Ermia Alessandrino nel Medioevo e nel Rinascimento: alcune note, Studi Classici e Orientali LV...

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STUDI CLASSICIE ORIENTALI

A cura dei Dipartimentidi Fil ologia Classica, Linguistica,

Scienze Archeologichee ScienzeStorichedel MondoAntico

dell ’Università di Pisa

LV · (2009)

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CLAUDIO MORESCHINI

ERMIA ALESSANDRINO NEL MEDIOEVOE NEL RINASCIMENTO: ALCUNE NOTE

Tra le opere che la filosofia neoplatonica dedicò alla interpreta-zione di Platone si collocano gli Eij~ to;n Plavtwno~ Fai`dronscovlia dell’alessandrino Ermia, vissuto nel V sec. d.C., i qualicostituiscono l’unico commento antico al Fedro platonico. Il termi-ne ‘commento’ è, tuttavia, improprio, perché l’opera è costituita,come dice il titolo, da una serie di ‘scoli’. Abbiamo a che fare conuna raccolta di annotazioni variamente estese e approfondite sulpiano filosofico, la cui struttura risponde al proprio genere lettera-rio; tuttavia, a causa della loro frammentarietà, spesso avviene cheil pensiero dell’autore sia disperso in un mare magnum di dati nonconnessi tra di loro.

Come abbiamo cercato di dimostrare altrove1 in contrasto conquanto gli studiosi avevano ritenuto fino ad allora2, questi scoli,nonostante che siano dipendenti dall’insegnamento di Siriano, cheera stato il maestro di Ermia, non lo riproducono meccanicamente.A nostro parere, infatti, uno fu il maestro ed un altro il discepolo,per cui si può parlare di Ermia come di un vero e proprio rappre-sentante della esegesi neoplatonica del Fedro3.

Ciò premesso, ricordiamo che nel nostro lavoro or ora indicatoalla nota 1, tenemmo conto anche di alcuni testi di età bizantina edel Rinascimento italiano che possono essere considerati cometestimonianze della presenza di Ermia nel grande alveo della tradi-

1 Cfr. MORESCHINI, Alla scuola di Siriano.2 Questa convinzione è tanto diffusa che alcuni addirittura citano l’opera di

Ermia né più né meno che come un commento di Siriano al Fedro. E tuttavial’Allen (The Platonism, 243-246) osserva che Ermia è servito al Ficino per otte-nere notizie su Giamblico, ed infine (The Platonism, 247-248) che ‘curiously’, lateologia di Ermia differisce, per quanto riguarda l’utilizzazione dell’orfismo, siada Siriano sia da Proclo. Quel ‘curiously’ è indicativo del fatto che Ermia non cor-risponde in tutto a Siriano, come noi crediamo di avere dimostrato (cfr. n. 1).

3 Leggiamo gli scholia di Ermia nell’edizione, tuttora non sostituita, di P.Couvreur (HERMEIAS VON ALEXANDRIEN, In Platonis Phaedrum Scholia). È in pre-parazione una nuova edizione, per la Biblioteca Teubneriana pubblicatadall’Editore De Gruyter, a cura di Claudio Moreschini e Carlo Martino Lucarini.

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zione platonica e, in un contesto più ristretto, del Nachleben dellostesso Ermia. Le seguenti pagine vogliono arrecare ancora qualchecontributo.

1. Michele Psello

Si sa da tempo che Michele Psello scrisse una ∆Exhvghsi~ th~Platonikh`~ ejn tw/` Faivdrw/ difreiva~ twn yucwn kai; strateiva~twn qewn, vale a dire una spiegazione del passo famoso di Phaedr.246e - 247a. Tale trattazione fu pubblicata da Alberto Jahn sullabase di due manoscritti della Biblioteca Reale di Monaco nel 18994,ma più recentemente da D.J. O’Meara (di cui seguiamo l’edizione),il quale la presenta come l’opusculum 7 dei Philosophica minora diPsello5. Secondo il Bielmeier6, Psello riprende alla lettera Ermia, p.135,26 - 136,1: in realtà, lo scrittore bizantino fornisce, in un primomomento, l’interpretazione del passo platonico, e poi, seguendo ‘iteologi dei Greci’, cioè pagani (p. 12,22), dà una parafrasi di tuttala sezione teologica del secondo libro degli scholia di Ermia7, ricor-dando brevemente la sua dottrina della gerarchia degli dèi, dei prin-cipi divini, la distinzione tra sostanza e ijdeva, le dunavmei~ dell’ani-ma e le funzioni degli dèi, come quella di ‘elevare’, propria di Zeus,di ‘collocare’, propria di Hestia, di ‘produrre’, propria di Hera edelle zwogovnoi qeaiv (p. 13,19-22). Ma questo non basta: dopo averinterpretato il passo platonico, Psello afferma che prima bisognaspiegare (p. 14,4 ss.) quale sia l’idea dell’anima.

Noi affermiamo, dunque, che sostanza di ogni cosa è l’uno che in essosi trova e, per così dire, l’uno più unitario di tutti, mentre la forma è lamolteplicità e, per così dire, gli elementi: l’anima infatti è uno e moltepli-ce, e l’idea dell’anima sono la molteplicità e gli elementi. Questo è ilsignificato dei cavalli e dell’auriga, di cui parla Platone (p. 14,5 ss.).

Psello prosegue riprendendo fedelmente la spiegazione di Ermia(p. 121,5 - 123,23 e 130,11-15). Ma conclude, aderendo in modotradizionale alla fede cristiana: «Abbiamo spiegato in modo plato-nico le dottrine platoniche, il che equivale a dire che abbiamo spie-gato in modo ridicolo dottrine ridicole» (p. 14,19-20).

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4 Cfr. JAHN, Michael Psellos.5 Cfr. MICHAEL PSELLUS, Philosophica minora.6 Cfr. BIELMEIER, Die neuplatonische, 52-53.7 Essa è strutturata alla maniera di altre sue parafrasi di testi filosofici paga-

ni, come quelle degli Oracula Chaldaica.

