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STORIA MEDIEVALEStrumenti e Sussidi

Collana diretta da Giuliano Pinto

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Olivetta Schena e Sergio Tognetti

LA SARDEGNA MEDIEVALENEL CONTESTO

ITALIANO E MEDITERRANEO(secc. XI-XV)

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MONDUZZI EDITORIALE

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In copertina:

La città e il porto di Cagliari nel Medioevo in un pannello ligneo della prima metà del XVII secolo

(Cagliari, santuario di Nostra Signora di Bonaria).Foto di Antonio Venturoli - Soprintendenza Archivistica per la Sardegna

Il volume è stato stampato con il contributo della Regione Autonoma della Sardegna,

Legge regionale 7 agosto 2007, n. 7: “Promozione della ricerca scientifica

e dell’innovazione tecnologica in Sardegna” (2008)

Tutti i diritti letterari ed artistici sono riservati.È vietata qualsiasi riproduzione, anche parziale, di quest’opera.

Qualsiasi copia o riproduzione effettuata con qualsiasi procedimento(fotocopia, fotografia, microfilm, nastro magnetico, disco o altro)

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e successive modifiche sulla tutela dei diritti d’Autore.

ISBN 978-88-6521-056-7

© Copyright 2011Monduzzi Editoriale S.r.l. – Via Meucci, 15/17 – 43015 Noceto (PR)

www.monduzzieditore.itAllestimento editoriale: Simonetta Pavesi – MilanoStampato nel novembre 2011 da eb.o.d – Milano

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Capitolo I

Indice

Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

Capitolo I. Strutture politiche, istituzioni ecclesiastiche e vita culturale nei secoli XI-XIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9

Documenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27

Capitolo II. Sardegna e Mediterraneo nel XIV secolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51

Documenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61

Capitolo III. La presenza dei mercanti stranieri nel basso Medioevo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81

Documenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 143

Cartine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 145

Tavola cronologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147

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Dai comuni agli stati 6

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Capitolo I

Premessa

Parlare di Sardegna medievale in un contesto pienamente mediterra-neo potrebbe sembrare un’ovvietà, ma non è proprio così. Un proverbiosardo, di probabile origine medievale, asserisce che «furat chie venit da-e su mare», ovvero «ruba chi viene dal mare». Non esiste nulla di simileper la Sicilia, che pure quanto a dominazioni straniere (e che dominazio-ni!) può vantare un vero e proprio palmarès. Il fatto è che nella percezio-ne culturale che la maggiore isola italiana ha di se stessa lo straniero(bizantino e arabo, normanno e svevo, angioino e aragonese, per taceredei mercanti toscani e liguri, provenzali e catalani) è solitamente perce-pito come parte integrante della propria evoluzione storica. In Sardegna,invece, nonostante negli ultimi anni molto sia cambiato, trova ancora re-sidui sostenitori nel mondo della cultura e della politica una corrente au-todefinitasi ‘costante resistenziale sarda’, basata su un concetto di iden-tità ancestrale e di fatto metatemporale. Come se la civiltà sarda fossedata una volta per tutte e quindi avesse sempre dovuto lottare strenua-mente per resistere, appunto, a ogni forma di attacco portato dal mare allapropria indipendenza, autonomia e integrità culturale.

In realtà la storia della Sardegna basso medievale dimostra chel’identità culturale si forma col tempo, con la contaminazione di cultu-re e, certo, anche con l’avvicendarsi di forme di potere e di dominazio-ni di natura differente, compresa quella politica ed economica esercita-ta (a volte duramente e col sangue) da uomini provenienti dalla cosid-detta ‘terramanna’. Per chi oggi percorre l’isola spinto da motivazioniculturali un interesse fondamentale sarà costituito dal ricco e straordi-nario patrimonio artistico e architettonico rappresentato dalle decine edecine di chiese romaniche (urbane ma soprattutto rurali), realizzato damaestranze toscane e lombarde che tra XII e XIII secolo si radicarononel territorio, dando vita ad un’architettura romanica sarda contraddi-

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stinta da caratteri originali. Ma la stessa struttura urbanistica del castel-lo di Cagliari, di centri come Iglesias, Alghero, Bosa e Castelsardo ri-manda ai secoli della ‘contaminazione’ basso medievale. Per non par-lare delle questioni linguistiche: se ad Alghero i cittadini parlano anco-ra l’antico catalano, frutto di una vera e propria ‘pulizia etnica’ volutada Pietro IV d’Aragona più di 750 anni fa, nell’antica Villa di Chiesa(oggi Iglesias) la cittadinanza va fiera del suo antico ‘fondatore’, ilconte Ugolino della Gheradesca, e per secoli si è amministrata con uncodice di leggi, il Breve di Villa di Chiesa, vergato all’inizio del XIVsecolo in volgare pisano.

Questo volume, tuttavia, non vuole solo richiamare tematiche e que-stioni al centro del dibattito storiografico da tempo. In quanto strumentodidattico pensato espressamente per gli studenti universitari del triennio,si propone anche di dimostrare che le stesse fonti relative alla storia sardadei secoli XI-XV sono lo specchio di questa realtà ibrida, multiforme,eterogenea. Cosa sapremmo oggi della originalissima civiltà giudicale,così piena di reminiscenze bizantine (e quindi romane) adattate a un con-testo quasi esclusivamente rurale, senza il filtro delle carte prodotte nelle‘cancellerie’ giudicali – oggi conservate negli archivi di Firenze, Mon-tecassino, Marsiglia – e per secoli gelosamente custodite da quegli entimonastici fondati sì col consenso dei Giudici sardi, ma per espressa vo-lontà dei papi romani e con il concorso determinante di monaci prove-nienti da Vallombrosa, Camaldoli, Montecassino, Clairvaux e Marsiglia?E che dire della documentazione conservata negli archivi di Pisa e di Ge-nova, senza la quale ci sarebbe la nebbia più fitta sui traffici marittimi chevidero la Sardegna coinvolta in reti commerciali di portata mediterranea?E il discorso potrebbe certamente continuare con il monumentale Ar-chivio della Corona d’Aragona di Barcellona.

L’augurio, quindi, è che questo particolare manuale riesca a fornireuna proposta interpretativa in grado di inserire pienamente la storiasarda in un adeguato contesto euro-mediterraneo. Naturalmente solo larisposta degli studenti potrà dare un giudizio sulla bontà del progettoeditoriale e sul valore di questo testo.

Il lavoro è stato concepito e ordinato unitariamente dagli autori.Tuttavia, in funzione delle differenti competenze, la stesura materialedei capitoli è stata così suddivisa: Olivetta Schena ha curato i capitoli1 e 2, con le relative appendici documentarie; il capitolo 3 e la perti-nente sezione di fonti sono opera di Sergio Tognetti.

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Capitolo I

Strutture politiche,

istituzioni ecclesiastiche e vita culturale

nei secoli XI-XIII

I Regni giudicali

Agli inizi dell’XI secolo la Sardegna non fa più parte dell’Imperobizantino, ma non sono chiari i tempi e i modi del distacco politico daBisanzio, mentre sono numerosi gli indizi di un perdurare dei rapportie dei legami dell’isola con il mondo greco-orientale ancora nel corsodei secoli IX-X. All’epoca è attestata l’esistenza di un arconte o Giu-dice per l’intera isola, che sommava in sé il potere politico e quellomilitare, esercitati precedentemente dal praeses e dal dux bizantini, enessun documento conforta l’ipotesi, avanzata da alcuni studiosi, diuna suddivisione dell’isola in quattro Giudicati sin dagli inizi del X oaddirittura dal IX secolo, quando pure è già documentato l’uso del ter-mine iudex/giudice, per indicare gli esponenti del potere pubblico, e inalcuni documenti si parla di principes Sardinie, termine che non neces-sariamente si riferiva a Giudici che governavano su diversi territori;con il termine principes si indicavano verosimilmente gli optimates,facoltosi proprietari che traevano il loro potere dal possesso della terrae di quanto era ad essa legato: piante, bestiame, uomini. Meloni ipotiz-za che questi principes fossero gli stessi donnos che secondo il conda-ghe di San Gavino avrebbero acquisito nel tempo una posizione di pre-minenza e avrebbero esercitato il potere dopo l’abbandono dell’isola daparte di Bisanzio. Si tratterebbe, quindi, di una fase intermedia del-l’evoluzione dell’istituzione giudicale.

La prima inequivocabile attestazione dell’esistenza in Sardegna diquattro Giudici di pari dignità, che governano autonomamente in quat-tro distinti ambiti territoriali, è data dalla lettera, scritta a Capua il 14ottobre 1073, con la quale il pontefice Gregorio VII (1073-1085) richia-ma i Giudici Orzocco di Càlari, Orzocco di Arborea, Mariano di Torres

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e Costantino di Gallura al rispetto dell’ortodossia cattolica e li invita arientrare con i rispettivi popoli, le genti che abitano nei regni giudicalidi Càlari, Arborea, Torres e Gallura, in seno alla Chiesa di Roma (doc.I-3). Orzocco di Càlari certamente rispose, manifestando la sua disponi-bilità a recarsi personalmente a Roma per riferire in merito alla possibi-lità di una riapertura del dialogo con la Chiesa latina, da cui lui e il suopopolo si erano da tempo allontanati. È quanto si ricava da una letteradello stesso Gregorio VII, scritta a Roma il 16 gennaio 1074 per acco-gliere la richiesta di udienza del Giudice, nella quale il Papa riafferma-va, con tono deciso, la necessità di una politica unitaria da parte di tuttie quattro i Giudici, di cui riconosceva di fatto la legittimità.

La formazione politico-istituzionale delle quattro entità statuali –Càlari o Pluminos, Arborea, Torres o Logudoro, Gallura – nelle qualipoco dopo la metà del Mille la Sardegna risulta divisa, fu certamente laconseguenza del progressivo distacco da una ‘lontana’ Bisanzio, unita-mente alle periodiche incursioni musulmane (secoli VII-XI) e alla sem-pre più forte pressione araba sul Mediterraneo. All’inizio dell’XI seco-lo, l’intervento di Pisa e di Genova, sollecitate dal papa Benedetto VIII(1012-1024), portò al fallimento del tentativo di conquista dell’isola daparte di Mughaid (il Musetto o Mugetto delle cronache pisane), signo-re della Taifa di Denia e delle Baleari, e favorì la ripresa dei contattieconomici e politici dei nascenti regni giudicali con l’Occidente: con ledue Repubbliche marinare del Tirreno, ma soprattutto con la Chiesa diRoma che, come vedremo, rafforza la sua presenza nell’isola attraver-so il monachesimo benedettino.

Ciascun Giudicato, detto logu, ma anche rennu, era retto da un Giu-dice, il quale nei documenti in latino appare talvolta indicato, oltre checon il nome di iudex, col titolo di rex, cui corrispondono in volgaresardo i termini rege e judike. L’ascesa alla dignità giudicale scaturivadall’ereditarietà, dall’elezione e dai vincoli derivanti dalla consangui-neità. Nonostante l’indeterminatezza di alcune regole istituzionali me-dievali e la scarsità di fonti relative alla Sardegna, si può affermare che,accanto all’investitura divina dei Giudici, era la concorde volontà delpopolo riunito in ‘Corona’ (la Corona de Logu) a rappresentare la fontedella sovranità. Dopo la designazione, infatti, il Giudice eletto dovevagiurare solennemente nelle mani dell’arcivescovo di non cedere alcunterritorio del regno, né di stringere alleanze con altre entità politichesenza il consenso della Corona de Logu; è quanto emerge dalla letturadi alcuni documenti, tra i quali possiamo ricordare la lettera inviatadalla Giudicessa di Càlari, Benedetta de Lacon-Massa, a Onorio III nel1217, lì dove dichiara: post decessum preclarae memoriae illustrissimi

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domini et patris mei, venerabilis marchionis Massae et iudicis Ca-laritani, omnis clerus et universus populus terrae Calaritanae conve-nissent in unum, ut me in iudicatum Calaritanum, qui iure hereditariome contingebat, more solito confirmarent; susceptoque baculo regali,quod est signum confirmationis in regnum, de manibus venerabilis pa-tris et domini mei archiepiscopi Calaritani, cum assensu et praesentiasuffraganeorum suorum, et omnium nobilium terrae Calaritanae, iura-vi protinus eisdem, coram ipsis ante caetera et praeter alia, quod re-gnum Calaritanum non alienarem neque minuerem, et castellum alicuialiquo titulo non donarem, neque pactum aliquod, aut societatem ali-quam, cum gente qualibet extranea inirem aliquatenus, aut faceremsine consensu et voluntate omnium eorundem («dopo la morte dell’il-lustrissimo e memorabile signore e padre mio, il venerabile marchesedi Massa e Giudice di Càlari, tutto il clero e tutto il popolo del territo-rio di Càlari si sono trovati d’accordo su un punto, ossia confermarmi,secondo una consolidata consuetudine, alla guida del Giudicato diCàlari, che mi spettava per diritto ereditario; e dopo aver preso lo scet-tro regale, che è il simbolo della conferma nel regno, dalle mani delvenerabile padre e del mio signore l’arcivescovo di Càlari, con il con-senso e alla presenza dei suoi ausiliari e di tutti i nobili del territorio diCàlari, giurai immediatamente agli stessi e in loro presenza, prima diqualsiasi altra cosa e oltre ad altre cose, di non cedere ad altri il regnodi Càlari, di non ridurlo nei suoi confini e di non donare la città fortifi-cata a nessuno ad alcun titolo, e di non stringere alcun patto o alleanzacon qualsiasi popolazione straniera senza il consenso e la volontà ditutti loro»). La trasgressione del giuramento poteva comportare la revo-ca del diritto successorio alla famiglia e, nei casi più gravi, l’uccisionedello stesso re. La lettera di Benedetta di Càlari testimonia altresì chepotevano subentrare alla successione anche le donne, ma solo comegovernanti e portatrici di titolo per i figli maschi o per il marito, comeavvenne per Adelasia di Torres, Elena di Gallura e la più nota Eleonoradi Arborea. I Giudici erano chiamati donnu, le loro mogli donna, i figlidonnikellos e donnikellas.

Accanto al Giudice, tra i funzionari di rango più elevato, troviamoun armentariu de pegugiare, che si occupava del patrimonio privato delGiudice, e un armentariu de Rennu, al quale era affidata l’amministra-zione dei beni dello Stato, il cui territorio era indivisibile e inalienabi-le, dal momento che i regni giudicali, a differenza degli altri Stati del-l’Europa medievale, non erano patrimoniali e i Giudici poteva libera-mente disporre solo del loro patrimonio personale (pegugiare). A dife-sa della persona del Giudice, e verosimilmente dei suoi familiari, era

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posto un corpo di guardia chiamato kita de buiakesos, comadata da unmaiore de buiakesos (doc. I-6/7).

I Giudicati erano divisi in curatorìe (curadorias) – che rappresenta-vano un’unità elettorale ed amministrativo-giudiziaria formata da uninsieme di centri abitati (ville) – a capo delle quali troviamo i curatori(curadores), nominati dal Giudice e dotati di autorità fiscale e giudizia-ria. I curatori, talvolta familiari del Giudice o suoi stretti parenti, eranopiù spesso scelti tra i maiorales del regno, cioè in quella classe di libe-ri ricchi che è figlia degli honesti e degli illustres dell’età tardo-antica.Anche i villaggi avevano un ufficiale, il maiore de villa, a sua voltanominato dal curatore, che nell’assolvimento delle sue funzioni – rela-tive all’ordine pubblico e all’esazione dei tributi – si avvaleva della col-laborazione dei boni homines, scelti tra gli uomini liberi del villaggioin considerazione delle condizioni economiche, esperienza e qualitàmorali.

Per quanto riguarda gli insediamenti umani possiamo dire che findalla tarda antichità il territorio sardo fu caratterizzato da un processodi ruralizzazione delle città e dalla presenza di una fitta e articolata retedi piccoli insediamenti, ricordati nei documenti di età giudicale con itermini di ecclesie, donnicalie, domus, domestias, curtes e, solo rara-mente e in epoca più tarda, ville, derivanti dai pagi e dagli agglomera-ti rurali romani e bizantini, in simbiosi con le risorse del territorio e inun regime di autosufficienza. Questa organizzazione è stata definitacome ‘sistema domus’, ossia un articolato sistema di proprietà signori-li, fondato sulle piccole e grandi aziende agricole specializzate a baseservile, quei servi che nelle generose donazioni dei Giudici sardi ai mo-nasteri benedettini del continente europeo e alle cattedrali di SantaMaria di Pisa e di San Lorenzo di Genova sono spesso ricordati pernome (doc. I-7), in quanto residenti in quei piccoli insediamenti ruralidi cui costituivano la forza lavoro. Gli abitanti di questi nuclei demiciproducevano, verosimilmente, lo stretto necessario per la loro alimen-tazione, integrando i prodotti della terra e dell’allevamento con quantosi poteva ricavare dalle risorse del saltus, dei boschi (legna, selvaggi-na, frutti); quanto veniva prodotto in eccedenza veniva ‘investito’ nellacostruzione di edifici pubblici, soprattutto chiese: quelle splendidechiese romaniche, alcune delle quali i paesi della Sardegna ancora con-servano, ma che più spesso troviamo sparse sul territorio, affascinantispazi del sacro, in origine parrocchie di antichi villaggi rurali abbando-nati già nel tardo Medioevo (secc. XIV-XV).

L’amministrazione della giustizia era affidata per le cause più impor-tanti al Giudice, assistito dalla Corona de Logu, che oltre alla funzione

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di Assemblea del regno – che manifesta la volontà dei personaggi piùeminenti del Rennu: i prelati, i funzionari, i maiorales delle città e deivillaggi e che affianca il Giudice nell’azione di governo – aveva ancheil ruolo di tribunale; in prima istanza i processi potevano svolgersi nellaCorona de curadoria, presieduta dal curatore. Gli aspetti procedurali elo svolgimento di questi processi (kertos) ci vengono dettagliatamentedocumentati nei condaghes (doc. I-6).

Il condaghe, dal bizantino kontákion, era un codice nel quale veni-vano registrate, per lo più in lingua volgare (sardo-logudorese o sardo-arborense), transazioni di carattere patrimoniale – donazioni di Giudicie maggiorenti locali, vendite, acquisti, permute, ripartizioni di servos etankillas, liti giudiziarie (kertos), accordi connessi con quelle transazio-ni o derivanti da altre cause, ma anche eventi significativi per la vita delmonastero – che documentano nel dettaglio la gestione dei beni deglienti religiosi, in particolare dei monasteri. La testimonianza del conda-ghe aveva valore di prova quando se ne chiedeva l’esibizione duranteil processo, per cui esso non poteva essere iniziato o ‘rinnovato’ (quan-do il vecchio esemplare era ormai usurato) senza l’autorizzazione delGiudice, come scrive intorno alla metà del XII secolo Massimilla, ba-dessa del monastero di San Pietro di Silki nel regno di Torres: EgoMaximilla, abbatissa de Sanctu Petru de Silki, ki lu renovo custu con-dake… ccun boluntate dessu donnu meu iudike Gunnari e de su fiiuiudike Barusone, e dessos frates, e dessos maiorales de Locudore, dan-dem’ isse paragula de renobarelu su condake.

Si sono conservati i condaghes relativi ai monasteri di San Pietro diSilki (Sassari), San Michele di Salvenor (Ploaghe), San Nicola diTrullas (Semestene) e Santa Maria di Bonarcado (presso Oristano).Oltre a quelli monastici, ci sono pervenuti frammenti di condaghes dichiese cattedrali, come quello di Sant’Antioco di Bisarcio e il già ricor-dato condaghe di San Gavino di Torres, o voluti dagli stessi Giudici,come il condaghe di Barisone II di Torres a beneficio dell’ospedale diSan Leonardo di Bosove (presso Sassari), affiliato all’ospedale di SanLeonardo di Stagno di Pisa. Pur nella loro brevità le ‘schede’ dei con-daghes – ogni ‘scheda’ corrisponde ad un documento – fornisconoun’immagine molto viva della società sarda tra XI e XIII secolo e sonouna fonte ricca di informazioni sull’organizzazione della vita familia-re, sui sistemi di trasmissione dei beni, sull’amministrazione della giu-stizia e, più in generale, sui rapporti tra i diversi gruppi sociali.

Le norme del diritto, inizialmente basato sulla consuetudine, venne-ro più tardi fissate in Carte de Logu, dove ancora una volta il terminelogu stava ad indicare il territorio del Giudicato nel quale il corpus di

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leggi era vigente. Ci sono pervenuti frammenti di una Carta de LoguKallaritana, dei primi decenni del Trecento, e il testo completo dellapiù nota Carta de Logu di Arborea (doc. I-10), rivista e promulgata allafine del XIV secolo dalla Giudicessa Eleonora (che incorpora il Codicerurale di Mariano IV, redatto dopo il 1347), che i Catalano-aragonesinel 1421 estesero a tutto il regno di Sardegna e che rimase in vigoresotto gli Spagnoli e, almeno formalmente, sotto i Piemontesi, finchénon fu sostituita dal Codice Feliciano, promulgato da Carlo Felice diSavoia nell’aprile del 1827.

L’organizzazione politico-amministrativa e socio-economica dei regnigiudicali, qui sinteticamente illustrata, rimase inalterata sino alla fine ‘difatto’ e ‘di diritto’ dei quattro Stati sardi: Càlari nel 1258, Torres nel1259/1272; Gallura nel 1288/1447 ed infine Arborea nel 1410/1420.

La penetrazione in Sardegna degli Ordini monastici benedettini

La diffusione capillare dei movimenti monastici benedettini in Sar-degna ha inizio nella seconda metà dell’XI secolo. Dopo un lungoperiodo di relativo disinteresse il Papato vuole riaffermare il controllospirituale sull’isola, tradizionalmente orbitante nella sfera d’influenzadella Chiesa Bizantina. La penetrazione monastica diventa in Sar-degna, come nel resto d’Europa, uno degli strumenti più efficaci perinserire l’isola nella Cristianità latina e venne, quindi, largamente inco-raggiata dalla Santa Sede.

I primi documenti che attestano una continuità di rapporti tra la civil-tà giudicale e alcune abbazie continentali riconducono all’epoca in cuii quattro regni si aprono definitivamente agli apporti e agli scambi conil mondo mediterraneo. Già dal 1063 il Giudice Barisone I di Torreschiedeva a Desiderio, abate di Montecassino, che i monaci benedettinisi insediassero nelle vicinanze di Ardara, capitale del regno, e di lì apoco donava alla potente abbazia cassinese le chiese di Santa Maria diBubalis e di Sant’Elia di Montesanto (doc. I-1). Nel 1066 OrzoccoTorchitorio, Giudice di Càlari, donava ai Cassinesi chiese e terreni, po-nendo come condizione che l’abate Desiderio inviasse nel suoGiudicato un monaco cum codicibus et omnis argumentum ad monaste-rium facere et regere et gubernare (doc. I-2); ma i monaci non preseropossesso delle chiese ricordate nella donazione – i cui nomi erano statitempestivamente immortalati nella grande porta in bronzo di Mon-tecassino – e il loro arrivo venne posticipato di ben cinquantadue anni.Solo nel 1118 i Cassinesi si presentarono ad esigere la consegna delle

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‘loro’ chiese, esibendo già da allora non il testo della donazione ‘con-dizionata’ di Orzocco, ma quella da loro stessi falsificata – edita dal Sa-ba, Montecassino e la Sardegna Medioevale, doc. 3, pp. 136-138 – sulmodello della donazione di Barisone I di Torres del 1064/65, dallaquale erano stati tolti i nomi delle chiese di Santa Maria di Bubalis e diSant’Elia di Montesanto, sostituendoli con i nomi delle sei chiese ricor-date nel documento del 1066, quello genuino.

Alla fine dell’XI secolo giungevano nell’isola i Vittorini, provenien-ti dall’abbazia benedettina di San Vittore di Marsiglia, che in virtù dellagenerosa donazione del Giudice di Càlari Costantino Salusio II prende-vano possesso nel 1089 della chiesa di San Saturnino – la basilica pa-leocristiana presso la quale Fulgenzio, vescovo di Ruspe, aveva co-struito intorno al 518 il suo monastero e alla quale il Giudice Orzoccoaveva fatto alcune significative donazioni, ricordate nella carta sarda incaratteri greci dello stesso Costantino Salusio II – e si impegnavano afondare un monastero, nel quale habitantes secundum regulam sanctiBenedicti vivant (doc. I-4).

Nel 1147 Gonario di Torres, in viaggio verso Gerusalemme, sostava aMontecassino e confermava al monastero le generose donazioni fatte daisuoi predecessori e dai maggiorenti del regno di Torres, ed egli stessodonava molte chiese ubicate nel Giudicato. Visitati i Luoghi Santi, duranteil viaggio di ritorno Gonario incontrava in Puglia Bernardo di Clairvaux,fondatore dell’ordine Cistercense, che rimase colpito dalla devozione edalla generosità del Giudice, che peraltro già conosceva, dal momento chein una lettera del 1145, indirizzata a papa Eugenio III, lo stesso Bernardosi era pronunciato a favore di Gonario, il cui regno era stato invaso dalGiudice di Arborea Comita, e aveva raccomandato al pontefice Turritanusiudex, qui bonus dicitur esse princeps. Rientrato in Sardegna, nel 1149 ilGiudice turritano fondava l’abbazia di Cabuabbas (Sindia), favorendo lapenetrazione nel regno di Torres dei monaci Cistercensi, ai quali la chie-sa veniva affidata. Nel 1154 il pio Giudice abbandonava ogni bene terre-no, compresi i diritti giudicali, ereditati dal figlio Barisone, e si ritirava avita religiosa nel monastero di Clairvaux, come ci racconta il Libellusiudicum Turritanorum (doc. I-5).

L’Ordine cistercense ebbe in Sardegna vari altri cenobi, la maggiorparte dei quali nel Giudicato di Torres. Fra questi va ricordata l’abba-zia di Santa Maria di Paulis (o de Padulis), che nei disegni del Giu-dice Comita, che la eresse nel 1204, sembrava destinata ad essere lapiù importante dell’isola e che ricevette una ricchissima donazione.Secondo Turtas, lo straordinario patrimonio terriero e zootecnicomesso a disposizione dei monaci e la condizione posta dal Giudice

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che essi dovessero tutti provenire dalla casa madre di Clairvaux, ren-dono plausibile l’ipotesi che Comita si aspettasse da loro un impor-tante contributo per il miglioramento dell’intero comparto agro-pa-storale – un settore nel quale i Cistercensi erano già famosi per i risul-tati conseguiti in varie parti d’Europa – del Giudicato, magari ancheattraverso l’introduzione di strumenti e tecniche di coltivazione piùmoderni. Queste aspettative erano, in realtà, le stesse riposte da tuttii Giudici sardi negli Ordini benedettini, di cui veniva favorito l’arri-vo nell’isola ad plantandum, ad stirpandum…; e ancora …ut ordinentet lavorent et edificent et plantent. I monaci, forti della tradizione edelle esperienze proprie del monachesimo benedettino, la cui regolaera ispirata all’obbligo congiunto della preghiera e dell’azione (ora etlabora), introdussero così nuovi metodi di coltivazione, di alleva-mento e di irrigazione.

Il regno giudicale di Arborea fu forse l’ultimo a conoscere il feno-meno monastico, che si manifestò solo agli inizi del secondo decenniodel secolo XII, quando in una data non meglio precisata il GiudiceCostantino de Lacon fondava il monastero di Santa Maria presso il vil-laggio di Bonarcado – Ego iudice Gostantine qui faço custa abbadia,si legge nella ‘scheda’ 131 del condaghe di Santa Maria di Bonarcado– e lo affiliava a quello di San Zenone di Pisa, che durante il pontifica-to di Innocenzo II, negli anni 1130-1143, sarebbe passato sotto il con-trollo dell’abbazia di Camaldoli, presso Arezzo. Gli abati inviati dalcenobio pisano per reggere quello di Bonarcado dovevano essere per-sone gradite al Giudice, segno che esso veniva considerato un monaste-ro palatino, oggetto di continue e importanti donazioni da parte deiGiudici, come ampiamente documentato dallo stesso condaghe. Fusicuramente memorabile per la storia del Giudicato e del suo cenobiola sacratione dessa clesia nova, ufficiata nel 1146 da Villano, arcive-scovo di Pisa e legato pontificio per la Sardegna, con l’assistenza dialcuni vescovi sardi e alla presenza dei Giudici Barisone di Arborea,Costantino di Càlari, Gonario di Logudoro e Costantino di Gallura:l’unico caso documentato della compresenza dei quattro sovrani.

In quegli stessi anni i Camaldolesi entravano in possesso nel regnodi Torres della chiesa di San Nicola di Trullas, costruita per iniziativadella potente famiglia degli Athen e di altri notabili del Giudicato, chela donarono nel 1113 alla casa madre di Camaldoli, e della chiesa diSan Pietro di Scano (Bosa), donata agli inizi del secondo decennio delXII secolo dal Giudice Costantino e dalla moglie Marcusa. San Nicoladi Trullas fu, insieme a Santa Maria di Bonarcado, la più importantefondazione monastica camaldolese della Sardegna.

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Il regno di Barisone I di Arborea, del quale abbiamo ricordato ilruolo svolto a favore dell’abbazia camaldolese di Santa Maria di Bo-narcado, da lui ripetutamente beneficiata, merita di essere ricordatoanche per un altro importante evento monastico, messo in atto pochianni prima della sua morte (1185): la donazione del 1182 aMontecassino della chiesa di San Nicola di Gurgo perché vi venissefondato un monastero; il Giudice poneva come condizione (tali pactoatque conventionem) che, tra la dozzina di monaci che egli attendevavenissero inviati in Sardegna dal più antico monastero benedettinodella Penisola, almeno tre o quattro ita sint litterati ut, si necessariumfuerit, in archiepiscopos et episcopos possint eligi, et etiam regninostri negotia sive in romana curia vel in curia imperatoris et ubiquevaleant tractare. Dopo il fallito tentativo di diventare rex Sardinie(mediante l’investitura di Federico I di Svevia, il Barbarossa, a Pavianel 1164) Barisone aveva, forse, capito che la causa di quell’insucces-so andava solo in parte addebitato alle scarse disponibilità finanziarie– la sfortunata ‘avventura’ era stata finanziata dai Genovesi (doc. III-5/6) – ma che ad esso aveva certamente contribuito l’insufficientecopertura diplomatica. Di qui l’aspirazione a disporre di consiglierisaggi e informati, che gli consentissero di stabilire rapporti dignitosianche con le personalità e i poteri più alti della Cristianità. In questastessa ottica può essere visto l’avvicinamento del Giudice al comunedi Pisa, messo in atto con la generosa donazione del 1184 all’Operadel Duomo di Santa Maria (doc. I-7). Un secolo prima, il 18 marzo1082, su consiglio del legato pontificio Guglielmo di Populonia, vero-similmente inviato in Sardegna da Gregorio VII, era stato Mariano diTorres a favorire l’Opera di Santa Maria di Pisa con un’interessantedonazione, nella quale il Giudice sottolineava la grave decadenza dellechiese del suo Giudicato e auspicava che la donazione fatta a SantaMaria sarebbe stata molto utile per la rinascita delle stesse. È eviden-te la stretta connessione tra il beneficiario della donazione (la Chiesadi Pisa), l’obbiettivo di essa (la salus totius mee patrie, cioè ilGiudicato di Torres) e lo strumento per raggiungerlo (la riforma delclero dello stesso Giudicato), nel rispetto dei programmi di riformadella Chiesa da tempo varati da papa Gregorio VII.

Da queste donazioni, ma soprattutto da quella del Giudice Torchi-torio di Càlari a favore dell’Opera di San Lorenzo di Genova nel 1107,con la quale l’Opera entrava in possesso di tre donnicalie e i Genovesivenivano esentati dal pagamento di ogni tributo nel suo Giudicato, sievince che dietro le concessioni agli enti ecclesiastici delle due poten-ti Repubbliche marinare vi erano motivazioni di carattere politico e sia

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Pisa che Genova si avvalevano dell’Opera delle loro Cattedrali peraffermare il loro potere in Sardegna, mentre i sovrani sardi cercavanodi conservare la propria autonomia attraverso una difficile politica diequilibrio, appoggiandosi ora alla città ligure ora a quella toscana. Ditutt’altra natura il ruolo politico, ma soprattutto economico e culturale,svolto nell’isola dagli Ordini monastici.

Come sottolinea efficacemente Turtas nel bel volume Storia dellaChiesa in Sardegna, la presenza nell’isola di congregazioni monastichediverse, anche se sostanzialmente riconducibili alla regola benedettina,provenienti da diverse regioni d’Italia e d’Europa (i Cassinesi dallaCampania, i Camaldolesi e i Vallombrosani dall’area tosco-umbro-emi-liana, i Vittorini dalla Provenza, i Cistercensi dalla Borgogna) «si rive-lò uno strumento molto importante per far sì che la Sardegna e la suaChiesa non restassero isolate dai movimenti religiosi e dai fermenti spi-rituali, culturali ed artistici più importanti che vivacizzarono la Cri-stianità medioevale latina a partire dall’XI secolo».

Nelle donazioni dei Giudici di Càlari, Arborea, Torres e Gallura e deifacoltosi maiorales sardi a quelle prestigiose fondazioni monastiche –donazioni sempre giustificate come atto di devozione, ma chiaramentevolte ad ottenere i vantaggi che sarebbero derivati dall’azione deimonaci Benedettini – la presa di possesso dei beni donati era spesso‘condizionata’ dall’invio nei rispettivi regni di monaci, qui regant etordinent et lavorent et edificent et plantent, ai quali era affidato il com-pito non solo di amministrare le chiese e i monasteri, con tutti i beni adessi pertinenti (case, terreni, animali, servi e ancelle), ma anche di edi-ficare; è, pertanto, a questi monaci ‘costruttori’ che si deve l’incremen-to dell’attività edilizia in Sardegna nel corso dei secoli XI-XIII, quan-do si assiste – scrive Coroneo – all’importazione del linguaggio roma-nico ad opera di maestranze extraisolane (toscane, lombarde, francesi,arabe), che si radicano nel territorio, dando vita ad un’architetturaromanica sarda contraddistinta da caratteri originali.

Scrittura e cultura nella Sardegna medievale

La penuria di fonti che caratterizza il Medioevo sardo non ci permet-te di quantificare i livelli di alfabetizzazione nell’isola in questo lungoe suggestivo periodo della sua storia e non possediamo notizie in meri-to all’esistenza di una struttura scolastica di base prima del Mille. Parecomunque indubbio che una fascia di alfabetizzati, ossia di personecapaci di leggere e/o scrivere, sia costantemente esistita; essa era costi-

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tuita in gran parte da ecclesiastici e da individui appartenenti alla clas-se dirigente laica, residenti in quei centri urbani sorti lungo le coste giàin epoca fenicio-punica, cresciuti e rafforzati in epoca romana e poi maipiù completamente abbandonati. Le strutture scolastiche che l’efficien-za amministrativa romana aveva creato anche nelle maggiori città diprovincia dovettero continuare a sopravvivere all’inizio del VI secolo,quando una buona percentuale della popolazione urbana era ancora ingrado di leggere e/o scrivere, forse non soltanto a livello elitario.

Intorno al Mille il panorama culturale offerto dalla Sardegna era cer-tamente mutato e, se si escludono i funzionari statali più importanti e l’al-to clero, solo pochi erano in grado di leggere e di scrivere, anche fra i cetipiù elevati. Un qualche miglioramento si dovette però registrare a parti-re dalla seconda metà dell’XI secolo, con l’arrivo nell’isola degli Ordinimonastici benedettini e delle correnti mercantili provenienti da Pisa e daGenova. I documenti pervenutici dimostrano che per lungo tempo sonogli ecclesiastici i principali depositari del sapere e della cultura scritta esono proprio loro che, in mancanza di una tradizione notarile laica, sioccupano della redazione dei documenti e rispondono in prima personaalle esigenze delle nascenti cancellerie giudicali: il diacono Nicita, iscri-banus in palacçio regis, è l’estensore, intorno al 1064-65, dell’atto didonazione a favore del monastero di Montecassino voluto dal GiudiceBarisone I di Torres (doc. I-1); il diacono Costantino, dictus nomine deCastra, il 5 maggio 1066 redige per il Giudice di Càlari Orzocco Tor-chitorio I la donazione a favore della stessa abbazia (doc. I-2); il diaconoGiovanni il 24 giugno 1147 è a Montecassino con il Giudice Gonario diTorres, per il quale scrive l’atto di conferma delle donazioni fatte dai suoipredecessori e dai nobili del regno al monastero, cui aggiunge la suagenerosa concessione di chiese e altri beni (doc. I-5); il presbiteroMariano di Nuraxinieddu opera nella cancelleria del Giudicato diArborea all’epoca del Giudice Torbeno e il 15 ottobre 1102 redige la piùantica carta in volgare ‘arborense’ giunta sino a noi; Pietro Pagano,quamvis indignus sacerdos, come si definisce in una pergamena redattanel 1182, è attivo nella stessa cancelleria negli anni 1182-1188, al servi-zio dei Giudici Barisone I (doc. I-7) e Pietro I, per il quale redige e sot-toscrive l’atto di donazione a favore del comune di Genova con il presti-gioso titolo di kancellarius. Questi religiosi avevano verosimilmenteappreso l’uso della scrittura in una scuola locale, forse parrocchiale, nellaquale un prete, lo scholasticus, insegnava ai fanciulli, laici e chierici, lalettura e quanto serviva all’esercizio dell’altare.

I monaci Cassinesi e Vittorini prima, i Camaldolesi, i Cistercensi e iVallombrosani più tardi, insediatisi stabilmente nell’isola, diedero vita

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a ricche e potenti fondazioni monastiche, annesse alle quali possiamoipotizzare l’esistenza di scuole, dove i religiosi, e forse anche i laiciappartenenti alle classi più elevate della società giudicale, apprendeva-no a leggere e a scrivere. L’esame di alcuni inventari di chiese o mona-steri, nonché gli atti di donazione a favore degli stessi, emanati daiGiudici o dai facoltosi maiorales sardi, ci documentano sul patrimoniolibrario di alcune biblioteche monastiche.

Da queste fonti apprendiamo che il monastero di San Nicola diTrullas, affiliato al monastero benedettino di Camaldoli, presso Arezzoin Toscana, era stato dotato di libri sin dalla sua nascita; ed infatti nel-l’atto di fondazione, risalente al 1113, Pietro de Athen e gli altri nobilidel Giudicato di Torres vietavano ai monaci di alienare sos libros ki visunt, dei quali però non veniva fornito un dettagliato elenco. L’inventa-rio dei beni dello stesso monastero, redatto il 18 giugno 1280 (doc. I-9), conferma l’esistenza di questo patrimonio librario, consistente inuna Bibbia in due volumi, due Omiliari, un Passionarium, due Antifo-nari, un Messale, un Epistolario, due Salteri, un Manuale e un Sermo-narium. La biblioteca monastica di Trullas non era certo ricca, né lodoveva essere stata all’epoca della sua fondazione, oltre un secolo emezzo prima, ma certamente nel 1280 essa era fornita dei testi neces-sari per la cultura religiosa dei monaci, per l’officio liturgico e per lepratiche devozionali. In essa i monaci trovavano gli strumenti più ido-nei per svolgere l’apostolato e la predicazione, come si può arguiredalla presenza di due Omiliari, di una raccolta di sermoni e di un ma-nuale non meglio specificato che, forse, veniva utilizzato a scopo didat-tico nella scuola del monastero. L’Epistolario rimanda, invece, alloscriptorium monastico e, forse, veniva utilizzato come ‘formulario’ perla compilazione dei documenti. Significativamente, lo stesso inventa-rio ci informa sulla consistenza del patrimonio documentario dell’ar-chivio del monastero, verosimilmente annesso allo scriptorium, nelquale erano conservati cinquantacinque privilegi corroborati dalla bolladi piombo (il sigillo utilizzato nella cancelleria pontificia, ma anchenelle cancellerie giudicali e in quelle regie e imperiali dell’Europamedievale), cinque documenti muniti del sigillo di cera e cinque con-daghes, i registri patrimoniali riguardanti l’amministrazione dei benidel monastero, scritti in lingua sarda e largamente rappresentati nellaSardegna giudicale, ma di cui – come si è detto – sono giunti sino a noisolo pochi esemplari (doc. I-6).

Anche la chiesa di San Nicolò di Solio, nel Giudicato di Torres, pos-sedeva una sua biblioteca; nel 1122 i coniugi Furato de Gitil e Susannade Lacon-Zori donavano al monastero di Montecassino la chiesa e tutti

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i beni ad essa pertinenti: terre, case, servi, bestiame, mobili ed arredisacri; ma anche alcuni libri: due Messali, un Omiliario, un Notturnale,un Sentenziale, due Antifonari: unu de die, atteru de nocte (si trattadell’Antiphonarium officii, in quanto la specificazione de die e de noctefa chiaramente riferimento alla liturgia delle ore, che prevedeva l’offi-cio della notte e le varie ore diurne), due Salteri monastici e due mino-ri, due Manuali. I manoscritti posseduti da questa chiesa sono all’incir-ca gli stessi che abbiamo individuato nel convento di San Nicola diTrullas, testi appartenenti all’officio liturgico o in qualche modo indi-spensabili alla predicazione e all’apostolato. La presenza di manoscrit-ti liturgici, spesso neumati, è naturalmente spia di attività spirituali allequali si affiancavano fenomeni artistici e culturali, ma anche rapporti dicarattere politico ed economico fra le fondazioni monastiche e il terri-torio che le aveva accolte e ne aveva favorito lo sviluppo e il radica-mento.

Libri sacri d’uso quotidiano erano presenti anche nella bibliotecadella chiesa di Santa Maria de Portu Gruttis, come ci attesta l’inventa-rio redatto nel 1230, un anno dopo il passaggio della chiesa ai Fran-cescani, i quali erano subentrati all’Opera di Santa Maria di Pisa, che asua volta l’aveva ottenuta nel 1218 dai Vittorini. Si tratta di un Messale,di un Notturnale, di un vecchio e piccolo Diurnale, di un Omiliario delittera antiqua, ossia un codice scritto in ‘minuscola carolina’.

Non era certamente dissimile, nella tipologia e nei contenuti, il patri-monio librario del monastero cistercense di Santa Maria de Padulis chenel 1205, all’atto della sua fondazione, aveva ricevuto dal Giudice diTorres Comita de Lacon-Gunale una generosa donazione, che prevede-va apparatu librorum et paramentorum, e nella quale era compresa lacospicua somma di 2000 bisanti da destinarsi, tra le altre cose, all’ac-quisto di libri sacri.

Risale al 1228 l’inventario dei libri e degli arredi sacri di tre chiesedel Giudicato di Càlari: Santa Igia, San Pietro e Santa Maria di Cluso,quest’ultima chiesa cattedrale della capitale giudicale, Santa Igia (doc.I-8). Sono presenti alcuni testi biblici e di edificazione religiosa, insie-me ad altri adatti allo studio dei Padri della Chiesa, del diritto canoni-co, dell’oratoria sacra, o all’officio liturgico, soprattutto per la lectiodivina, la celebrazione della messa e l’amministrazione dei sacramen-ti. Due titoli, invece, si riferiscono all’apprendimento dei primi elemen-ti grafici e di calcolo: un Lapidarius ed un Abbacus, la loro presenzaconforta l’ipotesi che fosse annessa alla chiesa cattedrale una strutturascolastica di base. A supporto di questa ipotesi possiamo ricordarequanto disposto dal penultimo canone del Sinodo ‘nazionale’ di Santa

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Giusta (1226), sede vescovile nel Giudicato di Arborea, che in materiadi istruzione prescriveva la costituzione di una scuola di grammaticaalmeno nelle sedi metropolitane di Santa Igia, Torres e Oristano; conquesta disposizione si tentava di applicare alla critica situazione scola-stica sarda quanto prescritto dal Concilio Lateranense IV (1215), cheordinava l’istituzione di una scuola di grammatica presso tutte le chie-se cattedrali e di una scuola di teologia – assolutamente impensabileper la realtà sarda – presso le sedi metropolitane.

Il patrimonio librario delle tre Chiese cagliaritane – trentacinque testinella chiesa di Santa Igia, tredici in quella di San Pietro, sedici nellaSanta Maria di Cluso – appare particolarmente ricco, sia numericamenteche sotto il profilo dei contenuti, ed estremamente importante per unaricostruzione del panorama culturale sardo dal momento che, almeno perquanto concerne il diritto canonico, molti dei testi ricordati nell’inventa-rio sono coevi alla redazione del medesimo: Ugaccione da Pisa, autoredella Summa Canonum e della Summa matrimonii, era morto nel 1210;Tancredi da Bologna, autore del De ordine iudiciorum, morì nel 1231;questi dati testimoniano la rapida circolazione in Sardegna della produ-zione giuridico-teologica prodotta e veicolata nella penisola italiana. IlCapra, che per primo pubblicò gli inventari, attribuisce la rapidità con laquale i nuovi testi di diritto canonico penetravano in Sardegna alla pre-senza della civiltà comunale pisana. Affermazione condivisibile, senzaperò dimenticare che, se ciò è avvenuto, è stato perché la Sardegna, nelcorso della sua lunga storia e in particolare dopo il Mille, non è stata maiisolata ma ha costantemente condiviso e partecipato alle vicende dellaciviltà mediterranea, mantenendo un rapporto privilegiato con le Repub-bliche marinare di Pisa e di Genova e con le fondazioni monastiche bene-dettine della penisola italiana e del sud della Francia.

In nessuna delle biblioteche monastiche o ecclesiastiche esaminatefigurano opere di autori classici, latini o greci. Questa realtà di fattonon desta meraviglia se, sulla base delle poche fonti disponibili, rico-struiamo la situazione culturale dell’isola nei secoli XI-XIII: caratteriz-zata da un analfabetismo diffuso fra laici anche di rango elevato e doveper lungo tempo sono gli ecclesiastici, appartenenti al clero regolare esecolare, gli unici depositari del sapere e della cultura scritta. In unarealtà culturale e grafica come quella sarda, dove, escluse alcune pic-cole scuole annesse alle chiese cattedrali e ai monasteri, sembrerebbetotalmente assente una struttura scolastica di base e nella quale, inambito documentario come anche nella scarsa produzione libraria, pre-domina la lingua volgare su quella latina, non potevano certamente tro-vare spazio gli autori classici, latini e greci.

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Il panorama culturale della Sardegna medievale andò indubbiamen-te migliorando nel corso del Trecento, quando nei maggiori centri del-l’isola sorsero strutture scolastiche gestite anche da laici e non più soloda religiosi, come era accaduto sino ad allora. Conforterebbe questaipotesi l’inventario dei beni sequestrati dai Catalano-aragonesi ai ribel-li sassaresi, compilato in lingua catalana nel 1352, nel quale sono elen-cati i libri appartenuti ad individui legati all’insegnamento, o quantomeno vicini al mondo della scuola: testi di grammatica, traduzioni dellefavole greche di Esopo, abbecedari, i Disticha Catonis o Disticha mo-ralia attribuiti a Catone Dioniso.

Per quanto concerne la scrittura, la più volte lamentata scarsità ediscontinuità delle fonti scritte, prodotte in Sardegna nel corso del Me-dioevo, rende difficile un discorso organico sulla storia dell’evoluzio-ne dell’alfabeto latino nell’isola. I primi documenti pervenutici, redat-ti nelle cancellerie dei regni giudicali di Càlari, Logudoro, Gallura eArborea, risalgono alla seconda metà dell’XI secolo, mentre per i seco-li precedenti ci sono rimasti solo pochi codici, alcuni dei quali furonoscritti in Sardegna, altri vi circolavano.

Il codice più antico è il Sant’Ilario Basilicano (conservato nella Biblio-teca Apostolica Vaticana), contenente le opere De Trinitate e In Constan-tium imperatorem di sant’Ilario di Poitiers; scritto in ‘semionciale’ tra il509 e il 510, è considerato un prodotto grafico della comunità religiosainsediatasi a Cagliari, presso la chiesa di San Saturnino, sotto la guida diFulgenzio, vescovo di Ruspe. Nel manoscritto sono presenti annotazioniin ‘minuscola corsiva’, forse autografe dello stesso Fulgenzio.

