà di un quartiere urbano. Possiamo prendere, ad esempio, le ricerche citate nel libro di Foot a proposito di alcuni quartieri milanesi nei primi anni Sessanta. Interessanti sono i dati sulla Comasina. Iniziato nel 1953 e completato nel 1958-60, con i suoi 83 palazzi per un totale di 11mila vani, divenne il più grande progetto di edilizia popolare in Italia. Insediamento modernista e “futurista” sui confini nord-ovest della città, fu anche il primo quartiere “autosufficiente” d’Italia. La pianificazione della zona era basata su sottopassaggi pedonali, lunghe balconate in cemento armato e una chiesa da fantascienza. A parere degli urbanisti, la costruzione di chiese, centri sociali, negozi e bar avrebbe permesso al nuovo quartiere Comasina di svilupparsi in una comunità. In realtà le divisioni fra le varie tipologie di abitanti furono subito nette: famiglie di microzone più “rispettabili”, immigrati del Meridione, gruppi di sfrattati e baraccati202. Ebbene, alla Comasina nel 1962 il 90 per cento delle famiglie aveva comprato un televisore, una delle percentuali più alte tra i dati disponibili dell’epoca. Evidentemente tra loro c’erano anche quelli più poveri o quelli che ancora stavano in baracca203. A Milano, e in particolare nei quartieri periferici, la priorità della tv rispetto agli altri beni di consumo fondamentali, e il suo ruolo di fulcro attorno a cui ruotavano le attività del tempo libero, dunque erano già

202 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 62203 Ivi, p. 43

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dati per scontati. L’isolamento stesso della Comasina rispetto al centro della città – con tutte le sue attrazioni scintillanti, i cinema, le sale da ballo e i teatri – ha sicuramente contribuito a questo successo. Ne conseguiva che anche la fase della visione collettiva era ormai conclusa: i sondaggi dell’epoca si imbattevano in bar deserti, ormai ognuno guardava la tv a casa propria. C’è da registrare che la Comasina divenne il classico “ghetto”, svuotato di giorno e pieno di sera, ma desolato e senza luoghi di aggregazione sociale spontanea non ufficiali, anche se annoverava tre centri sociali e una chiesa con strutture sportive. Vuol dire che a quanto si era guadagnato in termini di “privacy” e di “liberazione” dagli aspetti oppressivi della vita di cortile o di piazza di paese, oltre che in termini di qualità degli alloggi per buona parte dei residenti, si contrapponeva l’assenza di una comunità e il mancato rapporto con la città. Tuttavia, gran parte degli abitanti della Comasina sembrava contenta di pagare quel “prezzo”. Molti (ma non tutti) avevano barattato le forme tradizionali di integrazione urbana (la “collettività”) con altri valori: privacy, status, un salotto spazioso. Per molti, la vita di famiglia aveva soppiantato le altre forme di rapporti sociali204. Ben presto anche il resto dell’Italia avrebbe raggiunto gli standard delle periferie milanesi. Nel 1965 il 43 per cento degli italiani guardava la tv tutti i giorni, il 17 per cento da due a quattro volte alla settimana e il 10 per cento solo una volta. Una persona su cinque non la guardava mai. Consideriamo che all’epoca i programmi sull’unico canale nazionale erano trasmessi solo di pomeriggio e di sera. A pensarci bene, Berlusconi, o meglio l’ideologia che più tardi con le sue tv commerciali e i suoi quartieri residenziali avrebbe rappresentato, costituiva una realtà egemonica già all’inizio degli anni Sessanta205.

Ma cosa accadeva per strada, nei bar e nei rapporti fra le persone? Già prima dell’arrivo della cultura di massa la situazione era abbastanza varia e articolata. È vero che

204 Ivi, p. 73205 Ivi, p. 108

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alcuni quartieri apparivano come tipiche comunità operaie, dominate dai partiti politici, dalla vita di strada e dai bar. Ma persino lì questo modello di tempo libero e di vita quotidiana era limitato a certe ore della giornata e contrassegnato da un uso del tempo differente per uomini e donne. I quartieri più nuovi erano invece teatro di una diversa organizzazione del tempo e delle relazioni sociali. Il tempo era essenziale e spesso tiranno, e sicuramente ben poco ne rimaneva al pendolare-operaio che usciva di casa alle quattro del mattino e rientrava alle nove di sera. Altre diverse informazioni vengono da una ricerca della fine degli anni Cinquanta su un’altra zona appena fuori Milano. Nel 1958, un sociologo compì uno studio approfondito su un “villaggio urbano”, uno dei tanti sorti attorno al capoluogo lombardo, dove nessuno possedeva un televisore, anche se vi erano altri segni del crescente consumismo, come gli scooter. Ciò nonostante, scrive l’autore, in questo caso la “comunità” era inesistente: «la piazza è scomparsa […] era anzi chiaro che il massimo egoismo regnava nei reciproci rapporti, una incapacità ad accordarsi tra loro per risolvere i propri problemi». Nonostante lo squallore, la povertà e la mancanza di servizi basilari, gli immigrati preferivano queste cosiddette “coree” al loro paese meridionale d’origine. Secondo il prete locale, a Milano gli immigrati avevano «scoperto una “superamerica”». Insomma, la televisione, almeno in termini di proprietà individuale, qualche volta poteva anche non entrarci206. «In ogni caso – conclude Foot – è impossibile affermare con una certa sicurezza che la preesistente vita culturale semplice, idilliaca e vivace si preparava a essere spazzata via dalle nuove forme di cultura di massa diffuse dalla tv»207.

Un articolo di Stephen Gundle, professore inglese di Storia dei Mass Media e profondo conoscitore della lingua e della cultura del nostro Paese, pubblicato nel 1986, ci viene in aiuto sullo scivoloso tema delle ripercussioni della tv in

206 L. Diena, Borgata milanese, 1963, in J. Foot , Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 44207 Ivi, p. 108

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Italia. Gundle attribuisce il potere della tv a quattro fattori principali: il predominio del mezzo di comunicazione visivo sugli altri media; la diffusione capillare e privata dei valori del consumismo; la coincidenza dell’arrivo della tv con il rapidissimo decollo economico in un Paese privo di una «cultura nazionale integrata»; infine, «la semplicità e l’immediatezza delle immagini televisive che sembravano conformarsi perfettamente alle qualità tradizionali di molta cultura popolare»208. Cosa c’era quindi di urbano nella televisione e nella cultura di massa che presumibilmente veicolava? La questione è complicata. L’elemento urbano, nella paleo-televisione, era un’entità tutto sommato effimera, più mitica che reale, un messaggio implicito eppure già forte. I “tipici valori urbani” menzionati da Gundle rispecchiavano il cambiamento di ideali introdotto dal boom del secondo dopoguerra, ma in un modo appena percettibile: l’automobile-premio del telequiz, l’enfatizzazione del denaro, le trasmissioni internazionali, i film utilizzati nei notiziari, i prodotti reclamizzati da Carosello209. Occorreva creare dal nulla un popolo di consumatori, a cui far dimenticare i sensi di colpa delle parrocchie cattoliche e di quelle comuniste. La tv commerciale, le Dallas americane, le magie berlusconiane erano ancora di là da venire, come un embrione che attende solo di svilupparsi.Tutti argomenti importanti, ma quello che continua a girare per la testa è altro: la costruzione di una mitica età aurea presumibilmente distrutta dalla cultura di massa, l’imputazione alla tv di un ruolo comodamente esagerato all’interno di questo processo.

E qui torna Pasolini. La cosa bella è che molti dei suoi messaggi, dei suoi materiali, delle sue parole li rivediamo oggi proprio grazie alla televisione. Ritroviamo quel giovane bruno e nervoso, che si agita seduto su una sedia in uno studio televisivo di quasi quarant’anni fa, dove 208 S. Gundle, L’americanizzazione del quotidiano. Televisione e consumismo nell’Italia degli anni Cinquanta, in “Quaderni storici” n. 2, 1986, pp. 561-594209 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 126

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comunque «non è ammesso dire una sola parola che sia di scandalo». Il fatto è che la modernità è spossante. Una sfida continua. In Italia poi è arrivata così all’improvviso. Lo spavento c’è stato, i danni sul territorio anche, basta guardare le nostre coste, le nostre periferie. Pasolini è stato un profeta della scomparsa del mondo contadino, del j’accuse, dell’abiura, dell’io so ma non ho le prove. Non esistono – spiegava - equivalenze o analogie con il resto del mondo capitalistico, questo perché «nessun Paese ha posseduto come il nostro una tale quantità di culture “particolari e reali”, una tale quantità di “piccole patrie”, una tale quantità di mondi dialettali: nessun Paese, dico, in cui poi si sia avuto un così travolgente “sviluppo”. Negli altri grandi Paesi c’erano già state in precedenza imponenti “acculturazioni”: a cui l’ultima e definitiva, quella del consumo, si sovrappone con una certa logica. Anche gli Stati Uniti sono culturalmente enormemente compositi (sottoproletariati venuti a concentrarsi caoticamente da tutto il mondo), ma in senso verticale e, come dire, molecolare: non in senso così perfettamente geopolitico come in Italia»210. E alla fine ha vinto Pasolini. Ha avuto ragione anche quando aveva torto. Così viene facile arrendersi al “sapere nostalgico”211, pensare che tutto quello che è avvenuto nella magica cornice delle età passate ha valore, mentre il presente è sinonimo di corruzione. Alle forze della modernità che spingono va opposto il modello puro e innocente del passato incorrotto. Questa visione, in genere, rischia di fare un po’ di danni. Non ci permette di ragionare (ed esaminare) le condizioni di partenza: come si fa, infatti, a contestare un modello ideale? Quindi facciamo fatica a immaginare (e provare a regolare) quello che fisiologicamente si muove. Questo sapere nostalgico tuttavia ha il pregio di piacere al grande pubblico: il dolce paese che non dico, diceva Gozzano. Paese mio che stai sulla collina, cantavano i Ricchi e poveri al Festival. Italia scomparsa, dicono gli editorialisti pensosi sui giornali. Allora sì che il mondo aveva un sapore. Non

210 P. P. Pasolini, Scritti corsari, 2009, pp. 73-74211 A. Pascale, Qui dobbiamo fare qualcosa. Si, ma cosa?, 2009, pp. 49-50

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come questa modernità insapore, insalubre, stressante, omologante. Tutto l’attuale Strapaese è, magari inconsapevolmente, innanzitutto pasoliniano. Perché Pasolini, innamorato del sottoproletariato borgataro e del mondo contadino che aveva in testa e che gli sembrava il tempio della premodernità antifascista, sognava nelle lucciole il ritorno a una società superata ma migliore. Una lucciola come quelle che sicuramente anche Celentano, cantore pop dello Strapaese, vedeva nella sua via Gluck, e non è un caso se Pasolini lo ha incontrato un paio di volte e avrebbe voluto girarci un film su quella casa in mezzo al verde scomparsa212. Una lucciola come l’idea che la realtà dissolta possa avere ragione del mondo moderno.

Il Paese rurale, in bianco e nero, l’utopia nostalgica resisterà ancora per anni, in televisione, nell’Intervallo. Che dovrebbe essere una pausa, una toppa tra i programmi. Ma era come un’ipnosi. «Il ponte a schiera d'asino di Apecchio, la valle di Visso sparsa di case chiare. San Genesio, Gratteri, Pozza di Fassa. Le facciate di Sutri, la fontana bianca di Matelica. Una decina di secondi a cartolina, poi la dissolvenza e una nuova cartolina. L’eterna Italia rurale e pastorale tirata su con le pietre grigie tagliate a mano, fatta di muri a secco ricamati dall'edera e dal muschio, abitata solo dagli osci e dagli etruschi, semplice, contadina, i morti che riposano nei cimiteri di paese, la ghiaia sul fondo tra le tombe, gli scricchiolii e l’odore dei gladioli, tra la ghiaia e le bacche dei cipressi, il cielo limpido, le rose. Fantasmi del paesaggio, circonvenzioni della percezione nazionale. Il pittoresco, il locale, il premoderno, il genuino. La bella Italia semianalfabeta che per decenza ignora la grammatica. Fino a un anno fa c'era anche Carosello, la radiografia della gioia. È rimasto l’Intervallo, la giostra lenta dell'oblio, un presepe fabbricato dalla televisione»213.

212 A. Bandettini, Quel film mai nato sulla via Gluck, in “La Repubblica”, 13 gennaio 2007213 G. Vasta, Il tempo materiale, 2009, p. 10

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CAPITOLO 4La città dei numeri uno

Mi hanno ferito nella cosa che ho di più caro, l’immagine.Silvio Berlusconi

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1. Un’utopia in venditaMilano Due, località Segrate, un giorno di pioggia. Il paesaggio sembra di polistirolo espanso, con abitanti di polistirolo espanso. Guardie private al perimetro della finta città. Studi televisivi e cigni in un laghetto solcato da un ponticello di legno altoatesino. Sui bidoni e sui cartelli il logo del Biscione è ancora nitido, come nuovo. Le facciate dei palazzi sono colore rosso “terra di Siena”, abbastanza conservate, con poche scrostature. Stranite conifere garantiscono uno sfondo sempreverde al panorama. Il clima è fresco. Durante il tragitto per arrivare fin qui ho scrutato a lungo il paesaggio della periferia est milanese. Vi cercavo, senza ritrovarle, le tracce di un resoconto di viaggio che avevo letto tempo prima. Un testo che evocava una sorta di percorso iniziatico. L’avvicinamento progressivo a qualcosa di nuovo e al tempo stesso familiare. «Appena oltre il Lambro ritrovi la dolce Bassa natìa con un brivido lungo e impensato. La strada è ampia, a duplice corsia. Patetiche braide – i cassînn – sopravvivono in un paesaggio che ancora le capisce, cioè le comprende e le contiene. Tuttavia se ne stanno umili e pudiche in disparte, e proprio dal loro intonaco dimesso intuisci il miracolo imminente. Ecco infatti, oltre la curva, un rosseggiare improvviso di case non altere ma nobili, e così improvvidamente intonate con il tradizionale mattone lombardo che le prospettive scandinave della nuova città non ti allarmano per nulla». Sono parole del giornalista e scrittore Gianni Brera. Stampate in un volume che si intitola Milano 2: una città per vivere214. Pubblicato nel 1976, a quartiere quasi ultimato e in buona parte già abitato, dalla Edilnord Centri Residenziali. La Edilnord è la società che fa capo a tale intraprendente e giovane imprenditore milanese, Silvio Berlusconi, responsabile dell’operazione. Il terreno, grande circa 700mila metri quadrati, era stato acquistato nel 1969. In meno di dieci anni e con ingenti capitali di finanziamento una cittadella di circa diecimila abitanti sorse dal nulla.

214 Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976

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Cammino sugli appositi sentieri, delimitati e separati, paralleli e obliqui senza mai incontrarsi, quello per i pedoni, quello per le biciclette, quello per le auto. Osservo le scuole, l’asilo, la chiesa, il lago artificiale, i negozi sotto i portici, lo sporting club, le piscine, i parcheggi sotterranei, gli alberghi, il centro congressi, i palazzi degli uffici, gli studi Mediaset. Sulla piazza antistante il laghetto baby sitter annoiate incrociano frotte di impiegati in pausa pranzo, tutti a dar da mangiare ai cigni che allungano spasmodico il collo sulle rive. So di trovarmi in un quartiere simbolo. Un bizzarro mix tra la città ideale del rinascimento italiano e une versione sterilizzata e un po’ kitsch del sogno suburbano americano. È facile qui sentirsi inseguiti dall’ombra del suo creatore, quel Berlusconi che tra la fine dei Sessanta e l'inizio dei Settanta confidò ai suoi primi soci di impresa: «Io farò una città dove c’è tutto, dalla clinica dove si nasce al cimitero»215.

I primi anni Sessanta furono un periodo d’oro per l’edilizia a Milano. Nel corso di un decennio circa 600.000 persone, l’equivalente della popolazione di una grande città, si trasferirono nel capoluogo lombardo e nei suoi dintorni216. Attorno alla periferia della città i palazzoni residenziali crescevano come funghi. L’Italia della Ricostruzione aveva lasciato il posto all’Italia dello sviluppo accelerato. Il volto delle città e del territorio cambiava. Mancava, tuttavia, un modello regolatore, una prospettiva di lungo respiro: i pochi piani regolatori realizzati, quello di Milano era del 1953, non sapevano opporsi alla crescita disordinata. Anzi, le connivenze tra funzionari pubblici e immobiliaristi contavano più della legge: il fenomeno della speculazione edilizia dilagava, anche perché la domanda tirava. L’idea di realizzare una sorta di città satellite destinata a ceti abbienti non aveva molti precedenti, perlomeno in Italia. Ciò che si voleva costruire era una gemma urbanistica pensata per la nuova borghesia delle professioni, tecnocrati e manager che puntano all’abitazione come «parte del

215 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 9216 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 58

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circuito jet – carta di credito – club d’affari – beni in leasing»217. Un azzardo imprenditoriale. Una visione del futuro.

Milano Due era un’utopia in vendita. Rileggo le vecchie inserzioni pubblicitarie: «la città dei numeri uno», «una città per vivere», «la città in campagna», «il nuovo volto della città». A distanza di oltre trent’anni sembrava anticipare molte cose. Lo stesso volume della Edilnord, chiunque avesse acquistato all’epoca un alloggio ne riceveva una copia, è un collage significativo. Basterebbe lo slogan di apertura: «Milano 2: un’esperienza completa e affascinante, una proposta da meditare, un suggerimento concreto per il futuro della città». Che a sua volta riprendeva quelli pubblicati nelle inserzioni sui giornali, come il prestigioso Corriere della sera. Insistenza sulla novità del progetto, con toni quasi utopici («Milano 2: un nuovo modo di costruire»; «Una proposta abitativa d’avanguardia»). Ricorso continuo alla legittimazione fornita dai saperi tecnici («Soluzioni urbanistiche veramente inedite»). Abuso della retorica del fare («Dopo tante parole finalmente un’iniziativa concreta»). Spudorata capacità di negare ogni evidenza («Un’alternativa all’espansione edilizia disordinata e parassitaria»). Attenzione alla sfera di una libertà individuale e quasi ludica («Proposte abitative per le diverse esigenze», «Il diritto di giocare»). Molto dell’armamentario comunicativo del futuro “presidente operaio” è già leggibile in questi frammenti.Il progetto Milano Due rappresentava, tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta, nel pieno dell’era della contestazione, l’affermazione – passo dopo passo – del paradigma dello status symbol. Non si trattava semplicemente di complessi residenziali, bensì della manifestazione spaziale di un nuovo stile di vita. Berlusconi si assicurò che i residenti fossero isolati dagli aspetti “sgradevoli” della vita cittadina: traffico, criminalità, immigrazione, operai scioperati, la città stessa. La “nuova

217 G. Ruggeri, M. Guarino, Berlusconi. Inchiesta sul signor Tv, 1994, p. 46

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Milano” fu creata secondo una serie di caratteristiche architettoniche innovative. Il quartiere era separato in modo netto dal resto della città, delimitato da muri, ponti, strade. Gli edifici erano per la maggiorparte orientati verso l’interno del complesso e raramente verso il territorio circostante, circondati da verde e con un laghetto centrale. Un efficiente sistema di portineria e vigilanza, sia diurna che notturna, completava il quadro della sicurezza interna. Il caso di Milano Due è esemplificativo della ridefinizione dei canoni che sono alla base dei processi di progettazione e costruzione dello spazio urbano, e inoltre è simbolicamente legato alla profonda trasformazione che caratterizza la vita culturale italiana dalla fine degli anni Settanta218. L’eterno profumo di Strapaese si mischia alle luci seducenti della neotelevisione. La “rivoluzione conservatrice”, ossimoro efficace per descrivere le trasformazioni politiche che alfine ne matureranno, era già lì. In tutto ciò, solo agli inizi, l’idea della televisione era considerata appena un servizio aggiunto, un fringe benefit, qualcosa di simile al frigobar e allo schermo nelle camere d’albergo, un dippiù per incrementare le vendite. «Come gli mettiamo la piscina – è il ragionamento di Berlusconi – mettiamogli anche la televisione a circuito chiuso»219.

2. Valige di soldi e città di sogni

L’idea venne a Berlusconi mentre sorvolava con l’elicottero la periferia e i campi ai confini di Milano. Individuò una vasta area di proprietà del conte Leonardo Bonzi, nel comune di Segrate, a ridosso del Parco Lambro, già lottizzata e in procinto di essere ceduta in parti separate. L’area fu acquistata alla fine del 1968 da una nuova società, sempre del ramo Edilnord. Il terreno acquistato aveva una forma grosso modo rettangolare, e si pensò di insediarvi tre nuclei di edifici. In base alla convenzione stipulata dal conte Bonzi con il Comune di Segrate, l’impresa realizzatrice

218 E. Bazzaco, N. Origoni, Mia Milano: quale città, in www.eddyburg.it 219 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 47

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dell’insediamento avrebbe dovuto accollarsi parte degli investimenti relativi alle infrastrutture, attraverso il versamento di denaro o l’esecuzione di opere. Per Berlusconi la condizione non fu un problema: lui cominciava a pensare in grande, costruire un solo palazzo o un gruppo coordinato di palazzi, come aveva fatto in passato, non gli conveniva più. Dal Comune riuscì a ottenere anche una variante in base alla quale il 10 per cento della volumetria totale sarebbe stato destinato ad uffici220. Voleva costruire una piccola nuova città, realizzare uno dei più vasti e ambiziosi progetti residenziali del dopoguerra.

Lui, prima il “Berlusca”, detto con ironia lombarda, poi il “Dottore”, poi il “Cavaliere”, e oggi, con deferenza, il “Presidente”, con una scansione del suo medagliere onomastico sempre maiuscolo e in traiettoria verticale, ad ogni trasformazione sempre cancellando le porzioni minacciose del suo passato, già allora – agli inizi – è lo stereotipo del self-made man, l’uomo che si è fatto da solo. Nato nel 1936 da una famiglia del ceto medio in un quartiere operaio di Milano, cominciò a lavorare come cantante e cabarettista sulle navi da crociera. Una volta laureato in giurisprudenza, fece il suo ingresso nel mondo degli affari durante il boom economico. Dopo un breve periodo in cui lavorò per altri, decise di provare a mettersi in proprio, cercò i terreni su cui edificare e preparò un progetto edilizio, aiutandosi coi finanziamenti della piccola banca in cui lavorava il padre221. Nel 1963, dopo questa modesta partenza, Berlusconi fece un improvviso e inaspettato salto di qualità con un megacomplesso residenziale per 4000 persone, il corrispettivo di un paese di discrete dimensioni, in una posizione non molto promettente fuori Milano, località Brugherio, dominata da stabilimenti industriali e chimici e isolata dai negozi e dal resto della popolazione. Il fatto che un gruppo di investitori fosse disposto ad affidare a un ventisettenne alle prime

220 Ibidem, pp. 33-34221 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 119

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armi un progetto di quella portata riflette il clima di boom edilizio che si respirava nella Milano dei primi anni Sessanta e nel contempo dice molto delle capacità persuasive di Berlusconi222.

Brugherio fu, per molti versi, il suo primo grande affare e definì lo schema della sua carriera futura. Per il progetto fu assoldato un gruppo di architetti giovanissimi, alcuni ancora studenti all’ultimo anno di università, guidati da Guido Possa, e che in buona parte ritroveremo nei futuri progetti edili berlusconiani223. Già allora l’idea era quella di «offrire un ambiente e non semplicemente un appartamento soleggiato»224. Quando il progetto fu avviato, nel 1964, il mercato aveva iniziato a cambiare direzione e nel 1965, quando i primi 140 appartamenti furono completati, era in una fase di stallo. Per cercare di risollevare le vendite fu lanciata una campagna pubblicitaria, anche con l’apertura di un punto vendita al centro di Milano. Gli slogan pubblicitari e la persuasione del cliente, come raccomandava sempre il capo, erano già metà dell’opera. Per esempio, uno dei claim del progetto era: «Quando a Milano piove, a Brugherio c’è sempre il sole!». E fa niente se non era esattamente vero: a Brugherio c’è lo stesso clima di Milano – nebbioso, grigio e umido – con l’aggiunta dello smog delle fabbriche225. Dopo il primo palazzo rimasto invenduto, i soci volevano chiudere. Berlusconi insiste. Di fronte allo stallo del mercato e alla carenza di acquirenti privati è capace di inventarsi anche metodi di persuasione meno ortodossi. Le sue biografie autorizzate sono ricche di aneddoti in odore di mito. Come quella volta che, per salvarsi dal fallimento di Brugherio, decise di puntare sul mercato dei fondi professionali. Così, tra raccomandazioni di vecchi amici e corteggiamenti di segretarie, si impegnò nel convincere i dirigenti di un importante fondo pensionistico ad acquistare un blocco di appartamenti,

222 G. Fiori, Il venditore, 2004, pp. 29-31223 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 16224 Ivi225 A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, pp. 34-35

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aiutandosi con un’elaborata messinscena. Per la vista al cantiere di questi potenziali salvatori dell’affare, egli mise al lavoro tutti i suoi uomini per ripulire, rassettare e rifinire tutto ciò che potevano, in modo che quel posto sembrasse il più finito e presentabile possibile. Per il giorno della visita Berlusconi fece in modo che un nutrito gruppo di suoi parenti venisse al cantiere, fingendosi clientela interessata all’acquisto di appartamenti. Il piano sembrava funzionare quando arrivò «una cugina un po’ scema», secondo le parole dello stesso Berlusconi, e iniziò a salutare e abbracciare tutti i parenti. Il volto del dirigente del fondo pensioni si rabbuiò quando divenne ovvio che era stato raggirato. «Che strano, evidentemente tutti i vostri clienti non fanno parte di una cerchia molto ampia, visto che si conoscono tutti». Poi si accese una sigaretta, gettò il pacchetto nella toilette e disse a Berlusconi: «Caro giovanotto, qui è tutto molto bello, bucolico ma, vede, ho appena finito le sigarette, quante ore mi ci vogliono per comprarne un altro pacchetto?»226. La visita, quel giorno, fu un disastro totale ma Berlusconi si diede da fare per ribaltare la situazione. Alla fine il fondo di previdenza acquisto un discreto numero di appartamenti a Brugherio, le banche finanziatrici concessero nuovi generosi mutui, il mercato immobiliare conobbe una fase di ripresa. In particolare il costruttore Berlusconi fece tesoro della lezione del pacchetto di sigarette: era necessario dare appeal alle zone periferiche, e soprattutto servizi. Così fu anticipata la realizzazione di alcune strutture utili, come le scuole, il campo giochi, una manciata di negozi e il mini-market, la cui realizzazione era prevista soltanto al termine dei lavori. Berlusconi si applicò sulla commercializzazione dei prodotti, sulla cura dei dettagli, sui rapporti con i clienti. Non bastava vendere case: bisognava vendere il verde, i servizi, i negozi, la sicurezza, il divertimento dei bambini, la signorilità227. «La novità sostanziale stava nel ribaltamento psicologico imposto da Berlusconi alla mentalità dei suoi clienti. Fino a quell’epoca, un quartiere

226 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, pp. 24-25227 Ibidem, pp. 28-32

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periferico sembrava destinato alle fasce meno abbienti. Lui invece ribattezzò Brugherio con lo slogan: “Un paradiso per quattromila”. E i proprietari dei suoi mille appartamenti finirono per crederci, mentre gli urbanisti scuotevano il capo increduli»228.

Così il progetto Brugherio fece di Berlusconi un importante imprenditore immobiliare e gettò le basi per la sua impresa successiva di maggior respiro, Milano Due. A Segrate, 712.000 metri quadrati pagati tre miliardi di lire, un progetto residenziale di medio-alto livello per 10mila persone229. Il volume totale edificato ammontava a 1.709.000 metri cubi, di cui 1.282.000 per il residenziale, 142.000 per il direzionale, 285.000 per le attrezzature230. È interessante notare come colui che più tardi si presenterà come un “costruttore di città” all’inizio intervenga nell’edilizia non costruendo assolutamente nulla: compra le aree, ottiene i permessi, fa la pubblicità e vende, ma il mestiere del muratore lo lascia fare ad altri. Preferisce delegare questo lavoro ad imprese specializzate. In un vecchio libro del 1981, gli architetti Alessandro Balducci e Mario Piazza avevano ricostruito con efficacia gli scenari in cui questa operazione si collocava: «L’interesse è concentrato tutto sul controllo e sulla gestione degli investimenti, e i risultati positivi delle due operazioni (Edilnord e Milano Due) sono riscontrabili proprio sotto questo punto di vista dal fatto che Berlusconi riesca a realizzare due interventi partendo da una disponibilità di capitali propri praticamente nulla. La cura fin nei minimi particolari della commercializzazione e della pubblicità non è comparabile ad alcun altro intervento di questo tipo. Tutta l’attività è condizionata al consolidamento e allo sfruttamento più razionale possibile di rapporti privilegiati sia con il mondo politico che con il mondo finanziario»231. Di certo è difficile impelagarsi nella questione dei

228 Ibidem, pp. 31-32229 G. Fiori, Il venditore, 2004, p. 36230 Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976, p. 24231 A. Balducci, M. Piazza, Dal parco sud al cemento armato, 1981

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finanziamenti che il giovane costruttore andava rastrellando, sul come li ottenesse, su quali itinerari tortuosi, anche attraverso banche e società straniere, essi seguissero. La bassa cucina degli affari immobiliari, d’altronde, era spesso alimentata da scambi di favori, tangenti, complicità con il potere politico. Prescinderne non doveva essere facile. Quando il discorso prende questa piega viene in mente quella scena del Caimano, il film di Nanni Moretti, la valigia che cada dal soffitto dell’ufficio, miliardi e miliardi di vecchie lire che si spandono nell’aria, tutti quei soldi caduti dal cielo, una domanda ossessiva, «da dove vengono tutti quei soldi?». Ci si ferma lì.