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2. Marsilio Ficino

2.1. La traduzione latina di Ermia

Autore, come si è detto, dell’unico commento al Fedro che ci siapervenuto, Ermia fu considerato come una autorità della tradizioneantica dai platonici del Rinascimento: su di lui abbiamo fatto alcuneosservazioni altrove8, mentre in questo contesto constatiamo cheErmia non poteva sfuggire alla indagine che Marsilio Ficino eseguìnella sua ricerca delle fonti antiche sulla filosofia platonica e sulla suaesegesi. Ficino eseguì una traduzione latina degli Scholia di Ermia,che Allen colloca tra il 1474 e il 1489, mentre secondo Sheppard essarisale a prima del 1469. Gentile pensa che essa sia stata eseguita inun momento ancora precedente, come documento dell’interesse delFicino per il Fedro platonico, già da lui palesato nella epistola Dedivino furore, che risale al 1457. La traduzione di Ficino è conserva-ta nel Vaticanus Latinus 5953, ma non fu riveduta dall’autore: di con-seguenza non fu pubblicata tra le altre sue traduzioni ed è rimasta ine-dita. Ciò significa che il Ficino sostanzialmente la rifiutò, forseanche, secondo Gentile, per il fatto che l’opera di Ermia contenevapassi pericolosi, come quello dell’animazione delle statue (p. 87Couvreur = cc. 191v - 192r)9. In ogni caso tale traduzione è notevol-mente lontana dallo standard delle altre traduzioni ficiniane. Eseguitadal Ficino all’inizio della sua carriera, è estremamente letterale (cioèsegue i parametri tipici della traduzione medioevale), e di conse-guenza, cioè per ricerca di una specie di riproduzione latina dellaparola greca, anche forma dei termini nuovi che assomigliano a deimonstra; insomma, non manifesta alcuna cura stilistica.

La ancora scarsa padronanza del greco costrinse il traduttore anon tradurre certe parti dell’originale che, evidentemente, gli appa-rivano poco comprensibili: ad esempio tutte le citazioni dei poetiantichi (Pindaro, Omero, gli Orfici), che sono particolarmente dif-ficili, sono omesse, di solito con uno spazio vuoto; altrettanto dica-si di alcuni nomi, come ‘Stesicoro’ ed ‘Imerese’10.

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8 Nello studio indicato alla nota 1.9 Cfr. GENTILE, Sulle prime traduzioni, 73 e 80-84. Tuttavia la dottrina della

animazione delle statue non ha in Ermia una incidenza così forte come in un altrotesto che interessava al Ficino, vale a dire l’ermetico Asclepius – e si sa con quan-ta cautela il Ficino abbia dovuto occuparsene successivamente (la bibliografia aquesto riguardo è molto nutrita; accenniamo al nostro recente studio: MORESCHINI,Ancora alcune considerazioni, soprattutto 102 ss.).

10 Sarebbe opportuno individuare il modello di cui si sarebbe servito il Ficino

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Indipendentemente dalla traduzione di cui parliamo, i due stu-diosi che abbiamo già avuto modo di ricordare, e cioè Allen eSheppard, hanno manifestato opinioni contrastanti circa l’eventua-lità che il Ficino si sia servito degli scholia di Ermia. L’Allen, in unprimo tempo, non ritenne che si potessero cogliere nel Ficino ele-menti ricavati dalla lettura di Ermia11, mentre secondo Sheppard12,sia la Introduzione al Fedro (scritta tra il 1469 e il 1476) sia ilCommento al Simposio (composto nel 1469), mostrano la ripresa,da parte di Ficino, della dottrina dei furores di cui parla il Fedro(244a ss.) e la loro classificazione, proposta da Ermia13. Pochi annidopo, tuttavia, anche l’Allen, sottoponendo a nuovo esame alcunitesti ficiniani, si rese conto della presenza dell’esegeta neoplatoni-co nell’opera del filosofo del Rinascimento e ne indicò opportuna-mente i punti in cui tale contatto era evidente14.

A questo punto, continuando le indagini dei due studiosi cheabbiamo ricordato, vogliamo vedere se i due punti che sono ogget-to della presente discussione, vale a dire la teologia di Ermia e lasua interpretazione dell’amore filosofico, hanno trovato un qualcheriscontro in Marsilio Ficino.

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per questa sua traduzione; a Firenze si trovano tuttora due manoscritti del XIVsecolo che contengono il testo del Fedro con gli scoli di Ermia (Laur. Conv. Sopp.103 e Conv. Sopp. 78: in essi, come anche in altri a partire dal secolo XIV, i lemmisono molto più lunghi di quelli che possedeva il codice poziore, il Parisinus Bibl.Nat. Graec. 1810, scritto da Giorgio Pachimere alla fine del XIII secolo: ciòpotrebbe spiegare il fatto che anche nella traduzione del Ficino i lemmi sono moltopiù lunghi di quelli del Parisinus); un terzo manoscritto (Plut. 86,4) risale proba-bilmente agli ultimi anni del XV secolo, ed è quindi posteriore alla traduzione. Ilproblema è stato recentemente affrontato da Carlo Martino Lucarini, in uno studioin corso di stampa: secondo Lucarini, Ficino avrebbe eseguito la sua traduzioneservendosi del Laurentianus Conv. Sopp. 78.

Alcuni elementi della traduzione di Ermia sono stati esaminati anche da Allene White (cfr. ALLEN, WHITE, Ficino’s Hermias Translation). I due studiosi si sof-fermano sugli ‘expanded lemmata’ di Ermia (pp. 44-45), che si trovano, come si èdetto, nella traduzione ficiniana: in realtà essi sono tipici di molti manoscritti piùtardi di Ermia, tutti derivati dal Parisinus Bibl. Nat. Graec 1810, in quanto essi tra-scrivono, accanto al testo di Ermia, anche quello di Platone, dal quale, poi, pote-vano facilmente ricavare l’espansione dei lemmi.