Si ritiene prodotto nell’area cagliaritana, o comunque circolante inSardegna alla fine del VI secolo, anche il codice Laudiano (conservatonella Bodleian Library di Oxford), che ci tramanda gli Atti degli Apo-stoli in versione greca e latina: il testo greco è redatto in ‘maiuscolabiblica’, quello latino in ‘onciale’. Il manoscritto, vergato da un copi-sta che conosceva meglio il greco che il latino, era probabilmente de-stinato ai presuli greci residenti a Cagliari, o in altri luoghi della Sarde-gna, per l’apprendimento della lingua latina a partire da quella greca.

Forse intorno al VI-VII secolo fu scritto nell’isola un altro testo bilin-gue neo-testamentario, il codice Claromontanus delle lettere di san Paolo(conservato nella Bibliothèque Nationale di Parigi), vergato in ‘semion-ciale’ nella parte latina e in ‘maiuscola biblica’ in quella greca. Questi edaltri elementi hanno fatto ipotizzare che i ceti alfabetizzati sardi urbani diquel periodo fossero bilingui e ciò non desta meraviglia dal momento chedal 534 l’isola fu soggetta alla dominazione di Bisanzio, pur conservandostretti rapporti culturali e religiosi con il mondo latino.

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Nei primi decenni dell’VIII secolo giunse a Cagliari dalla Spagnal’Orazionale Mozarabico (attualmente custodito nella BibliotecaCapitolare di Verona), il più antico codice datato in scrittura ‘visigoti-ca’. Il manoscritto, redatto agli inizi del secolo in uno scriptorium diTarragona, passò poi in Sardegna dove appartenne a Flavius Sergius,bicidominus Sancte Ecclesie Caralitane. La nota di possesso, vergatadallo stesso Flavio Sergio in una ‘corsiva nuova’, molto simile a quel-la usata nell’Italia longobarda, documenta la presenza del codice nelcapoluogo sardo, la conoscenza e l’uso in terra sarda delle stesse scrit-ture della penisola, nonché la persistenza nell’isola della cultura latina,unitamente a quella greca.

Per i secoli successivi la Sardegna non ha conservato nessuna testi-monianza grafica; solo dopo il Mille compaiono i primi documenti, chepresentano una varietà di scritture tale da rappresentare un unicum nelpanorama grafico dell’Europa occidentale. I documenti pervenutici,scritti prevalentemente da ecclesiastici in lingua volgare, rivelano chequanti operavano nelle nascenti cancellerie giudicali non aderivano adun preciso impegno grafico ed ancora nel XII secolo persistevanoforme scrittorie impregnate di elementi mutuati dalle più antiche scrit-ture: l’onciale, la semionciale e le precaroline, come documentano ledue più antiche pergamene arborensi, oggi conservate nell’Archivio diStato di Genova.

La fine del secolo XI segna per la Sardegna l’inizio di una nuova sta-gione culturale, contraddistinta dal suo definitivo e pieno reinserimen-to nel mondo occidentale latino in virtù della presenza, perorata dallaChiesa di Roma e sollecitata dagli stessi Giudici sardi, degli Ordinimonastici benedettini e delle correnti mercantili più progredite, rappre-sentate in quel tempo dai Pisani e dai Genovesi.

I monaci Cassinesi e i Vittorini di Marsiglia prima, i Camaldolesi, iCistercensi e i Vollombrosani più tardi, favorirono la diffusione nel-l’isola di nuove forme grafiche; così alle primitive influenze della scrit-tura ‘beneventana’, importata dai monaci di Montecassino, si sovrap-posero le forme della scrittura ‘carolina’, della quale abbiamo esempitardi e calligrafici, unitamente a ‘minuscole di transizione’, usate an-cora nei secoli XII e XIII. Sono queste le scritture dei condaghi dei mo-nasteri di San Pietro di Silki, di San Nicola di Trullas e di Santa Mariadi Bonarcado; in quest’ultimo gli atti risalenti al XIII secolo sono scrit-ti in un’elegante ‘gotica testuale’ di tipo italiano.

L’uso della scrittura ‘gotica’ libraria, attestato nel codice del Sinododi Santa Giusta, prodotto verosimilmente nello scriptorium di SantaMaria di Cluso nella prima metà del Duecento (doc. I-8), e nelle com-

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pilazioni statutarie dei primi decenni del Trecento – il Breve di Villa diChiesa, gli Statuti di Sassari, il Breve portus Kallaretani, i frammentidegli Statuti di Castelgenovese – documenta l’ormai raggiunto allinea-mento alle correnti grafiche della penisola italiana. Anche le scritturedocumentarie riflettono il nuovo orientamento culturale e politico: lacancelleria arborense adotta nel corso del XIV secolo l’elegante ‘minu-scola cancelleresca italiana’ e la documentazione prodotta nelle scri-banie dei comuni di Castel di Castro, di Villa di Chiesa e di Sassariattesta l’uso della ‘minuscola notarile’ di tipo italiano, ricca di abbre-viazioni e legata ai canoni della ‘gotica’ documentaria.

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1 Le traduzioni in italiano degli originali in latino o in catalano sono quelledesunte dai testi indicati in nota. Le traduzioni dei documenti 1-4, 7-9 sono, inve-ce, a cura dell’autore. I documenti ripropongono fedelmente le edizioni utilizzate,tranne che per alcune varianti alla punteggiatura, finalizzate ad una maggiore frui-bilità del testo; solo per i documenti 7-8 il testo è stato rivisto e corretto sull’ori-ginale.

Capitolo I

Documenti I1

Doc. 1Donazione del Giudice Barisone I di Torres al monastero di Mon-tecassino (1064/65)

L’atto di donazione delle chiese di Santa Maria di Bubalis e diSant’Elia di Montesanto da parte del Giudice Barisone I di Torres,redatto dallo scrivano sardo Nicita, costituisce una delle prime e piùsignificative testimonianze dei fitti rapporti intercorsi fra il regno giu-dicale di Torres e i Benedettini di Montecassino. Mezzo secolo più tardiun vero exercitus Dei, costituito da Cassinesi, Vittorini, Camaldolesi,Cistercensi e Vallombrosani, si sarebbe stabilito in tutti i Giudicatisardi, beneficiando delle generose donazioni di chiese, terre, servi ealtri beni, mobili ed immobili, elargite dai Giudici di Càlari, Arborea,Torres e Gallura.

In nomine Dei eterni miserator et pii. Renna<n>te domino Barossone enepote eius donno Marianus, in renno quo dicitur Ore, deinde donniceloMariane e don<n>icelo Petro e donnicelo Comita simul cu<m> omnibus fra-tes e parentes eorum, considerabimus e memorabimus nobis de omnibus pec-

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catis nostris e pro mercede e redençione anime nostre ud ic ed in eternumdomini requie e misericordia inbenire baleamus, sic tradidimus atque concedi-mus basilica Sancte Marie Dei genetricis Domini, de loco quod dicciturBubalis, deinde Sancto Elias de Monte Sancto cum omnibus que modo abented antea, iubante Deo, dare illis potuerimus cum caritate perfecta. Sic tradidi-mus illos monasterios nostros a basilica e monasterio Sancte Benedictus quidicitur Castro Caxinom ed a donno Desiderio gratia Domini abbas ed a suossuccesores ad abendu, tenendu atque possidendu e faciendu omnia quidquidud illis necesaria in isos monasterios. Et nullus rege qu<i p>ost obito nostrorennabit hi non <a>beat comiato retraere abbas in bita, e si migrabit de istiusseculi hi e nunque avet alius quod fac<e>ret ad abas, dirigat misos agereSancti Benedicti ed acipiat alius abbas.

Et xi quista cartula, quod nos iusi furi, estruere aut esterminare boluerit, sibeiudice sibe donna, estrumet Deus nomen suu de libro bibençiu e carres eius dir-rupiat bolatilibus celi et bestias teren<as> e fiat maledicti de sancto Benedicto et.XII. Appostoli et .XVI. Prophete, ed aveat malediçione de .IIII. Ebangelistas:Marcus, Maçceus, Lucas et Iohannes, et .VIIII. ordines A<n>gelorum et .X.Arcangelorum ed apiriat illis terra e deglutiat eos bibos sicut deglutibit Datan,Coren ed Abiron, e fiat maledicti de omnes sancti e sanctas Dei. Amen. Fiat.Amen. Fiat. Fiat.

Et xi quista brebe audire ea boluerit e disserit quia ben’ est, abeat benedic-tione de domino nostru Ieso Cristo e de sancta gloriosa matre eius Maria eda<beat> benediçione de sanctum Benedictu e de sanctum Elias confecsor edabeat benediçione de omnes <sanctos> e sanctas Dei quod superius diximus.Amen. Fiat. Fiat.

Nicita lebita iscribanus in palacçio regis iscrisi quod in illa ora fuit tenebree paucu lumine abu<it> in illa ora, e grande press’ erat michi. Domino abatede Casinensis mons quod setis in serbiççiu Dei e sanctum Benedictum, nomichi teneatis in detuperiu, si ‘mbemnietis lictera edificata male, bos quisapies estis, <e>mendate in corde bestro ed orate pro me misero et gulpabile,quo ego so testimoniu.

Nel nome di Dio eterno, misericordioso e pio. Durante il regno del GiudiceBarisone e di suo nipote, il Giudice Mariano, nel regno chiamato Ore (da cui ilpiù tardivo coronimo Logudoro = locu de Ore), insieme ai donniceli Mariano,Pietro e Comita, unitamente a tutti i loro fratelli e ai loro genitori, abbiamorichiamato alla nostra memoria e abbiamo meditato su tutti i nostri peccati e perla grazia e redenzione della nostra anima, affinché ora e per l’eternità ci sia datala possibilità di godere della pace e della misericordia del Signore.

Per questo motivo abbiamo dato e concesso la chiesa di Santa Maria, geni-trice del Signore (figlio) di Dio, ubicata nella località denominata Bubalis, edi Sant’Elia di Montesanto con tutti i beni che ora possiedono e che in futuro,con l’aiuto di Dio, potremo concedere loro con perfetta carità; così abbiamoaffidato quei nostri monasteri alla chiesa e al monastero di San Benedetto, cheviene chiamato Castel Cassino e concesso a donno Desiderio, per grazia del

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Signore abbate, e ai suoi successori, perché li abbiano, li tengano e li possie-dano e vi facciano tutte le cose che reputano necessarie in quei monasteri.

E nessun re, che in seguito regnerà qui dopo la nostra morte, abbia la pos-sibilità di sostituire l’abbate, se ancora in vita, e se questo si allontanerà daquesto mondo, e non ci fosse un altro che faccia da abbate, invii messaggerialla grazia di San Benedetto e prenda un altro abbate. E se avrà voluto annul-lare o distruggere questo documento, che noi abbiamo fatto, sia esso un Giu-dice o una Giudicessa, Dio tolga il suo nome dal libro dei viventi e la sua carnesia profanata dagli uccelli del cielo e dalle bestie della terra e sia maledetto dasan Benedetto, dai .XII. Apostoli e dai .XVI. Profeti, ed abbia la maledizionedei .IIII. Evangelisti: Marco, Matteo, Luca e Giovanni, dei .VIIII. Ordini degliAngeli e .X. degli Arcangeli e si apra sotto di loro la terra e li inghiotta vivi,così come ha inghiottito Datan, Coren e Abiron, e sia maledetto da tutti i santie le sante di Dio. Amen, così sia, amen, così sia, così sia.

E se ha voluto ascoltare queste brevi raccomandazioni e ha riconosciuto chesono una cosa buona, abbia la benedizione del Signore nostro Gesù Cristo edella sua santa gloriosa madre, Maria, e abbia la benedizione di san Benedettoe di san Elia Confessore ed abbia la benedizione di tutti i santi e le sante di Dioche abbiamo precedentemente ricordato. Amen, così sia, così sia.

Io Nicita, diacono, scrivano nel palazzo del re, scrissi (questa carta) in quel-l’ora del giorno che era buio ed ebbi poca luce e mi avevano messo molta fret-ta. Donno abbate di Montecassino, che siete al servizio di Dio e di sanBenedetto, non giudicatemi male se troverete lettere mal scritte, voi che sietesapiente perdonatemi nel vostro cuore e pregate per me, misero e colpevole,per il fatto che sono testimone.

Fonte: P. MANINCHEDDA, Medioevo latino e volgare in Sardegna, Cagliari,CUEC, 2007, doc. 1, pp. 161-162.

Doc. 2Donazione del Giudice Orzocco di Càlari al monastero diMontecassino (Uta, 5 maggio1066)

Il Giudice di Càlari Orzocco Torchitorio I, insieme alla moglie Vera eal figlio Costantino, donano al monastero benedettino di Montecassinosei chiese, ubicate nella diocesi di Sulci, a condizione che da quell’abba-zia, allora retta da Desiderio (eletto nel 1086 papa, con il nome di VittoreIII), venga inviato un monaco per fondare un monastero nel Giudicato.È stato ipotizzato che con questa donazione il Giudice intendesse ottem-perare alla penitenza impostagli da papa Alessandro II per i numerosiomicidi da lui commessi, che prevedeva la costruzione di un monasterodestinato a fratres qui Deo servirent honeste.

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In nomine Domini nostri Iesu Christi Dei eterni. Anno ab incarnatione eiusmillesimo .LXVI. regnante domino nostro Torkitori, rex Sardinee de locoCallari, una cum uxor sua domina Vera et filio eius dompno Constantino, feci-mus carta ad honore domini nostri Iesu Christi ad ecclesia et monasterio SanctiBenedicti a tempore dompni Desiderii abbatis, pro redemptionem animabusnostris et de nostris parentibus, et si est ut mandetis ad nos vester monacus cumcodicibus et omnis argumentum ad monasterium facere et regere et gubernare.Damus eis Sanctum Vincentius de Taverna cum plures servos et cum omniaquantum habet, et Sancta Maria de Flumine Tepidus similiter, et Sancta Marthasimiliter, et Sancto Pantaleo de Olivano similiter, Sancto Georgi de Tului simi-liter, et Sancta Maria de Palma similiter, ad faciendum monosterium ad honoreSancti Benedicti de Monte Cassino ut in die iudicii dimitta[t] nobis Dominushomnibus peccatis nostris.

Ita dicimus et confirmamus et testamur, primus omnipotens Deus et omni-bus sanctis deinde filios meos Thirchi et Mariane et fratres meos donikellusPetro et donikellus Comita et zio meo Zerchis de Orano et Constantinus deOrrubu loco salvatore.

Et ego Constantinus diaconus, dictus nomine de Castra, scripsit hanc carta pre-cipiente michi domino meo Torgotorius rex, a Deo electus vel coronatus, .VIII.anno regni eius, tertio nonas madias, indictione .IIII., in vico que dicitur Uta.

Et qui ista cartula vult destruere aut frangere fiat anathematizatus da patremet filium et spiritu sancto. Amen. Fiat, fiat.

Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, Dio eterno, nell’anno della suaincarnazione 1066, durante il regno del nostro donno Torchitorio, re di Sar-degna del luogo di Càlari, insieme con sua moglie donna Vera e con il lorofiglio, donno Costantino, abbiamo redatto questo documento in onore dinostro Signore Gesù Cristo, a favore della chiesa e del monastero di SanBenedetto all’epoca dell’abbate Desiderio, per la salvezza delle anime nostree dei nostri padri, a condizione che mandiate a noi un vostro monaco concodici e tutto ciò che serve per costruire, dirigere e amministrare un monaste-ro. Gli diamo San Vincenzo di Taverna con molti servi e con tutti i beni chepossiede, e Santa Maria di Flumentiepido alle stesse condizioni, e SantaMarta alle stesse condizioni, e San Pantaleo di Olivano alle stesse condizioni,San Giorgio di Tului alle stesse condizioni, Santa Maria di Palma alle stessecondizioni, perché venga edificato un monastero in onore di san Benedetto diMontecassino, affinché nel giorno del giudizio il Signore perdoni tutti i nostripeccati.

In questo modo diciamo e confermiamo e testimoniamo, (sono testimoni)per primo Dio onnipotente e tutti i Santi, quindi i miei figli, i ‘donnicelli’Zerchi e Mariano, e i miei fratelli, ‘donnicello’ Pietro e ‘donnicello’ Comita, emio zio, Zerchi de Orano, e Costantino de Orrubiu, loco salvatore (colui chevigila sul territorio del regno).

Ed io Costantino, diacono, soprannominato de Castra, scrissi questa cartaessendomi stato ordinato dal mio signore, il re Torchitorio, eletto ossia incoro-

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nato da Dio, nell’ottavo anno del suo regno, tre giorni prima delle none dimaggio, indizione IIII, nel villaggio di Uta.

E chi vuole distruggere o infrangere questo documento sia maledetto dalPadre e dal Figlio e dallo Spirito Santo. Amen. Così sia, così sia.

Fonte: A. SABA, Montecassino e la Sardegna Medioevale. Note storiche ecodice diplomatico sardo cassinese, Sora, Tipografia Editrice P.C. Camastro,1927, doc. 2, pp. 135-136.

Doc. 3Lettera del pontefice Gregorio VII ai Giudici di Sardegna (Capua,14 ottobre 1073)

Gregorio VII scrive ai Giudici Mariano di Torres, Orzocco diArborea, Orzocco di Càlari e Costantino di Gallura per richiamarli inseno alla Chiesa di Roma dalla quale si sono allontanati con tutto illoro popolo, quasi fossero dei selvaggi, e li invita a riflettere sulle sueparole; li informa, inoltre, di aver affidato all’arcivescovo di TorresCostantino il compito di riferire loro nel dettaglio su come i rapporticon i regnanti di Sardegna e le loro genti possono essere ricomposti erafforzati, nell’interesse loro e della Chiesa di Roma.

Gregorius, episcopus, servus servorum Dei, Mariano Turrensi, OrzoccoArborensi, Orzocco Caralitano, et Constantino Callurensi, iudicibus Sardiniae,salutem et apostolicam benedictionem.

Vobis et omnibus, qui Christum venerantur, cognitum est quod RomanaEcclesia universaliter mater sit omnium christianorum. Que licet e considera-tione officii sui omnium gentium saluti debeat invigilare, specialem tamen etquodammodo privatim, vobis sollicitudinem oportet eam impendere. Verumquia negligentia antecessorum nostrorum caritas illa friguit, que antiquis tem-poribus inter Romanam Ecclesiam et gentem vestram fuit, in tantum, a nobis,plus quam gentes, que sunt in fine mundi, vos extraneos fecitis, ut Christianareligio inter vos ad maximum detrimentum devenit. Unde multum vobis neces-sarium est, ut de salute animarum vestrarum studiosius admodum cogitetis etmatrem vestram Romanam Ecclesiam sicut legitimi filii recognoscatis et eamdevotionem, quam antiqui parentes vestri sibi impenderunt, vos quoque impen-datis. Nostri autem desiderii est non solum de liberatione animarum vestrarumcuram velle habere, sed etiam de salvatione patrie vestre sollicitius invigilare.Unde si verba nostra, sicut decet, devoti receperitis, gloriam et honorem in pre-senti et futura vita obtinebitis. Quodsi aliter, quod non speramus, feceritis et adsonum exhortationis nostre aurem debite obedientie non inclinaveritis, nonnostre incurie, sed vestre poteritis culpe imputare, si quid periculi patrie vestre

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contigerit. Cetera, que de salute et honore vestro tractamus, magna ex parteconfratri nostro Constantino Turrensi archiepiscopo vobis referenda commisi-mus. At cum legatus noster, quem Deo annuente in proximo mittere disponi-mus, ad vos venerit, voluntatem nostram pleniter vobis significabit et, quodglorie et honori vestro condecet, apertius enarrabit.

Data Capue, II Idus Octobris, Indictione XII.

Gregorio, vescovo, servo dei servi di Dio, (rivolge) il suo saluto e la suaapostolica benedizione ai Giudici di Sardegna: Mariano di Torres, Orzocco diArborea, Orzocco di Càlari e Costantino di Gallura.

A voi e a tutti coloro che venerano Cristo è ben noto che la ChiesaRomana sia la Madre universale di tutti i Cristiani; ma benché essa debbaoccuparsi della salvezza di tutti i popoli, tuttavia è opportuno che, in conside-razione del proprio dovere, applichi a voi una considerazione speciale e incerto modo particolare. Poiché, a causa della negligenza dei nostri predeces-sori, andò raffreddandosi quella carità che anticamente ci fu tra la ChiesaRomana ed il vostro popolo, vi siete allontanati da noi, più ancora di quellegenti che vivono ai confini del mondo, a tal punto che la religione cristiana ègiunta presso di voi alla massima decadenza. Per questo motivo è assai neces-sario per voi che riflettiate con la maggiore cura possibile sulla salvezza dellevostre anime, riconosciate come figli legittimi la Chiesa Romana quale vostramadre e che anche voi dimostriate quella devozione che i vostri antichi padriper il proprio bene dimostrarono.

In verità è nostro desiderio non soltanto voler avere cura della salvezzadelle vostre anime, ma anche occuparci con maggior attenzione della salvez-za della vostra patria. Perciò se devotamente accoglierete, così come è giustosia, le nostre parole, otterrete nella vita presente e in quella futura gloria eonore; se, invece, vi comporterete diversamente, cosa che noi non auspichia-mo, se non rivolgerete l’orecchio con la dovuta obbedienza al suono dellanostra esortazione, potrete attribuire non alla nostra disattenzione ma allavostra colpa se qualche pericolo toccherà in sorte alla vostra patria. Per quan-to riguarda le rimanenti questioni, delle quali ci occupiamo in merito allavostra salvezza e al vostro onore, abbiamo affidato al nostro confratello, l’ar-civescovo Costantino di Torres, il compito di riferirvene la maggior parte. Maquando il nostro inviato, che disponiamo di inviare da voi fra poco tempo, seDio vorrà, sarà giunto da voi, egli stesso vi esporrà pienamente la nostravolontà e in modo più chiaro vi spiegherà ciò che si addice alla vostra gloriae al vostro onore.

Scritta a Capua, due giorni prima delle idi di ottobre, indizione XII.

Fonte: Das Register Gregors VII, in Monumenta Germaniae Historica,Epistulae selectae, 2 voll., a cura di E. Caspar, Berlin 1920, I, 29, pp. 46-47.

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Doc. 4Donazione del Giudice Costantino di Càlari al monastero di SanVittore di Marsiglia (1089)

Il Giudice di Càlari Costantino Salusio II dona a Riccardo, abbatedel monastero benedettino di San Vittore di Marsiglia, la chiesa di SanSaturnino perché vi costruisca accanto un monastero secundum Deum,ossia secondo i principi propugnati dal movimento di riforma dellaChiesa. Nella donazione sono ricordate anche altre chiese delGiudicato, tra le quali meritano di essere segnalate le antiche chiese diSant’Antioco, nella diocesi di Sulci, e di Sant’Efisio a Nora, noti san-tuari martiriali paleocristiani, il cui culto si è perpetuato nei secolisino ai nostri giorni.

In nomine Domini. Notum sit omnibus fidelibus de gremio sanctae matrisEcclesiae. Ego Constantinus, gratia Dei rex et iudex Calaritanus, ob remediumanimae meae, et parentum meorum, et filiorum meorum cum consilio fratrumet omnium fidelium meorum, dono, concedo Domino Deo, et sancto Victorimartyri, et domno Richardo, et monachis eius in monasterio Massiliensi, tampraesentibus quam futuris, ecclesiam sancti Saturnini cum suis appendiciis, inpotestate et dominio, ut monasterium ibi secundum Deum construant, et habi-tantes secundum regulam sancti Benedicti vivant, et morentur, bonos ad hono-rem Dei congregent, malos vero disperdant et eradicent. Dono igitur praedictomonasterio sancti Saturnini ecclesiam sancti Antiochi, quae est in insula deSulsis, et ecclesiam sanctae Mariae, quae est in Palma, et ecclesiam sanctiVincentii de Sigbene, et ecclesiam sancti Evisi de Mira, et ecclesiam sanctiAmbrosii de Itta, et ecclesiam sanctae Mariae de Ghippi, et ecclesiam sanctaeMariae de Arco, et ecclesiam sancti Eliae de Monte, cum omnibus quas habe-re videntur vel ad eas pertinent, mobilibus et immobilibus, terris tam cultisquam incultis, vineis, pratis, silvis, pascuis, servis et ancillis, cum omnibus ani-malibus eius, iumentis, bobus, vaccis, ovibus, ircis, capris, porcis. Dono insu-per medietatem decimae meae ex integro praefato monasterio sancti Saturnini.

Haec omnia quae praedixi bono animo et ex bona voluntate mando et prae-cipio, ut inconcussa in perpetuum firmaque permaneant, tali tenore, ut nequeabbas, vel successores eius Massilienses alienandi vel trasmutandi in alodiumvel feodium alteri ecclesiae, vel alicui personae habeat potestatem. Quod siego, vel aliquis successorum vel heredum meorum, seu aliqua persona hancdonationis cartam infringere aut annullare temptaverit, sive, quod absit, huicdono et praecepto meo obviare sive contraire praesumpserit, nec hoc valeatvendicare, sed insuper iram Dei omnipotentis incurrat, atque anathematis vin-culo obligatus, a liminibus sanctae universalis Ecclesiae segregetur nisi resi-puerit. Ad haec etiam mille libras argenti optimi se noscat compositurum, haccarta firma et stabili permanente.

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Ego Wido, notarius domini regis, ac iussione ipsius domini Constantiniregis et iudicis, scripsi; anno ab incarnatione Domini millesimo octuagesimonono, indictione decima.

† Constantinus rex et iudex firmavi. † Iorgia regina firmavi. † Marianus iudex et rex, filius ipsius Constantini, firmavit […].

In nome del Signore. Sia noto a tutti i fedeli del grembo di Santa MadreChiesa. Io Costantino, per grazia di Dio re e Giudice di Càrali, per la salvez-za dell’anima mia e dei miei genitori e dei miei figli, con il parere dei fratellie di tutti i miei sudditi, dono e concedo al Signore Dio e a san Vittore martiree a donno Riccardo e ai suoi monaci, (residenti) nel monastero di Marsiglia,sia a quelli presenti che a quelli che verranno, la chiesa di San Saturnino conle sue pertinenze, in pieno possesso e dominio, affinché costruiscano lì unmonastero secondo Dio, e coloro che lo abitano vivano secondo la regola disan Benedetto e vi risiedano, e radunino i buoni per l’onore di Dio ed invecedisperdano e allontanino i malvagi. Dono dunque al predetto monastero di SanSaturnino la chiesa di Sant’Antioco, ubicata nell’isola di Sulcis, e la chiesa diSanta Maria, ubicata nella (villa) di Palma, e la chiesa di San Vincenzo diSigbene, e la chiesa di Sant’Efisio di Nora, e la chiesa di Sant’Ambrogio diUta, e la chiesa di Santa Maria di Gippi, e la chiesa di Santa Maria di Arco, ela chiesa di Santa Elia di Monte, con tutti i beni che sono in loro possesso osono ad esse pertinenti, mobili ed immobili, terre sia coltivate che incolte,vigne, prati, boschi, pascoli, servi e ancelle, con tutti i loro animali: giumente,buoi, vacche, pecore, capri, capre, maiali. Dono, inoltre, la metà della mia de-cima per intero al suddetto monastero di San Saturnino.

Ordino e dispongo tutte queste cose che ho appena detto, con animo gene-roso e con buona volontà, affinché per l’eternità rimangano immutate e stabi-li, secondo il seguente tenore, affinché neppure l’abbate, o i suoi successorimarsigliesi, abbia il potere di alienare o di mutare in allodio o in feudo (daconcedere) ad un’altra chiesa o a qualche persona. Posto che se io, o qualcu-no dei miei successori o eredi, o qualsivoglia altra persona, tenterà di infran-gere o annullare quest’atto di donazione o, ciò non avvenga, penserà di con-travvenire o opporsi a questo mio dono e disposizione, o sostenere che questanon sia valida, egli certamente incorra nell’ira di Dio onnipotente e, sottopo-sto al vincolo dell’anatema, sia segregato ai confini della Santa Chiesa univer-sale se non si pentirà. Oltre a tutto ciò sappia che è obbligato a versare anchemille libbre di argento buono, (secondo quanto disposto in) questo documen-to certo e permanentemente valido.

Io Guido, notaio del signor re, scrissi su ordine dello stesso donno Costantino,re e Giudice, nell’anno dell’incarnazione del Signore 1089, indizione X .

† Costantino, re e Giudice, firmai.† Giorgia, regina, firmai.† Mariano, Giudice e re, figlio di Costantino, firmò […].

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Fonte: Codex Diplomaticus Sardiniae, a cura di P. Tola, 2 voll., AugustaeTaurinorum, 1861-1868, I, sec. XI, doc. 17, pp. 161-162.

Doc. 5Vita di Gonario, Giudice di Torres negli anni 1127-1153, daun’anonima Cronaca in lingua sarda della fine del XIII secolo

La Cronaca sarda, meglio nota come Libellus iudicum Turritanorum,narra sotto forma di biografia la storia dei Giudici di Torres e copre unarco cronologico di circa duecento anni: dalla seconda metà dell’XIsecolo sino al 1259, anno di morte della Giudicessa Adelasia. Parti-colarmente significativa, quasi esemplare, la biografia del GiudiceGonario, la cui storia ha per palcoscenico il Mediterraneo, da occiden-te a oriente. Il Giudice nel 1147 lascia la Sardegna per recarsi pellegri-no in Terra Santa; durante il viaggio sosta a Montecassino e qui il dia-cono Giovanni, notaio della Curia, redige il documento con il qualeGonario conferma al monastero fondato da san Benedetto tutte le dona-zioni fatte dai suoi predecessori e dai maggiorenti del Regno, ed eglistesso dona alcune chiese del Logudoro cum omnibus pertinentiis eo-rum, et ecclesiis eis concessis, cum servis et ancillis, terris et vineis, cul-tis et incultis, silvis et pascuis, saltibus, planitiis, montibus et vallibus,molendinis, acquis acquarumque decursibus (A. SABA, Montecassino ela Sardegna Medioevale cit., doc. 26, pp. 183-186). Visitata Gerusalem-me, durante il viaggio di ritorno, Gonario incontra Bernardo diClairvaux, fondatore dell’ordine Cistercense, guida spirituale e politicadell’Europa di quel periodo. Il pio Giudice, rientrato in Sardegna, favo-riva la penetrazione nel regno di Torres dei monaci Cistercensi, ai qualiaffidava l’abbazia di Cabuabbas.

De juigue Gunare, figiu de juigue Constantinu. Restende minore su dictu juigue Gunari, segundu qui est naradu, si pesait

unu lieru benevolente et fidele de juigue Constantinu, de sa terra matessi, cla-madu Itocor Cambellas, su quale haviat in bardia su dictu pizinnu, ziò est, ajuigue Gunari. Comente morisit su babu, ziò est juigue Constantinu, de pre-sente sindilu leait, su dictu pizinnu, pro dubidu qui no lu boquiren sos inimi-gos de su babu, qui fuit sa partida de sos de Tene Archiados et isos Trabunas,et secretamente quelu leait a portu de Turres, qui tandu fuit habitadu et pobu-ladu de mercantes pisanos, homines de bene et ricos. Et acumandadu a su dictupizzinnu a sos dictos mercantes, lu leaint et portaruntilu a Pisas et presentàn-tilu asa Comunidade de Pisas; su quale rezisin et acceptaint volenteri et acco-modaint a unu cavalleri, homine de bene et principale de Pisas, clamadu mos-

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sen Ebriando, pro qui lu crearet et lu amanestraret in virtudes. Su dictu mos-sen Ebriando lu azetait volenterimente et de bonu animu et lu tensit fini a quifuit de degue sette annos. Et essende de edade et habilidade qui podiat faguerbene sos fatos suos, unu die, su dictu mossen Ebriando, lu presentait a sosSeñores de sa Comunidade de Pisas. Breve, comente lu vidisin ià mannu ethabile de poder faguer sos fattos suos pro satisfacione de sos travallos quindehaviat apidu su dictu mossen Ebriando, lu coiuain cun una figia sua.

Fattas sas festas de su matrimoniu, deliberait de venner in Sardinna: et gasisinde venisit, cun bator galeras bene armadas, in compannia de su sogru et ate-ros principales de Pisas, et desinbarcain in portu de Turres, cum grande favo-re et triumphu: et gasi lu accettain pro juigue et donnu de Logudoro. Dae portude Turres sinde benisit in su palatu de Arderi, in su quale logu intrait secundusa patria; et dae Ardari sinde andait a su monte de Gosiano, et vidente su dictulogu misit manu cun su dictu sogru sou mossen Ebriando a faguir su casteddude Gosiano, su quale in pagu tempus fuit factu. Et vidende su dictu mossenEbriando qui su genero sou hauiat apidu tota sa terra et Señoria et isquiat yabene reger et governare, si lesensiât et torraitsinde a Pisas a domo sua; et jui-gue Gunari restait in su casteddu de Gosiano.

Perseguitait tantu sos enemigos et contrarios suos, qui fetit boquire in sa portade su casteddu de Gosiano a unu primargiu sou, de sos altos et mannos deLogudoro, et fetit boquire in sa ecclesia de Santu Nicola de Truddas, dae segusde su altare, de sos grandes Lieros de Logudoro, de sos de Attene Archiados dePutumayore; et gasi, in pagu tempus, castigait totu sos inimigos suos. Et regor-dandesi de sos bonos servisios qui li haviat fatu Ittocor Cambellas, lu fetit caval-leri et li donait sas villas detsa Turpe de Romangia, cun sos saltos et terras.

Et regnande in bona et tranquilla pague, cun grande amore et bona volun-tade de totu su populu, apisit battor figios: ziò est, domizellu Barizoni, domi-zellu Pedru, domicellu Ittocor, domicellu Comida. Et considerende qui haviatfatu mali meda contra a Deu et a su proximu, deliberait de andare a Jerusalema visitare su Santu Sepulcru et isos ateros logos santos; fatta sa deliberacionequi haviat leadu, et pro qui inter issos istaren in pague et amore, lassait in logusou, pro juigue de Logudoro, a juigue Barizone, comente et primu genitu suo,et a domicellu Pedru dait sa curadoria de Otana, et a domicellu Ittocor dait sacuradoria de Frissia, et a domicellu Comida dait sa curadoria de Ogianu et deAngione.

Fattu su dictu partimentu, leait lisensia dae sos Prelados et Lieros deLogudoro; sinde andait in Jerusalem et, fattu qui apisit totu sas promissas etdevosiones suas, sinde torrait in Sardinia. Et torrendesinde, passât per isu rea-men de Pula et, de ventura, dait in una terra unde fuit santu Bernardu, abbadede Claravalle; et comente isquisit juigue Gunnari qui in cuddu logu fuit santuBernardu, deliberait de visitarelu: et gasi lu visitesit et apisit grande conversa-sione unpare. Ultimamente su dictu juigue deliberait de faguer unu monaste-riu in Sardinna, de su dictu Ordine de santu Bernardu, et santu Bernardu li pro-mitisit de mandareli sos monagos; et gasi in cussa deliberasione si licensiâtdae santu Bernardu et benisinde in Sardinna.

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Torradu qui istetit in sa Sennoria, a pagu tempus santu Bernardu li mandâtquentu quimbanta monagos et quimbanta conversos, in quo promissu li haviat;et comente juigue Gunnari vidisit sos monagos sinde apisit grande piaguere etde presente cominchait a fabricare su monasteriu de Cabu de Abbas de Sindia,su quale in breve tempus fuit fattu, et posit inie sos dictos frades. Et fattu sudictu monasteriu et postu sos frades, bi lassait grandes rendas; et assos figioslassait segundu su partimentu aviat fattu, et isse torait a su monasteriu deClaravalle et innie finisit sos dias suas in servisiu de Deu.

Il Giudice Gonario, figlio del Giudice Costantino. Poiché Gonario non aveva raggiunto la maggiore età – secondo quanto già

riferito – si offrì come tutore un personaggio ragguardevole del regno, chia-mato Ittocorre Cambellas, leale e fedele al Giudice Costantino e della sua stes-sa terra.

Alla morte del sovrano, Ittocorre senza indugio prese con sé il ragazzo pertimore che fosse ucciso dai nemici del padre, che appartenevano alla fazionedegli Athen e dei Trabunas. Segretamente lo condusse al porto di Torres, allo-ra abitato e frequentato da mercanti pisani, uomini onesti e facoltosi. Ittocorreconsegnò Gonario ad alcuni di loro, ed essi lo portarono a Pisa e lo presenta-rono al comune, che volentieri lo accolse e gli diede ospitalità. Il consiglio cit-tadino affidò la tutela del bambino ad un cavaliere chiamato messer Ebriaci,uomo illustre ed influente, perché lo allevasse e lo educasse secondo i saniprincipi morali. Il nobile accettò l’incarico di buon animo e lo tenne presso disé fino all’età di diciassette anni, fino a quando il giovane, divenuto ormaimaggiorenne e capace di assumersi le proprie responsabilità, fu nuovamentepresentato al comune di Pisa. I rappresentanti della città, in breve, come lovidero adulto e pronto ad interessarsi dei suoi affari, disposero di maritarlo conuna figlia di messer Ebriaci, per ricompensare costui degli oneri sostenuti nel-l’educazione del ragazzo.

Celebrate le nozze, Gonario decise di tornare in Sardegna; e così fece. Incompagnia del suocero e di altri notabili pisani sbarcò al porto di Torres conquattro galere ben armate tra il tripudio generale della popolazione, che in talmodo lo riconobbe come Giudice e signore del Logudoro. Da questo centro sidiresse verso Ardara, capitale del Giudicato, per insediarsi nel palazzo reale.In seguito si recò al monte di Goceano, luogo in cui stabilì con il suocero diedificare un castello, che fu eretto rapidamente. Messer Ebriaci, preso atto cheil genero era ritornato in pieno possesso della sua autorità e dei suoi domini, eche mostrava di saper ben governare, si congedò da lui e fece ritorno a Pisa,nella propria patria.

Il Giudice Gonario, rimasto nel castello del Goceano, perseguitò inesorabil-mente gli antichi avversari. Fece uccidere presso la porta della fortezza un suocugino, esponente di una delle più importanti casate del Logudoro, e alcunimembri della potente famiglia degli Athen di Pozzomaggiore, assassinati die-tro l’altare della chiesa di San Nicola di Trullas. In breve tempo si era così ven-

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dicato di tutti i suoi nemici. E ricordandosi dei fedeli servigi resigli dal suovecchio tutore, Ittocorre Cambellas, lo fece cavaliere e gli donò le ville diTurpe, in Romangia, con i salti e le terre.

Gonario regnò in pace con l’amore e la stima della sua gente; ebbe quattrofigli, cioè donnikellu Barisone, donnikellu Pietro, donnikellu Ittocorre e don-nikellu Comita. Ma avendo la consapevolezza delle gravi offese recate in pas-sato a Dio e al prossimo, decise di andare in pellegrinaggio a Gerusalemme pervisitare il Santo Sepolcro e gli altri luoghi sacri. Dopo l’approvazione di talevolontà da parte della Corona de Logu, e perché tra i figli regnasse la concor-dia, il sovrano dispose di lasciare la luogotenenza del Giudicato a Barisone, inquanto era il primogenito, mentre al donnikellu Pietro assegnò la curatorìa diOthan, al donnikellu Ittocorre la curatorìa di Frussìa e al donnikellu Comita lacuratorìa di Ogianu e di Anglona.

Stabilita questa divisione di incarichi, prese licenza dai Prelati e dai Liberidel regno. Partì così per Gerusalemme, e dopo aver pronunciato i voti e com-piuto gli atti di fede, intraprese il viaggio di ritorno per l’isola. Durante il tra-gitto passò per il regno di Apulia e, casualmente, giunse in una terra dove sitrovava san Bernardo, abbate di Chiaravalle. Venuto a conoscenza di ciò deci-se di recarsi da lui; cosicché lo incontrò ed ebbero una lunga conversazione.Alla fine il Giudice dispose di far costruire in Sardegna un monastero dell’or-dine di san Bernardo e lo stesso abbate gli promise che avrebbe inviato deimonaci. Con questo impegno reciproco Gonario si congedò da lui e riprese ilsuo viaggio.

Era trascorso breve tempo dal ritorno del sovrano in Logudoro che sanBernardo mandò nell’isola centocinquanta monaci e cinquanta conversi cosìcome aveva promesso. Quando Gonario vide i Cistercensi provò una grandegioia e senza indugio diede ordine di iniziare la costruzione del monastero diCapudabbas, a Sindia. L’abbazia fu terminata in poco tempo sicché si potero-no insediare i religiosi, ai quali furono lasciate cospicue rendite. Il sovrano,infine, ratificata la partizione del regno tra i figli, si ritirò nell’abbazia diChiaravalle, dove terminò i suoi giorni al servizio di Dio.

Fonte: Cronaca medioevale sarda. I sovrani di Torres, a cura di A. Oronesu eV. Pusceddu, Sassari, Astra Editrice, 1993, pp. 36-43.

Doc. 6Processi celebrati nel tribunale (Corona del Logu) presieduto, inassenza del Giudice di Arborea, dal suo rappresentante, l’ar-mentariu de logu Pietro Figus, e in quello del Giudice Barisonedi Torres (secoli XI-XII)

I condaghi del monastero camaldolese di Santa Maria di Bonarcadoe del monastero femminile benedettino di San Pietro di Silki conserva-

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no memoria di due controversie giudiziarie che hanno per protagonistil’abbate e la badessa che, in ambiti geografici e cronologici diversi,rivendicano la proprietà sui servi dei loro monasteri. Gli atti proces-suali – che nel caso di Bonarcado registrano fedelmente il dibattito egli interventi dei testimoni nel corso dell’assise – ci documentano sullecondizioni di vita dei servi sardi, che hanno personalità giuridica, pos-sono essere testimoni nei processi e nei documenti, possono citare ingiudizio i propri padroni e, soprattutto, possono possedere beni mobi-li e immobili, come dimostra il processo che ha come protagonista laserva di San Pietro di Silki.

Ego Nicolaus, priore de Bonarcatu, cun donnu Petru Murtinu, armentariumeu adpus sa domo de sancta Maria de Bonorcadu, fagemus recordatione prokertu ki fegerus in corona de donnu Petru de Figus armentariu de logu. Kerterusprossos fiios de Erradore Pisanu, ki fudi serbu de sanctu Jorgi de Calcaria,c’aviat fattus dave Bera de Zori et no llus boliat dare a sserbire. Et pedivitsekertadore suo in corona a donnu Furadu de Çori Zorrompis ki fudi parente suoet arresposit pro eu: «custus serbos, ki kertadis, fiios de libera sunt et imparenon furunt coiuados». Et naredi donnu Petru Murtinu ca «fiios dessu serbu desanctu Iorgi sunt et impare sunt istetidus dessus annos ·XX·». Et donnu Furadude Çori Zorrompis resposit et tramudessi, ca viiat ca llu podestava, et naredi:«fiios de ankilla de juigi sunt». Et donnu Petru Murtinu naredi ca «custa Berade Çori fiia de liberu et de libera est et issos fiios c’at fattus sunt fiios de serbude sanctu Jorgi et de custa libera». Iuigaruntimi ad bature destimonios ca fudiBera de Çori libera et de mama et de patre et ca fudi stetida cun su serbu desanctu Jorgi dessos annos ·XX·. Et batusi destimonios, ki iurarunt in bangeleude Deu ca «custa Bera de Zori fiia de Alene de Zori est, k’est libera»: Honoride Figu et Goantini de Lacon et Gunnari Zukellu et Jorgi Mamelli de villa deTremaza et Mariani de Lacon, Cannau de Bauladu et Orzoco de Varca deBaratiri, fradili primariu de Alene de Zori. Custos narrunt, dave co iurarunt, ca«custa Bera de Zori fiia de Alene de Zori est, k’est libera maiorali». Et proPetru Seke su padre batusi destimonios ad Tractasu de Unali et ad TorbiniMarçias et ad Comida Paanu et ad Petru d’Orruu de villa de Ziorfaliu et Furatude Nuri de Solarussa et Furadu de Lacon de Villalonga et Petru de Martis de Siimaiore. Custos iurarunt in bangeleu de Deu et narrunt, dave co iurarunt, ca«custa Bera de Çori est fiia de Petru Seke ki fudi liberu maiorali et de mama etde patre». Parsit resone assa iustitia ca ll’avia binkidu. Poserunt et torraruntimisos serbos: ad Petru de Çori et ad Mariane de Zori su frade.

Narei in corona ad Bera de Çori: «non boio k’istis plus cum su serbu desanctu Jorgi de Calcaria». Et Bera de Çori naredi: «pusco perdo ad fiios meos,non mi bolio bogare de·llu».

Et adcordarus·nos impare in sa corona ad plakimentu bonu de pare de sta-resi impare Bera de Zori cun su serbu de sanctu Jorgi pro maridu et pro muge-re et fiios cantos enti fagere essere serbos de sanctu Jorgi de Calcaria […].

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Io Nicolao, priore di Bonarcado, insieme con donno Pietro Murtinu, mioamministratore presso la casa di Santa Maria di Bonarcado, registriamomemoria riguardo alla lite giudiziaria che movemmo nell’assise del tribunalegiudicale presieduta da donno Pietro de Figus, amministratore del regno.

Litigammo per i figli di Erradore Pisanu, che era servo di San Giorgio diCalcaria, che egli aveva avuto da Vera de Zori e non li voleva dare a servire.E questi (Erradore Pisanu) richiese che rispondesse per lui in giudizio e soste-nesse la sua ragione donno Furato de Zori Zorrompis, che era parente suo erispose per lui: «Questi servi per i quali muovete lite, sono figli di una donnalibera e i due non erano sposati». E donno Pietro Murtinu disse: «Sono figlidel servo di San Giorgio e convivono insieme da vent’anni».

E donno Furato de Zori Zorrompis rispose e mutò linea e strategia di dife-sa, poiché si rendeva conto che quegli prendeva il sopravvento (nella condot-ta dell’azione giudiziaria), e disse: «Sono figli della serva del Giudice».

E donno Pietro Murtinu disse: «Questa Vera de Zori è figlia di un libero e diuna libera e i figli che ha fatto sono figli del servo di San Giorgio e di questa libe-ra». Mi imposero in giudizio che producessi i testimoni che provassero che Verade Zori era libera da parte di madre e di padre e che conviveva con il servo di SanGiorgio da vent’anni. E portai in giudizio testimoni, i quali giurarono sul vange-lo di Dio: «Questa Vera de Zori è figlia di Elena de Zori, che è libera»: Onorio deFigu e Costantino de Lacon e Gonario Zukellu e Giorgio Mamelli della villa diTramazza e Mariano de Lacon, Cannau de Bauladu e Orzoco de Varca di Baratili,cugino primo di Elena de Zori. Costoro dissero, dopo aver giurato: «Questa Verade Zori è figlia di Elena de Zori, che è libera maiorale».

E per quanto concerneva il padre di lei, Pietro Seke, produssi in giudizioquali testimoni Tractasu de Unali e Torbeno Marzias e Comida Paanu e Pietrod’Orruu della villa di Zerfaliu e Furatu de Nuri di Solarussa e Furato de Lacondi Villalonga e Pietro de Martis di Siamaggiore. Costoro giurarono sul vange-lo di Dio e dissero, dopo aver giurato: «Questa Vera de Zori è figlia di PietroSeke che era libero maiorale e da parte di madre e da parte di padre».

Parve ragione all’assise che io avevo vinto. Stabilirono che mi fossero restituiti i servi: Pietro de Zori e Mariano de Zori

suo fratello.Dissi io nell’assise a Vera de Zori: «Non voglio che tu stia più insieme con

il servo di San Giorgio di Calcaria». E Vera de Zori disse: «Dacché perdo i figli miei, non mi voglio separare da lui». E ci accordammo di comune volontà nell’assise che vivessero insieme Vera

de Zori e il servo di San Giorgio di Calcaria […].

Fonte: Il condaghe di Santa Maria di Bonarcado, a cura di M. Virdis, Nuoro,ILISSO, 2003, scheda 25, pp. 90-95.