3. Reparto vendite

Le politiche urbane e il “fare città” rispecchiavano le consuetudini nella gestione della res publica italiana, prodiga di connivenze tra sistema politico e mondo imprenditoriale. La proliferazione di convenzioni tra amministratori e proprietari di terreni, per esempio, era in quegli anni un fenomeno generale nell’area milanese. Lo schema è sempre quello: il proprietario dei terreni fa qualcosa di pubblica utilità per il Comune e quelli del Comune gli concedono di costruire. La “compromissione giuridica” di molte parti della periferia operata tramite il sistema delle convenzioni aveva, di fatto, preparato per l’immissione sul mercato fondiario, nel corso degli anni Sessanta, una riserva di terreni sui quali avrebbero preso forma alcune tra le più importanti speculazioni del decennio successivo232. Il passo successivo sarà quello di passare da un sistema di regole definite dalla pianificazione urbanistica a quella che invece si può definire una vera e propria “urbanistica contrattata”, frutto di pressioni e mercanteggiamenti di potere233. Al tempo stesso, gli anni di Milano Due erano anni di ricomposizione degli attori presenti sul mercato immobiliare dell’area milanese. Un

232 Ibidem233 E. Bazzaco, N. Origoni, Mia Milano: quale città, in www.eddyburg.it

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periodo in cui la molteplicità e la frammentazione di iniziative e imprenditori che avevano caratterizzato gli anni del boom lasciava il posto a un mercato più selettivo, caratterizzato soprattutto da poche operazioni di grande portata, promosse da alcune tra le maggiori società immobiliari italiane. Una situazione che mutava i rapporti di forza tra promotori, istituzioni locali, partiti politici. Fu proprio la lottizzazione di Milano Due promossa dalla Edilnord berlusconiana a inaugurare, nell’area milanese, un «modello di urbanizzazione a larga scala» divenuto in seguito comune. Come annotano Piazza e Balducci: nel negoziato con Berlusconi «il ruolo dell’amministratore comune è del tutto subordinato all’operatore immobiliare, in pratica le condizioni che vengono “imposte” all’Edilnord non intaccano mai le intenzioni e i progetti della società. I patti convenzionali sono tutti concentrati sulla realizzazione, a carico della Edilnord, di opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Queste opere sono già tutte previste nei progetti della società perché sono un elemento che caratterizza il tipo di intervento»234. Alcune peculiarità sembravano allora distinguere la Edilnord da altri operatori del mercato edilizio: un’ampia disponibilità di capitale finanziario, una crescente tendenza verso la diversificazione delle proprie attività e, almeno a Milano Due, una concentrazione sulle fasi iniziali (organizzazione, progettazione) e finali (gestione) dell’operazione, delegando a imprese esterne la fase della costruzione vera e propria235. In fondo, Berlusconi ci tiene a non essere confuso con un banale palazzinaro. «Chi è il palazzinaro?» gli chiedono in un’intervista. E lui: «Uno che improvvisa il cantiere, costruisce uno stabile, ma non pensa nemmeno al marciapiede, di cui deve incaricarsi il Comune»236.

Gli architetti che progettano Milano Due sono una piccola squadra di giovani laureati da poco, alcuni già reduci dall’impresa di Brugherio: Guido Possa, Enrico Hoffer,

234 A. Balducci, M. Piazza, Dal parco sud al cemento armato, 1981235 Ibidem236 R. Gervaso, La mosca al naso, 1980

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Giancarlo Ragazzi e un gruppo di esterni che di volta in volta li affianca. Nella Edilnord, tra una trasformazione societaria e l’altra, oltre a Silvio Berlusconi ci sono il fratello Paolo, il suo compagno di liceo Romano Comincioli, il capo delle relazioni esterne Vittorio Moccagatta, il giornalista Giorgio Medail, l’eterno braccio destro Fedele Confalonieri. Berlusconi li imbarca tutti sull’aereo e li porta a vedere le new town del nord Europa, in Gran Bretagna, in Olanda, in Svezia237. Grazie a interviste rilasciate dallo stesso Berlusconi, in una vecchia biografia scritta dal giornalista Giorgio Ferrari, oppure in un lungo colloquio registrato nel 2000 da Paolo Guzzanti e pubblicato nove anni dopo in un suo libro, è possibile ricostruire i passi della nascita di questa “nuova città” direttamente dalla testimonianza del suo creatore. È lui stesso a spiegare che «preferivo avere a disposizione degli architetti giovani, con cui stabilire un rapporto di collaborazione fortemente interattivo, con cui poter progettare e adattare, discutendo i problemi man mano che affioravano»238. Uno dei primi problemi da affrontare fu quello della circolazione stradale. Berlusconi insisteva per avere una città senza auto, o almeno una città in cui auto e pedoni non avrebbero mai dovuto incrociarsi. Per Milano Due il suo team adottò la soluzione di tre circuiti del tutto indipendenti per vetture, biciclette e pedoni. «Mi venne l’idea di trattare il traffico automobilistico alla stregua di un fiume che scorre, cioè abbassato di qualche metro rispetto al livello delle abitazioni e attraversato da numerosi ponticelli aventi pendenze minime, in modo da favorire il transito di pedoni e biciclette. In questo modo diventava possibile accedere a tutti i servizi senza incontrare neanche un’automobile. Il sogno di chiunque, insomma»239. Un’altra questione decisiva fu quella dei servizi. Grande rilievo venne dato alle scuole e ai loro differenti raggi d’affluenza: brevi per gli asili, uno per ciascuna delle tre unità di Milano Due; più estesi per le due scuole elementari e per l’unica

237 P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 21238 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 18239 Ibidem, pp. 34-35

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scuola media. Numerosi erano i parchi giochi destinati ai ragazzi secondo le diverse età. Il progetto prevedeva inoltre un edificio religioso, uno Sporting Club e una piazza centrale che si affacciava su un piccolo lago artificiale. «Era necessario vivificare il quartiere. Ricordo che per vendere i negozi decisi di differenziare le locazioni a seconda delle potenzialità di quel mercato per il singolo negozio, per cui a certi negozi ho dovuto cedere anche gratuitamente i locali perché era importante avere certi negozi, anche se non c’era un livello di vendita da giustificarli. Avrebbe dovuto esserci anche un grande centro diversificato per le mostre, ma il Comune non me lo lasciò fare»240. Si decise che le costruzioni fossero di tre tipi: accanto alle costruzioni basse a schiera, ospitanti al piano terra sotto i “portici” i negozi, ci sarebbero state palazzine più alte, con la loro forma ad “elle” e a “c”, poi ci sarebbero state le “torri” con appartamenti più lussuosi, e infine altri stabili avrebbero ospitato un hotel, un residence, palazzi di uffici. «Anche il concetto di personalizzazione dell’appartamento – precisa Berlusconi – venne ampliato: al cliente volevo dare la possibilità di collocare le pareti divisorie del suo appartamento e di scegliere i materiali per i rivestimenti interni»241. L’ambiente fu progettato valorizzando il verde, inteso come tessuto connettivo dell’intero quartiere e dell’arredo urbano. «Pensando a Milano Due realizzavo l’idea della “casa di campagna in città”, di una casa che offriva molte delle comodità proprie di una città, senza doverne sopportare il caos, lo smog, la penuria di spazio. Ero convinto che Milano Due avrebbe attratto abitanti, prima ancora che per l’accuratezza delle finiture o per le felici soluzioni date agli appartamenti, per il fatto che soddisfaceva il desiderio di un diverso stile di vita»242. Milano Due tuttavia non voleva essere una vera e propria “città-satellite”, ma piuttosto una “città-figlia” della grande metropoli, capace di svolgere, a differenza dei quartieri costruiti secondo i criteri dell’edilizia popolare, un ruolo

240 P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 96241 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 35242 Ivi

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attivo. Sotto il progetto di Milano Due stava un’ambizione smisurata. Berlusconi all’epoca disse: «Superato il concetto del quartiere dormitorio (quello che serve unicamente al pernottamento senza possibilità di divertimento, di comunicazione, di relazioni sociali) e del quartiere ghetto (dove esistono attrezzature capaci di favorire la vita comunitaria embrionale e il divertimento, ma limitatamente alla piccola comunità residente con tutti gli inconvenienti relativi, e cioè vita privata sotto controllo, pettegolezzo eccetera), è stato allora pensato un quartiere “aperto” che, per la sua particolare conformazione, consenta ai residenti di conservare la privacy nelle zone residenziali e di instaurare nei luoghi di incontro, appositamente concepiti, una osmosi vitale e di rinnovamento continuo con la grande città; un quartiere cioè che, superdotato per quanto riguarda le attrezzature commerciali, sportive, ricreative e culturali, funga da polo d’attrazione nei confronti della città stessa, dando vita a un flusso di scambi sconosciuto ai quartieri fino ad ora realizzati. Un quartiere pilota che, profittando di questa prerogativa e di altre particolari caratteristiche ambientali, possa costituire un teatro ideale per lo sviluppo armonico della vita sociale, familiare, individuale»243. Un progetto, dunque, che va al di là della pura e semplice speculazione immobiliare. C’era «la voglia e l’orgoglio di inventare una nuova formula urbanistica»244. Ma anche quella di vendere, conquistare clienti. «Devi conoscere ciò che vendi e devi soprattutto far capire i vantaggi che può dare a chi lo acquista. Questo valeva soprattutto quando si dovevano vendere le case: io non dicevo che bella casa, ma illustravo come sarebbe cambiata la vita di chi ci fosse andato ad abitare»245. Racconterà in seguito Berlusconi: «Ho cominciato dall’edilizia perché, finita l’università, ho creduto, guardandomi in giro e con pochi soldi che avevo in tasca guadagnati quando ero studente, che quello fosse un settore che poteva dare i profitti più alti: si costruiva a 100 e si vendeva a 200. Sono

243 Ibidem, p. 36244 P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 98245 Ibidem, p. 159

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entrato nell’edilizia, ma ho cercato di innovare. Le innovazioni sono state molte, ne cito una per tutte: quando l’edilizia ha cominciato a perdere i vantaggi dell’avviamento, anziché costruire case sparse abbiamo costruito dei quartieri. Così, una volta finita la prima parte del quartiere, c’era la possibilità di vendere anche tutto il resto, fornendo tra l’altro dei servizi che esulavano dal concetto ristretto di “casa”. Ed è in questo modo che abbiamo avuto successo»246.

Dopo le precedenti esperienze, Berlusconi si convince che qualsiasi operazione imprenditoriale funzionava solo se la si sapeva vendere bene. Così, nell’autunno 1969, dà avvio ai lavori di Milano Due pensando prima di tutto ad una “vetrina” per il pubblico. «Cominciammo con la costruzione della portineria centrale, dei primi edifici in cui predisporre gli appartamenti campione, di un campo giochi, di un tratto di strada attraversato da un piccolo ponte, di un bar e di alcuni altri servizi. Ci tenevo così tanto a questa “zona vetrina” che decisi di non dare il via alla campagna promozionale fino a che non fosse stata completata»247. Furono comprate delle paginate pubblicitarie sul Corriere della sera, usando lo strumento, allora inedito, della “pubblicità redazionale”, foto e articoli sull’idilliaca vita del quartiere, scritti con grafica e stile del tutto simili ai normali pezzi del quotidiano. La risposta degli acquirenti fu, da subito, più che soddisfacente. «I primi anni ero il venditore principe, per cui ero lì vendevo io, facevo le trattative io. Stavo nel quartiere tutta la settimana, mi occupavo personalmente di molte cose, poi seguivo anche la parte progetti, perché c’erano questi giovani miei amici architetti che erano bravissimi, ma amletici, assediati dai dubbi, e io dovevo esserci»248. I prezzi, inizialmente convenienti, salirono subito. I primi appartamenti venduti nel 1971 costavano 125mila lire al metro quadro, ma solo due anni dopo si viaggiava sopra le 350mila, e nel 1981, a

246 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, pp. 36-37247 Ibidem, p. 37248 P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 116

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costruzione ormai ultimata, arriveranno a 1.800.000. E ancora di più se si comprava sulle “torri giardino”, fortilizi del lusso con palestra, piscina, sala giochi e terrazze249. I tempi di consegna invece erano piuttosto lunghi (due o tre anni), ma proprio questo lasso di tempo consentiva a Berlusconi di finanziare le operazioni. I primi ad acquistare a Milano Due furono dei clienti che avrebbero voluto metter su casa a Brugherio ma che si erano trovati di fronte al tutto esaurito. La domanda per la cittadella in costruzione a Segrate si fece così sostenuta che l’impresa si mise ad adottare il sistema delle “ricevute provvisorie”, vincolanti solo per il compratore e non per l’impresa costruttrice, imponendo anche il rogito prima dell’ingresso nell’appartamento. «Alla media borghesia bisognava dare l’idea di un salto di qualità, anche se per noi non comportava nessuna spesa in più. Per questo ho fatto delle case che vendevo molto prima degli altri e a un prezzo superiore»250. L’anno del boom fu il 1973: Berlusconi disponeva di 30 accompagnatori e di 13 venditori. Nel solo mese di maggio il valore degli appartamenti venduti ammontava a 7 miliardi, di cui 1 miliardo e 700 milioni raccolto in un solo weekend251. Per quella tipologia immobiliare, d’altronde, si trattava quasi di un monopolio. Verso la metà degli anni Settanta si impose però una nuova crisi del mercato. Allora, per vendere case e uffici la Edilnord decise di ricorrere nuovamente agli investitori istituzionali (anche di un certo livello, come la Banca d’Italia, la Ras Assicurazioni, l’Ente Previdenziale Medici) che nei periodi di recessione erano gli unici a potersi permettere acquisti. Grazie a queste cessioni arrivarono a Milano Due molte famiglie affittuarie252. Nel 1977 il mercato del frazionato riprese vigore. Furono completati il Centro Direzionale e la piazza che si affaccia sul laghetto artificiale. Dopo un tentativo di realizzare un piccolo polo fieristico (fu lanciata la manifestazione “Milano Vende

249 P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 21250 P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, pp. 159-160251 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, pp. 38-41252 Ibidem, p. 50

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Moda”), la maggiorparte degli spazi furono acquistati da grandi aziende per i loro uffici, come la Ibm. I rendiconti di Milano Due parlavano chiaro: quel milione e quattrocentomila metri cubi di costruzioni su 713mila metri quadrati di superficie erano diventati un grande business253. Alla fine del 1979, quando tutto ormai era pressoché costruito, le abitazioni ancora disponibili raddoppiarono di valore. Un appartamento a Milano Due era ormai uno status symbol. Addirittura si parlò di replicare il modello all’estero. A quanto pare, Berlusconi cominciò a trattare il progetto di una San Paolo Due in Brasile e perfino quello di una Teheran Due in Iran, su invito della sorella dello Scià di Persia allora ancora al potere254. Non se ne fece nulla, ma in compenso si tentò di replicare più vicino. Berlusconi ci provò con Milano Tre, nel comune di Basiglio, ben più lontana dalla vera Milano, che però non sarà affatto la fotocopia del precedente successo. Risente di un mercato che ondeggia, della nuova legge urbanistica Bucalossi che stabiliva un aumento degli oneri relativi all’edificazione dei suoli, dei frequenti cicli negativi nel business dell’immobiliare. Risente anche di un Cavaliere edilizio già crepuscolare, quello che annoiato dai vecchi giocattoli ormai guarda altrove, alla tv, ultima frontiera del nuovo255. Uno strumento cresciuto proprio, inaspettatamente, sotto i portici di Milano Due. Scriverà un biografo francese, Eugène Saccomano: «Fa lesto i suoi conti. Tre soli piccoli minuti di pubblicità televisiva valgono il prezzo d’un appartamento in un complesso residenziale che ci sono voluti anni a costruire e che ha richiesto investimenti molto costosi»256.

4. Garden cities

253 Ibidem, pp. 50-51254 P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 26255 Ibidem, pp. 30-34256 E. Saccomano, Berlusconi: le dossier vérité, 1994, p. 63

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Gira e rigira, tra una convenzione e un mutuo, spunta sempre la visione di quello che la città rappresenta e di come potrebbe diventare in futuro. Quando istruiva i venditori della Edilnord che dovevano piazzare appartamenti nella “città dei sogni” di Milano Due, Berlusconi ripeteva ogni volta le tre regole fondamentali per conquistare il cliente. Primo: regalare un fiore alle signore, poiché sono sempre le mogli che decidono gli acquisti e mai i mariti. Secondo: accendere la tv su TeleMilano, emittente di quartiere, vantarla come un optional esclusivo che non esiste altrove. Terzo: schiacciare al momento giusto, con sapienza scenica ed opportuno effetto sorpresa, il pulsante che alza o abbassa le tapparelle elettriche257. Non che bastino un telecomando e un alzapersiane elettrico per farci entrare nel regno suburbano di Utopia, tuttavia è innegabile come dietro la costruzione ex novo di città o pezzi di città, esulando dai casi di pura speculazione immobiliare, ci sia un progetto di organizzazione sociale, una visione della convivenza umana e dell’evoluzione delle sue forme.

Abbiamo visto come molti autori, teorici ed empirici, si sono occupati, in ogni epoca, della città e della sua, diciamo così, “visione morale”. Mentre nel passato gli studiosi non si erano curati dell’architettura e dell’estetica del progetto urbano, la crescita delle maggiori città europee e nordamericane nel XIX secolo fece sorgere le nuove professioni dell’ingegneria civile e della pianificazione urbana. Si sa che in passato erano stati fatti molti tentativi di creare la città perfetta, con pochissimi risultati sul piano pratico. Ma nell’Ottocento il bisogno forzato di imprimere una pianificazione a un’espansione delle metropoli che pareva non conoscere sosta impresse un nuovo impeto alla progettazione urbana utopistica. I manuali di architettura e sociologia urbana spiegano di due tendenze concorrenti nella visione utopica della nuova città, entrambe però concordi sul fatto che, per quanto la moderna metropoli industriale fosse riuscita a incanalare il commercio e ad

257 P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1990, p. 38

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organizzare il controllo politico, lo aveva fatto ad un costo in termini morali, spirituali, etici e ambientali non più sopportabili258. Nella prima corrente di pensiero viene incluso quel coro di voci appartenenti all’opinione pubblica colta che vedeva nel modello di città classico e rinascimentale l’apice della civiltà moderna, preoccupandosi in particolare dell’impatto che la rivoluzione industriale poteva avere sulle occupazioni tradizionali e le comunità locali. Sia i commentatori liberali che quelli conservatori trovavano che vi fosse qualcosa di negativo nella città industriale e commerciale, ma ciò che univa queste visioni “tradizionaliste” o, già all’epoca, “nostalgiche” era la ricerca di quella che Bruno Zevi chiamava la “città a scala umana”. Si andava così a invocare, e progettare, un revival delle comunità civiche a bassa densità, sotto le varie definizioni di new town e garden cities259. La seconda corrente di pensiero è associata invece alla rivoluzione estetica e artistica del modernismo, con il suo innamoramento per le linee minimaliste, pulite e astratte, che doveva diventare la firma collettiva di una nuova generazione di urbanisti ai quali la città appariva come un luogo dalle infinite possibilità sperimentali260. Le Corbusier ne fu il simbolo, attraverso il progetto della “città funzionale” e con il passaggio dalla scala orizzontale a quella verticale, espresso in modo particolare nelle unité d’habitation, blocchi di torri geometricamente ordinate che sarebbero poi diventate emblematiche dei programmi di edilizia popolare che cominciarono a definire il paesaggio urbano delle città grandi e piccole di tutto il mondo, a partire dagli anni Cinquanta. D’altronde fu il suo best-seller Verso un’architettura, pubblicato nel 1923 a contenere la famosa (o famigerata) affermazione secondo la quale, come un aereo è una macchina fatta per volare, così «una casa è una macchina fatta per abitare»261.

258 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, pp. 77-78259 Ibidem, p. 78260 Ivi261 Ibidem, pp. 88-89

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Sicuramente ciò che sembra fare al caso nostro è la prima delle due correnti di pensiero, quella che poi sfocerà nello sviluppo del City Beautiful Movement, del New Town Movement, del Garden City Movement. Il suo massimo ispiratore è Ebenezer Howard, un inglese emigrato negli Stati Uniti a ventuno anni, dove trovò lavoro come stenografo a Chicago e si appassionò a talune letture di pensatori spiritualisti alla Withman o utopisti alla Bellamy, e una volta tornato in Inghilterra divenuto impiegato del tribunale di Londra. di Londra. Non doveva essere molto indaffarato sul lavoro se nel 1898 trovò il tempo per illustrare le sue teorie in Tomorrow, a paceful path to real reform, opuscolo ripubblicato quattro anni dopo col titolo che lo rese famoso, L’idea delle città giardino. Questo diventò il manifesto di un nuovo movimento per la pianificazione, la Garden City Association, che Howard aveva contribuito a fondare e che avrebbe esercitato un forte influsso sulla pianificazione urbana contemporanea in tutti i paesi anglosassoni262. Come ogni utopista che si rispetti, alla base del suo piano c’era una big idea: salvare la città dal congestionamento e la campagna dall’abbandono. La tesi di Howard era piuttosto semplice: egli pensava che, tra il risiedere in città oppure in campagna, ci fosse una terza alternativa «nella quale tutti i vantaggi della vita cittadina più esuberante e attiva e tutte le gioie e le bellezze della campagna si ritrovano in una perfetta combinazione; e la certezza di poter vivere questa vita costituisce la calamita che darà i risultati per i quali noi tutti stiamo lottando – lo spontaneo muoversi della popolazione, dalle nostre affollate città verso il cuore della nostra buona madre terra, fonte, insieme, di vita, felicità, ricchezza e potere»263. La città giardino da lui immaginata avrebbe unito i vantaggi della vita urbana ai piaceri della campagna (uno slogan destinato, insomma, ad avere successo). In un certo senso Howard – e non è il solo nella storia – non ha fiducia nelle grandi città, e pensa che queste

262 Ibidem, pp. 79-85263 E. Howard, L’idea delle città giardino, 1962, p. 5

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debbano essere divise in piccole unità autosufficienti. Per il compianto Bruno Zevi, «come scrittore e sognatore di nuove comunità, Howard è l’ultimo della lunga schiera di utopisti del XIX secolo; come statista e realizzatore, è, più che un profeta, il primo campione dell’urbanistica moderna»264. Non che lui fosse il tipo autoritario che desiderava «muovere la gente di qua e di là, come pedine su una scacchiera», ma era convinto che «le città giardino fossero semplicemente i veicoli di una ricostruzione progressista della società capitalistica che l’avrebbe resa simile a un’associazione cooperativa di comunità affini». L’uso della metafora della calamita voleva proprio mettere l’accento sulla sua convinzione che, per riuscire ad affermarsi, la città giardino deve vendersi da sé, deve essere una comunità di elezione invece che obbligatoria265. L’essenza della città utopistica di Howard è la comunità autonoma tipica del villaggio feudale, collegata a un limitato sviluppo industriale e messa in condizione di utilizzare i moderni mezzi di trasporto per collegare l’uno con l’altro i centri urbani. Caratteristica importante del progetto è, infatti, che questi “satelliti” fossero collegati tramite ferrovie a una città centrale, in un insieme urbano che Howard designava con il termine di “città sociale”. Al fine di impedire che le città si fondessero l’una con l’altra, vi sarebbe stata, tra un insediamento e l’altro, una cintura verde di proprietà comune, formata da «campi, siepi e terreno boschivo»266.

Nel 1902 Howard mise alla prova le sue idee acquistando terreni a Letchworth, un paesino a circa 35 miglia a nord di Londra e facendo costruire un prototipo della città giardino. Poiché spesso l’urbanista ha sentimenti totalitari, la vita nella città fu regolata minuziosamente. Tutto era organizzato, non solo venne prescritto il rapporto tra case e giardini, ma si vietò di aprire negozi in locali di abitazione,

264 B. Zevi, Storia dell’architettura moderna. Dalle origini al 1950, 1961, p. 70265 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 81266 Ibidem, p. 82

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si obbligò a cambiare zona agli artigiani che volevano diventare piccoli industriali, si limitò il numero di professionisti in ogni quartiere in modo che ognuno potesse avere abbastanza clientela267. Nonostante tutto, il modello delle garden cities ebbe una forte influenza sulle politiche urbane di vari governi, specialmente in Nord Europa e negli Stati Uniti. Soprattutto nell’Inghilterra del dopoguerra si svilupparono molte new town, che potremmo definire figlie delle città giardino. Le new town seguono generalmente uno schema urbanistico definito: al centro si trova un’area amministrativa-commerciale, circondata interamente da quartieri residenziali, separati a loro volta da parchi e piccole aree agricole, caratterizzati da colorate villette a schiera con il tradizionale giardino268. Così, da un lato le new town sono diventate dei discreti quartieri residenziali, con gestione e prezzi da classe medio-alta, per liberi professionisti o manager che lavorano nella vicina metropoli e non certo per piccoli operai e agricoltori come immaginava quell’utopista di Howard. Dall’altro verso invece le new town hanno costituito la premessa per l’isolamento e il degrado di quartieri periferici destinati a ceti medio-bassi, poveri o immigrati, come quelle banlieues parigine agitate, agli inizi degli anni Duemila, dai fuochi di un’esasperata rivolta.

In Italia si ritrovano vecchi esempi ispirate alle città giardino. È il caso del quartiere Montesacro a Roma, edificato a partire dagli anni Venti lungo la via Nomentana per opera del governatorato di Roma e dell’Istituto case popolari. Quella di creare la garden city più grande d’Europa era un’ambizione dichiarata, ma l’espansionismo edilizio dei decenni successivi fagocitò tutta la zona. Altro esempio molto gettonato, sempre a Roma, è la Garbatella. Realizzazione ispirata alle garden cities, che la grandeur mussoliniana non riuscì a stravolgere (ma si limitò ad aumentarne la cubatura). Talmente ben disegnato, da non aver bisogno nemmeno di un semaforo. E ora, ovviamente,

267 S. Ballinetti, New town, old dream, in “Europa”, 3 aprile 2009268 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 83

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inglobato dal resto della città. Esistono anche esempi più sfortunati. Uno è Librino, quartiere periferico di 70 mila abitanti a sud ovest della città di Catania, pensato intorno alla metà degli anni Sessanta come città satellite modello. Peccato che il progetto, affidato all’architetto giapponese Kenzo Tange, non produsse l’effetto sperato. Il risultato – si legge in un documento della direzione ambientale del comune – è «un’autostrada con le case attorno, in cui socializzare era complicato. Un progetto inespresso e incompiuto. Un quartiere che però non ha abbandonato la sua peculiarità rurale e in cui ancora oggi è possibile vedere mandrie di pecore che brucano l’erba»269. Negli anni del boom economico per frenare la crescita incontrollata delle grandi città (Roma, Napoli, Milano, Torino) vennero proposti faraonici progetti di new town da realizzare anche in Italia. Si parlò molto della costruzione di due new town, una a nord e una a sud di Roma, collegate alla capitale tramite due superstrade, ma poi il progetto cadde nel vuoto270. Allo stesso modo, negli anni Ottanta, nacque in ambito politico craxiano il progetto di “MiTo”, presunta new town da insediare tra Milano e Torino, e lo stesso allora premier Craxi vagheggiava “Mediterranea”, di qua e di là del Ponte sullo Stretto, pure quello da realizzare271.

La visione di Howard incontrò un terreno fertile negli Stati Uniti, dove ci si ispirò molto alla garden city. A partire da Levittown, il famoso grande sobborgo di Filadelfia fatto di casette con giardino, laghetti e popolazione benestante e preferibilmente bianca. Lo studio di Herbert Gans del 1967, che passò lì più di un anno della sua vita, divenne uno dei classici della sociologia urbana (o forse, più precisamente, suburbana)272. Erano gli anni Sessanta, culla di grandi fermenti e contestazioni ma pure quelli in cui nacque il modello dell’American way of life. Gli Stati Uniti si

269 S. Ballinetti, New town, old dream, in “Europa”, 3 aprile 2009270 Aa. Vv., New Town, in it.wikipedia.org271 F. Ceccarelli, Il sistema del mattone, in “La Repubblica”, 9 dicembre 2008272 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 110

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popolarono di una nuova borghesia, né urbana né rurale: bravi padri di famiglia che ogni sera tornano dai grattacieli delle metropoli alle villette prefabbricate, mogli annoiate e premurose, abili tanto nell’allevare marmocchi quanto nel miscelare vermut e gin, vicini ficcanaso, bambini che scorazzano tra il vialetto d’ingresso, l’altalena e il prato tosato di fresco. In cantina, magari, un rifugio antiatomico chiavi in mano, conseguenza della propagandata minaccia sovietica, spaventapasseri provvidenziale per l’ordine costituito. «Una diffusa voglia di conformismo» per usare le parole di Richard Yates, uno dei migliori scrittori che affondò la penna e i denti in quella realtà273. Sia Gans che altri studiosi misero in luce quella che si potrebbe definire col termine di “mentalità suburbana”, che doveva diventare l’autentica identità popolare dell’America nel dopoguerra e la cui migliore esemplificazione si trova in un altro famoso studio sociologico, quello di William White sulla città di Park Forest, nell’Illinois. Park Forest viene presentata come un’enclave della classe media, sostanzialmente bianca, progettata per persone con poco più di trent’anni, dove erano le donne, spesso casalinghe, a mantenere le relazioni sociali, con un melting pot di religioni che però si arresta di fronte alla possibile ammissione dei neri, dando adito a sentimenti che si fondavano «non tanto sull’odio razziale quanto sulle paure di natura economica e sociale». In questo suo studio degli anni Cinquanta, intitolato How the New Suburbia Socialises, White arrivava a una conclusione sul rapporto tra carattere e ambiente per cui sarebbe il luogo a determinare il carattere di chi ci vive. Scriveva: «Un tempo la gente odiava ammettere che il proprio comportamento fosse determinato da qualcosa che non fosse la propria libera volontà; questo però non vale per quelli che vivono nei sobborghi, che hanno piena consapevolezza del potere pervasivo esercitato su di loro dall’ambiente. Questo infatti è uno degli argomenti di cui preferiscono parlare; e con questa crescente curiosità tutta laica verso la psicologia, la psichiatria e la sociologia, essi discutono della loro vita sociale usando una terminologia

273 R. Yates, Undici solitudini, 2009, p. 10

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clinica che ci sorprende. Ma non la vivono con disagio, perché le cose stanno così, sembra che dicano, e il trucco non è combatterla ma comprenderla»274. È questa la vittoria di una città chiusa, una città che non è una città, e che già pare anticipare le tendenze future delle gated communities, dei villaggi monoculturali e semiprivati.