11 Cfr. ALLEN, Two Commentaries on the Phaedrus, 121.12 Cfr. SHEPPARD, Influences of Hermias. 13 La dimostrazione di Sheppard ci sembra probante; essa è stata accolta anche

da P. Laurens (P. LAURENS, Marsile Ficin, 311-312) e dallo stesso Allen successi-vamente.

14 Cfr. ALLEN, Marsilio Ficino and the Phaedran; The Platonism of MarsilioFicino.

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2.2. Ficino e il pensiero di Ermia

Per quello che riguarda questa tematica, Ficino ricorda spessoErmia, ma non tanto per la sua dottrina teologica in senso stretto,bensì soprattutto per la dottrina dell’anima e la demonologia. Inquesto ambito di problemi Ermia ha procurato al Ficino la cono-scenza di alcune dottrine di Giamblico15.

2.2.1. L’anima e i demoniIl problema del rapporto tra l’anima e i demoni è affrontato da

Ficino nella Theologia Platonica (XVIII 9,2)16. Le stelle e i demo-ni, egli osserva, emettono una loro voce, in quanto esseri animati:

Similiter quoque stellae omnes et demones voces[que] faciles formant,et sicut absque passione ulla sunt ibi sensus, sic et voces, alterius certespeciei generisque quam nostrae. Haec Plotinus et Hermias.

La discussione di Ermia si era basata sulla ben nota affermazio-ne di Socrate, che il demone non spinge Socrate a fare qualche cosa,ma solamente lo trattiene, perché non la faccia. Socrate era propen-so a fare il bene e a dedicarsi ad ogni retta azione, ma bisognava chenon fosse mosso da altri in questa sua attività; se però commette unerrore, in quanto è uomo, allora interviene il demone (67,11-19). Lotrattiene facendogli udire la sua voce. Come può un demone averela voce? Quella udita da Socrate era demoniaca, cioè di un tipo par-ticolare, ché, se fosse stata una semplice voce umana, l’avrebbeudita anche Fedro, presente accanto a lui (p. 68,2 Couvreur)17.Plotino nel primo libro del suo trattato Sulle difficoltà (dell’anima)(IV 3) – prosegue Ermia (p. 68,3-7) – ammise che il demone potes-se averla, perché la voce è ‘un colpo nell’aria’, ed i demoni abitanonell’aria. Ma, poi, gli dèi celesti hanno la sensazione? Gli uominidivini (cioè Omero, di cui è citato m 323 = l 119, insieme ad unaltro verso di autore sconosciuto) gliela attribuivano (p. 68,7-14).

Ficino prosegue:

presertim cum, sicut alibi dicit, Hermia exponente (p. 163,24-27),malefici demones assidue nos pro viribus ad inferiora detorqueant. Sedalii sunt custodes illi qui nos eligunt, alii demones quos nos eligimus.

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15 Cfr. ALLEN, The Platonism of Marsilio Ficino, 245-246.16 Da noi citata secondo la seguente edizione: MARSILIO FICINO, Platonic

Theology. I rimandi del Ficino ad Ermia, identificati dagli editori, semplificanomolto l’interpretazione dei passi.

17 Cfr. quanto abbiamo osservato in MORESCHINI, Alla scuola di Siriano, 551.

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Ermia, come giustamente individua Ficino18, aveva affermato chel’anima è trattenuta dal cadere in basso nella materia grazie alla suafamigliarità con la ‘processione’ nel cielo, così come, in terra, la vitadegli esseri viventi è collegata a una determinata collocazione dellecostellazioni. E vi sono anche dei demoni che la trattengono e leimpediscono di cadere; altri demoni, invece, sono malvagi e la fannocadere. Quando essa si stacca dalla processione dei seguaci degli dèi,incappa nei demoni, i quali fanno sorgere in lei il desiderio della real-tà sottoposta al divenire (gevnesi~). Un’altra colpa dell’anima è ladimenticanza degli intelligibili e la sua potenza eJteropoio;~ kai;genesiourgov~ (p. 163,10-35.). Ma in realtà esistono due specie didemoni: quelli che scelgono noi, per essere i nostri protettori, e quel-li ai quali ci rivolgiamo noi stessi, perché ci aiutino nel persegui-mento della virtù.

Su questo passo di Ermia Ficino ritorna in Theol. Plat. XVI 7,14,giacché (egli osserva) l’animo, che è di origine divina, non è cor-rotto e non è costretto dal corpo a fare qualche cosa, ma è lui stes-so, l’animo, che, per amore di un corpo animato, che costituisce lasua opera e il suo strumento, si volge verso di esso spontaneamen-te, abbandonando il suo stato, allo scopo di sollevarlo verso di sé:

Neque desunt inter Platonicos qui dicant, praesertim Hermias(p. 163,24-27), quosdam esse daemones generationis fautores, qui incli-nationem animae ad corpus naturaliter augeant.

In Theol. Plat. XVII 3,10 Ficino rifiuta un aspetto particolaredella dottrina della trasmigrazione delle anime, e cioè che l’animaentri effettivamente in un corpo di animale, facendo riferimento, tragli altri neoplatonici, ad Ermia:

deposita denique figura hominis, eius bestiae subit corpus, cuius semoribus simillimam praestitit, seu inserat se ferino foetui fiatque propriaferini corporis anima, ut Plotinus, Numenius, Harpocratius, Boethus exi-stimant, seu animae ferinae se ipsam iungat atque ferae sit comes, ut pla-cuit Hermiae Syrianoque et Proculo19.