Ego piscopu Jorgi ki tenni corona dessu donnu meu iudike Barusone, proMuscu de Joscla ki mi mandicauan a ffura Therchis d’Oruei, et Egithu; et egotènnide corona cun illos, e binkilos ca fuit ankilla intrega de sanctu Petru de

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Silki; et ego iurainde a gruke + ca fuit de sanctu Petru, e ttorraitimila issara sudonnu meu iudike Barusone, auende .ij. fiios fattos, a Petru et a Justa. Testesante ken iurai e binki, donnu Mariane de Serra, et Ithoccor de Uarru, e Petru deSerra, e maiorales cantos ui furun in sa corona. Et osca torrarun etro appare, affura co et innanti. Essende umpare moriuit su maritu, Janne Gemellu; e pus comoriuit Janne Gemellu bennerun sos don[n]os suos e lleuarun totta sa casa isso-ro, canta pararan umpare, e domos, e binias, e .ij. orrios plenos de lauore, e .ij.cupas de uinu, e .cl. argenthola de linu, e .xxx. inter discos, e cconcas, et .j.seruiente, et .j. mola; e iettarunidela, ad issa et assos fiios, kènende lis daredessa casa, e ssanctu Petru leu[a]itsi sos homines. Testes, Dorgotori de Roma,et Ithoccor de Kerki, e Petru de Setilo; custos ui furun kèrrande leuauan issossa casa, e ssanctu Petru leuait sos homines.

Io vescovo Giorgio che tenni tribunale del mio signore Giudice Barisone,per Muscu de Joscla, che Therchis d’Orvei e Egithu mi sfruttavano truffaldina-mente; e io tenni Corona con loro e li vinsi perché fu ancella integra di SanPietro di Silki; e io giurando a croce che fu di San Pietro, e costei (la serva) mela restituì il mio signore Giudice Barisone, avendo avuto due figli, Pietro eGiusta. Testimoni davanti ai quali giurai e vinsi: donnu Mariane de Serra elthoccor de Varru e Pietro de Serra e i maggiorenti, quanti ce n’erano in Corona.

E poi tornarono di nuovo insieme, a tradimento come prima. E mentre eranoinsieme morì il marito, Giovanni Gemellu; e dopo che morì Giovanni Gemelluvennero i suoi padroni e portarono via tutta la loro casa, quanto avevano acqui-stato insieme, e tenute e vigne e due orci pieni di grano e due botti di vino ecentocinquanta matasse di lino e trenta fra piatti e scodelle e un serviente e unamola; e la cacciarono via, lei e i suoi figli, senza darle niente della casa e SanPietro si riprese gli uomini. Testimoni: Torchitorio de Roma e Ithoccor de Kerkie Pietro de Setilo; questi erano presenti quando le portarono via la casa e SanPietro si prese gli uomini.

Fonte: Il condaghe di San Pietro di Silki. Testo logudorese inedito dei secoliXI-XIII, traduzione e introduzione a cura di I. Delogu, Sassari, Libreria DessìEditrice, 1997, scheda 44, pp. 82-83.

Doc. 7Donazione del Giudice Barisone I di Arborea all’Opera di SantaMaria di Pisa (giugno 1184)

Il Giudice di Arborea Barisone I del Lacon-Serra e la moglie, lacatalana Agalbursa de Bas, donano alla chiesa maggiore di SantaMaria di Pisa una casa rurale con numerosi servi ed ancelle, tre dome-stigas con le terre annesse e un bosco ghiandifero, una corte, tre vigne,e bestiame di varia specie.

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Il documento – redatto da Pietro Pagano, funzionario della cancel-leria dei Giudici di Arborea –, rappresenta un significativo mutamen-to della politica del Giudice, da sempre alleato della repubblica diGenova con il cui sostegno, morale ed economico, nel 1164 era statoincoronato a Pavia ‘re di Sardegna’ dall’imperatore Federico I Bar-barossa. La donazione all’Opera di Santa Maria di Pisa sottende unavolontà di avvicinamento al comune pisano, per interessi di naturapolitica e soprattutto economica, che si rafforzerà con i successori diBarisone I sul trono di Arborea.

Segnaliamo l’importanza dell’elenco dei testimoni, da cui emerge lacomplessa e significativa articolazione della società giudicale con lesue istituzioni e i suoi uomini, perlopiù incardinati nella prestigiosaclasse dei ricchi proprietari terrieri, i maiorales, spesso imparentaticon i Giudici e chiamati a ricoprire le più alte cariche dell’amministra-zione giudicale: curadore, maiore, armentario, ‘capitano’ della iscolca– corpo di guardia incaricato di vigilare sulle campagne per arginarefenomeni quali i furti di bestiame, gli incendi, lo sconfinamento delbestiame nelle terre coltivate –, maiore delle guardie del corpo delGiudice, la kita de buiakesos.

In nomine Domini, amen. Ego rege Barusone d’Arbaree et uxore mia donnaAgalborssa, regina de logu, cum boluntade de Deus et de omnes sanctos suos,fazo custa carta pro bene ki fazo ad Sancta Maria de Pisa, pro remissione desus peccados meos. Dolli sa domo de Sevenes, cun serbos et ankillas, dolli aGosantine Porru et Furada de Canale, sa mugere et tres fiios suos: Martinu etTorbine et Maria; Torbine Porru et Gosantine su fiiu; Maria Porru et Petru sufiiu; Gosantine Cogu et Bera, sa sorre, et Orzocor su fiiu; Maria Manca etIorgia, sa fiia; Tubintu et Alene, fiia sua, et Furadu, su fiiu, et Ladus deComida, su fiiu; et Ladus de Gunnare Lepore, Iokanne Marki et Comida deCei. Et dolli sa domestiga de Padru maiore, et issa domestiga Dabba de viniaet issa domestiga de Monte de cinnuri. Dolli saltus de glandi a pauli de cizo-nes, et corte de maiales, et erriu de vignas. Dolli sa bigna de bau nou et unabigna in bau de bignas et issa bigna de gutur dessa latara. Et dolli CLXXXXberbeges de lana et LV aniones et XXX porcos et XV cabras.

Et non apat ausu, non iudice non per unu homine mortale, kistrumet custubene capo factu ego rege Barusone d’Arbaree. Et sunt testimonios primusDeus et Sancta Maria, et Punzu nebode meu, et donnu Ugo, piscobu de SanctaIusta, et donnu Mariane Zorraki, piscobu de Terralba, et donnu Comida Bais,piscobu d’Usellos. De curadores: donnigellu Comida, curadore de Parte deGilciber et de curadoria de Barbaria d’Alaslaa, et Comida Ispanu, curadore deParte de Miili, et Gosantine Ispanu, curadore de Fodoriane, et Comida deLacon Pees et Comida de Lacon Deiana, curadores de factu de Parte deValenza suta Punzu nebode meu, et Orzocor de Lacon Sabiu, curadore de parte

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d’Usellos, et Pisanellu, curadore de factu de parte de Bonorzuli suta Punzunebode meu, et Barusone de Serra minore et Comida de Lacon fronte acuza,curadores de Campitano, et Gunnare de Lacon de Lella, curadore de villad’Aristanis, et Trogodori de Foge, maiore de buiakesos, cun golleganes suos.Et ego Petrus Paganus, ki scrixi custa carta in mense iunii.

Et qui habet dicere ca bene est de custu bene capo factu ego rege Barusoned’Arbaree habeat benedictione de Deus et de Sancta Maria et omnibus sanctissuis. Amen. Et qui habet dicere quia malum est, istrumet illu Deus dessa magi-ne sua, et de via de Paradiso, et habeat anathema de IIII Evangelistas et deVIIII Hordines Angelorum et de XII Apostolis et de XVI Prophetis et deXXIIII Senioribus et de CCCXVIII Patres Sanctos, et habeat parte cum Erodeet cum Iudas traditore et cum diabolus in inferno. Fiat, fiat. Amen, amen.

Anno ab incarnacione Domini millesimo CLXXXV.

Nel nome del Signore, amen. Io Barisone, re di Arborea, e mia mogliedonna Agalbursa, regina del regno (di Arborea), con la volontà di Dio e di tuttii suoi Santi e per la remissione di tutti i miei peccati emano questo atto didonazione a favore di Santa Maria di Pisa. Dono la casa rurale di Sevenes coni servi e le serve, che sono: Costantino Porru e la moglie Furata de Canale e iloro tre figli, Martino, Torbeno e Maria; Torbeno Porru e il figlio Costantino;Maria Porru e il figlio Pietro; Costantino Cogu, sua sorella Vera e suo figlioOrzocco; Maria Manca e sua figlia Giorgia; Tubinto e sua figlia Elena e suofiglio Furato (sono tutti servi ‘integri’), mentre Gonario Lepore, GiovanniMarchi e Comita Decei devono solo la metà del loro servizio (sono servi ‘late-rati’). Dono la domestiga di Prato maggiore e la domestiga d’Acqua dellavigna e la domestiga di Monte de cinnuri. Dono un bosco di querce in locali-tà pauli de cizones, la corte de maiales e il torrente che costeggia le vigne.Dono la vigna di bau nou, una vigna in località bau de bignas e la vigna degutur, che si trova dall’altro lato (del torrente); dono inoltre CLXXXX peco-re da lana, LV agnelli, XXX maiali et XV capre.

E nessuno, né Giudice né un altro uomo, osi contravvenire a quest’atto didonazione voluto da me Barisone, re di Arborea. E sono testimoni: in primoluogo Dio e Santa Maria; mio nipote Poncio; donno Ugo, vescovo di SantaGiusta, donno Mariano Zorrako, vescovo di Terralba, donno Comita Pais, vesco-vo di Usellus; e i curatori: donnichello Comita, curatore della curatoria diGilgiber e della curatoria della Barbagia di Alaslaa; Comita Ispanu, curatoredella curatoria di Milis; Costantino Ispanu, curatore di Fordongianus; Comita deLacon Pes e Comita de Lacon Deiana, curatori di fatto della curatoria di Valenza,che di diritto è sotto il governo di mio nipote Poncio; Orzocco de Lacon Sabiu,curatore della curatoria di Usellus; Pisanello, curatore di fatto di Bonorzuli, chedi diritto è sotto il governo di mio nipote Poncio; Barisone de Serra il giovane eComita de Lacon dalla fronte prominente, curatori del Campidano; Gonario deLacon de Lella, curatore della villa di Oristano; Torchitorio de Foge, capo delleguardie del corpo (del Giudice, la kita de buiakesos) con tutti i suoi uomini. Edio, Pietro Pagano, che scrissi questo documento nel mese di giugno.

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E chi dovesse sostenere che questo atto di donazione, voluto da me Bari-sone, re di Arborea, è una cosa buona, abbia la benedizione di Dio e di SantaMaria e di tutti i suoi Santi; chi invece dovesse dire che è una cosa mal fatta,Dio faccia scomparire la sua immagine e non lo ammetta in Paradiso, e quel-l’individuo incorra nella scomunica/anatema dei quattro Evangelisti, dei noveOrdini angelici, dei dodici Apostoli, dei sedici Profeti, dei ventiquattro Patriar-chi, dei trecentodiciotto Padri Santi e nell’Inferno condivida la sorte con Erodee con Giuda, il traditore, e con i diavoli. Così sia, così sia. Amen, amen.

Nell’anno dell’incarnazione del Signore 1185 (stile pisano).

Fonte: Codex Diplomaticus Sardiniae cit., I, sec. XII, doc. 113, p. 254.

Doc. 8Inventario degli argenti, dei libri e dei paramenti sacri delle chiesedi Santa Gilla, di San Pietro e di Santa Maria di Cluso nel Giudicatodi Càlari (25 maggio 1228)

Nella collezione Baille, custodita presso la Biblioteca Universitaria diCagliari, si conserva un piccolo codice membranaceo miscellaneo delXIII secolo, redatto in lingua latina medievale e appartenuto alla chiesadi Santa Maria di Cluso: Iste liber est Sante Marie de Cluso. Il manoscrit-to, verosimilmente compilato nello scriptorium annesso alla chiesa diSanta Maria di Cluso, raccoglie gli atti del Sinodo di Santa Giusta(1226), omelie, inni liturgici, annotazioni teologiche e pastorali, nonchéuna ricetta medica e, alle carte 28v-29r, l’inventario degli argenti, deilibri e dei paramenti sacri delle chiese di Santa Gilla, di San Pietro e diSanta Maria di Cluso, edifici di culto della villa o oppidum Sanctae Gillaeo Igiae, la capitale del regno giudicale di Càlari (secolo XI in.-1258).Proponiamo in questa sede le parti dell’inventario che documentano laconsistenza e la tipologia del patrimonio librario che alla data della suaredazione era ancora custodito nelle ‘biblioteche’ delle tre chiese. L’a-nalisi dei testi enumerati nell’inventario evidenzia l’influsso dei Bene-dettini di Montecassino e di Serravalle, ma anche legami con i Camal-dolesi toscani e, forse, con i Vittorini di Marsiglia, ai quali era apparte-nuta la chiesa di San Pietro.

In nomine Domini, amen. Anno gratie [M]CCXXVIIII, VIII kalendas iunii. Apud Sanctam Giliam libri depositi in bertulis: unum par Decretorum,

Summa decretorum magistri Huguitionis, Decretales secunde et tertie in unovolumine. Item in unum collecte Summa consecrationis ecclesiarum, prime De-cretales et Summa earum et De ordine iuditiorum, et Summa matrimonii et que-

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dam Sermones. Item Transcursus magistri Petri Capuani. Item Regum et Para-lipomenon in uno volumine. Duodecim prophete, Genesis, Tobias et Hester inuno volumine. Treni Ieremie. Tres libri Salomonis in uno volumine. QuatuorEvangeliste separatim. Actus apostolorum. Epistule Pauli. Augustinus, De gra-tia et predestinatione. Item alius Transcursus minor magistri Petri. Liber pasto-ralis. Dialogus. Natatorius qui est de sancto Vito.

Item in Sancto Petro libri ecclesiastici consueti. Nocturnalis grandis nematus.Item Nocturnalis minor non nematus coopertus rubeo. Antifonarius de nocte.Item Antifonarius de die. Epistularis. Psalterium. Duo Ordines, unus latinus altervulgaris. Unus quinternus de [mis]sis privatis. Unum Nocturnalem nematumhabet episcopus Suellensis sibi mutuatum. Item in archis de cappella […] Testusevangelicus paratus. Libri Pontificales II, liber Orationalis I […].

Item apud nos […]. Item libri ecclesiastici: Missale nematum cum libro Pon-tificali. Nocturnale nematum. Nocturnale viaticum. Psalterium nostrum, ordovulgaris. […] Item libri scolastici. Ystorie magistri Petri. Sermones Innocentiitertii. Alius liber sermonalis. Liber de sacramento misse. Liber Pastoralis. Liberde quadripartita consideratione. Liber de collationibus Patrum. Liber vite beatiBernardi. Lapidarius et de abbaco.

Nel nome del Signore, amen. Nell’anno di grazia 1229 (secondo lo stilepisano), otto giorni prima delle calende di giugno.

Presso Santa Gilla libri conservati all’interno di sacche: parte del Drecretum(di Graziano); la Summa decretorum del maestro Ugaccione (da Pisa); un volu-me contenente le Decretales secunde et tertie; una Summa alla terza parte delDecretum (di Graziano); la Compilatio prima e la Summa decretalium (diBernardo da Pavia) e il De ordine iuditiorum (di Tancredi da Bologna); la Summamatrimonii (di Tancredi da Bologna) e una raccolta di Sermoni; il Transcursusdel maestro Pietro Capuano; (alcuni libri dell’Antico Testamento): Dei re eParalipomenon in un volume; Dei dodici Profeti, Genesi, Tobia ed Ester in unvolume; Treni, Geremia e i tre libri di Salomone in un volume; i quattro Vangeliin (codici) separati; gli Atti degli Apostoli; le Epistole di san Paolo; il De gratiaet predestinazione di sant’Agostino; inoltre un altro Transcursus minore del mae-stro Pietro (Capuano); un Liber pastoralis; un (libro intitolato) Dialogus; ilNatatorius, scritto da san Vito.

Nella chiesa di San Pietro i soliti libri ecclesiastici: un grande Notturnaleneumato, un Notturnale minore non neumato coperto di (velluto?) rosso, unAntifonario da notte, un Antifonario da giorno, un Epistolario, un Salterio, duelibri Ordinari, uno in latino l’altro in volgare (in sardo o, forse, in italiano), unquinterno per le messe private; il vescovo di Suelli ha preso in prestito un altroNotturnale neumato. Sotto l’abside della chiesa […] il testo del Vangelo espo-sto, due libri Pontificali e un libro Orazionale […].

Presso di noi (Santa Maria di Cluso) […] libri ecclesiastici: un Messale neuma-to con un libro Pontificale, un Notturnale neumato, un Notturnale da viaggio, unSalterio nostro, un libro Ordinario in volgare (in sardo o, forse, in italiano). […] Iseguenti libri scolastici: le Historie di Maestro Pietro, i Sermoni di Innocenzo III,

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un’altra raccolta di Sermoni, un De Sacramento Misse, un Liber Pastoralis, un Li-ber de quadripartita considerationes (nel quale è stato ravvisato il De considera-tione ad Eugenium III Papam di san Bernardo di Clairvaux), un Liber de collatio-nibus Patrum, un libro sulla vita di san Bernardo, un Lapidario ed un Abbaco.

Fonte: A. CAPRA, Inventari degli argenti, libri e arredi sacri delle chiese diSanta Gilla, di San Pietro e di Santa Maria di Cluso, «Archivio Storico Sardo»,3, 1907, pp. 422-426; sul patrimonio librario menzionato nell’inventario e perun’edizione critica dello stesso vedi D. NEBBIAI DALLA GUARDA, Saint-Victor deMarseille et l’Italie: notes d’histoire culturelle, in «Bibliologia. Elementa adlibrorum studia pertinentia», Du copiste au collectionneur. Mélanges d’histoiredes textes e des bibliothèques en l’honneur d’André Vernet, a cura di D. NebbiaiDalla Guarda, J.F. Genest, 18, 1998, pp. 298-300.

Doc. 9Inventario dei beni del monastero camaldolese di San Nicola diTrullas (18 giugno 1280)

Bartolomeo, monaco camaldolese, compila un dettagliato inventa-rio dei beni posseduti dall’abbazia di San Nicola di Trullas e incaricadella sua stesura il notaio di autorità imperiale Giacomo. Nell’in-ventario sono elencati il numero di capi e le caratteristiche degli ani-mali che costituiscono i ricco e variegato patrimonio zootecnico del-l’abbazia; le somme di denaro, espresse in moneta di Genova; i rasie-ri di frumento, farina, ceci e orzo; i libri, tutti di carattere religioso odestinati alla liturgia, che costituiscono la biblioteca del monastero; iparamenti sacri e gli oggetti d’argento destinati all’ufficio divino; laconsistenza del patrimonio documentario dell’archivio.

[…] Ego Bartholomeus monachus Camaldulensis heremi, vicarius ecclesieSancti Nicolai de Trulla ordinis Camaldulensis heremi, vicariatus nomine perhoc publicum instrumentum de bonis et rebus et animalibus ipsius vicariefacio inventarium.

Dico quidem et confiteor me invenisse in dicta vicaria iumenta matricia admittendum in argola sive arca triginta et pulletras femminas quattuor […].

Item inveni in denariis receptis et habitis de redditibus et fructibus ipsiusvicarie et de prioriis eiusdem vicarie libras triginta octo et solidos quattuor etdenarios quattuor Ianuensium. Item raseria centum octuaginta sex tritici etraseria farine triginta unum et raseria tria zizerum et raseria triginta ordei.

Item inveni bibiam unam in duobus voluminibus. Item duo homiliaria. Itempassonarium. Item antifonaria duo. Item sermonarium unum. Item missaleunum. Item epistolarium unum. Item psalteria duo. Item manualem unum […].

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Item privilegia bullata cum bullis de plumbo quinquaginta quinque. Itemcondachia quinque. Item privilegia cum bullis cere quinque. Item privilegiasine bullis duo […].

Io Bartolomeo, monaco dell’eremo di Camaldoli, vicario della Chiesacamaldolese di San Nicola di Trullas, in qualità di vicario dell’eremo permezzo di questo documento notarile redigo l’inventario dei beni, delle cose edegli animali (appartenenti) alla stessa vicaria.

Pertanto dichiaro e attesto di aver trovato in questa vicaria trenta giumentematrici da utilizzare nella trebbiatura o nel trasporto dei cereali e quattro pule-dre femmine […]. Inoltre trovai trentotto libbre, quattro soldi e quattro denari inmoneta genovese, frutto delle entrate e dei redditi della stessa vicaria, percepitidai priori del monastero. Inoltre (trovai) centottantasei rasieri di grano, trentunodi farina, tre di ceci e tre di orzo.

Inoltre trovai una Bibbia in due volumi, due Omiliari, una raccolta di Passioni,due Antifonari, un Sermonario, un Messale, un Epistolario, due Salteri, unManuale […]. Inoltre (trovai) cinquantacinque privilegi corroborati con il sigillodi piombo (la bolla plumbea), cinque ‘condaghi’ (registri patrimoniali), cinqueprivilegi corroborati con il sigillo di cera, due privilegi privi di sigillo […].

Fonte: G. ZANETTI, I Camaldolesi in Sardegna, Cagliari, Editrice Sarda Fossa-taro, 1974, doc. 18, pp. XLIV-XLVII.

Doc. 10La Carta de Logu, statuto territoriale del regno di Arborea (secoloXIV ex.)

Agli inizi degli anni Novanta del Trecento la Giudicessa Eleonora nelproemio della Carta de Logu di Arborea dichiarava che le leggi promul-gate e la severità delle pene avrebbero frenato gli uomini reos e malva-gios, mentre quelli bonos e puros ed innocentis avrebbero potuto vivere eprosperare nella sicurezza della justicia. Le disposizioni contenute nel-l’articolato Corpus legislativo sono rivolte a tutti i sudditi, di ogni gradoe condizione, e persino il servo è ‘persona’davanti alla legge. Ciò garan-tisce un alto grado di equità e giustizia, almeno sotto il profilo formale, eun’attenzione particolare è dedicata alla persone più deboli: le donne e ibambini. La violenza sessuale contro le donne è severamente punita e ladignità della donna è tutelata in modo esemplare. Pene severe sono pre-viste anche per coloro che nei processi esibiscono documenti falsi.

XXIu Capidulu: De chi levarit per forza mygeri coyadaVolemus ed ordinamus chi si alcun homini levarit per forza mugeri coyada,

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over alcun’attera femina, chi esserit jurada, o isponxellarit alcuna virgini perforza, e dessas dittas causas esserit legittimamenti binchidu, siat juygadu chipaghit pro sa coyada liras chimbicentas; e si non pagat infra dies bindighi, dechi hat a esser juygadu, siat illi segad’uno pee pro modu ch’illu perdat. E prosa bagadìa siat juygadu chi paghit liras ducentas, e siat ancu tenudu pro levaril-la pro mugeri, si est senza maridu, e placchiat assa femina; e si nolla levat promugeri, siat ancu tentu pro coyarilla secundu sa condicioni dessa femina, ed isaqualidadi dess’homini. E si cussas caussas issu non podit fagheri a dies bindi-ghi de chi hat a esser juygadu, seghintilli unu pee per modu ch’illu perdat. Epro sa virgini paghit sa simili pena; e si non hadi dae hui pagari, seghintilli unupee, ut supra.

XXI Capitolo: Di chi violentasse una donna sposataVogliamo ed ordiniamo che se un uomo violenta una donna maritata, o una

qualsiasi sposa promessa, o una vergine, ed è dichiarato legittimamente colpe-vole, sia condannato a pagare per la donna sposata lire cinquecento; e se nonpaga entro quindici giorni dal giudizio gli sia amputato un piede. Per la nubi-le, sia condannato a pagare duecento lire e sia tenuto a sposarla, se è senzamarito (= promesso sposo) e se piace alla donna. Se non la sposa (perché leinon è consenziente), sia tenuto a farla accasare (munendola di dote) secondola condizione (sociale) della donna e la qualità (= il rango) dell’uomo. E se nonè in grado di assolvere ai suddetti oneri entro quindici giorni dal giudizio, glisia amputato un piede. Per la vergine, sia condannato a pagare la stessa cifrasennò gli sia amputato un piede come detto sopra.

XXVu Capidulu: Dessas cartas bulladas e non bulladas chi s’hant a pre-sentari assa Corti, over iscritturas chi s’hant a acattari falsas

Item ordinamus chi a ciascuna persona siat licitu de battiri e presentari assaCorti ad ogni bisongiu carta bullada e non bullada, condaghi over atteras iscrit-turas autenticas registradas o non registradas chi siant in sa Corti. E si alcunapersona battirit carta de nodayu a Corona chi esserit falsa, ed usaritilla mali-ciosamenti, conoscendo cussu ch’ill’hat a battiri chi esserit falsa, siat tentu emissidu in pregioni, e condennadu in arbitriu nostru. Ed issu nodayu overiscrivanu chi sa ditta carta havirit iscrittu, siat condennadu e paghit liras centu;e si non pagat infra unu mesi tagintilli sa manu destra. Ed icussas causas overpossessionis pro chi chertarit, over chi defenderit peri su vigori de cussa cartafalsa, siant lassadas pacificamenti ad icussa persona de chi deberint esserragionivilimenti. Ed icussu nodayu plus non deppiat usari s’officiu dessanodarìa.

XXV Capitolo: Delle carte bollate e non bollate da presentare alla Corte(di giustizia), ossia delle scritture false

Inoltre ordiniamo che a tutti è permesso, a titolo di prova, presentare allaCorte (di giustizia) carte bollate e non bollate (= documenti in carta o in perga-mena con o senza sigillo di corroborazione), condaghi (= registri patrimoniali),

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e altre scritture autentiche, registrate o non registrate presso la Corte (di giusti-zia). Però se qualcuno presenta in tribunale una carta notarile falsa, e la usafraudolentemente sapendo che è falsa, sia arrestato e messo in prigione, e con-dannato a nostro arbitrio. Ed il notaio o l’amanuense che ha scritto la carta, siacondannato a pagare cento lire; e se non paga entro un mese, gli sia amputatala mano destra. Ed i possedimenti in lite, rivendicati tramite la carta falsa, sianolasciati pacificamente a colui che pare più nel giusto. Al notaio falsario sia toltala notarìa.

Fonte: F.C. CASULA, La ‘Carta de Logu’ del regno di Arborèa. Traduzionelibera e commento storico, Sassari, Carlo Delfino Editore, 1995, pp. 58-63.

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Capitolo II

Sardegna e Mediterraneo nel XIV secolo

La lotta per il dominio

Alla fine del Duecento la lotta per il predominio commerciale e poli-tico del Mediterraneo occidentale era più viva che mai. Alle due gran-di rivali, Genova e Pisa, che accanitamente si contendevano la Sarde-gna e la Corsica, si era aggiunta la Corona d’Aragona che, dopo averpreso possesso delle Baleari e della Sicilia, guardava alla Sardegnacome ad una base indispensabile per la sua espansione marittima.

La contesa chiamava in causa anche il Papato, che da secoli andavaproclamando il diritto della Chiesa di Roma al dominium eminens sulletre grandi isole tirreniche. E proprio dal Papato, quando ormai tanto laSicilia come la Sardegna e la Corsica sembravano definitivamente sot-tratte alla sua autorità, venne l’iniziativa che doveva porre la Sardegna,istituzionalmente configurata come regnum Sardinie et Corsice, perben quattro secoli, all’interno della compagine statuale della Coronad’Aragona prima (1324-1516) e della Corona di Spagna poi (1516-1720) .

Il 4 aprile 1297 papa Bonifacio VIII, per risolvere diplomaticamen-te la guerra del Vespro – scoppiata nel 1282 fra Angioini e Aragonesiper il possesso della Sicilia – istituiva l’ipotetico regnum Sardinie etCorsice e lo infeudava a Giacomo II, sovrano della Corona d’Aragona,dietro il pagamento di un censo feudale e il giuramento di fedeltà. Laconcessione del Regnum era, in realtà, un atto puramente nominale: leisole geografiche di Sardegna e di Corsica erano già politicamente eistituzionalmente conformate e nei loro confronti il Papa dava solo unalicentia invadendi. Era pertanto necessario sviluppare un’azione diplo-matica e militare per rendere effettiva la sovranità della Corona su queiterritori, a scapito o con il consenso delle entità statuali e giuridiche esi-

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stenti, che erano: in Sardegna i possedimenti oltremarini del comune diPisa – rappresentati dai territori dei ‘decaduti’ regni giudicali di Càlarie di Gallura –, le Signorie territoriali dei Doria, dei Malaspina e deiDonoratico, il regno o Giudicato di Arborea; mentre la Corsica, conte-sa fra Pisa e Genova, dal 1299 sarebbe appartenuta stabilmente alla Re-pubblica ligure e al Banco di San Giorgio (sino al 1769) e non vennemai conquistata dai Catalano-aragonesi.

Il possesso della Sardegna, perfettamente in linea con la politica diespansione mediterranea della Corona d’Aragona, poneva gravi proble-mi sul piano diplomatico, in quanto la posizione strategica dell’isolaavrebbe facilitato alla Corona il controllo delle rotte commerciali tirre-niche a discapito delle Repubbliche di Pisa e di Genova, che da secolibasavano la propria fortuna economica sulla frequentazione di quellerotte ed avevano acquisito in Sardegna larghi interessi politici e com-merciali.

Il possesso dell’isola offriva, indubbiamente, interessanti prospettiveeconomiche all’Aragona: la Sardegna, in particolare il vasto territoriocontrollato dal comune di Pisa, aveva fama di possedere una ricca produ-zione cerealicola, specie nel Giudicato di Arborea ma anche nelle ‘cura-torie’ pisane di Gippi e Trexenta; fiorenti saline nel Cagliaritano; riccheminiere d’argento nel Sulcis e nel Sigerro; preziosi coralli nei mari nord-occidentali dell’isola e tutti quei prodotti (pellami, formaggi, carni, vino,olio, frutta secca) derivanti dalle attività agro-pastorali cui erano deditele popolazioni locali. La commercializzazione di questi prodotti, unita-mente all’importazione di spezie, panni di lana e altri generi di lusso, eragarantita in epoca pisana dal porto di Castel di Castro, la cui attività eraregolamentata dal Breve portus Kallaretani; una vitalità commercialeche a causa delle guerre successive – che segnarono la fine della presen-za politica ed economica di Pisa in Sardegna e l’annessione di una partedell’isola alla Corona d’Aragona – andò lentamente ma irrimediabilmen-te rarefacendosi nel corso del Trecento.

La campagna militare per la conquista della Sardegna, iniziata solonel 1323, fu preceduta da una lunga strategia diplomatica, condotta daGiacomo II con grande abilità, al fine di trovare il maggior numero diconsensi presso le diverse realtà politiche isolane. Alleanze e rapportidi tipo feudale furono instaurati con i Giudici di Arborea, con i Do-noratico, con i Doria e con i Malaspina che, in funzione anti-pisana, of-frirono in varia misura il loro appoggio, accettando un rapporto di di-pendenza feudale che nel tempo si sarebbe rivelato estremamente insi-dioso. Nel propiziare la conquista catalano-aragonese, oltre il favore diquasi tutti i pontefici – salvo Giovanni XXII (1316-1334) che fece di

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tutto per scoraggiarla –, ebbe un ruolo importante la grande ostilitàverso i Pisani, molto diffusa nella società e nella Chiesa sarde, che siesprimeva in un’attesa quasi messianica nella prossima ‘venuta’ del red’Aragona (docc. II-1/2). Negli intenti di Giacomo II la campagna mili-tare per la conquista del Regnum si sarebbe dovuta limitare ad unoscontro con Pisa, già isolata diplomaticamente, per l’occupazione deiterritori sardi in suo possesso: gli ex Giudicati di Càlari e Gallura.

Le operazioni militari, iniziate nel giugno del 1323 con lo sbarco diun potente esercito, comandato dall’infante Alfonso, nel golfo di Palmadi Sulci, si conclusero nel giugno del 1326: in tre anni Pisa perse tuttii suoi possedimenti, comprese le città fortificate di Villa di Chiesa (l’o-dierna Iglesias), occupata dopo un lungo e difficile assedio (doc. II-3),e Castel di Castro (oggi Castello, quartiere storico della città di Caglia-ri), che il 19 giugno 1324 si consegnò ai Catalano-aragonesi, come sievince dall’atto notarile – redatto da due notai, uno pisano e uno cata-lano – che segna la fine della supremazia di Pisa in Sardegna e la nasci-ta del regnum Sardinie et Corsice (doc. II-4). In realtà Castel di Castroconservò ancora per due anni la popolazione e le istituzioni di originepisana, si arrese solo il 6 giugno 1326; il 9 giugno i Catalano-aragone-si fecero il loro ingresso nella rocca fortificata – munita agli inizi delTrecento delle tre imponenti torri (Aquila, Elefante, San Pancrazio) inprevisione ‘dell’imminente arrivo dei Catalani’ – e i Pisani vennerodefinitivamente allontanati, come ci racconta con toni trionfali il croni-sta catalano Ramon Muntaner (doc. II-5); di lì a poco la città, ora deno-minata Castell de Càller, veniva interamente ripopolata da genti iberi-che. Rimasero ancora in mano ai Pisani, sino al 1365, le ‘curatorie’ diGippi e Trexenta, infeudate alla città di Pisa dai sovrani della Coronad’Aragona. Anche la città di Sassari, fiorente comune ‘pazionato’ nelNord dell’isola cresciuto sotto l’egida della Repubblica di Genova,veniva ben presto acquisita alla causa della Corona. Una campagnamilitare difficile e dispendiosa, in termini di vite umane e di risorsefinanziarie, aveva permesso a Giacomo II di occupare ben tre quartidell’isola, primo nucleo del regnum Sardinie et Corsice.

Ma i malcontenti e le ostilità, interne ed esterne all’isola, non tarda-rono a manifestarsi in tutta la loro gravità. Genova in primis, preoccu-pata per le conseguenze che sarebbero derivate da una stabile domina-zione aragonese sulla Sardegna e sui mari adiacenti, fomentò continueribellioni a Sassari, la ‘citta inquieta’, e da parte di alcune famiglie ge-novesi profondamente radicate nel Nord dell’isola: i sardo-liguri Doriae Malaspina. Il conflitto fra Genova e la Corona d’Aragona, esplosoapertamente nel 1330, fu una delle conseguenze più importanti sul

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piano internazionale della presenza catalano-aragonese in Sardegna; lostato di tensione instauratosi fra le due potenze per il dominio delTirreno ebbe ripercussioni in area mediterranea per alcuni secoli, incre-mentando continue azioni di guerra di corsa, non sempre distinguibilidalla pirateria, che a partire dalla seconda metà del Trecento e ancoranel Quattrocento agirono spesso a discapito delle attività mercantili.

Durante il regno di Pietro IV il Cerimonioso (1336-1387) la guerracontro Genova si spinse fino ai mari di Costantinopoli, dove la Corona,alleata con Venezia, inflisse nella battaglia navale del Bosforo (1352)una rovinosa sconfitta all’odiata nemica. Un anno dopo il successovenne rinnovato nelle acque di Porto Conte, al largo di Alghero.

In Sardegna, frattanto, si erano rotti i delicati equilibri politici messiin atto all’indomani della conquista. La politica accentratrice attuatadai re d’Aragona, ora anche re di Sardegna e Corsica, aveva modifica-to radicalmente la struttura politica e amministrativa dell’isola – intro-ducendo ex novo l’istituto feudale, uno strumento di governo assaiadatto al mantenimento dei territori conquistati ma fatalmente destina-to a sfuggire al controllo del potere regio, unitamente all’azione spessoincontrollata di quanti ricoprivano cariche all’interno dell’amministra-zione regia –, creando nella popolazione un profondo disagio. GiàUgone II di Arborea nel 1325 si era fatto interprete di questa situazio-ne, scrivendo al cardinale Napoleone Orsini che i Sardi, che credevanodi avere un nuovo re, si ritrovavano invece con tanti re quanti erano ivillaggi dell’antico Giudicato di Càlari: Sardi qui unum regem sehabuisse credebant et modo habent tot reges quot sunt ville in Kallaro.Il malgoverno degli ufficiali regi, che lontano dalla madrepatria diven-tavano tutti dei ‘piccoli signori’, e l’assenteismo dei feudatari di origi-ne iberica (soprattutto Catalani, ma anche Valenzani, Maiorchini e Ara-gonesi), determinarono un diffuso malcontento nei Sardi, del quale sifecero interpreti, a partire dal 1353-1354, i Giudici di Arborea.

Mariano IV di Arborea (1347-1375), in particolare, sembrava noncondividere la politica degli antichi alleati, i sovrani della Coronad’Aragona, e andava sempre più decisamente affermando la sua posi-zione di autonomia politica e istituzionale, pur nel rispetto dei rapportidi vassallaggio personale che lo legavano alla Corona d’Aragona (nel1339 il giovane Mariano era stato nominato conte del Goceano da Pie-tro IV d’Aragona). L’insofferenza di Mariano IV nei confronti di PietroIV, abilmente alimentata dai Genovesi, sfociò in aperto contrasto, no-nostante i reiterati tentativi di mediazione messi in atto dall’ammiragliocatalano Bernardo de Cabrera all’indomani della battaglia di PortoConte (1353) e alla vigilia dello sbarco della flotta catalana, comanda-

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ta dal re d’Aragona in persona, ad Alghero. La città, fondata dai Doriasardo-liguri e passata con la conquista del Regnum sotto il controllodella Corona, aveva abbracciato la causa arborense, aprendo nell’otto-bre del 1353 le porte alle truppe di Mariano IV e Matteo Doria; alla finedi giugno del 1354 venne attaccata dai Catalano-aragonesi e dopo unlungo assedio venne riconquistata e interamente ripopolata con gentiiberiche (doc. II-6): un provvedimento già sperimentato a Castel diCastro nel 1326, dopo l’allontanamento dei Pisani. Il dominio sulle duecittà fortificate e il controllo dei loro porti avrebbe garantito alla Co-rona d’Aragona il possesso del regno di Sardegna, anche nei momentipiù difficili della guerra contro i Giudici di Arborea.

L’abilità diplomatica di Mariano IV diede respiro internazionale alla‘contestazione’ arborense; un’accorta politica matrimoniale gli permi-se, infatti, di trovare alleati nei settori dell’aristocrazia catalana in con-flitto con la monarchia, nei francesi visconti di Narbona, nella potentefamiglia romana dei De Vico, signori di Viterbo, e in Sardegna con l’in-quieto Brancaleone Doria. Il Giudice arborense riuscì ad ottenere cre-dito anche presso la Corte pontificia, quando questa con Urbano V(1362-1370) parve orientarsi a sconfessare la bolla con cui BonifacioVIII aveva infeudato il regnum Sardinie et Corsice ai conti-re diBarcellona. Nel 1365 Pietro IV, a causa del ritardo ormai decennale nelpagamento del censo di 2.000 marchi d’argento dovuti alla Chiesa diRoma, venne scomunicato e dichiarato decaduto da tutti i suoi dirittisul Regnum; in quegli anni Mariano IV si rivolse al Papa per ottenere,forse, un’investitura diretta di tutta l’isola o almeno dei territori da luicontrollati: iudex Arboree surgessit Summo Pontifici et tractavit inCuria Romana quod dominus rex Aragonum privaretur titulo regniSardinie et quod aplicaretur dicto iudici (il Giudice di Arborea feceappello al Sommo Pontefice e trattò con la Curia Romana affinché il rePietro IV venisse privato del titolo di re di Sardegna e questo titolovenisse concesso al Giudice Mariano IV).

La guerra di ‘resistenza’, iniziata da Mariano IV nel 1349 con l’asse-dio di Bosa, dopo una battuta d’arresto siglata dalla pace di Alghero(1354) e della più stabile pace di Sanluri (1355), riprendeva rovinosafin dal 1364-65 e proseguiva con gli eredi al trono di Arborea, i GiudiciUgone III (1376-1383) ed Eleonora (1383-1403) – regina reggente peri figli ancora minorenni, Federico (morto nel 1387) e Mariano –, sottola cui reggenza, nel 1388, venne firmata una nuova pace che, alterandol’effettivo rapporto dei valori in campo, risultò sicuramente favorevoleai Catalano-aragonesi, ai quali furono restituiti i territori del Cam-pidano e della Gallura che gli Arborensi avevano conquistato con la

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forza delle armi e con l’aiuto dei Sardi del regnum Sardinie, ridotto allavigilia di quella effimera pace alle sole città di Cagliari ed Alghero. Maben presto gli accordi vennero violati e nell’estate del 1391 i Sardiarborensi, guidati da Brancaleone Doria, marito di Eleonora, e dal fi-glio Mariano V, ripresero le armi, rioccupando in breve tempo le terrerese ai Catalano-aragonesi nel 1388.

La ripresa delle ostilità in Sardegna coincideva con la ripresa della ten-sione tra Genova e la Corona d’Aragona, a seguito dell’accresciuto inte-resse della monarchia iberica per il regno di Sicilia in preda alla guerracivile; e proprio al nobile siciliano Andreotto Chiaromonte scriveva, involgare italiano, Brancaleone Doria, per sollecitare e offrire aiuti militari,invitandolo a combattere insieme contro il comune nemico, il re d’A-ragona (doc. II-7). La difficile situazione del regno di Sardegna inducevaGiovanni I a programmare una spedizione militare nell’isola per l’apriledel 1393 (doc. II-8) e, a questo scopo, a cercare solidarietà ed aiuti pressole più autorevoli corti d’Italia e d’Europa, inviando il tesoriere GiulianoGarrius presso il pontefice Clemente VII ed il re di Francia Carlo VI, edil consigliere Alberto Zatrilla a Venezia, Ferrara, Milano, Firenze e Pisa.Ma la progettata impresa subì ripetuti rinvii e alla fine non si realizzò, perl’indecisione ed i timori del sovrano a portare a soluzione il problemasardo e, soprattutto, per la grave situazione che, in quello stesso arco ditempo, si era creata in Sicilia e che costringeva il re a dirottare verso que-st’ultima le forze militari destinate inizialmente alla Sardegna.

Con gli eredi di Pietro IV, i figli Giovanni I (1387-1396) e MartinoI (1396-1410), torna dunque in primo piano la proiezione mediterraneadella Corona d’Aragona, che doveva sfociare nella definitiva acquisi-zione del regno di Sicilia, già rientrato nell’orbita dinastica della Co-rona in virtù del matrimonio di Costanza, figlia primogenita di PietroIV, con Federico il Semplice, re di Sicilia; la loro figlia Maria – rapitanel 1382 nel castello di Ursino di Catania e, dopo un breve soggiornoa Castell de Càller in Sardegna, trasportata in Catalogna – nel 1390sposava a Barcellona Martino il Giovane, nipote di Pietro IV e figlio diMartino il Vecchio. In quegli stessi anni il regnum Sardinie sembrava,invece, sfuggire al controllo della Corona e proprio in Sardegna, nel1409, moriva il giovane re di Sicilia, Martino, che sollecitato dal padreera venuto in soccorso ai contingenti militari catalani impegnati nelleultime fasi del conflitto che per decenni aveva contrapposto il regnogiudicale di Arborea – ora governato dal francese Guglielmo III,visconte di Narbona – alla Corona d’Aragona. Il regno di Sicilia, chenegli anni precedenti aveva soccorso Cagliari e Alghero con invii digrano, aveva finanziato e rifornito l’intero corpo di spedizione: le stes-

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se galere su cui viaggiava Martino erano in parte finanziate e intera-mente costruite in Sicilia. La sua morte segna la fine della gloriosadinastia dei conti-re di Barcellona – nel 1410, alla morte del padreMartino I d’Aragona, II di Sicilia, si apriva una crisi dinastica, sanatadal Compromesso di Caspe del 1412, che assegnava la Coronad’Aragona a Ferdinando I, della dinastia castigliana dei Trastàmara – esi colloca alla vigilia della fine de facto del Giudicato di Arborea: nel1410, durante l’assedio di Oristano, capitale giudicale, il territorio sto-rico del Giudicato veniva trasformato in marchesato di Oristano, il piùgrande feudo del regnum Sardinie et Corsice, e infeudato a LeonardoCubello. Il contenzioso con Guglielmo III, ultimo Giudice di Arborea,venne risolto dalla Corona nel 1420, durante il regno di Alfonso V(1416-1458), con il versamento al visconte di centomila fiorini d’orod’Aragona, che vennero liquidati a lui e al suo erede nel corso di undecennio (e neppure per intero), in cambio della sua rinuncia ai dirittisul trono giudicale.

Il valore di una conquista

L’impresa di conquista del regnum Sardinie et Corsice, iniziata nellontano 1323 e conclusa con l’occupazione della sola isola di Sardegnanel 1420, «si era via via trasformata in un pozzo senza fondo per lerisorse umane ed economiche della Corona»: questo il lapidario e con-divisibile giudizio espresso dallo storico pisano Marco Tangheroni.

Il conflitto che insanguinò l’isola per circa un settantennio ebbe con-seguenze devastanti sull’economia e, unitamente alle periodiche epide-mie di peste, determinò una profonda crisi demografica: è stato calco-lato che la sola peste nera (1348) avrebbe provocato un crollo dellapopolazione rurale del 43%, al quale, entro gli inizi del Quattrocento,si associa la scomparsa di ben la metà dei centri abitati; nella Nurra, inGallura, nel Sarrabus e nel Sulcis si arrivò fino all’abbandono del 90%degli insediamenti umani.

Sulla scorta degli studi dell’ultimo ventennio, in particolare quellicondotti da Anatra, Casula, Meloni e Tangheroni, possiamo comunqueaffermare che la conquista della Sardegna segna insieme un culmine euna svolta nella politica espansionistica della monarchia catalano-ara-gonese nel Mediterraneo occidentale.

Segna un culmine, perché inserisce il tassello mancante di quella‘diagonale delle isole’ (ruta de las islas) che secondo una celebreimmagine del grande storico catalano Vicens Vives, passando dagli an-

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ni 1230 per le Baleari e facendo perno dal 1282 sulla Sicilia, proietta-va il commercio catalano, in particolare quello di Barcellona, verso lecoste del Nord-Africa e il Mediterraneo orientale.

Segna una svolta, perché la guerra discontinua che la monarchia do-vette sostenere fino al 1409 con i Giudici di Arborea (con le paci tem-poranee del 1355 con Mariano IV e del 1388 con Eleonora), con i fran-cesi visconti di Narbona (fino alla pace definitiva nel 1420) e soprattut-to con Genova (fino all’alleanza di Andrea Doria con Carlo V nel1528), per conservare e consolidare il possesso di quel Regnum, si ac-compagnò a un processo di riorganizzazione istituzionale di tutti i ter-ritori che facevano parte della Corona d’Aragona.

Il regno catalano-aragonese di Sardegna venne organizzato introdu-cendo nell’isola il modello amministrativo degli altri regni afferentialla Corona: controllo delle campagne attraverso la concessione difeudi a quanti avevano contribuito alla conquista dell’isola; ammini-strazione autonoma dei centri urbani più importanti sotto il profilo eco-nomico e strategico (Cagliari, Iglesias, Sassari, Castelaragonese, Bosa,Alghero, più tardi anche Oristano), qualificati come ‘città regie’ e ag-gregati al demanio regio, integrata da concessioni di grazie e privilegi,che il più delle volte si richiamavano alla tradizione catalana e in par-ticolare a quella barcellonese.

Il cambio di organizzazione sociale e amministrativa con l’istituzionedel Regnum fu radicale sul piano istituzionale, politico, sociale, linguisti-co e culturale. La profonda trasformazione si registrava soprattutto nellecittà: a Cagliari, ed in anni successivi ad Alghero, vi fu un ricambio com-pleto della popolazione con la cacciata dei Pisani, dei Genovesi e deglistessi Sardi, e l’assegnazione di tutti gli edifici a Catalani, Aragonesi,Valenzani e Maiorchini (docc. II-5/6), che in vari momenti avevano par-tecipato alla conquista e che, con il loro contributo militare, avevano resopossibile la realizzazione del Regnum. Quasi subito, nel 1327, venneestesa alla città di ‘Castel di Cagliari’, con il privilegio denominatoCoeterum, la legislazione privilegiata di cui godeva Barcellona: la cittàsi avviava a diventare caput totius Sardinie regni, così descritta in unafonte catalana trecentesca: notoria cosa e certa que.l Castell de Càllersia un dels excellent e nobles castell del món, e sia clau de tota la isla deSardenya, e sia una de les pus nobles joyes del món.