L’idea originariamente utopica si rivolte nel suo contrario, nel fortino assediato. Così gli Stati Uniti diventano, a partire dagli anni Ottanta, anche la prima patria della gated communities. Letteralmente: comunità protette da barriere. “Città private” in cui trovano rifugio (è proprio il caso di dirlo, e infatti vengono chiamate anche “città fortezza”) cittadini con ottime possibilità economiche, in fuga dalle città “centrali” a causa della paura del contatto con i criminali ma anche con i poveri, immigrati o meno. Un fenomeno destinato a una continua crescita. In queste aree, di fatto sottratte allo spazio e alla regolamentazione pubblici, ci sono regolamenti interni estremamente rigidi che arrivano fino ad imporre la tinteggiatura dei muri, la manutenzione dei prati o a vietare le corde per il bucato o le aste per le bandiere. In molte community ogni abitante deve chiedere l’accordo preventivo degli architetti dell’associazione prima di ridipingere la nuova casa o di piantare alberi in giardino. In genere si tratta di comunità formate da cittadini sostanzialmente omogenei per reddito, etnia, cultura, atteggiamenti e attese nei confronti della vita. Evidentemente non tutto è così semplice come sui depliant pubblicitari: ci sono dei nemici interni, come la delinquenza giovanile, e degli agguerriti oppositori esterni che, quando si ritengono lesi dalla privatizzazione di un bene pubblico (reti stradali, parchi o servizi pubblici rimasti compresi nelle enclave) fanno causa e la vincono275. Tutto richiama alle strategie difensive, dalla militarizzazione dell’architettura degli edifici all’innalzamento di barriere verso i settori popolati da differenti strati sociali,

274 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 111275 A. Gazzola, Intorno alla città. Problemi delle periferie in Europa e in Italia, 2008, p. 54

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dall’introflessione di spazi commerciali e di svago fino alla trasformazione di abitazioni private in veri castelli fortificati.

Pensare che George Simmel, appena pochi decenni prima, credeva che gli abitanti giovani delle campagne si calassero nella folla inebriante della metropoli, con lo scopo di fuggire dal conformismo e dalla monotonia di quei luoghi. Difficilmente avrebbe sospettato che, per molti milioni di americani, europei, occidentali, il confort e il senso di sicurezza forniti dal conformismo e dalla monotonia delle piccole città sembrassero offrire una prospettiva assai più attraente rispetto alla pazza folla della metropoli276.

Nel giugno del 1970 il rampante costruttore Berlusconi si portò tutta la sua banda di giovani architetti e manager in giro per il Nord Europa, allo scopo di visitare gli hinterland di Londra, Stoccolma, Copenaghen, e loro famose new town. Il viaggio, a quanto pare, si rivelò una delusione: le new town straniere erano destinate a ceti meno abbienti, erano nettamente separate dalla città, avevano una densità abitativa troppo bassa, la presenza di servizi e negozi era scarsa. Diverse da quello che avevano in mente. Il viaggio fruttò solo qualche soluzione di dettaglio, come la disposizione dei vialetti per la zona vetrina, che si ispirava ad un’ambientazione osservata a Cambridge. «Mi resi conto – affermò Berlusconi – che Milano Due era qualcosa di totalmente nuovo. Il che quasi mi faceva paura»277. Ma l’ego del creatore di Milano Due non si imbarazzava certo per paragoni impegnativi. In una delle sue benevole biografie scopro che l’Utopia di Thomas Moore è un libro che spesso Berlusconi raccontava di regalare agli amici. Di più: lo fece direttamente pubblicare in Italia, in cinquecento copie numerate e rilegate in oro dalla sua prima casa editrice, nel 1978, in occasione del quinto centenario della nascita dello scrittore. «Ancora universitario, avuto tra le mani il libro di Thomas Moore, mi sono innamorato di Utopia e ho

276 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 112277 G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 39

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incominciato a sognare di costruire un giorno una città perfetta che si chiamasse così». Non lo diceva per scherzo. E difatti l’intervistatore gli chiede: c’è riuscito? «Non ci sono evidentemente riuscito, ma progettando nuove unità urbane, sia in Italia che in altri Paesi, ho tentato sempre di avvicinarmi il più possibile a un modello di città, un mio modello, senza colate di cemento, senza condomini ad alveare, senza automobili, che potesse essere, per i suoi abitanti, il teatro ideale per una vita più serena»278.

5. Milano Due

L’ingresso, venendo da nord, è una piccola rotonda erbosa un po’ spellacchiata, da cui si protendono tre lampioni curvilinei, di colore rosso, alti una decina di metri. Al centro delle due corsie di ingresso il cartello “Milano Due”. Sulla destra l’analogo cartello con la scritta “Milano” barrata di rosso, su cui la manina di qualche tifoso di calcio deve aver cancellato la vocale finale, così si legge “Milan”, come la squadra di proprietà del presidente. In realtà non esisterebbe nessun confine amministrativo, sia di qua che di là è sempre Comune di Segrate. La prospettiva è un lungo viale in leggera discesa, tra filari di abeti e condomini rossastri, con ai lati un doppio sentiero leggermente rialzato, mattoncini e lastre, pedoni da un lato, biciclette dall’altro, come accuratamente segnalato da un altro cartello. All’orizzonte si intravedono dei ponti. È questa la strada centrale, indicata sulle mappe come “Strada di spina Milano Due”, che io percorro arrivando in autobus e che molti abitanti del posto transitano in automobile, ribassata di un paio di metri rispetto al resto del complesso. La rete dei percorsi pedonali e ciclabili non la attraversa a livello, ma tramite una serie di ponti. La percorribilità pedonale del quartiere era uno degli aspetti su cui la campagna promozionale degli anni Settanta insisteva di più, con implicazioni al tempo stesso ecologiche e di lifestyle. «La rivincita sulle auto», «Milano Due: operazione aria pulita».

278 S. D’Anna, G. Moncalvo, Berlusconi in concert, 1994, p. 112

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La separazione dei percorsi pedonali e veicolari era ovviamente presentata come una soluzione rivoluzionaria, profondamente innovativa. Nessuno ci aveva mai pensato prima: «Milano Due è il primo esempio di città dotata di un triplice sistema stradale completamente differenziato»279. Quella della specializzazione funzionale dello spazio stradale era in realtà da molto tempo un tema non solo ricorrente, ma persino banale del dibattito urbanistico. Milano Due ne fa un’operazione sistematica e vagamente spettacolarizzata, come si conviene alla volgarizzazione di una soluzione che, ormai slegata da alcuna ricerca disciplinare, serve soprattutto a costruire un’immagine di qualità, una nuance di apprezzabile decoro280. Ho l’impressione che questa chiave di lettura sarà una costante nella mia breve osservazione – diciamo etnografica – di questa cittadella.

Ai lati della strada di spina, a ogni scalinata che la collega coi percorsi ciclo-pedonali, accurati cartelli segnalano le residenze e i negozi e le attività sociali che si trovano nei pressi. Ci sono molte panchine, qualche cabina telefonica, genere ormai diventato vintage per i progressi della telefonia mobile, ma qui ancora tenuta in perfetto stato, e poi delle mappe nello stile delle mappe comunali che nelle grandi città servono a indirizzare il turista disorientato. Ringhiere, lampioni, pali, cancelli del quartiere sono tutti di un tipico e compatto colore rosso, marchio cromatico di identificazione del quartiere, come una silenziosa linea di demarcazione tra ciò che è dentro e ciò che è fuori. La fluidificazione e soprattutto canalizzazione dei percorsi per veicoli motorizzati avviene attraverso rotonde e strade che innervano il quartiere come vene sottopelle, fino ai garages posti sotto i palazzi residenziali, sotto i complessi di uffici, sotto i prati da cui capita, all’improvviso, di vedere aprirsi delle grandi prese d’aria. Un semiotico si soffermerebbe a riflettere sul fatto che ogni percorso narrativo viene

279 Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976, p. 44280 F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio 2001

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esplicitato, si tratta di un ipercodifica, come avrebbe detto Eco trent’anni fa, vale a dire la predisposizione di sceneggiature e di istruzioni per l’uso, in questo caso relativamente ai luoghi, come del resto si confà a un posto creato avendo bene in mente valori sia utopici sia pratici. Più prosaicamente, mi viene in mente un vecchio monologo comico di Beppe Grillo, prima della sua trasformazione in guru della contestazione politica. Raccontava di una volta che era stato a Milano Due: «Tutto ordinato, pulito, perfetto… Entri e c’è un laghetto con un cartello con su scritto “laghetto”, poi trovi un ponticello e c’è scritto “ponticello”. Poi dici: “Mica mi stanno prendendo per il culo?”, e c’è un cartello che dice “Si, ti stiamo prendendo per il culo”»281.

Secondo i promotori dell’operazione Milano Due, a beneficiare della separazione tra i sistemi di circolazione e di mille altri dettagli strutturali dovevano essere soprattutto i bambini. «Una città per i bambini», «A scuola da soli», «Il diritto di giocare». Promesse mantenute, a quanto pare. In un quartiere chiuso, e senza il pericolo dell’attraversamento stradale, accadeva spesso che i bambini fossero autorizzati a uscire di casa da soli. Una delle loro mete doveva essere sicuramente il parco giochi. Lo visito è scopro che molto è cambiato. Il fortino degli indiani, si dice, è bruciato. Del ranch dei cowboys, del laghetto, della pompa di benzina non restano più molte tracce. Ho negli occhi le fotografie, molto animate, pubblicate sul volume promozionale della Edilnord del 1976. Ora gli stessi luoghi mi sembrano irriconoscibili. Il fatto è che Milano Due sta invecchiando. Nel corso della mia visita incontrerò pochi bambini. Forse, per effetto del suo stesso successo, il quartiere ha conosciuto poco ricambio di popolazione. Un destino paradossale per un luogo in cui lo spazio dei bambini costituiva una sorta di surrogato dello spazio pubblico e in cui asili, scuole, parchi

281 B. Grillo, Tutto il Grillo che conta: dodici anni di monologhi, polemiche, censure, 2006, p. 160

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gioco erano forse i veri servizi offerti ai residenti282. Sulle giostre oggi non c’è nessuno. In compenso, si presenta ai miei ricordi la trama agghiacciante di un breve racconto scritto da J. C. Ballard nel 1988, tradotto in italiano col titolo Un gioco da bambini. Da parte dello scrittore inglese, una delle critiche più destabilizzanti ai progetti architettonici che vagheggiavano di utopie urbane. La storia è quella di un elegante e raffinato complesso residenziale ad ovest di Londra dove, nonostante i dispositivi di sicurezza, le telecamere, le mura di cinta, viene commessa una terribile strage. Tutti gli abitanti adulti del residence vengono uccisi. Nessuno vuole crederci, ma alla fine si scoprirà che gli assassini sono i figli dei residenti, i quali «si sentivano imprigionati per sempre in un universo perfetto»283. L’omicidio di quei genitori che avevano realizzato per loro quella utopia residenziale non rappresentava l’atto di fondazione di una setta o un gesto rituale, ma la semplice eliminazione dell’ultimo ostacolo da rimuovere per conquistare la propria identità.

Ovviamente quella di Ballard è solo un’iperbolica metafora e il mio un pensiero probabilmente fuori luogo. Nulla di sanguinoso o di efferato è mai accaduto a Milano Due nei suoi oltre trent’anni di esistenza. Anzi essa mi appare come un mondo in cui la criminalità è stata sconfitta, non c’è neanche un angolo dove si spaccia droga, la disoccupazione è una parola sconosciuta, l’inquinamento atmosferico non è percepito. Impressione chiaramente superficiale. Eppure è vero che in tutti questi anni di vita e un paio di generazioni la mappa di questo luogo non ha lasciato fuori – come quasi sempre capita – buchi, zone grigie, aree marginali che si siano trasformate in luoghi anomici, ovvero quei luoghi che fatalmente finiscono per aprire le porte al terribile antisoggetto di tutte le città e i centri residenziali contemporanei: il degrado, l’insicurezza, infine la paura. La quale, respinta fuori dalla porta grazie al meccanismo della

282 F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio 2001283 J. G. Ballard, Un gioco da bambini, 2007, p. 60

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costruzione di un mondo perfetto, può sempre rientrare dalla finestra. Niente di tutto questo, almeno in maniera eclatante, a Milano Due. I bambini della cittadella berlusconiana sono cresciuti benissimo, a quanto pare. Uno di questi è Andrea M., 24 anni, con lui ho appuntamento sulla scalinata davanti lo Sporting Club, autentica istituzione della vita sociale di quartiere. Andrea vive a Milano 2 da quando aveva due anni. «Sono nato a Milano, ma siccome mio padre ha sempre rivolto moltissime attenzioni nei miei confronti, in primis riguardanti il benessere, per potermi far crescere in un ambiente con aria salubre, con tanto verde e con poco traffico e pericoli, ci siamo trasferiti qui». Ancora adesso vive coi genitori, lavora in un’azienda di componenti elettronici, con il suo stipendio di mille euro al mese sarebbe difficile trovarsi un appartamento da solo, men che meno a Milano Due. «Questo è sempre stato un posto esclusivo e riservato, un residence d’elite… secondo me qui chiunque si troverebbe immerso in un paradiso, e come puoi ben immaginare in paradiso solitamente ci si sta da dio». Da piccolo ci stava benissimo, le scuole, le giostre, i prati, gli amici, le partite di calcetto. Arrivato all’adolescenza, mi dice, Milano Due invece comincia a stare stretta. «Quando avevo 14, 15 anni, volevo cominciare a spostarmi altrove, per i giri a Milano o paesi limitrofi, ma a quell’età o hai un motorino per uscire da solo, oppure devi chiamare un taxi ma costa troppo, altrimenti gli autobus sono pochi, e alle 23 e 30 finiscono le corse… uscire fuori la sera diventava difficile». Il fatto è che avere pochi collegamenti coi mezzi pubblici faceva parte del gioco, era un prezzo da pagare all’esclusività. «Milano Due è nato per essere e rimanere un residence esclusivo, e questo significa per poche persone. Per esempio, esisteva un progetto per prolungare la linea della metropolitana dal centro fino a Milano Due, ma sono state fatte proteste e alla fine non è stato realizzato. C’erano dei progetti per aprire pub, cinema, locali di tendenza, ma sono stati tutti contestati in quanto sarebbero stati dei mezzi di attrazione delle masse… e come sai, spesso e volentieri, purtroppo, le masse di turisti, arrivano, consumano, sporcano e poi se ne tornano a casa, violando la tranquillità

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del posto». Andrea non gira più tanto per Milano Due, ormai la sua vita sociale si è spostata altrove, a Milano città. Gli chiedo se frequenta lo Sporting Club, che mi sembra ancora un punto di ritrovo per la comunità. Dice che è vero, mi ha dato appuntamento qui anche perché è uno dei posti centrali del quartiere, ma lui ha smesso di frequentarlo. Una retta di 3.000 euro l’anno gli sembrava esagerata per una palestra. «Ma anche una retta così esageratamente alta è fatta apposta, affinché non sia una cosa accessibile a tutti». Gli chiedo se ci sono stati, a suo avviso, dei cambiamenti nel corso degli anni rispetto alle abitudini di chi vive nel quartiere e al tipo di gente che ci abita. Se, insomma, Milano Due può ancora vantarsi di essere quel paradiso di esclusività. «Purtroppo no. Quando ero piccolo, Milano Due era un posto d’elite, frequentato ed abitato solo da signori con la esse maiuscola. Gente benestante, raffinata, dai bei modi, altamente cordiale. Con il passare degli anni, e con l’aumento del benessere, a Milano Due è venuto ad abitare anche chi prima non se lo poteva permettere. E soprattutto sono venute ad abitare moltissime coppie giovani della nuova generazione. Queste nuovi abitanti non hanno nulla a che vedere con lo spirito originale di Milano Due. Spesso si tratta di persone molto arroganti, cafone, altezzose. I classici “macellai arricchiti”, lontani anni luce dai veri signori di Milano Due che purtroppo stanno via via scomparendo con il passare degli anni». Non esiste più la Milano Due di una volta, insomma. Significativo che a dirmelo sia proprio un ex bambino di Milano Due, un ragazzo cresciuto qui, fiero di questo quartiere “esclusivo” e, mi pare di capire, anche di chi l’ha creato. «Guarda che ancora oggi, quando parlo con qualcuno e dico che abito a Milano Due, loro si tirano giù il cappello».

L’effetto di chiusura comunque funziona. Una volta entrati a Milano Due non si percepisce il mondo esterno. Gli alberi, molto cresciuti, conferiscono buona consistenza al trattamento paesaggistico. Le case sono orientate verso l’interno del quartiere, e raramente verso l’esterno, verso

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Milano o la vicina Segrate. In giro poca gente, tranne nell’area degli uffici, ma le persone che incrocio sembrano avere un’aria molto più rilassata, perfino sorridente, rispetto agli abitanti che incrocio nella vicina e caotica Milano. Le strade sono pulite e silenziose. E sembra quasi di camminare in un plastico (passatemi l’affermazione anche se è chiaro che nessuno può mai aver camminato in un plastico). Non incutono timore nemmeno i sorveglianti che vigilano, per conto del complesso condominiale o delle aziende private che hanno sede lì, sulla tranquillità del quartiere. Praticamente una specie di utopia. Mi viene il sospetto che anche a questo posto possa applicarsi il concetto di città espresso da Michel Foucault, la chimera della città perfetta che suddivide gli spazi, affida ad ognuno il suo compito, e ha utopicamente come fine quello di analizzare e trovare uno spazio, stabilito e disciplinato, per la persona284. Non è forse questo un caso di eterotopia pianificata, un’enclave di eccezione che bilancia la parte dominante della città? Gli edifici di Milano Due non sono stati costruiti né troppo alti, né destinati esclusivamente a singole famiglie. Ogni edificio è circondato da una zona verde, destinata a restare tale per tutto l’anno grazie alla messa a dimora di incongrui alberi sempreverdi di montagna. Gli edifici stessi sono costruiti con mattoni di un rassicurante colore marrone, per differenziarli dall’ultramoderno cemento bianco, associato al fallimento di altri progetti edilizi nella zona di Milano. Gli edifici non sono propriamente “belli”. Si possono riconoscere nelle costruzioni alcuni elementi e soluzioni linguistiche prese a prestito da alcune ricerche architettoniche di punta di quegli anni, specialmente da quelle che più si erano poste, in area lombarda, il problema di elaborare soluzioni per una committenza “borghese”. In parte l’originalità di Milano Due è stata “inventata” come componente chiave del mito berlusconiano. Ad esempio, il quartiere di Milano San Felice, anch’esso nella zona di Segrate, fu costruito ed occupato prima di Milano Due ed è sicuramente da qui che Berlusconi e i suoi collaboratori

284 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 205

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presero alcune idee. Ma in questo caso tutto si gioca su un piano diverso, che non è più quello dell’architettura “alta” o della coerenza linguistica dell’oggetto: si tratta piuttosto di un’edilizia speculativa che incorpora nel progetto elementi eterogenei ma riconoscibili, già entrati in qualche modo in un immaginario condiviso285. «I colori sono quelli della città, di quando la città non era stata mangiata dal fumo delle macchine e delle ciminiere» scrive Natalia Aspesi sul volume della Edilnord, poco dopo aver accostato una «Milano 1 per trovarsi al centro di tutto» a una «Milano 2 per ritrovare se stessi»286.Un indizio significativo è che mentre le architetture di Milano Due non erano “firmate”, ma ufficialmente affidata all’ufficio tecnico Edilnord, la campagna per la vendita degli alloggi giocava in compenso con forza sulla corporate identity, sulla partecipazione al progetto di aziende i cui nomi e i cui marchi fossero riconoscibili, come garanzia di qualità: Max Meyer e Louis de Poortere, B Ticino e Saint Gobain.

Le residenze in cui è diviso il quartiere hanno un’onomastica rassicurante, a metà tra lo zodiacale e il paesaggistico, nomi come Acquario, Andromeda, Archi, Betulle, Cedri, Fontanile, Orione, Mestieri, Poggio, Ponti, Sassi, Spiga. In totale fanno 28 residenze, ciascuna con propria portineria. Mi colpisce la perfetta manutenzione del luogo, nella tenuta dei giardini, nell’ordine di caseggiati e viali, negli accessori come cestini e segnaletica griffati col marchio del Biscione e ancora ben conservati. Una caratteristica del Berlusconi costruttore era proprio quella di non “uscire” dalla propria città, ma rimanervi come “gestore dei servizi” (attrezzature sportive, alberghi, etc.). Un paragone che, facendo le dovute tare, viene in mente è quello con le utopie urbanistiche di ispirazione totalitarista: il demiurgo costruttore continua a seguire e accudire gli abitanti della sua comunità per il resto della loro vita. Mai

285 F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio 2001286 Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976, pp. 32-33

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come in questo caso ciò è stato raggiunto, si potrebbe pensare: il Cavaliere si inventa costruttore di città, ma anche fornitore di spettacoli per i suoi abitanti, editore delle riviste e dei libri che possono leggere, assicuratore per le loro polizze, impresario per le loro televisioni e i cinema, proprietario della squadra di calcio vincente per cui fare il tifo, infine leader del partito di maggioranza relativa e comandante in capo del loro (e di tutti gli altri) governo.

Nel parlare con chi abita a Milano Due colpisce la percezione di un senso di radicamento, sia pure problematico. La strategia di “creazione di un luogo” e di organizzazione della domanda che era al centro della campagna promozionale degli anni Settanta alla fine ha funzionato. Mi perdo nell’intrico di viali, non distinguo più una residenza dall’altra, una fontana da un posacenere, una persona da un’insegna. Mi fermo al Centro Civico, un edificio a un piano dove sono concentrare alcune funzioni pubbliche comunali: la biblioteca, il ritrovo degli studenti, alcune associazioni. Tra queste c’è l’Associazione Residenti. Approfitto dell’ora di apertura al pubblico per chiedere qualche informazione. Non è difficile avvicinare Pierpaolo C., perché il locale dell’Associazione è vuoto. Essendo alla vigilia di un ponte festivo si prevedono poche visite. Lo affianco mentre spolvera scaffali e recupera vecchi documenti. Mi spiega che l’Associazione Residenti conta solo qualche centinaio di iscritti, spesso persone anziane o di mezza età. Organizzano attività ludiche e ricreative ma fanno anche da tramite per lamentele e problemi rispetto al Comitato di Circondario o allo stesso Comune. Gli chiedo di lui. È pensionato, lavorava nel settore del marketing aziendale. Vive a Milano Due dal 1994. Prima ha vissuto molti anni a Roma, per lavoro. Qui si trova bene, «non cambierei mai», «è come vivere in campagna». Il fatto che a Milano Due «c’è un turnover di abitanti inferiore ad altri quartieri» ne sarebbe la dimostrazione. Ciò che è cambiato negli anni, mi spiega Pierpaolo, è che «Milano Due non fa paese», molti negozi chiudono, non sa dire con che criterio un commerciante assennato potrebbe venire ad aprire un

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negozio da queste parti, oggi come oggi. Resiste un nutrito panorama di associazioni e volontariato. «Ci sono molte associazioni. C’è la parrocchia che organizza anche incontri e concerti, c’è lo Sporting Club. C’è la maratona della Stramilano2 a primavera, sull’onda della Stramilano originale, la festa dell’uva in autunno, i mercatini dell’usato. C’è un discreto campionato di calcio. Poi ogni estate, una volta l’anno, organizziamo la musica in piazza, chiamiamo quei gruppi di un tempo, degli anni Sessanta, che piacciono a noi che abbiamo quell’età». La sicurezza, un tempo prerogativa degli abitanti del quartiere, comincia ad essere un problema. Osservando i primi piani delle case è facile notare grate alle finestre e cassettine di allarmi di ultima generazione. La presenza di un esiguo numero di sorveglianti (i “verdoni”, così chiamati per la caratteristica divisa verde) non è riuscita a tenere lontana la paura degli “zingari” e dei “ladri” neppure a Segrate. Che tipo di reati si verificano a Milano Due? «Nella maggiorparte dei casi si tratta di furti di automobili, poi c’è qualche scippo, qualche furto in appartamento. Da un paio d’anni però si verificano alcuni atti di delinquenza più grossi, risultano dei furti in appartamento di notte, mentre i proprietari stessi dormivano in casa, addirittura qualche rapina a mano armata nei negozi». Il sindaco di Segrate sostiene che i reati commessi nel quartiere, per numero e per tipologia, siano inferiori a quelli di altre aree. Secondo Pierpaolo il sindaco tutto sommato ha ragione. È chiaro che i ladri siano invogliati a venire a rubare nelle case della zona più benestante. Aggiungiamoci poi che qui ci si sente come abitanti di un piccolo centro, quindi il vissuto è maggiore, le voci si spargono, spesso si ingigantiscono. «Occhio, però. Non pensare che Milano Due sia un ghetto per ricchi. Guarda che anche qui ci sono degli operai, degli immigrati, forse anche dei poveri».

Scorrendo alcuni dati pubblicati nel dicembre 2008 in un’inchiesta del settimanale L’Espresso, si scopre che su 6.204 residenti di Milano Due, si contano 350 dirigenti, 184 imprenditori, 150 ingegneri, altrettanti medici, 700 ricchi pensionati e un solo eroico muratore. Si scopre anche che

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molti starebbero vendendo le loro case per trasferirsi in zone dove si possono avere gli stessi servizi ma a costi più contenuti. “Fuga da Milano Due” si intitolava il pezzo, e in effetti era piuttosto pessimista. A quanto era scritto, le agenzie immobiliari devono fare i salti mortali per riuscire a piazzare su un mercato fermo da anni edifici che dopo tre decenni hanno bisogno di ristrutturazioni e che comunque costano, solo di spese condominiali, più di 3.000 euro l’anno. Dal 1991 ad oggi, infatti, la popolazione di Milano Due è calata di 1.048 unità e il fenomeno è in continua progressione. È pure vero che la popolazione media invecchia e molti figli lasciano le case dei genitori per andare a vivere altrove. In difficoltà sono proprio le coppie di giovani, che non possono permettersi case come quelle dove sono cresciuti e abbandonano il villaggio dove sono nati. Resistono gli affitti a medio termine, soprattutto a dirigenti di aziende estere che pagano 750 euro al mese per un bilocale. «Ma anche gli stranieri sono in calo – si lamentava, intervistata, la titolare di un’agenzia immobiliare – perché per un trilocale ormai vecchiotto devono pagare 1700 euro al mese più le spese. E anche loro hanno capito che è più conveniente spostarsi in altre zone». L’Espresso puntava il dito anche sull’allarme sicurezza. Dalla vicina stazione dei carabinieri contano 30 furti in appartamento all’anno, altrettanti colpi tentati, qualche rapina, 20 scippi e numerosi furti d’auto. Addirittura, massima sirena d’allarme, le signore si sarebbero organizzate per accompagnare a turno i figli a scuola, «perché a mandarli soli non si sa mai»287.

Mentre sto per congedarmi dall’Associazione Residenti arriva Roberto C., signore anziano ma dall’aria battagliera che, per prima cosa, si tiene a sincerarsi che non sia un giornalista. Non faccio nemmeno in tempo a citarglielo che mi dice che è ancora infuriato per quell’articolo dell’Espresso di un anno fa, «Milano Due non è l’inferno descritto in quel pezzo, chiaramente scritto per ragioni di

287 G. D’Imporzano, 2009 Fuga da Milano Due, in “L’Espresso”, 5 dicembre 2009

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attacco politico». Dice che non è per la crisi economica che non c’è ricambio nel quartiere, è che quelli che vivono qui spesso stanno bene e non se ne vogliono andare, ma da un paio d’anni stanno rientrando famiglie giovani e con figli che comprano appartamenti. Appurate le mie intenzioni di ricerca e non bellicose comincia a parlare con me. Roberto C. non è un semplice residente, ma un autentico veterano di Milano Due. Abita qui dal 1972, agente di commercio in pensione, fa parte anche lui dell’Associazione Residenti, inoltre è vice presidente del Comitato di Comprensorio. Mi illustra le funzioni di questo Comitato, che a quanto pare svolge le funzioni di una specie di proconsolato della cittadella rispetto all’autorità comunale di Segrate. Mi spiega che esiste un Amministratore di Comprensorio, una specie di mini-sindaco, coadiuvato da un comitato di nove persone. Ogni anno si svolge un’assemblea generale per il rinnovo delle cariche. Inoltre, all’interno del quartiere, ogni residenza ha il suo custode, più le guardie interne (12 dipendono dal Comprensorio, altre sono delle aziende private). «Una specie di autogestione, insomma». I rapporti con il Comune sono ottimi, «l’attuale sindaco di Segrate, eletto con Forza Italia, è pure un residente storico di Milano Due». Mi rivela che, indicativamente, il budget del Comprensorio è così ripartito: 40% per il verde, 40% per la vigilanza, 20% per le spese generali. Un budget cospicuo, faccio notare, con quello che costano le spese condominiali. Risponde che non devo dare retta a tutti quelli che si lamentano delle spese condominiali troppo alte, a conti fatti si paga il giusto rispetto ai servizi offerti. Mi pare di intravedere gli eterni scenari da baruffe condominiali e lotte all’ultimo sangue sui decimi catastali, terreno da sempre minato. Una volta fu lo stesso Berlusconi a ricordare di quando nella sua Milano Due fu il legislatore delle spese condominiali, «quindi un’esperienza in cui mi sono formato proprio in trincea, sentendo da vicino la signora Maria o il commendatore Giuseppe che protestavano. Quando uno ha fatto la Bicamerale sembra ridicolo, però erano problemi»288. Secondo Roberto, il vero

288 P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, pp. 117-118

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problema di Milano Due oggi sono il traffico e i parcheggi. Ma come, non era la città senza auto? Il fatto, mi spiega, è che il numero dei possessori di auto è aumentato. E c’è chi teme anche l’avvio di nuovi progetti edificatori nei terreni circostanti rimasti vuoti. Allo stesso tempo bisogna fare i conti con presenze ingombranti, come quella del mega-ospedale San Raffaele, la casa di cura dove un prete attivissimo, don Verzè, dice che l'immortalità terrena non sarà peccato289, nel frattempo macinando sempre nuovi lotti di terreno, e che pure fu provvidenziale per ottenere, negli anni Settanta e con buoni agganci politici lo spostamento delle rotte dei fastidiosi aerei in decollo da Linate290.