Ermia aveva osservato, infatti, che l’anima dell’uomo non entramaterialmente nel corpo di un animale (p. 170,16, cf. anche p. 162,25e 164,5), ma che, quando si legge nelle opere dei neoplatonici, che

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18 Bisogna apprezzare, a mio parere, l’acribia filologica di Ficino allorquandoindividua i passi che sono calzanti e ne fornisce la giusta esegesi.

19 Cfr. anche Commentum in Phaedrum cum summis capitulorum, cap. XXV(p. 173 ALLEN, Marsilio Ficino and the Phaedran).

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questo avviene in seguito alla trasmigrazione, ciò significa l’unionedi un’anima razionale con un’anima irrazionale20. Anche Ermiaaveva preso parte alla discussione, mossa dagli interpreti platonicia partire da Porfirio, se l’anima umana, resasi colpevole del malecommesso, nella sua trasmigrazione penetrava effettivamente incorpi di animali, oppure se viveva insieme ad essi.

Lo stesso problema è ripreso poco dopo (Theol. Plat. XVII 4,4):

His atque similibus, ut arbitror, rationibus commotus Porphyrius eru-buit animam centro suo semel infixam temere inde divellere. Proclum quo-que Syrianumque et Hermeiam (p. 170,16-19) puduit celestem animam incorpora bestiarum precipitare, atque ut debita supplicia immanibusrependerent vitiis, obversari putarunt sacrilegas animas inter animasbestiarum, non tamen brutorum corpora regere, quoniam si bruta evase-rit anima, non purgabitur inde, sed prorsus inficietur.

Nel corso del secolo XVI questa osservazione di Ermia attiròl’attenzione di un erudito italiano, Iacopo Mazzoni, il quale(Comparatio Platonis et Aristotelis, p. 9721) osserva:

Differunt tamen, quia Plotinus, cum quo consentit Numenius etHarpocratius Boetus, existimat animam, deposita figura hominis, insere-re sese ferino foetui eiusque bestiae subire corpus, cuius se moribus simil-limam praestitit, at Proclus, Syrianus et Hermias credunt animam huma-nam ferinae se iungere atque ferae fieri comitem.

Mazzoni riprende, quindi, quasi con le stesse parole, l’osservazio-ne di Ficino, che abbiamo incontrato poco fa (Theol. Plat. XVII3,10).

Ma i numeri degli anni che le anime trascorrono nel corso delleloro trasmigrazioni hanno solamente un valore di esempio, affermaimmediatamente dopo Ficino (XVII 3,11):

Has transmigrationes restitutionesque Plato annis mille, tribus milli-bus, decem millibus designavit, disputationis exemplique gratia potius, utinquit Hermias (p. 169,2-12), quam quod certe dinumerari posse putaret.

Ficino, infatti, come osserva Hankins22, nega ripetutamente lapossibilità che Platone abbia creduto in questa ridicula fabella.

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20 Questa sembra essere stata la spiegazione di Porfirio.21 Citiamo dalla edizione IACOBI MAZONII, Comparatio, che ripubblica, ade-

guatamente rivista e corretta, la vecchia edizione di Venezia (1597, apud IoannemGuerilium).

22 Cfr. HANKINS, Plato in the Italian, I, 358 n. 252, con rimando alla biblio-grafia di Allen sul problema della metempsicosi secondo Ficino.

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2.2.3. La dottrina dell’amoreAvevamo osservato nel nostro lavoro, a cui abbiamo fatto più

volte riferimento, che la dottrina dell’amore, anche se non è l’argo-mento principale del Fedro, come Ermia osserva, ha però un note-vole peso negli Scholia dell’Alessandrino, il quale a più riprese nesottolinea il significato filosofico23. Avevamo concluso con questeparole: «Il modesto commento di Ermia possiede, dunque, un con-tenuto che fu apprezzato e diffuso da Marsilio Ficino».

Purtroppo, nonostante ogni apparente ‘vicinanza’ alla concezio-ne ficiniana dell’amore, non è possibile individuare delle vere eproprie riprese del Ficino da Ermia a questo proposito. IlCommentarium in Convivium Platonis. De amore descrive la figu-ra di Socrate secondo i dettagli ricavabili dal Simposio platonico(VII 2), da cui deriva, ed il Commentarium in Phaedrum si interes-sa assai poco alla tematica dell’amore filosofico, alla quale preferi-sce quella dell’amore come uno dei quattro ‘furori’ dell’anima.

Forse una prova più concreta dell’interesse di Ficino per la dot-trina dell’amore filosofico, proposta da Ermia, è costituita sola-mente dalla traduzione latina degli Scholia in Phaedrum, dellaquale abbiamo parlato sopra: una prova generica, purtroppo.

3. Osservazioni preliminari sulla tradizione manoscritta degli Scholia in Platonis Phaedrum

Gli scholia di Ermia furono editi interamente per la prima voltanel 1810 da Federico Ast24, il quale si servì, come allora si usavaspesso, di un solo manoscritto, e di facile reperibilità per un’edi-zione, come la sua, pubblicata a Monaco, e precisamente ilMonacensis 11, del sedicesimo secolo, conservato alla BibliotecaReale di quella città: una edizione, purtroppo, di assai scarso valo-re. Ast cercò di dare al testo che aveva per le mani e che trascrive-va dal suo manoscritto un aspetto più ‘accettabile’ ed intervenne piùvolte, anche se non sempre con cognizione di causa, intendiamodire con conoscenza della filosofia di Platone e, soprattutto, diErmia. Il testo del commentatore, del resto, fino ai tempi di Ast erarimasto pressoché sconosciuto. L’edizione non ebbe una grande dif-

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23 Cfr. MORESCHINI, Alla scuola di Siriano, 530.24 Prima dell’edizione di Ast, infatti, come ha indicato con molta acribia il

Couvreur nella sua edizione (di cui tra poco parleremo), tali scholia erano statipubblicati solo parzialmente ad opera di studiosi che, in contesti differenti, aveva-no avuto a che fare anche con l’opera di Ermia.