L’integrazione del regno di Sardegna nella struttura istituzionaledella Corona d’Aragona ebbe un ulteriore punto di forza nell’introdu-zione dell’istituto delle Corts: il parlamentarismo di tipo catalano chesi fondava sul principio del pactismo, una concezione contrattualisticadel rapporto con la Corona che si richiamava al principio del do ut des,

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ponendo in stretta connessione la concessione del Donativo richiestodal sovrano e l’approvazione da parte di quest’ultimo dei Capitoli pro-posti dagli Stamenti.

Per la Sardegna si trattò di una vera e propria novità che non trova-va riscontro nelle Assemblee degli Stati preesistenti alla istituzione delRegno: per la Sardegna, per la sua specifica storia istituzionale prece-dente alla conquista, si deve pertanto parlare di «Parlamento importa-to». La profonda differenza tra l’esperienza sarda da una parte e sicilia-na e napoletana dall’altra sta nel fatto che nelle ultime due realtà iParlamenti erano istituti locali, che almeno in parte rappresentavano lacomunità di riferimento, mentre in Sardegna la società convocata inParlamento era di estrazione quasi esclusivamente catalano-aragonese;l’Assemblea parlamentare fu, quindi, almeno durante i primi Parla-menti, l’istituzione rappresentativa delle classi dominanti – quelle cheAnatra ha felicemente definito «ceti privilegiati» – ed i Sardi vi pote-vano partecipare solo in forma molto limitata.

Il Parlamento sardo, come quelli introdotti dalla Corona negli altriregni italiani afferenti alla Confederazione catalano-aragonese, era dinatura stamentale, justa lo estil y pràtica de Cathalunya, ed era artico-lato, come in Catalogna, in tre Stamenti o Bracci: l’ecclesiastico, checomprendeva i vescovi, gli arcivescovi e gli abati dei principali mona-steri del Regno, oltre ai rappresentanti di tutti i Capitoli diocesani; ilmilitare, nel quale venivano convocati per chiamata nominale tutti ifeudatari; ed il reale, che raccoglieva i rappresentanti o sindics di tuttele città regie e delle ville non infeudate. Ai lavori parlamentari prende-vano parte anche i più alti esponenti dell’amministrazione regia, quali:il reggente la reale Cancelleria, il maestro razionale, i governatori deiCapi di Cagliari e di Sassari, i procuratori fiscali e patrimoniali.

L’istituto parlamentare, introdotto nell’isola nel XIV secolo – nel1355 Pietro IV convocava e presiedeva il primo Parlamento del regnodi Sardegna (doc. II-9) –, si perfezionò nel corso del XV con l’As-semblea del 1421, convocata e presieduta da Alfonso V, e quella del1481-1485 – convocata da Ferdinando II ma presieduta dal viceréXimén Pérez Escrivà – per raggiungere piena maturità giuridica e isti-tuzionale a conclusione dell’ultimo Parlamento convocato nell’isoladal re Cattolico, i cui lavori iniziarono sotto la presidenza del viceréGiovanni Dusay nel 1504 per finire, dopo ripetuti rinvii e lunghe so-spensioni, solo nel 1511 con il viceré Ferdinando Gorón de Rebolledo.

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1 Le traduzioni in italiano degli originali in latino o in catalano sono quelledesunte dai testi indicati in nota. Le traduzioni dei documenti 1, 2, 4, 8, 9 sono,invece, a cura dell’autore. I documenti ripropongono fedelmente le edizioni utiliz-zate, tranne che per alcune varianti alla punteggiatura, finalizzate ad una maggio-re fruibilità del testo; solo per il documento 8 il testo è stato rivisto e corretto sul-l’originale.

Capitolo I

Documenti II1

Doc. 1Lettera di Ruggero Tagliaferro a Giacomo II d’Aragona [1307]

Nei primi anni del Trecento il toscano Ruggero Tagliaferro descriveal re d’Aragona Giacomo II la desolazione della Sardegna sotto ildominio pisano e lo informa che i Sardi, di qualsiasi condizione, atten-dono con trepidazione il suo arrivo nell’isola. Il Tagliaferro suggerisceal re di chiedere al Papa una lettera che riconosca i suoi diritti sullaSardegna, o almeno delle lettere credenziali per tre personaggi moltoautorevoli e fedeli alla causa del re d’Aragona – il canonico di Mar-milla, Roberto de Reige e l’arcipresbitero di Torres – in quanto ciò sa-rebbe vantaggioso per lui e per tutti quei Sardi che lo riconosconocome loro Signore e sono pronti a sottomettersi al suo governo, libe-randosi per sempre del giogo del comune di Pisa.

Illustri domino regi Aragonum. Rogernus Tallaferre terre de Plonbine. Antepedes vestre celcitudinis notum facio per presentes quod in terra Sardinie estmagna discordia in presenti, quarum (sic) celcitudini vestre supplico humiliterquantum possum quatenus citius quam poteritis ad terram Sardinie venire non

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tardetis, quia barones, milites, rustici, mulieres, iuve[ne]s cum senioribusvestram dominacionem habere desiderant et cupiunt, dicentes de die in diem,quando veniet rex noster Aragonie, qui regnaturus est super nos? Quia ita vosdesiderant. Vellem, si dominacioni vestre placeret, quod vos aut vestri sinemora venirent, quia isti Pisani ita nos destruunt quod nos non habemus aliquidquid conmedamus. Item notum vobis facio quod si velletis per procuratoremvestrum manentem in curia domini Pape quod ipse inpetraret pro dicta insulaSardinie licteram unam ex parte domini Pape quod omnes homines dicte insu-le legitimarentur, magnum esset vobis conmodum et eciam honor maximus,quod (?) ad minus si non potestis inpetrare pro omnibus, ad minus inpetretispro tribus hominibus, qui multum vos diligunt, scilicet: canonicum de Mamil-la, dominum Robertum de Reige et archipresbiterum de Torre, scientes quodisti sunt maiores totius insule et nullum filium habent nisi sint bastardi. Superhiis vestram voluntatem remandantes per latorem presencium, fideles michi;et nullum alium habeo qui vellet venire ad vos nisi ipse. Valete in Domino, quivos custodiat. Item si istam gratiam poteritis poteritis (sic) obtinere, debetisconmictere episcopo de Terraalba. Eciam vobis notum facio quod discuncor-dia magna est facta inter comitem Tadeo de Galloure et de domino Branke deOre. Plus nescio vobis scribere, nisi quod vos Dominus pro sua pietate voscustodiat. Valete in Domino. Et quia timeo, sigillum meum non aposui. [Vos]in lictera quam michi mictere deb[et]is sigillum vestrum non apponatis.

All’illustre Signore, il re d’Aragona. Ruggero Tagliaferro, della terra diPiombino. Prostrato ai piedi di Vostra Altezza rendo noto, attraverso la presen-te (lettera), che nel territorio sardo c’è attualmente una grande discordia, percui, per quel che mi è concesso, supplico umilmente Vostra Altezza di giunge-re nel territorio sardo quanto prima, senza alcun ritardo, dal momento chebaroni, cavalieri, rustici, donne, giovani e anziani desiderano e bramano averela vostra signoria e si chiedono giorno dopo giorno: «Quando arriverà il nostrore d’Aragona, che è destinato a governare su di noi?» poiché a tal punto videsiderano. Vorrei, se Vostra Maestà fosse dello stesso parere, che voi o ivostri (uomini) arrivaste senza indugio, poiché questi Pisani ci sfruttano a talpunto che non abbiamo più nulla da mangiare. Allo stesso modo vi informoche, se fosse nella vostra volontà, dovreste riuscire a ottenere per la nostraisola di Sardegna, attraverso il vostro procuratore che risiede presso la Curiapontificia, anche una sola lettera da parte del Papa, affinché tutti gli uomini diquell’isola possano essere legittimati; ciò sarebbe un grande vantaggio per voie anche un enorme onore; e se non potete ottenere ciò per tutti, almeno cerca-te di ottenerlo per tre uomini che vi amano molto, vale a dire: il canonico diMarmilla, il signore Roberto de Reige e l’arcipresbitero di Torres, consapevo-le che costoro sono i personaggi più eminenti di tutta quanta l’isola e nonhanno alcun figlio, a meno che non siano (figli) illegittimi. Informatemi qualè la vostra volontà in merito a queste cose tramite colui che vi consegnerà lapresente (lettera), che è persona a me fedele, e non ho (a disposizione) nessunaltro che voglia venire presso di voi se non lui. State bene con la protezione

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del Signore, che vi mantenga sano e salvo. Parimenti, se potrete ottenere que-sto favore, dovrete comunicarlo al vescovo di Terralba. Vi rendono, inoltre,noto che è sorta una grande inimicizia tra il conte Taddeo di Gallura e il signo-re Brancaleone Doria. Non voglio scrivervi più cose, se non che il Signore viprotegga in virtù della sua misericordia. State bene con la protezione delSignore. Poiché ho dei timori non ho apposto il mio sigillo; voi non apponeteil vostro sigillo nella lettera che mi invierete.

Fonte: V. SALAVER Y ROCA, Cerdeña y la expansión mediterránea de la Coro-na de Aragón. 1297-1314, 2 voll., Madrid, Consejo Superior de Investiga-ciones Científicas - Escuela de Estudios Medievales, 1956, vol. II, doc. 196,pp. 246-247.

Doc. 2Lettere di alcuni religiosi a Giacomo II d’Aragona, che documenta-no il malcontento dei Sardi nei confronti del dominio pisano e leaspettative riposte nell’arrivo dei Catalano-aragonesi [1312-1320]

Il frate predicatore Federico di Fulgineo informa il re d’AragonaGiacomo II della difficile situazione in cui si trova il popolo sardo,privo di una guida sicura e incapace di fare scelte oculate per il futu-ro. I Sardi, scrive il frate, sono come pecore senza un pastore, neppureil Giudice Ugone II di Arborea è in grado di guidarli, e pertanto ri-schiano di perdersi.

Guglielmo di Montegranato, vescovo di Santa Giusta, diocesi delGiudicato di Arborea, comunica al re d’Aragona Giacomo II la trepi-dazione con cui tutti i Sardi, di ogni condizione, dai popolani ai nobilie anche il clero, attendono la sua venuta.

3. Fr. Federicus de Fulgineo ord. Pred. […] Celsitudini maiestatis vestrenunc quidem scribo, ne popolus ille Sardicus tot iam annorum curriculis insul-tibus conquassatus volendo suo domino naturali tam optime contra iura resi-stere in dampna peiora prioribus prolabatur. Noveritis igitur, o serenissimeregum, me nuper fuisse confessorem domini iudicis Arboree et ab eo benefi-cia mee condicionis parvitatem excedencia recepisse. Quare in Sardinia diu-tius conversatus extimo quedam, ut regia maiestas vestra facilius et comodiusdictam insulam consequatur. Sunt enim modo Sardi velut oves non habentespastorem et quamvis inter eos sint quidam principaliores, in quos respicitpopolus universus, tamen illi inexperientia et invidia operante nequeunt dic-tum populum Sardicum sine divisionibus et emulationibus gubernare […].Data Pisis die XXV Junii.

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4. Fr. G. de Montegranato in Arvernya ord. Pred., episcopus Sancte Juste inSardinea […] Inestimabile gaudium intraxit et penetravit viscera cordis mei[…] tota patria Sardinie vos expectat. Sicque expectabant antiquitus propheteadventum Christi salvatoris nostri. Et parvus populus, quando ibi ego eram,modo est annus, michi vestro episcopo dicebat et sepe narrabat: Domine epi-scope, videbimus illum diem, quod dominus rex Aragonie veniat? Putas, vide-bimus? Putas, durabimus? Putas, sustinebit Deus tot flagella continue et assi-due super nos, quin misereatur nostri? Item appetunt nobiles; set illi magisocculte propter timorem dominorum, qui hodie nequitia aliqua regnant ibi […]item prelati affectant […]. Data Avinione XX mensis Madii.

3. Frate Federico di Fulgineo, dell’Ordine dei Predicatori […]. Ora mi rivol-go per iscritto alla Vostra Maestà affinché il popolo sardo, sconvolto nel corsodegli anni da tanti maltrattamenti, volendo opporsi contro ogni diritto al propriosignore naturale (il re d’Aragona) di così elevata qualità, non finisca in guai piùgrandi di quelli incontrati. Pertanto saprete, o felicissimo tra i re, che io recente-mente sono stato confessore del signor Giudice di Arborea e da lui ho ricevutodei benefici che superano la piccolezza della mia condizione; perciò ritengo,dopo essere rimasto piuttosto a lungo in Sardegna, che la vostra regia Maestà piùfacilmente e con maggior profitto potrebbe governare quest’isola. I Sardi infat-ti sono, in un certo senso, come pecore che non hanno pastore e sebbene tra diloro vi siano alcuni individui più capaci di altri, verso i quali l’intero popolo sirivolge per avere soccorso, tuttavia quelli a causa dell’inesperienza e per l’invi-dia altrui non riescono a governare il popolo sardo senza divisioni e rivalità […].Scritta a Pisa il 25 giugno.

4. Frate G(uglielmo) di Montegranato in Arvernya, dell’Ordine deiPredicatori, vescovo di Santa Giusta in Sardegna […]. Un’inesprimibile gioia hainvaso e si è impadronita del mio cuore […], tutta la terra di Sardegna vi atten-de. E come nell’antichità i profeti attendevano l’arrivo di Cristo nostroSalvatore, allo stesso modo il popolino, quando io mi trovavo lì, ora è un anno,a me vescovo diceva e spesso chiedeva: «O signor vescovo vedremo mai il gior-no in cui arriverà il signor re d’Aragona? Pensi che lo vedremo? Pensi che resi-steremo? Pensi che Dio permetterà che tanti flagelli incombano su di noi, in con-tinuazione e persistentemente, senza avere pietà di noi?». Le stesse cose chiedo-no i nobili, ma loro perlopiù nascostamente, per il timore dei signori che oggigovernano lì con notevole malvagità. Allo stesso modo i religiosi desideranoqueste cose […]. Scritta ad Avignone il 20 maggio.

Fonte: H. FINKE, Acta Aragonensia, 3 voll., Berlin-Leipzig, Dr. WaltherRothschild, 1908-1922, II, doc. 372, §§ 3-4, pp. 571-572.

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Doc. 3Assedio e conquista della città pisana di Villa di Chiesa (3 luglio1323-7 febbraio 1324)

L’assedio di Villa di Chiesa, odierna Iglesias, segna la prima signi-ficativa tappa della campagna militare intrapresa dall’infante Alfonsoin Sardegna contro i Pisani; unitamente alla nascita, sul colle denomi-nato Bonayre, di una cittadella fortificata, contrafforte catalana allacittà pisana di Castel di Castro. Nel racconto di Pietro IV, fissato nellepagine della sua Crònica, vengono evidenziati i rapporti di alleanza frala Corona d’Aragona e il Giudicato di Arborea, dove regna Ugone II,e l’aiuto militare che il Giudice di Arborea e le potenti famiglie sardo-liguri dei Doria e dei Malaspina assicurano all’Infante, ma emergonoanche le innumerevoli difficoltà che l’esercito catalano-aragoneseaffronta nei lunghi mesi di assedio.

21. Item fo acordat que totes les galees e altre navili, qui era en lo dit lochde Canyelles, posasen les viandes que tenien de la Cort, e que se .n anassen enlo dit golf de Càller, e açó per lo hivern qui ja començave; e que, ab lo nobleEn Guerau de Rochabertí, e ab aquells qui ab aquell eren al loch de Quart,porien posar setge al castell de Caller. E axí fon fet que .s posaren denant lodit castell, en .j. puig qui ha nom Bonayre, lo qual muraren e enfortiren.

22. E stant lo senyor Infant en lo setge de la Vila d’Esgleyes, se mes tan granmalaltia en la sua host que totes les gents foren malaltes e .y moriren molts nobles,cavallers e ciutadans honrrats e homens de peu a tan gran nombre que a penes tro-bavem qui .ls volgués soterrar, ne .s trobave qui fahés guayta, ni hagués cura sinóde pensar si mateix com porien viure. E açó durà aytant com lo dit setge se tench.E lo dit senyor Infant enmalaltí tan fortment que null temps, aytant com enCerdenya estech, no fo sens febre. Semblantment hi fon malalta la senyora Infantahe .y moriren totes les donzelles qui ab ella hi eren anades, que no .n romás vivamés de una, ans hac haver a son servey fembres sardes e d’altra nació, axí que,segons que .s pot arbitrar, la meytat de les gents moriren en lo dit setge, e delsaltres romangueren fort pochs que no fossen malalts e a la mort venguts moltesvegades per malaltia. E açó esdevench per l’ivern qui fon molt pluviós, e les fan-gues eren grans en la host, e molt fret e gran pudor e infecció. E dins aquest tempsvench frare Martí Perez Doros, castellá d’Ampostá, que .l rey tremés a l’Infant abcompanya de cavall e de peu, lo qual fo mort a una bastida que havia feta per .j.cayrell, de que fo gran tala, car era bon hom. E dins aquest temps foren .xx. gale-es de Pisans a Canyelles, qui cremaren totes les viandes qui eren del dit senyor.

23. En la entrada del mes de gener foren tractats parlaments entre lo senyorInfant e .ls capitans de Vila d’Esgleyes per rahó de grans morts e malalties que

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havia dins la vila e tan gran fam que .ls cavalls qui moriren e asens, e cans, gats,rates, e erbes de totes maneres menjaven. E gitaren de la dita vila les dones,homens vells e infants pochs, per tal que més se poguessen tenir. E totavia les hifeu tornar lo senyor Infant. E, finalment, fo axí avengut entre .l senyor Infant e .lsdits capitans que si ells, dins .j. mes qui seria complit a .xiij. dies del mes de febreraprés seguent, no havien hauda tal ajuda per que poguessen levar per força lo ditsenyor del dit setge, que ells li liurarien la vila ab condició que aquells qui anar se.n volrien se .n anassen la on se volguessen ab tot ço del lur. E axí fo fet ferm.

24. E per la gran fam e destret, que aquells de la dita vila sofferien, nopogueren esperar lo dit terme, ans lo .viié. dia del mes de febrer liuraren la vilaal senyor Infant, e tots los soldats qui hi eren se .n anaren ab tot ço del lur enCastell de Càller, ab companya d’omens a cavall que .l senyor Infant los liuráqui .ls guiaren entró al dit Castell. E, com lo dit senyor fo en la dita vila, trobáque no .y havia vianda a aquell dia.

21. Inoltre fu deciso che tutte le galee e le altre imbarcazioni che si trovavanonella località di Canyelles sbarcassero i viveri riservati alla Corte e si recasseronel golfo di Cagliari, a causa dell’inverno ormai alle porte; inoltre, che col nobi-le Don Guerau de Rocabertí e con coloro che si trovavano con lui nella localitàdi Quartu, ponessero l’assedio al castello di Cagliari. Così fu fatto, visto che sistabilirono di fronte al castello stesso, su un colle chiamato Bonaria, che muniro-no di mura e di fortificazioni.

22. Mentre il signor Infante assediava Villa di Chiesa, scoppiò nell’eserci-to un’epidemia tanto grave che tutti si ammalarono e molti nobili, cavalieri,cittadini onorati e fanti vi morirono in numero tanto grande che a mala pena sitrovava chi li volesse sotterrare, chi facesse la guardia, e chi avesse altre atti-vità se non pensare a se stesso e al modo di restare in vita. L’epidemia duròfinché durò l’assedio. Il signor Infante si ammalò tanto gravemente che mai,finché restò in Sardegna, fu senza febbre. Allo stesso modo si ammalò lasignora Infanta e morirono tutte le donzelle che la avevano seguita, tanto chene rimase in vita soltanto una, e dovette prendere al suo servizio donne sardeo d’altra nazionalità; così può calcolarsi che morirono nell’assedio la metàdegli assedianti, e degli altri ne rimasero assai pochi che non fossero malati egiunti numerose volte in fin di vita per la malattia. Ciò si verificò a causa del-l’inverno, che fu molto piovoso; inoltre il terreno su cui sorgeva l’accampa-mento era assai fangoso, il clima era molto freddo, aleggiava un gran fetore,tutte cose che provocavano infezione. In questo periodo giunse frate MartíPerez Doros, castellano d’Amposta, che il re (Giacomo II) inviò all’Infantecon un contingente di cavalieri e fanti; egli trovò la morte in una bastita cheaveva costruito, colpito da un giavellotto; la qual cosa procurò un grave danno,poiché era un uomo eccezionale. Nel frattempo venti galee pisane giunsero aCanyelles e bruciarono tutte le vettovaglie, a disposizione dell’Infante, che sitrovavano nel luogo.

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23. All’inizio del mese di gennaio ci furono trattative tra il signor Infante ei capitani di Villa di Chiesa, a causa dell’elevata mortalità che si era verifica-ta nella villa, delle malattie e della fame, tanto insopportabile che gli assedia-ti mangiavano i cavalli che morivano, asini, cani, gatti, topi ed erbe di ognitipo. Fecero uscire dalla villa le donne, i vecchi e pochi bambini, affinchépotessero resistere più a lungo. Il signor Infante, però, li fece tornare indietro.Finalmente si giunse ad un accordo tra il signor Infante ed i capitani, secondoil quale se entro un mese, che scadeva il giorno 13 febbraio prossimo, nonavessero ricevuto aiuti tali da poter far desistere con la forza gli assediantidallo stesso assedio, essi gli avrebbero consegnato la villa, a condizione checoloro i quali volevano lasciarla potessero recarsi dove avessero voluto, contutti i loro beni. Così fu stabilito.

24. Gli abitanti della villa, per la gran fame e l’indigenza che soffrivano,non poterono attendere l’ultimatum fissato; anzi, il giorno 7 febbraio conse-gnarono la villa al signor Infante e tutti i soldati che vi si trovavano si trasfe-rirono, con tutto ciò che poterono portare, nel Castello di Cagliari, accompa-gnati da un contingente di cavalieri che il signor Infante aveva affidato loro colpatto di non condurli altrove, ma solo nel Castello. Appena l’Infante entrònella villa, trovò che non vi erano viveri neanche per quel giorno.

Fonte: G. MELONI, L’Italia medioevale nella Cronaca di Pietro IV d’Aragona,Cagliari, Edizioni Della Torre, 1980 (Collana del Centro di Studi italo-iberici,2), cap. I, §§ 21-24, pp. 42-47.

Doc. 4La città pisana di Castel di Castro si arrende ai Catalano-aragone-si (19 giugno 1324)

I notai Simone Cavalca, pisano, e Bonanato Ça Pera, catalano, redi-gono e sottoscrivono il memoriale della consegna di Castel di Castroai rappresentanti dell’infante Alfonso, capo della spedizione catalano-aragonese nell’isola, Questo atto segna la fine della supremazia pisa-na in Sardegna e l’effettiva nascita del regnum Sardinie et Corsice. Inrealtà la città conservò ancora per due anni la popolazione e le istitu-zioni di origine pisana, ma ben presto la situazione degenerò, anche acausa del rapido sviluppo commerciale del vicino centro catalano diBonayre, e riprese la guerra fra Pisani e Catalani, che segnò la fine –dopo oltre un secolo – del dominio diretto di Pisa sulla Sardegna.

In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, amen. Ex hoc publico instrumentosit omnibus manifestum quod discretus vir Bene de Calci, sindicus comunis

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Pisarum, pro complendo tractatu pacis inite inter serenissimum dominum infan-tem Alfonsum, excellentissimi ac potentissimi domini Jacobi Dei gratia Ara-gonum regis primogenitum eiusque generalem procuratorem ac comitem Urgelli,vice et nomine domini regis predicti et suo nomine proprio ac successorum suo-rum ex una parte et dictum comune pisanum ex altera, exclusis de Castro Kallaridominis Piero Frederici et Ciolo Grassulino capitanis et castellanis Castri Kallariiamdicti pro comunis, qui iverunt omnes apud Stampacem extra fortalitia dictiCastri, tradidit venerabilibus viris domino Bernardo de Boxadors, maiordomo, etdomino Guillelmo Oulomarii, cancellario dicti domini Infantis, recipientibusnomine ipsius domini Infantis Castrum predictum Kallari et corporalem posses-sionem eiusdem. In signum quorum introduxit eos in dictum Castrum per portamque vocatur Helefantis et tradidit nomine dicti comunis iamdictis maiordomo etcancellario, nomine iamdicto, claves omnes portarum dicti Castri. Et fueruntapposita vexilla regalia dicti domini Infantis super turri dicta leonis et turri sanctiBrancasii et campanili ecclesie maioris sancte Marie dicti Castri. Acta sunt hec inCastro Kallari supradicto, in via publica ante portam Helefantis, presentibus no-bis infrascriptis notariis et presentibus egregiis viris domino Guillelmo de Angu-laria, domino Bernardo de Capraria, et domino Petro de Villa de Meym milite, etdomino Lemmo Bullia de Gualandis, domino Pino de Saxecta et domino Franci-sco Çaccio, militibus civibus pisanis testibus ad hec vocatis et rogatis. Sub do-minice incarnationis anno millesimo trecentesimo vigesimo quinto, indictioneseptima, tertiodecimo kalendas iulii, secundum cursum et consuetudinem pisanecivitatis, circa horam tertiam; secundum autem modum curie suprascripti dominiInfantis, tertiodecimo kalendas iulii, anno Domini millesimo trecentesimo vige-simo quarto.

SIGNUM. Ego Simon Cavalca, filius quondam ser Iacobi Cavalce notarii deVico pisano, civis pisanus, imperiali auctoritate notarius, predictis omnibus in-terfui una cum infrascripto notario et ea omnia rogatus scripsi et in hac publicamformam redegi et adfidemus cautelam meum signum et nomen apposui.

SIGNUM mei Bonanati de Petra, dicti domini Infantis notarius suaque sigillatenentis, et publici etiam notarii per totam terram et dominacionem serenissimi do-mini regis Aragonum auctoritate eiusdem, qui una cum suprascripto notario pre-dictis interfui eaque per ipsum scribi et in formam publicam redigi feci et clausi.

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, amen. In virtù di questoatto notarile sia a tutti noto che il distinto signore Bene di Calci, procuratore delcomune di Pisa, per rendere esecutivo il trattato di pace sottoscritto tra il serenis-simo signore Infante Alfonso, conte di Urgell, figlio dell’eccellentissimo e poten-tissimo signore Giacomo, per grazia di Dio re d’Aragona, e suo procuratore gene-rale, in luogo e in nome del già citato signore re e a proprio nome e a nome deisuoi successori, da una parte, e il citato comune di Pisa dall’altra, allontanati daCastel di Cagliari i signori Piero Frederici e Ciolo Grassulino, capitani e castella-ni di Castel di Cagliari in rappresentanza del comune, i quali andarono tutti pres-so Stampace, (quartiere ubicato) fuori le mura del ricordato Castello, affidò ilsuddetto Castel di Cagliari e il suo effettivo possesso ai venerabili signori

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Bernardo de Boxadors, maggiordomo, e Guglielmo Oulomari, cancelliere del-l’Infante, che lo ricevevano a nome dello stesso Infante. Come segno di questevolontà li fece entrare nel suddetto Castello, attraverso la porta che si chiamadell’Elefante, e affidò, a nome del ricordato comune (di Pisa), ai già nominatimaggiordomo e cancelliere, il cui nome è stato ricordato più sopra, tutte le chia-vi delle porte del detto Castello. E furono issate le bandiere regali dell’Infantesopra la torre chiamata del Leone e sopra la torre di San Pancrazio e sul campa-nile della chiesa più importante del Castello, Santa Maria. Tutte queste azionifurono eseguite nel già ricordato Castel di Cagliari, nella pubblica via davanti allaporta dell’Elefante, alla presenza di noi, notai sottoscritti, e alla presenza degliegregi uomini: Guglielmo de Angularia, Bernardo de Capraria e Pietro de Villade Meym, cavaliere, Lemmo Bullia de Gualandi, Pino de Saxecta e FrancescoCaccio, cavalieri cittadini di Pisa, testimoni convocati e richiesti a questo scopo.Nell’anno dell’incarnazione del Signore milletrecentoventicinque, indizione set-tima, tredici giorni prima delle calende di luglio, secondo la regola e la consuetu-dine della città di Pisa, intorno all’ora terza; invece, secondo lo stile della Curiadel ricordato Infante, nel tredicesimo giorno prima delle calende di luglio, nel-l’anno del Signore milletrecentoventiquattro.

Segno notarile. Io Simone Cavalca, figlio del defunto ser Giacomo Cavalca,notaio di Vico pisano, cittadino di Pisa, notaio di autorità imperiale, intervenni intutte le ricordate vicende insieme al sottoscritto notaio e su sua richiesta scrissitutte queste cose e redassi in forma pubblica e per dare ad esso credibilità e percautela apposi il mio segno e il nome.

Segno notarile di Bonanato de Petra, notaio del detto Infante e custode deisuoi sigilli ed anche notaio pubblico in ogni terra e dominio del serenissimosignor re d’Aragona per sua stessa volontà, che insieme al soprascritto notaiointervenni alle predette cose e da lui feci scrivere e redigere in forma pubbli-ca e chiusi.

Fonte: M. TANGHERONI, Alcuni aspetti della politica mediterranea di Giacomo IId’Aragona alla fine del suo regno, in M. TANGHERONI, Sardegna mediterranea,Roma, Il Centro di Ricerca, 1983 (Studi e ricerche del Corpus membranarum ita-licarum, Studi e Ricerche, XXIII), p. 150.

Doc. 5La città pisana di Castel di Castro viene definitivamente occupatadai Catalano-aragonesi e ripopolata con genti iberiche (9 giugno1326)

Il cronista catalano Ramon Muntaner descrive con tono trionfale egrande entusiasmo l’ingresso dei Catalano-aragonesi a Castel di Castro,sulle cui torri vengono issati gli stendardi del re d’Aragona e altre ban-diere, mentre i Pisani – secondo quanto previsto dai patti della resa –

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lasciano mestamente e per sempre la città fortificata, da essi fondata agliinizi del Duecento, le loro case e tutti i loro beni; nel porto li attendonoquattro taride e una nave, sulle quali faranno rientro a Pisa. I Catalanihanno completato un processo storico che può permettere loro, a buondiritto, di definirsi senyors de la mar. È il momento conclusivo di unafase importante dell’espansione marittima; quella stessa espansione cheera iniziata con le imprese di Giacomo I il Conquistatore, delle quali ciparla lo stesso Muntaner nei primi capitoli della sua Crònica.

[…] Què us diré? Que els missatges de Pisa e el noble En Berenguer Carròs,fill de l’almirall, e els altres cavallers que el senyor rei li havia acompanyats,anaren tant, que vengren al castell de Càller, e trameteren missatge al jutge diArborea, qui era procurador general de Sardenya per lo senyor rei d’Aragon.E tantost ell venc al castell de Bonaire; e així mateix fo aquí En Felip de Boïl,qui era capità de la guerra per lo dit senyor rei, e En Boixadors, qui tenia llocd’almirall. E los missatges de Pisa parlaren ab aquells del castell de Càller, edilluns, nou dies de juny de l’any de l’encarnació de nostre Senyor mil tres-cents vint-e-sis, ells reteren lo dit castell de Càller al dit senyor rei d’Aragon,e per ell al dit jutge di Arborea, e al dit noble En Berenguer Carròs, e als altresqui en lo dit castell de Càller, entraren ab ben quatre-cents cavalls armats e abben dotze míla sirvents, tots catalans. E entraren per la Porta de Sant Brancaç,e els pisans eixiren per la Porta de la Mar, e recolliren-se en quatre tarides euna nau que els dits oficials los hagren aparellades, qui els portaren en Pisa.

E com los dits oficials, e el dit noble En Berenguer Carròs e companya del ditsenyor rei entraren en Càller, llevaren en la torre de Sant Brancaç un gran esten-dard reial del dit senyor rei, e puis en cascuna de les altres torres altre estendarde molts penons reials menors. E per gràcia de Déu, con les dites senyeres e penonsse Ilevaren per les dites torres, no feïa gens de vent, e tantost con foren arbora-des, venc un vent al garbí, lo pus bell del món, qui estès les senyeres totes e lospenons. E fo una vista la pus bella qui anc fos per aquells qui bé volen a la casad’Aragon; e per los contraris, dolor e rancura assats. E aquí lo llaus se llevà, ehavia tantes de gents de catalans dins e defora. e gents moltes de sards, e aquellsde Bonaire qui responien als llaus tots ensems, que paria que ceel e terra ne ven-gués. E així, los dits oficials del dit senyor rei e el dit noble En Berenguer Carròsestabliren bé lo dit castell, de molta bona gent de paraula, ço és de paratge, e depeu, en tal manera que per tots temps d’aquí avant hi serà Déu servit; e hi troba-ran totes gents veritat e justícia, en tal manera que la casa d’Aragon e totaCatalunya n’haurà honor e glòria.

E d’aquí avant, ab l’ajuda de Déu, los catalans poden fer compte que seransenyors de la mar […].

Fonte: Crònica de Ramon Muntaner, in Les quatre grans Cròniques, revisiódel text, pròlegs i notes per F. Soldevila, Barcelona, Editorial Selecta, 1971,cap. CCXC, pp. 930-931.

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Che vi dirò? Che i messaggeri di Pisa e il nobile don Berenguer Carroç,figlio dell’ammiraglio, e altri cavalieri che il signor re gli aveva affiancato,partirono, giunsero al castello di Cagliari e trasmisero il messaggio al Giudicedi Arborea, che era procuratore generale di Sardegna per il signor red’Aragona. E subito egli si recò al castello di Bonaria; e vi arrivò anche donFelip de Boïl, che era capitano di guerra per il signor re, e don Boixadors, chefaceva le veci dell’ammiraglio. E i messaggeri di Pisa parlarono con quelli delcastello di Cagliari, e il lunedì, nono giorno di giugno dell’anno dell’incarna-zione di Nostro Signore 1326, essi consegnarono il castello di Cagliari alsignor re d’Aragona, e per lui al Giudice di Arborea, e al nobile don BerenguerCarroç, e agli altri che entrarono nel castello di Cagliari con ben quattrocentocavalieri armati e con ben dodicimila valletti, tutti catalani. Ed entrarono perla porta di San Pancrazio, e i Pisani uscirono per la porta del Mare e si imbar-carono su quattro taride e una nave che gli ufficiali avevano preparato per loroe che li portò a Pisa.

E quando questi ufficiali, e il citato nobile don Berenguer Carroç, e la com-pagnia del signor re entrarono a Cagliari, alzarono sulla torre di San Pancrazioun grande stendardo del signor re e poi, in ciascuna delle altre torri, altri sten-dardi e molte bandiere reali minori. E per grazia di Dio, mentre le bandiere ei pennoni si alzarono sulle torri, non c’era vento, ma appena furono issategiunse un vento di garbino, il più bello del mondo, che dispiegò tutte le ban-diere e i pennoni. E fu la visione più bella per coloro che vogliono bene allacasa d’Aragona; e per i contrari molto dolore e rabbia. E a questo punto si levòla lode, e c’erano tanti Catalani dentro e fuori, e molti Sardi, e quelli diBonaria che rispondevano tutti insieme alle lodi, tanto che sembrava che ilcielo si unisse alla terra. E così gli ufficiali del signor re e il nobile donBerenguer Carroç sistemarono bene il castello con molta buona gente di paro-la, cioè di lignaggio e a piedi, in modo che Dio vi sarà da quel momento in poiservito; e molti troveranno lì verità e giustizia, in modo che la casa d’Aragonae tutta la Catalogna ne riceverà onore e gloria.

E d’ora in poi, con l’aiuto di Dio, i Catalani possono considerarsi signoridel mare […].

Traduzione: La conquista della Sardegna nelle Cronache catalane, a cura diG. Meloni, Nuoro, ILISSO, 1999, cap. 290, pp. 145-146.

Doc. 6Assedio di Alghero ( 24 giugno-9 novembre 1355)

La campagna militare di Pietro IV d’Aragona in Sardegna, finaliz-zata alla riconquista di quei territori che il Giudice Mariano IV diArborea aveva sottratto alla Corona d’Aragona, inizia con l’assediodella città di Alghero, che con il suo porto svolgeva un ruolo economi-

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co e strategico estremamente importante per il controllo del nord del-l’isola e per il dominio del regnum Sardinie et Corsice. Dopo oltrequattro mesi la città veniva riconquistata e a distanza di poco tempodalla firma della pace (16 novembre 1354) il sovrano, per assicurarse-ne definitivamente il possesso, allontanava pacificamente tutti i suoiabitanti e la ripopolava con genti catalane.

38. En aquest endemig, lo dit loch fon destret de fam, e, veents que tenirpus no·s podien, tractaren sobre ·l delliurament del dit loch. E lo tractament foaytal que, perçó com, segons que ja dessús es recomptat en lo present capítol,lo dit loch se era ja retut a Nos e per Nos a Mossen Bernat de Cabrera,ladonchs capitá nostre, se era contra Nos prodicionalment rebellat, no vol-guem ne consentim que algun dels pobladors antichs pus avant hi romangués,ans tots ne fossen foragitats ensemps ab lo capitá e ab tots los altres que ·y erenper deffensió del dit loch, e que ·l loch romangués a Nos en guisa que fospoblat a volentat e ordinació nostra. E, tantost que la dita gent ne fo exida,Nos, ab lo nostre victoriós estandart, faents gracies a Nostre Senyor Deus dela gracia que ·Ns havia feta de cobrar lo dit loch, entram en aquell lo .ix. diadel mes de noembre de l’any de Nostre Senyor .m.ccc.liiij. ab tots los noblese cavallers e altres qui eren ab Nos romases […].

39. E, com fom entrats en lo dit loch, estiguem aquí alguns dies e donam epartim a pobladors de nostra nació, ço es, Cathalans e Aragoneses, totes lesposessions, ço es, cases e terres e vinyes del dit loch e de son terme. E ordenamaquí nostres officials e nostres regidors, e donam-los certa forma de privilegisper los quals se regissen en lo temps esdevenidor. E, fet açó e posat ho en esta-ment, partim del dit loch lo .xxvé. dia del mes de deembre del dit any .m.ccc.liiij.ab tot nostre estol e ab los nobles e cavallers e altres qui ladonchs eren ab Nos.Entre ·ls quals fon lo noble Don Pedro d’Exerica qui de Nos jamés no ·s partí.E feren la via del Castell de Caller en lo qual prenguem terra Nos e la ReynaDona Elionor, muller nostra, filla que fon del rey de Sicilia. E entram en lo ditcastell lo .vj. dia del dit mes de gener e aquí reposam e començam a tractar delsaffers del Regne, segons que ·s segueix.

38. Nel frattempo la località assediata fu stretta dalla fame e, considerandoche non potevano più resistere, gli abitanti trattarono la sua resa. Le trattativesi svolsero in questo modo: poiché – secondo quanto già sopra è stato raccon-tato in questo capitolo – la località si era già arresa a noi, e per noi a DonBernat de Cabrera, allora capitano nostro, e si era ribellata a noi con un tradi-mento, non volemmo né consentimmo che alcuno dei vecchi popolatori virimanesse nel futuro; anzi, decidemmo che tutti ne fossero espulsi, assieme alcapitano ed a tutti gli altri che vi si trovavano per la sua difesa; inoltre, cheessa rimanesse a noi e che fosse popolata secondo la nostra volontà ed i nostriordini. Appena quelli ne furono usciti, noi, col nostro vittorioso stendardo, ren-

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dendo grazie a Nostro Signore Dio della grazia che ci aveva fatto permetten-doci di occupare la suddetta località, entrammo in essa il giorno 9 del mese dinovembre dell’anno di Nostro Signore 1354, con a fianco tutti i nobili, i cava-lieri e quanti erano rimasti con noi […].

39. Come fummo entrati ad Alghero, ci trattenemmo alcuni giorni e donam-mo e dividemmo a popolatori nostri connazionali – ossia Catalani e Aragonesi– tutti i possedimenti, cioè case, terre, vigne, della località e del suo territorio.Nominammo qui nostri ufficiali e nostri reggenti, e concedemmo loro deter-minati privilegi attraverso i quali si governassero nel futuro. Fatto e stabilitotutto ciò, partimmo da Alghero il giorno 25 del mese di dicembre dell’anno1354, con tutta la nostra flotta, i nobili, i cavalieri ed altre persone che allorasi trovavano con noi. Tra essi vi fu il nobile Don Pedro d’Exerica, il quale nonsi allontanò mai da noi. E si seguì la via del Castello di Cagliari, dove pren-demmo terra noi e la regina donna Eleonora, nostra moglie, figlia del re diSicilia. Entrammo nel castello il sesto giorno del mese di gennaio; qui ci ripo-sammo ed iniziammo a trattare gli affari del Regno, secondo quanto segue.

Fonte: G. MELONI, L’Italia medioevale nella Cronaca cit., cap. V, §§ 38-39,pp. 110-113.

Doc. 7Lettera di Brancaleone Doria al nobile siciliano AndreottoChiaromonte (10 febbraio 1392)

La pace del 1388, firmata dalla Giudicessa Eleonora di Arborea edal re d’Aragona Giovanni I il Cacciatore, avava riportato i territoridel Giudicato di Arborea e del regno di Sardegna e Corsica entro i con-fini già definiti dalla pace di Sanluri del 1355, ponendo fine a unalunga guerra e alla prigionia di Brancaleone Doria, marito diEleonora. Questi, in realtà, venne liberato solo nel 1390 e subito ripre-se le armi contro i Catalano-aragonesi, cercando alleati dentro e fuoril’isola. La situazione della Sardegna nei primi mesi del 1392 era par-ticolarmente critica per i Catalani, che mantenevano solamente le roc-caforti di Cagliari, Alghero e Longosardo, rifornite esclusivamente viamare dal momento che il loro retroterra era in mano ai Sardi arboren-si, i quali potevano ora contare anche sull’appoggio di Genova. I rap-porti della Repubblica ligure con la Corona d’Aragona, dopo la pacedel 1390, erano andati progressivamente peggiorando: nel 1391 lacittà ritirava i propri mercanti dalle terre catalane e nel 1392, pur dif-fidata dal sovrano aragonese, continuava a fornire aiuti ai Sardi.

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In questo particolare contesto storico si inserisce la lettera in linguavolgare italiana che Brancaleone Doria scrive al nobile sicilianoAndreotto Chiaromonte per informarlo che l’infante Martino sta arman-do in Catalogna una flotta, forte di dodici galee e di oltre duemila uomi-ni armati, per attaccare la Sicilia. Brancaleone esorta il nobile Andreottoa combattere i Catalani, nemici comuni, sino alla morte, così come faran-no i Sardi, e si dichiara pronto a passare in Sicilia con un esercito di cin-quemila fanti e mille cavalieri, se per miracolo divino un ponte congiun-gesse le due grandi isole del Mediterraneo e permettesse il transito deisuoi uomini. Brancaleone informa il nobile siciliano della situazione sar-da e dei successi militari conseguiti dai Sardi sui Catalani, ai quali sonostate sottratte le ville, le terre ed i castelli dei quali si erano riappropria-ti con la pace del 1388; solo Longosardo è ancora nelle mani nemiche,ma presto anche quella fortezza sarà riconquistata.

Magnifice domine et frate carissime, notifichiamo ala vostra magnificen-cia et signoria che noy sappemo di certo che lo infante Martino si mette adpunto lo istolo et armata in Cathalogna per passare dicosta in Cicilia. Ethavendo noy risguardo ala vostra exaltacione et di vostra Casa per la antiquaamistà che lungamente è stata tra la nostra Casa et la vostra di Chiaramonte,sì di benivolentia et grande dilectione sì, etiandio, di fraternale coniungimen-to di parentado, di ogni vostro exaltamento, bono stato et honori, seriamo etseremo allegro et contento; reputandoni partifici in quelli, et per contrario anoy seria in rancore et in gelosità di tutto dampno o manchamento che lavostra Casa havesse, maximamente che quelli Cathalani che vi voglianoadversare sono nostri emuli et antiqui inimici. Per la qual cosa piaccia alavostra magnificencia di havere avisato remedio con providentii, savii et vir-tuosi in el vostro favore et mantenimento di vostra Casa, et in dampno etdestrugimento deli vostri et nostri inimici, stando sempre provisto et attentoin ver dilloro sì come del vostro circumspecto et virtuoso iscaltrimento spe-riamo, et che tutti tempi la valorosa Casa vostra di Chiaromonte come a pro-sperigiato debbia prosperigiare; et ciò a noy serà infinita gloria et gran con-tentamento.

Dichiarandovi certamente che se la dicta armata et stolo verrà in questaisula nostra di Sardigna, et vorrano pigliare niente del terrino di Sardigna, noyvi prometemo sopra la nostra fede che con nostra jente ni troveremo ala bata-glia con loro et contra elli valorosamente repparare che, o elli ni conduciranotutti ad fin di morte o noy a elli conduciremo ad fin di morte. Et questo serà involuntà de la potentia divina, sigondo che la sua gratia volrà administrare etlantora non vi calirà più dubitare dilloro et che seguramente porrete stare invostra Casa et prospero stamento. Et se per aventura la dicta armata terrà dirit-ta via in cotesta isula sensa venire diqua, piacciavi, caro frate, che la vostravertù con operi valorosi et maneri laudabili vi sia efficaci in loro dampnagio

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et crudele destructione. Ma piaccesse a lo omnipotente Dio che per sua graciaet misericordia ni consentesse che da questa isula di Sardigna a cotesta isuladi Cicilia havesse un ponte che per terra si potesse passare, perché lantoravolunterimente vi soccorririamo ala dicta armata, et noy personivilmente nitroveriemo insieme con voy, con cinqui milia pedoni sardi et mille sardi dacavallo almeno, inperciò che con la vostra posansa insieme, et con lo vostrosenno et virtù, sensa dubio li dicti iniqui et malvagi Cathalani meteriamo admorte et ad crudelissimo destrugimento, et la loro superbia et presumptuosaarrogantia conculchariamo, in manera che seriamo pagati di tutti loro traitioniet malvastai che anno usati in ver di noy; et voy, come ditto havemo disopra,staresti a segurtà sensa paura dilloro.

Or nondimeno la vostra fraternità preghiamo caramente che vi piaccia delvostro bono stamento et prospera salute farni certi per vostri litteri, però cheinfinita consolatione ni haveremo con gran piaccere, come di noy proprio; etin tutti cose di vostro honore porrete a noy tutti tempi scrivere con fiducia lasimigliante mensione noy facendo di vostra fraternità.

Et dichiaramovi etiandio che lo dicto stolo et armata sono galei .XII. et por-tano in navi milli homini d’arme et sono tra tutti homini d’arme due milia conli pilardi, non contando li altri marinaii. Apresso, rendendoni noy certi che lonostro prospero stato ala vostra gran magnificencia et cara fraternità serà ingran piaccere et consolatione, vi notifichiamo ad gaudio et letitia che median-te la divina potentia, dala quale ogni bene et dono di gratia procede, et con lajusta et legiptima ragione noy havemo recuperato et havuto tutti li citadi, terriet castelli li quali funno dati per la nostra liberacione ali Cathalani, traditori-vilmente et con gran falsità et inganno, salvo solamente lo luogho di LongonSardo, al quale con lo adiutorio di Dio daremo ordine e modo chel recupera-remo, et havuta la vista delo istuolo di Cathalani passato che serà, lo metere-mo in custodia che non porrà mancare che non pervegna sobto nostro podereet dominio. Datta in Arestano a dì X di ferraio M CCC XC II, sub nostro sigil-lo secreto.

Fonte: F.C. CASULA, Carte reali diplomatiche di Giovanni I il Cacciatore, red’Aragona, riguardanti l’Italia, Padova, CEDAM, 1977, doc. 35, pp. 63-65.