La storia di Roberto è la storia di una di quelle circa duemila famiglie (poche provenienti da Milano, molte da fuori) che nel corso degli anni Settanta hanno decretato il successo di una delle operazioni immobiliari più spettacolari dell’hinterland milanese. È la storia della scelta di andare a vivere in un luogo capace di offrire servizi e qualità dell’abitare che non sembrava possibile trovare altrove, a Milano e dintorni. «Nel ‘72 mi sono fidato, quando sono venuto a vedere era tutto desolato, c’era solo una residenza e un plastico di come sarebbe dovuto essere tutto. Era una scommessa venire a vivere qui. Ma dovevo sbrigarmi, le case andavano via velocemente, c’erano liste di attesa lunghissime. Alla fine ha deciso mia moglie, sì in effetti aveva ragione Berlusconi con la sua teoria di marketing. A quei tempi c’era ancora lui in persona che girava per il quartiere, salutava i clienti, dava ordini. Ho potuto personalizzarmi l’appartamento, scegliere arredi e disposizione come dicevo io, questa era una cosa che mi piaceva molto. E, alla fine, devo dire che Milano Due è venuta sù proprio come stava in quel plastico». Vorrei dirgli che anche a me sembrava poco fa di camminare in un plastico, ma invece gli chiedo se anche lui ha notato dei cambiamenti negli abitanti e nella comunità di Milano Due,

289 S. Rossini, Sono il bisturi di Dio. Intervista a don Luigi Verzé, in “L’Espresso”, 30 aprile 2004290 A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, pp. 40-41

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col passare degli anni. Mi dice che quando arrivò qui con la famiglia erano contenti, perché dava l’impressione di un paese. Anche negli aspetti potenzialmente negativi: un posto dove ci si conosce tutti, e tutti credono di sapere tutto di tutti, con gli immancabili pettegolezzi. Ricorda le prime riunioni di comprensorio fatte al bar sotto i portici, oppure allo Sporting Club. Anche lui è preso dalla nostalgia del “pioniere”, dal non riconoscere più quelli che sono arrivati dopo e abbandonano i “valori fondanti” della comunità. Anche lui soffre della nostalgia per “la Milano Due di una volta”, in questo singolarmente accomunato al ragazzo poco più che ventenne incontrato prima. «Molti altri, specialmente i nuovi arrivati o quelli più giovani, non fanno vita di quartiere, non sentono la comunità. Usano il quartiere come un dormitorio. Questa per me è una cosa preoccupante: quando non ci saranno più questi comitati di residenti, questi vecchi dirigenti, che fine farà Milano Due? Non c’è una seconda leva. Molti si lamentano della troppa calma, ma io dico che anche in città la sera è lo stesso mortorio». Come per tutti i residenti di vecchia data, anche nella libreria di Roberto campeggia una copia del volume della Edilnord, Milano 2: una città per vivere. All’interno ci sono molte fotografie, di qualità diseguale (tra i fotografi compare anche Paolo Berlusconi). Testi che saccheggiano il gergo delle relazioni tecniche degli architetti e degli urbanisti. Occasionalmente, brevi inserti letterari firmati tra gli altri da Gianni Brera, Natalia Aspesi, Enzo Siciliano, Isa Vercelloni. Evidenzio l’ironia del destino di molte firme “di sinistra”, sicuramente avverse al sistema berlusconiano nei decenni successivi, che si sono ritrovate a tessere l’elogio dell’idea berlusconiana di Suburbia degli anni Settanta. Non potevano certo immaginare, mi dice, eppure quello che lui ha fatto era già allora sotto gli occhi di tutti. In bene, si intende. È irritato da quelli sono accecati dal pregiudizio politico, da quelli che quando sentono “vivo a Milano Due” subito ti guardano male perché odiano Berlusconi, come quelli che quando gli dici “sono di Latina” subito fanno la faccia brutta e pensano a Mussolini.

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Una cosa è chiara: Milano Due non era solo un progetto residenziale, era una dichiarazione culturale. L’ha ben descritta il giornalista Alexander Stille: «In un’epoca in cui gli squatter occupavano le case come gesto di affermazione politica e in cui vi era una forte pressione sociale perché le persone si dissociassero da tutto ciò che era borghese, Milano Due era un’oasi di lusso e abbondanza all’americana, un mondo separato rispetto al centro di Milano, dove i cortei degli studenti di destra e di sinistra si scontravano e si lanciavano bottiglie molotov per le strade. Milano Due era un luogo dove un uomo poteva portare un rolex e una donna indossare una pelliccia senza timore né vergogna. Naturalmente il denaro più stagionato di Milano viveva ancora nella riservata eleganza dei palazzi del centro attorno a via Manzoni o nelle vecchie ville fuori città, ma Milano Due offriva una vita di consumismo esibizionista a una nuova classe di manager in ascesa, dirigenti di medio e alto livello, mediatori finanziari e pubblicitari. Nella cultura sinistrorsa dell’epoca, Milano Due rappresentava una sorta di contro-controcultura che anticipava la versione italiana del fenomeno “yuppie” degli anni Ottanta»291.

6. La tv e il Biscione che ti aspetta

Sotto i portici molte vetrine sono vuote da anni, colpa dell’apertura di alcuni supermercati, colpa dei prezzi più competitivi della vicina Milano, colpa della crisi e dei portafogli più leggeri, i generi che resistono maggiormente, a una veloce osservazione, sono parrucchieri e centri benessere e sportelli bancari. I rari negozi superstiti, a quanto pare, sono stati ribattezzati Cartier dalle “sciure” che preferiscono la vicina Esselunga per riempire i carrelli di offerte e fare la raccolta punti292. Proprio qui, in una di queste vetrine, vide la luce Telemilano, piccola televisione

291 A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, p. 39292 G. D’Imporzano, 2009 Fuga da Milano Due, in “L’Espresso”, 5 dicembre 2009

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locale divenuta mano a mano nazionale. Negli anni Settanta uno dei servizi inclusi nell’acquisto di una casa a Milano Due era il collegamento a una televisione privata via cavo. Da principio, si trattò di una decisione di ordine estetico: si voleva evitare il “pugno nell’occhio” causato dalla vista della selva di antenne individuali sui tetti dei palazzi. Viene in mente la singolare concordanza con Pasolini, che pure riservava sprezzanti ironie alla visione delle antenne sulle case degli italiani. Al tempo della costruzione del quartiere la televisione privata in Italia non esisteva ancora, ma non molto tempo dopo questa emittente locale avrebbe costituito la rampa di lancio per l’ingresso esplosivo di Berlusconi nel mercato televisivo. All’inizio furono appena 2600 i televisori collegati, quelli delle famiglie di Milano Due. Il canale trasmetteva informazioni sulla vita del quartiere, vecchi documentari, programmi realizzati per gli studenti delle scuole, rubriche di salute realizzate col vicino ospedale San Raffaele, trasmissioni indirizzate prevalentemente a un pubblico casalingo e femminile. Per Berlusconi offrire un canale tv ai suoi inquilini costituiva un valore aggiunto, un piacevole optional. Bisognava assecondare e investire sul sentimento del “vivere bene”, ormai diventato valore di vita a tutti gli effetti. Già da questo è possibile rintracciare le linee di fondo che guideranno la sua politica nel futuro. La tv è uno degli attrezzi del vivere bene, merce tra le merci, oggetto estraneo a qualsiasi processo educativo o divulgativo293. Racconterà Berlusconi che all’inizio il progetto era ancora più particolare: «A Milano Due è cominciata la televisione interna, per mettere in grado le mamme di potere seguire i propri ragazzi in tutte le situazioni. Da casa, con una televisione a circuito chiuso, nata appunto con l’intento di fare vedere la piscina, la palestra, il campo giochi, la scuola, era un servizio in più per una città modello, avanzata. Milano Due, per intenderci, ha anche il riscaldamento centralizzato, un’unica centrale garantisce il

293 V. Susca, Berlusconi il barbaro ovvero il primo tra gli ultimi, in A. Abruzzese, V. Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, p. 59

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caldo a tutto il quartiere».294 Una tv, insomma, più per guardarsi che per guardare, nel vero senso del termine. Una vita televisiva che tende a farsi vita quotidiana. E poi anche viceversa, ma qui il discorso si farebbe più complicato. «Ricordo che la prima annunciatrice era la mia vicina di casa» mi aveva raccontato Roberto, abitanti del quartiere fin dai primi tempi. Mi era sembrata, involontariamente, una metafora perfetta. I programmi televisivi visti come dei contenitori, e a essere contenuti siamo proprio noi, le nostre vite materiali e immateriali, le nostre pulsioni e i nostri desideri, consci e inconsci.

TeleMilano ebbe una partenza in sordina. Berlusconi all’inizio ne diventa socio di minoranza, per una decina di milioni di lire prende il 25%. Poi rileva tutto a una lira, debiti compresi295. L’impulso alla crescita fu dato da un’inaspettata decisione della Corte Costituzionale nel 1976: la televisione privata era legale, purché rimanesse nell’ambito locale. In assenza di una legislazione adeguata in proposito, fiorirono emittenti in tutta Italia e Berlusconi iniziò a costruire il suo impero mediatico. La sua strategia, come ha osservato Giuseppe Fiori nella biografia Il venditore, prevedeva quattro fasi tattiche connesse l’una all’altra. Prima fase: la pubblicità. Berlusconi creò speciali squadre di venditori. La sua televisione riuniva il mezzo, il messaggio e la centralità della vendita. Come ebbe a dire, «io non vendo spazi, vendo vendite». I profitti dell’azienda pubblicitaria di Berlusconi, Publitalia, aumentarono di 73 volte tra il 1980 e il 1984. La tv di Berlusconi «capovolse il nostro modo di guardare la tv. Invece di interpretarla come una serie di programmi con interruzioni pubblicitarie, Berlusconi considerava la televisione “libera” e “privata” come un vasto territorio per la pubblicità, uno straordinario veicolo di comunicazione commerciale»296. Seconda fase: i programmi, soprattutto giochi a quiz, telenovelas, telefilm

294 P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, pp. 93-94295 P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 38296 F. Colombo, Le tra stagioni, in “Problemi dell’informazione” n. 4, 1990, p. 590

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americani e film, che spesso venivano cambiati secondo il volere degli sponsor. Lo spettacolo aveva la funzione di attrarre consumatori. Terza fase: le star, che cominciarono a comparire personalmente negli annunci pubblicitari. Quarta fase: la sede a Milano (il logo dell’azienda berlusconiana, il famoso Biscione, era un simbolo di Milano e della casa automobilistica Alfa Romeo), con la rapida estensione della copertura a tutto il Paese. TeleMilano iniziò a trasmettere via etere, fuori dalla cittadella originaria di Milano Due, nel 1978, in seguito all’installazione di un’antenna sul grattacielo Pirelli297. Nel 1980 prese il nome di Canale 5, primo tassello dell’impero Fininvest, poi Mediaset, scalando ascolti e fatturati, modificando il costume degli italiani, le loro abitudini e i loro consumi, il linguaggio e i loro sogni. Il negozietto sotto i portici di Milano Due era stato abbandonato da tempo. Berlusconi e il suo centro operativo milanese furono in grado di battere qualsiasi forma di concorrenza, per mezzo di una controversa legislazione e di importanti appoggi politici, come quello del Partito Socialista di Craxi allora al governo.

La logica vincente, immaginata e realizzata dal momento in cui Berlusconi si tramuta in costruttore non più di case e città ma di spettacoli e immaginari, sembra seguire quella logica che Walter Benjamin indicava come tipica dell’industria culturale. Il passaggio di ciò che era quantità in qualità. Lo sfruttamento accanito della voglia del popolo che ora si fa chiamare pubblico di intrattenersi, divertirsi, comprare. È il primo – decisivo – avvicinamento tra Berlusconi e l’immaginario collettivo italiano. Il feedback è palpabile, le sue tv sono amate e seguite. Non sono mosse da istinti pedagogici, non educano per forza gli spettatori, non ne censurano i desideri più profondi, non promuovono ideologie di Stato ma di mercato. Assecondano l’edonismo emergente della società italiana e il desiderio di spettacolo298. Berlusconi alimenta quindi il proprio successo economico insinuandosi nei luoghi, costruendoli e

297 G. Fiori, Il venditore, 2004, pp. 91-95

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promuovendoli, lì dove la vita sociale si dispiega e prende una forma. La città di cemento prima, quella elettronica poi. Come ha scritto Alberto Abruzzese: «Ha edificato il suo impero, speculando alacremente e abilmente sul mattone e sull’immagine cinetelevisiva. Sul più tradizionale strumento di costruzione del territorio fisico e sul più avanzato strumento di comunicazione immateriale di cui si serve la civiltà di massa. Due modi selvaggi di arricchire. Ma anche due forme dell’abitare. Dalla centralità della casa alla centralità della tv: è la storia della Prima Repubblica»299. È la costruzione di un popolo. Ciò, nonostante risulti chiaro che «l’impero di Sua Emittenza è fuorilegge», basato sull’aggiramento e la violazione delle regole300. Allo stesso tempo egli abbatte il tempo delle morigeratezze statali in favore di un edonismo privato e individualista. Ancora Abruzzese: «Le emittenti private, con vecchi film o rozze sceneggiate in studio, oroscopi o persino dibattiti politici, invadono la notte. Il tempo Rai è vinto. La città di Stato non regge la domanda di evasione. Il cittadino (anche se nella dimensione di avanguardia di massa) viene sequestrato al rapporto equilibrato tra tempo di lavoro e tempo libero. Gli spazi e gli orari tradizionali non bastano più»301.

«Torna a casa in tutta fretta, c’è un biscione che ti aspetta»: è pubblicizzata così la trasformazione di TeleMilano in Canale 5. È molto più di uno slogan di successo, è lo zeitgeist, lo spirito del tempo di un’Italia stanca, spaventata dalla vita pubblica e politica, attratta dal privato, dal ritorno in famiglia, dall’individualismo. I valori della neotelevisione – privata e soprattutto berlusconiana, metropolitana e certamente suburbana – erano espressione e contribuirono a creare gli anni edonisti del secondo boom degli anni Ottanta. Si tratta del periodo storico in cui l’ascesa dell’economia dell’immagine coincide con una

298 V. Susca, Berlusconi il barbaro ovvero il primo tra gli ultimi, in A. Abruzzese, V. Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, pp. 61-62299 A. Abruzzese, Elogio del tempo nuovo. Perché Berlusconi ha vinto, 1994, p. 50300 G. Fiori, Il venditore, 2004, p. 105301 A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo, 2001, p. 121

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profonda ristrutturazione del sistema produttivo. Aumenta la quota economica di terziario e servizi, vanno in crisi le grandi produzioni industriali, si moltiplicano le piccole imprese. L’abbandono della politica, il declino dai valori collettivi, il cosiddetto riflusso nel privato non erano altro che un riflesso. «I varietà, i telequiz, gli innumerevoli spot pubblicitari, le fasce orarie sponsorizzate e i telefilm importati sostituivano i vecchi punti di riferimento in declino: la chiesa, i partiti di sinistra, il movimento sindacale, i valori di parsimonia e sacrificio»302. Per altri versi, Carlo Freccero ha osservato: la tv commerciale veniva a dare un’identità alle periferie, che non trovavano risposta nelle grandi narrazioni politiche di allora. E ha aggiunto: in una Italia dominata dall’informazione e dalla politica il pubblico voleva divertirsi. Essere inizialmente privi di telegiornali era un elemento di forza, non di debolezza, di quelle televisioni303. Molti dei neoabitanti di Milano Due furono i protagonisti del boom finanza / pubblicità / moda degli anni Ottanta, quando Milano si scrollò di dosso la sua fosca immagine di città industriale. La cittadella di Segrate diventerà sede di molte aziende del gruppo economico berlusconiano, come Publitalia, e residenza di molti suoi dipendenti, comprese alcune star delle sue televisioni. Nel piccolo centro di produzione tv, proprio davanti al laghetto dei cigni, vengono ancora registrate due trasmissioni emblematiche del gruppo: il Tg4 di Emilio Fede e il varietà satirico Striscia la notizia di Antonio Ricci. Passeggiando per il quartiere inciampo in due ragazzini che tornano da scuola. Indicano col dito lo studio a vetrata all'angolo della strada e sorridono. Dentro c’è Emilio Fede e una segretaria che gli spalma del cerone sulla faccia.

In quei luccicanti anni Ottanta Marco B. è un ragazzino adolescente che staziona davanti gli studi di Canale 5, a Milano Due: ogni giorno vede entrare e uscire personaggi

302 S. Gundle, S. Parker, The New Italian Republic, 1996, cit. in J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 122303 G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica, 2009, p. 134

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televisivi ed inizia a fermarli per conoscerli, affascinato da quel mondo. Oggi è un professionista 34enne, a Milano Due ci lavora con la sua agenzia di management artistico e organizzazione eventi e ci è anche venuto a vivere, comprandosi un appartamento con la sua fidanzata. Lo incontro nel suo ufficio, open space da creativo ma non troppo disordinato, televisore acceso su un programma pomeridiano di Canale 5 dove l’onorevole Alessandra Mussolini sbatte per terra un giornale e strepita che lei coi video hard non c’entra niente. Chiedo a Marco da dove viene questa attrazione per Milano Due. «Da ragazzino vivevo a Milano città eppure già mi piaceva frequentare questo posto. All’età di tredici/quattordici anni avevo una comitiva di amici e il nostro punto di ritrovo era proprio il laghetto dei cigni». Conta molto, mi sembra, la prospettiva del sogno: il sogno degli anni Ottanta, il sogno della tv e della carriera, il sogno di un eden sereno e benestante. «Milano Due è stata davvero di moda per qualche anno, ora si è normalizzata, in un certo senso già appartiene al passato. Sebbene un passato ottimamente mantenuto. L’allure borghese, la classe della Milano da bere degli anni Ottanta, la tv e la pubblicità rampante, quello era il mondo di riferimento di Milano Due, quel mondo che io guardavo con desiderio già da ragazzino». Marco dice di aver scelto di venire a vivere qui perché puoi avere tutto a portata di mano, perché c’è silenzio e tranquillità, perché se dovesse avere un figlio c’è un ambiente sicuro in cui farlo crescere. Le stesse caratteristiche per cui molte persone, soprattutto giovani, odiano Milano Due. C’è troppa calma, dicono. Io ho vissuto abbastanza nel caos del centro città, dice Marco, per apprezzare il contrario. Nonostante ciò lui non sta tutto il tempo dentro Milano Due. «Vado a Milano almeno due volte al giorno, per appuntamenti e pranzi di lavoro ma anche perché mi impongo di non farmi rinchiudere qui, di non assuefarmi. È facile fossilizzarsi qui. Specialmente per chi, come me, ha la casa e il lavoro a pochi metri di distanza». Mi ripete più volte questo concetto: «Per me Milano Due è una specie di Truman Show. Vivi una realtà che non si realizza altrove, è come stare in una bolla». Il problema è che Milano Due sta invecchiando, aggiunge. A

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quanto pare c’è una chiusura, un tappo generazionale anche qui. I prezzi troppo alti delle case impediscono ai figli della prima generazione, o a quelli che potrebbero esserlo, di riuscire a venire a vivere in questo quartiere. Come se non bastassero i prezzi del mercato immobiliare, solo adesso in leggero calo per la congiuntura economica, ci sono spese condominiali altissime. Mi rivela che con la sua fidanzata deve pagare circa 400 euro al mese per un appartamento di 100 metri quadri. Gli appartamenti poi sono tutti di taglio grande, pensati per le famiglie di un tempo, con due o tre figli. Poco adatti per un giovane single o una coppia. Insomma, è chiaro: «I giovani oggi non hanno accesso a Milano Due. Loro, i vecchi residenti, lo hanno bloccato». Marco racconta di essere l’unico giovane nella residenza dove abita. Si lamenta che è difficile farsi amici in questo quartiere, creare relazioni di vicinato, quando lui esce di casa la mattina spesso i vicini di palazzo nemmeno lo salutano. Resiste un certo congenito snobismo, l’idea di appartenere a una classe superiore, anche solo per il fatto di vivere qui. «Comunque da Milano Due sono usciti tanti ragazzi, nati e cresciuti qui, che ora sono in molti punti chiave della classe dirigente milanese. Io la chiamo la P2 di M2, passami il gioco di parole. In fondo quella di Milano Due è anche una lobby. Pensa che al piano di sopra c’era l’appartamento di Dell’Utri. La prima moglie di Paolo Berlusconi vive ancora qui. Lo stesso presidente, Silvio, possiede una torre di appartamenti qui, se li tiene per le diverse esigenze. Le veline di Striscia, nel loro contratto, hanno un appartamento garantito a Milano Due. Fede lavora qui e vive nella residenza a nord, vicino al San Raffaele. Ogni tanto capitava di vedere Vianello giocare sul campetto di calcio, in fondo la famosissima Casa Vianello del telefilm esiste nella realtà ed è domiciliata qui a Milano Due». È il mondo del sogno berlusconiano, pazientemente coltivato, butto lì. Si, mi risponde, ma fondamentalmente è un mondo invecchiato. «Quella che si trovava negli anni 80 era davvero una Milano rampante, “Milano da bere” come diceva la pubblicità, e qui si respirava davvero l’aria di un Truman Show di bella gente. La cosa è scemata. Oggi è un

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po’… bho, forse come Lugano». Come dimostrazione dei meccanismi sociali di Milano Due, si mette a spiegarmi come funziona lo Sporting Club, quello dove ci sono palestre, piscina, campi da calcio e da tennis, sauna, sala per giocare a burraco, insomma il vero fulcro del bon vivre del quartiere. Ovviamente, all’insegna della vera esclusività. Non basta iscriversi (pagando un abbonamento di circa 1.500 euro l’anno) ma occorre acquistare una quota, come una società per azioni, e le quote sono limitate e costano 5.000 euro cadauna. Nel tempo, dice, si è creato un commercio sottobanco di quote, a prezzi stratosferici, in un sistema un po’ opaco che a me ricorda quello delle licenze dei tassisti.

Marco mi racconta inoltre delle famiglie che vengono la domenica a stendere la tovaglia del picnic nel prato di fronte a casa sua, come se fosse un parco. Una scena che per un attimo mi evoca la ricerca della felicità, i consumatori che premono sulle mura del quartiere felice, che cercano l’invasione (ma il quartiere felice, sia chiaro, non concede permessi di soggiorno a nessuno, come lo Sporting Club). Milano Due, in fondo, attrae perché è glamour. Il glamour, per dirla con John Berger, non può esistere senza l’invidia sociale come emozione comune e diffusa. Lo scrittore inglese ha attirato l’attenzione su alcuni elementi che servono a farci capire la sottigliezza di questo album di paesaggi in apparenza così scontato, così fuori dal tempo, eppure di successo. La società industriale moderna si è avviata verso la democrazia, scrive, per poi fermarsi a metà strada. Il glamour – ovvero lo stile, la classe – scaturisce da questo: «la ricerca della felicità individuale è stata riconosciuta un diritto universale», tuttavia la nostra situazione è tale che gli individui si sentono impotenti304. In compenso, tutto ciò che ci circonda è improntato alla pubblicità. E la pubblicità è il processo di produzione del glamour. Spiega Berger: «La pubblicità parla di relazioni sociali, non di oggetti. La sua non è una promessa di piacere, ma di felicità. Felicità misurata

304 J. Berger, Questione di sguardi, 2007, pp. 133-150

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dall’esterno, col metro di giudizio degli altri. La felicità di essere invidiati è glamour. Essere invidiati è una forma solitaria di rassicurazione»305. Ma è un sistema così ben costruito, difficile da decifrare. «La pubblicità è, per sua natura, nostalgica. Deve vendere il passato al futuro. Da sé non è in grado di soddisfare gli standard che essa stessa pone. E di conseguenza tutti i suoi riferimenti alla qualità sono vincolati alla retrospettiva e al tradizionale. La pubblicità deve volgere a proprio vantaggio l’educazione dello spettatore-compratore medio. Riferimenti imprecisi o insignificanti non importa: non devono essere comprensibili, ma semplicemente rinviare a lezioni culturali imparate a metà»306. Rileggo le parole chiave: glamour, nostalgia, pubblicità. Colgo una provvisoria illuminazione: Milano Due come il Mulino Bianco di quel famoso spot degli anni Ottanta/Novanta con la famiglia di campagna che fa colazione felice. Idea patinata, posticcia e però indubbiamente efficace di un “ritorno alla natura”, di un felice rinchiudersi nei confini del proprio orto, della propria comunità. Forse Milano Due potrebbe collocarsi in una visione “di destra”, della media borghesia rampante e poco desiderosa di contaminazioni, in cerca di una “casa di campagna in città” e dunque addomesticata, con tutti i confort. E invece il Mulino Bianco in una visione “di sinistra”, di quella media borghesia pseudo-colta, disillusa dalla politica e in cerca di un’isola di introiezione per dimenticare, magari un casale in campagna o un agriturismo. Diceva ancora Berger, chiudendo il cerchio, che «la pubblicità trasforma il consumo in un surrogato di democrazia»307. Mi viene in mente che nel 1993, alla vigilia dell’entrata in politica di Berlusconi, in allegato al settimanale satirico Cuore, uscì una musicassetta intitolata Forza Italia, nella quale, oltre alle canzoni Voglia di Biscione e Ritmo politico, era presente un pezzo intitolato La vendetta del Mulino Bianco. Ne riporto una strofa, a mio avviso particolarmente significativa: «Il mio mulino non è

305 Ibidem, p. 134306 Ibidem, pp. 141-142307 Ibidem, p. 151

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proprio un mulino / sono due camere al Tiburtino / e al mattino io mi sveglio affranto / altro che biscotti mi ci vuole un trapianto / apro la finestra, senti che casino / sirene, grida e squilli di telefonino / le nove del mattino, sono così stanco / e questo non succede nel Mulino Bianco».

7. L’architetto di fiducia

L’architetto che ha progettato Milano Due vive e lavora ancora lì. Lo studio Ragazzi and Partners lo trovo sotto i portici della residenza Archi. Giancarlo Ragazzi, insieme col collega Enrico Hoffer, è il principale progettista del centro residenziale di Segrate e di tutte le altre imprese residenziali berlusconiane. È anche quello che per i mondiali di calcio del ’90 realizzò l’ampliamento dello stadio milanese di San Siro. L’ho contattato via email e lui si è detto subito disponibile per un’intervista. Devono essere ancora molti gli studenti che fanno ricerche o tesi su Milano Due, gli spiego che però io non provengo da una cattedra di architettura. «Lei quanti anni ha, ventisei? Vede, io quando ho progettato questa città di diecimila abitanti aveva appena trent’anni, così come i miei colleghi, così come lo stesso imprenditore Berlusconi. E abbiamo rischiato molto». Gli chiedo com’è nata l’idea di Milano Due, negli anni Sessanta. «Noi partivamo dall’idea secondo cui l’urbanistica del futuro sarebbe stata un’urbanistica che prevede sul territorio delle città policentriche. Quello che noi ci siamo detti all’epoca è che a Milano il concetto di città policentrica era già in nuce, cioè già esisteva, non era da inventare. Perché il territorio milanese era già molto armato, dal punto di vista delle infrastrutture, e anche presidiato da una serie di poli urbani stratificati nel tempo, già dotati di una loro identità, di un loro senso di appartenenza. E se io ho una comunità che non ha senso di appartenenza quella non è una comunità, è un qualche cosa di fluttuante, in cerca di un’identità». Il punto nodale lo mette subito in chiaro: in quell’epoca abitare in centro era da privilegiati e borghesi, abitare in periferia era da classe operaia o da straccioni. C’era grande fame di abitazioni e di

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speranze, ma non c’erano vie di mezzo, almeno nell’immaginario popolare. «Noi abbiamo detto: ma se rompiamo col cliché di sviluppo, di saturazione degli isolati, nella griglia urbana tradizionale… evidentemente si poteva fare qualche cosa che non si poteva realizzare all’interno della città storica, ormai saturata nelle sue parti, e questo discorso ha portato all’invenzione di un’alternativa alla griglia urbana fatta di isole». Si mette a disegnare su un foglio. Mi spiega il reticolato urbano, il modello tradizionale di strade e isolati, la soluzione del modello a penisola, con i percorsi pedonali separati, la strada di spina centrale, i ponti di sovrapposizione, il modello insomma tanto vantato da Milano Due. Ma da dove arrivava l’ispirazione, c’erano dei modelli architettonici cui rifarsi? A leggere il libro promozionale della Edilnord si legge di un pantheon di riferimenti piuttosto eclettico. Si parla dei Neighbourdhood Unity nelle new town inglesi, delle Superquadra di Brasilia, delle unità di vicinato francesi e dei Grand Ensembles, e perfino dei Superblocchi sovietici. Pare di leggere il primo manifesto dei valori di Forza Italia, che prendeva riferimenti politici a destra e a manca, da Einaudi a don Sturzo, da Cattaneo a Gioberti, da Craxi a Reagan. «Innanzitutto sfatiamo questo mito delle new town. Cioè noi le new town le abbiamo studiate, abbiamo capito che cosa era stata la loro idea, da Ebenezer Howard a tutti gli altri, siamo andati a vederle, ma abbiamo pensato che era una battaglia persa in partenza. Nel senso che queste città non avevano un’anima, un’identità forte, e quindi avrebbero fatalmente fatto perno di nuovo per le possibilità di lavoro su Londra, sulla downtown, vanificando praticamente il discorso di decentramento. Non era quello che faceva per noi. È maturato così nella nostra testa il concetto che la città madre è fondamentale. In questo telaio di città policentrica, abbiamo detto, c’è spazio anche per dei poli minori, che possono fare da filtro per quelle esigenze che normalmente gravitavano come risposta sul centro della città madre, provocando naturalmente tutte le conseguenze non volute di intasamento, di sovraffollamento durante il periodo diurno, e scarsa risposta in termini di servizi… Perché questo succedeva: periferie parassitarie che

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intasavano città senza più spazi liberi. Tant’è che poi succedeva che la gente non trovava posto nelle scuole, negli asili nido, nei servizi…». Chiedo se già all’epoca non ci fosse un fenomeno di fuga dalla città da parte delle classi borghesi medio-alte, a cui il loro progetto si rivolgeva. «Assolutamente no. All’epoca venire ad abitare in periferia voleva dire una caduta di status symbol, non era assolutamente ricercata. Infatti noi abbiamo rischiato molto con questa proposta di Milano Due, perché nessuno era intenzionato ad abitare fuori».