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fusione, e la conoscenza del testo e dei manoscritti di Ermia rima-se per tutto il secolo XIX approssimativa.

Il primo a individuare quale fosse il manoscritto poziore fuImmanuel Bekker nella sua edizione completa di Platone; egli sup-pose, infatti, che il Parisinus Bibl. Nat. Graecus 1810, da lui sigla-to D, fosse la fonte di tutti gli altri. Più tardi, nella seconda metà delXIX secolo, il rinnovato impulso degli studi sulla tradizione mano-scritta di Platone, ad opera soprattutto di Schanz e Jordan, produs-se, come conseguenza, un interesse, benché limitato, anche per iltesto di Ermia. Jordan, lamentandosi che ai suoi tempi gli studi suicommentatori di Platone fossero rimasti ‘oziosi’, si limitò a ripete-re l’opinione di Bekker25; di più fece Schanz, il quale, pur dichia-randosi incerto se seguire l’opinione di Jordan (cioè, di Bekker),eseguì un esame autoptico del manoscritto in questione, anticipan-do quanto sarebbe stato detto poi da altri: il Parisinus era apparte-nuto a Francesco Asolano, a Venezia, e portato a Fontainebleau26;aveva sofferto per le vicende dei tempi, tanto che la scrittura eradivenuta evanida nel margine alto e nelle parti estreme, a destra e asinistra; quello che era andato perduto era stato riscritto da unamano del XVI secolo, che aveva eseguito un lavoro poco accurato,correggendo anche in modo arbitrario i residui delle lettere ancoraleggibili; di conseguenza, era necessario servirsi degli apografi perricostruire la lezione originaria. Tra gli apografi, Schanz consideròsolamente M, il manoscritto impiegato da Ast, mettendone in evi-denza il patente carattere di descriptus27.

Il successivo studio di Ruelle28 non arrecò molto di nuovo, inquanto si limitò a considerare i manoscritti di Ermia conservatinella Biblioteca Nazionale di Parigi oltre al già noto Graecus 1810,senza avanzare osservazioni circa la recensio.

Dopo questi accenni di carattere preparatorio, un secolo dopol’edizione di Ast apparve a Parigi quella di Paul Couvreur, termi-nata (non sappiamo fino a che punto fosse giunta l’opera delCouvreur stesso) dall’amico Louis Bodin29. Questa edizione risultòper ogni aspetto egregia: fu la conclusione di una serie di ricerchesui manoscritti degli Scholia, sparsi nelle biblioteche europee, delle

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25 Cfr. JORDAN, Zur Kritik, 262.26 Così anche LUNA, PROCLUS, Commentaire, CLIX-CLXX.27 Cfr. SCHANZ, Zu Hermeias.28 Cfr. RUELLE, Notes.29 Cfr. HERMEIAS VON ALEXANDRIEN. Questa edizione fu recensita da M.

WOHLRAB.

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quali Couvreur dette notizia – anche se approssimativa – nella suaintroduzione (pp. X-XVII), tracciando alla fine uno stemma. Purnon specificando in che modo, e cioè sulla base di quali lezionimanoscritte, egli fosse giunto a determinare le relazioni tra i varitestimoni, una ricerca da me compiuta su alcuni di essi (dei qualiriparleremo) ha confermato in parte la validità dello stemma diCouvreur e di alcuni dei suoi punti nodali, anche se le ricerche,recenti ed esaurienti, di Carlo Martino Lucarini, hanno corretto varierrori della ricostruzione dello studioso francese. Il risultato princi-pale era, comunque, questo: tutti i manoscritti a noi pervenuti deri-vano dall’esemplare più antico, il già ricordato Parisinus Bibl. Nat.Graecus 181030 a cui fu assegnata da Couvreur la sigla A, in quan-to tutti gli altri contengono, oltre agli errori di A (con l’eccezione,naturalmente, di quelli che uno scriba del Rinascimento avrebbepotuto correggere suo Marte), soprattutto la grande lacuna che siestende, in A, dalla fine del f. 46v a tutto il foglio 47r. Su questabase il Couvreur fondò la sua edizione, impiegando non più unmanoscritto scelto senza discernimento scientifico, come avevafatto l’Ast, ma, appunto, il testimone più antico, che offriva, anche,il testo migliore.

Tuttavia i descripti rimanevano pur sempre necessari a causadelle cattive condizioni di A; il Couvreur li raggruppò in tre fami-glie: la prima era costituita dai manoscritti D (Parisinus Bibl. Nat.Graecus 1827) ed E (Parisinus Bibl. Nat. Graecus 1943), entrambidel XVI secolo, la seconda da L (Laurentianus Conv. Sopp. 103, lacui trascrizione fu terminata nel 135831) e dai suoi discendenti (ilcoevo Laurentianus Conv. Sopp. 78, siglato l, ed il Laurentianus86,4, del XV secolo); la terza da V (Marcianus Graecus 218, delXIV secolo) e v (Marcianus Graecus 191, del XV secolo)32; da

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30 E per questo il Couvreur si basò sui lavori precedenti.31 Secondo Steel (PROCLI In Platonis Parmenidem, XIII-XIV), sia L sia V

sono diretti apografi di A e contengono la stessa collezione di testi; il manoscrittol, di eccellente fattura, addirittura correggerebbe A in alcuni punti. Secondo noi,invece, si può collocare un anello intermedio tra A e L l: vedi p. 294, n. 39.

32 Il collegamento reciproco di V e v rimase, comunque, non ben specificatodal Couvreur, il quale, del resto, precisa onestamente di non avere collazionatoaltro che i manoscritti di Parigi (una conoscenza molto parziale di quelli di Firenzegli era stata permessa da una lettura effettuata per lui da Ermenegildo Pistelli:secondo Couvreur, l sarebbe apografo di L, il che è errato). Un dettaglio: ilVaticanus Ottobonianus 35, del secolo XVI, in realtà contiene solo una brevissimasezione di Ermia, dall’inizio a p. 4,3 Couvreur (111r - 112v: si arresta akataªpauvei). L’errore è già nel catalogo di Feron-Battaglini.