Doc. 8Giovanni I d’Aragona si prepara a venire in Sardegna per combat-tere i Sardi ‘ribelli’ e porre fine ad una guerra che per decenni hainsanguinato il Regno (14 ottobre 1392)

Il sovrano della Corona d’Aragona, Giovanni I il Cacciatore, an-nuncia ai governatori, agli amministratori e a tutti gli ufficiali dell’am-ministrazione regia e municipale del regno di Sardegna, che è suaintenzione intraprendere una campagna militare nell’isola per combat-

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tere e castigare in modo esemplare i Sardi ‘ribelli’; li informa sui pre-parativi che si fanno in Catalogna e negli altri Regni della Corona perpassare nel regno di Sardegna e annuncia che l’armata sbarcherà nel-l’isola nel mese di aprile del 1393; il sovrano vieta, pertanto, di espor-tare grano, avena e altre vettovaglie in modo che l’armata, giunta inSardegna, trovi gli approvigionamenti alimentari necessari al suosostentamento.

En Johan, per la gracia de Deu rey d’Arago et cetera. Als amats e feelsnostres los governadors, administradors de les nostres rendes e drets delRegne de Sardenya, veguer e consellers del Castell de Caller e de l’Alguere altres oficials e sotsmesos nostres del dit Regne als quals se pertanguenles coses daval scrites e cascun dells e a lurs lochtinents, salutem et dilec-tionem.

A consolacio, plaer e creximent de goix de vosaltres e cascun de vosal-tres e scalfar la naturalesa e zel de servir vostre e de tots nostres feels vas-salls del dit Regne, vos notificam que nos ab gran afectio e sobiran volercontinuants nostre ferm proposit del benaventurat passatge lo qual, mijan-çant l’ajuda divinal, havem proposat fer al dit Regne per fer execucio ecastich de les rebelles nostres e lurs secaces, personalment discorrent lesprovinces de nostres Regnes e terres per afers del dit nostre benaventuratpassatge e ultra axo haiam ordenat nostre solenne consell, resident en laciutat de Barchelona, ab plen poder nostre per disposar, ordenar e aparellartotes les coses al dit benaventurat nostre passatge necessaries axi que nospersonalment e tots nostres afectuoses servidors de una part per diversespartides de nostres Regnos e terres e lo dit consell nostre ensemps ab losconsellers de Barchelona en la dita ciutat daltra part continuament fem, pro-curam, cobram, en tal manera que mijançant l’ajuda divinal en lo mesd’abril primer vinient, lo qual a aço havem assignat, en lo nom de nostreSenyor, nos recullirem ab nostres gents e ab nostre stol per fer lo dit bena-venturat passatge al dit Regne e com de nostra providencia se pertenga queper las provisions de nostre benaventurat empaxament deça no ometamaquells que preveen aqui esser necessaries quant aqui ab bon salvament,volent nostre Senyor, serem arribats; e entre les altres sie de necessitat queaqueix Regne quant siam aqui sie copios de viandes per la moltitud de lesgents que ab nos, Deu volent, menarem. Per ço a vos e a cascu de vosaltresdehim e manam expressament e de certa sciencia e sots encorriment denostra ira e indignacio, que façat en lo dit Regne general inhibicio, ab granspenes per vosaltres posadores e contra los contrafaents exeguidors edaquells e cascun dells sens tota remissio levadors, que del dit Regne for-ments, cevada o altre gran o vitualles no ixquen en manera alguna e aço tin-gats e servets a cense e servar façats sens darne a algun licencia de traurne,car nos daquant vos colem tot poder sabent que molt nos en deservirets etdaquant forment vos privirieu en tal manera que quant nos, Deu volent,

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serem aqui ab nostres gents trobem, ab les altres bones provisions que noshi farem, copia de viandes per nos e nostra armada e gents daquella pernostra sustentacio e provisio segons ques pertany.

Dada en Barchelona a XIIII dies de octobre en l’any de la nativitat de nostreSenyor mil CCCXXXXII.

Giovanni, per grazia di Dio re d’Aragona eccetera, ai nostri amati e fede-li governatori, agli amministratori delle nostre rendite e diritti nel regno diSardegna, al vicario e ai consiglieri del Castello di Cagliari e di Alghero, atutti gli ufficiali e sudditi del regno di Sardegna che devono conoscerequanto di seguito scritto, a ciscuno di loro e ai loro luogotenenti, salute eaffetto.

A consolazione, piacere e gioia vostra e per premiare la cura e lo zeloposto da voi e da tutti i nostri fedeli vassalli del suddetto Regno, vi comuni-chiamo che è nostra ferma intenzione intraprendere una campagna militareche, con l’aiuto di Dio, intendiamo portare avanti nel Regno (di Sardegna)allo scopo di castigare in modo esemplare i ribelli e i loro seguaci. A questoscopo stiamo percorrendo le province e le terre dei nostri Regni, portandoovunque notizia di questo nostro passaggio (in Sardegna) ed inoltre abbiamoriunito nella città di Barcellona il Consiglio regio, dando ad esso pieni pote-ri per disporre, ordinare e preparare quanto necessario a questa nostra impre-sa, affinché non solo noi, ma anche i nostri fedeli sudditi, che risiedono nellediverse province e terre dei nostri Regni, e il nostro Consiglio, unitamente aiconsiglieri della città di Barcellona, si diano da fare ed operino fattivamen-te allo scopo di rendere possibile, confidando nell’aiuto divino, il passaggio(in Sardegna) entro il prossimo mese di aprile. Questa è, infatti, la data cheabbiamo fissato, in nome di nostro Signore, per riunire le nostre genti e perintraprendere con la nostra armata l’auspicato passaggio nel Regno (diSardegna). È peraltro opportuno che non solo noi prendiamo adeguati prov-vedimenti per la migliore riuscita dell’impresa, ma anche quanti si trovano(in Sardegna) non trascurino di preparare quanto sarà necessario a noi quan-do sani e salvi, con l’aiuto del Signore, saremo giunti nell’isola. Fra le cosepiù necessarie, che in questo Regno dovranno essere reperite prima delnostro arrivo, vanno ricordate le vettovaglie, tenuto conto della moltitudinedi persone che, se Dio vuole, ci seguiranno in questa impresa. A questoscopo, pienamente consapevoli, minacciando la nostra ira ed indignazionecontro coloro che contraverranno a questo nostro divieto (di esportazione) eprevedendo pene esemplari e certe, non solo nei confronti dei trasgressorima anche di coloro che non si opporranno a tali trasgressioni, disponiamo eespressamente vi ordiniamo di vietare rigorosamente le esportazioni dalRegno di frumento, avena o altri cereali e vettovaglie; questa disposizionedovete rispettarla e farla rispettare, e non dovete assolutamente concederelicenze di esportazione dal momento che anche da questi provvedimenti,volti a tesaurizzare il grano (prodotto nell’isola) dipende la buona riuscitadella nostra impresa. Quando infatti, se Dio vuole, giungeremo qui con la

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nostra armata, oltre a tutti i provvedimenti presi per la migliore riuscita del-l’impresa, troveremo in abbondanza il cibo necessario per il sostentamentonostro, della nostra armata e delle persone che la compongono, come è giu-sto e opportuno avvenga.

Scritta a Barcellona il 14 ottobre dell’anno 1392, computato dalla nascita dinostro Signore.

Fonte: E. PUTZULU, ‘Cartulari de Arborea’. Raccolta di documenti diplomati-ci inediti sulle relazioni tra il Giudicato di Arborea e i Re d’Aragona (1328-1430), estratto da «Archivio Storico Sardo», XXV, fasc. 1-2, 1957, doc. 20,pp. 81-83.

Doc. 9Nel 1355 si celebra a Cagliari il primo Parlamento del regno diSardegna

Pietro IV d’Aragona, riconquistata Alghero e ripopolatala con gentiiberiche, lascia la città e si reca a Cagliari, dove convoca Corts gene-rals, ossia il Parlamento. Parteciperanno all’Assemblea, oltre i treBracci: ecclesiastico, feudale e reale, un quarto Braccio, quello deiSardi, formato dai rappresentanti delle ville che negli anni della guer-ra non avevano abbracciato la ‘causa arborense’ ed erano state fedelialla Corona d’Aragona.

40. Ço es que, per letres nostres dades en lo dit Castell de Caller, el .xxiijé.dia del dit mes de gener de l’any de la Nativitat de Nostre Senyor .m.ccc.lv.,acordam de tenir Corts generals, e citam e requerim tots los prelats, nobles ecavallers, ciutats e viles de la dita illa de Cerdenya que, personalment o perlurs procuradors bastants, fossen en lo Castell de Caller per celebrar Cortsgenerals, començadores lo .xvé. dia del mes de febrer aprés seguent. En lesquals Corts se feren e s’ordenaren moltes constitucions e declaracions tocantslos negocis generals de tots los habitants en la illa dessús dita, segons que, perles ordinacions e actes de Cort, es largament en .j. libre qui ·s feu ladonchs dela celebració de les Corts generals dessús dites. E lixenciam les dites Corts axícom aquelles qui hagueren compliment e fi deguda.

40. Tramite nostre lettere datate nel Castello di Cagliari, il giorno 23 delmese di gennaio dell’anno della Natività di Nostro Signore 1355, decidem-mo di tenere Corti generali e convocammo e richiedemmo che tutti i prela-ti, i nobili, i cavalieri, i rappresentanti delle città, delle ville dell’isola diSardegna, personalmente o tramite loro procuratori delegati, si presentasse-ro nel Castello di Cagliari per celebrare Corti generali, che sarebbero inizia-

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te il giorno 15 del mese di febbraio seguente. Nelle stesse Corti si stabiliro-no ed emanarono molte costituzioni e risoluzioni relative agli affari genera-li di tutti gli abitanti dell’isola secondo ciò che è estesamente contenuto inun libro sulle ordinanze e sugli atti delle Corti, che si compilò allora, appun-to sulla celebrazione delle stesse Corti. Licenziammo infine le Corti stesse,poiché le ritenevamo concluse e consideravamo raggiunto il fine che ci era-vamo proposti.

Fonte: G. MELONI, L’Italia medioevale nella Cronaca cit., cap. V, § 40, pp.114-115.

Lettera di convocazione (23 gennaio 1355)

Pietro IV d’Aragona convoca al Parlamento, che intende celebrarea Cagliari a partire dal 15 febbraio 1355, il Giudice Mariano IV diArborea. Segue l’elenco delle convocazioni per gli altri esponenti delbraccio militare. Mariano IV non parteciperà all’Assemblea, ma nomi-nerà un procuratore, Raniero di Bonifacio de Gualandi, che lo rappre-senterà nel corso dei lavori parlamentari. Non si presenteranno alleCorti i sardo-liguri Catonetto e Damiano Doria, il sassarese BartoloCatoni e il rappresentante del comune di Pisa, per i possedimenti (le‘curatorie’ di Gippi e Trexenta) che la Repubblica dell’Arno ancorateneva a titolo feudale in Sardegna.

Petrus et cetera, egregio viro Mariano, iudici Arboree, comiti Gociani, salu-tem et dilectionem.

Quia nos pro bono statu totius rei publice huius insule Sardinie proposui-mus celebrare Curias XV die mensis februarii proxime instantis in civitateCallaritana tam omnibus Cathalanis et Aragonensibus quam aliis quibuscum-que in dicta insula habitantibus, ideo vobis dicimus et mandamus quatenus dieprefixa celebrationi dictarum Curiarum nobiscum in dicta civitate infallibiliterintersitis.

Datum in Castro Callari XXIII die ianuarii, anno a nativitate DominiMCCCL quinto. Subscipsit Guillelmus.

Similes littere fuerunt facte infrascriptis nobilibus: nobili et dilecto Beren-gario Carroci; nobili et dilecto Matheo de Auria; fideli nostro Manseto Darde;fideli nostro Gandino de Aceni; nobili Johanni Carrocii; fideli nostro Alibran-do de Aceni; fideli nostro Barsolo Cathoni; fideli nostro Cathoneto de Auria;fideli nostro … vicario seu procuratori villarum Comunis Pisarum.

Pietro eccetera, al nobile Mariano, Giudice di Arborea, conte del Goceano,salute e affetto.

Documenti II 79

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Poiché per il bene di tutto il Regno di quest’isola di Sardegna abbiamo deci-so di convocare in Parlamento, per il giorno 15 del mese di febbraio prossimoventuro nella citta di Cagliari, sia tutti i Catalani e gli Aragonesi che tutti gli altriche abitano in detta isola, pertanto vi comunichiamo e vi ordiniamo di presen-tarvi nella detta città il giorno fissato per la celebrazione del detto Parlamento.Scritta a Cagliari il 23 gennaio, nell’anno del Signore 1355. SottoscrisseGuglielmo.

Lettere di analogo contenuto vennero inviate a: Berengario Carroz, MatteoDoria, Manseto Darde, Gandino de Açeni, Giovanni Carroz, Alibrando deAçeni, Bartolo Catoni, Catonetto Doria, al vicario o procuratore delle ville delcomune di Pisa.

Fonte: Il Parlamento di Pietro IV d’Aragona (1355), a cura di G. Meloni,Cagliari, CRS, 1993 (Acta Curiarum Regni Sardiniae, 2), pp. 165-166.

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Capitolo III

La presenza dei mercanti stranieri

nel basso Medioevo

I primi patti tra Giudici sardi e mercanti continentali (secc. XI-XII)

La storia della Sardegna altomedievale è ampiamente condizionatadalla virtuale assenza di fonti scritte per il periodo compreso tra l’ini-zio del VII secolo e la metà circa dell’XI. Un silenzio documentariodurato oltre quattrocento anni ha reso assai problematico ogni tentati-vo di ricostruire le vicende politico-istituzionali isolane nel periododella lunga transizione tra il lento affievolirsi della dominazione bizan-tina e l’emergere di nuovi poteri locali, ovvero i quattro Giudicati diCagliari, Arborea, Gallura e Logudoro. Le difficoltà, solo parzialmen-te attenuate dalla recente valorizzazione delle evidenze archeologicheed epigrafiche, risultano ancora più ardue da superare qualora l’obiet-tivo sia quello di indagare le trasformazioni delle strutture economichee sociali della Sardegna, per non parlare degli aspetti legati alla storiadella religiosità e della cultura. Se poi, più nello specifico, si punta adanalizzare la rete dei commerci e delle comunicazioni mediterranee,così come la presenza in Sardegna di mercanti, armatori e sempliciviaggiatori stranieri, allora non resta che arrendersi all’idea che solo unserrato interrogatorio condotto su fonti arabe potrà forse gettare un rag-gio di luce su questi aspetti.

Con la seconda metà dell’XI secolo tuttavia il panorama offerto dallefonti cambia quasi di colpo e a tutti i livelli, un fenomeno che va di paripasso con la fine dell’isolamento alto-medievale e la progressiva apertu-ra del mondo sardo a un più generale contesto italiano e quindi mediter-raneo. È interessante sottolineare come l’emersione della Sardegna dallenebbie documentarie alto-medievali, pur in un quadro documentarioancora quantitativamente assai debole, abbraccia sin da subito i rapportitra l’isola e gli uomini d’affari di città come Pisa e Genova, allora impe-

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gnate a ‘ripulire’ il Tirreno dalla cosiddetta pirateria saracena e a trasfor-mare la navigazione mercantile in una straordinaria risorsa per lo svilup-po economico, sociale e persino spirituale: ancora oggi, sulla facciatadella imponente cattedrale romanica di Pisa (eretta a partire dal 1064),campeggia un’iscrizione nella quale la cittadinanza si faceva vanto diavere innalzato un simile monumento a gloria di Dio e della propriapatria con i proventi derivanti dalla giusta lotta contro l’infedele.

Nel contesto di un generale risveglio dell’Occidente cristiano-cattoli-co, caratterizzato dall’aumento della popolazione, dall’estensione deglispazi coltivati e dal risorgere del fenomeno urbano, il Mediterraneo occi-dentale si avviò a diventare (prima delle crociate) il terreno di incontro-scontro con le più evolute civiltà musulmane: guerra e scambi (di dena-ro come di saperi, di prodotti ma anche di cultura) presero ad alternarsiin apparente contraddizione e con nostro grave sconcerto. Dagli arsenalidei porti dell’alto Tirreno uscivano sempre più imbarcazioni per fare for-tuna con il commercio e con la pirateria, attività entrambe finanziate daalcuni esponenti di quello che poi sarebbe divenuto il ceto dirigentecomunale per oltre un secolo: ovvero i membri della nobiltà cittadina,quelli che le fonti latine del tempo qualificano con il termine di milites,cioè potenziali combattenti che disponevano di una ricchezza tale dapoter avere uno o più cavalli da guerra. È con questa genìa di pirati-mer-canti che la Sardegna giudicale dovette fare i conti fin dagli ultimi decen-ni dell’XI secolo. Si trattava di individui ardimentosi, spesso sostenutioltre che dalle nuove istituzioni comunali anche dal clero delle grandichiese cattedrali di S. Maria (Pisa) e S. Lorenzo (Genova) e dagli entipreposti alla costruzione e manutenzione di questi solenni edifici, ovve-ro le Opere. Gli stessi monaci riformatori inviati nell’isola da GregorioVII, a cui i Giudici fecero generose donazioni di terre e di immobili (so-prattutto Camaldolesi e Vallombrosani, ma anche Cistercensi e Vittorinidi Marsiglia), pur se spinti da motivazioni e ideali assai lontani da quel-li che guidavano gli uomini d’affari, provenivano dallo stesso milieusocio-culturale e predisposero quindi l’isola ad accettare l’ingombrantepresenza di questi stranieri. Del resto, nell’Europa del tempo, nessun so-vrano o principe, laico come ecclesiastico, era in condizione di rifiutaredel tutto i servigi finanziari resi da quella originale creazione dell’Oc-cidente basso-medievale che fu il mercante.

Le prime attestazioni della presenza di uomini d’affari continentaliin Sardegna riguardano per l’appunto i Pisani e la concessione di unaserie di privilegi ed esenzioni doganali forniti loro da alcuni Giudici.Veramente straordinaria, per l’altezza cronologica ma anche per gliaspetti linguistici, è un documento datato tra il 1080 e il 1085, nel quale

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il Giudice del Logudoro, Mariano de Lacon, concedeva ampie facilita-zioni ai mercanti della città toscana: esenzioni doganali, amicizia e pro-tezione per il libero esercizio dei traffici nel Giudicato (doc. III-1). Perquanto stese in sardo, le clausole del trattato hanno subito un chiarocondizionamento da parte dei delegati pisani, che virtualmente ‘impo-sero’ una terminologia tecnica di chiara matrice continentale, com’èevidente dall’utilizzo di vocaboli come toloneu o placitu. A leggere iltesto pare chiaro che il Giudice e i suoi più stretti collaboratori (i dom-nicelli) avevano già preso coscienza che dietro ai mercanti c’erano ilneonato comune pisano con i suoi consoli, il vescovo (presto si sareb-be parlato di arcivescovo dotato di legazìa apostolica sull’isola) e lapotente famiglia dei Visconti, che all’inizio del XIII secolo si sarebbeimpossessata, per via matrimoniale, del Giudicato di Gallura. Cosaricevesse in cambio Mariano non è specificato, anche se possiamo ipo-tizzarlo: prestiti agevolati, alleanza contro gli altri Giudici dellaSardegna e probabilmente protezione delle coste del suo territorio dagliattacchi di nemici e pirati.

Nel maggio del 1103 il Giudice cagliaritano Turbino fece qualcosadi simile al suo omologo turritano: l’atto stavolta venne steso in lingualatina e le motivazioni risultano più esplicite (doc. III-2). Turbino avevaappena usurpato la corona al nipote e legittimo pretendente, Marianofiglio del defunto Costantino. Si trovava quindi nella oggettiva condi-zione di doversi procurare degli alleati, prima che i soggetti interessatipassassero a militare dalla parte avversa. Ecco quindi il senso del-l’esenzione concessa ai Pisani da tutti i dazi, compresi quelli relativiall’esportazione di sale estratto dalle ricche saline del Giudicato. È perfar sì che «populus Pisanus sit amicus michi et regno meo et non offen-dant studiose neque me neque regnum meum» che Turbino decise diaprire le porte agli uomini d’affari di Pisa, mettendoli in condizione digestire i flussi commerciali da e per la Sardegna.

La documentazione mercantile vera e propria appare solo alla metàdel 1100, con i celebri cartulari dei notai genovesi, ma già questi duebrevi esempi delineano alcune delle ragioni che resero facile ai conti-nentali la penetrazione commerciale in Sardegna. L’aggressività e ladinamicità dei mercatores toscani (e poi liguri), alla ricerca di materieprime e derrate alimentari a buon mercato, non potevano essere contra-state da ceti mercantili locali che se non erano totalmente assenti, tut-tavia non erano in grado di competere con i forestieri. La debolezzadella struttura economica e sociale isolana, aggravata dal sottopopola-mento (un fenomeno strutturale che da sempre ha interessato i demo-grafi), dalla modesta maglia insediativa e dalla inconsistenza (ma in

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molti casi di deve parlare di scomparsa) dei centri urbani tardo-antichi,non giustificava quella che noi oggi definiremo una politica ‘protezio-nistica’, perché il Giudice e le famiglie magnatizie del suo seguito (icosiddetti maiorales) sembravano avere, nell’ottica del breve periodo,una convenienza maggiore a fare accordi con gli stranieri, fossero essienti monastici, vescovadi, città o comunità mercantili. C’era poi il fattoche sia Pisa che Genova disponevano di argomenti assai convincenti, ilprimo dei quali era la disponibilità di flotte in grado all’occorrenza dicontrollare militarmente il Tirreno e ampie zone del Mediterraneo. Loavrebbero imparato presto (a loro spese) gli emiri del Maghreb, mentretanto i crociati in Terrasanta, quanto i conti di Barcellona durante l’as-sedio e la conquista di Maiorca nel 1115 non poterono fare a meno dellamarina da guerra pisana e genovese.

La penetrazione pisana e genovese nella società sarda della pienae tarda età giudicale (metà XII sec. - inizio XIV sec.)

A partire dalla metà del XII secolo si produce a Genova, e successi-vamente in altre grandi città comunali, un fenomeno documentario cheè il frutto della crescita economica, sociale e culturale maturata inItalia: il notaio, ora dotato di fides publica e inquadrato perciò in auto-revoli associazioni di mestiere, stante il numero esorbitante di atti darogare, comincia ad abbandonare la stesura completa (in gergo notari-le si diceva in mundum) su fogli sciolti di pergamena e passa a utiliz-zare registri sui quali riporta del contratto solo ciò che è giuridicamen-te essenziale, la cosiddetta imbreviatura. Nel corso della seconda metàdel Duecento il passo successivo consisterà nel sostituire la costosapergamena con fogli di carta, allora ricavata dalla lavorazione deglistracci, secondo un processo manifatturiero importato in Italia dalmondo arabo. Quando i primi esemplari di registri notarili (detti ancheprotocolli o cartulari) fanno la loro comparsa a Genova è di tutta evi-denza che, in questa straordinaria innovazione tecnico-giuridica e cul-turale, il ruolo esercitato del commercio, in questo caso soprattuttomarittimo, è assolutamente soverchiante.

Quattro sono le tipologie di contratti che più spesso il notaio si trovaa rogare per gli uomini d’affari genovesi: il prestito marittimo, il cam-bio marittimo, la società di mare e la commenda (in latino accomenda-tio). Senza voler entrare nel dettaglio è tuttavia importante sottolinearecome ci sia un denominatore comune a queste prime embrionali formedi associazioni mercantili: la durata del contratto è legata a un viaggio

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d’affari di andata e di ritorno, con restituzione di capitali, pagamentodegli interessi (se previsto) e spartizione di eventuali utili (o suddivi-sione delle perdite) una volta completato l’intero itinerario e attraccatala nave nel porto di partenza. È il ritmo stagionale della navigazione adeterminare la diffusione di contratti e società nei quali più di uno sto-rico ha visto antecedenti nel mondo islamico. Come che sia, esistonosempre due figure giuridiche contemplate in questi atti: uno o più mer-canti itineranti che viaggiano e prestano la loro opera (e talvolta unapiccola parte dei capitali) e uno o più soci passivi, che si limitano afinanziare l’impresa, accollandosi però anche i rischi che all’epocaerano tutt’altro che marginali: naufragio, assalto di pirati o di nemicidella propria città, merci guastate da stive colabrodo, ecc.

È analizzando questo tipo di documentazione che il commercio inSardegna comincia finalmente ad assumere una fisionomia più precisa,con tanto di indicazione dei nomi di mercanti e armatori, e (nei contrattidel XIII secolo) tipologie di imbarcazioni utilizzate, descrizione degli iti-nerari da seguire, merci maggiormente ricercate e scambiate (docc. III-3,4). L’impressione che gli storici hanno ricavato dall’analisi di questi traf-fici diramatisi dalla Liguria e dalla Toscana, almeno sino alla conclusio-ne del XII secolo, è che gli uomini d’affari continentali utilizzassero laSardegna (e con un ruolo più modesto la Corsica) come tappe fondamen-tali per il collegamento tra le loro città e i ricchi mercati costituiti dalregno di Sicilia, fondato e governato dalla dinastia normanna degli Al-tavilla, dai centri costieri del Maghreb (Tunisi, Bugia, Algeri, ecc.) e daifavolosi empori del Mediterraneo orientale (Costantinopoli, Alessandriad’Egitto, San Giovanni d’Acri). La sussidiarietà dei traffici sardi è statapiù volte provata grazie al confronto tra tutti i contratti registrati nei car-tulari notarili, dai quali emerge che in Sardegna spesso (ma non sempre)le cifre investite erano più contenute, i mercanti non appartenevano soli-tamente ai massimi vertici della società cittadina di origine (anche quipotevano esserci notevoli eccezioni) e le imbarcazioni impiegate nonsempre erano adatte alla navigazione d’alto mare: si deve infatti tenerepresente che sicuramente da Porto Pisano, ma anche da Genova in occa-sione di giornate limpide, si può arrivare via mare fino a Cagliari senzamai perdere di vista la terra, appoggiandosi alla Corsica e alle isole del-l’arcipelago toscano, cosa impossibile per chi navighi dai porti del Me-ridione continentale o da quelli siciliani.

Pur tuttavia, nella seconda metà del XII secolo il peso di questa pre-senza mercantile forestiera iniziava ad avere riverberi anche sul pianopolitico (docc. III-5, 6). Grazie a un oneroso prestito richiesto agliuomini d’affari liguri, Barisone II, Giudice di Arborea dal 1146 al 1186,

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giunse a concepire un disegno tanto ambizioso quanto velleitario: farsiincoronare re dell’intera Sardegna nientemeno che dall’imperatoreFederico I, detto il Barbarossa. A parte la spericolatezza giuridico-isti-tuzionale dell’operazione (da una parte abbiamo un sovrano che si arro-ga il diritto di infeudare un territorio che non gli è mai appartenuto, dal-l’altra vi è il titolare di una delle quattro ‘corone’ dell’isola che sognadi cancellare con una cerimonia di investitura la sovranità degli altri treGiudici), il problema principale per Barisone consisteva nel fatto che lemagre risorse di cui disponeva in Arborea non erano sufficienti a rifon-dere i prestatori genovesi alla scadenza stabilita. A questo si sarebbeaggiunto che a un anno dalla concessione del fantomatico regno (ago-sto 1164), anche il comune di Pisa (con un prevedibile ulteriore flussodi denaro verso le casse imperiali) avrebbe ottenuto l’investitura dellaSardegna dallo spregiudicato sovrano svevo, vanificando sul nascere leaspirazioni del povero Barisone, costretto dalle autorità genovesi a tra-sferirsi nella città della Lanterna in una sorta di prigione dorata.Pressato dai creditori a cui dovette dare in ostaggio persino la moglie eil cognato, riuscì solo nel 1171 a restituire le somme ottenute. Negliultimi anni del suo lungo governo cercò di limitare la penetrazionegenovese nel Giudicato di Arborea stringendo sempre più contatti conPisa e i suoi mercanti, come testimonia il lungo inventario dei debiti edei crediti vantati, in un atto rogato a Pisa nel dicembre dell’anno 1185,dall’uomo d’affari Ranuccino di Boccio, tra cui spiccano quelli matu-rati con il Giudice stesso (definito «dominus meus» e «rex Arvoree») econ il titolare della diocesi arborense di Santa Giusta.

La documentazione notarile pisana, ancora costituita da pergamenesciolte confluite in fondi diplomatici legati a grandi famiglie cittadine e/oa enti ecclesiastici di primaria importanza (primo tra tutti la cattedrale),ci fa toccare con mano l’importanza crescente che l’isola stava assumen-do per il ceto mercantile, per la chiesa pisana, per lo stesso comune cit-tadino e per alcune grandi famiglie cittadine di estrazione nobiliare comei Visconti e i Donoratico. L’invadenza politica di Pisa fece indubbiamen-te un salto di qualità con l’erezione di Castel di Castro nei primi decennidel Duecento: una gigantesca fortezza posta sul sito dell’antica acropolipunico-romana di Kavalis da secoli abbandonata, risiedendo i Giudicicagliaritani nel centro murato di Santa Gilla, edificato al riparo dell’omo-nimo stagno. Da questo momento nel Cagliaritano, in Gallura e solo par-zialmente negli altri due Giudicati, la presenza del ceto mercantile tosca-no crebbe per quantità di uomini e capitali investiti, giro d’affari e capil-larità nell’opera di penetrazione nell’isola. Pisani e Genovesi, mirando acontrollare le produzioni locali di metalli preziosi (soprattutto argento),

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materie prime e derrate alimentari strategiche come il sale e il grano, pre-sero progressivamente a erodere la sovranità dei Giudici, prima grazie adonazioni più o meno libere, poi tramite alleanze matrimoniali, infineoccupando arbitrariamente territori che sarebbero stati trasformati in vil-laggi fortificati e talora in vere e proprie cittadine.

Il caso più eclatante e anche più precoce è proprio quello relativo allacostruzione del grandioso castrum di Cagliari, realizzato a partire dal1217 secondo canoni urbanistici e architettonici tipici dei più popolosie celebri castelli toscani: da san Gimignano a Montalcino, da Monte-pulciano a San Miniato al Tedesco. Al riparo dei poderosi bastioni siinsediavano mercanti, armatori, artigiani, notai, medici, barbieri, reli-giosi, ecc. tutti di origine pisana o assimilata. Governati da un podestàinviato dalla madrepatria, questa singolare ‘Singapore toscana’ nellaSardegna duecentesca prima minacciò e poi distrusse dalle fondamen-ta la capitale giudicale nel 1258, convertendo un’egemonia economicae sociale in una vera e propria dominazione politica. La fine delGiudicato cagliaritano fu segnata dalla spartizione del territorio tra ilcomune di Pisa, l’Opera della cattedrale e la famiglia dei Donoratico,che finì per controllare la zona del Sigerro ricca di giacimenti di piom-bo argentifero. Attuando una politica di popolamento degna di un prin-cipe, il conte Ugolino della Gherardesca avrebbe trasformato un mode-sto insediamento rurale in una vera e propria cittadina mineraria, Villadi Chiesa (poi Iglesias), circondata da una cintura di villaggi e di cen-tri incastellati, il cui esemplare oggi meglio conservato è rappresentatodall’ardita fortificazione dell’Acquafredda. Anche se spinto in largaparte da motivazioni e ambizioni degne di un grande signore feudale, ilconte Ugolino ragionava anche con la mentalità del mercante, attiran-do nel Sigerro maestranze non sarde, alcune delle quali molto probabil-mente provenienti dai centri minerari dell’area germanica. In seguitoalle lotte di fazione scoppiate a Pisa negli anni successivi alla terribiledisfatta della Meloria (1284), scontri che costarono la vita anche alcelebre Ugolino e ad altri membri della sua casata, buon parte dell’igle-siente, compresa Villa di Chiesa, passarono sotto la diretta amministra-zione comunale pisana, con un ulteriore impulso all’estrazione e allacommercializzazione dell’argento sardo.

Qualcosa di simile è osservabile anche nel territorio del Giudicato diLogudoro. Qui i Genovesi sembrano avere avuto un margine d’iniziati-va superiore a quello pisano. Ma più che l’intraprendenza del ceto mer-cantile originario dalla città della Lanterna a colpire è soprattutto il dina-mismo di alcune grandi casate liguri, non sempre legate a un originariocontesto urbano. Se Alghero e Castelgenovese (oggi Castelsardo) devo-

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no la loro nascita alla potente famiglia genovese dei Doria, l’erezionedel poderoso castello di Bosa è legato alla famiglia dei Malaspina,appartenenti a un ramo degli Obertenghi insediatisi in età post-carolin-gia in Lunigiana, vallata presto soggetta a un rapido fenomeno di inca-stellamento signorile. In ogni caso, dopo il 1263 anche il Giudicato tur-ritano scomparve per lasciare campo libero a signorie forestiere e allacittà-stato di Sassari, l’unico centro urbano sardo ad aver avuto uncomune autonomo nel senso continentale del termine, caratterizzato sindalla metà del Duecento da un ceto mercantile di estrazione varia e arti-colata: sardi, liguri, toscani, ecc. In Gallura, infine, a prevalere fu la piùvolte citata famiglia pisana dei Visconti almeno fino al 1296, quandoalla morte del Giudice guelfo Nino Visconti (Nin gentil di dantescamemoria), il Giudicato venne inglobato nei possedimenti della ghibelli-na Pisa; sì che dagli ultimi decenni del XIII secolo non rimaneva deiquattro Giudicati che quello di Arborea, dove per altro la presenza dioperatori economici stranieri era tutt’altro che modesta.

Di questo contesto che alcuni storici hanno definito ‘coloniale’ tro-viamo, oltre alle consuete attestazioni genovesi, anche un diluvio ditestimonianze notarili negli archivi pisani. Non si tratta più solo diuomini d’affari che si recano a Cagliari per effettuare compra-vendite;adesso il panorama è sempre più costituito da cittadini pisani (o datoscani che avevano preso la cittadinanza pisana o fingevano di averlaper sfruttare i privilegi legati a tale condizione) i quali sceglievano ditrasferirsi a Cagliari per rincorrere quella fortuna che evidentementeera più difficile raggiungere in patria. Già nel 1201 troviamo mercantipisani residenti nell’area di Castel di Castro, ancora privo dei suoibastioni, che investono i loro capitali nell’acquisto di grano barbarescoda prelevare a Bugìa e da trasportare a Cagliari su una nave partita dalporto arborense di Neapoli (doc. III-7). Un’operazione commercialeche testimonia, da un lato, le capacità organizzative e le sinergie messein piedi dai Pisani e dall’altra le necessità annonarie del nuovo insedia-mento cagliaritano, in un’epoca nella quale la valorizzazione cerealico-la del Campidano era ancora di là da venire. Passato appena qualchedecennio scorgiamo una comunità folta e istituzionalmente organizza-ta, i cui più dinamici e operosi uomini d’affari fissano la sede delle pro-prie imprese, oltre che la propria abitazione, nella ormai rinomata «ru-ga dei mercanti pisani». Le proprietà degli immobili sono tanto fami-liari quanto riconducibili a enti legati a filo doppio con la patria di ori-gine: primo tra tutti l’Opera della cattedrale di Pisa (doc. III-9).

Ma sono soprattutto i documenti della fine del XIII e dell’inizio delXIV secolo a farci toccare con la mano l’importanza della Sardegna per

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l’intera economia pisana. Qui, dopo la perdita di alcuni mercati medi-terranei (conseguenza dell’imperante egemonia genovese sancita unavolta per tutte dalla giornata della Meloria), si concentravano gli inte-ressi di gran parte del ceto dirigente del comune pisano. Quando l’im-peratore Arrigo VII chiese alla ghibellina Pisa un’imposta straordinariaper finanziare la sua campagna militare in Italia, gli uffici fiscali dellacittà stimarono in circa 100mila fiorini i cespiti annui derivanti dallosfruttamento della Sardegna, tra esazioni doganali, gabelle sui consu-mi, diritti pubblici su saline e miniere, rendite di terre demaniali, ecc.Nell’ipotetico bilancio comunale la voce Sardegna incideva per i 2/5del totale.

Allo sfruttamento del mercato sardo partecipava ora il fior fiore del-l’imprenditoria mercantile e finanziaria pisana: dagli Alliata ai Gam-bacorta, dai Formentini ai Mosca. Si trattava di uomini d’affari abitua-ti a muoversi nei grandi circuiti internazionali, come dimostra uno tra imolti atti costitutivi di società, nel quale, in data 3 ottobre 1294, inCastel di Castro, venne creata una vera e propria associazione in parte-cipazione tra più imprese per sfruttare il commercio sardo di formag-gio, lana, pepe e altre mercanzie (doc. III-16): questa sorta di joint-ven-ture doveva avere la durata di due anni e vedeva la partecipazione di unmercante catalano (Bartolomeo Garau da Barcellona) nominato diret-tore e di due compagnie d’affari pisane, intestate rispettivamente aBuonaccorso Gambacorta e a Betto Alliata. Lo stesso Alliata, comerisulta da molteplici atti notarili del 1302, organizzò una gigantescaoperazione commerciale volta a far pervenire a Pisa 180 tonnellate digrano sardo, per la cifra di 13mila lire di moneta pisana (doc. III-17).Allora tutta la Toscana, una tra le zone più urbanizzate di tutta l’Europadel tempo, soffriva di una terribile carestia, un fenomeno destinato aripresentarsi con asprezza crescente sino all’arrivo della Peste Nera.Stante la modesta resa cerealicola di gran parte dei propri territori(esclusa Siena che poteva contare sulla disabitata, malarica, ma fertileMaremma), quasi tutte le città toscane (soprattutto Firenze e Pisa)erano costrette durante le cattive annate ad importare grano da fuori,promuovendo l’iniziativa dei propri mercanti mediante premi di impor-tazione erogati dagli uffici annonari. Se per Firenze i mercati di riferi-mento erano soprattutto quelli dell’Italia meridionale (in particolare laSicilia), della Provenza e della Romagna, per Pisa il serbatoio naturalea cui attingere era la Sardegna.

Come ha più volte sottolineato un grande storico del commerciomediterraneo, nonché esperto di storia sarda, Marco Tangheroni, il mitodella Sardegna granaio deve essere collocato in precise prospettive sto-

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riche e in puntuali coordinate cronologiche. La diffusione della cerea-licoltura intensiva nella pianura alluvionale del Campidano non è unadelle cause (se non la causa per eccellenza) dell’arrivo dei Pisani e ditutti gli altri mercanti continentali, desiderosi di accaparrarsi questapreziosa risorsa a spese degli isolani. Caso mai ne è l’effetto. Il granosardo, così come il sale, l’argento e tutti i prodotti di un’economia loca-le basata in gran parte sulle attività agro-pastorali (pelli, cuoia, formag-gi e pasta in particolare) entrarono nei circuiti degli scambi tirrenici, epiù in generale mediterranei, dopo che i mercanti stranieri si furonoradicati in Sardegna. Anche se una parte della storiografia ha puntato(in parte con ragione) sul dualismo economico-politico e sullo scambiodiseguale tra gli stranieri (= dominatori) e le popolazioni locali (= sfrut-tati), è difficile negare che la valorizzazione economica e commercialedelle potenzialità produttive sarde sia da mettere in relazione con lapresenza di mercanti toscani e liguri (come di altri uomini d’affari delMediterraneo occidentale), anche se non si può prescindere dal fattoche i proventi di simili traffici arricchirono soprattutto i soggetti piùforti. Del resto la stessa nuova maglia urbana della Sardegna, ricreatadopo il fenomeno della completa ruralizzazione dell’isola tra VI e XIsecolo, così come la splendida architettura romanica che caratterizzagran parte del patrimonio ecclesiastico dell’isola, è incontestabilmentelegata a questa stagione di penetrazione continentale a livello politico,religioso, economico e culturale.

L’esempio forse più illuminante di quanto abbiamo appena detto èquello relativo alla sfruttamento minerario dei giacimenti argentiferidel Sigerro, avviato alla metà del XIII secolo dopo molti secoli diabbandono e di appiattimento dell’economia locale verso le attività delsettore agro-pastorale. Se è vero che l’estrazione e la commercializza-zione dell’argento arricchì soprattutto gli uomini d’affari pisani (cometestimoniano, a titolo d’esempio, i numerosi atti notarili relativi allaspartizione dell’eredità di Neri di Riglione, cittadino pisano, borghesedi Cagliari, imprenditore minerario a Villa di Chiesa e proprietario diforni per la fusione dell’argento a Domusnovas all’inizio del Trecento:doc. III-18), è altresì indubitabile che l’amministrazione pisana avviòuna politica di potenziamento delle capacità estrattive dell’iglesiente,facendone un polo minerario di livello europeo. Nei primi decenni delXIV secolo Villa di Chiesa e il suo comprensorio ospitavano una popo-lazione mista sardo-pisana (con qualche immissione di maestranze nonitaliane) di oltre 10mila abitanti tra la città e i villaggi minerari limitro-fi, tutta verosimilmente impiegata nella cosiddetta ‘argentiera’; il me-tallo prezioso estratto costituiva, secondo la stima fornita dallo storico

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americano (ma di formazione francese) John Day, il 5% circa di tuttol’argento prodotto all’epoca nell’intero continente europeo. E questoavveniva all’interno di una organizzazione produttiva meticolosamen-te regolata dall’ultima delle quattro parti in cui si articolava lo statutocomunale di Villa di Chiesa: un codice in volgare pisano emanato unaprima volta nei primissimi anni del Trecento e arrivato a noi nellaforma approvata nel 1327 dalle autorità catalano-aragonesi, dopo lemodeste modifiche al dettato originario rese necessarie dal nuovo con-testo politico-economico e culturale in cui la cittadina del Sigerro veni-va ora inquadrata, ovvero la Corona d’Aragona (doc. III-19).

Se nell’ex-Giudicato cagliaritano e in Gallura la supremazia pisanaera indiscussa dalla seconda metà del XIII secolo, in Arborea e anchenel Logudoro la situazione si presentava assai diversa. Qui si avverteuna maggiore presenza di operatori economici liguri e anche lombardi(docc. III-10, 12) e, soprattutto, le relazioni tra i mercanti forestieri e leélite sarde paiono improntate a rapporti quasi paritari. Questo fenome-no si può ricondurre a molteplici fattori: nell’Arborea i Giudici diOristano continuarono a esercitare una piena sovranità (e l’avrebberoesercitata sino ai primi decenni del XV secolo), appoggiandosi ora aPisani ora a Genovesi ora a mercanti catalani, con una oculata politicadi bilanciamento e di contenimento delle influenze straniere. NelLogudoro abbiamo una pluralità di soggetti politici ed economici sortisulle ceneri del Giudicato turritano, e tra questi un ruolo tutt’altro chemarginale venne esercitato dalle grandi famiglie liguri titolari di dirittisignorili su castelli e micro-città come i Doria e i Malaspina (doc. III-15). Last but not least vi è la presenza del comune di Sassari, il piùpopoloso centro urbano della Sardegna tardo-medievale con i suoi 15-16mila abitanti all’inizio del XIV secolo.

Città di fondazione basso-medievale (come Alessandria, Prato,Viterbo, L’Aquila e pochi altri centri italiani, oggi capoluoghi di provin-cia dotati di una diocesi importante), Sassari si sviluppa in particolarenel corso del XIII secolo, sopravanzando nettamente l’antica coloniaromana di Turris Libisonis (odierna Porto Torres) e coagulando attornoa sé una popolazione composta da maggiorenti logudoresi e continenta-li trapiantati più o meno stabilmente nell’isola per motivi legati spessoa traffici commerciali imbastiti tra il nord della Sardegna, la Corsica, iporti alto-tirrenici, liguri e provenzali. Si tratta forse dell’unico casosardo nel quale si possano delineare abbastanza chiaramente gli elemen-ti specifici di una società comunale duecentesca, con particolare riferi-mento (va da sé) alle realtà liguri e toscane. Del comune ci rimangonogli statuti del 1316, anche se è certo che si tratti della rielaborazione-re-

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visione di un testo databile alla fine del XIII secolo. L’unica limitazionealla piena autonomia politica del centro logudorese derivava dal fattoche il podestà cittadino (un tecnocrate forestiero come nella più schiet-ta prassi comunale) proveniva sempre o da Pisa o da Genova, a secon-da che prevalesse l’influenza politica della città toscana e di quella ligu-re, affermandosi definitivamente questa seconda soluzione dagli ultimianni del Duecento. Né più né meno avveniva in Italia settentrionale conpodestà milanesi inviati a governare città lombarde o dell’Emilia nord-occidentale, o in area tosco-umbra con i podestà fiorentini.

Dell’élite locale turritana interessata a partecipare ai traffici abbiamonotizie sin dagli anni ’30 del Duecento, quando in più di un rogito nota-rile conservato tra i protocolli genovesi rinveniamo liste di notabilisardi impegnati a stipulare accordi di collaborazione commerciale conmercanti di Genova (doc. III-8): da alcune di queste convenzioni risul-ta inoltre che la presenza nella città della Lanterna di commerciantisardi era ampiamente prevista. Ma uno tra gli esempi più calzanti sullaeterogenea composizione del milieu ‘borghese’ di Sassari è forse quel-lo delineato da un altro rogito steso il 12 febbraio 1253 (doc. III-11): aGenova il sassarese Albertino Solario dichiarò di aver ricevuto denarocontante in moneta genovese e alcuni quintali di formaggio da un mer-cante lucchese, che agiva tuttavia su commissione di altri due mercan-ti sassaresi, il tutto arrivato a Genova dalla Sardegna grazie all’imbar-cazione di un armatore di probabile origine toscana.

E che dire di un personaggio come Gualtiero da Volterra, all’appa-renza un mercante apolide, salvo poi scoprire dal suo testamento chelui riteneva di avere non una ma tre patrie? Per quanto di evidente ori-gine toscana, la sua attività di uomo d’affari si concentrò fondamental-mente tra Genova, Sassari, Pisa e Nizza (con puntate sino a Mont-pellier): le società da lui costituite, i traffici commerciali imbastiti e ildinamismo mostrato in campo finanziario sono tutti elementi che sidesumono dalla documentazione genovese relativa agli anni ’70 delXIII secolo (docc. III-13, 14). La fortuna di questo commerciante sisviluppò probabilmente proprio a Genova. Poi però i continui viagginel Logudoro devono averlo spinto a risiedere sempre più spesso aSassari, dove a un certo punto chiese e ottenne la cittadinanza, assu-mendo quindi il titolo di burgensis sassarese. Gualtiero importava inSardegna merci di alto valore, come i panni lavorati nelle Fiandre enelle città della Francia settentrionale (i rinomati panni ‘franceschi’), lepezze di lana confezionate nelle botteghe di Genova, argenteria, gioiel-li, ecc. Viceversa esportava dal Logudoro corallo e molto probabilmen-te manufatti legati a una locale attività conciaria. A Sassari infatti, oltre

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a disporre di una abitazione personale e di parcelle di terra ortiva, pos-sedeva anche un impianto per la lavorazione del cuoio e delle pelli.Non era infrequente che negoziasse con uomini d’affari appartenenti alGotha della mercatura genovese, primi tra tutti i Doria che vantavanocospicui interessi economici, patrimoniali e signorili nella Sardegnanord-occidentale. Quando nel novembre del 1274, nella sua casa diGenova, fece redigere un suo testamento (poi cassato alcuni mesi dopoper ragioni a noi ignote), si ricordò tuttavia di tutte le città in cui avevavissuto e operato, e dei luoghi che a lui erano stati cari, beneficandochiese e promuovendo messe in suo suffragio a Volterra, a Genova esoprattutto a Sassari.