O forse l’idea dello status symbol suburbano già c’era, bastava solo sapere annusare l’aria, saperla cogliere. «In questo Berlusconi è stato bravissimo. Lui era un giovane imprenditore con una certa propensione al rischio, cercava qualcosa di diverso, qualcosa che potesse rappresentare la sua consacrazione. Io lo conobbi proprio quando lui vendette uno dei suoi primi appartamenti a mio fratello, e io gli raccontai un po’ di mie idee sulla città… Ecco, si decise di puntare tutto su segmenti di mercato che mai avrebbero pensato di abitare fuori città, con delle proposte concentrate su alcuni elementi chiave: il recupero di spazi ampi, il verde, la sicurezza… il tutto presentato come una grande, grandissima conquista». Sull’architettura di Milano Due i commenti dell’epoca non furono molto generosi. Spulciando vecchie pubblicazioni d’architettura ho ritrovato opinioni, come quella di Vercelloni, che tracciano un elogio del quartiere, definendolo come un progetto innovativo e osservando finanche influenze di Le Corbusier308, oppure mi sono imbattuto in vari commenti sprezzanti o critiche affilate, come quella di Squarcina che parla di un quartiere concepito secondo la filosofia dell’autosegregazione309. Persino un biografo ufficiale di Berlusconi, in un libro del 1994 per il resto assai benevolo, non si trattiene da qualche commento dispregiativo e scrive che «di mattina per i vialetti deserti di Milano Due ci si sente soli, e vien da 308 V. Vercelloni, La storia del paesaggio urbano di Milano, 1988, p. 143309 A. Schiavi, E. Squarcina, M. Malvasi, Trasformazioni territoriali in contesto metropolitano. I casi di Settimo Milanese e di Segrate, 1999, p. 192

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rimpiangere le voci e i rumori della metropoli»310. Ricorda Ragazzi: «Lei si immagina nel 1968, nel 1970, cosa era considerato criminale all’epoca. Era criminale essere un’impresa privata, era criminale lavorare con le banche, era criminale anche avere un supermercato con gli espropri proletari che facevano. Ricordo che anche la facoltà di Architettura era allo sbando: i professori non riuscivano a tenere le proprie lezioni. Alcuni architetti erano arrivati sulla soglia di abbandonare la professione, perché in una società come la nostra si sentivano al servizio del capitale, strumentalizzati. Quanto a noi, gli attacchi a livello locale erano amplificati dai media che ci avevo messo al centro dell’attenzione. Su Milano Due furono scritte numerose tesi, perlopiù fortemente critiche. Per non parlare di certi professionisti che tentavano di cercare eventuali scheletri nell’armadio per affondare la barca. Svariate commissioni d’inchiesta furono nominate dalle segreterie dei partiti. Insomma gli attacchi erano così numerosi che la mattina aprivamo i giornali per vedere cosa si diceva su di noi quel giorno». Ma col passare del tempo anche questo fu un test per stabilire che Milano Due non era un quartiere qualsiasi, ma una vera e propria comunità. «Anche oggi si verificano attacchi della stampa per motivi pressoché politici. Ebbene, guardi i vari giornali di quartiere, veda come di fronte a certi attacchi scatta per primi dagli stessi abitanti la reazione di difesa. Questo vuole dire che qui c’è un senso di appartenenza consolidato. In molti altri quartieri la gente rimarrebbe apatica, non gliene fregherebbe niente di una critica sul giornale».

Berlusconi, mi dice, era fissato con le rifiniture. «Non ho più lavorato con un committente. Era fissato per il verde, per il tipo di alberi da impiantare, per le rifiniture nelle case, per il mantenimento della qualità del tempo. Tutto doveva essere preciso, a posto. Appena un condominio era terminato, si procedeva a recintarlo con eleganti palizzate in legno che lo separavano dalle parti ancora in costruzione. Se nel corso del tempo Milano Due non è stata

310 P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 22

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abbandonata dall’alta borghesia lo si deve anche al fatto che Berlusconi non ha abbandonato Milano Due. Ad esempio con la costante opera di manutenzione che prima era assicurata dalla Edilnord. Operazione dai costi contenuti ma molto efficace sul piano dell’immagine. Qui se un rubinetto perdeva, otto anni dopo, era ancora compito nostro aggiustarlo». C’era dialettica tra committente e architetti? «C’era un confronto continuo e lui comunque sapeva darci fiducia. Ricordo, per esempio, la fatica che facemmo per convincere Berlusconi ad abbandonare le tinte pastello usate nelle precedenti realizzazioni e ad optare per il rosso mattone e il marrone». Gli chiedo se l’auspicio di chi ha progettato Milano Due fosse quello di una gated community all’italiana, una cittadella in teoria autosufficiente, con le scuole, i servizi, i negozi, insomma un posto da cui un suo abitante potrebbe non uscire mai. «Ma noi non volevamo questo. Noi volevamo che ci fosse un rapporto con la città madre, e sarebbe stato anche assurdo pensare il contrario vista la vicinanza e il potere di attrazione di una città come Milano Qui noi abbiamo innestato anche un centro direzionale, un albergo, un centro televisivo, uno spazio congressi, apposta per favorire uno scambio con l’esterno. Per questo non ci piacevano le new town inglesi, con le loro cinture verdi di isolamento».

A distanza di quarant’anni dalla posa della prima pietra, se c’è qualcosa che a Milano Due funziona è la manutenzione. Ma si sa che in economia non esistono pasti gratis, e se c’è una cosa di cui quasi tutti i condomini si lamentano sono le spese troppo alte. Mi viene da dire a Ragazzi che è facile realizzare l’utopia di Milano Due perfettamente manutenuta per chi se la può permettere, sarebbe più difficile forse una Milano Due per ceti medio-bassi, una Milano Due di case popolari. «Questi sono temi sostanziali. I redattori di una rivista di architettura svedese un paio di anni fa vennero a intervistarmi perché volevano sapere come era stata organizzata la manutenzione di Milano Due. Facevano il confronto con altre new town come quelle che hanno loro, che sono molto degradate, e volevano capire cosa c’era di diverso nel nostro discorso. Ed è molto

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semplice. Noi partiamo da una situazione che è sotto gli occhi di tutti: l’ente pubblico non ha mai disponibilità economica per garantire un livello manutentivo delle parti pubbliche nel territorio. Per cui noi abbiamo dato il minimo di legge di attrezzature pubbliche da manutenere, e ci siamo invece accollati privatamente, attraverso il comprensorio pagato dai condomini, la manutenzione di aree che sono a destinazione pubblica, come parchi gioco, parcheggi, strade da asfaltare. Apparentemente qualcuno dice che c’è una valanga di spese condominiali. Ma non è del tutto vero, se spalmiamo il carico sui grandi numeri del quartiere e facciamo un raffronto coi servizi offerti. Qui abbiamo pensato pure a una vigilanza sempre attiva, che se uno rimane bloccato in ascensore il sabato sera, quando non c’è nessuno, viene ad aprire». Mi rimane il dubbio su dove vadano tutti gli abitanti di Milano Due il sabato sera, ma insisto sull’altro punto. Una Milano Due per i poveri, detto brutalmente, non sarebbe possibile? «Allora, lei deve sapere che Milano Due ha pressoché un terzo degli abitanti che sono cosiddetti “poveri”. Al tempo della costruzione del quartiere fu fatta una promozione di lancio, cosicché le parti centrali furono vendute a prezzi d’occasione, quasi da case popolari, e vennero via subito. Il mio appartamento, quarant’anni fa, costava 30 milioni, e certo adesso si è rivalutato molto. La famiglia di nostri dirimpettai invece erano operai, lavoravano qui alla Rizzoli, e sono ancora lì adesso, non hanno abbandonato. Quando poi i figli crescono è la città madre che diventa il punto di riferimento, ovvio. Ma senza i contenuti non si può fare qualcosa di attrattivo. Le faccio un esempio. Quando, tre o quattro anni fa, realizzai un progetto per un eventuale piano casa di Milano, il primo criterio fu: guai a creare dei ghetti. Chi può arrivare al massimo a permettersi una casa con un investimento di 300mila euro deve essere inserito, come nella città storica, nello stesso edificio, nello stesso contesto. Bisogna mischiare le varie famiglie, eliminare le ghettizzazioni di ali o quartieri tutti di case popolari o convenzionate, trovare degli innesti mirati. A un certo punto, all’epoca, quando eravamo pieni di velleità giovanili, protestammo per questa cosa. Dicevamo: come mai nella

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legge 167 per le case popolari c’è la proibizione assoluta per i privati di realizzare qualsiasi iniziativa? Così si creano ghetti, di poveri o di ricchi che siano. Ma è vero adesso abbiamo una problematica che allora non avevano ancora per la testa, cioè quella dell’integrazione multietnica, e qui la situazione si fa più difficile».

Ragazzi mi fa l’esempio della chiesa del quartiere. «Noi realizzammo una chiesa pluriconfessionale, ma non è mica partita. Perché ognuno difende il suo orto, gli islamici la loro moschea, che sta qui vicino a Segrate e ogni tanto finisce sui giornali, i cattolici la loro chiesa. Si, ci sono rapporti di collaborazione però noi pensavamo fosse possibile qualcosa di più. Se lei va nella chiesa di Milano Due vedrà che ci sono pareti per creare spazi modulabili di preghiera, pluriconfessionali, d’altronde allora eravamo anche in una situazione di post-concilio ecumenico che favoriva questo tipo di interpretazione. Però adesso qualcosa è cambiato, sono un po’ tutti quanti sulla difensiva. Per esempio prima non appariva il simbolo della croce fuori dalla chiesa, non a casa la chiesa era dedicata a Dio Padre, non c’erano santi, proprio per cercare di fare un unico luogo di partecipazione religiosa, mentre il sacerdote attuale ha insistito per metterla a tutti i costi, e ben visibile». La croce fuori la chiesa, oltre che simbolo di una riscossa identitarista, sembra suggerire anche altro: la comunità, una volta ambientata, imprime il suo segno sul luogo, lo adatta alle sue esigenze, anche al di là delle intenzioni. «Sicuramente si è creata una comunità, che ha anche imparato ad autogestirsi, per esempio con il Comitato di Comprensorio eccetera. Se lei pensa ad alcuni dettagli che allora erano novità, come la stazione tv via cavo, oppure il teleriscaldamento centralizzato. Qui vede il concetto di identificazione del prodotto, cosa su cui noi puntavamo. Guardi questa mappa dall’alto della nostra zona… qui vede la città che si sfalda, perde la sua maglia di isolati man mano che va verso l’esterno. Noi volevamo qualcosa di fortemente identificativo. Il contrario di certa architettura ideologica dell’epoca. Noi abbiamo fatto l’anti-Corviale. Cioè la suddivisione in nuclei da 100 famiglie, a

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loro volta suddivisi in 3 o 4 edifici che formavano un’identità ambientale di appartenenza, anche rispetto alle aree circostanti. L’importante è che ci sia l’identificazione». L’architetto mi racconta che la prima percezione dell’esistenza di un “mondo esterno” a Milano Due la hanno gli studenti delle scuole medie del quartiere, comunali e non private, con l’arrivo di una popolazione studentesca più diversificata. «Non è un ghetto per ricchi, come molti dicono». La composizione sociale inevitabilmente è cambiata, molti negozi hanno chiuso, le giovani famiglie con figli sono diventate coppie di anziani, ma a suo avviso la situazione demografica si sta riequilibrando. È vero che i prezzi sono ancora alti, poco accessibili, «evidentemente è ancora un posto molto ambito». Nella sua attività di politico ha citato più volte l’esempio di Milano Due: non dimenticatevi che sono stato capace di costruire dal nulla una città di diecimila abitanti che ancora funziona, gli abbiamo sentito dire più volte. Nel 2002 fu lo stesso Berlusconi, da capo di governo, a chiamare l’architetto Ragazzi («il suo architetto di fiducia» scrissero i giornali) per progettare una piccola cittadella da costruire a San Giuliano di Puglia, paese distrutto da un terremoto311. I giornali dell’epoca parlarono di una “San Giuliano Due”, allo stesso modo in cui etichettarono come “L’Aquila Due” i progetti di ricostruzione a base di new town lanciati sempre dal premier Berlusconi dopo il terremoto abruzzese del 2009312. Si arrivò perfino a vagheggiare di un piano edilizio a base di una specie di Milano Due in ogni capoluogo di provincia313. «Eh no, qui non sono d’accordo» ribatte Ragazzi. «Ci vuole una collocazione nel territorio, un’interpretazione del contesto. Bisogna sapere come collocarsi in base alle caratteristiche geografiche e sociali di un sito. Milano Due è molto milanese. Non si può prenderla e portarla così com’è a L’Aquila o altrove».

311 R. Bagnoli, L’architetto amico che progettò Milano 2: il premier mi ha chiamato, ci sto lavorando, in “Corriere della sera”, 4 novembre 2002312 Aa. Vv., Berlusconi: “Tre mie case per gli sfollati”, in www.corriere.it313 G. Rondinelli, Riparte il piano case. “Faremo le new town”, in “Il Tempo”, 24 gennaio 2009

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Se negli anni Ottanta Milano Due rappresentava l’immagine di una Milano rampante, del sogno berlusconiano ricco e televisivo, che immagine ha la Milano Due di oggi? «Un modo di abitare tranquillo, normale e al tempo stesso eccezionale. Il palcoscenico non è garanzia di un’opera di qualità, bisogna che la costruiscano gli attori. Però il palcoscenico conta e qui l’abbiamo realizzato bene. Abbiamo centrato il prodotto». Come vede Milano Due tra altri trent’anni? «Dipende da vari fattori. In primis dalla mobilità del lavoro, dall’instabilità che porta un sistema di mercato del lavoro che si gioca su un territorio più ampio. Inoltre c’è il problema della sicurezza, che oggi è percepito con molta più apprensione. Poi sarà molto importante l’evoluzione del concetto di famiglia. Però bisogna dire che i nostri appartamenti qui sono modulari, flessibili, possono essere ridisegnati e nuovamente suddivisi». Dovesse progettarla oggi come la disegnerebbe? «Sarebbe diverso, anche nel tipo di utenza. Bisognerebbe capire che cosa sono in grado di dare gli attuali insediamenti, quelli che portano nella downtown di Milano una massa enorme di potenziali utenti. Se questa massa enorme non trova soddisfazione, ritornerebbe d’attualità quello che abbiamo proposto quarant’anni fa, un modello opposto a quello superconcentrato…». Mentre ci salutiamo l’architetto Ragazzi insiste per mostrarmi una cartina del mondo del National Geographic, su cui con dei grafici a barre altissime è spiegato l’aumento della popolazione mondiale nelle grandi città, specialmente in Asia, da qui al 2050. Questa è la mia ossessione mi dice, come se tutto quello di cui finora avevamo parlato non contasse più, è un fenomeno inarrestabile, lei ci deve meditare, anche io su questo ci sto sbattendo la testa.

8. Spot elettorali

Per pranzo vado nel sushi bar appena inaugurato, con visione del laghetto dei cigni dalla vetrata. Marco, il giovane agente di comunicazione, mi aveva accennato ai “cinesi di Milano Due”, un vero business-case di successo:

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gestiscono ristoranti, comprano case e locali nel quartiere, fanno ottimi affari. Ora è tutto un via-vai di signore che si congratulano e personale Publitalia in pausa pranzo. Al centro della piazza una specie di obelisco, opera dello scultore Filippo Panseca, celebra il primo decennale della città, con una frase scolpita alla base: «A perenne ricordo della costruzione di Milano Due, Silvio Berlusconi pose». Provo a immaginarmi, su quella stessa piazzetta, in una sera umida dell’estate del 1979, Mike Bongiorno e il Cavalier Berlusconi, in piedi su una cassetta di legno, che arringano una folla di pubblicitari e amministratori delegati314. Bongiorno, ingaggiato con un contratto d’oro, fu la prima star televisiva a lasciare la televisione di Stato. Colui che aveva lanciato il successo della tv in Italia, “unificando il Paese più di Garibaldi” disse qualcuno, svolse ancora un ruolo fondamentale nel passaggio al nuovo sistema, aderendo entusiasticamente al primato della pubblicità. Anche lui rimase stregato da Milano Due, come racconterà nella sua biografia. Lo vide quando era ancora in costruzione e subito nella sua rubrica sulla Domenica del Corriere scrisse di questo «modernissimo quartiere» con «architetti lungimiranti» e con la sua «piccola tv via cavo al servizio della comunità di cittadini»315.

Nei sotterranei poco illuminati del Jolly Hotel c’è ancora, con un enorme tavolo a ferro di cavallo, la sala Botticelli, dove si tennero le prime riunioni in gran riserbo sulla nascita di Forza Italia, reclutatori e agenti Publitalia ogni settimana a rapporto da Marcello Dell’Utri316. Qui dentro, all’inizio degli anni Novanta, si è studiato e perfezionato il modo di estrarre da quei sogni degli italiani finora plasmati dalla tv un elettorato. Da quell’elettorato un partito. Da quel partito un potere. Da quel potere la sua sopravvivenza. Da quella sopravvivenza il suo trionfo. Dopo la Città dei Numeri Uno, dopo la Televisione che vende consumi, ecco che nasce Forza Italia, poi infine Popolo delle Libertà.

314 M. Bongiorno, La versione di Mike, 2007, p. 271315 Ibidem, p. 258316 P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 213

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Berlusconi entrò ufficialmente in politica agli inizi del 1994, coi vecchi partiti della Prima Repubblica spazzati via dagli scandali della corruzione, coi suoi interessi da difendere. “Scese in campo” con un filmato trasmesso da varie reti televisive in cui prometteva “un nuovo miracolo italiano”, guidò il suo partito con uno stile manageriale e manipolò il suo messaggio per adattare e modificare l’opinione pubblica317. Come hanno scritto Alberto De Bernardi e Luigi Ganapini, il successo di Berlusconi come uomo politico era anche il riflesso di una serie di cambiamenti epocali nella società italiana e di norme culturali «in virtù delle quali il manager-imprenditore si presenta come modello idealizzato di guida e la società civile è concepita come un insieme di soggetti atomizzati, non più divisi da discriminanti di classe e portatori di interessi e valori conflittuali, ma omogeneizzati dal consumo»318. Nella scalata al potere politico Berlusconi fece un uso specifico della sua immagine legata a Milano, e naturalmente anche dei suoi vanti da costruttore di città ideali. Negli opuscoli elettorali sulla vita del Cavaliere – dallo stile rigorosamente agiografico, sorprendentemente simili a quelli di vent’anni addietro delle Edilnord che pubblicizzavano gli appartamenti di Milano Due – si legge di «un nuovo modo di concepire la città, il sogno di Berlusconi urbanista». Accanto a una luminosa foto aerea del quartiere Milano Tre si trova una didascalia alquanto evocativa: «Qui un tempo c’era una palude». Nel maggio 2009, in una prefazione a una riedizione di questi opuscoli allegati a Libero, il giornalista Vittorio Feltri, all’epoca direttore di quel quotidiano, se ne esce con una formula perfetta, che potrebbe essere ironica se non fosse che è serissima: «Dopo Milano Due, ora la grande scommessa si chiama Italia Due»319.

Mi sono segnato una definizione di Milano Due opera di Michele Serra: «Lustra e asettica, funzionale e smemorata,

317 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 122318 A. De Bernardi, E. Ganapini, Storia d’Italia 1860-1995, 1996, p 511319 Aa. VV. Berlusconi tale e quale, 2009

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comoda e post-italiana»320. Che comunque l’operazione Milano Due, intesa non soltanto come speculazione immobiliare ma come “creazione di un luogo”, sia riuscita appare evidente. Oggi il quartiere è anche dotato dei suoi strumenti di comunicazione: da un lato c’è Milano 2 Notizie, il mensile dell’Associazione Residenti, pieno di informazioni e lamentele sulla vita concreta delle residenze; dall’altro lato è molto frequentato, in particolare da giovani, il gruppo web di Facebook su Milano Due, invece pieno di nostalgici amarcord di quando i bambini andavano da soli a scuola, le mamme facevano la spesa sotto casa, ovunque c’erano biciclette a disposizione dei residenti, nel bar dei Portici era facile incontrare personaggi famosi ecc. In molti si sono in qualche modo riconosciuti nel quartiere, forse soprattutto grazie al potente collante costituito da una quasi totale assenza di differenziazione sociale. Il sindaco di Segrate, Alessandro Alessandrini, giunta di centrodestra, è anche un residente della prima ora e, intervistato sul blog della parrocchia, dice di vedere il futuro, oltre che il presente, di Milano Due assolutamente roseo: «Il quartiere in questi anni si è saputo preservare in maniera straordinaria. Il suo bello, però, è che non si è mai chiuso a riccio, ma è sempre stato aperto alle novità anche grazie alla sua vicinanza a Milano. Rispetto ai tempi d’oro del fortino qualche cambiamento in peggio c’è stato. Il traffico, per esempio, è aumentato. Ma sono aumentati anche i servizi. Soprattutto quelli pubblici. Parlo del Centro civico e degli spazi ricavati per le associazioni. Oggi, poi, stiamo assistendo a un ripopolamento che ha portato a un aumento del numero dei bambini piccoli. In tanti fuggono da Milano e approdano qui. Come biasimarli! Sapete qual è la caratteristica doc di Milano due? Che ha mantenuto le fattezze di un paese. Le persone si conoscono tra di loro, si salutano sulle scale e si incontrano fuori. Non solo i ragazzi formano compagnie, anche gli adulti e gli anziani, aiutandosi a vicenda»321. Altrettanto positivo (come potrebbe essere altrimenti?) è il bilancio del creatore del

320 M. Serra, L’Amaca, in “La Repubblica”, 5 novembre 2002321 A. Ferrari, Milano Due, che futuro?, in www.parrocchiadiopadre.it

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quartiere, Silvio Berlusconi: «Credo che Milano Due sia venuta fuori praticamente senza difetti. Tutta la gente che ha preso appartamenti lì è stata felicissima di viverli, pochissimi hanno lasciato, pochissimi appartamenti sono in vendita, il prezzo è sempre stato tale da aver fatto fare un grandissimo affare a chi ha optato per l’acquisto, i figli sono venuti su molto bene e si sono allontanati da Milano Due soltanto quando sono arrivati a un livello di scuola che lì non era presente»322. Emblematico un suo discorso del 1989 ai giovani appena usciti da un master nelle sue aziende, con modalità comunicative che abbiamo imparato a conoscere: «Quando sono giù di morale, mi metto le mani in tasca e la mattina vado a passeggiare a Milano 2. Ricordo quante persone avevo contro: li avevo contro tutti, ma proprio tutti. C’era la macchina politica e burocratica perfetta per impedire, per proibire, per ritardare, per ostacolare. C’erano i Pretori comunisti, la Prefettura, i sindacalisti, i Verdi di allora, la signora Bonomi Bolchini, i giornali della Rizzoli, quelli degli aerei con le loro rotte di decollo e di atterraggio e il frastuono dei motori. Nonostante tutto questo, nonostante l’efficienza di questa macchina che avevo contro, sono riuscito a costruire una città di diecimila abitanti. È stato difficile, ma senza abnegazione non si può fare nulla. Bisogna mettercela proprio tutta»323.

Non tutti gli abitanti di Milano Due si sono in seguito riconosciuti nelle scelte politiche di Berlusconi, né si sono tutti sentiti “milanesi alla seconda”. Ma il ricordo che conservano di Milano Due rimane spesso positivo: positivo come può essere il vivere in una società apparentemente priva di contrasti e differenze. Certo, non è un american-style garden suburb, come ha scritto The Economist. Non è neppure uno spazio rigidamente chiuso e protetto, una gated community all’italiana, come tante se ne stanno diffondendo pure nel nostro Paese in questo inizio di millennio. Come hanno scritto De Pieri e Scrivano in

322 P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 89323 S. D’Anna, G. Moncalvo, Berlusconi in concert, 1994, p. 316

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un’inchiesta sul Manifesto, ciò che differenzia Milano Due, che rende questo luogo a suo modo paradigmatico, è il salto di scala dell’intera operazione, non soltanto quella edilizia e immobiliare. Milano Due è il simbolo di una strategia di comunicazione in cui le scelte architettoniche e progettuali risultano soltanto la parte di un tutto e i cui tempi sono enormemente dilatati324. Lasciandomi alle spalle Milano Due mi ripeto che è importante capire attraverso quali strade il potere, politico ed economico, tenta di costruire oggi le sue forme di legittimazione, di appiattire e sopire i possibili contrasti sociali e ideologici.

9. Lo Strapaese al governo

Se la metropoli è stata il medium principale, nonché la metafora più efficace dell’esperienza moderna, e se la televisione ne ha rilanciato la potenza comunicativa nella fase tardo-moderna, allora la new town berlusconiana dove si colloca? Sicuramente sulla stessa linea dell’urbanistica anti-urbana all’italiana, lungo lo stesso sentiero su cui abbiamo trovato i borghi littori del Duce e le lucciole scomparse di Pasolini, il canto della via Gluck di Celentano e l’ideologia pubblicitaria del Mulino Bianco. A ogni tappa, però sempre alzando la posta. Fino ad arrivare lì dove i processi di smaterializzazione e mediatizzazione del territorio a opera dello sviluppo tecnologico si sono spinti a lacerare ogni trama della modernità. Là dove a “fare società” non è più né il cittadino né il telespettatore ma il consumatore individuale. Come abbiamo visto, Berlusconi col suo sogno di Suburbia coglie i passaggi dell’immaginario collettivo italiano, insinuandosi nei luoghi, nei territori. Il passaggio dalla centralità della casa alla centralità della tv, dalla città di mattoni alla città elettronica (sebbene ancora pre-internet). Poi il passaggio dalla città di Stato alla città privata, dalla città sociale alla città individuale. La tv aveva iniziato già da anni a

324 F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio 2001

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splendere nei reticoli abitativi delle città, dei paesi e delle prime periferie urbane d’Italia, l’altro passaggio decisivo, quello dalla socializzazione della piazza alla socializzazione offerta dalla tv era già avvenuto. Sebbene a costo di uno scontro tra interessi corporativi, capitali culturali ma anche generazioni. Come scrive Vincenzo Susca «le culture della piazza – che sono anche quelle del libro e dei conflitti fisici, dell’autorità e del popolo, della religione e dell’arte – non hanno mai cessato di resistere alle culture dei media»325. Le mura delle città e delle case si fanno limiti valicabili attraverso i viaggi concessi dalle nuove dimore mediatiche. In fondo, le origini della televisione, prima dei colori, prima del bianco e nero, erano già inscritte nella storia della metropoli ottocentesca, dei suoi linguaggi, del suo “vissuto”. Basta citare Simmel: «La base psicologica su cui si erge il tipo delle individualità metropolitane è l’intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori»326. Difatti, nella seconda metà del Novecento, lo schermo televisivo si salda direttamente all’immaginario collettivo nel momento in cui si apre allo «spettacolo del consumo»327. Come avevano fatto le Grandi Esposizioni Universali nell’Ottocento, la televisione mette in vetrina costumi, merci e sogni collettivi, consente all’uomo qualunque di sapere tutto di tutti, di vivere «oltre il senso del luogo»328. Così, nell’eterno Strapaese italiano, si può ragionevolmente arrivare ad affermare che «la vera esperienza metropolitana, in Italia, l’immaginario collettivo la consuma e produce attraverso la televisione»329. In tutto ciò serviva qualcuno che facesse saltare le vecchie serrature. Per questo Berlusconi, emerso tra strati sociali resi già omogenei dalla sensibilità televisiva, è apparso –

325 V. Susca, Berlusconi il barbaro ovvero il primo tra gli ultimi, in A. Abruzzese, V. Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, p. 33326 G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, 2001, p. 36327 M. Morcellini, Lo spettacolo del consumo. Televisione e cultura di massa nella legittimazione sociale, 1986328 J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, 1995329 A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo, 2001, p. 226

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già parecchio tempo prima della sua formale entrata in politica – un “liberatore” per alcuni e un “invasore” per altri. Anche perché «ha fatto da catalizzatore di una socializzazione incompiuta, di un processo di modernizzazione che in Italia non ha reso possibile il trapasso da una società pre-televisiva a una società televisiva»330.

Cosa c’è quindi di urbano nella televisione e nella cultura di massa che presumibilmente ha veicolato? La questione è complicata. Naturalmente la cultura di massa è sempre stata in un certo senso moderna, e le città italiane hanno man mano costituito dei centri naturali di industrializzazione, consumo e modernità. Tuttavia il mosaico urbano e il mutevole panorama cittadino non si riflettevano nelle prime emissioni televisive, nel castigato bianco e nero della prima Rai di Stato, che invece si limitava a programmi educativi, rappresentazioni teatrali, telequiz girati negli studi o in provincia. Quella provincia che – territorialmente, e non solo – costituiva (e costituisce) buona parte del Paese. L’elemento “urbano” che stiamo cercando era un’entità molto più effimera, più ideologica che concreta, più mitica che reale. I “tipici valori urbani” menzionati da John Foot rispecchiavano il cambiamento di ideali introdotto dal boom economico del secondo dopoguerra, ma in modo appena percettibile. Legando lo sviluppo dei media a quello della formazione delle “comunità immaginate” nazionali. Più tardi la tv privata, la tv di Berlusconi, è stata “americana” in un modo molto più evidente di prima. In un crogiolo di eccessi urbani, glamour e consumismo, fece della “modernità” una virtù331. Una modernità, però, sempre ancora a valori e decori tradizionali, a rassicuranti ancoraggi paesani, come l’ossimoro delle “case di campagna in città” di Milano Due ci insegna. Una convivenza tutta italiana di ipermodernità e nostalgia.