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questa famiglia sarebbero derivati tutti gli altri manoscritti, com-preso quello impiegato da Ast33 (M).

Anche il Couvreur, inoltre, dovette affrontare la difficoltà cheaveva già visto Schanz, e cioè, per esprimersi con le sue parole,«cum humiditate vel nescio qua alia causa cujusque folii superioret exterior pars ita corrupta esset ut litterae fere prorsus essent eva-nidae, lector quidam benevolus eas nigriore atramento refecit: illeautem pristinae scripturae vestigia, cum etiamtum apparebant,satis apte secutus est, ubi nihil jam perspicuum erat, e sensu sup-plevit ipse ut potuit: nam ex multis ineptiis quas Hermiae textuiintroduxit manifestum est eum nullum alium codicem adhibuisse».Questo anonimo lettore, che aveva ‘restaurato’ la lezione di A, eraprobabilmente del XVI o del XVII secolo e certamente aveva lavo-rato dopo che erano già stati copiati tutti gli apografi, nessuno deiquali, infatti, possiede le lezioni scritte da questo anonimo corretto-re. Raramente si può ricavare la lezione originaria di sotto la riscrit-tura, ma quando questo non è possibile, cioè si legge solo la lezio-ne riscritta, quest’ultima è indicata da Couvreur con Aa, mentrequando il testo originario può essere in qualche modo rintracciabi-le, il Couvreur adopera la sigla a. In questa distinzione tra il testooriginario e le varie letture della mano più tarda, procurata da unanuova – e quasi sempre esatta – lettura del manoscritto stanno lanovità e il merito di questa edizione. Parimenti, come già Schanz,lo studioso francese affermò34 che quando la lezione originaria eradiventata illeggibile (cioè si verifica il caso Aa), bisognava ricorre-re agli apografi di A, o almeno a quelli più autorevoli, che soprasono stati indicati.

In tempi più vicini a noi le indicazioni di Couvreur per quantoriguarda il codice A sono state confermate e integrate da CarlosSteeel35 e da Concetta Luna36. Questi due studiosi, tenendo conto diricerche precedenti, hanno concluso che A fu copiato da GiorgioPachimere, professore alla scuola del Patriarcato di Costantino-poli37, e sarebbe stato la bella copia che Pachimere si sarebbe costi-

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33 Cfr. Couvreur, HERMIAE ALEXANDRINI In Platonis Phaedrum, X-XVII.34 Cfr. Couvreur, HERMIAE ALEXANDRINI In Platonis Phaedrum, XVIII.35 Cfr. PROCLI In Platonis Parmenidem, IX-XI.36 Cfr. PROCLUS, Commentaire, CLVII-CLXVII.37 I lemmi del Parmenide sarebbero stati radicalmente modificati e adattati

secondo un manoscritto di Platone: lo avevamo già notato molto tempo fa anchenoi (cfr. MORESCHINI, I lemmi del Commento di Proclo al Parmenide); probabil-mente questo vale anche per i lemmi del Fedro.

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tuito da un esemplare di lavoro. Anche Luna osserva38 che un letto-re, siglato A2, avrebbe cercato di riparare al guasto riscrivendo le let-tere di A divenute illeggibili, e che questo restauratore non avrebbeusato un modello per eseguire il suo lavoro: si sarebbe limitato ariscrivere le lettere ancora visibili e avrebbe riscritto il resto comemeglio aveva potuto. Questa mano, quindi, non rappresenta nessunatradizione. Secondo la studiosa, però, il restauro del manoscritto èstato eseguito poco tempo dopo il guasto, e sicuramente prima del1358, perché tutti gli interventi di A2 si trovano in L, che fu termi-nato in quell’anno, mentre un manoscritto della BibliotecaAmbrosiana (che non contiene però gli Scholia in Phaedrum), sigla-to M e copiato verso il 1340-1350, permette ancora di conoscere lostato originale di A. Infine una terza mano (A3), in inchiostro nero,è anch’essa anteriore al 1358. Da ultimo, una mano più recente (A4)è dell’inizio del XVI secolo, quando A si trovava a Venezia. Lunadistingue, quindi, più mani alle quali attribuire il restauro di A, quelrestauro che Couvreur ha indicato con Aa, e le colloca molto prima,e cioè nel XIV, non nel XVI secolo.

3.1. Per quanto attiene quest’ultimo, l’esistenza di una secondamano di A è testimoniata dalle seguenti correzioni39: 9,1 u{mnhsecett. codd.: uJmnhsevt*A; 14,2 mevlleiA2 l E: mevllwnA L V, mevllwAst; 52,13 pleiovnwnA V E: pleivwA2 L l; 113,19 ajlogivanA2 L E:ajnalogivanA l V; 76,26 uJpevrteron me;n L l E: uJpevrteron me;n de;A, uJpevrteron de; v, me;n add. s.v. v2, unde M (hanno tutti correttosuo Marte l’errore di A?); 122,1 povteron A2 l E Ast: provteron AL v M; 125,14 yuch~ A l E: zwh~ A2 L V; 128,10 fhvsa~ A: fhsincett. codd.; 132,7 aujta; L l v: aujta; de; (vel dh;) A E, de; del. A2;132,16 aujtoi~ A L E Cou. : aujto; A2 v M; 135,23 to; nohto;n V E:to;n nou`n L l, A evanidum (probabilmente le due lezioni si trova-vano in A, nel testo e come correzione); 138,3 tritavth/ l E: tritavth/` V v, tri;~ ou{tw L, omittit spatium relinquens A; 151,26gnwstikwn cett. codd.: gnwvsewn A; 152,29 qeou` diavnoian cett.codd. (fortasse ex Platone): qeou` diavnoian qeou` A; 160,23 teqeivwn A: yucw`n L l V E; 161,24 mevtra A L l E : kevntra A mg. VM, L mg. E mg.; 167, 26 post th;n vacuum A l v (non tamen L V E),ejk tw`n merw`n suppl. Cou. ex p. 90,10; 167, 29 ceivrono~ l2 v: ceiv

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38 Cfr. LUNA, PROCLUS, Commentaire, CLXVIII.39 Alcuni di questi esempi fanno anche pensare all’esistenza di un anello inter-

medio, ora perduto, tra A e gli apografi.