La conquista catalano-aragonese e la ‘crisi’ del Trecento

Con il biennio 1323-1324 inizia la penetrazione militare catalano-ara-gonese dell’isola, sulla lunga scia di accordi diplomatici internazionali sti-pulati tra sede pontificia e Corona d’Aragona, la cui origine rimanda allaconseguenze mediterranee della guerra del Vespro scoppiata in Sicilia nel1282 e all’infeudazione della Sardegna a favore di Giacomo II d’Aragonada parte del pontefice Bonifacio VIII tramite il trattato di Anagni del 1295,a cui fece seguito la bolla Super reges et regna del 1297. La conquista furapida e piena nel meridione ‘pisano’, più blanda al nord dove convisse alungo con le non piccole enclave signorili continentali e le residue auto-nomie del comune sassarese. Il Giudicato di Arborea, uno dei primi allea-ti dei Catalano-aragonesi, mantenne per un altro secolo quella che iGiudici ritenevano essere la loro giusta indipendenza politica, là dove isovrani iberici intendevano un’autonomia giurisdizionale assai larga, tipi-ca di un grande feudatario della Corona. Un grave (e in parte voluto)malinteso politico-istituzionale che sarebbe stato motivo, tra molti altri,della lunga guerra guerreggiata che avrebbe devastato, insieme alla PesteNera, l’assetto produttivo e le strutture economico-sociali della Sardegna.Con il definitivo assoggettamento alle autorità di Barcellona e la scompar-sa dell’ultimo Giudicato (1420), la Sardegna appare finalmente ‘pacifica-ta’ ma anche stremata: l’intera popolazione isolana, che all’inizio delTrecento doveva aggirarsi intorno alle 200mila unità, si era ora ridotta acirca 100mila anime, le città sembravano poco più che villaggi murati e lamaglia dell’insediamento rurale presentava vuoti spaventosi con unnumero impressionante di villaggi abbandonati, in specie nel Campidano.Come hanno evidenziato i lavori di Ciro Manca e Marco Tangheroni, l’in-tero sistema produttivo e commerciale sembrava come imploso.

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Eppure a pochi anni dall’occupazione catalano-aragonese di Castel diCastro e di Villa di Chiesa le prospettive parevano ancora floride. Il movi-mento dei porti sardi e la struttura degli scambi non paiono sostanzialmen-te cambiati, se non nella preponderanza dell’elemento mercantile di estra-zione catalana. Il documento che forse meglio sintetizza il peso dell’ex-port sardo nel Mediterraneo nel periodo che precede la catastrofe del 1348è la voce Sardigna contenuta nel manuale del mercante fiorentino,Francesco di Balduccio Pegolotti (doc. III-20). Il personaggio in questio-ne, pur non avendo probabilmente mai messo piede nell’isola, disponevatuttavia di informazioni di prima mano sui traffici che gravitavano sullaSardegna. Per decenni aveva fatto carriera all’interno di quella che, nellaprima metà del XIV secolo, era la più grande società d’affari dell’interocontinente europeo: la compagnia dei Bardi. Questa sorta di multinazio-nale del tempo operava, tramite la casa madre di Firenze, con una serie disuccursali sparse tra l’Italia, il Mediterraneo orientale, la Francia, leFiandre e l’Inghilterra. Il Pegolotti fu uno dei più brillanti e meglio paga-ti direttori di filiale della società Bardi, lavorando a Cipro, a Londra e adAnversa. Da quelle sedi privilegiate, grazie a un intensissimo flusso di let-tere mercantili (una sorta di bollettino di borsa ante litteram, riservato apochi ‘iniziati’) e alla tenuta dei libri contabili, imparò a conoscere amenadito rotte marittime e vie di terra, empori commerciali e piazzefinanziarie, prezzi delle merci e valore delle monete nelle differenti città,unità di misura e di peso, regolamenti dei porti e tariffe doganali. All’apice(e forse anche al termine) della sua carriera, sulla scorta di una pluridecen-nale esperienza di questo tipo, il Pegolotti compose un manuale che glistorici hanno poi ribattezzato con il titolo di Pratica della mercatura. Inquesto testo risulta evidente come l’argento, il grano e il sale fossero anco-ra i prodotti fondamentali dei traffici in uscita dalla Sardegna e che l’iso-la mantenesse notevoli rapporti commerciali con varie piazze del Me-diterraneo occidentale. Pur senza escludere gli uomini d’affari non prove-nienti dai regni della Corona d’Aragona, la politica economica legata allanuova dominazione aveva imposto alcune rigidità: prima tra tutte l’obbli-go della coniazione in loco di tutto l’argento estratto dalle miniere del cir-condario di Villa di Chiesa. Dalla Sardegna non potevano più uscire barre,lingotti o piastre di metallo prezioso (come avveniva in periodo pisano)ma solo monete: alfonsini grossi e minuti. In questo modo la Coronaincassava subito una tassa, legata ai diritti di coniazione (il cosiddettosignoraggio), così come traeva profitto dalla concessione di licenze diesportazione relative al grano e ai cereali in genere.

Nel complesso potremmo concludere che la prima fase dell’occupa-zione iberica non produsse grandi trasformazioni nelle strutture econo-

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miche isolane, pur nella politica di irrigidimento di alcuni meccanismidi mercato, volta a compensare il fisco regio per le ingenti somme pro-fuse durante la preparazione della campagna militare. I sovrani diBarcellona avevano speso molto per la conquista e si aspettavano che ifrutti della vittoria risarcissero ampiamente gli sforzi fatti. Tuttavia, giàprima che la mannaia della peste e poi l’interminabile guerra con l’Ar-borea producesse guasti irreparabili all’economia isolana, un cambia-mento non di poco conto si era verificato nelle campagne. Molte terreerano state infeudate a grandi famiglie della nobiltà iberica (Alagòn,Carroz, Centelles, Aymerich, Bas Serra, ecc.) come ricompensa per iservigi militari prestati tra 1323 e 1326. La Sardegna fino a questoperiodo era stata sostanzialmente immune dalla diffusione del feudale-simo, non avendo mai fatto parte di alcuna compagine statuale legataalla tradizione politica carolingia e post-carolingia. Questa tarda, an-corché massiccia, feudalizzazione dell’isola produsse un mosaico digiurisdizioni più o meno autonome non facilmente coordinabili, privòi centri urbani del pieno controllo sul territorio rurale circostante e irri-tò terribilmente il Giudice di Arborea, esterrefatto dalla pletora disignori con cui doveva trattare per questioni di ogni tipo. A livello piùspecificamente economico, venne di fatto smantellato il sistema diderivazione comunale basato sul rapporto città-campagna impiantatoda Pisani e Genovesi: un esito negativo nell’ottica della valorizzazionecommerciale delle produzioni isolane, ora estremamente frammentate.

Se nei primi decenni successivi alla conquista le autorità catalano-aragonesi si dovettero limitare a fronteggiare ribellioni di modesta peri-colosità, talvolta fomentate da potenze marittime come Genova, evi-dentemente sollecita nel tutelare gli interessi sardi delle sue più presti-giose casate, e se fino agli anni ’50 del Trecento la situazione politicadell’isola rimase tutto sommato stabile, a partire viceversa da questaepoca la Sardegna venne coinvolta in un conflitto bellico estenuante,incertissimo e, soprattutto, dalle conseguenze economiche tragiche. IGiudici di Arborea misero in seria difficoltà le autorità di Barcellona,confinate a fine Trecento nelle città fortificate di Cagliari e di Algheroe virtualmente assenti nel resto dell’isola. Dopo tentennamenti e graviincertezze, la grande spedizione militare guidata da Martino il Giovane,che condusse gli eserciti iberici dalla Sicilia in Sardegna nel 1409, posetermine definitivamente alla ‘ribellione’ arborense con il ‘macello’ diSanluri (s’occidroxiu in sardo campidanese), in un quadro di generaledesolazione demografica, economica e sociale.

All’inizio del XV secolo la Sardegna aveva cessato di esportaremetalli e materie prime, perché giacimenti minerari, saline e campi

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cerealicoli risultavano in uno stato di grave abbandono. Le miniere diVilla di Chiesa furono le prime a subire i colpi delle devastazioni bel-liche, con una popolazione locale diminuita dalla peste e dall’esodo deiPisani, impoverita dal ridotto funzionamento dell’attività estrattiva edalla perdita di controllo sulle aree rurali circostanti, piena di risenti-mento per le autorità catalano-aragonesi. Se già in una ordinanza regiadel 1355, predisposta dal sovrano Pietro IV per risollevare tramiteincentivi e privilegi il centro del Sigerro, emergeva un quadro dramma-tico della situazione (doc. III-21), con la successiva annessione dellacittà al Giudicato di Arborea le miniere argentifere dell’iglesiente furo-no abbandonate. Perché i giacimenti fossero di nuovo valorizzati sisarebbero dovuti aspettare gli ingegneri minerari dell’epoca sabauda,quasi mezzo millennio dopo i fatti che stiamo narrando!

Non molto meglio andarono le cose per quanto riguarda l’estrazionee la commercializzazione del sale. Le numerose fonti doganali trecen-tesche conservate presso l’Archivio della Corona d’Aragona a Bar-cellona ci forniscono un quadro molto chiaro del trend secolare relati-vo all’attività estrattiva delle saline cagliaritane: un progressivo calosino a toccare il fondo alla fine del Trecento. Quanto al grano, l’altramerce strategica nell’export sardo, essa scomparve nell’ultimo quartodel XIV secolo e addirittura sono documentati casi di importazione dicereali via mare: con una popolazione ridotta all’osso, i campi parzial-mente abbandonati e le comunicazioni terrestri rese assai difficoltosedalla guerra, si arrivò al paradosso che una regione potenzialmentevotata all’esportazione doveva importare grano per il soddisfacimentodelle pur magre esigenze locali.

Se in linea generale i centri portuali ebbero a soffrire dalla contrazio-ne dei traffici commerciali (doc. III-24), ciò non toglie che per un ristret-to gruppo di marinai, armatori e uomini d’affari abili e spregiudicati siprospettassero opportunità favorevoli di guadagno, ancorché caratteriz-zate da ampi margini di rischio. In questo senso si illustreranno due casiparticolarmente significativi per rimarcare come la guerra potesse rap-presentare un’occasione indubbia per la realizzazione di guadagni priva-ti. Il primo esempio si riferisce a un aspetto particolare degli affari con-dotti dal mercante, cambiatore e finanziere catalano Miquel Ça Rovira,attivo tra i porti iberici del Mediterraneo e la Sardegna dal 1350 al 1391(doc. III-22). Nel 1376, in piena guerra tra Catalano-aragonesi e Giudicidi Oristano, il Ça Rovira, già console dei mercanti catalani a Cagliari eburgues della città, fu incaricato dalle autorità pubbliche di sovrintende-re alle opere di rifacimento e manutenzione di tutte le fortificazioni delcastello e del porto cagliaritano. Questo appalto di un’opera di natura

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eminentemente militare occupò l’uomo d’affari per quasi un anno e tuttala vicenda è testimoniata nei dettagli da un libro contabile, redatto incatalano, conservato a Barcellona. Il Ça Rovira si cimentò in un’impresapiena di incognite, visto che lavorava per una città che rischiava di esse-re assediata, ma alla fine trasse i suoi guadagni dall’iniziativa. Tuttavia,l’arricchimento di pochi corrispondeva all’impoverimento dei più, datoche capitali pubblici e privati erano distolti da attività produttive perfinanziare imprese a somma zero.

L’altro esempio, ancora più indicativo per certi versi, riguarda l’atti-vità di un corsaro di Maiorca, Arnau Aymar (doc. III-23). Nel 1383,quando era al servizio del Maestro Razionale del Real Patrimonio dellaCorona d’Aragona (una specie di ministro del tesoro), l’Aymar dispo-neva di una galea da guerra con la quale assolveva il compito per ilquale veniva retribuito dalle casse dello stato: assaltare tutti i naviglimercantili che frequentavano i porti del Giudicato di Arborea. Di que-sta attività al confine tra guerra e pirateria, con privati armatori, capita-ni di nave e ciurma dediti a spregiudicate operazioni di pulizia dei mariper conto di uno Stato, ci rimane una straordinaria testimonianza con-servata nell’archivio barcellonese: il libro contabile, sempre scritto incatalano, tenuto dal clavario (ovvero lo scrivano di bordo) della navecorsara, con tanto di elenco di imbarcazioni e merci catturate, venditaall’asta del bottino, contrattazioni con i mercanti derubati, ecc.

In un contesto del tipo appena descritto la presenza delle grandisocietà d’affari andava giocoforza a scomparire. Una prova assaiemblematica ci è offerta indirettamente dal più importante archivioaziendale di tutta l’Europa tardo-medievale: quello del mercante-ban-chiere Francesco di Marco Datini da Prato. Proprio alla fine del XIVsecolo raggiungeva il massimo dell’efficienza il suo sistema di azien-de, costituito da compagnie operanti a Firenze, Prato, Pisa, Genova,Avignone, Barcellona, Valencia e Maiorca, con molti corrispondentisaldamente presenti anche a Londra, Bruges, Parigi, Lisbona, Malaga,Milano, Perugia, Roma, Napoli, Palermo e molti altri centri delMediterraneo. Ebbene su un totale di 150mila lettere arrivate al Datinio a una sua qualsiasi azienda, conservate nel palazzo del mercante pra-tese (oggi sede dell’Archivio di Stato di Prato), solo 10 riguardano laSardegna. Il carteggio riguardante Gaeta, un centro di modesto rilievo,importante soprattutto per l’esportazione di olio di oliva e del saponeprodotto localmente, si compone di 342 lettere! Guerra e spopolamen-to tenevano gli affari lontani dall’isola.

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La parziale ripresa quattrocentesca

Il Quattrocento sardo è un periodo storico per il quale manca una tra-dizione di studi consolidata: se ci concentriamo sugli aspetti legati alcommercio e alle attività economiche in generale, il panorama è anco-ra più ristretto. E non è solo questione di minore appeal del soggettostoriografico, con l’isola posta sotto il pieno e totale controllo di unadominazione straniera iberica proiettata ambiziosamente verso l’interomeridione italiano e la scomparsa di ogni residua autonomia politica edeconomica dei Sardi. Infatti, per quanto possa sembrare paradossale, lefonti del XV secolo sono più esigue e disperse di quelle trecentesche:la documentazione fiscale aragonese quasi evapora (come nel casodelle dogane del porto di Cagliari e dei registri contenenti le licenze diestrazione dei cereali), quella relativa al crepuscolo delle signoriedoriane nel nord dell’isola si esaurisce entro la metà del secolo (doc.III-25), mentre nelle pratiche di mercatura toscane e veneziane delQuattrocento la Sardegna è virtualmente non pervenuta. Brandelli diattività commerciale emergono invece dallo spoglio dei libri contabilidi compagnie d’affari toscane e dai registri di imbreviature notarili diarea catalano-aragonese (doc. III-26); ma si tratta di ambiti documen-tari per i quali una ricerca a tappeto su una mole immensa di fonti (dalcontenuto estremamente eterogeneo) finisce per reperire (quando ciriesce) il classico ago nel pagliaio. Quanto ai fondi notarili italiani, nelXV secolo essi hanno come mutato pelle: poiché le scritture contabilihanno assunto piena valenza giuridica nei tribunali (e soprattutto neifori mercantili), nei protocolli dei notai quattrocenteschi cercheremoinvano atti costituitivi di società, mutui e cambi marittimi, noleggio dinavi e tutto ciò che abbondava nella documentazione dei secoli XII,XIII e XIV. Al massimo ci si può imbattere in rogiti che riportano, amo’ di prova, documentazione mercantile (scritte private o elenchi didebitori e creditori stralciati da un libro contabile) utilizzata per dirime-re particolari dissidi e controversie tramite una sentenza arbitrale chenon passava per i canali istituzionali della giustizia.

Va da sé che la pochezza e la dispersività delle fonti sono il riflessodel modesto ruolo giocato dalla Sardegna nel contesto delle grandi reticommerciali e finanziarie del Mediterraneo alla fine del Medioevo.Tuttavia a partire da un innovativo contributo di Bruno Anatra dellafine degli anni ’80 del secolo scorso, si è oggi più inclini a parlare diuna moderata ripresa dell’economia sarda, in qualche modo trainatadalla crescita del volume degli scambi nel Mediterraneo quattrocente-sco, soprattutto a partire dai decenni centrali del XV secolo. Questa

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interpretazione delle vicende economiche isolane, sintetizzabile nellafelice formula di «parca prosperità riflessa», è stata confortata piùrecentemente sia dalle attestazioni di un certo ritorno in Sardegna disocietà d’affari straniere di provenienza non necessariamente iberica,sia dai recenti studi condotti da Cecilia Tasca sulla florida comunitàebraica presente a Cagliari sino ai decreti di espulsione emanati dai recattolici nel 1492.

Pur in un contesto non paragonabile a quello di inizio Trecento, siravvisano chiari segnali di inversione di una tendenza rispetto all’anda-mento quasi catastrofico compreso tra l’arrivo della Peste Nera e lacancellazione del Giudicato di Arborea (1420). Se, nonostante incenti-vi dello Stato che giungevano sino alla concessione in monopolio plu-riennale dei giacimenti minerari a mercanti italiani (in specie liguri:doc. III-28), per una nuova vigorosa valorizzazione delle miniere ar-gentifere si sarebbe dovuto aspettare l’alba dell’età contemporanea; perquanto riguarda, invece, produzione ed esportazione di cereali, sale,formaggio e altri prodotti dell’attività agropastorale, la seconda metàdel XV secolo sembra riportare la Sardegna a livelli non troppo lonta-ni da quelli di 150 anni prima. Quel che però tendeva a inficiare le pos-sibilità di un nuovo sviluppo dell’isola era l’estrema debolezza delfenomeno urbano e il peso della feudalità iberica che frantumava inmille rivoli la giurisdizione e il controllo pubblico su un territorio rura-le paurosamente spopolato. A parte Sassari, non c’era città sarda chealla fine del XV secolo riuscisse a raggiungere la cifra di 10mila abi-tanti: Villa di Chiesa, Alghero, Oristano e Bosa si collocavano addirit-tura sotto la soglia delle 5mila anime e anche in un centro sede di unpalazzo vice-regio e di una curia arcivescovile (Cagliari) nel tardoQuattrocento vivevano solo 7-8mila abitanti! In un simile contesto eraassai difficile che si potesse formare un ceto di uomini d’affari locali diraggio non locale, a parte una sparuta presenza di mercanti sardo-cata-lani. E di fatto i pochi documenti che ci attestano cospicue esportazio-ni di prodotti e derrate dalla Sardegna (sulle importazioni non si puòdire quasi nulla, ma la domanda per merci straniere doveva essere riser-vata a una ristrettissima élite di funzionari pubblici e alti dignitari dellachiesa) lasciano trasparire l’attività di importanti operatori economiciforestieri che facevano affari non con omologhi locali, ma direttamen-te con le massime autorità catalano-aragonesi.

L’esempio forse più significativo a questo riguardo mi pare quellolegato agli sbocchi commerciali e finanziari di una vicenda originata-si in un contesto tutt’altro che sardo (doc. III-27): ovvero l’accordopre-fallimentare del luglio 1466 (che in realtà non evitò affatto il fal-

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limento) nel quale furono coinvolti direttamente la società con sede aVenezia di Giovanfrancesco Strozzi e co. e una serie di grandi azien-de mercantili-bancarie, tutte gestite da uomini d’affari di Firenze, consede a Roma, Bruges, Londra, Lione, Firenze e Venezia; indirettamen-te, tuttavia, anche la Sardegna fu interessata da questa singolare tran-sazione. Gli Strozzi, pesantemente indebitati verso una dozzina dicompagnie, grazie all’intermediazione straordinaria del marchese diFerrara e duca di Modena, Borso d’Este, promisero solennemente inuna scritta privata di rifondere parte del debito consegnando ai credi-tori ogni anno (e per tre anni di fila) un certo quantitativo di sale e altremerci sarde. Le somme in questione fanno ritenere che questa societàdi Fiorentini dimoranti a Venezia avesse ottenuto una vera e propriaroyalty dalle autorità di Cagliari per lo sfruttamento monopolisticodelle locali saline. E non deve essere certamente un caso se propriodalla metà del secolo troviamo attestato a Cagliari un console dei mer-canti fiorentini.

Conclusioni

La Sardegna, come è ben noto a tutti gli studiosi del Mediterraneomedievale (e non solo), non ha mai svolto un ruolo fondamentale comepunto di incontro di correnti e traffici commerciali di rilievo internazio-nale. Niente di paragonabile a quanto avvenne in altre grandi isole delmare nostrum: in Sicilia innanzitutto, ma anche nella Cipro deiLusignano e a Maiorca. Eppure, dopo il pressoché totale isolamentoalto-medievale, le vicende dei secoli XI-XV, con l’aggancio prima allastoria italiana e quindi a quella iberica, offrono allo studioso dei flussicommerciali, e in generale delle economie mediterranee, più uno spun-to di riflessione e di comparazione stimolante. In questa sede non è pos-sibile dar conto di un vasto e complesso dibattito storiografico, ma unaquestione di grande rilievo merita di essere sollevata e sottolineata. Idifferenti gradi di sviluppo economico e sociale dell’Italia, spesso lega-ti ai diversi destini politici e istituzionali, con le città-stato e i grandimercanti da una parte e la monarchia feudale incapace di valorizzare ilpatrimonio e le potenzialità economiche locali dall’altra, avrebbero allafine generato sistemi produttivi integrati nel segno di una più o menoevidente divisione del lavoro e di un certo grado di complementarietàbasata sulla subordinazione: derrate agricole e materie prime da unaparte, manufatti ad alto valore aggiunto e servizi mercantil-finanziaridall’altra.

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Questo schema, riassumibile nella formula di «scambio diseguale»,che prefigura una sorta di embrionale colonialismo ante litteram, èstato oggetto di infuocati dibattiti e, entro certi limiti, anche la storio-grafia sulla Sardegna ha dovuto fare i conti con questo modello inter-pretativo. Ma chi metta a confronto le vicende economiche delMezzogiorno italiano con quelle sarde rimane francamente spiazzato,se non addirittura sconcertato dalla volubilità dei paradigmi interpreta-tivi. Se a Napoli, a Palermo, a Messina la presenza ingombrante dellegrandi società d’affari genovesi, veneziane o fiorentine (per tacere deimercanti di Barcellona o di Marsiglia) è talvolta vista come un segnodell’assoggettamento al mercante straniero e del fatto che le produzio-ni economiche meridionali vengono piegate (col consenso spesso deisovrani e del grande baronaggio locale) agli interessi della mercatura edell’industria delle città del centro-nord, in Sardegna la realtà è decisa-mente differente: se Pisani e Liguri si comportarono da ‘colonialisti’,furono però anche capaci di dare un contributo di grande rilievo allastoria sarda e non parliamo soltanto di sale, grano o argento. La splen-dida stagione dell’architettura romanica e del monachesimo vallombro-sano e camaldolese nell’isola sono lì a testimoniarlo, al pari delle for-tificazioni medievali che ancora oggi incidono sul panorama urbanisti-co di Cagliari, Iglesias, Bosa e Castelsardo. Quando la crisi trecentescasi abbatté sulla Sardegna con una virulenza che trovò pochi eguali inaltre regioni dell’Italia e del Mediterraneo e la presenza dei mercantistranieri si ridusse al lumicino, ecco che l’isola indubbiamente uscìdalle grandi rotte mediterranee finendo per chiudersi nuovamente in sestessa, spopolata, impoverita, abbandonata, con un profilo diverso daquello (decisamente più felice) dei tempi dei Donoratico, dei Visconti,dei Doria e dei Malaspina, ma anche dei ‘cagliaritani’Alliata e del bor-ghese di Sassari Gualtiero da Volterra.

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Doc. 1Privilegi concessi ai Pisani dal Giudice del Logudoro (1080-1085)

Il Giudice del Logudoro, Mariano de Lacon, concede ai Pisanil’esenzione da tutti i tributi commerciali. Inoltre, promette loro amici-zia e protezione per l’esercizio dei traffici nel Giudicato turritano.Tutto ciò per fare onore al vescovo Gerardo, a Ugo Visconte, ai conso-li del comune pisano e a una serie di singoli individui definiti mieiamici pisani, ma anche per ricevere un concreto sostegno nella conser-vazione del suo dominio. Già negli anni ’80 dell’XI secolo si delinea-no i protagonisti principali dell’espansione politico-economica di Pisain Sardegna: la chiesa cattedrale, le grandi famiglie aristocratiche conforti ambizioni signorili, il neonato comune cittadino, il ceto emergen-te dei mercanti. Il testo è scritto in un sardo assai particolare: l’unicapergamena da cui è tratto è probabilmente un esemplare redatto poste-riormente alla concessione (circa quarant’anni dopo) in uno scripto-rium del Giudicato di Arborea. Il registro linguistico e grafico, puresendo caratterizzato da forti influenze provenienti dall’area continen-tale, è quindi quello ‘arborense’. Per un approfondimento si rimandaa G. BLASCO FERRER, Nuove riflessioni sul privilegio logudorese, «Bol-lettino Storico Pisano», LXII, 1993, pp. 399-416, da cui traggo granparte della traduzione.

† In nomine Domini. Amen. Ego iudice Mariano de Lacon faço istam carta adonore de omnes homines de Pisas pro xu toloneu ci mi pecterunt, e ego donoli-slu, pro ca lis so ego amicu caru et itsos a mimi. Ci nullu inperatore, ci lu aet pote-stare istum locu de Nonn[e], apat comiatum de levarelis toloneum; in placitu, de

Capitolo I

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non occidere Pisanu ingratis; e ccausa ipsoro, ci lis aem levare ingratis, de faccer-lis iustitia inperatore ci’nce aet exere in [is]tu locu. E ccando mi pettterum su tolo-neu, ligatarios ci mi mandarun homines ammicos meos de Pisas. Fuit: Falceri eAçulinu, e Manfridi; ed ego fecindelis carta pro honore de xu pisccopum Gerardue de Ocu biscomte e de omnes consolos de Pisas; e ffecila pro honore de omnesammicos meos de Pisas: Guidu de Vabilonia e lLeo su fr(at)e, Repaldinu eGelardu e Iannellu e Valduinu e Bernardu de Coniço, Francardu ed Odimundume Brunu e rRannuçu e Vernardu de Garulictu e tTornulu, pro [ca] siant in onoremea ed in aiutorium de xu locu meu. Custu placitu lis feci per sacramentu ego edomnicellu Petru de Serra e Gostantine de Aççem e Vosoveccesu e Dorgotori deUssam e nNiscoli su frate e nNiscoli de Çori e Mariane de Ussam et [... ].

† In nome del Signore. Amen. Io Giudice Mariano de Lacon faccio questacarta a onore di tutti gli uomini di Pisa per l’esenzione dal dazio che mi hannochiesto, e io gliela concedo, perché io sono un caro amico nei loro confronti eloro nei miei. Che nessun imperatore, che regnerà in questo luogo di Non(ne),abbia licenza di levare loro l’esenzione dal dazio; né, per autorità, che si ucci-da alcun pisano arbitrariamente; e a causa di coloro, a cui la [l’esenzione daldazio] leveranno arbitrariamente, che faccia loro giustizia l’imperatore che visarà in questo luogo. E quando mi hanno chiesto l’esenzione dal dazio, i mieiamici pisani hanno mandato questi legati: Falceri e Azzolino, e Manfredi; e iogli ho fatto la carta per onore del vescovo Gerardo e di Ugo Visconte e di tuttii consoli di Pisa; e l’ho fatta per onore di tutti i miei amici di Pisa: Guido diBabilonia e Leo suo fratello, Repaldino e Gerardo e Iannello e Balduino eBernardo di Conizo, Francardo e Odimondo e Bruno e Ranuccio e Bernardode Garolitto e Tornolo, perché agiscano per il mio onore e in aiuto di questomio luogo. Questo placito l’hanno fatto per giuramento io e il donnicelloPietro de Serra e Costantino di Azze e Bosovecceso e Torchitorio di Ussa eNiscoli suo fratello e Niscoli di Azori e Mariano di Ussa [...].

Fonte: I brevi dei consoli del comune di Pisa degli anni 1162 e 1164. Studiointroduttivo, testi e note con un’Appendice di documenti, a cura di O. Banti,Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1997, pp. 107-108.

Doc. 2Turbino, Giudice di Cagliari, esenta dai dazi i mercanti pisani (1103)

Il Giudice di Cagliari, Turbino, concede ai Pisani una serie di esen-zioni dal pagamento dei dazi, tra cui quelli relativi alla commercializ-zazione del sale estratto dalle cospicue saline locali. La necessità distringere amicizia con i Pisani è legata alla recente usurpazione deltrono giudicale a scapito del legittimo pretendente, ovvero Mariano,figlio del defunto Costantino e nipote di Turbino.

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† In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen. Ego Turbini omnipo-tentis Dei gratia iudex Karalitanus dono, concedo et in perpetuum tradoPisanis, karissimis amicis nostris, tolineum de yberno et de estate et de sale, uthabeant benedictum a Deo et a nobis; ita tamen ut populus Pisanus sit amicusmichi et regno meo et non offendant studiose neque me neque regnum meum.Huius nostre donationis in primis testis est Deus, deinde Gonnari donnicelluset Petrus et Marianus donnicelli, et Torchitore similiter et Orzoccor de Curcasocuratore de Civita et Cumita de Gonale et Zerchis de Rovo et Orzocor de Rovoet Constantino de Rovo; et cum bona voluntate aliorum parentum nostrorumet totius populi mei hoc feci. Hic etiam interfuerunt de Pisanis: Petrus filiusAlbizi et Ughicione filius Uberti et Leo de Babilonia et Wido Cantarello etTebaldinus et Gerardus filius Petri et Alcherius et Gerardus Pandulfi etRodolfinus et alii plures. Anno dominice incarnationis millesimo centesimoquarto, in mense madio, indictione .XI.

† Ego Turbini Dei gratia iudex in hac cartula subscripsi.

† In nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen. Io Turbino,Giudice cagliaritano per grazia di Dio onnipotente, dono, concedo e in perpetuoconsegno ai Pisani, carissimi amici nostri, il teloneo di inverno e d’estate e delsale, in modo che lo abbiano benedetto da Dio e da noi; così tuttavia affinché ilpopolo Pisano sia amico mio e del mio regno e non offendano volutamente né mené il mio regno. Di questa nostra donazione in primis è testimone Dio, poi il don-nicello Gonario e i donnicelli Pietro e Mariano, e ugualmente Torchitorio eOrzoccor di Curcaso curatore di Civita e Comita di Gonale e Zerchi di Rovo eOrzoccor di Rovo e Costantino di Rovo; e ho fatto questo con buona volontàdegli altri parenti nostri e di tutto il mio popolo. Qui inoltre furono presenti tra iPisani: Pietro figlio di Albizo e Uguccione figlio di Uberto e Leo di Babilonia eGuido Cantarello e Tebaldino e Gerardo figlio di Pietro e Alcherio e Gerardo diPandolfo e Rodolfino e molti altri. Anno dell’incarnazione del Signore millesimocentesimo quarto, nel mese di maggio, indizione XI.

† Io Turbino Giudice per grazia di Dio ho sottoscritto in questa carta.

Fonte: Ivi, pp. 113-114.

Doc. 3Società di mare tra Genovesi per commerciare in Sardegna (1156)

Atto notarile rogato a Genova. Guglielmo Vento e Baldo Pulpo con-traggono una societas maris per traffici da realizzare in Sardegna. Ilprimo partecipa come socio finanziatore investendo i 2/3 del capitale,mentre Pulpo agisce da socio d’opera e versa 1/3 del capitale, più unapiccola somma extra. Al ritorno dal viaggio d’affari, scorporate lesomme investite, gli eventuali utili dovranno essere divisi a metà.

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Corsus, Ogerius Nocentius, Obertus Pedicula, Oger frater, Oto Nabolensis.W. Ventus et Baldo Pulpus confessi sunt adinvicem se contraxisse societatemunius navis et itineris in Sardineam profecturi in qua Wuilielmus lb. LXXXXII

et Baldo XLVI misisse. Ultra has misit Wuilielmus lb. II. In reditu proficuum permedium, duabus lb. primum extractis cum eo proficui quod eis acciderit. Ultraconfessus est ipse Baldo se habere ancoras IIII in ipsa navi proprias WuilielmiVenti. Actum in mercato prope ulmum, MCLVI, idus iulii, tercie indicionis.

Testimoni Corso, Ogerio Nocenzio, Oberto Pedicula, Ogerio suo fratello,Otto Nabolense. Guglielmo Vento e Baldo Pulpo hanno ammesso, l’uno difronte all’altro, di aver contratto una società per una nave e un viaggio condestinazione la Sardegna, nella quale Guglielmo ha investito 92 lire e Baldo46. In sovrappiù Guglielmo ha messo altre 2 lire. Al ritorno l’utile sarà divisoa metà, dopo aver detratto le due lire con il relativo profitto eventualmentematurato. Inoltre Baldo ha riconosciuto di disporre sulla nave di 4 ancore diproprietà di Guglielmo Vento. Atto rogato nel mercato vicino all’olmo, 1156,idi di luglio, terza indizione.

Fonte: M. CHIAUDANO - M. MORESCO, Il cartolare di Giovanni Scriba, 2 voll.,Torino, Lattes, 1935, vol. I, p. 52.

Doc. 4Prestito marittimo tra mercanti genovesi per un viaggio d’affari inSardegna (1157)

Atto notarile rogato a Genova. Embrone ottiene da Bono GiovanniMalfigliastro un prestito per finanziare un viaggio d’affari in Sardegna. Unmese dopo il suo ritorno a Genova, Embrone dovrà pagare al Malfigliastrouna cifra comprensiva di interessi pari al 33% del capitale iniziale.

Gandulfus Muscelica, Ionathas Ciriolus, Giso guardator. Ego Embronusaccepi a te Bono Iohanne Malfiiastre lb. XV denariorum ianuensium pro quibuspromitto dare tibi vel tuo certo misso lb. XX in denariis sana eunte Sardineam etinde redeunte navi in qua partem habent Ionathas et Natarellus ad mensem unumpostquam discarricata fuerit, sin penam dupli bona pignori tua actoritate [sic] etsine consulum iussu extimari facias et nomine vendicionis possideas. Actumante Sanctum Laurentium, MCLVII, nonis madii, indicione IIII.

Gandolfo Muscelica, Gionata Ciriolo, Giso guardiano. Io Embrone ho rice-vuto da te Bono di Giovanni Malfigliastro 15 lire di denari genovesi per lequali prometto di dare a te o a un tuo sicuro inviato 20 lire in denari un mesedopo che sarà tornata e scaricata la nave diretta in Sardegna nella quale hannoparte Gionata e Natarello. In caso contrario, in applicazione della pena deldoppio, con la tua autorità e senza ricorso all’intervento dei consoli, farai sti-

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mare i beni che ti ho dato in pegno e li acquisirai a titolo di vendita. Atto roga-to di fronte a San Lorenzo, 1157, none di maggio, indizione quarta.

Fonte: Ivi, vol. I, p. 95.

Docc. 5 e 6Le costose ambizioni regali del Giudice di Arborea Barisone II(1164, 1185)

Atto notarile rogato a Genova nel 1164. Balduino Guercio dichiaradi aver ricevuto da Ugo vescovo di S. Giusta una somma da destinarea Opizzo Malaspina, che ha il compito di scortare fino a Genova ilGiudice di Arborea, Barisone II. Ne promette la restituzione solo nelcaso in cui Barisone non sia incoronato re di Sardegna dall’imperato-re Federico I, divenendo così vassallo del Sacro Romano Impero. Lacosa sarebbe avvenuta nel successivo mese di agosto a Pavia, con unapesantissima obbligazione destinata a procurare grossi grattacapi alGiudice di Arborea: un versamento annuo di 4.000 marchi d’argentonelle casse imperiali. Barisone II accettò indebitandosi oltre misuracon i mercanti genovesi. Ma già nell’aprile del 1165, il Barbarossa,con un brusco voltafaccia, concesse l’investitura della Sardegna alcomune di Pisa. Impossibilitato ad esercitare una reale autorità regiasull’intera isola e quindi a rifondere le enormi somme ricevute in pre-stito, il Giudice fu preso in ‘custodia’ dai Genovesi e costretto a trasfe-rirsi forzatamente per tre anni nella città della Lanterna.

Testes Bisarcius, Baldeçonus Ususmaris, Ido Gontardus, Nuvelon, EnricusGuercius, Nicola Rodulfi, Paganus de Volta et Ingo de Volta. BalduinusGuercius professus est se cepisse ab Ugone episcopo Sancte Iuste libras cen-tum quadragintaquinque denarium ianuensium pro Opiçone Malaspina quasipsi episcopo stipulanti in sua legalitate promisit se redditurum ei vel iudici autsuo nuncio, si dominus imperator non coronaverit iudicem et investiverit deSardinea et nisi iudex in accordium se separaverit ab eius curia infra mensempostquam hoc cognitum fuerit. Hoc autem abrenuncians laudi qua fuit consti-tutum ianuenses pro extraneis fideiubentes non teneri. Actum in camera domi-ni archiepiscopi, MCLXIIII, XXVIII iulii, indictione XI.

Testimoni Bisarcio, Baldezono Usodimare, Ido Gontardo, Nuvelone, EnricoGuercio, Nicola di Rodolfo, Pagano de Volta e Ingo de Volta. Balduino Guercioha riconosciuto di aver ricevuto da Ugo vescovo di Santa Giusta centoquaranta-cinque lire di denari genovesi per conto di Opizzo Malaspina, le quali promise

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di restituire pienamente al detto vescovo stipulante, al Giudice o a un suo invia-to, nel caso in cui il signor imperatore non avesse incoronato il Giudice e non loavesse investito della Sardegna e nel caso in cui il Giudice si fosse concorde-mente separato dalla curia del vescovo entro un mese dalla disposizione di que-sto documento. Si rinuncia al lodo con cui fu stabilito che i Genovesi non fosse-ro obbligati a prestare fideiussione per gli estranei. Atto rogato nella curia delsignor arcivescovo, 1164, 28 luglio, indizione undicesima.

Fonte: Ivi, vol. II, 223.

Atto notarile rogato a Pisa il 6 dicembre 1185. Il mercante pisanoRanuccino di Boccio elenca i suoi crediti e debiti. Tra i primi figuranoimporti consistenti versati direttamente o indirettamente al GiudiceBarisone II, definito da Ranuccino «dominus meus» e soprattutto «rexArvoree». Per contrastare la penetrazione genovese nel Giudicato diArborea, i Pisani prestarono a loro volta somme notevoli a Barisone.Si noti l’esplicito riferimento agli interessi maturati, un fatto abbastan-za raro in un rogito notarile medievale.

In nomine Domini nostri Jesus Cristi Dei eterni amen. Ex huius publiciinstrumenti lectione clare appareat quod ego Ranuccinus filius Boccii faciorecordationem de rebus meis quas habeo ad recolligendum ab infrascriptis per-sonis et similiter de bonis que debeo dare. In primis a domino meo Barazonerege Arvoree debeo recipere libras ducentas septem denariorum pisane mone-te inter capitali et prode. Item ab episcopo Sancte Juste eiusdem loci quomo-do ibi est libras viginti octo denariorum eiusdem monete inter capitali et prode.Item a Parazone de Martij eiusdem loci bizantios viginti massamutinos decapitali.

Et debeo eiusdem dare Cortevecchino pro domino meo Barazone regeArvoree infrascripto libras septuaginta denariorum pisanorum. Et dico quodpromisi dare Lanfranco fratri meo filio infrascripti Boccii pro prefato dominorege Arvoree libras viginti denariorum pisanorum [...].

In nome del Signore nostro Gesù Cristo Dio eterno amen. Dalla lettura diquesto pubblico strumento sia evidente che io Ranuccino, figlio di Boccio,faccio ricordo delle cose mie che devo riscuotere dalle infrascritte persone eugualmente dei beni che devo restituire. Prima di tutto dal mio signoreBarisone re di Arborea devo ricevere duecentosette lire di denari di monetapisana tra capitale e interesse. Ancora, dal vescovo di Santa Giusta del mede-simo luogo [nel senso di stato] vent’otto lire della stessa moneta tra capitale einteresse. Ancora, da Parazone de Martij del medesimo luogo 20 bisanti mas-samutini di capitale.

E devo dare a Cortevecchino per il mio signore Barisone re di Arboreainfrascritto lire settanta di denari pisani. E dico che ho promesso di dare a

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Lanfranco mio fratello figlio dell’infrascritto Boccio per il sopradetto signorere di Arborea lire venti di denari pisani [...].

Fonte: Documenti inediti relativi ai rapporti economici tra la Sardegna e Pisa nelMedioevo, a cura di F. Artizzu, 2 voll., Padova, CEDAM, 1961, vol. I, doc. 1.

Doc. 7Mercanti pisani tra Sardegna e Barberia (1201)

Atto notarile rogato a Cagliari il 24 settembre 1201, in una casa diCastel di Castro appartenente a mercanti pisani. Ildebrando Melleconsegna a Pandolfino Gelso 15 lire di denari genovesi da investire inuna società di mare finalizzata all’acquisto di grano nella città algeri-na di Bugia. Il viaggio partirà dal porto arborense di Neapoli con lanave S. Giacomo dell’armatore Giovanni Bellerba e dovrà concluder-si a Cagliari. Siamo nel periodo in cui il matematico pisano LeonardoFibonacci concludeva la prima stesura del suo Liber Abbaci, trattatofrutto della frequentazione dei maestri arabi proprio di Bugia, cittànella quale il padre di Leonardo operava come publicus scriba pressola dogana del porto. Questo e altri documenti coevi dimostrano l’im-portanza dell’asse marittimo commerciale che univa Pisa alla cosid-detta Barberia, passando per gli scali della Sardegna, già segnati dallapresenza di folte comunità mercantili pisane.

In eterni Dei nomine amen. Ex hoc publico instrumento sit omnibus mani-festum quod Pandulfinus Gelsus quondam Rainerii Gelsi interrogatus abIldebrando Melle filio Gualfredi Melle confessus est se accepisse et habere abeo libras quindecim bonorum denariorum januensium, renuntians exceptioninon numerate pecunie, portandas a se in societate maris in henticam suamquam vertaturus est Bugiam eundo a Portu Neapolitano judicatus Arboree innavi que dicitur Sanctus Jacobus de qua esta nauta Johannes Bellerba que cari-cari debet illuc de grano et ab inde cum ipsa hentica redeundo Callari vel man-dando in suprascripta navi vel aliis aut lingno vel lignis et sic dictusIldebrandus ei concessit. Etc. Actum Callari in Castello Castri in domo quefuit Ildebrandini Longi presentibus Magalocto quondam Maragonis etMarghiano Catello quondam Janni Catelli testibus ad hec rogatis [...].

In nome di Dio eterno amen. Da questo pubblico strumento sia a tutti mani-festo che Pandolfino Gelso del fu Ranieri Gelso, interrogato da IldebrandoMelle figlio di Gualfredo Melle, ha riconosciuto di aver ricevuto e di avere dalui lire quindici di buoni denari genovesi, rinunciando all’eccezione dellapecunia non numerata, le quali deve investire mediante una società di mare in

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una incetta con destinazione Bugia partendo dal Porto Napoletano delGiudicato di Arborea nella nave chiamata San Giacomo, di cui è patronoGiovanni Bellerba, la quale deve essere lì [a Bugia] caricata di grano; conquell’incetta Pandolfino dovrà tornare a Cagliari oppure inviare il carico sullasoprascritta nave o altro/i legno/i e secondo queste clausole il detto Ildebrandoha concesso a lui la somma. Ecc. Atto rogato a Cagliari in Castel di Castronella casa che fu di Ildebrandino di Longo, presenti Magalotto del fuMaragone e Marghiano Catello del fu Gianni Catello testimoni a ciò richiesti[...].

Fonte: Ivi, vol. I, doc. 4.

Doc. 8Il commercio genovese in Sardegna e l’intermediazione dei mag-giorenti logudoresi (1234)

Atto notarile rogato a Genova. Un gruppo di maggiorenti del Giu-dicato di Torres pattuisce con il notaio pavese Ansaldo, procuratore deldominus e mercante genovese Guglielmo Vento, quanto già convenutoda altri Sardi, e in particolare, di versargli 1/60 (quattro denari perogni lira) del valore delle merci importate dalla Sardegna a Genova.L’anno precedente (ovvero nel 1233), il comune di Genova e il Giu-dicato di Torres avevano siglato un accordo commerciale, al quale pre-senziarono esponenti dell’élite logudorese interessati ai traffici sardo-liguri.

Nos Ugolinus Penna, Marinus Penna, Dorbinus Penna, Ranierus faber etViadeletus Sardus promittimus et convenimus tibi Ansaldo papiensi notario, reci-pienti nomine domini Wilielmi Venti, cuius es procurator, quod omnia illa pactaconvenciones et promissiones que et quas fecerunt, promisserunt et conveneruntdicto domino Wilielmo Vento, Barixonus Caxus et Dorgodoi de Mai et quamplu-res alii Sardi, ut in carta facta manu Gandulfi notarii de Sexto dicimus per omniacontineri, observabimus, attendemus, et complebimus, et contra non veniemus, etspecialiter de solvendo denarios quatuor pro unaquaque libra de toto eo quodnobiscum deferemus vel per nos fuerit delatum seu deferri faciemus, quociensJanuam veniemus. Alioquin si de predictis in aliquo contrafecerimus, promitti-mus tibi dicto nomine recipienti dare et solvere nomine pene libras quinquagintadenariorum januinorum pro unoquoque nostrum, unde pro pena et dictis omnibusobservandis et attendendis omnia nostra bona habita et habenda tibi pignori obli-gamus. Testes Rufinus de Grulla et Thomas filius Constantii. MCCXXXIIII,indictione VI, die XV septembris, inter nonam et vesperas. Actum Janue in apo-theca Sancti Laurencii, quam tenet Lantelmus notarius.

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Noi Ugolino Penna, Marino Penna, Dorbino Penna, Raniero fabbro e Via-deletto Sardo promettiamo e conveniamo a te Ansaldo pavese notaio, riceventea nome di messer Guglielmo Vento, di cui sei procuratore, che tutti quei patti,convenzioni e assicurazioni che hanno fatto, promesso e convenuto BarisoneCaxo e Torchitorio de Mai e molti altri Sardi al detto messer Guglielmo Vento,come diciamo essere contenuto in tutto e per tutto nella carta fatta per mano delnotaio Gandolfo da Sesto, li osserveremo, li cureremo e gli daremo piena effica-cia e non li violeremo, e specialmente pagando quattro denari per ogni lira ditutto ciò che con noi porteremo o per noi sarà condotto o faremo condurre, ognivolta che verremo a Genova. Altrimenti, se in riferimento alle predette cose cicomportassimo diversamente, promettiamo a te, che ricevi a nome del sopradet-to, di dare e pagare a titolo di penale cinquanta lire di denari genovini per ognu-no di noi, ragion per cui a titolo di pegno obblighiamo a te, per la penale e pertutto ciò che deve essere osservato e tutelato, tutti i nostri beni presenti e futuri.Testimoni Rufino de Grulla e Tommaso figlio di Costanzo. MCCXXXIIII, indi-zione VI, giorno 15 di settembre, tra nona e vespro. Atto rogato a Genova nellabottega di San Lorenzo che possiede il notaio Lantelmo.

Fonte: Documenti inediti sui traffici commerciali tra la Liguria e la Sardegnanel secolo XIII, a cura di N. Calvini, E. Putzulu, V. Zucchi, con introduzionedi A. Boscolo, Padova, CEDAM, 1957, doc. 62.

Doc. 9Società fondata a Castel di Castro nella via dei mercanti pisani(1237)

Fulcherio del fu Rustichello riceve da Ildebrando Melle merci delvalore di 80 lire di denari genovesi da vendere in tutta la Sardegna.Entro il termine di un anno Fulcherio si impegna a consegnare al sociofinanziatore tutto il capitale e la metà degli eventuali utili conseguiti.L’atto notarile è rogato il 12 marzo del 1237 in una casa di proprietàdell’Opera del Duomo di Pisa, situata nella «via dei mercanti» all’in-terno del Castello di Cagliari edificato di recente dai Pisani sul sitodella rocca di età antica, dentro la cui cinta ai Sardi e a tutti gli stra-nieri era fatto divieto di risiedere.

In nomine trini eterni et unius Dei amen. Ex huius publici instrumenti lec-tione sit omnibus manifestum quod Fulcherius quondam Rustichelli Andreeinterrogatus ab Ildebrando Melle quondam Gualfredi Melis confessus est inveritate se ab eo accepisse et apud se habere in mercatantia de terra per totaminsulam Sardinee tractandas libras octuaginta denariorum januensium; quaslibras octuaginta denariorum januensium dictus Fulcherius cum medietate

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totius lucri quod et quantum pro scriptis libris octuaginta denariorum januino-rum vel earum occasione habuerit, dictus Fulcherius se et suos heredes et bonaei et suis heredibus per stipulationem convenit e promisit scripto Ildebrandoreddere per se vel per alium eidem Ildebrando et sui heredibus vel suo certomisso aut cui ipse preceperit a kalendis aprilis proximi ad unum annum proxi-mum sine omni briga et reclamatione et aliquibus expensis curie et advocato-rum. Etc. Actum in Castro montis de Castro Callari in domo Opere EcclesieSancte Marie de Pisis que est in Ruga Mercatorum [...].