330 Ibidem, p. 34331 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 126

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Così non si può sottovalutare Milano Due, ennesima incarnazione, perfino gradevole e riuscita, dello Strapaese italiano, pure nella sua versione americaneggiante. Forse, come ha scritto recentemente L’Unità, «bisognerebbe scomodare il Gran Lombardo, la Brianza trascolorata del Maradogal – provincia sudamericana creata, tra barocco e grottesco, dalla penna dell’ingegner Carlo Emilio Gadda – per comprendere il successo di Milano Due. Sopra le villette, l’aspirazione alla tranquillità, sotto “l’orrido garbuglio”, i pasticci, la solitudine dell’hidalgo-ingegnere Putibutirro»332. Assistiamo, per dirla con Silverstone, alla «suburbanizzazione della sfera pubblica», una dimensione che mette in gioco molto ambiti: la sfera politica, la sfera collettiva, i mezzi di comunicazione, lo stile di vita. L’ambiente del suburbio «mette in luce la qualità peculiare della cultura moderna negando la tradizionale differenza tra natura e cultura, fondendole». E la televisione, sempre lei, si adatta perfettamente alla realtà suburbana. Fino alla politica: «la politica nei sobborghi, e dei sobborghi, è ancora prevalentemente una politica casalinga di interessi privati, conformismo ed esclusione condotta all’interno di strutture politiche che sono, in genere, scarsamente riconosciute e tantomeno contestate»333. Non a caso il successo edilizio di Milano Due non è centrato tanto sullo scenario metropolitano bensì su quello suburbano. Ha ragione il sociologo Aldo Bonomi quando dice che l’anima di Berlusconi, ora che è diventato leader dello schieramento politico di centrodestra e capo del governo, va ricercata in quella “città infinita” del Settentrione, rappresentata dal territorio lombardo e oltre, dove il modello è il capannone, la casa con giardino e garage e l’immancabile nanetto di Biancaneve. «Basta aver percorso l’autostrada Torino-Trieste per capire i punti di riferimento dei nuovi soggetti. Il paesaggio è dato dai capannoni attorniati da villette con i nanetti nel giardino e la Bmw nel garage sotto casa. Questo è il modello. Il vero simbolo del

332 J. Bufalini, Decoro borghese ossessione milanese, in “L’Unità”, 17 settembre 2009333 R. Silverstone, Televisione e vita quotidiana, 2000, pp. 90-134

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berlusconismo non è la televisione, ma è il capannone e la villetta con i nanetti nel giardino. Ecco l’anima profonda del berlusconismo»334. Come sosteneva Tommaso Labranca in un suo volumetto di qualche anno fa sull’estetica del pecoreccio italiano, «non possiamo non dirci brianzoli»335, perché la Brianza è prima di tutto un luogo dell’anima, ebbene, forse parte di questa «comunità immaginaria brianzola» si è formata grazie (anche) a Berlusconi e al suo “corpo elettronico”, tradizionale e moderno al tempo stesso336.

«Agli architetti italiani dell’epoca non piaceva – ha spiegato, intervistato dall’Unità, Fulvio Irace, storico dell’architettura al Politecnico di Milano – quell’idea neoconservatrice di anti-città. I laghetti, la chiesa, il centro sportivo, la selezione forte dei gruppi sociali e non la condivisione che si crea in un quartiere urbano». È l’ideale del sobborgo americano dove il capofamiglia la sera si rifugia e, chiudendo la porta, si lascia alle spalle lo stress, il traffico, ma anche la vitalità, i rumori, le attività del mondo urbano. E trova la moglie ad aspettarlo, con i bambini stanchi ma felici. L’idea di Milano Due e Milano Tre è esattamente la stessa, secondo Irace, «solo che Berlusconi la interpreta a un livello più popolare, ma progettata da buoni architetti»337. Un’incarnazione, tra tante, del sogno borghese. Ma pure un’espressione azzeccata della mutazione dei tempi, della capacità di sentire l’aria che tira. Quando alcuni ricercatori dell’università di Los Angeles iniziarono nell’anno 1968 ad intervistare le matricole, gli studenti indicarono l’«acquisire una filosofia di vita» come la priorità numero uno della propria istruzione, mentre «ottenere un buon posto di lavoro e fare soldi» si trova sul fondo della classifica. Nei venticinque

334 A. Bonomi, Il chiunque e la moltitudine, in A. Abruzzese, V. Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, p. 247335 T. Labranca, Estasi del pecoreccio, 1995336 F. Boni, Il superleader. Fenomenologia mediatica di Silvio Berlusconi, 2008, pp. 43-45337 J. Bufalini, Decoro borghese ossessione milanese, in “L’Unità”, 17 settembre 2009

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anni seguenti quei valori furono letteralmente invertiti: «fare soldi» schizzò in vetta e «acquisire una filosofia di vita» sprofondò negli abissi della classifica. Inoltre i ricercatori furono sorpresi dalla scoperta di una forte correlazione tra la quantità di televisione che gli studenti guardavano e l’espressione di priorità materialistiche338.

Un errore da evitare nell’avvicinarsi a Milano Due è quello di considerare Silvio Berlusconi e il quartiere da lui costruito come due sinonimi. Una trappola in cui cade sia la letteratura di segno beatificante, come certi opuscoli elettorali o biografie accomodanti, sia la letteratura di segno decisamente opposto, che riduce il tutto a una «scandalosa speculazione finanziaria» di un «palazzinaro coperto da prestanome e coi capitali di anonime finanziarie svizzere»339. La questione è più banale e più complicata al tempo stesso.

Certamente c’è qualcosa che richiama l’ideologia politica del berlusconismo, ma anche del leghismo degli ultimi anni. Innanzitutto il non vergognarsi più del proprio decoro borghese, il non dissimulare più quel sentimento di diffidenza che fa alzare gli steccati. Riemerge così la dicotomia tra fuori e dentro, tra amici e nemici. Come nel discorso politico: da una parte si propone l’immagine di una società omogenea, coesa, sostanzialmente pacificata, dove non esistono conflitti né di classe né di interessi, con una sfera pubblico-sociale anestetizzata; dall’altro lato si propaganda una visione della politica come combattimento contro estranei o nemici, come energia che emana da un popolo in rapporto diretto col suo leader, senza intrusioni di poteri terzi340. Ma non basta. Certamente c’è il collegamento complesso con la retorica anti-urbana e le creazioni di città e borghi nel ventennio fascista, in un contesto del tutto diverso ma con la simile ambizione di voler assecondare la propaganda e plasmare nuovi soggetti

338 A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, p. 406339 G. Ruggeri, M. Guarino, Berlusconi. Inchiesta sul signor Tv, 1994340 C. Galli, Volontà di potenza, in “La Repubblica”, 17 ottobre 2009

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sociali attraverso la creazione di un territorio. Volendo azzardare un parallelo: lì uno Stato che si fa Impresa, qui un’Impresa che si fa Stato. Forse riassumibile nell’opinione che «a differenza di Mussolini, Berlusconi non ha mai preteso di trasformare gli italiani, lui ha aderito agli italiani, e aderendo a noi ci ha cambiati più di quanto abbia potuto l’indottrinamento del regime»341. Ma ancora non basta. Certamente c’è il cerchio del pensiero antiurbano che sempre avvolge l’Italia, l’idea di base di un ritorno alla cultura campagnola e contadina, il rilancio del genius loci, insomma lo Strapaese riveduto e corretto che, paradossalmente, unisce l’estetica berlusconiana di Milano Due con la retorica di regime dei borghi dell’Agro Pontino, con il padano premoderno Celentano cresciuto nella via Gluck, con l’abuso del ruralismo populista e decadente di Pasolini. È tanto, ma non abbastanza. Perché alla fine anche Milano Due è un pezzo di città, che riflette solo in parte le logiche di chi l’ha promossa e finisce per portare le tracce di una stratificazione complessa di culture, aspirazioni, vissuti.

341 A. Cazzullo, L’Italia de noantri, 2009, p. 124

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CAPITOLO 5Il contagio

Come è possibile che tutti cominciamo come degli originali e finiamo come delle copie?

Clifford Geertz, Interpretazione di culture

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1. Celebration, provincia di Disneyland

Alla fine degli anni Ottanta, nella sede della Disney Corporation in California, si tenne un’importante riunione in cui vennero proiettate delle diapositive riguardanti uno studio sui consumatori appositamente realizzato per la grande azienda mondiale, leader nei settori dell’intrattenimento, dello spettacolo e dei giochi per l’infanzia. La ricerca, che riassumeva i risultati di diciotto indagini di mercato annuali consecutive realizzate dalla ditta Yankelovich, conteneva uno schizzo sommario del cambio di atteggiamento dei figli del “baby boom” rispetto al “netto rifiuto” del “sistema di valori tradizionali” che avevano espresso solo vent’anni prima. «In questo paese – vi si leggeva – si sta sviluppando un clima sociale interamente nuovo». Si parlava di «nuovo approccio alla vita, che chiameremo Neotradizionalismo» che non rifiuta a priori tutto ciò che è stato, come era «tipico dei protagonisti della “Me Generation”», ma piuttosto arriva a una sintesi tra i valori di sicurezza e responsabilità tipici del conformismo anni Cinquanta e le libertà individuali e di scelta successivamente imposte. Insomma, «i consumatori sembrano alla ricerca di un punto di equilibrio, di un bilanciamento tra gli opposti». Un testimone di quella riunione raccontò com’era presentata la relazione: «Si vedeva la foto di un caminetto vittoriano con sopra una sveglia Braun. I neotradizionalisti, si deduceva, sceglierebbero sì una stanza vecchio stile, ma non comprerebbero mai un orologio vittoriano, ovviamente a molla e con ogni probabilità impreciso. Sceglierebbero senz’altro un orologio tedesco di ultima generazione. I neotradizionalisti metterebbero tubazioni e cucine moderne nelle loro case vecchio stile, laddove un tradizionalista integrale restaurerebbe un vero bagno vittoriano con tanto di vasca con le zampe da grifone, e un modernista troverebbe semplicemente impossibile vivere in una casa

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vittoriana»342. In quegli stessi anni gli “ingegneri dell’immaginario” della Disney commissionarono al maggiore ufficio di consulenze immobiliari degli States uno studio di mercato sulla proprietà immobiliare, in vista un nuovo insediamento abitativo. Il team aveva consultato anche un gruppo di futurologi riguardo alle «preferenze dei consumatori negli anni Novanta e all’inizio del nuovo secolo», aveva condotto ricerche di mercato presso i visitatori dei parchi a tema, diffuso tra gli azionisti un questionario con domande relative a che tipo di comunità, stile di vita e prodotti avrebbero voluto trovare in una nuova città. I risultati di tutte queste indagini confluirono nel disegnare il profilo finale della città come un posto di «vecchie case con giocattoli nuovi»343.

Sulle pareti della sala riunioni troneggiano i ritratti del fondatore, lo zio Walt, colui che aveva disegnato a matita e poi su celluloide la città dei topi e quella dei paperi e molte altre ancora, e su di esse aveva costruito il suo grande impero aziendale dell’immaginario americano e occidentale. Le sue massime vengono riprodotte sulle grandi mura della sede della Walt Disney Company. «If you can dream it, you can do it». «It requires people to make the dream a reality». «It’s a kind of fun, to make the impossible». Già mentre commissionava indagini di mercato a immobiliaristi e futurologi, la Disney Corporation si era meritata sul campo la definizione di essere una delle maggiori promotrici dell’architettura postmoderna, a cominciare dal suo primo parco divertimenti di Arnheim, Los Angeles, ribattezzato Disneyland. E negli anni Settanta trapiantando e ampliando la sua esperienza a Orlando, in Florida, con DisneyWorld. E ancora replicando questo modello dozzine di volte, in tutto il mondo. Per non parlare dell’ulteriore settore di espansione dei mega-alberghi, lanciato negli anni Ottanta, progettati dai più importanti architetti contemporanei. Le Disneyland sono tuttora le destinazioni turistiche più popolari del pianeta: in meno di

342 A. Ross, Celebration. La città perfetta, 2001, p. 45343 Ibidem, p. 46

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cinquant’anni sono state visitate da centinaia di milioni di spettatori paganti.

È curioso che il primo cortometraggio con Topolino e Gambadilegno (Building a Building, del 1933) sia ambientato sulle impalcature barcollanti di un grattacielo. Gli intellettuali europei degli anni Trenta furono affascinati dalla capacità disneyana di inventare un mondo alternativo, fantasmagoria e allegra sarabanda che aboliva il dolore e rendeva superfluo il rancore storico. Ma insieme avvertivano il pericolo di un immaginario utopico e totalizzante, dove l’umano non serviva più. Benjamin, nel suo saggio su Mickey Mouse, constatava ammirato che i film di Disney «provocano una frantumazione terapeutica dell’inconscio», ma notava con angoscia che «in un mondo del genere non vale la pena fare esperienza» e che in esso «l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura, se questo è necessario»344. Parole illuminanti. Certamente pochi sanno che Walt Disney – illustratore, disegnatore e poi imprenditore – era ossessionato in maniera via via più crescente dall’idea di realizzare la città del domani che, diceva, «influenzi le generazioni future: realizzarla è un’occasione unica nella vita di chiunque»345. La prima spinta la diede nell’estate del 1955, inaugurando in un sobborgo di Los Angeles la prima delle sue Disneyland. L’azzardo era grande: l’azienda voleva espandersi dai cartoni animati e dai film e programmi tv, dimostrando di saper fare qualcosa di “reale”. E il successo fu enorme: nel più grande e costoso parco divertimenti dell’epoca gente da tutto il mondo faceva la coda per vedere il castello della Bella Addormentata, la giostra con le tazze da tè di Alice nel paese delle meraviglie e il veliero dei pirati di Peter Pan. Disneyland per prima ha rivelato il concetto, l’essenza del neo-turismo, un turismo che va a visitare ciò che non esiste. A Disneyland niente era lasciato al caso: l’esperienza perfetta del turista nel lunapark senza borseggiatori, senza sporcizia e senza incidenti, in

344 W. Siti, Il canto del diavolo, 2009, p. 88345 A. Dini, Non solo cartoon, in “Diario”, maggio 2009

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un’Esposizione Universale permanente dell’intrattenimento, era coordinata dietro le quinte da una macchina complessa. Centinaia di dipendenti e un gruppo di una dozzina di società controllate dalla Disney stessa, si occupavano di tutto: dalla creazione delle attrazioni dei singoli parchi all’arredo degli hotel fino alla manutenzione delle strade e dei veicoli di trasporto e ai servizi di polizia346.

Era però l’idea del parco come una comunità autosufficiente che affascinava Disney. La possibilità di coniugare nostalgia e futurismo, progresso tecnologico e ordine sociale. Trattare le persone come pupazzi. Perché non trasformare, come poi avrebbe sognato il New Urbanism trent’anni dopo e raccontato il film The Truman Show alla fine del secolo, la vita delle persone in un vero e proprio spettacolo? Nella sua mente il secondo megaresort della Disney, quello che sarà inaugurato nel 1971, cinque anni dopo la sua morte, nel sud della Florida, col nome di Walt Disney World, doveva chiamarci semplicemente Epcot. Un nome che, nel progetto originario, era la sigla per Experimental Prototype Community of Tomorrow, il prototipo di comunità sperimentale per il domani. Qualcosa di molto differente, insomma, da quella che sarà la sua effettiva realizzazione: non un parco divertimenti ma una città del futuro. L’obiettivo di Walt Disney era creare una vera e propria comunità lavorativa di 20mila abitanti in cui le grandi corporation statunitensi avrebbero potuto aggiornare e mostrare le nuove tecnologie per l’American way of life. Un’utopia incarnata, per di più al di fuori della legge comune al resto del Paese. Il progetto prevedeva, infatti, che nessuno degli abitanti fosse proprietario della sua casa, in modo tale che non potesse legalmente votare e quindi che la Disney avesse le mani libere per amministrare la comunità senza che questa potesse eleggere rappresentanti non desiderati. Le regole del gioco sarebbero state semplici e chiare: cittadini come clienti e dipendenti, tutti impiegati; niente pensionati, niente

346 Ivi

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disoccupati e nullafacenti a ingolfare le strade. Un luogo dove l’ordine regnasse sovrano e le utopie tecnologiche potessero venire elaborate e sperimentate. Epcot avrebbe dovuto essere costruita intorno al suo sistema di trasporto, con una pianta circolare su più livelli e due grandi assi di scorrimento. In mezzo un mega centro congressi di almeno trenta piani. Poi le aree residenziali e quelle per lo shopping, coperte da un’enorme tettoia per garantire protezione dal caldo, dal freddo e dalla pioggia. Quindi la cintura verde e infine la periferia residenziale, collegata tramite piccoli vagoncini da quattro posti su rotaie, i people mover, sempre in movimento. La monorotaia, invece, avrebbe portato ogni giorno gli impiegati al lavoro e i turisti all’aeroporto. Auto e camion, banditi dalla vita pubblica, sarebbero stati confinati nei livelli sotterranei, attraverso un tortuoso sistema di gallerie347. Il vecchio Disney era ossessionato, fin sul suo letto di morte, dalla creazione di questa utopia urbana, autosufficiente e dolcemente autoritaria. Per innalzare davvero, tra gli uomini in carne ed ossa, «il paese più felice del mondo».348 È questo il punto in cui Paperino e Topolino mostrano il loro lato oscuro, come l’ha definito lo scrittore Walter Siti: «dove la beata fiducia nell’onnipotenza dell’estro diventa convinzione di possedere in proprio le chiavi della felicità universale; dove un crocevia di convivenze tende alla sordità asettica del plastico e del prototipo, come se il mondo per essere felice dovesse ridursi alla parodia di se stesso»349. Nel 1955, all’inaugurazione, fu posta una targa all’ingresso di Disneyland: «qui tu lasci il presente per entrare nel mondo di ieri, di domani, della fantasia»350. La cosa più sorprendente, oggi, è che il modello di città modulare sognata da Disney si avvicina ai progetti di molte comunità pensate dal Rinascimento urbano europeo, il movimento architettonico che dagli anni Novanta immagina di

347 Ivi348 W. Siti, Il canto del diavolo, 2009, p. 89349 Ivi350 Ivi

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costruire città ecosostenibili in cui le auto siano bandite e dove la qualità della vita sia garantita dal verde pubblico, dalle strutture comuni, dalla disponibilità di sistemi elettrici di trasporto351.

Dopo le utopie visionarie del fondatore, dopo il florido business dei suoi eredi e amministratori, dopo le ricerche di mercato di fine anni Ottanta, qualcosa fu effettivamente realizzato. È la new town chiamata Celebration: un paese edificato nel 1996 bonificando un territorio paludoso nella contea di Osceola, in Florida, e all’inizio amministrato direttamente dalla Disney Corporation. Un progetto meno ambizioso delle originali visioni disneyane, con le solite villette a schiera con giardinetto, un centro urbano studiato a tavolino. Ma altrettanto claustrofobico. Celebration si sviluppa su una zona di 27.500 acri a forma di mezzaluna, fra laghetti, campi da golf e foreste tropicali in miniatura, in mezzo al paesaggio dei motel, degli outlet, delle catene di negozi cheap, di quel commercio che si mette sulla scia delle folle di turisti che sciamano verso il vicino parco di Disneyworld. In Celebration sono state costruite abitazioni progettate secondo sei differenti stili architettonici: classico, vittoriano, coloniale, costiero, mediterraneo e francese. Quando si acquista una casa si può scegliere fra questi modelli a seconda delle diverse zone abitate. La distanza massima tra gli immobili non può superare i nove metri e nelle strade possono circolare solo automobili elettriche. La città è controllata da un efficace sistema di vigilanza, con telecamere e reti a fibra ottica. Ci sono regole accurate: anche tenere il volume della tv troppo alto disturbando i vicini può essere una causa di espulsione dalla cittadina. In Celebration la Disney ha cercato di ricreare una vera comunità. Una comunità che deve essere chiusa, non potendo superare le 20.000 unità per non mettere in crisi l’ordine e l’equilibrio del progetto. Una comunità in cui gli abitanti sono costretti, in cambio della sicurezza, a rinunciare a una parte della propria libertà352. A vedere qualche foto, Celebration ha poco dei bozzetti

351 A. Dini, Non solo cartoon, in “Diario”, maggio 2009

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futuristici dello zio Walt, e piuttosto sembra avere una vaga rassomiglianza con Milano Due. Ricalca gli stereotipi della vecchia pubblicità americana, modello anni Cinquanta, rivela qualcosa di non lontano dalle esperienze tipo Second Life su internet, la possibilità di costruirsi mondi. Dal punto di vista architettonico, Celebration è figlia di quello zelante movimento di pianificazione urbanistica che è il New Urbanism: il quale ha dichiarato guerra allo sviluppo caotico delle periferie cittadine e si è incaricato di creare un’alternativa basata su vincoli sociali e comunitarismo tradizionale353. Lo scrittore e docente universitario Andrew Ross ha passato un interno anno a Celebration e da questa sua esperienza di “osservatore partecipante” ha tratto un corposo volume sulla “città perfetta”. Una città – spiega – che sarebbe sbagliato immaginare come una linda versione umana di Topolinia, ma che col passare degli anni ha assunto tutte le dinamiche e le contraddizioni di qualsiasi comunità urbana: dalle frizioni sociali fino alla nascita di aree-ghetto e al verificarsi di episodi di corruzione nei pubblici uffici.

«I “nuovi pionieri” di Celebration – ha scritto Ross – sono fuggiti dalla desolazione dei panorami suburbani, attirati dalla possibilità di riconnettersi tra loro nella rinascita di un progetto collettivo»354. Il richiamo è quello che nel mio percorso di questo libro ho già visto e riconosciuto in tante esperienze: ritrovare una fantomatica età delle quiete, della sicurezza, della stabilità, quando la società non era ancora minacciata dai pericoli della modernità. La nostalgia per la “vita tranquilla” di un tempo, un passato rivestito da una sorta di verginità rifatta, coi suoi topos sempre uguali a loro stessi: i vicini di casa amichevoli, i bambini che giocavano per strada, i quartieri sicuri da ladri e spacciatori, la campagna non troppo lontana. Così, da quelle lungimiranti ricerche di mercato di fine anni Ottanta, emergeva la

352 E. De Pascale, Celebration città perfetta. Tra Topolinia e il Truman Show, in http://www.webgol.it 353 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, pp. 92-95354 A. Ross, Celebration. La città perfetta, 2001

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«doppia identità dei sostenitori del neotradizionalismo»: da un lato sensibili alla possibilità di liberazione e protezione individuale delle nuove tecnologie e alle sirene del marketing delle merci, dall’altro lato altrettanto affamati di roba autentica, originale, apparentemente immune al commercialismo di massa. Celebration viene progettata per gente così355. La magia del sogno si è persa ed è rimasta solo l’ossessione per il controllo. Come spesso accade nella vita.

2. Condomìni e altre ossessioni

Vengono in mente le ambientazioni dei migliori romanzi di Ballard. Il grattacielo londinese, come nuovo spazio dell’abitare urbano, in Condominio356. Il Pangbourne Village, centro residenziale costruito fuori Londra, come spazio dell’abitare extra-urbano, in Un gioco da bambini357. Estrella de Mar, il villaggio residenziale costruito sulla Costa del Sol spagnola e ultima residenza di ricchi baby pensionati inglesi e tedeschi, come esempio di società del tempo libero, in Cocaine Nights358. Infine Eden-Olympia, il parco tecnologico del superlavoro sulla Costa Azzurra, come esempio di società dei nuovi lavori post-fordisti, in SuperCannes359. Quattro spazi, un’unica forma: la fortezza. Una fortezza con telecamere e guardie private proprio come i centri commerciali o i parchi tematici. È il supermercato che finalmente si fa abitazione, casa accogliente e sicura. La categoria sociale che descrive Ballard nei suoi racconti è quella dei nuovi ricchi, contenti di constatare come il mercato si è sostituito allo Stato nel governo dello spazio urbano. Finalmente nessuno è più obbligato a pensare di dover progettare e governare globalmente una città secondo valori universali. Finalmente

355 Ibidem, pp. 46-47356 J. G. Ballard, Il Condominio, 2003357 J. G. Ballard, Un gioco da bambini, 2007358 J. G. Ballard, Cocaine Nights, 2008359 J. G. Ballard, SuperCannes, 2002

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si può ripartire da zero, tentare di creare la comunità perfetta. In fondo non è difficile: basta alzare un bel muro e proteggere le entrate con telecamere e guardie private360.

Il segreto di una comunità sta nell’accesso controllato. In fondo non è stato così fin dalle origini dell’uomo? La comunità nasceva, agli albori della storia, delimitando e proteggendo uno spazio che a sua volta era pubblico solo in quanto tutti avevano la responsabilità di difenderlo e preservarlo. Le comunità nascono per difenderlo e preservarlo. Come ha spiegato Emiliano Ilardi nel suo saggio su “romanzo, media e metropoli” «le comunità nascono per difesa e si fondano sulla paura». Sono stati l’Illuminismo e la Rivoluzione francese a mettere in mezze le pretese di poter conciliare individuo e comunità, mercato e valori, libertà e uguaglianza, con il loro Stato che si arrogava il diritto di legiferare per la collettività intera, con il loro utopico spazio pubblico cittadino universalmente accessibile che trasformava la comunità da strumento di difesa in valore universale e dunque, da un certo punto di vista, in un’imposizione, perché obbligava a condividere uno spazio aperto a tutti, indifferentemente. Basta ora eliminare quel “a tutti” con “esclusivamente agli abitanti (o proprietari” di questo spazio” che il gioco è fatto361.

D’altronde, negli ultimi trent’anni, la “comunità” è diventata un vero e proprio fattore di competizione del mercato residenziale, e ogni ditta di sviluppo territoriale la inserisce nel pacchetto di optional dell’insediamento che desidera vendere. I clienti possono così scegliere di comprare casa all’interno di una comunità “forte”, naturalmente a caro prezzo. Accade così che lo spirito comunitario assume il valore di una risorsa terapeutica acquistabile solo da coloro che, fra tutti i gruppi sociali, probabilmente hanno meno bisogno delle sue virtù corroboranti. Per esempio – come ha notato Ross nel suo

360 E. Ilardi, Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a Ballard, 2005, pp. 179-182361 Ibidem, p. 181

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soggiorno nella cittadella della Florida – i pianificatori di Celebration si proponevano di surclassare gli avversari mettendo sul mercato una nuovissima versione deluxe di pacchetto comunitario “chiavi in mano”, differente sia dal “modello enclave fortificata” sia dal “modello villaggio vacanze”. La domanda di questo bene prezioso tende a mantenersi alta per la diffusa percezione che il senso comunitario sia ormai un po’ dappertutto una specie in via d’estinzione, e più che mai nell’aridità dei quartieri suburbani. «Trasferitevi in una città vera, dice l’adagio, e vedrete come si trasforma la vostra vita sociale»362. L’evoluzione rovescia le prospettive. Nelle utopie storicamente realizzate la comunità era un obiettivo intenzionale condiviso da individui legati dalla comune fedeltà a certe convinzioni. Negli insediamenti pianificati di oggi, invece, il termine è innanzitutto parte di un lessico di mercato che mira a una nicchia di consumatori per irretirli e conquistarli tramite un’efficace campagna promozionale.

Quando, quarantacinque anni fa, Herbert Gans, di professione sociologo, andò a Levittown, vicino Philadelphia, uno dei suoi obiettivi era capire se fosse davvero il posto in cui si vive a fare la differenza. I quartieri suburbani erano già diventati il bersaglio preferito di molti critici, secondo cui essi stavano trasformando la gente in automi sociali, con effetti disastrosi sulla salute della democrazia. Gans nel suo studio provò a rovesciare questi stereotipi, secondo lui figli di un intellettualismo elitario urbano. L’ambiente residenziale, secondo Gans, aveva un effetto trascurabile sulla vita comunitaria. Tanto più i sobborghi suburbani di quel tempo rappresentavano anche l’aspirazione a una vita migliore per molte famiglie di ceto medio-basso363. Al giorno d’oggi il nesso, per quanto difficile da documentare, viene assunto ormai come un dato di fatto: gli schemi abitativi e stradali determinano la personalità civica. Ma sarà poi vero che le brutte case producono cattivi cittadini? Che i residence isolati producono invece

362 A. Ross, Celebration. La città perfetta, 2001, p. 268363 Ibidem, pp. 268-270

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cittadini egoisti? Forse che molti sociologi sono ancora sentimentalmente attaccati al best-seller del 1961 di Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città364, e alle sue visioni rosee della vita di strada a misura d’uomo? La risposta, in ultima analisi, può dipendere da ciò che si intende per cittadinanza. La cittadinanza attiva è una cosa che si impara, dagli altri e mano a mano, certamente parecchio tempo dopo averne sentito parlare sui banchi di scuola. Ed è molto importante l’uso che se ne fa: se per difendere i propri privilegi oppure per migliorare la situazione altrui.

Qui tornano, come un incubo, i romanzi di Ballard. Essi ci pongono di fronte a un paradosso: l’ossessione per la sicurezza e per l’ottimizzazione del tempo spinge l’individuo a rinchiudersi nelle gated communities, a eliminare la casualità dalla sua vita, a ridurre drasticamente i rapporti sociali. Una volta raggiunta la sicurezza assoluta, però, l’individuo perde il senso del vivere nel mondo, scomparsa la paura scompare anche l’unico fondamento della comunità, ed egli si ritrova con una libertà potenzialmente illimitata ma concretamente rischiosa tra le quattro mura della città prigione. Ed è allora che in quelle storie prende il sopravvento il crimine. Crimine o violenza psicopatica come unici fattori di imprevedibilità nelle società occidentali tecnologizzate. Ballard suggerisce, in tempi di ossessioni securitarie, che la paura non sia soltanto una delle possibili forme del potere, collante delle moderne eterotopie, ma anche un’esigenza dell’individuo per potersi sentire parte di una comunità365.