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40 Cfr. LUNA, PROCLUS, Commentaire CLXXXVI-CLXXXVII.41 Cfr. LUNA, PROCLUS, Commentaire CLXXXII-CLXXXVI.42 Cfr. LUNA, PROCLUS, Commentaire CLXXXV.

A L l V E, e[cei E2 ; 173,14 kleva cett. codd.: klevh~ kleva A; 175,7 ajnavgesqai v: ajnavgetai Aa, om. L l V E; to; de; L l V E, om. Aa;blevpwn me;n A: blevpwn cett. codd. Cou.; 184,4 gegennhsqai A2

l v: gegenhsqai A L M E; 184,10 de; L v E : ga;r Aa l; 185,2 tou-tevstin l v E : te A, tou te L ; 186,22 luvtth~ A2 l: luvph~ A L VE; 188,18: ajnavgkhn cett. codd.: de; ajnavgkhn A (sed de; linea infe-riore notatum), ajnavgkhn de;Aa; 199,27 para; ex emend., ut vid. A:peri; cett. codd.; 200,14 swmatikh`~A2 cett. codd.: swmatikw`~, utvid., A; 241,12 twn A2 cett. codd.: tou` A; 245, 14 tauta; extauto;n A (ut vid.) : tauto;n ut vid. l, tautw L, tau`ta v, tau`t E;256,2 to;n a cett. codd. : tovnde A.

La divisione nelle tre famiglie (L l: i manoscritti laurenziani; ED: i manoscritti parigini; V v: i manoscritti marciani), proposta daCouvreur, deve, tuttavia, essere riesaminata. Innanzitutto ci sembrache si possa dire che la famiglia L l – e non quella di D E, comepensava Couvreur – sia la più vicina ad A. La prova principale ècostituita dal fatto che solo L l, tra gli apografi di A, segnalano,lasciando uno spazio vuoto di circa un foglio, la lacuna che haavuto luogo nel secondo libro (p. 108,1); inoltre, la suddetta lacunaera stata segnalata in A da alcuni versi posti in margine: solo L, aquanto sembra, li ha trascritti.

3.2. Il Laurentianus L è, tra tutti, quello che più ha conservato lepeculiarità delle lezioni di A. Come si è detto, solo L riprende iversi di A che segnalavano la grande lacuna di p. 108,1. SecondoLuna40, invece, prima che A fosse corretto furono eseguite duecopie: esse sono il Marcianus Graecus Z 218 (V per il testo diErmia), di cui parleremo tra breve, e il Laurentianus Conv. Sopp. 78(l per il testo di Ermia). L, pur essendo anch’esso copia diretta di A,sarebbe stato copiato dopo che A fu danneggiato e restaurato41: visi trovano, infatti, i numerosi errori commessi da A2 e da A3 42. Diconseguenza Luna ritiene che il testo di l sia superiore a quello diL. Gli esempi che abbiamo raccolto non ci permettono, tuttavia, diconfermare l’ipotesi della studiosa: vi sono casi, infatti (oltre aquello, di cui abbiamo detto, della presenza in L dei versi che Apossiede in margine), in cui L sembra essere più di l vicino ad A.Ecco una serie di lezioni da intendersi in questo senso: p. 24,3

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ejnantiwtiko;n A L: ejnantiwmatiko;n l V v; 30,16 aijtiva~ l V E,evanidum A, om. vacuum relinquens L; 48,1 teivnwn l V v, teivna~Aa, teivnan L; 50,3 kai; l V E: A evanidum, om. L; 79,20 to; l V E :ta; Aa L; 151,26 aujta; A: aujt\ L, aujto; l v, aujtou` V; 155,13 eij l Vv : a} Aa, o} L; 160,26 alterum tw/ A L : om. l V v; 164,28 dunato;n lV v: duvnatai Aa L; 176,13 ijdewn s. v. A l v: eijdwvlwn A L; 182,18ajnafevrei l V E: ajnafevrw A L; 183,1 memukovta l v : mememukov-ta Aa L, ãsumÃmemukuvta e Platone Cou.; 183,21 kai; ajpo; twn v:kai; ajpo; A L, l non liquet; 185,2 toutevstin l v : te Aa, tou te L;e vari altri casi, che omettiamo per brevità.

Nel Laurenziano l (Conv. Sopp. 78) Ermia è contenuto ai ff. 42r– 134v; i ff. 93v – 94v sono vuoti, lasciati bianchi per segnalare lalacuna, a imitazione di quanto è avvenuto in A. Il commento ècopiato intorno al testo di Platone, che si trova al centro della pagi-na in caratteri molto più grandi. I copisti, a quanto sembra, hannovoluto estendere al Commento al Parmenide la mise en page giàadottata da A per Ermia. Questo manoscritto è copia fedele di Aanteriore al suo danneggiamento. Quindi il suo terminus ante quemè il 1358, quando fu terminato L, che riflette A dopo il danneggia-mento.

3.3. Nel manoscritto Marcianus Graecus Z 218 si trovano gliScholia in Phaedrum, libri I – II (ff. 334r – 453r; il testo si inter-rompe a metà del f. 404v e riprende con il f. 405r: lo spazio lascia-to vuoto è dovuto all’intenzione di indicare la lacuna di p. 108,1-3).Il manoscritto proviene dalla collezione del Bessarione. Il copistaha copiato solo i primi due libri. Arrivato alla fine del secondo(453r), ha lasciato qualche riga e poi ha continuato con Proclo43.