In nome di Dio eterno uno e trino amen. Dalla lettura di questo pubblicostrumento sia a tutti manifesto che Fulcherio del fu Rustichello di Andrea,interrogato da Ildebrando Melle del fu Gualfredo di Mele, ha riconosciuto diaver ricevuto da lui e di avere presso di sé ottanta lire di denari genovesi sottoforma di mercanzie da trattare via terra per tutta l’isola di Sardegna. Le qualiottanta lire di denari genovesi il detto Fulcherio, con la metà di tutto il guada-gno eventualmente realizzato dalle scritte ottanta lire di denari genovini, haconvenuto per contratto e promesso, impegnando sé, i suoi eredi e i propribeni, di restituirle personalmente o tramite altra persona al detto Ildebrando, aisuoi eredi o a un suo certo inviato o ad altra persona che a lui sia gradita, entroil termine compreso tra le calende del prossimo aprile fino al trascorrere di unanno, senza alcuna briga, reclamo e spese di tribunale e avvocati. Ecc. Attorogato nel Castello del monte di Castel di Cagliari nella casa dell’Opera dellaChiesa di Santa Maria di Pisa che si trova nella Ruga dei Mercanti [...].

Fonte: Documenti inediti relativi ai rapporti economici tra la Sardegna e Pisacit., vol. I, doc. 8.

Doc. 10Mercanti liguri e lombardi tra Logudoro e Arborea (1248)

Atto notarile rogato a Genova il 17 aprile 1248. Oberto Pulpo deMari e Guizardo de Mari danno a noleggio a Gafforio di Albenga eGiovannino di Lodi i 3/4 della saettia Bonaventura che posseggono incomune con loro, per un viaggio in Sardegna da Torres ad Arborea, alprezzo di nolo di 25 lire e 10 soldi di genovini, da corrispondersi entro15 giorni dal rientro della nave a Genova. La Sardegna nord-occiden-tale, come evidenzia anche questo contratto, fu nel Duecento più aper-ta alla penetrazione dei mercanti genovesi che non ai Pisani.

Nos Obertus Pulpus de Mari et Guiçardus de Mari locamus et titulo loca-tionis concedimus vobis Gafforio de Albimgana et Iohannino de Laude, filioEnrici de Laude, tres quarterios sagitee nostre, quam habemus pro indiviso

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vobiscum et que dicitur Bonaventura, cum vellis tribus, silicet duabus cotoniet una canabacii, et cum tribus ancoris et quatuor agumenis et uno prodese etcum alia sarcia et aparatu ipsius et cum arboribus munitis, extimatos in librisnonaginta ianuinorum; quam locationem vobis facimus ad eam ducentam [sic]in viatico Sardinee, silicet a Turre usque Arboriam, et circa ipsas partes, et prohoneranda ea vestris expensis de honere et mercibus ad vestram voluntatem eteam deinde Ianuam reducere. Pro cuius mercede sive locatione nobis daredebetis libras viginti quinque et dimidium ianuinorum infra dies XV postquamIanuam reddieritis vel competenter venire poteritis. Quos tres quarterios dictesagitee cum sarcia et aparatu ipsius promittimus vobis dimittere et non aufer-re; alioquin penam dupli dicti nauli vobis stipulantibus promittimus et indeomnia bona nostra habita et habenda vobis pignori obligamus. Versa vice nospredicti Gafforius et Iohanninus, quisque nostrum in solidum, promittimus etconvenimus vobis dictis Oberto et Guiçardo predictam sagiteam in dicto via-tico ducere seu duci facere et in eam navigare et honerare competenti honereet Ianuam eam reducere et eam salvare et custodire et in redditu quem facie-mus vobis dabimus et solvemus, infra dies XV, dictam mercedem sive condi-tionem et dictam sagiteam vobis restituere, cum dicto aparatu, vel dictam exti-matione [...].

Noi Oberto Pulpo de Mari e Guizardo de Mari lochiamo e a titolo di locazio-ne concediamo a voi Gafforio di Albenga e Giovannino di Lodi, figlio di Enricodi Lodi, tre quarti della nostra saettia, la quale possediamo pro indiviso con voi eche è chiamata Bonaventura, con tre vele, ovvero due di cotone e una di canapa,e con tre ancore e quattro gomene e un prodese e con altro suo sartiame e appa-rato e con alberi approntati, stimati in novanta lire di genovini; la quale locazio-ne vi concediamo per condurre la nave in un viaggio in Sardegna, cioè da Torresfino ad Arborea, e intorno alle stesse parti, e per caricare la nave a vostre spese dicosto e di merci secondo la vostra volontà e di lì riportarla a Genova. Per la mer-cede ovvero locazione della nave ci dovrete dare venticinque lire e mezzo digenovini entro XV giorni dopo che sarete tornati a Genova o potrete venire con-venientemente. I quali tre quarti della detta saettia con relativo sartiame e appa-rato promettiamo di consegnarvelo e non togliervelo; altrimenti promettiamo dipagare a voi stipulanti una penale pari al doppio del nolo e per questo obblighia-mo a voi a titolo di pegno tutti i nostri beni presenti e futuri. Viceversa noi pre-detti, Gafforio e Giovannino, ciascuno di noi in solido, promettiamo e convenia-mo a voi detti Oberto e Guizardo di condurre o far condurre la predetta saettia neldetto itinerario e su quella navigare e quella stivare con conveniente carico eriportarla a Genova e conservarla e custodirla e, al nostro ritorno, vi daremo e vipagheremo, entro XV giorni, la detta mercede ovvero condizione e vi restituire-mo la detta saettia, con il detto apparato, ovvero la detta stima [...].

Fonte: L. BALLETTO, Genova e la Sardegna nel secolo XIII, in Saggi e docu-menti, vol. I, Genova, Civico Istituto Colombiano, 1978, pp. 59-261, App. IV,doc. 3.

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Doc. 11Sassari, da villa a città comunale melting pot (1253)

Atto notarile rogato a Genova il 12 febbraio 1253. Il sassareseAlbertino Salario dichiara di aver ricevuto dal lucchese Donato del fuLeonardo, che agisce per conto di altri due mercanti di Sassari, lasomma di 11 lire di denari genovini e 20 cantari di formaggio, traspor-tati da Bosa a Genova sulla tarida di Orlandino Fiorentino. La città diSassari, non a caso elevatasi a comune autonomo dagli anni ’30 delDuecento, si dimostra crogiolo di un ceto mercantile frutto della pre-coce integrazione tra elementi indigeni e commercianti d’origine ligu-re e toscana.

† Ego Albertinus Salarius de Sassaro confiteor me accepisse et habuisse ate Donato filio quondam Leonardi de Luca, dante nomine Rainerii Rubei etIohannis Penne de Sassaro, pecuniam et res infrascriptas dictorum Rainerii etIohannis, quas tibi accomendaverunt et voluerunt te mihi eas dare debere, sili-cet libras XI ianuinorum et cantaria XX casei qui delatus fuit nuper, in taridaOrlandini Florentini, de Bosa Ianuam, cuius navita erat Willelmus Bruxabo-scus, de quibus rebus et pecunia me bene quietum et solutum voco [...].

† Io Albertino Salario di Sassari riconosco di aver ricevuto e avuto da teDonato figlio del fu Leonardo di Lucca, concedente a nome di Raniero Rossoe Giovanni Penna di Sassari, denaro e cose infrascritte dei detti Raniero eGiovanni, che ti hanno affidato e hanno voluto che tu me le dovessi consegna-re, ovvero lire XI di genovini e cantari XX di formaggio che da poco è statotrasportato da Bosa a Genova, sulla tarida di Orlandino Fiorentino, il cui patro-no era Guglielmo Bruciabosco, delle quali cose e denaro mi dichiaro conten-to e pagato [...].

Fonte: L. BALLETTO, Studi e documenti su Genova e la Sardegna nel secoloXIII, in Saggi e Documenti, vol. II, tomo secondo, Genova, Civico IstitutoColombiano, 1981, pp. 7-246, doc. 1.

Doc. 12I prodotti della pastorizia sarda al centro di una società genovese(1269)

Atto notarile rogato a Genova. Simone Cairame riceve in accomen-datione 30 lire di denari genovini dal notaio Iacopo Marzuco, il qualeagisce a nome di mercanti genovesi che hanno in appalto la gestionedella gabella cittadina su carne, formaggio e sugna. La somma dovrà

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essere investita in un viaggio d’affari in Sardegna sulla nave di AndreaBonacie, per acquistare proprio quei prodotti della pastorizia sardache cadono sotto il controllo della dogana genovese gestita dai mede-simi mercanti. A differenza della società di mare, nella quale i soci pas-sivi versano i due terzi del capitale e quelli operativi un terzo per poispartirsi i guadagni a metà, nel caso della accomendatio (o commen-da) i soci finanziatori mettono tutto il capitale e traggono i 3/4 deglieventuali utili, lasciando al socio viaggiatore la restante quarta parte.

† Ego Symon Cairame confiteor tibi Iacobo Macucho notario, recipienti hancconfessionem nomine et vice Pascalinni de Albario et aliorum sociorum suorumemptorum introitus cabelle carnis et casei et axunzie, me a te habuisse et rece-pisse in accomendatione libras triginta unam ianuinorum, quas dicis processissede predicto introitu collecto per te, renuntians exceptioni non numerate peccu-nie et non recepte accomendationis et omni alii iuri, cum quibus, Deo propicio,apud Sardineam, causa negociandi, in ligno Andrea Bonacie ire debeo et de eisexpendere et lucrari sicut de aliis rebus quas porto, nullo alio mutato itinere, etdeinde reddire Ianuam cum predictis denariis, inplicatis in caseo, carnibus etaxunçia. In redditu autem Ianuam capitale et proficuum dicte accomendationisin tua potestate vel tui certi missi ponere et consignare promitto, quarta lucri inme retenta. Alioquin penam dupli dicte accomendationis tibi, dictis nominibusstipulanti, dare promitto. Et pro predictis omnibus observandis et pena universabona mea habita et habenda tibi pignori obligo. Actum Ianue, sub embolo domusBovarelli de Grimaldo, ubi colligitur introitus carnis et casei. Testes IacobusDardella et Obertinus Bargaginus de Predi. Anno dominice NativitatisMCCLXVIIII, die VI iunii, indictione XI, inter terciam et nonam.

† Io Simone Cairame confesso a te Jacopo Mazuco notaio, che ricevi que-sta confessione a nome e per conto di Pasqualinno di Albaro e di altri socicompratori dell’entrata della gabella della carne e del formaggio e della sugna,di avere da te avuto e ricevuto in commenda trentuno lire di genovini, che tudici essere derivati dalla predetta entrata da te raccolta, rinunciando all’ecce-zione della pecunia non numerata e della commenda non ricevuta e a ognialtro diritto, con le quali, col favore di Dio, devo andare in Sardegna sul legnodi Andrea Bonacie per negoziare, e investirle e lucrare così come con le altrecose che mi porto, senza mutare l’itinerario, e di lì tornare a Genova con i pre-detti denari, investiti in formaggio, carne e sugna. Al ritorno a Genova promet-to di consegnare e di porre in tua potestà o di un tuo certo messo il capitale el’utile della commenda, trattenendo per me la quarta parte del guadagno.Altrimenti prometto a te che stipuli a nome dei predetti di pagare una penalepari al doppio della commenda. E per osservare le predette clausole e darevigore alla penale, obbligo nei tuoi confronti a titolo di pegno tutti i miei benipresenti e futuri. Atto rogato a Genova, sotto il portico della casa di Bovarellodi Grimaldo, dove si raccoglie l’entrata della carne e del formaggio. Testimoni

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Jacopo Dardella e Obertino Bargagino de Predi. Anno della natività delSignore MCCLXVIIII, giorno VI di giugno, indizione XI, tra terza e nona.

Fonte: L. BALLETTO, Genova e la Sardegna nel secolo XIII cit., App. V, doc. 21.

Docc. 13 e 14Un mercante apolide nella Sassari del secondo Duecento: Gual-tiero da Volterra (1277)

Gualtiero da Volterra, mercante di chiare origini toscane, costituiscela sua notevole fortuna commerciando per anni tra Genova e Sassari.Se i rogiti relativi ai suoi traffici attestano una sua assidua presenzanella città ligure, del comune turritano è addirittura burgensis. Nelprimo dei due atti notarili che qui riportiamo riceve da un mercantegenovese un pingue prestito di 630 lire (apparentemente senza aggraviodi interessi, il che pare assai inverosimile), da restituirsi entro 15 gior-ni dall’approdo a Porto Torres della galea Allegranza, dando in pegnole merci caricate sulla stessa nave. Si noti la qualità pregiata del cari-co inviato in Sardegna: oltre all’argenteria, 5 panni di lana di produ-zione fiamminga (i cosiddetti panni ‘franceschi’) e altri panni fabbrica-ti a Genova nella bottega del lanaiolo Jacopo Sperio. L’importanza delmercante in questione è rimarcata dai cognomi dei testimoni presenti alrogito. Nel secondo atto notarile Gualtiero dichiara di aver ricevuto daFederico Doria, a titolo di accomedacio con destinazione la Sardegna,diversi gioielli per un valore complessivo di 143 lire di genovini.

Ego Gualterius de Volterra, burgensis Sassari, confiteor tibi Rafo de Gualteriome a te habuisse et recepisse mutuo, gratis et amore libras sexcentas trigintaianuinorum, rentuntians exceptioni non numerate pecunie et omni iuri, quas veltotidem pro his eiusdem monete tibi vel tuo certo misso dare et solvere promittoin Sassari, infra dies quindecim postquam ibi aplicuerit galea Ugeti de Castro,que dicitur Alegrancia, sanua [sic] tamen eunte dicta galea cum maiori partererum; alioquin penam dupli dicte quantitatis tibi stipulanti promitto, rato manen-te pacto, cum omnibus damnis et expensis propterea factis, te credito de his tuosolo verbo; et proinde omnia bona mea habita et habenda tibi pignori obligo, etspecialiter tibi obligo pignori ballas quinque pannorum francischorum et aliorumfactorum in Ianua de laborerio Iacobi Spaerii, honeratas in dicta galea, et sifosdecem de argento cum pedibus deauratas [sic] et sifos sexdecim sine pede et duasstagnarias de argento, quarum rerum possessionem et dominium in te transferousque ad integram solucionem; et ego dictus Rafus confiteor penes me dictas reshabere et tenere iure pignoris et ipsas tibi restituere quando mihi de dicto debitofuerit satisfactum. Actum Ianue, in angulo domus capituli Sancti Laurentii,

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MCCLXXVII, indictione quinta, die XVII novembris, inter primam et terciam.Testes Ingetus Spinula, Nicolaus Bucanigra et Bonifacius Beaqua.

Io Gualtiero da Volterra, borghese di Sassari, riconosco a te Rafo di Gualtierodi avere da te avuto e ricevuto a titolo di prestito gratuito lire seicentotrenta digenovini, rinunciando all’eccezione della pecunia non numerata e di ogni diritto,le quali prometto di dare e pagare a Sassari a te o a un tuo certo messo con unasomma equivalente nella medesima moneta, entro quindici giorni dall’attraccodella galea di Ughetto di Castro, la quale è chiamata Allegranza, arrivando lagalea salva con la maggior parte del carico; in caso contrario prometto a te stipu-lante di pagarti una penale pari al doppio, rimanendo stabilito il patto, con tutti idanni e le spese fatte per questo, dovendoti credere riguardo a ciò sulla tua solaparola, e specialmente obbligo nei tuoi confronti a titolo di pegno cinque balle dipanni franceschi e altri prodotti a Genova nella bottega di Jacopo Sperio, le qualiballe sono caricate sulla detta galea, e dieci coppe d’argento dorate con i piedi esedici coppe senza piede e due bacinelle d’argento, delle quali cose trasferisco ate il possesso e il dominio fino alla liquidazione totale del pagamento; e io dettoRafo riconosco di avere e tenere presso di me a titolo di pegno le dette cose e direstituirtele quando mi sarà soddisfatta la somma dovuta. Atto rogato a Genova,all’angolo del capitolo di San Lorenzo, MCCLXXVII, indizione quinta, giornoXVII di novembre, tra prima e terza. Testimoni Inghetto Spinola, NiccolòBoccanegra e Bonifacia Beacqua.

Ego Gualterius de Volterra, burgensis Sassari, confiteor tibi Frederico Aurie,filio Babilani Aurie, habuisse et recepisse in accomendatione libras centumquinque ianuinorum, implicatas in bruieta una cumun barasio vermilio et perlisseptem, et libras viginti, implicatas in smeraldo uno ligato in annulo, et librasdecem et octo, implicatas in robino uno ligato in anulo uno auri, de pecunia dictidomini Babilani, rentuntians et cet., quas accomendaciones portare debeo inSardeniam ex quo de portu Ianue. Testes Iohannes de Tholomeo et GuillelmusMagonus. Actum Ianue, in angulo domus capituli Sancti Laurentii,MCCLXXVII, indictione quinta, die XVII novembris, inter nonam et vesperas.

Io Gualtiero da Volterra, borghese di Sassari, riconosco a te Federico Doria,figlio di Babilano Doria, di aver avuto e ricevuto da te in commenda centocin-que lire di genovini, investite in una bruieta insieme con un balascio vermiglioe sette perle, e venti lire, investite in uno smeraldo incastonato in un anello, elire diciotto, investite in un rubino incastonato in un anello d’oro, di proprietàdel detto messe Babilano, rinunciando ecc., le quali cose affidate in commen-da le debbo portare in Sardegna una volta uscito dal porto di Genova.Testimoni Giovanni di Tolomeo e Guglielmo Magono. Atto rogato a Genova,all’angolo dell’edificio del capitolo di San Lorenzo, MCCLXXVII, indizionequinta, giorno XVII di novembre, tra nona a vespro.

Fonte: L. BALLETTO, Studi e documenti su Genova e la Sardegna cit., docc. 56 e 57.

Documenti III 117

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Doc. 15Signori e mercanti liguri nei castelli del Logudoro post-giudicale(1282)

Atto notarile rogato a Genova. Lanfranco di Ingo Spìnola, Bal-dassarre Spìnola e Romino de Nigro intercedono e si obbligano perCorrado Malaspina con Brancaleone Doria riguardo all’acquisto diCastelgenovese (oggi Castelsardo), Casteldoria e della curatorìa diAnglona. Pochi mesi dopo i due grossi castelli (e forse anche la cura-torìa) verranno retroceduti per la somma di 9.300 lire, il che ha fattopensare a una forma particolarmente complessa di prestito a interessenascosto. Infatti, ammesso e non concesso che la somma inizialmenteversata (di cui il notaio tace volutamente l’ammontare) fosse tutta delMalaspina, restava da corrispondere agli Spìnola i costi di intermedia-zione commerciale e finanziaria.

Ego Lanfrancus Spinula quondam Ingonis confiteor vobis Badasali Spinuleet Romino de Nigro quod meis precibus et mandatis hodie intercesistis et vosobligastis una mecum et insolidum pro domino Conrado marchione Malaspinaversus Branchaleonem Auriam de vendicione Castri Ianuensis et Castri Dorie etcoratarie Angroni, ut de predictis omnibus continetur et fit mencio in instrumen-to hodie scripto manu Fulchonis Fallacha notarii [...]. Volens vobis observarepromissa, promitto et convenio vobis vos et vestra et heredes vestros insoliduma dicta fide et obligacione et ab omnibus his de quibus fit mencio in dicto instru-mento servare indennes et indennia, et vobis et cuilibet vestrum in solidum dareet solvere in peccunia numerata omnia danna, expensas et messiones que et quaspropterea substineretis, vel alter vestrum substineret, concedendo vobis de pre-dictis vestro solo verbo sine testibus et iure. Que omnia et singula promictovobis attendere, complere et observare et in nullo cotravenire, sub pena dupli dequanto et quotiens contrafietur et non observaretur et sub obligacione bonorummeorum, ratis manentibus supradictis. Actum Ianue, in angulo domus capituliSancti Laurencii, anno Dominice Nativitatis MCCLXXXII, indicione VIIII, dieXIIII februarii, inter terciam et nonam. Testes Guirardus taliator de Magdalenaet Marchus de Guarenzonis de Vultabio.

Io Lanfranco Spinola del fu Ingo confesso a voi, Baldassarre Spinola eRomino de Nigro, che per le mie preghiere e su mia istanza oggi avete inter-ceduto e vi siete obbligati insieme a me e in solido per messer Corrado mar-chese Malaspina nei confronti di Brancaleone Doria riguardo alla vendita diCastel Genovese e Castel Doria e la curatoria dell’Anglona, come riguardo atutto ciò è contenuto ed è menzionato nello strumento oggi scritto per manodel notaio Fulco Fallaca [...]. Volendo osservare ciò che ho promesso nei vostriconfronti, prometto e mi impegno in solido con voi a conservare indenni le

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vostre persone e i vostri beni e i vostri eredi dalla detta fede e obbligazione eda tutto quello di cui si fa menzione nello strumento e di pagare in denaro con-tante tutti i danni, le spese e le missioni che per questo doveste sostenere, oaltro di voi dovesse sostenere, concedendovi di avvalervi della vostra solaparola senza ricorrere a testimoni e al diritto. Tutte e ogni singola cosa promet-to di seguire, adempiere e osservare e in alcun modo contravvenire, sotto penadel doppio dell’ammontare di ogni singola violazione e obbligando i mieibeni, rimando stabilite le cose sopradette. Atto rogato a Genova, all’angolodell’edificio del capitolo di San Lorenzo, anno della Natività del SignoreMCCLXXXII, indizione VIIII, giorno XIIII di febbraio, tra terza e nona.Testimoni Guirardo sarto di Maddalena e Marco di Guarenzone di Voltabbio.

Fonte: I Malaspina e la Sardegna, a cura di A. Soddu, Cagliari, CUEC, 2005,pp. 19-21.

Doc. 16Una joint-venture pisano-catalana (1294)

Atto notarile rogato nel Castello di Cagliari il 3 ottobre 1294, nellacasa di Bonaccorso Gambacorta, situata nella ruga dei mercanti.Bartolomeu Garau da Barcellona, i pisani Buonaccorso Gambacorta(per sé e i per i suoi soci) e Betto Alliata costituiscono una società delladurata di due anni, volta alla commercializzazione di formaggio, lana,pepe e altre merci. Non solo i capitali sono versati sotto forma di der-rate alimentari, materie prime e altri articoli merceologici, ma da altridocumenti coevi i soci risultano avere partecipazioni e interessi com-mercial-finanziari in altre aziende, ragion per cui questa impresa sem-bra configurarsi come una sorta di odierna joint-venture, il cui diret-tore è il Garau.

In eterni Dei nomine amen. Ex huius publici instrumenti clareat lectione quodBartholomeus Garau de Barcellona quondam Guillelmi Garau pro se et suonomine et Bonaccursus, dictus Coscius, Gambacorta quondam Vernaccy pro seet suo nomine et vice et nomine Cecchi Griffi, Petri Gambacorte et GaddiGambacorte sociorum suorum et pro eis et quoque eorum in solidum et BectusAlliata quondam Galgani Alliate pro se et suo nomine mutuo consensu et volun-tate concordi ob comodiorem usum et uberiorem questum inter se ad invicemfecerunt, contraxerunt et innuerunt talem societatem qualem inferius apparebittractandam ab ipso Bartholomeo super quibuscumque mercationibus et negotia-tionibus tam maris quam terre, prout et sicut de voluntate suprascriptiBartholomei processerit, duraturam inter eos ab hodie ad duos annos proximeventuros. In qua societate suprascriptus Bartholomeus mictit, ponet, infert et

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habere debet se et operas suas et industriam sue persone et pro suo capitali librasquingentas denariorum aquilinorum minutorum; et suprascriptus Bonaccursussuo nomine pro se in solidum et pro suprascriptis sociis suis et quoque eorum insolidum libras ducentas quinquaginta denariorum aquilinorum minutorum etsuprascriptus Bectus suo nomine pro se alias libras ducentas quinquaginta dena-riorum aquilinorum minutorum. De quibus capitalibus unum corpus et unamhenticam simul mistam esse fecerunt et voluerunt; et que quidem capitaliasuprascriptus Bartholomeus interrogatus a suprascriptis Bonaccurso et Becto,interrogantibus predictis nominibus et modo, est confessus in veritate recepisseet penes habere implicita in caseo, lana, pipere et aliis mercantiis [...].

In nome di Dio eterno amen. Dalla lettura di questo pubblico strumento siachiaro che Bartolomeo Garau di Barcellona del fu Gugliemo Garau, per sé e asuo nome, Bonaccorso detto Coscio Gambacorta del fu Vernaccio, per sé e asuo nome e per conto e per nome di Cecco di Griffi, Pietro Gambacorta eGaddo Gambacorta suoi soci ed essendo responsabile in solido per loro, BettoAlliata del fu Galgano Alliata, per sé e a suo nome, concordi con vicendevoleconsenso e volontà e con lo scopo di migliorare l’attività e guadagnare di piùhanno fatto, contratto e stipulato tra sé tale società quale di sotto apparirà,gestita dallo stesso Bartolomeo e diretta verso qualsiasi mercanzia e forma ditransazione sia di mare che di terra, secondo ciò che procederà dalla volontàdel soprascritto Bartolomeo, per durare da oggi fino ai due anni prossimi ven-turi. Nella quale società il soprascritto Bartolomeo mette, pone, porta e deveavere se stesso, le sue opere e l’industria della sua persona e per suo capitalelire cinquecento di denari aquilini minuti; e il soprascritto Bonaccorso a suonome per sé e per i soprascritti suoi soci, di cui è responsabile in solido, due-centocinquanta lire di denari aquilini minuti e il soprascritto Betto a suo nomeper sé altre duecentocinquanta lire di denari aquilini minuti. Dei quali capita-li hanno fatto e voluto costituire un unico corpo e un’unica e mista incetta; eil soprascritto Bartolomeo, interrogato dai soprascritti Bonaccorso e Betto,interroganti per conto dei nomi secondo le modalità predette, ha riconosciutoin verità di aver ricevuto i capitali e di averli presso di sé sotto forma di for-maggio, lana, pepe e altre mercanzie [...].

Fonte: Documenti inediti relativi ai rapporti economici tra la Sardegna e Pisacit., vol. I, doc. 27.

Doc. 17Grano sardo venduto al comune di Pisa (1302)

Atto notarile rogato a Pisa il 5 agosto 1302. Betto di Galgano Al-liata, mercante pisano di rango internazionale con forti interessi com-merciali e finanziari in Sardegna, in un momento di carestia generale

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per la Toscana, si impegna a vendere alle massime autorità del comu-ne di Pisa, per il prezzo di 13mila lire di denari piccoli, ben 10milastaia (circa 180 tonnellate) di grano isolano imbarcato nel porto diCagliari. Data la quantità di grano (sufficiente a sfamare 10mila per-sone per il tempo di un mese) e l’entità del suo costo, pare verosimilepensare che Betto Alliata fosse una sorta di capofila e rappresentantedi altri mercanti pisani impegnati in questo colossale affare.

In eterni Dei nomine amen. Ex hoc publico instrumento sit omnibus mani-festum quod Bectus Alliata quondam Galgani Alliate de cappella Sancti Petriin Vinculis per hoc publicum instrumentum vendidit domino Filippo, dominiClerici, judici antiano priori antianorum, magistro Bonajunto fiçico, CheliScaccerio, domino Caccie de Vico judici, Bernardo Guicti, BenevenioPellipario, Vanni Rosso, Petro Gambacurte et Uguiccioni de Fagiano notaro,antianis pisani populi, ementibus, agentibus et stipulantibus pro Comuni pisa-no et vice et nomine pisani Comunis, staria decem milia boni et puri et nitidigrani sardischi mercatantialis ad starium pisanum, mensurandi ad quarrampisanam bactutam sive percussam cum manibus ut moris est, pro infrascriptopretio inde ei solvendo ut infra dicitur [infra: pro pretio et nomine certi pretiidicti grani librarum tredecim milium denariorum pisanorum minutorum adrationem libre unius et solidorum sex denariorum pisanorum pro quolibert sta-rio dicti grani]. Et per stipulationem sollemnem suprascriptus Bectus convenitet promisit suprascriptis antianis agentibus et recipientibus et stipulantibus proComuni pisano ut dictum est staria decem milia dicti grani dare et consignareet tradere aut dari et consignari facere in civitate pisana in flumine Arni interduos pontes supra plactis sive lingnis sive pontibus omnibus et expensis dictiBecti hinc ad kalendas decembris proxime venturas [...].

In nome di Dio eterno amen. Da questo pubblico strumento sia a tutti mani-festo che Betto Alliata del fu Galgano Alliata della parrocchia di san Pietro inVincoli, mediante questo pubblico strumento, ha venduto a messer Filippo dimesser Chierico, Giudice e primo anziano degli anziani, a maestro Bonagiuntofisico, a Chele Scaccerio, a messer Caccia da Vico Giudice, a Bernardo diGuitto, a Beneviene Pellipario, a Vanni Rosso, a Pietro Gambacorta e aUguccione da Fagiano notaio, anziani del popolo pisano, acquirenti, agenti estipulanti per il comune pisano e per conto e per nome del comune pisano,dieci mila staia di buono, puro e nitido grano sardesco mercantile alla misuradello staio pisano, da misurarsi alla quarra pisana battuta ovvero percossa conle mani secondo costume, per l’infrascritto prezzo che deve essere a lui paga-to come è scritto qui sotto [più avanti: per il prezzo e il nome del certo prez-zo del detto grano tredicimila lire di denari pisani minuti a ragione di una lirae sei soldi pisani per ogni staio del detto grano]. E per stipulazione solenne ilsoprascritto Betto ha convenuto e promesso ai soprascritti anziani agenti ericeventi e stipulanti per il comune pisano, come è detto, di dare e consegnare

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e rimettere (o far dare e far consegnare) diecimila staia nella città di Pisa sulfiume Arno tra i due ponti sopra chiatte o legni o ponti e alle spese del dettoBetto da qui alle calende di dicembre prossime venture [...].

Fonte: Ivi, vol. I, doc. 43.

Doc. 18Le miniere argentifere del Sigerro in un inventario pisano (1317)

Atto notarile rogato a Pisa il 5 novembre 1317. Lippo Alliata, fratellodel già noto Betto, in qualità di tutore di Giovanni, figlio postumo ederede del defunto Neri di Riglione, mercante e imprenditore minerariopisano nonché borghese di Cagliari, redige un pubblico inventario deibeni appartenenti al piccolo Giovanni. Dopo la lista dell’argenteria,delle partecipazioni societarie in commende marittime rogate a Cagliari,delle masserizie e delle suppellettili di casa, il rogito si sofferma sulleproprietà immobiliari e minerarie. Queste ultime sono individuate dalpossesso di «trente», sorta di azioni legate allo sfruttamento di veneargentifere nelle colline intorno a Villa di Chiesa. La vena era suddivisain 32 trente (vocabolo forse derivato dal verbo tedesco trennen che signi-fica dividere). Vi è anche il riferimento al possesso di metà di un forno aDomusnovas per la fusione del minerale grezzo, in compartecipazioneproprio con Lippo Alliata e i suoi fratelli; si noti come l’impianto confi-nasse con altri due forni appartenenti ad altrettanti imprenditori di ori-gine pisana: Ciolo Formentini e Guantino Mosca.

Item petium unum terre cum domo super se, positum in Castello Castriin Ruga Mercatorum et tenet unum caput in ipsa Ruga, que est via publi-ca, aliud caput in terra et domo Coli Farri et partim in terra et domo LoctiSerragly, latus unum in terra et domo Jacobi de Favulia, aliud latus interra et domo heredum Becti de Vacia, vel si aly sunt confines. Et unamaliam domum positam in villa Domus Nove de Sigerro, in platea SancteBarbare, et tenet unum caput in via sive platea publica, aliud caput interra et domo Johannis Luca, latus unum in via publica dicta Guelchi,aliud in alia via dicta Chiasso. Et medietatem integram pro indiviso uniusfurni positi in dicta villa, supra guadum Domus Nove, qui confinat cumfurno Cioli Formentini et cum furno Guantini Musce, et cuius alteramedietas est mei, predicti Lippi, et fratrum meorum. Item dico et confi-teor me invenisse qualiter suprascriptus Nerius, olim pater dicti minoris,tempore sui mortis habebat et possidebat infrascriptas trentas infrascrip-

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tarum fovearum de Argenteria Ville Ecclesie, et eas nunc possideri prodicto minore, herede dicti Nery, videlicet: trentas quatuor fovee de MonteBarla que dicitur «La Barbarichina», de qua consuevit esse magisterGuido Cupellus; et trentas septem fovee dicte «La Bergamastra» dictimontis; et trenta una fovee dicte «La Fiorita» dicti montis; et trentas octofovee dicte «La Marinaia»; et trentas septem fovee dicte «Lo SanJohanni»; et trentas tres fovee dicte «Lo Ghibellino» [...].

E ancora, un pezzo di terra con casa, situato in Castel di Castro nellaRuga dei Mercanti e ha un capo sulla stessa Ruga, che è pubblica via,un altro capo sulla terra e casa di Colo di Farro e in parte sulla terra ecasa di Lotto di Serraglio, un lato sulla terra e casa di Jacopo daFauglia, un altro lato sulla terra e casa degli eredi di Betto da Vacia, oaltri confini. E una altra casa posta nella villa di Domusnovas delSigerro, in piazza Santa Barbara, e ha un capo nella via o piazza pub-blica, un altro capo nella terra e casa di Giovanni Luca, un lato nella viapubblica detta del Guelco, un altro in un’altra via detta Chiasso. E metàintegra pro indiviso di un forno posto nella detta villa, sopra il guado diDomusnovas, che confina con il forno di Ciolo Formentini e con ilforno di Guantino Mosca, e di cui l’altra metà è mia, del predettoLippo, e dei miei fratelli. E ancora dico e confesso di aver trovato comeil soprascritto Neri, fu padre del detto minore, al tempo della sua morteaveva e possedeva le infrascritte trente di fosse dell’Argentiera di Villadi Chiesa, e ora sono possedute per conto del detto minore, erede deldetto Neri, ovvero: 4 trente della fossa di Monte Barla detta «LaBarbarichina», della quale era solito essere maestro Guido Cupello; esette trente della fossa detta «La Bergamastra» del detto monte; e unatrenta della fossa detta «La Fiorita» del detto monte; e otto trente dellafossa detta «La Marinaia»; e sette trente della fossa detta «Lo SanJohanni»; e tre trente della fossa detta «Lo Ghibellino» [...].

Fonte: Ivi, vol. II, doc. 33.

Doc. 19I lavoratori delle miniere e i fonditori di minerali nello statuto di Villadi Chiesa (1327)

Il Breve di Villa di Chiesa, così chiamato sull’esempio della cospicuacodificazione pisana di età comunale, è un vero e proprio statuto cittadi-no redatto in volgare nei primissimi anni del XIV secolo da una commis-

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sione di giurisperiti pisani. Dopo la conquista aragonese del 1324, iltesto, lievemente emendato, fu approvato anche dalle autorità di Bar-cellona nel 1327 e rimase in vigore sino alla prima età moderna. L’ul-timo dei quattro libri di cui si compone il breve ecclesiense è tutto incen-trato sui temi dell’estrazione, la lavorazione e la commercializzazionedei minerali argentiferi del Sigerro. La rubrica 38 qui parzialmenteriportata è intitolata Delli lavoratori delle fosse che lavorano. La rubri-ca 65, di cui si riportano i primi due paragrafi, è intitolata Delli guelchiche comperano vena o menuto netto: guelco è termine di origine germa-nica ed è usato nel breve per indicare coloro che possedevano o gestiva-no i forni per la fusione della vena in modo da ottenere minerale puro.Questo e altri tecnicismi di provenienza germanica presenti nello statu-to hanno fatto pensare all’immigrazione di maestranze tedesche inSardegna sotto la spinta del conte Ugolino della Gherardesca, fondato-re e signore di Villa di Chiesa nella seconda metà del XIII secolo.

Ordiniamo, che tucti lavoratori et persone che lavorano a le montagne, et limaestri de le fosse, debbiano essere al loro lavoro ogni lunedì a mezodì, et stareal loro lavoro infine al vernadì a mezodì, et siano paghati per quelle opere cheserveranno; salvo che se avesse justo impedimento né possa venire: a pena acatuno lavoratore che non fusse a lavoro di soldi X d’alfonsini minuti, et ciascu-no maestro la suprascripta pena. Et che persona nessuna possa né debbia riceve-re maestratico d’alcuna fossa o bocteno [galleria o pozzo], se non avesse servi-ta l’arte de l’argentiera anni V o piò; et chi la ricevesse, paghi di bando libbre Xd’alfonsini minuti auuo’ del Signore Re, et sia dimesso de la maestria; salvo chese in alcuna fossa avesse più tre parsonavili [sorta di azionisti, ovvero i proprie-tari delle «trente»] o meno, possano chiamare maestro di loro chiunqua vuolno,pognamo che fusse venuto jeri. Et che nessuno maestro di fossa o d’altro lavo-ro d’argentiera, o scrivano, o ricoglitore di somma, debbiano ragionare, se nonpresenti li due piò grossi parsonavili; et che li dicti due maggiori parsonavili nonsiano lavoratori a la fossa, se in prima non mossa la ragionatura a li due piò gros-si parsonavili di trente che in Villa fusseno, et in Villa stesseno sensa lavorare amonte; et se la ragionatura si facesse altramente o per altro modo, non vaglia nétegna; et paghi per pena marcho uno d’ariento auuo’ del Signore Re [...].

Ordiniamo, che tucti li guelchi che comperano vena o menuto d’alcuna per-sona, che s’elli o altra persona per lui à pagato lo pregio di quella vena omenuto a colui che venduta l’avesse o ad altra persona per lui, non li possaessere dimandato a quello guelcho in su quella vena o minuto per alcuno cre-ditore che ragione avesse in quella vena, overo iddosso al venditore di quellavena o minuto, alcuno denajo; mostrando tuctavia lo guelcho o altra personaper lui con buona presuptione, che abbia pagato lo pregio di quella vena omenuto, overo mostrando con suo saramento et con scriptura del suo quader-

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no, al quale saramento et a la quale scriptura si debbia credere et dare pienafede. Lo quale pagamento debbia avere facto lo dicto guelco o altra personache comperasse vena o minuto, poi che la decta vena fie misorata et portata,et facti quinde li saggi et pesati; et se innansi facesse o facesse fare lo paga-mento di quella vena o minuto, non sia prejudicio ad alcuno creditore cheavesse ragione in de la suprascripta vena o menuto, salvo che di quello che lodicto guelcho avesse dato per francatura di quella vena o menuto, la qualefrancatura appaja scripta in del libbro del lavoro di quella vena o minuto, et siadata semmana per semmana; et in quello tanto sia pagato di quella francaturaprima che nullo altro creditore in su quella vena o menuto [...].

Fonte: Breve di Villa di Chiesa di Sigerro approvato con carta dell’Infante DonAlfonso d’Aragona degli 8 giugno 1327, in Codice Diplomatico di Villa di Chiesain Sardigna raccolto, pubblicato ed annotato da Carlo Baudi di Vesme. Saggiointroduttivo all’edizione anastatica di Barbara Fois, Cagliari, Edizioni DellaTorre, 1997, pp. 206 e 222.

Doc. 20La Sardegna nel manuale di commercio di un manager di rangointernazionale (1340 ca.)

Il mercante fiorentino Francesco di Balduccio Pegolotti fece carrie-ra come fattore della compagnia dei Bardi, la più grande società d’af-fari nell’Europa del primo Trecento. Dopo aver operato per molti anni,anche con funzioni dirigenziali, nelle filiali di Cipro, di Londra e diAnversa, forte di una esperienza consolidata nel mondo della finanza edel commercio internazionale, intorno al 1340 redasse un manuale permercanti, noto agli storici come La Pratica della mercatura. La voceSardigna, qui riportata integralmente, fa riferimento alle condizionidel commercio isolano giusto all’indomani della conquista catalano-aragonese. La struttura dei traffici sardi, nella sua apertura mediter-ranea, rispecchia ancora l’impianto organizzativo creato dai mercantitoscani e liguri, pur in presenza di una maggiore rigidità nel controllodel mercato isolano.

Ispendesi in Sardigna, spetialmente in Castello di Castro, una moneta d’ar-gento che si chiamano anfrusini, che sono di lega d’once 11 d’ariento fine perlibbra, ed entrane in uno marchio di Castello com’escono della zecca 72 de’detti grossi anfrusini a conto, e spendesi in Castello per denari 18 picciolianfrosini l’uno. Ed e’ detti anfrosini piccini sono di lega d’once ... d’arientofine per libbra, ed entrane in uno marchio a peso soldi ... di detti piccioli aconto.

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Di Sardigna non s’osa trarre argento in piatte però che tutto si conviene met-tere nella zecca del signore per battere la moneta del signore, ed è pena capitalea chi sbolzonasse la muneta di là, cioè del paese di Sardigna.

Possonsene bene trarre la moneta coniata del signore, cioè gli anfrusinigrossi d’ariento, e assai se ne portano per diverse parte, spezialmente in Napolie in Cipri, ed entrane nella libbra di Napoli da 99 a conto, e nel marchio diCipri da 69 a conto.

Spese che si fanno a chi vuole trarre grano fuori dell’isola di Sardigna

Primieramente, per tratta al signore, lire 7, soldi 10 d’anfrusini piccioli percentinaio di starella.

E per gabella di piazza, soldi 4, denari 2 per centinaio di starelle.Per misuratura, soldi 3 per centinaio di starelle.E per portare a mare colle carra, soldi 5, denari 7 per centinaio di starelle.E per saccheria con che si porta, soldi 2, denari 6 per centinaio di starella.E per barche che lo conducono da terra alla nave, soldi 4, denari 9 per cen-

tinaio di starella.Somma per tutto da lire 8, soldi 10 d’anfrusini al centinaio della starella,

oltre al primo costo del grano.

E se volessi mettere il grano in magazzino a mano a mano che l’avrai com-perato, sì paga la prima misuratura quando comperi, e una misuratura quandocarichi, tanto l’una volta quanto l’altra, e oltre a ciò a’bastagi che ‘l portano a’magazzini da soldi 3, denari 6 in soldi 6 d’anfrosini il cientinaio delle starellesecondo che ’l magazzino è presso o lunge dalla marina.

E l’orzo àe tutte le sopradette spese come il grano salvo che dove per la trat-ta del grano si paga lire 7, soldi 10 per centinaio di starelle, l’orzo non paga ditratta se non lire 5 d’anfrosini piccioli per centinaio delle starelle.

Et in Arestano àe di spesa il grano e l’orzo, oltre al primo costo, a trarnelodell’isola di Sardigna, che dirà appresso:

Per la tratta di grano, lire 5 per centinaio di starelle.Per la tratta dell’orzo, lire 2, soldi 10 per centinaio di starelle.Per tutte le altre spese minute à l’orzo quanto il grano, in somma di soldi 70

in soldi 40 anfrusini per centinaio di starelle.

Spese che si fanno a trarre sale di Sardigna

Primieramente, per primo costo alla corte, lire 6 d’anfrosini per centinaiode’ quartini.

Per loghiera di sporte a’ salmieri, con che si carica, soldi 2 per centinaio diquartini.

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E per bastagi che ’l portano alle barche, soldi 8 in 10 per centinaio diquartini.

E per barche che lo conducono di terra allo mare, da soldi 8 in 9 per centi-naio di quartini.

E cala a conducerlo di Sardigna a Napoli ad assegnarlo a’ doanieri inNapoli, da 10 in 14 per centinaio.

Come il piombo si vende in Sardigna e che spesa v’àe a trarlo fuori diSardigna o dell’isola

Piombo si vende in Castello di Castro a cantare catalanesco, e navoleggia-si a cantar barbaresco, e à di spesa, oltre al primo costo, come dirà qui dallatoin questa faccia, cioè come segue:

Primieramente, per lo primo costo, lire ... d’anfrusini il cantaro.E per senseria, denari 1 per cantaro.E per pesatura, per ogni volta denari 1 per cantaro.E per bastagi quando si pesa, denari 1 per cantaro.E per bastagi a conducerlo a casa, denari 1 per cantaro.E per portare a mare, a’ carradori denari 1 per cantaro.E per barche che lo conducono da terra a nave, denari 1 per cantaro.E per doana, denari 4 per lira.E pesasi due volte, l’una quando si compera e l’altra quando si carica.E a Villa di Chiesa, 1 denaro meno per cantaro che in Castello però che ’l ven-

ditore il dà posto a casa del comperatore a costo del venditore.

Spese che si fanno a conducere barruccami da Perugia in Castello di Castro

Per vettura e passaggio da Perugia infino a Pisa, in somma da fiorino 1d’oro la balla di pezze 26 di baraccami.

E da Pisa infino a Porto Pisano, da soldi 8 di piccioli pisani la balla.E per nolo da Porto Pisano in Castello, da fiorini 1 1/3 d’oro per balla.

Come i pesi e le misure di Castello di Castro di Sardigna tornano in diverseterre, e quelle con Castello di Castro con Colliveri

Lo centinaio delle starelle di grano di Castello fanno misure 24 4/5 aColliveri di grano.

con Tunizi di Barberia

Once 17 e denari 16 d’argento di Castello fanno in Tunizi ruotoli 1 d’argento.

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Sardigna con Barzalona

Lo marchio dell’argento di Castello è tutt’uno col marchio di Barzalona.La libbra dell’ariento al peso di Barzalona è tutt’una colla libbra di

Castello.

con Niza di Provenza

Il centinaio delle starelle di biado alla misura di Castello fanno a Nizzasestieri 125.

con Gaeta

40 cafissi d’olio di Gaeta fanno in Castello di Castro quartare 32 in 33d’olio.

Fonte: F. BALDUCCI PEGOLOTTI, La pratica della mercatura, a cura di A.Evans, Cambridge (Mass.), The Mediaeval Academy of America, 1936, pp.119-122.

Doc. 21Il declino di Villa di Chiesa in un’ordinanza di Pietro IV d’Aragonadel 1355

Nel retorico preambolo a una serie di ordinamenti e privilegi con-cessi dal re d’Aragona a Villa di Chiesa emerge un quadro di desola-zione e spopolamento in cui versa il centro minerario del Sigerro. Siparla infatti delle spese per il rifacimento delle torri e delle mura dellacittà e per la ricostruzione di molte abitazioni, recentemente incendia-te e distrutte nella guerra che oppone i Catalano-aragonesi al Giudicedi Arborea Mariano III. Si noti inoltre il riferimento alla diffusa ostili-tà degli abitanti di Iglesias alle autorità di Barcellona. Di lì a pochianni la città finirà in mano al Giudice di Arborea e le miniere d’argen-to saranno virtualmente abbandonate per secoli.

Debita meditacione pensantes, quod Villa Ecclesie de Sigerro, cujus fruc-tus, redditus et proventus fuerunt per prefatum Genitorem Nostrum in dictosuo testamento pro salute anime sue ad satisfacionem debitorum et legatorumsuorum specialiter deputati, rebellionis tempore per Sardos dicte Insule Sardi-

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nie contra Nos minus provide attemptate, nedum fuit, quorumdam incolarumVille predicte culpa, negligentia sive dolo, predictorum Nostrorum rebelliumdominio et occupationi subjecta, verum eciam, ipsis rebellibus nequentibuscontra Nos postmodum illam deffendere, fuit universali popolo destituta tan-quam habita pro relicta, et, quod plus est, igne succenso per eos, fere omnesdomus dicte Ville combuste sunt et penitus dissipate, turres quoque ac meniadicte Ville in majori parte ducte funditus ad ruinam; set, quoniam humananatura prompta est ad peccandum et semper labitur ad delicta: ideo, volentesmisericorditer agere in premissis, nec intendere ad vindictam; considerantes,quod illa ex levitate ac insania processerunt, quodque non semper gladio, setvirtute ac venia, vincitur inimicus: predictos rebelles Nostros incolas dicteVille, et alios quoscumque dicte Insule qui contra Nos modo aliquo delique-runt, ad veniam benigne recepimus, eisque omnes excessus contra Nos per eoscommissos duximus indulgendos, restituentes eisdem omnia eorum bona, quepropter ipsorum culpas fuerant confiscata. Cupientes igitur, ut dicta Villa resti-tuatur suo populo, quo jam fuerat spoliata, aliisque populatoribus augeatur,domibus, turribus et meniis reparetur, reformetur in melius, ac in futurumvaleat prosperari, potissime ut de ipsius fructibus et proventibus anime prefa-ti Genitoris Nostri saluti, juxta dispositionem ipsius, more solito valeat provi-deri: tam ipsum populum quam alios vocare ac indicere intendimus ad confo-vendum inibi domicilium et eorum comoda procurandum, graciis, immunita-tibus et favoribus eis et dicte Ville per Nostram clemenciam indulgendis. Eapropter, ex causis et racionibus supradictis, habita deliberatione sollempni etconsilio pleniori, subscriptas ordinaciones, provisiones et reformaciones, tan-quam manumissor dicti ultimi testamenti, ac eciam de potestate Regia, subinfrascripta forma duximus ordinandas [...].