3. Megalopoli e banlieu

Nell’autunno del 2005 Parigi, una delle metropoli più rappresentative di un’Europa che ormai ha smesso di amare se stessa, ha assistito impotente al rogo delle sue 364 J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, 2009365 E. Ilardi, Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a Ballard, 2005, p. 187

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periferie, e con quelle anche all’irreversibile crisi del suo laboratorio “laico” di cittadinanza multietnica. Ogni notte, per circa due mesi, nelle banlieue vennero bruciate le macchine e gli autobus, gli unici mezzi capaci di mettere in collegamento gli stessi autori di tali gesti con il mondo del lavoro. Macchine dei propri vicini, di qualche amico o parente. Macchine che rappresentavano l’unico mezzo capace di collegare i loro quartieri dormitorio al posto di lavoro, quando c’è, o al centro commerciale, quando si può. Furono bruciate le scuole e gli asili, i parchi giochi e le palestre, i negozi e i bar. Tutte quelle strutture frequentate dai loro stessi familiari, spesso gestite da conoscenti, e che dovrebbero contribuire, sebbene in forma drammaticamente insufficiente, a migliorare quell’ambiente urbano366. La periferia bruciava se stessa. Dalle “lotte urbane” dei proletari che non avevano da perdere altro che le loro catene, come diceva Marx, ma che avevano molte speranze di migliorare le loro condizioni economiche, lavorative ed esistenziali, si è passati alle “violenze urbane” di persone che non hanno speranze né ambizioni. In un villaggio globale sempre più urbano e mediatico quelle immagini assunsero un’importanza paradigmatica, eppure da molti vennero liquidati come un atto di teppismo metropolitano, l’ultimo atto di una cittadinanza nichilista. Ma il territorio che bruciava poteva tornare ad essere, nelle intenzioni di quei ragazzi, il territorio fertile per un nuovo radicamento. Come ha scritto Marc Augé, «viviamo in un’epoca paradossale anche sotto questo aspetto. Nel momento stesso in cui l’unità dell’intero spazio terrestre diventa pensabile e in cui si rafforzano le grandi reti multinazionali, si amplifica il clamore dei particolarismi, di coloro che vogliono restare soli a casa loro o di coloro che vogliono ritrovare una patria, come se il conservatorismo degli uni e il messianismo degli altri fossero condannati a parlare lo stesso linguaggio: quello della terra e delle radici»367. Il fuoco della banlieue sembra così il versante

366 L. Mencacci, L’eclisse dell’utopia urbana, 2009, pp. 56-57367 M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, 1993, p. 37

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oscuro in cui si raffrontano le recinzioni dei residence e dei condomini che impongono il limite invalicabile di una società, che esclude chi non può permettersela. Come ha affermato il sociologo Alan Touraine noi viviamo il passaggio da una società verticale che avevamo preso l’abitudine di chiamare una società divisa in classi, con gente che stava in alto e gente che stava in basso, a una società orizzontale dove l’importante è sapere se si è al centro o in periferia che è la zona della grande incertezza e delle tensioni, in cui le persone non sanno se finiranno per far parte degli “in” o degli “out”368.

Alcune rilevanti trasformazioni macrosociali che investono la società occidentale hanno un rapporto con il crescere dell’insicurezza urbana: la disoccupazione strutturale, la trasformazione del sistema produttivo che tende a polverizzare e precarizzare il lavoro, l’incremento delle migrazioni internazionali, la polarizzazione tra una minoranza relativamente benestante e una maggioranza povera o impoverita, la crisi del welfare state e della stessa politica che ritrova nel “mercato della paura” un espediente per rimettersi al centro della scena. Insieme ad altri fattori psicosociali eterogenei, come l’individualismo, il narcisismo, la crisi della fiducia. I concetti di rischio e sicurezza assumono un’importanza sempre maggiore. A maggior ragione se il più delle volte ciò che conta è la loro percezione prima che la loro realtà, percezione a sua volta facilmente solleticata e ingigantita dai mezzi di comunicazione. Il conflitto, più o meno silenzioso, che si riproduce nei vari contesti del mondo è tendenzialmente quello tra zone di povertà vs zone di enclave per benestanti369. La richiesta di sicurezza è cresciuta, nel tempo, di pari passo con la crescita dell’insicurezza ontologica, strutturale. Un fenomeno che va di pari passo con il declino della modernità “solida” – quella legata alla

368 A. Gazzola, Intorno alla città. Problemi delle periferie in Europa e in Italia, 2008, p. 60369 F. Montanari, Limiti, sprawls, esplosioni, edges e bordi: quello che fa oggi la città, in G. Marrone, I. Pezzini (a cura di), Linguaggi della città. Senso e metropoli II, 2008, p. 212

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solidarietà pubblica che assicurava una protezione collettiva contro le disavventure individuali e alla solidarietà privata, sindacale o professionale, che con una continua negoziazione teneva lontani i rischi del mercato del lavoro – e con il passaggio alla modernità “liquida”370. Per dirla con le parole di Bauman, «non lo stare insieme ma l’evitarsi e lo stare separati sono diventate le principali strategie per sopravvivere nelle megalopoli contemporanee. Non è più questione di amare o di odiare il prossimo: tenerlo a distanza risolve il dilemma e rende superflua la scelta»371.

Quelle mura, che un tempo difendevano la città da pericoli esterni e sconosciuti, ora vengono innalzate all’interno della stessa città per prevenire rischi interni e sconosciuti. In tal senso interessante appare lo studio di Mike Davis, Città di quarzo, basato sull'osservazione delle trasformazioni dell’habitat urbano di una megalopoli in continua espansione come Los Angeles. Davis ha evidenziato come la città si stia dissolvendo in una geografia di “comunità chiuse” e “fortificazioni urbane”, emergenti da uno spazio pubblico destrutturato e reso inabitabile. In essa i grandi mall suburbani e i megastore diventano gli unici luoghi dove una comunità urbana eterodiretta possa continuare a celebrare quel rito ormai privo di reale significato dell’incontro. Davis parla di una complessiva logica di «militarizzazione della vita cittadina» che caratterizzerebbe l’urbanistica contemporanea, soprattutto americana. Inserendosi in un ampio dibattito, quello sulla natura pubblica o privata degli spazi372. Girovagare senza meta, disegnare il proprio percorso affidandosi agli automatismi psichici, alla casualità delle sensazioni o alle ossessioni personali come facevano surrealisti e flaneurs e drifters postmoderni è un privilegio che non ci è più concesso. È impossibile perdersi nelle

370 A. Gazzola, Intorno alla città. Problemi delle periferie in Europa e in Italia, 2008, p. 39371 Z. Bauman, Dentro la globalizzazione, 2001, p. 55372 M. Davis, Città di quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles, 2008

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metropoli descritte da Davis, dove c’è sempre una telecamera, un muro, una guardia privata, un immigrato, un poliziotto o un membro di una gang che ci riportano, con le buone o con le cattive, al percorso originario, l’unico che ci era concesso seguire fin dall’inizio.

In questi ultimi decenni sono stati coniati dagli urbanisti e dagli studiosi di pianificazione territoriale numerosi termini, dotati di sfumature e connotazioni diverse, per definire il fenomeno della sempre più sfumata definizione del limite urbano. Sprawl, città estesa, città diffusa, città arcipelago, città esplosa, città continua, città di città. Come sempre non è la forma a essere rilevante, sono le forze concrete, in atto, espresse da essa. I dati delle Nazioni Unite degli anni Duemila continuano a segnalare una crescita delle popolazioni urbane in tutto il mondo sviluppato e soprattutto in via di sviluppo. Alla svolta del millennio, proliferano le immense megalopoli, soprattutto quelle in espansione della Cina e del sud-est asiatico. Si consolidano le città destinate al turismo di massa, quartieri di grandi capitali europee oppure città d’arte come Firenze o Venezia, convertite in souvenir di loro stesse. Comincia il fenomeno della gentrification, la riconquista dei centri urbani ritornati alla moda da parte delle classi medio-alte. Chi non ha mezzi rimane dov’è, nelle periferie rimaste prese in mezzo tra la città consolidata che si riqualifica e si rifonda e l’eventuale marea della città diffusa, l’urban sprawl su cui si interrogano specialisti di varie discipline, insediamenti puramente residenziali, senza centri, senza radici, senza servizi di prossimità ma spesso prossimi a grandi centri commerciali. Per alcuni sono la caratteristica corrente dello sviluppo urbano, secondo altri sono solo il frutto di una insufficiente politica di gestione territoriale. Lontano, in deserti innaffiati dal denaro, fioriscono le città simulacro dell’azzardo, parchi fantasmagorici dello sviluppo economico, dalla vecchia e ormai superata Las Vegas, dissoluta capitale americana di giochi e “vizi” tra le sabbie del Nevada, fino alla gigantesca e futuribile Dubai, enclave di lusso in stile occidentale in terra araba, ora in crisi per i sussulti di un mercato immobiliare impazzito. Posti dove

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pare di intravedere la sperimentazione del più gigantesco tentativo sotto le cui insegne sta nascendo il Ventunesimo secolo: conciliare il libero mercato coi regimi autocratici, forse addirittura il dispotismo illuminato si rivela, per l’economia post-consumista, la miglior forma di governo (e la criminalità organizzata il suo braccio creativo)373.

Qualcuno disegna la nuova utopia di una collettività di individui in costante e reciproca comunicazione, grazie ai miracoli delle reti tecnologiche, senza quei vincoli di prossimità che avevano costretto i loro predecessori ad ammassarsi nei centri urbani. Una città a rete, senza centro, in grado di proliferare all’infinito, sequenza di comunità virtuali. Certo che i dati, per dirne una, sulla situazione del traffico in aree metropolitane sempre più suburbanizzate sembrano smentire questa idilliaca e futuribile idea, almeno al momento. Antitesi di questa utopica città a rete è invece la profezia di un’umanità urbanizzata, dove peraltro la più abnorme parte di questa crescita urbana interessa i paesi “in via di sviluppo”, con flussi migratori sempre crescenti attratti dalla prospettiva dei miraggi urbani. Sarebbe facile cullarsi nell’idea snobisticamente occidentocentrica del buon selvaggio che va lasciato nel suo mite sviluppo rurale, nella sua povertà di benessere e desideri. Tuttavia, per dirla brutalmente, anche loro vogliono la macchina e il frigorifero, come noi374.

4. Outlet

La domenica pomeriggio molte piazze italiane sono vuote. I tradizionali luoghi della vita sociale, gli stadi, le chiese, i cinema risentono di una crisi di presenze. In molti centri cittadini e capoluoghi di provincia, soprattutto al Nord, può capitare di vedere in giro perlopiù immigrati, extracomunitari: giovani, attivi, senza belle case dove

373 W. Siti, Il canto del diavolo, 2009, p. 199374 A. Agustoni, Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, 2000, pp. 108-111

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rifugiarsi, poco interessati ai quiz televisivi e allo shopping, piuttosto al kebab e ai call center. La vita sociale degli indigeni sembra essersi trasferita altrove. Nei nuovi centri commerciali, sempre più grandi, che punteggiano i confini delle città e delle province come una corona. Negli outlet di ultima generazione, universi dedicati alle merci d’occasione, cittadelle isolate del commercio e dell’incontro, universi paralleli dove ormai non si vendono merci ma anche esperienze, divertimento, benessere. La piazza è sempre stata uno specifico urbanistico e culturale della cultura europea, in particolare italiana. Evidentemente, come è stato argutamente notato, «non c’è bisogno di piazze là dove tutti vanno solo in macchina o solo a piedi, dove gli spazi sono troppo ampi o troppo angusti, dove ognuno sta per conto proprio o si pigia in un ammasso indistinto, che è la stessa cosa»375.

La prima volta che ho messo piede in un outlet, passeggiando tra colonnati augustei di cartapesta, strade tipo borgo medievale, facciate colore pastello da isola greca oppure in mattoni tipi palazzo londinese, insegne luccicanti e oggetti di design stile newyorkese, il bar uguale a quello dell’autogrill, ho pensato che forse non sarebbe stata una cattiva idea venire a vivere qui, prenderci casa, dentro l’outlet. In un affollato outlet sulla Pontinia, a metà strada tra l’ingolfata periferia romana e il già redento agro di Latina, i depliant pubblicitari avvisano che si sta per entrare «in una vera e propria città, ispirata all’epoca augustea, che sembra uscita direttamente da uno scavo archeologico». Camminando per le vie pulite e ordinate dell’outlet, sorvegliate da discreti ma occhiuti uomini in nero con auricolare all’orecchio, mi veniva da pensare che in fondo l’Italia non è un paese classista, perché ricchi e poveri condividono lo stesso sistema di valori, hanno in comune lo stesso codice estetico, sentono allo stesso modo. Molti ricchi pensano come i poveri e molti poveri vorrebbero fare le cose dei ricchi. I loro ideali e i loro istinti spesso sono gli stessi. Mentre me ne stavo seduto sotto una

375 A. Cazzullo, Outlet Italia, 2007, p. 4

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testa di cavallo in finto bronzo, che si rifletteva nelle vetrine di Etro, immaginavo che se avessi visto questi posti, questi enormi mall suburbani al chiuso o questi altrettanto grandi centri outlet all’aperto, forse il filosofo Michel Foucault li avrebbe ricompresi nell’universo concentrazionario da lui studiato. Ma forse era più preveggente lo scrittore Aldous Huxley, quando prevedeva un controllo sociale regolato dalle piacevolezze piuttosto che dalle pene376. Per alcuna pubblicistica sull’argomento l’outlet rappresenta la forma perfetta del “non-luogo” teorizzato da Marc Augé, con una formula che riscosse un successo perfino abusato: uno spazio né identitario né sociale né storico, perché non vi si costruiscono identità, non vi si stringono relazioni consolidate, non si sedimenta la storia, il soggetto che vi transita è spinto al passaggio solitario, veloce, omologante. Un luogo di consumo del presente, dice l’antropologo377. Per altri aspetti spesso quella dei non-luoghi appare una formula un po’ abusata, e in molti casi si può anzi sostenere che posti come questi siano iperluoghi, o comunque luoghi vissuti a tutti gli effetti. Per gli studiosi del genere è un dibattito aperto.

In un preveggente film del 1968 di George Romero, maesto dell’horror, La notte dei morti viventi, sono proprio i centri commerciali il luogo in cui convergono gli zombie che, tornando dal regno dei morti, sotto la spinta di un’inveterata abitudine, tendono a riunirsi nell’unico posto in cui ricordano di essere stati vivi tutti insieme, collettivamente. L’outlet mi sembra un labirinto ospitale. «Una via di mezzo tra Disneyland e un borgo medievale» è stato detto378. Si può girovagare per strade e piazzette dai nomi fintamente romaneggianti, vista la location, piazza Adriano, via Marco Aurelio eccetera, ma quando si perdono i propri amici e ci si telefona per raggiungersi viene

376 A. Scurati, Il piccolo paradiso: l’outlet di Serravalle Scrivia, in “La Stampa”, 10 ottobre 2006377 M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, 1993378 A. Scurati, Il piccolo paradiso: l’outlet di Serravalle Scrivia, in “La Stampa”, 10 ottobre 2006

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spontaneo usare una toponomastica più pertinente: mi sono incamminato in via Golden Lady, sono su piazza Armani, sto girando in vicolo Benetton. Non è una città fantasma, è costruita come se gli abitanti ci fossero. Dal punto di vista architettonico, questi luoghi contengono sempre una qualche evocazione dei mercati tradizionali, delle vecchie piazze o dei prati di villaggio. In molti casi ci sono marciapiedi che simulano una vera strada. Le vie laterali finiscono in cancelli, sempre chiusi, si gira in tondo, si entra e si esce da due sole aperture. Si viene, si passeggia, si guardano le vetrine. Qualcuno compra. Non tutti spendono, non molti parlano. Capita ogni tanto, negli outlet come nei centri commerciali, che la direzione offra degli eventi pubblici, come spettacoli o concerti gratuiti. Un sondaggio del 2003 rilevava che solo il 36% di coloro che vanno al centro commerciale manifesta un atteggiamento utilitarista, e cioè vanno lì e “comprano qualcosa”, mentre il 55% dichiara di usarlo come “luogo per il tempo libero”: ragazzi, anziani, abitanti di zone suburbane che non hanno altri posti dove andare ma anche abitanti del centro cittadino o di altri paesi che si dirigono verso questi veri e propri punti nodali, centri di attrazione379. D’altronde, pochi anni fa, un ministro della Salute lanciò l’idea di portare gli anziani nei supermercati per sottrarli all’afa estiva380, idea in verità già praticata da molti pensionati ma ora anche dai loro nipoti. Chiusi per ferie gli asili, tagliate o ridimensionate le assistenze domiciliari per la terza età o le colonie estive per l’infanzia, semideserti gli oratori o altri luoghi di aggregazione popolare, sembra che a prendersi cura delle famiglie operaie o della bassa-media borghesia, dalla culla alla tomba, provveda l’ultima istituzione trionfante: lo shopping.

In misura sempre crescente i centri commerciali minacciano di sostituire parchi, scuole, librerie, uffici

379 G. Paolucci, La seduzione dell’entertainment. Consumo e leisure nello shopping contemporaneo, in G. Amendola (a cura di), La città vetrina. I luoghi del commercio e le nuove forme del consumo, 2006, p. 72380 A. Cianciullo, Anziani, emergenza caldo. “Portateli nei supermercati”, in “La Repubblica”, 12 giugno 2004

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postali, uffici comunali, centri per le attività sociali in quanto luoghi di incontro organizzato o di riunione spontanea. È questa la tendenza dominante: il mercato globale crea minuscoli universi concentrazionari e tutti apparentemente fuori dalla città. Perché? Una risposta possibile è che la metropoli non sia più necessaria al mercato. Gli serve solamente come spazio museale da spettacolarizzare, come mero supporto scenico al turismo o al consumo di marca. Per questi obiettivi può bastare solo una piccola porzione di metropoli, quella che meglio si presta alla valorizzazione estetica: un centro storico, una zona commerciale, un “distretto del piacere”, un quartiere progettato da un architetto di grido. Come ha scritto Emiliano Ilardi, «la metropoli non è più necessaria all’individuo: il lavoro e il consumo arrivano direttamente a casa. La metropoli, il mostro della modernità, le paure che suscita, se ne possono finalmente andare in pensione. Niente più imprevedibilità, folle minacciose, rivolte urbane, anomie, sconosciuti agli angoli della strada, pericolosissimi incontri casuali, mobilitazioni totali, King Kong, Godzilla e alieni che cercano di distruggerle, Al Capone e Lucky Luciano, gang di quartiere e hooligans rabbiosi, punk, fondamentalisti e Bin Laden. Basta con questo spazio delle infinite possibilità, dove infinite possibilità voleva dire anche una libertà mai del tutto controllabile»381.

Il fenomeno ha avuto il suo epicentro naturale negli Stati Uniti, dove l’estesa conformazione suburbana del territorio ha facilitato lo sviluppo di enormi shopping center per una larga fetta della middle class, ma si è espanso da tempo anche in Europa e ovviamente in Italia, seppur andando a inserirsi in un contesto morfologico e sociale tutto diverso, fatto di province, paesi e centri cittadini che ora languono. Uno sviluppo che non sembra conoscere limiti. In alcune città italiane, attualmente, intere zone suburbane e insediamenti di nuova edificazione prendono il nome dai loro centri commerciali, mentre aumenta la tendenza a

381 E. Ilardi, Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a Ballard, 2005, p. 180

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delegare alle società private l’incarico di costruire luoghi di socialità pubblica per nuovi quartieri all’interno di parchi e strutture commerciali. Un’ulteriore spinta in questo senso la darà la costruzione, già progettata in molte città, dei nuovi “stadi”, dove però i campi di calcio occuperanno solo una piccola parte di nuovi quartieri misti a insediamenti commerciali per migliaia di abitanti. Già oggi basta osservare la ricca e operosa Lombardia, che vista dall’alto, dal cielo sopra Milano, appare come un’immensa gettata di stradoni e case, capannoni e villette, che si arrampica fino alle Prealpi. Basta osservare il nastro d’asfalto del Grande Raccordo Anulare che gira attorno a Roma, ormai diventato un grande centro commerciale senza soluzioni di continuità, dove le cosiddette “nuove centralità” che avrebbero dovuto dare qualità, spazi pubblici e servizi alle nuove periferie sono diventate semplicemente grandi ipermercati intorno ai quali si addossano quartieri residenziali sonnacchiosi, icone di una vita monotona e senza tempo. Di quelli che, direbbe J. G. Ballard, per risvegliarsi in un mondo più carico di passioni, sognano solo la violenza382. E in effetti è proprio ciò che spesso avviene, e di cui leggiamo tutti i giorni sui giornali. «La gente si annoia. Si annoia a morte. E quando la gente si annoia tutto è possibile: una nuova religione, il Quarto Reich. Sarebbero disposti ad adorare un simbolo matematico o un buco nel terreno»383. Si chiede il sociologo urbano Massimo Ilardi: «D’altra parte, che altro può fare il mercato sul territorio se non costruire outlet, centri commerciali ed enclave residenziali? E che altro può usare per governarli, non avendo a disposizione valori, ideologie o utopie per risolvere i conflitti, se non un controllo sempre più asfissiante, sempre più intensificato dalla sorveglianza di guardie armate, dall’installazione di telecamere o dall’innalzamento di muri?»384.

382 M. Ilardi, L’abisso e la chiacchiera, in M. Ilardi, E. Scandurra (a cura di), Ricominciamo dalle periferie. Perché la sinistra ha perso Roma, 2009, p. 11383 J. G. Ballard, Regno a venire, 2006, p. 222

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5. Periferie

Dev’essere forse la rivincita delle periferie, quella cui stiamo assistendo? Dopo decenni passati a confrontare due opposti modelli in parte utopici, due soluzioni entrambe accusate di fallimento, da un lato quella dei palazzoni popolari e degli edifici modello, dall’altro lato quella delle villette monofamiliari e delle enormi distese suburbane. Dopo anni in cui è ronzato per la testa, specialmente di molti italiani, un Ramazzotti d’annata, quello che cantava «nato ai bordi di periferia/ dove i tram non vanno avanti più/ dove l’aria è popolare/ è più facile sognare». Le metropoli del mondo assumono sempre più una struttura a cerchi concentrici, senza barriere ma separati dai recinti invisibili del reddito, dello status, di chi non riesce a tenere il passo. Centri sottovuoto, periferie in espansione. Secondo calcoli di pochi anni fa, su quasi 57 milioni di abitanti in Italia circa 31 milioni (cioè il 55%) vivono in un contesto metropolitano e di questi circa la metà (quasi16 milioni, cioè il 28%) vivono nelle fasce metropolitane. Potendo tranquillamente dedurre che almeno un terzo e forse più (dato sicuramente incrementato negli ultimi anni) vive nelle aree periurbane385.Insomma, è dalla periferia che bisogna ricominciare per capire qualcosa della realtà urbana corrente, e pure del nostro Paese. In pochi hanno indagato la periferia italiana dopo le ricerche di Ferrarotti e i racconti di Pasolini. Molti sono stati anche successivamente quelli che ne hanno scritto e parlato, ma assai meno quelli che l’hanno davvero frequentata. Ci sarebbe, oggi, qualche domanda da farsi. Dopo la crescita della città continua e della metropoli diffusa che ha colonizzato ogni angolo di territorio e di paesaggio, che cos’è che definisce oggi un luogo come

384 M. Ilardi, L’abisso e la chiacchiera, in M. Ilardi, E. Scandurra (a cura di), Ricominciamo dalle periferie. Perché la sinistra ha perso Roma, 2009, p. 11385 G. Martinotti, A. Melis, Recenti tendenze demografiche negli insediamenti urbani italiani, in A. Mazzette (a cura di), La città che cambia, 2003, p. 160

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periferia? La condizione spaziale? L’espansione edilizia? L’estetica? La cultura e gli stili di vita? Le relazioni sociali386? “Area urbana ben definita” è il termine tecnico di periferia, ma persino sulla sua applicazione a una singola città non c’è accordo: la periferia continua a spostarsi. Si può affermare (e lo si è fatto) che il concetto stesso di periferia sia privo di senso nel contesto dell’urbanizzazione estesa e dei modelli territoriali in costante mutamento che caratterizzano molte zone d’Italia, in particolare nelle aree metropolitane e diffusamente nel Nord. Anche l’idea di periferia è affiancata dai suoi miti “nostalgici”. Primo fra tutti quello della “vecchia periferia”, ovvero il tradizionale e leggendario quartiere operaio novecentesco, dove casa e lavoro avevano un legame stretto, dove esisteva una comunità. Visione stranamente smentita da altre ricerche di quell’epoca, le quali a loro volta deprecavano l’alienazione dei quartieri operai e rimandavano alla nostalgia di un altro tempo passato, spesso quello della città pre-industriale e delle zone rurali.

Spesso la periferia è descritta come anti o addirittura come non-città. Perché? In primo luogo a causa della mancanza di quelle che vengono considerate le caratteristiche peculiari della città classica e moderna: piazze, negozi, asfalto, ordine, monumenti. In secondo luogo in ragione della presunta assenza di identità, radici e storia della periferia. In terzo luogo, mancano delimitazioni precise, simboli, palazzi e monumenti che rendono riconoscibile una città in quanto tale. In alcune ricerche su queste zone si riscontra abitualmente il fenomeno per cui gli abitanti della periferia (molti dei quali non ammettono di esserlo) non concordano su quali siano i confini del loro quartiere e nemmeno su dove sia il centro387. Il problema di questo tipo di critica sulle periferie è che utilizza – come spesso succede – un modello arbitrario di città ideale. Scrive John 386 M. Ilardi, L’abisso e la chiacchiera, in M. Ilardi, E. Scandurra (a cura di), Ricominciamo dalle periferie. Perché la sinistra ha perso Roma, 2009, p. 9387 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 162

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Foot nella sua analisi delle periferie milanesi: «Viene dato per scontato che tutti dovremmo aspirare a una sorta di comunità/quartiere con confini ben delimitati e un centro riconoscibile e accertato come tale, una sorta di Atene antica periferica, e comunque uno spazio premoderno. […] Sembra che ci sia un’immagine collettiva di quartiere ideale che assomiglia più a un paese con la tradizionale piazza centrale che a una città moderna. Si tratta di un modello che non è neppure prefordista ma addirittura preindustriale. La seconda domanda da porsi sarebbe se questo tipo di quartiere sia mai esistito»388. Il modello che influenza molte di queste posizioni, solitamente anti-urbane come spesso e in varie forme abbiamo visto nella storia italiana, risente di un’idea centralistica e statica della città, come se questa dovesse essere uno spazio rinchiuso tra mura, un classico centro urbano di stampo medievale. Siccome le periferie non rientrano in questo modello, allora esse non fanno parte della città, anzi non sono considerate città. Ma questo non può essere un motivo per escludere che ci possano essere modelli diversi, o che sia il centro a non riuscire a stare al passo dei nuovi e multiformi modelli urbani389. Così capita che le più importanti città italiane, aspiranti al rango di metropoli, vengano accusate, al tempo stesso, sia di non essere riuscite a diventare un altro tipo di città, generalmente definita “metropoli moderna”, sia di avere perso le peculiarità di paese/città/comunità che sarebbero emerse durante certe fasi dello sviluppo industriale, presunte “epoche d’oro” che però hanno il difetto di variare di epoca in epoca. Certo, è innegabile che esistano problemi nelle condizioni di vita delle nostre periferie urbane. Nuove generazioni di cittadini continuano a galleggiare in quartieri trascurati, spazi pubblici dimenticati, rotonde d’asfalto, in un nulla di identità sociale e vita collettiva che nulla è riuscito a mutare negli ultimi tre o quattro decenni, nemmeno l’addobbo contemporaneo delle antenne paraboliche appese ai balconi.

388 Ibidem, pp. 162-163389 Ibidem, p 164

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Come ha mostrato Carlo Freccero, una delle menti più lucide della televisione italiana, è stata la televisione commerciale dell’evo moderno a scoprire e portare alla ribalta “la periferia”. «Mi piace pensare all’audience – ha scritto qualche anno fa – come alla periferia di una grande città. È il centro che identifica la città. Nel centro si trovano i monumenti, i reperti storici, ma anche i luoghi di aggregazione e di socializzazione. Nel centro si costruiscono la cultura e la moda. Nel centro si danno appuntamento gli opinion-leader. La sera il centro è scintillante di luci, di insegne, di vita. Ma basta allontanarsi dal centro per vedere quelle luci affievolirsi, farsi sottotono, confondersi con la nebbia in cui sono immerse le cose. È la periferia. Qui le luci della strada sono fioche e giallastre, ma un’altra luce filtra attraverso i vetri delle finestre. È la luce lattiginosa della televisione. La televisione è la colonna sonora della periferia. È l’audience profonda che inevitabilmente livella i palinsesti»390. La neo-tv di natura commerciale, quella che italianamente è stata berlusconiana, secondo Freccero, ha dato espressione e identità alle periferie delle società democratiche, a una massa informe emarginata del centro politico e culturale. Le ha conferito un potere simbolico, pur continuando a tenerla sotto scacco. L’audience ai tempi del suburbano è questo: «il passaggio dal potere del Sovrano al potere della periferia, dalla Storia politica alla microstoria del quotidiano, dalla cultura attiva delle élite alla massa passiva dei consumatori senza cultura»391. Fino a tradursi, politicamente, in una potenziale “dittatura della maggioranza”.Ai giorni d’oggi, la sera, lontani oppure vicini dalle città, in una gated community o in un palazzone di borgata, ci si abitua a relazioni senza empatia. Non c’è solo la televisione, almeno: si sta in contatto con la chat, con Msn, con Facebook, coi siti web. Alla rete internet l’accesso è consentito a tutti. Di questo passo è come se internet stesse 390 C. Freccero, L’audience come periferia, in A. Grasso, M. Scaglioni, Che cos’è la televisione, 2003, pp. 478-479391 I. Dominijanni, La periferia al potere. Intervista a Carlo Freccero, in “Il Manifesto”, 10 aprile 2004

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sostituendo la metropoli in quanto fucina di incontri illimitati, imprevedibili e anche indesiderati, però dietro la protezione di uno schermo, senza che il corpo fisico entri mai in gioco. Qui ci si può anche incontrare e ibridare con negri, ebrei, islamici, omosessuali, maniaci, fondamentalisti, hooligans, ravers, teppisti, satanisti, hackers… l’importante è che non vengano a disturbare sotto casa. Ecco dunque la ricetta per i nuovi spazi urbani: accesso illimitato sul piano virtuale ma fortemente limitato sul piano materiale392.

Per l’architetto Stefano Boeri e per altri studiosi che hanno iniziato a considerare in maniera più approfondita questi scenari urbani, non siamo di fronte a uno sviluppo caotico ma a uno scenario strettamente legato ai cambiamenti sociali, familiari e culturali dell’Italia nell’ultima parte del Novecento. «Un paese ricco in termini di scelte individuali delle famiglie, dei piccoli operatori immobiliari, dei singoli investitori, ma povero e arretrato nelle attrezzature collettive, si è finalmente costruito un territorio a sua immagine e somiglianza»393. Le “nuove” periferie, dunque, non coincidono con quelle di Pasolini oggi reclamizzate dai media, neppure con quelle degli anni Settanta in cerca di riscatto sociale, né con talune espressioni underground degli anni Novanta, come quelle intraviste in alcuni centro sociali. Oggi periferia è semplicemente “ciò che sta fuori”, oltre, luoghi in attesa disperante, luoghi senza più nemmeno tracce di una solidarietà sociale.