Bessarione fece trascrivere il testo di Ermia nell’attualeMarcianus Graecus 191 (v per Couvreur), ove occupa i ff. 184r –282r. Apparentemente il manoscritto mancherebbe del libro terzodegli scholia, ma in realtà non è così: il testo è completo, ma mancala inscriptio al terzo libro. Di conseguenza il testo di v è, per i libriprimo e secondo, derivato da V, mentre per il terzo libro, che risalead altro esemplare, esso sembra essere più vicino a l.

Il Parisinus Graecus E (come già anche V – e ne vedremo pre-sto il motivo) è confezionato in maniera più ‘moderna’, nel sensoche il copista ha avuto chiara l’idea che gli scoli al Fedro costitui-scono un’opera che ha un suo autore, la quale, pur dipendendo dal

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43 In realtà il testo è completo, ma non è segnata la inscriptio del terzo libro.

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testo di Platone, ha una sua organicità. Pertanto E è l’unico – insie-me a D – che non contiene anche il testo del Fedro, intorno al qualeo dopo il quale i manoscritti più antichi (A, L, l, V) disponevano gliscoli di Ermia. Il manoscritto E neppure segue il criterio di V, emeno che mai quello di altri codici umanistici, come v ed altri, iquali, per procurare maggiore chiarezza al testo di Ermia, amplia-vano i lemmi, sì che il testo del Fedro poteva essere ricostruito, sipuò dire, dai lemmi stessi. In seguito a questo procedimento i copi-sti ricavavano, per il loro manoscritto, da un esemplare del Fedro iltesto, al quale, poi, facevano seguire gli scoli di Ermia, mentre neimanoscritti più antichi gli scoli erano collocati attorno al testo.

Tutto questo, però, non si verifica, in E, per il terzo libro, nelquale gli scoli sono molto più brevi che nei due libri precedenti: essisono, infatti, quasi esclusivamente di carattere lessicale ed esegeti-co nel senso più elementare. Per questo motivo anche E ha sentitoil bisogno di allungare i lemmi del testo platonico, per evitare chegli scoli susseguenti rimanessero poco perspicui – e forse ancheperché nel terzo libro E deriva da v.

Per quanto riguarda la sua collocazione nello stemma, E è stret-tamente unito al Venetus V, dal quale probabilmente dipende, per iprimi due libri; invece per il libro terzo (che in V, come abbiamodetto, manca) E deriva da v. Di conseguenza a noi sembra che E,lungi dall’essere un manoscritto di primaria importanza, come sem-brava a Couvreur, debba essere eliminato.

Affine a E è il Parisinus D (Bibl. Nat. Graecus 1827); D, però,è un manoscritto assai scorretto, per cui Couvreur si servì solo di Enella sua edizione. Tra le caratteristiche che legano D a E si trove-rebbe, secondo l’editore francese, anche il fatto che entrambi que-sti manoscritti conservano alcune lezioni di A: probabilmente, però,essi le ricavano semplicemente da V e v, le cui lezioni erano soloimperfettamente note a Couvreur.

Il manoscritto v (Marcianus Graecus 191) è stato l’origine dinumerosi altri manoscritti del secolo XVI. Ne abbiamo individuatisolo alcuni; per altri ci aiuteranno le ricerche di Lucarini.

Da v è derivato certamente il manoscritto impiegato da Ast(Monacensis 11), che ha ancora l’onore di essere menzionato daCouvreur, ma che è totalmente da eliminare.

Con M ci troviamo ad uno stadio della tradizione manoscrittache è derivato dal Venetus Graecus 191, è molto tardo, ed anche diassai cattiva qualità. Accanto a M si collocano, infatti, derivantiprobabilmente da una fonte comune, alcuni esemplari del XVIsecolo, la cui parentela reciproca era stata sostanzialmente già indi-

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viduata da Couvreur, quali discendenti tutti da v; Couvreur, tutta-via, non aveva spiegato la loro ulteriore parentela con M.

Tra questi manoscritti derivati da v e affini a M indichiamo ilParisinus Graecus 1825 (B) e il Parisinus Graecus 1826 (C).«Pessimus codex mendis refertus» dice Couvreur di B, e «mendo-sissimus» di C – il che è vero. Per questo motivo ci siamo limitatiad una collazione parziale. Da essa si ricava che B e C sono gemel-li e che alcune loro corruttele sono comuni a M come quelle di p.48,13; 48,16; 49,3 Couvreur (e[ti om. M BC).

Tuttavia non tutti gli errori di M si trovano in B e C, come ap. 49,19 wjfevlhtai BC, wjfelei`tai M; 49,31 qevlgei BC, qevleiM; 51,6 ojrivsasqai BC, ojrivzesqai M; 54,29-31 a[llh/ – w/jkeioutoa[llote om. M, non om. BC.

B è stato corretto da una seconda mano, che ha anche supplitoalle sue omissioni (molte di esse sono comuni anche a C), come ap. 48,22 th~ de; – 23 ejpikalei`tai om. BC, add. B2 mg.; 48,28liguvwn: ligguvwn BC, corr. B2 s.v.; 50,27 peri; om. BC, add. in mg.B2; 53,1 peri; de; – 2 ejpiqumiva kai; om. BC, add. in mg. B2; 53,24tou` om. BC, add. B2; pavqou~: pavqa~ (sic) BC, corr. B2.

Aggiungiamo infine, che nella stessa condizione di B e C neiconfronti di M si trova anche l’Escorialensis T-I-8 (sec. XVI), I perCouvreur.

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PROCLI In Platonis Parmenidem = PROCLI In Platonis Parmenidem

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Finito di stampare nel mese di settembre 2011da Edizioni ETS - Pisa

per conto di Edizioni Plus - Pisa University Press

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