Esaminando con la dovuta riflessione che Villa di Chiesa del Sigerro, i cuifrutti, redditi e proventi furono per il prefato Genitore Nostro nel detto suotestamento, per la salvezza della sua anima, specialmente deputati al pagamen-to dei suoi debiti e dei suoi legati, al tempo della ribellione condotta improv-vidamente contro di Noi dai Sardi della detta Isola di Sardegna, tanto più fusoggetta al dominio e all’occupazione dei predetti Nostri ribelli, per colpa,negligenza e dolo di alcuni abitanti della Villa predetta, ma non potendo glistessi ribelli difenderla in seguito contro di Noi, fu privata di tutta la popola-zione e lasciata abbandonata, e, ciò che è peggio, appiccato da loro un incen-dio, quasi tutte le case della detta Villa furono arse e interamente distrutte, eanche le torri e le mura della detta Villa per la maggior parte furono portatealla rovina. Ma, poiché l’umana natura è pronta a peccare e sempre propendeal delitto, a motivo di ciò, volendo agire con misericordia nelle premesse, névolgersi alla vendetta, considerando che questi atti sono derivati da leggerez-za e follia, e che non sempre il nemico è vinto con la spada, ma con la virtù eil perdono, abbiamo deciso di accogliere benevolmente nel perdono i predettiNostri ribelli abitanti della predetta Villa, e tutti gli altri della detta Isola checontro di Noi hanno in qualche modo commesso un delitto, e perdoniamo tutti

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gli eccessi da loro commessi contro di Noi, restituendogli tutti i beni che, perle loro colpe, gli erano stati confiscati. Desiderando dunque che la detta Villasia restituita al suo popolo, della quale era già stata privata, e sia aumentatacon altri popolatori, e sia riparata nelle case, nelle torri e nelle mura, sia rifor-mata in meglio e in futuro possa prosperare in modo tale che con i frutti e iproventi si possa provvedere nel modo consueto alla salvezza del prefatoGenitore Nostro, secondo la sua disposizione, intendiamo chiamare e convo-care tanto lo stesso popolo della Villa quanto altri a ripristinare lì il propriodomicilio e a procurare tutto ciò che è necessario, con grazie, immunità e pri-vilegi concessi per Nostra clemenza a loro e alla detta Villa. Perciò, per lecause e le ragioni predette, emanata una deliberazione con un consiglio solen-ne e al completo, abbiamo stabilito che debbano essere ordinate le sottoscritteordinazioni, provvisioni e riforme, in qualità di manomissore del detto ultimotestamento, e anche riguardo alla potestà Regia, nella infrascritta forma [...].

Fonte: Codice Diplomatico Ecclesiense, in Codice Diplomatico di Villa diChiesa cit., p. 434.

Doc. 22Un grande mercante si occupa della manutenzione del Castello diCagliari (1376-1377)

Miquel Ça Rovira, mercante di rango internazionale, cambiatore,finanziere, console dei Catalani a Cagliari e burgues de Castell deCaller, i cui traffici sono documentati dal 1350 al 1391, nel 1376 venneincaricato dal Maestro Razionale della Corona d’Aragona di sovrin-tendere alle opere di riparazione e manutenzione straordinaria delletorri del Castello e delle fortificazioni del quartiere portuale di Caglia-ri. Così, a causa della estenuante guerra tra Giudicato di Arborea eCatalano-aragonesi, tutte le risorse umane e finanziarie disponibili inSardegna finivano per essere convogliate verso attività economica-mente improduttive. Il Ça Rovira impiegò quasi un anno per seguire leoperazioni di acquisto e trasporto dei materiali, affitto di magazzini ebotteghe in città, pagamento dei compensi alle maestranze e ai mano-vali edili, e per redigere un semplice ma accurato libro contabile dapresentare alle autorità di Barcellona per la rendicontazione finale.

Di seguito si riportano l’intestazione del registro e due esemplari divoci di spesa.

Compte qu.en Miquel Ça-Rovira mercader habitator de Castell de Caller hadonat d.aquells MD florins d.or d.Arago que per part del senyor rey li forenliurats per en Francesc d.Averço visalmirayl de Cathalunya per convertir

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aquells ço es los dits M florins en la obra e adob de la paliçada de Caller e losdits D florins en la obra reparacio e adob de les torres del dit Castell de Callere sostres d.aquelles. Les quals obres foren començades per lo dit Miquel Ça-Rovira, ço es, la obra de la dita paliçada en lo XXIen die del mes d.agost delany de la Nativitat de Nostre Senyor MCCCLXXVI e fo acabada per tot loXXI die del mes de noembre apres seguent, dins lo qual temps s.encloen IIImeses complits, e la dita obra de les torres e sostres en lo XXXe die del mesde setembre e fo acabada per tot lo VIIIe die del mes de juny del any apresseguent MCCCLXXVII, dins lo qual temps s.encloen VIII meses e (VIIII)dies complits.

Item met en data que doni e pagui a.n Nicola Posula, PerdoMiale e Marcho Crexent, carradors, habitadors de Vilanovadels appendicis de Caller, per lurs trabays, ço es que apor-taren ab lurs carros del forn de la calcina en Castell deCaller XXXIIII carros de calcina, a raho de II sous percascun carro. Item d.altra part XXX carros de grava, a rahode XVIII diners per carro. Item d.altra part VIII carros degrava, a raho de II sous VI diners per carro. Item d.altra partLIII carros de arena, a raho de II sous per carro. Item d.altrapart XXXX carros de pera, a raho de II sous per carro.Segons apar per apocha feta en poder del dit Johan Sauri,notari, a XXVIII dies de octobre l.any MCCCLXXVI, munta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .XV lliures XVIIII sous

Item met en data que doni e pagui a.n Miquel Manfre,mastre d.axe, habitador de Caller, per rao CXXIX jor-nades e miga que lavora en la dita obra o reparacio deles dites torres a rao de IIII sous VI diners de alfonsinsmenuts per cascuna jornada; item d.altra part per XIdies per los quals lavora de pedre e de siment e de pale-ta en la garlanda de la sumitat de les torres de SantPranchas a rao de VI sous per cascuna jornada, cum siamolt perillos en aquella garlanda obrar, segons aparlargament per apocha feta en poder d.en Johan Sauri,notari, a XVIII dies del mes de noembre del any MCCCLXXVII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .XXXII lliures VIII sous IX

Conto che Miquel Ça-Rovira mercante abitante nel Castello di Cagliari hafornito riguardo quei MD fiorini d’oro d’Aragona che da parte del Signor Regli furono consegnati per tramite di Don Francesch d.Averço viceammiragliodella Catalogna per investirli, cioè i detti M fiorini nella opera e predisposizio-ne della palizzata di Cagliari e i detti D fiorini nella opera, riparazione e pre-disposizione delle torri del detto Castello di Cagliari e dei relativi tetti. I quali

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lavori furono cominciati per il detto Miquel Ça-Rovira, ovvero, l’opera delladetta palizzata il XXI del mese di agosto dell’anno della Natività del NostroSignore MCCCLXXVI e fu conclusa entro il giorno XXI del successivo mesedi novembre, nel quale tempo si includono III mesi perfetti, e la detta operadelle torri e dei tetti il giorno XXX del mese di settembre e fu conclusa entroil giorno VIII del mese di giugno dell’anno seguente MCCCLXXVII, nelquale tempo si includono VIII mesi e VIIII giorni.

Item, registro che consegno e pago a Nicola Posula, PerdoMiale e Marco Crexent, trasportatori, abitanti di Villanovadelle appendici di Cagliari, per il loro lavoro, ovvero per-ché trasportarono dalla fornace della calcina al Castello diCagliari XXXIIII carri di calcina, a ragione di II soldi perciascun carro. Item, per XXX carri di ghiaia, a ragione diXVIII denari per carro. Item, per VIII carri di ghiaia, aragione di II soldi, VI denari per carro. Item, per LIII carridi sabbia, a ragione di II soldi per carro. Item, per XXXXcarri di pietrame, a ragione di II soldi per carro. Secondoappare per ricevuta fatta dal detto Johan Sauri, notaio, ilgiorno XXVIII di ottobre dell’anno MCCCLXXVI, monta ................................................................................XV lire XVIIII soldi

Item, registro che consegno e pago a Miquel Manfre,maestro d’ascia, abitante di Cagliari, per CXXIX giorna-te e mezzo che ha lavorato nella detta opera e riparazionedelle dette torri, a ragione di IIII soldi e VI denari dialfonsini minuti per ciascuna giornata; item, per XI gior-ni nei quali ha lavorato di pietra, cemento e cazzuola nellaghirlanda della sommità della torre di San Pancrazio, aragione di VI soldi per ciascuna giornata, poiché è moltopericoloso lavorare in quella ghirlanda, secondo apparelargamente per ricevuta fatta da Johan Sauri, notaio, ilgiorno XVIII del mese di novembre dell’anno MCCCLXXVII. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . XXXII lire VIII soldi IX

FONTE: C. MANCA, Il libro di conti di Miquel Ça Rovira, Padova, CEDAM,1969, pp. 139, 151, 164.

Doc. 23Un corsaro di Maiorca e la sua campagna in Sardegna nel 1383

Il maiorchino Arnau Aymar, a libro paga del Maestro Razionale delReal Patrimonio della Corona d’Aragona con il compito di danneggia-

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re la navigazione collegata ai porti del Giudicato di Arborea, nelnovembre del 1383 cattura due velieri mercantili all’entrata del portodi Oristano. Gli equipaggi delle imbarcazioni predate sono costituitida Oristanesi e Bosani, mentre le merci appartengono tanto allaGiudicessa Eleonora di Arborea e a suo marito Branca Doria, quantoa mercanti pisani. Le prime verranno riscattate per la somma di 1.197lire e 10 soldi di alfonsini minuti in seguito alle pressioni dellaGiudicessa, mentre le seconde saranno rivendute all’incanto sul mer-cato di Cagliari per una somma assai inferiore. Il testo qui riportato èuno stralcio della contabilità di nave tenuta da Bernat Mir, clavariodella galea Sant Salvador e Santa Clara al servizio del corsaro Aymar.

Rebuda feta de II pàmfills que foren presos entrant en Oristany en lo mésde noembre del any MCCCLXXXIII los quals foren rescatats ab la mayor par-tida de les mercaderies.

Ítem pos en compte de rebuda les quals foren haüdesde rescats de I galeaça e de I pamfilot que foren presosentrant en Oristany; les quals fustes eren veylles efahien molta ayga e foren amenades en Castell deCàller. E per tal com en les dites fustes havien la majorpartida hòmens d’Oristany e de Bosa e en les mercade-ries axì mateix; e hi havien alscunes coses de la jutges-sa muller de micer Brancha qui senyorejava lo dit judi-cat di Arborea, la qual ab ças letres diverses vegadesescrivi a l’honrat n’Arnau Aymar patró de la ditagalea, que les dites fustes e mercaderies li deguésrestituhir e tornar com fossen de sotzmesos seus, si noque era occasió de mover guerra. E per cas semblantn’escrivís al governador de Càller per les quals rahons,haüt consell de les damuntdits de voluntat e consenti-ment lur, foren donades a rescats les dites mercaderiesesemps ab les damunt dites fustes a.n Valentino deBosa e en Guillemo de la Amore, mercaderes tramesosper la dita donna en lo dit Castell, dels quals les ditesmercaderies eren. E haví certifficació del governador deCàller feta a XVI de noembre del dit any munta lo dit rescat ........................................................................................................................................MCXCVII lls X ss. alf.

Entrata costituita da due panfili che furono catturati all’entrata di Oristanonel mese di novembre dell’anno MCCCLXXXIII i quali furono riscattati perla maggior parte della mercanzia.

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Item, messe nel conto dell’entrata, le quali furono ricevu-te per riscatto di una galeazza e di un piccolo panfilo chefurono catturati mentre entravano a Oristano; i quali legnierano vecchi e facevano molta acqua e furono condotti aCastel di Cagliari. E poiché nei detti legni la maggiorparte degli uomini erano di Oristano e di Bosa e lo stessovaleva per le merci; e lì c’erano alcune cose appartenentialla Giudicessa moglie di messer Branca che signoreggia-va il Giudicato di Arborea, la quale per questo motivo,diverse volte, scrisse lettere a l’onorato Arnau Aymarpatrono della detta galea affinché le dovesse restituire idetti legni e mercanzie e riconsegnarli poiché erano deisuoi sudditi, altrimenti c’erano motivazioni per muovereguerra. E per la stessa cosa scrisse al governatore diCagliari, per le quali ragioni, avuto consiglio dei sopradet-ti, di volontà e consentimento loro, furono date a riscatto ledette mercanzie prelevate dai sopradetti legni a Valentinodi Bosa e a Guglielmo de l’Amore, mercanti inviati per ladetta donna a Cagliari, ai quali le mercanzie appartene-vano. E ebbi certificazione dal governatore di Cagliarifatta il XVI novembre del detto anno. Monta il detto riscatto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . MCXCVII £ X s. alf.

Fonte: P.F. SIMBULA, Corsari e pirati nei mari di Sardegna, Cagliari, CNR,1994, pp. 307-308 (l’elenco delle merci pisane messe all’asta si trova alle pp.308-316).

Doc. 24Un centro portuale esangue: Alghero nel 1392

Il re d’Aragona Giovanni I, su richiesta della villa di Alghero, impove-rita e spopolata per la lunga guerra condotta dai Giudici di Arborea con-tro Catalano-aragonesi, durante la quale la stessa Alghero aveva dovutosostenere un durissimo assedio, conferma tutte le immunità e le franchi-gie fiscali e doganali concesse in passato dal re Pietro IV tra il 1355 e il1383. La reiterazione dei provvedimenti è un chiaro sintomo della lorovirtuale inefficacia nell’invertire la tendenza dei fenomeni in atto.

Nunc quod pro parte Universitatis dicte Ville de Alguerio fuerit nobis humi-liter supplicatum quod cum ipsi tam pro rebellione Judicis Arboree quoquequam violatione pacis seu conventionis per Brancham Doria comitem deMonteleone et nonnullos sardos Regni Sardinie juramento et homagio et aliis

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penis vallate comissa et postea subsecuta diversa damna labores missiones etexpensas a magnis temporibus citra tam in personis quam bonis substinuerintatque fecerint et continue sustineant et faciant incessanter in tantum quod dictaVilla ad magnam devenit depopulationem ac etiam paupertatem, ex quibusvalde periculosa extitit, dignaremur eis predictas gratias de nostri solita cle-mentia facere observari. Nosque dicte supplicationi annuentes benigne, atten-tis omnibus supradictis que nos inducunt non immerito ad faciendum, gratiamsubscriptam, vobis et unicuique vestrum dicimus et expresse mandamus qua-tenus preinsertas litteras et contenta in eis necnon privilegia, libertates seufranquitates [infra: ab omni solutione iuris duane et portulagii nobis pertinen-tibus seu pertinere debentibus quovismodo, necnon ab omni questia, peyta,lezda, pedagio, pedatico, mensuratico, peso, usatico, muxerifato, duana, pas-sagio, gabella, et ab omni alia quacumque impositione], de quibus in eisdemlitteris mentio habetur, teneatis firmiter et observetis et observari inviolabiliterfaciatis [...].

Datum Barchinone sub nostro sigillo comuni X die Junii anno a nativitateDomini MCCCLXXXX secundo. Rex Jo.

Ora che per parte dell’Università della villa di Alghero siamo stati suppli-cati, poiché gli abitanti, sia per la ribellione del Giudice di Arborea sia per laviolazione commessa da Branca Doria conte di Monteleone e da numerosisardi del Regno di Sardegna nei confronti della pace e della convenzione con-fermata dal giuramento e dall’omaggio e da altre pene, hanno poi dovutosostenere da gran tempo i successivi numerosi danni, e sopportare i lavori, lemissioni e le spese sia personalmente che materialmente e continuamentesostengono e sopportano incessantemente tanto che la detta Villa è arrivata auno stadio di grave spopolamento e anche di povertà, per la quali cose è dive-nuta assai pericolosa, ci siamo degnati secondo la nostra solita clemenza di farmantenere agli abitanti le predette grazie. E noi, venendo incontro alla dettasupplica, seguite tutte le predette cose che ci inducono a operare secondo meri-to, concediamo la grazia soprascritta a voi e a ciascuno di voi ed espressamen-te inviamo le lettere finora predisposte e i privilegi, le libertà e le franchigie inesse contenute [più avanti: da ogni pagamento di diritto di dogana e attracconel porto a noi pertinente in qualsiasi modo, nonché da ogni questia, peita,leuda, pedaggio, pedatico, misuratico, peso, muxerifato, usatico, dogana, pas-saggio, gabella, e da ogni altra forma di imposizione], delle quali nelle mede-sime lettere si faccia menzione, le teniate saldamente e le osserviate e la fac-ciate inviolabilmente osservare [...].

Dato a Barcellona sotto il nostro sigillo comune il X di giugno dalla nativi-tà del Signore MCCCLXXXX secondo. Re Giovanni.

Fonte: E. PUTZULU, “Cartulari de Arborea”. Raccolta di documenti diploma-tici inediti sulle relazione tra il Giudicato di Arborea e i Re d’Aragona (1328-1430), «Archivio Storico Sardo», XXV, fasc. 1-2, 1957, pp. 71-170, doc. 15.

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Doc. 25Gli statuti doganali di Castelgenovese al tramonto della signoria deiDoria (1435)

Niccolò Doria, figlio del più noto Brancaleone marito della Giu-dicessa Eleonora di Arborea, nel 1435 fece redigere un nuovo statutodelle dogane di Castelgenovese (oggi Castelsardo). Il testo si è conser-vato attraverso due copie successive alla conquista del centro portua-le sardo (avvenuta nel 1448) da parte degli aragonese, poiché le auto-rità iberiche ritennero che la normativa continuasse ad avere una suaintrinseca utilità. Redatto in lingua logudorese, di cui si riporta l’inte-stazione e le prime tre rubriche (in tutto sono 30), lo statuto ci mostrale attività di un porto, e della sua loggia mercantile, legate a traffici diraggio limitato (anche se non mancano i riferimenti agli stranieri) econcentrate soprattutto sul commercio dei prodotti legati alla pastori-zia e alle attività di trasformazione ad essa connesse.

MCCCC XXXV die VI de triulasCapitullos ordinados de comendamento de su magniffico segnore nostru

misser Nicolosu de Auria per ipsa gracia de Deus conte de Monteleone etsegnori de Castello Janues et cetera. Sos qualles capitulos bollent et comandatsu preffacto segnori qui su magore de porto de su logho de Castello Januespresente et futur depiat atener et observare pro recogler sas gabellas de ognimercantia qui si ant mitere et boguare et yspaciari in su dicto logho de CastelluJanues, guassi in su vender como in su comprari et ispaciari in grosso et inminudo, segundo qui particullarmenti de supra seguit. Et primo

Item in primis ordinamus qui persona alcuna de qualle condicioni se siat,citadinu over furisteri, qui ant batuiri adefforas dae sos vilagios et miteri in suloghu de Castello Janues corgios, coyamen, pelamen, cassu, lana et seu et ogniatera merchantia, illu depiant portare a sa logia et inihii si depiat pesare etasortire per ipsu pesadore et asortire per ipsu asortidore over qui si convene-ret con alcuno merchanti o citadino; de su asortimentu inter ipsos factosdepiant paghare dinares ses per lira a sa corte in su modo et fforma segundoqui cussu que at batuire sa dita merchantia ill’at bender tantu a sa logia.

Item statuimus et ordinamus que alcunu masaiu over citadinu comorante insu loghu de Castello de Castello [sic] Janues que baturet caxu, lana o choiamen,seu o ateras merchantias, qui esserent de masaria ipsorum de bestiamen ipsorum,no siat intenudo de portarillo a ssa logia antis qui si los posat portare a domoipsorum. Et non bolimus qui nde paghet dinares ses per lira, secundu qui est ista-do per antighia consuetudini.

Item ordinamus qui ciaschaduno merchandanti citadinu over masaiu de sudicto loghu de Castello Janues qui at vendere in grossu ad archunu merchadan-ti furesteri, siat tenudu de paghare sodo unu per lira. Et ipsu furisteri siat intenu-

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do de pagare sodo unu et dinari unu per lira guassi de intrada como de exida. Etycustu paghit ogni nacioni furistera, over istrangiera, et ipsa merchantia non sidepiat plus extimare ezepto segundo como s’at bender et comprare et non plus.

MCCCC XXXV giorno VI di luglioCapitoli stabiliti su ordine del magnifico signore nostro messer Niccolò

Doria, per grazia di Dio conte di Monteleone e signore di Castelgenoveseeccetera. I quali capitoli vuole e ordina il predetto signore che il maggiore delporto del luogo di Castelgenovese presente e futuro debba applicare e osser-vare per raccogliere le gabelle di ogni mercanzia che si abbia a mettere edestrarre e spacciare nel detto luogo di Castelgenovese, tanto nel vendere comenel comprare e spacciare all’ingrosso e al dettaglio, secondo come particolar-mente di sopra segue. E innanzitutto.

Item, in primis ordiniamo che qualsiasi persona di ogni condizione sia, cit-tadino o forestiero, che abbia a contrattare fuori dei villaggi e mettere nelluogo di Castelgenovese cuoio, cuoiame, pellame, formaggio, lana e qualsiasialtra mercanzia, debba portarla alla loggia e lì debba farla pesare e assortiredal pesatore e assortire dall’assortitore oppure che si mettesse d’accordo conun qualsiasi mercante o cittadino; della scelta tra loro fatta debba pagare seidenari per lira alla corte nel modo e forma in modo che colui il quale ha a con-trattare la detta mercanzia la deve vendere soltanto alla loggia.

Item, stabiliamo e ordiniamo che qualsiasi contadino o cittadino abitante nelluogo di Castelgenovese che contrattasse formaggio, lana o cuoiame o altre mer-canzie, che fossero frutto del loro lavoro agricolo e del loro bestiame, non siatenuto a portarle alla loggia anzi che li possa portare alla propria casa. E nonvogliamo che ne paghi sei denari per lira, come è stato per antica consuetudine.

Item, ordiniamo che ciascun mercante cittadino o contadino del detto luogodi Castelgenovese che abbia a vendere all’ingrosso ad alcun mercante forestie-ro, sia tenuto a pagare un soldo per lira. E il forestiero sia tenuto a pagare unsoldo e un denaro per lira tanto all’entrata come all’uscita. E questo paghi ogninazione forestiera, e la mercanzia non si debba più stimare eccetto nel momen-to in cui si abbia a vendere e comprare e non più.

FONTE: P.F. SIMBULA, Gli statuti doganali di Castelgenovese (1435), inCastelsardo. Novecento anni di storia, a cura di A. Mattone e A. Soddu, Roma,Carocci, 2007, pp. 359-388: 383-384.

Doc. 26Contratto d’assicurazione sulla rotta Cagliari-Barcellona (1441)

Atto notarile rogato a Barcellona nell’agosto del 1441. Il mercante diBarcellona Pere Toralles assicura una serie di merci, tra cui granosardo, per la tratta Cagliari-Barcellona. Il carico dovrà essere fatto

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imbarcare dallo stesso Toralles o da Antoni Vidal (mercante sardo-cata-lano che nel 1443 ricoprì il ruolo di ambasciatore dell’Università diCagliari presso il sovrano Alfonso V), sulla nave di mossen Tanquynocagliaritano di chiare origini catalane. Si noti come l’assicurazione nonpreveda il pagamento del sinistro nel caso in cui il grano venga postosotto sequestro dalle autorità di qualsiasi città regia.

Semblant seguretat de les altres posa en Pere Toralles, mercader ciutada deBarchinona, sobre qualsevol robes e mercaderies e forment, les quals se son car-ragades per n.Anthoni Vidal o per en Pere Johan Toralles, mercaders o la hundells o altre parells en Castell de Caller, sus la nau d.en Tanquyno de Caller.Comensa lo risch e perill de continent que les dites robes e mercaderies e for-ment totes e tots o parts de aquells o de aquelles foren o seran carragades e car-ragats sus la dita nau e dura fins fahent qualsevol grades a voluntat del dit patrola dita nau sia iunta en la playa de la mar de Barchinona e les dites robes e mer-caderies e forments sien descarragats en terra ab bon salvament. Entes emperohe declarat que si cars sera que per alguna unyversitat reyal lo dit forment tot opart de aquell sera pres, que los asseguradors davall scrits no sien tenguts en respagar al dit Pere Toralles per lo dit forment. Et cetera.

Assicurazione simile alle altre fatta a Pere Toralles, mercante cittadino diBarcellona, sopra qualsivoglia cosa e mercanzia e grano, i quali sono stati cari-cati da Antoni Vidal e Pere Johan Toralles, mercanti, o da uno dei due o da altriin Castel di Cagliari, sulla nave di Tanquyno di Cagliari. Cominciano il rischioe il pericolo non appena le dette robe e mercanzie e grano, tutte e tutti o partedi quelli e di quelle, fossero o saranno caricate e caricati sulla detta nave e durafinché, facendo sempre la volontà del detto patrono, la detta nave non sia giun-ta nel porto di Barcellona e le dette cose e mercanzie e grano non siano statescaricati in terra incolumi. Inteso e dichiarato, tuttavia, che, se accadrà che ildetto grano, in tutto o in parte, sarà confiscato da alcuna università reale, gliassicuratori sottoscritti non siano tenuti a rifondere niente a Pere Toralles peril detto grano. Eccetera.

Fonte: C. ZEDDA, Cagliari: un porto commerciale nel Mediterraneo delQuattrocento, Napoli, Istituto per l’Oriente C.A. Nallino, 2001, pp. 326-327.

Doc. 27Il sale di Cagliari e alcune merci sarde al centro di un accordo tracompagnie fiorentine (1466)

Scritta privata copiata all’interno di un atto notarile rogato aFirenze il 16 luglio 1466. La compagnia veneziana intestata al fioren-

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tino Giovanfrancesco di messer Palla Strozzi, al fine di soddisfare lerichieste di numerose aziende mercantili-bancarie fiorentine sparse tral’Italia e l’Europa con cui si era pesantemente indebitata, si impegnaa onorare i suoi debiti (56mila ducati). L’accordo fu sottoscritto graziealla mediazione del marchese di Ferrara e duca di Modena Borsod’Este. Lo Strozzi, nell’arco di tre anni, avrebbe dovuto consegnare aicreditori sale estratto dalle saline di Cagliari per il valore di 14miladucati e altre merci sarde per l’ammontare di 7mila ducati.

Questo documento ci permette di cogliere i seguenti fenomeni: a) legrandi società d’affari straniere tornavano a interessarsi dell’appaltodelle saline cagliaritane; b) la produzione di sale sardo si riavvicinava ailivelli precedenti la distruttiva guerra tra aragonesi e Giudici di Arborea.

Con ciò sia chosa che lo spectabile Giovanfrancescho di messer Palla degliStrozzi sia stato et sia vero et legittimo debitore degl’infrascripti spectabilimerchatanti et di lor compagnie, e’ nomi de’ quali son questi, cioè:

Giovanni et Averardo d’Alamanno Salviati e compagni per le ragioni diBruggia et di Londra;

Herede d’Antonio della Casa et Simone Guadagni e compagni di Ginevrao vero Lione et;

Guglielmo Rucellai et Matheo Baroncelli e i compagni di Firenze et per lacompagnia di Roma che dice Matheo Baroncelli et Guglielmo Rucellai;

Zanobi di messer Dietisalvi et i compagni di Firenze per la lor compagniache diceva Alexand[r]o Miraballi et Zanobi di Dietisalvi;

Iacopo Paganelli et Giovan Frescobaldi e compagni di Londra;Marchionne di Daniello di Nofri Dazi e compagni di Vinegia;Filippo Inghirlani e compagni di Vinegia et Antonio del Rabatta et

Bernardo Cambi per quanto ànno havere per lor proprii et per quello havessi-no havere per Lorenzo di Larione;

Mariotto Lippi di Firenze per danari havuti a cambio da Filippo Inghirlanidi Vinegia;

Piero di Carlo Chanigiani;Nicolò degli Strozi di Roma;Uno amico et …

nella quantità et somma di ducati cinquantasei migliaia venetiani in circa a buonconto, e’ quali ducati 56000 venetiani per mezanità dello Illustrissimo SignioreDuca di Modona messer Borsio, amantissimo della excelsa Signioria di Firenze,detto Giovanfrancesco promette per solepne stipulatione dare et pagare a’ sopra-scripti suo creditori nello infrascripto modo et negl’infrascripti tempi et nelleinfrascripte merchatantie, cioè tutto el sale facesse cavare o fusse cavato delloappalto di Cagliere per insino in dì 27 di settembre 1469, sardesco spacciato delporto di Caglieri buono et recipiente, chome s’usa vendere al detto porto diCaglieri, per insino alla somma di ducati 14000 venetiani; et faccendo tanto sale

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el primo anno che facesse la somma di detti 14000 ducati venetiani, oltre alquinto che si può ritenere, sia tenuto dare tutto detto sale et non faccendolo elprimo anno tutto et faccendolo el secondo anno tutto, oltre al detto quinto che sipuò ritenere, sia tenuto darlo tutto el secondo anno et similmente non lo faccen-do el secondo anno sia tenuto darlo tutto el terzo anno, potendosi niente di menoritenersi nel detto primo, secondo et terzo anno el quinto del sale facesse chomedetto è et e’ quatro quinti dare a’ soprascripti creditori; et quando detto Giovan-francesco desse notitia per sue lettere a’ detti creditori che mandassino per dettosale, et mandando e’ detti creditori per detto sale, sia tenuto dare e’ quatro quin-ti di tutto el sale si trovasse avere, etiamdio se facesse la somma di detti ducati14000 oltre al quinto che lui si può ritenere; et non dando detti quatro quinti didetto sale che lui si trovasse, per quello manchasse di charico meno di detti qua-tro quinti sia tenuto detto Giovanfrancesco pagare el nolo di voto delle nave oaltri legni mandassino detti creditori; et niente di meno sia tenuto dettoGiovanfrancesco a dare a’ detti creditori il detto sale detto di sopra per insino indetta somma di detti ducati 14000 et per insino in detto dì 27 di settembre 1469;et passato detto dì 27 di settembre 1469, che detto Giovanfrancesco non avessedato detto sale insino in detti 14000 ducati venetiani in tutto o in parte, che quel-lo avesse manchato di dare sia tenuto a dare di contanti in dua anni allora proxi-mi futuri che cominciano detto dì 27 di settembre 1469 ogni anno la metà; etdebbe dare detto sale spacciato alla marina buono et recipiente chome s’usa ven-dere al detto porto di Caglieri per pregio di lire venti di Caglieri el cento dellemisure di decto luogho, misure di Chaglieri chome si costuma vendere detto salea ragione di soldi 47 per ducato venetiano che fanno le cento misure ducati ottoe mezzo veniziani; et se e’ detti creditori non fussino a ordine mandare per dettosale, sia tenuto salvarlelo per detti creditori per insino in detto dì 27 di settem-bre 1469; et finito detto apalto, cioè e’ detti dì 27 di settembre detto 1469, chedetti creditori non avessono mandato per detto sale, che detto Giovanfrancescosia tenuto consegnare detto sale a chi vorranno detti creditori; et non dichiaran-do detti creditori a chi lo consegni, sia tenuto detto Giovanfrancesco consen-gnarllo al consolo de’ fiorentini che lo tengha a stanza di detti creditori.

Et oltre a questo sia tenuto detto Giovanfrancesco dare a’ detti creditori tantemerchatanzie dell’isola di Sardignia et di Chaglieri buone e recipienti d’ongniragione, excepto sale, che faccino la somma di ducati settemila venetiani infrasei mesi che cominciano el dì che si richiuderà el detto achordo per quella valu-ta che vagliono di contanti dette merchatantie in Chaglieri, stimate per due amicichomuni che si eleggerano uno per parte, e non essendo d’achordo si elegha unoterzo per dette parti e, eletto el detto terzo, e’ due d’achordo possino chiarire lavaluta di dette merchatantie, sempre intendendo che possino chiarire quellovagliono di contanti; et volendo detto Giovanfrancesco dare in schambio di dettemerchatantie denari contanti, possa dare e’ denari in scambio di dette mercha-tantie; et se volesse detto Giovanfrancescho dare a’ detti creditori parte di dettemerchatantie di Chaglieri et parte denari, possa dare o denari o merchatantie oparte merchatantie o parte denari, chome a detto Giovanfrancesco parrà et pia-cerà; et passato e’detti sei mesi, che detto Giovanfrancesco non avesse dato tutto

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o parte di dette merchatanzie di Chaglieri o denari chontanti per insino in dettisettemila duchati venetiani detti di sopra, che tutto quello restasse a dare di dettisettemila ducati venetiani, che debbe dare infra detti sei mesi in dette mercha-tanzie di Chaglieri o in chontanti, sia tenuto a dargli a’ detti creditori infra altrisei mesi proximi futuri, passati e’ detti primi sei mesi, in chontanti in Firenze oin Vinegia a ciascheduno di detti creditori per errata [...].

Fonte: S. TOGNETTI, Il ruolo della Sardegna nel commercio mediterraneo nelQuattrocento. Alcune considerazioni sulla base di fonti toscane, «ArchivioStorico Italiano», CLXIII, 2005, pp. 87-132: 129-131.

Doc. 28Concessione di una royalty sulle miniere sarde a un mercantegenovese (1472)

Il procuratore regio Don Giovanni Fabra, in virtù dell’accordodell’8 giugno 1472 sottoscritto ad Alghero con Sireto della Maddalena,mercante e cittadino di Genova, rende noto al capitano e agli altri uffi-ciali di Iglesias di aver concesso al Sireto, tanto a nome proprio quan-to per conto di maestro Michele Schiavo di Finale, il diritto allo sfrut-tamento delle miniere e alla fusione dei minerali in Sardegna (a parti-re da quelle del Sigerro) per la durata di 12 anni. Questa concessionein monopolio pluriennale testimonia eloquentemente il grado di atro-fizzazione dell’industria mineraria sarda.

Com per nos, ab consentiment e voluntat del molt spectable Senyor Visreye Governador General del present Regne de Sardenya Don Nicolau Carroç diArborea, de una part, e de En Sireto de la Magdalena, ciutadì de Genova, habi-tant en Taranò, axì en son nom propri com encara en nom e com a procuradorde mestre Miquell Sclavo habitant en Finar, en e sobre les menes d’argent ealtres metalls qui son en lo present Regne de Sardenya, en la Vila de Alguer, aVIII dies del mes de juny propassat, sien stats fermats en poder d’En FranceschGayet, notari, scrivà de nostre offici en lo Cap de Logudor, certs capitols, pac-tes e avinences, trellat dels quals autentich e fè portant de mà de dit notari enlo peu contenguts en hun full de paper es stat liurat als dits Sireto e mestreMiquel Sclavo; e com aquells dits Sireto e mestre Miguell entenan anar percomençar llur llavor en aquexas parts de Vila de Sgleyas: per tant [...].

Dat. en la Vila de l’Alguer, a XXIII dies de setembre, any MCCCCLXXII.

Poiché per noi, col consenso e la volontà del molto spettabile Signor Vicerée Governatore Generale del presente Regno di Sardegna Don Nicolò Carroz diArborea, da una parte, e di Don Sireto della Maddalena, cittadino di Genova,

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abitante a Toirano, così a suo nome proprio come anche a nome e come pro-curatore di maestro Michele Schiavo abitante a Finale, riguardo alle minieredi argento e altri metalli che sono nel presente Regno di Sardegna, nella Villadi Alghero, il giorno del mese di giugno passato, sono stati sottoscritti pressoDon Francesco Gayet, notaio, scrivano del nostro ufficio nel Capo diLogudoro, certi capitoli, patti e accordi, copia di quali recante l’autentica e lafede di mano del detto notaio contenuti in calce in un foglio di carta è statoconsegnato ai detti Sireto e maestro Michele Schiavo; e poiché Sireto e mae-stro Michele vogliono andare a cominciare i loro lavori in alcune zone di Villadi Chiesa, per tanto [si dà notifica degli atti alle autorità di Iglesias].

Dato nella Villa di Alghero il giorno XXIII del mese di settembre dell’annoMCCCCLXXII.

Fonte: Codice diplomatico di Villa di Chiesa cit., p. 706.

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Capitolo I

Bibliografia

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Bibliografia 145

Capitolo I

Cartine

Le circoscrizioni ecclesiastiche durante il Medioevo

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Insediamenti monastici (XI-XV secolo)

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Capitolo I

Tavola cronologica

534I Vandali, sconfitti da Belisario a Tricamari, abbandonano la Sardegna, checon la Corsica e le Baleari diventa una delle sette province de praefecturad’Africa sotto il governo di Giustiniano, imperatore di Bisanzio.

590-604Papa Gregorio Magno indirizza varie lettere ai vescovi sardi e si prodiga perla pace fra il dux bizantino Zabarda e i sardi ‘Barbaricini’ di Ospitone.

705, 706, 711, 721-722Gli Arabi tentano diverse incursioni contro la Sardegna, danneggiando alcunecittà costiere, ma non riescono a conquistare l’isola, che deve solo pagare unatassa: la gyz’iah.

721-725Liutprando, re dei Longobardi, fa trasferire le reliquie di sant’Agostino daCagliari a Pavia.

815Ambasciata sarda (legati Sardorum de Carali civitate) alla corte di Ludovicoil Pio, re dei Franchi, per una richiesta d’aiuto contro gli Arabi.

816-817Incursione degli Arabi contro Cagliari.

1015Mugahid ibn Abd Allâh al Amiri, signore di Denia, guida un corpo di spedi-zione arabo in Sardegna con l’obiettivo di espandersi nel Mediterraneo occi-dentale. L’anno successivo Pisa e Genova, su invito del papa Benedetto VIII,intervengono militarmente nell’isola e sconfiggono Mugahid.

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Seconda metà XI sec. Primi documenti scritti che testimoniano l’esistenza in Sardegna di quattroGiudicati: Càlari (o Pluminos), Logudoro (o Torres), Arborea e Gallura. È aquesto periodo che si può far risalire l’apertura culturale e religiosa dei Regnigiudicali al continente italiano e alla Chiesa romana, ma anche la prima fasedell’intromissione di Pisa e di Genova nella politica e nell’economia deglistessi Giudicati.

1070Orzocco I de Lacon-Zori, Giudice di Arborea, trasferisce la capitale delGiudicato da Tharros, ormai abbandonata da tempo, a Oristano.

1082Mariano I, Giudice di Torres, dona all’Opera di Santa Maria di Pisa terre,uomini e beni di varia natura e concede particolari privilegi ai mercantipisani.

Fine XI sec.Il pontefice Urbano II concede temporaneamente all’arcivescovo di Pisa Lam-berto la legazia pontificia sulla Sardegna, rinnovata in seguito, spesso insiemealla primazia, anche ai suoi successori.

1114-1115I Pisani guidano una spedizione militare contro gli Arabi delle Baleari, allaquale partecipano anche Saltaro di Torres e Torbeno di Càlari.

1131Comita III, Giudice di Arborea, si allea con i Genovesi, ai quali concede do-nazioni e privilegi, per estendere i suoi confini ai danni del Giudicato diTorres, legato a Pisa.

1146Alla presenza dei quattro Giudici sardi e dell’arcivescovo di Pisa, Villano,viene consacrata la chiesa nuova dell’abbazia camaldolese di Santa Maria diBonarcado. L’equilibrio tra i Giudici è ormai compromesso dalla crescente in-gerenza di Pisa e di Genova, in lotta per la supremazia commerciale nelMediterraneo e in Sardegna.

1157Barisone I di Arborea sposa la catalana Agalbursa de Bas, nipote del conte diBarcellona Ramon Bereguer IV, e favorisce il radicamento della famiglia Bas-Cervera nel Giudicato di Arborea. Si intensificano così i contatti fra i Catalanie i Giudici sardi: lo stesso Barisone I è intermediario tra Ramon Berenguer IVe Pisa per un’azione congiunta contro gli Arabi delle Baleari, mentre Co-stantino II di Torres sposa alla fine del secolo la catalana Prunisinda.

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1164Barisone I di Arborea con l’appoggio di Genova viene incoronato ‘re di Sar-degna’ a Pavia dall’imperatore Federico Barbarossa. L’avvenimento, lungi dalconcretizzare le ambizioni di Barisone, provoca l’immediata controffensiva diPisa e dei Giudici di Càlari e di Torres che, considerata l’investitura dellaSardegna concessa da Federico I nel 1065 a Pisa, optano per una politica dialleanze oscillante fra il comune di Pisa e quello di Genova.

1187Oberto, marchese di Massa e genero del defunto Giudice Costantino, invadecon il figlio Guglielmo il regno di Càlari, spodestando Pietro de Lacon-Gunale. Guglielmo diventa così Giudice di Càlari, capostipite della dinastiadei Lacon-Massa e primo dei Giudici non sardi.

1258La resa e la successiva distruzione di Santa Igia, capitale giudicale, segna lafine del Giudicato di Càlari, il cui territorio viene diviso fra Guglielmo diCapraia, Giudice di Arborea, Giovanni Visconti, Giudice di Gallura, Ugolinoe Gherardo di Donoratico, mentre Castel di Castro (oggi Castello, quartierestorico della città di Cagliari) ritorna sotto il controllo di Pisa.

1259La morte senza eredi di Adelasia, moglie del Giudice di Gallura UbaldoVisconti e poi di Enzo ‘re di Sardegna’, figlio di Federico II di Svevia, segnala fine de facto del Giudicato di Torres, il cui territorio viene diviso fra Sassari,i Doria, i Malaspina e il Giudicato di Arborea.

1284La battaglia navale della Meloria decreta la disfatta di Pisa nella guerra controGenova. I Pisani sconfitti perdono potere nel controllo delle rotte commercia-li del Mediterraneo e, conseguentemente, anche in Sardegna.

1288L’allontanamento da Pisa di Ugolino Visconti, il ‘Giudice Nin gentil’ ricorda-to da Dante nel Purgatorio, per la sua opposizione al comune segna la fine defacto del Giudicato di Gallura, che viene progressivamente incamerato dalcomune di Pisa.

1297Il pontefice Bonifacio VIII, per risolvere la guerra del Vespro (scoppiata inSicilia nel 1282) ed eliminare una delle cause di lotta tra Pisa e Genova, creal’ipotetico regnum Sardinie et Corsice e lo infeuda a Giacomo II d’Aragona,in cambio della sua rinuncia al trono di Sicilia.

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1323L’infante Alfonso d’Aragona, primogenito del re Giacomo II, sbarca a Palmadi Sulci al comando di una spedizione militare finalizzata alla realizzazionedel regnum Sardinie et Corsice; l’impresa era stata preceduta da un’intensaattività diplomatica svolta negli anni precedenti da Giacomo II sia sul pianointernazionale sia in Sardegna: con gli esponenti del Giudice Ugone II diArborea, dei Doria, dei Malaspina e del comune di Sassari. Durante l’assediodi Villa di Chiesa (l’odierna Iglesias) l’infante Alfonso perfeziona gli accordigià stipulati dal padre.

1324Nella battaglia di Lutocisterna, presso Cagliari, i Pisani sono sconfitti dal-l’esercito catalano-aragonese, che si attesta sul colle di Bonaria e assediaCastel di Castro. Il 19 giugno viene firmato un trattato di pace, in base al qualePisa è costretta a cedere tutti i sui diritti in Sardegna, ma conserva in feudoCastel di Castro con tutte le sue pertinenze.

1326Il 9 giugno i Pisani firmano con i Catalano-aragonesi il trattato di pace chesancisce la fine del dominio diretto di Pisa in Sardegna; essi devono lasciaredefinitivamente Castel di Castro, che viene ripopolato con genti iberiche.

1342Giovanni Malaspina lascia in eredità i suoi possedimenti sardi a Pietro IV,sovrano della Corona d’Aragona.

1347Nella battaglia di Aidu de Turdu, presso Bonorva, i Doria sconfiggono iCatalano-aragonesi.

1353Nel corso della guerra fra Genova e la Corona d’Aragona per il predominiopolitico ed economico del Mediterraneo, a Porto Conte, al largo delle costenord-occidentali della Sardegna, la flotta genovese viene dispersa dai Cata-lano-aragonesi, che occupano Alghero. Di lì a poco anche il Giudice MarianoIV di Arborea dichiara guerra alla Corona, mentre i Doria e la stessa città diAlghero si ribellano.

1354Pietro IV d’Aragona sbarca in Sardegna al comando di una potente armata,assedia Alghero e la riconquista; le condizioni della resa prevedono l’allonta-namento dalla città di tutti i suoi abitanti e il ripopolamento con genti prove-nienti dai Regni della Corona d’Aragona.

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1355Pietro IV d’Aragona convoca a Castell de Càller il primo Parlamento delregno di Sardegna e con la pace di Sanluri pone fine alla prima fase della guer-ra con il Giudice di Arborea Mariano IV.

1364-1365Riprendono le ostilità fra la Corona d’Aragona e il Giudicato di Arborea, chein breve tempo si appropria di castelli e di terre della Sardegna regnicola conl’aiuto dei Doria, nemici aperti dell’Aragona.

1388I procuratori di Giovanni I d’Aragona e della Giudicessa reggente Eleonora,madre di Mariano V all’epoca minorenne, firmano il trattato di pace che ripor-ta il confine fra il Giudicato di Arborea e il regno di Sardegna allo stato dellapace del 1355.

1391Brancaleone Doria, marito di Eleonora, e il loro figlio Mariano V di Arboreariprendono le armi contro i Catalano-aragonesi.

1409Dopo la battaglia di Sanluri, che vede gli Aragonesi vincitori sui Sardi arbo-rensi, la pace di San Martino del 1410 decreta la fine de facto del regno giu-dicale di Arborea. Il territorio storico del Giudicato di Arborea viene trasfor-mato in marchesato di Oristano e infeudato a Leonardo Cubello.

1420Guglielmo III, visconte di Narbona e ultimo Giudice di Arborea, rinuncia aidiritti al trono giudicale in cambio di 100.000 fiorini d’oro nel rispetto degliaccordi stipulati con Alfonso V d’Aragona, che decretano la fine de iure delregno giudicale di Arborea.

1421Alfonso V d’Aragona convoca a Castell de Càller il secondo Parlamento delregno di Sardegna, ora interamente conquistato dalla Corona d’Aragona.

Tavola cronologica 151

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STORIA MEDIEVALEStrumenti e Sussidi

Collana diretta da Giuliano Pinto

1. Francesco Paolo ToccoIl regno di Sicilia tra Angioini e Aragonesi, 2008, pp. 144

2. Antonio RigonLe istituzioni ecclesiastiche dell’Occidente medievale, 2008, pp. 142

3. Francesco BorriI Barbari a nord dell’impero. Etnografia, conflitto e assimilazione, 2010,pp. 160

4. Lorenzo TanziniDai comuni agli stati territoriali. L’Italia delle città tra XIII e XV secolo,2010, pp. 152

5. Olivetta Schena e Sergio TognettiLa Sardegna medievale nel contesto italiano e mediterraneo (secc. XI-XV),2011, pp. 154

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