Ho riletto, prima di finire di scrivere queste pagine, Il contagio di Walter Siti. Il più potente affresco letterario e di analisi sociologica della realtà italiana, a partire da uno specifico punto di osservazione: le borgate romane. Romanzo di corruzioni, di amori, di cocaina, di sesso venduto e negato. In una storia e in un percorso narrativo dove non ci sono più alibi, niente o nessuno da salvare. Non 392 E. Ilardi, Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a Ballard, 2005, p. 182393 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, pp. 176-177

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la leggendaria vitalità popolare, esaltata in tanti libri e film, non il professore protagonista del romanzo che in questa vitalità presunta ha provato a rigenerarsi, non la politica indaffarata nella sopravvivenza di interessi spiccioli, non le ideologie contemporanee, troppo impegnate a simulare paradisi inesistenti. Proprio le periferie di Roma, quelle borgate ridotte a indifferenziata poltiglia, si fanno metafora. Viene da pensare a uno dei maestri della sociologia italiana, Franco Ferrarotti, che, intervistato recentemente in un libro sulle periferie romane, ha dichiarato che già negli anni Sessanta e Settanta in cui svolgeva le sue ricerche erano chiare due cose. La prima era che «il baraccato era un aspirante borghese», non a casa oggi alcune di quelle stesse borgate indagate allora sono abitate «dal poliziotto, dal palazzinaro di mezza tacca, dall’impiegato; l’uno contro l’altro ferocemente schierati, con cani da guardia, fili spinati. Un po’ come allora seppure tutto è diverso. E non a caso ci sono ripulse nei confronti degli immigrati». La seconda è la differenza abissale tra le periferie di molte metropoli mondiali, per esempio americane, e quelle italiane, romana in particolare: «lì, prendiamo ad esempio Los Angeles o San Diego, la classe borghese, la classe agiata va nella suburbia (è una vecchia tradizione anglosassone), la periferia lì è abitata da quelli che da noi abitano il centro»394.Tornando al Contagio, Siti sostiene che «il mondo sta diventando un’immensa borgata». In altre parole, l’appassionata analisi di Pasolini, vecchia di trent’anni, andrebbe rovesciata: «non sono le borgate che si stanno imborghesendo, ma è la borghesia che si sta (se così si può dire) “imborgatando”»395. Le periferie non sono altro che «una sterminata sala d’attesa, una folla brulicante alla fermata delle astronavi». Perché «le borgate sono il nostro domani ma il domani non si deciderà in borgata; qui è l’arsenale del futuro ma gli ingegneri abitano nelle

394 M. Ilardi, E. Scandurra (a cura di), Ricominciamo dalle periferie. Perché la sinistra ha perso Roma, 2009, p. 104395 W. Siti, Il contagio, 2008, p. 313

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acropoli»396. E sicuramente c’è del vero in questa analisi dura e perfino dolorosa. Ed è una delle poche certezze quando – come adesso, scrivendo – si arriva quasi al punto in cui bisognerebbe tirare delle conclusioni. Disorientato ma, allo stesso tempo, immerso fino al collo nel meccanismo.

6. Strapaese 2.0

Non è facile accorgersi di quanto cambi il mondo attorno a noi, in poco tempo. Non il grande mondo, il pianeta coi suoi destini. Ma il piccolo mondo che crediamo di conoscere, il territorio che ci circonda, la nostra città, il paese, il quartiere, le case e le strade vicino casa. Mi è capitato recentemente di viaggiare in auto nelle aree policentriche e pedemontane, nel centronord padano e inquieto, disseminato di fabbrichette e piccoli paesi. Ho visto anche io molti dei cartelli che fiancheggiano le strade annunciare che lì vicino sta sorgendo, oppure è già sorto, un nuovo insediamento abitativo, un Villaggio Margherita oppure Quadrifoglio, un Quartiere Europa o Miramonti. Il resto della descrizione era identica a quella che, con occhio più esperto del mio, aveva tracciato il sociologo Ilvo Diamanti in una delle sue “mappe”. «Tanti insediamenti grandi o piccoli, disseminati di palazzi, villette a schiera, appartamenti di varia metratura, garage interrati. Intorno: prati un po’ esangui, strade e rotonde. Rotonde, rotonde e ancora rotonde. Magari una pista ciclabile. Al centro una piazza – veramente finta – attrezzata con panchine e magari un prato. Perlopiù ridotta a parcheggio, dove i bambini non giocano e gli adulti non si fermano a parlare. Accanto: altri quartieri e altri villaggi nuovi. Sorgono senza seri progetti di integrazione, socializzazione. Senza politiche finalizzate a costruire relazioni sociali, oltre agli immobili. Né ad alimentare la vita pubblica, oltre alla rendita privata. Località artificiali, dove confluiscono migliaia e migliaia di persone. Migliaia e migliaia di estranei. Di stranieri, di

396 Ibidem, p. 336

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immigrati: anche se sono veneti, lombardi, marchigiani. “Italiani veri”: da generazioni e generazioni. Ma in realtà: apolidi. Abitanti del Villaggio Margherita o del Condominio Europa». È così – conclude Diamanti – che siamo diventati «un paese di stranieri, individui poveri di relazioni, sempre più soli e impauriti, che passano la gran parte del loro tempo in casa, con scarsi ed episodici contatti con il mondo circostante»397.

D’altronde tutto ha un prezzo, e non si può pretendere di conquistare il benessere senza rinunciare a qualcosa. Può essere un pezzo di paesaggio, un frammento di ambiente, un metro di territorio, un po’ d’aria, un angolo di orizzonte. E via così, una cerchia di relazioni personali e sociali, una scheggia di vita quotidiana, un pezzo di innocenza politica, un mattone di qualche utopia crollata. Non per questo è il caso di tornare a replicare quella famosa e nostalgica ballata di Celentano sul ragazzo della via Gluck398.

Le cose cambiano. Anche in una società immobile (e tendente all’immobiliare) come quella italiana. Un Paese dove la casa, possibilmente di proprietà, suddivisa per ogni famiglia, «è una vocazione nazionale». È interessante verificarlo con alcuni dati. Negli ultimi due decenni, e soprattutto negli ultimi anni, il processo immobiliare sul territorio italiano ha assunto un’accentuata velocità e un’estensione di forte impatto. Secondo dati Eurostat rielaborati dal Politecnico di Milano, le costruzioni in Italia hanno sottratto all’agricoltura circa 2.800.000 ettari di suolo. Ogni anno si consumano 100.000 ettari di campagna. D’altra parte l’Italia è anche il primo paese d’Europa per disponibilità di abitazioni: ci sono circa 26 milioni di abitazioni (di cui il 20% non occupate), corrispondenti a un valore medio di 2 vani a persona. Ragionando sui dati Eurostat di Germania e Francia, pure questi presi dall’analisi di Diamanti, emerge che negli anni Novanta l’Italia ha urbanizzato un’area più che doppia di suolo

397 I. Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, 2009, pp. 71-72398 Ibidem, p. 69

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rispetto alla Germania (1,2 milioni di ettari) e addirittura 4 volte quello della Francia (0,7 milioni di ettari)399. Circa 10 milioni di stanze sono state tirate su fra il 1995 e il 2006, dice l’Istat, da sommare a capannoni industriali, altre iniziative produttive, infrastrutture400. Soltanto dal 2003 al 2008 sono state costruite circa 1.600.000 abitazioni, oltre il 10% delle quali abusive. Per contro, è noto che, da vent’anni, la popolazione in Italia non solo non è cresciuta ma è calata sensibilmente. E solo negli ultimi anni ha dato segni di ripresa, grazie all’apporto degli immigrati. Persone che tuttavia, in questa fase, non hanno la minima possibilità di accesso alle case che si costruiscono. Insomma, il nostro Paese si è ulteriormente urbanizzato «in modo ampio, rapido, violento»401. Ancora una volta, come s’era detto negli anni del boom, siamo al devastante motto del «più case si fanno più ce ne vogliono». Non c’è, infatti, corrispondenza con la domanda immobiliare, poiché nel frattempo di edilizia popolare o a prezzi contenuti, per esempio, se ne è fatta pochissima. Ci sono ragioni che solo in parte si possono ricondurre a una “domanda sociale”, dovuta alla smania italiana di investire “nel mattone” e comprare case di proprietà per i figli. In molti comunque ci hanno guadagnato: gli immobiliaristi, le banche, il circuito finanziario che ha materializzato nell’edilizia i flussi di denaro facendo da traino per la crescita economica, fino a che la “bolla” non è esplosa con l’arrivo della crisi, gli enti locali che si sono finanziati in “autonomia” grazie a tasse sugli immobili e oneri sulle licenze urbanistiche, impresari, proprietari di terreni, fino a una manodopera sfruttatissima e malpagata su cui hanno contato molti immigrati di basso ceto. In tutto questo, però, tanto si è perduto e consumato: il territorio, l’ambiente, con l’arrivo della crisi anche lo sviluppo e i risparmi, più a lungo termine i legami di comunità, i luoghi e i rapporti sociali402.

399 Ibidem, p. 70400 F. Erbani, Noi urbanisti abbiamo fallito, in “La Repubblica”, 10 dicembre 2009401 I. Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, 2009, p. 70402 Ibidem, pp. 70-71

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Allo Strapaese si unisce un timore di rimanere letteralmente senza paese. Da un lato è vero che rispetto alle linee di tendenza dello sviluppo urbano globale, almeno fino ad oggi, in Italia alcuni fenomeni di mutamento appaiono relativamente attenuati. Nonostante i problemi esistenti, nelle nostre città non vi è nulla di paragonabile rispetto a quanto è possibile trovare in altri contesti. Ciò si spiega con vari fattori, che comunque non hanno reso immune il “Bel Paese” da scempi e devastazioni sul suo territorio. In primo luogo, l’Italia dispone di un sistema urbano che ha la doppia caratteristica di essere molto antico ed estremamente ramificato. La presenza di numerose piccole e piccolissime cittadine ha protetto il territorio dalla formazione di conurbazioni sterminate, come quelle che si trovano nel Sud del mondo ma anche negli Stati Uniti. Molte città qui considerate medio-grandi andrebbero considerate ormai medio-piccole in uno scenario globale. Inoltre esse sono collocate in scenari in contesti regionali molto articolati e gelosi delle proprie prerogative rispetto all’estensione dei capoluoghi. Semmai si vanno diffondendo conglomerati regionali, come nel caso di Milano e della Lombardia ma anche nell’area napoletana o nella zona attorno a Venezia. In secondo luogo, l’Italia dispone di una ricca tradizione in termini di radicamento culturale, socialità diffusa, infrastrutture istituzionali. «Un paese di compaesani» come lo ha definito, con una formula felice, il sociologo Paolo Segatti403. Una grande miniera di culture locali, reticoli associativi e relazionali. Rimane forse come unico sfregio a questo panorama quello di certi quartieroni periferici “alieni” costruiti negli anni Settanta, usando pratiche architettoniche mutuate da altre culture. In terzo luogo, bisogna tenere conto del processo di periferizzazione del nostro Paese rispetto alle dinamiche più centrali e veloci del nostro tempo. L’Italia insomma rimane indietro, cresce a ritmi meno veloci, impantana perfino la sua qualità della vita. Tante ragioni per descrivere il peso di quella che è l’altra faccia della

403 Ibidem, p. 69

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medaglia, forse ormai predominante, e cioè una “inadeguatezza localistica” del nostro Paese404. Come spiega Mauro Magatti, «in un tempo che abbiamo visto essere segnato dalla mobilità e della comunicazione, l’Italia resta un Paese dove ci si muove troppo poco, ci si confronta troppo poco, dove il grado di integrazione culturale è ancora molto basso, dove si tende a proteggere gli interessi locali già costituiti»405.Osservando tutto da un altro versante, compresi i processi sociali e i cambiamenti degli ultimi vent’anni, è inutile però fare finta di niente. Ciò che è successo in primo luogo in Italia è che il sentire sociale, i sentimenti prima ancora degli interessi, ha visssuto “l’esperienza dell’apocalisse culturale”. Come spiegò l’antropologo De Martino l’apocalisse culturale si esperisce nel momento in cui viene meno “l’abituale”. Sono venuti meno, nell’ambito di una transizione accelerata, vari elementi prima abituali: la fabbrica, ovvero il luogo di lavoro dove si tessevano relazioni sociali; il paese o il quartiere, dove si esprimeva una certa forma di abitare e di socializzare. È venuta meno la dimensione comunitaria, in cui fondamentalmente vivere in quel paese significava avere come punti di riferimento il sindaco, il maresciallo dei carabinieri, la maestra elementare, il direttore della banca eccetera: simboli di una comunità locale nella quale appariva piacevole rinchiudersi e vivere. Un modello idealtipico di riferimento, non esente da distorsioni e violenze al suo interno. Eppure, in questo vuoto è facile capire che le uniche passioni di mobilitazione diventano quelle dell’interesse e del benessere406.

Non si può capire lo Strapaese degli anni Duemila senza prendere atto di questo spaesamento. Al giro di boa delle nuove epoche, l’idea di base che ritorna è sempre quella di un vagheggiato ritorno alla cultura campagnola e nostalgica, al rilancio del genius loci, ai sapori di una volta 404 M. Magatti, La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, 2007, pp. 37-40405 Ibidem, p. 40406 A. Bonomi, Il chiunque e la moltitudine, in A. Abruzzese, V. Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, pp. 250-252

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contro gli intrugli confusi della modernità. Ogni Paese del mondo ha il suo Strapaese, si può dire, e per esempio gli Stati Uniti conservano il mito delle vecchie Main Street e delle quiete communities anni Cinquanta, e lo fanno rivivere artificialmente nelle loro Levittown o Celebration o Disneyland. Ma solo in Italia lo Strapaese può essere evocato, da movimento letterario e reazionario di nicchia di inizio Novecento quale era, come estetica dominante quale è diventato, filo rosso che collega punti ed esperienze diverse della recente storia nazionale, nelle sue espressioni urbane e politiche. C’è lo Strapaese nella retorica contadinista di Mussolini e nella sua utopia impaludata dell’Agro Pontino. C’è nel popolo decadente descritto da Pasolini, avanti e indietro nelle periferie moderne nostalgiche della campagna. C’è nella cultura pop massimamente cantata da Celentano, nel fulcro di ambientalismo e incompetenza che era la ballata della via Gluck. C’è nella fascinazione pubblicitaria della famiglia unita col casale e i campi di grano sullo sfondo, il Mulino Bianco e il “ritorno alla natura”. C’è nell’estetica del Berlusconi costruttore edile e urbanista, il creatore di Milano Due, poi importatore del sogno televisivo suburbano di origine americana, perfettamente riadattato al provincialismo italico. Come ha notato polemicamente il giornalista Francesco Merlo c’è lo Strapaese anche nella ruralità identitaria leghista, ultima e unica forza politica veramente radicata sul territorio, nelle piccole comunità no-future, negli intellettuali che disprezzano gli architetti e non vogliono i grattacieli, nel pittoresco meridionale, nell’ambientalismo reazionario, nei tribuni populisti che galleggiano nel malumore e riempiono le piazze, nella saccente e intraprendente retorica dello Slow Food407. «Insomma, lo Strapaese di Maccari dispiegato a destra e a sinistra, ma con la stessa deprecatio temporum di allora, forse più moralista ancora». Al fondo c’è un’idea falsificata, mitizzata, del passato, del “vecchio mondo” agricolo e operaio, di un albero degli zoccoli più che altro fantasticato. Il tutto per evitare di elaborare un piano strategico per il

407 F. Merlo, Faq Italia, 2009, pp. 45-46

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presente, di affrontare il Paese maggioritario e forse banale con cui abbiamo a che fare, che dietro i rimpianti per “il gusto pieno della vita” – come diceva un vecchio spot pubblicitario – usa (e abusa di) tutti i prodotti della modernità. Che si ritrova, nonostante tutto, con quartieri finti, piazze vuote e outlet pieni.

Quella di oggi è una forma tutta moderna di Strapaese, dove il cosiddetto “neopopulismo” si colloca come fenomeno della modernità, come esito del confronto tra identità locali e globalizzazione, senza cadere nei cliché del passato. Se ripercorriamo le tappe delle piccole grandi utopie urbane dell’ultimo secolo italiano troviamo puntualmente una corrispondenza tra fenomeni urbani e fenomeni sociopolitici. Lo abbiamo visto, e scritto: l’Agro Pontino e gli sventramenti romani stanno al regime fascista come i gloriosi Piani Ina Casa stanno alla nascita del dominio democristiano; il decadentismo dei ragazzi di borgata di Pasolini sta al filone anti-moderno di certa sinistra italiana come l’agiata e televisiva Milano Due sta alla fioritura del berlusconismo. Su tutto ciò si può adattare la coperta culturale dello Strapaese, giacché il concetto di comunità cui fare riferimento si rivela infine come un simulacro, un’invenzione di tradizioni.

L’intuizione politica di questi ultimi anni è stata proprio comprendere che il vuoto determinato dalla fine delle appartenenze del Novecento potesse essere colmato con il pieno dell’identità territoriale408. È quello che negli ultimi quindici anni, in Italia, è riuscito all’asse politico dominante Lega-Forza Italia. Non è un caso un’operazione epocale del genere potesse essere perseguita solo da un soggetto che fosse stato in grado di cavalcare il mutamento della tecnica avvenuto negli ultimi anni. Il grande passaggio dal fordismo al postfordismo, dalla catena di montaggio alla virtualità della tv e poi di internet. Come ha ben spiegato il sociologo Aldo Bonomi nella sua inchiesta sul “malessere del Nord”, Berlusconi, nato come imprenditore edile, ben conosce

408 A. Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, 2008, p 26

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quelli cui vendeva le villette con giardino a Milano Due, segno e simbolo di un’emancipazione dal condominio e dal quartiere fatto di operai e impiegati. Quello con cui abbiamo a che fare, più che un problema di strapotere televisivo, è un problema di sapere sociale, territoriale, anche se oggi tutto sembra pura virtualità dell’apparire409.Radici e cause di questo fenomeno stanno nei cambiamenti del tessuto economico iniziati fin dagli anni Ottanta, nella terziarizzazione accelerata, nel manifestarsi della perdita di egemonia della vecchia “classe operaia”, nella crisi che investiva il tessuto di artigiani e piccole imprese, in molti casi schiacciate dalla nuova concorrenza globale, dell’Est Europa e della Cina. Nel conseguente profilarsi di un nuovo idolo, quello di un individualismo proprietario, essenzialmente antisociale. Inoltre radici e cause vanno cercate anche nell’esplosione dei flussi immigratori verso il nostro Paese, non sempre facili da gestire nel giro di pochi anni, il più delle volte gli stessi che avevano avuto modo di allenarsi alla nostra esibita ricchezza, grazie alle loro antenne paraboliche puntate verso di noi dall’altra parte del Mediterraneo. A tutto ciò, a migliaia di soggetti “spaesati”, “orfani”, “stressati” – per usare le definizioni di Bonomi – bisognava dare una risposta, anche se apparentemente di basso profilo. «Uno ha detto loro: “Vi do io quello che manca, l’identità, e il vostro riscatto inizierà sottolineando che siete lombardi”. È una risposta brutale, ma attraverso questo tipo di strategia è stato dato un “paese” a tanti spaesati. Berlusconi invece ha dato una “casa” a molti “sfollati”. La casa non è altro che l’ipermercato o il capannone»410.

Non è un caso se la fase iniziale del berlusconismo si rivolgeva alla moltitudine scomposta con un messaggio apparentemente liberista, americaneggiante, con il culto della ricchezza e un retroterra edonistico. Mentre la fase finale, attualmente vissuta, rinfrancata da una nuova intesa col movimento leghista e da ripetuti successi elettorali,

409 Ibidem, pp. 7-8410 Ibidem, p. 53

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punta decisamente a un neocomunitarismo conservatore, identitario, vagamente compassionevole, tradizionalmente cattolico. Due facce della stessa medaglia. Come Milano Due, che mi è sembrata al contempo il paradiso degli yuppie e il rifugio dei borghesi spaventati. D’altronde è stato uno dei sociologi più richiamati del decennio, Zigmunt Bauman, a spiegare che un possibile sbocco della “modernità liquida” è proprio il “ritorno alla comunità”, intesa come espressione della domanda insoddisfatta di identità e di senso. Nel momento in cui scricchiola il progetto della modernità societaria, il richiamo alla comunità può offrire una nuova leva per la produzione di significati411. Comunità contro società? Basta un niente, pare, e ci ritroviamo a centovent’anni fa, oppure all’inizio di questa tesi.

Tutto ciò avviene perché i processi materiali, come direbbe il vecchio Marx, vanno in questa direzione. La forma del produrre ci restituisce un sistema in cui siamo tutti messi a lavorare in forme e modalità individuali, in una logica di velocità diffusa sul territorio: è il grande modello della fabbrica territoriale moderna e della città infinita412. Da un lato persiste ovunque il vecchio antagonismo tra città e campagna, cioè tra modernità e arcaismo, innovazione e tradizione, un confronto antico quanto la civiltà, specie in un Paese come l’Italia, la cui cultura europea e metropolitana è recente e fragile, e le cui radici rurali e cattolico-tradizionali sono ancora profonde. Dall’altro lato il confronto globale cui assistiamo, urbanamente e socialmente, è un altro. E ci porta a un punto di non ritorno. Mandando in soffitta la città così come l’abbiamo conosciuta. È la battaglia tra spazi pubblici e spazi privati. Lo spazio urbano, infatti, è una metafora straordinaria della società. E in questa società opulenta e sempre più diseguale, lo spazio contemporaneo, così come si sta definendo, ha sempre più l’aspetto di una «successione

411 Z. Bauman, Voglia di comunità, 2002412 A. Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, 2008, p 53

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indistinta di enclaves chiuse, l’una contro l’altra armate»413. Dalla villetta suburbana al quartiere chiuso, dal centro commerciale al parco a tema, dal villaggio vacanza al parco per l’infanzia. Gli spazi collettivi pubblici, invece, sono sempre più abbandonati, privi di senso, sempre più – loro sì, per davvero – non luoghi. Piazze, slarghi, giardini pubblici sono lasciati agli immigrati, agli emarginati, ai “non desiderabili”. Lo spazio latore di senso non è più quello pubblico, lo sta diventando semmai quello privato. Gli spazi collettivi che siamo disposti ad accettare sono quelli “sicuri”, con una selezione all’ingresso, con un controllo all’interno. Perché vogliamo difendere ciò che ci appartiene. Perché temiamo il contagio.

413 G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2008, p. 112

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CONCLUSIONE______________________

Mentre mi accingo a scrivere queste righe di conclusione della mia tesi di laurea, sui giornali online e in tv assisto alla notizia delle decine di chilometri di automobilisti in coda, in direzione degli outlet e dei centri commerciali di periferia. Posti dove non si va solo per comprare e consumare, ma per uscire di casa, per vedere gente. L’evento, commenta qualcuno, è coerente con lo spirito del tempo: il Paese è guidato da un uomo, milionario fondatore di quartieri residenziali e televisioni commerciali, che si alza dal letto dopo l’aggressione di un maniaco per andarsi a mostrare in pubblico in un ipermercato della Brianza. Almeno, dicono i giornalisti, lui non ha fatto la fila. Risulta difficile ritrovare la bussola in un mondo – e in un Paese – dove le esperienze dei luoghi e delle persone sono sempre più mediate, attraverso i mezzi di comunicazione, le deformità delle periferie vecchie e nuove, le iperrealtà offerte dai sondaggi, gli eventi di massa dove gli altri restano una folla estranea. Con una definizione di semplice e definitiva eleganza, citata più volte dall’opinionista dell’Espresso Edmondo Berselli, il filosofo Carlo Galli ha concluso che la comunità si è trasformata in una gamma di immense platee televisive «implose nella privacy». In queste poche parole c’è una sentenza di condanna a tutta una condizione amorfa della società di oggi, italiana in particolare. Anziché una collettività strutturata, ecco «una moltitudine dispersa, che si addensa negli appartamenti della sottoborghesia, un formicolio umano visibile nei condomini popolari, una “nuova classe” priva di connotati, che trova come unico metro di giudizio gli standard televisivi e lo stile da sfoggiare in studio, coi consumi materiali e immaginari secondo i parametri di reddito che sono concessi».

Ora, se c’è una cosa che in queste pagine è stata accertata è che la città del Ventesimo secolo è stata la più formidabile opera di riscrittura del territorio da quando esiste la civiltà

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occidentale. Oggi la città contemporanea sembra assumere sempre più le caratteristiche di città infinita, dove si intersecano culture tradizionali in cerca di sopravvivenza, non luoghi dell’ipermodernità, centri commerciali, grandi hub di scambio di reti globali. Mentre la città medievale e moderna i confini li erigeva tra sé e l’esterno, tra centro e periferia, ora l’espansione urbana illimitata moltiplica divisioni e barriere culturali ed economiche all’interno della città stessa. Da luogo dell’utopia che si organizzava in grandi partiti o movimenti di trasformazione, la città diviene ora luogo di un’eterotopia negativa, composta da una convivenza forzata tra pezzi tra loro isolati, non dotati di rappresentanza e di rappresentazione.

Tutto ciò acquista una particolare singolarità all’interno della nostra vicenda nazionale. Come abbiamo visto, all’Italia è mancata la vita vissuta della metropoli, è mancata la storia della metropoli. La modernità italiana, anche per questo fattore, ha una rilevanza sghemba, periferica rispetto al resto del villaggio globale, senza la capacità di raggiungere gli stessi vertici, le stesse pienezze. Per questi stessi motivi la nostra storia ha cercato e trovato le sue funzioni compensative, le sue peculiarità immaginarie, i suoi strapaesi in cui rifugiarsi di fronte a una modernità che però non è mai arrivata davvero. Inevitabilmente, anche l’idea della periferia, del suburbano, risente di questa assai povera esperienza della metropoli. Almeno fino a quando, negli anni Ottanta, tale esperienza è stata diffusa in modo anomalo, caotico, postmoderno dalla proliferazione di spazi di consumo televisivi diffusi dal sistema misto pubblico-privato. La periferia si è rivalutata come audience. Come ha affermato autorevolmente Alberto Abruzzese, «ben prima di leggerlo sui libri di sociologia stranieri importati e tradotti da noi, bisognava capirlo sin da allora che, in quel sopravvenuto consumo intensivo di vita privata e insieme di vita sociale, la sfera pubblica si sarebbe rarefatta in vuoti e resistenze, effervescenze e eccessi, ma anche in detriti e massi erratici». Insomma, l’Italia si è ritrovata a vivere una dimensione post-urbana, post-metropolitana e post-nazionale senza avere avuto né

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una metropoli, né davvero una nazione, né un sistema urbano effettivamente moderno. Riuscendo a costruirsi, semmai, solo un comunitarismo nostalgico, il ricordo di uno Strapaese mai effettivamente accertato ma sicuramente rimpianto. Così, anche a causa di qualche eccessivo innamoramento verso le visioni pasoliniane, oggi tocca fare i conti con un’Italia di mezzo, un paese banale, forse normale, a suo modo autentico, ma che comunque va preso come interlocutore per voler imbastire finalmente un discorso sul futuro (che sia, questo, di natura politica o sociale o culturale). Un’Italia dei figli e nipoti di quei contadini o borgatari di cui parlava Pasolini o alcune vecchie ricerche sociologiche, senza un casale del mulino bianco sullo sfondo, magari ora in fila verso l’outlet insieme a tutti gli altri.

Cosa promette, dunque, il nuovo secolo (ormai nemmeno più tanto nuovo)? Promette le utopie dell’agorà digitale e del villaggio globale in rete? Oppure promette la distopia della città fortezza in cui si rinchiudono minoranze spaventate di individui? O i centri di detenzione in cui rinchiudere i settori più indesiderabili della società? O quella della città ridotte a parco giochi e a supermercato, per esercitare una cittadinanza globale fondata sul consumo, da cui tenere esclusi tre quarti della popolazione mondiale. Tali utopie e distopie, forse, non sono altro che prototipi immaginari. Ma abbiamo verificato che è proprio attraverso l’immaginario che passa, in buona parte, la nostra capacità di rapportarci al futuro. Per ora ci tocca sperimentare pezzetti di utopie e pezzetti di distopie, frammenti di immaginario e impressioni del futuro, in quella che è la nostra vita di tutti i giorni.

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BIBLIOGRAFIA______________________

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CREDITS

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Foto di copertina: “Torbellamonaca – Roma”, foto di Davide Monteleone/Contrasto, dal reportage “Nato ai bordi di periferia” in www.max.rcs.it

Immagine per il capitolo 1: “Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo governo” (dettaglio), Ambrogio Lorenzetti, 1340

Immagine per il capitolo 2: “Littoria”, Luigi Savolini, 1937

Immagine per il capitolo 3: “Roma”, foto da marcovaldo.org, 2009

Immagine per il capitolo 4: “Lost in Milano Due 5”, foto personale da http://www.flickr.com/photos/ludik

Immagine per il capirolo 5: foto di Uliano Lucas, copertina del libro “La città infinita”, 2004

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RINGRAZIAMENTI

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Questa tesi ha un tutor, si chiama Emilio Gardini, mi ha dato una mano per tutto il tempo, fornendomi suggerimenti, evitandomi brutte figure e cercando (forse invano) di ricondumi all’ordine accademico. Questa tesi ha anche degli ispiratori, i miei amici spin doctors Paolo, Peppuccio e Mario, e come loro stessi sanno questa mia mania su Milano Due e dintorni nasce da certi discorsi che abbiamo fatto. Voglio anche ringraziare le persone incontrate più o meno per caso in questo viaggio, le bariste pontine, gli abitanti, le guardie private e i cigni di Milano Due, il mio coinquilino che mi ha portato all’outlet, il simpatico bibliotecario della Nazionale che ogni volta che ritiravo una pila di libri su Berlusconi mi attaccava un pistolotto politico che non finiva più, i miei cari amici che mi hanno sopportato per mesi con questa storia che “scusa, ma devo fare la tesi”. Un ringraziamento di particolare affetto va ai miei genitori. Un distinto saluto va alla mia università, che stavolta pare finita davvero.

Il resto di questa tesi, ampliato e un po’ smontato, chi vuole (o chi capita) lo troverà sul mio sito, www.ludik.it.

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