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Capitolo 1 Linguaggio e discorso Walter Leszl 1. Lo studio del linguaggio nell'antichità In tutta la storia del pensiero greco e di quello romano, che è larga- mente influenzato dal primo, non si riscontra quasi mai un approccio strettamente linguistico alla realtà del linguaggio. Il massimo di approssi- mazione a una linguistica autonoma si trova realizzato nei relativamente tardi trattati di grammatica, come la "grammatica" attribuita a Dionisio Trace (circa 100 a. C., ma forse l'opera è dovuta a un autore più tardo), il De lingua Latina di Varrone (primo secolo a. C.) e la "sintassi" di Apol- lonio Discolo (secondo secolo d. C.). Ma anche questi trattati rimangono condizionati dagli interessi prevalentemente filologici e letterari dei loro autori o dei predecessori di costoro e continuano a impiegare categorie elaborate dagli stoici con intenti prevalentemente filosofici. In prece- denza neppure si era tentato di offrire trattazioni a sé stanti del linguag- gio o di certi suoi aspetti. Perché si dia una linguistica come disciplina autonoma si deve riuscire a reperire, nell'insieme dei fenomeni che comportano un'espressione lin- guistica, un ambito unitario da studiare indipendentemente da tutte le altre discipline che hanno a che fare con il linguaggio, come la poetica, la retorica, la logica. Vale a dire è necessario arrivare a riconoscere che il linguaggio ha una natura o struttura unica, per quanto complessa e arti- colata possa essere, al di là della diversità dei suoi aspetti o manifestazioni e al di là della varietà delle utilizzazioni alle quali esso si presta (in reto- rica, in letteratura, in filosofia ecc.). Nell'antichità accade che, là dove viene riconosciuta un'unità a fatti o fenomeni in qualche modo linguistici, questa unità di solito comprende di più del linguaggio così concepito, per estendersi agli aspetti logici e psicologici del pensiero; ma comprende pure di meno, perché sono assenti — anche nei trattati sopra ricordati - una semantica e una fonetica propriamente linguistiche e perché non si

Linguaggio e discorso, in (a cura di) M. Vegetti, Introduzione alle culture antiche II: Il sapere degli antichi, ch. 1, Bollati Boringhieri, Torino 1985, pp. 13-44

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Capitolo 1

Linguaggio e discorso

Walter Leszl

1. Lo studio del linguaggio nell'antichità

In tutta la storia del pensiero greco e di quello romano, che è larga-mente influenzato dal primo, non si riscontra quasi mai un approccio strettamente linguistico alla realtà del linguaggio. Il massimo di approssi-mazione a una linguistica autonoma si trova realizzato nei relativamente tardi trattati di grammatica, come la "grammatica" attribuita a Dionisio Trace (circa 100 a. C., ma forse l'opera è dovuta a un autore più tardo), il De lingua Latina di Varrone (primo secolo a. C.) e la "sintassi" di Apol-lonio Discolo (secondo secolo d. C.). Ma anche questi trattati rimangono condizionati dagli interessi prevalentemente filologici e letterari dei loro autori o dei predecessori di costoro e continuano a impiegare categorie elaborate dagli stoici con intenti prevalentemente filosofici. In prece-denza neppure si era tentato di offrire trattazioni a sé stanti del linguag-gio o di certi suoi aspetti.

Perché si dia una linguistica come disciplina autonoma si deve riuscire a reperire, nell'insieme dei fenomeni che comportano un'espressione lin-guistica, un ambito unitario da studiare indipendentemente da tutte le altre discipline che hanno a che fare con il linguaggio, come la poetica, la retorica, la logica. Vale a dire è necessario arrivare a riconoscere che il linguaggio ha una natura o struttura unica, per quanto complessa e arti-colata possa essere, al di là della diversità dei suoi aspetti o manifestazioni e al di là della varietà delle utilizzazioni alle quali esso si presta (in reto-rica, in letteratura, in filosofia ecc.). Nell'antichità accade che, là dove viene riconosciuta un'unità a fatti o fenomeni in qualche modo linguistici, questa unità di solito comprende di più del linguaggio così concepito, per estendersi agli aspetti logici e psicologici del pensiero; ma comprende pure di meno, perché sono assenti — anche nei trattati sopra ricordati -una semantica e una fonetica propriamente linguistiche e perché non si

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tiene conto di quelle operazioni che oggi sono rese dall'idea di "atto linguistico".

Una prima costatazione che si può fare è che la stessa terminologia usata dai greci per rendere l'idea di "linguaggio" esprimeva troppo o troppo poco. Se per esempio si voleva sottolineare l'esistenza di più lin-gue, si usava di solito la parola dialektos o, meno frequentemente, gh5tta. Entrambe queste parole però suggeriscono soprattutto l'idea che è la "parlata", cioè l'espressione linguistica, a essere differente (dialektos può voler dire "conversazione", gl5tta è anche la "lingua" come organo cor-poreo); inoltre mancava una terminologia differenziata per 'lingua" e "dialetto". Se invece si voleva sottolineare il fatto che gli uomini sono forniti di linguaggio e gli animali no, normalmente si usava la parola logos, che però riguarda tutto ciò che ha a che fare con la razionalità (si può tra-durre sia con "discorso" che con "ragione") e non serve in alcun modo a evidenziare la differenza delle lingue.

In realtà alcune indicazioni suggeriscono che l'esistenza di differenti lingue non era un fatto che avesse suscitato una riflessione adeguata da parte dei pensatori greci, tra l'altro perché le lingue dei popoli non greci (dei "barbari") non erano giudicate degne di studio attento (per questo pregiudizio vedi Lanza, 1979, pp. 27-31). Considerando appunto la diffe-renza delle lingue più che altro come differenza di "parlata", i pensatori greci riducevano le altre lingue a varianti devianti di quella greca. Questo loro "monolinguismo" riflette pure una propensione, anche metafisica, ad ammettere un logos universale e oggettivo, che non può non spec-chiarsi nei differenti linguaggi (se linguaggi sono). Il linguaggio comporta una certa — seppure non necessariamente perfetta — consapevolezza di tale logos, consapevolezza di cui sono capaci solo gli uomini (il pappa-gallo per gli stoici non ha linguaggio, perché imita la voce umana senza intelligenza) e che è anzi quanto li unisce.

Il rapporto tra la dimensione "intelligibile" o "razionale" del linguag-gio, quella cioè resa dalla parola logos, e la sua dimensione "fisica", cioè fonetica, è discusso soprattutto a proposito della connessione esistente fra il significato di un nome o di una parola (onoma, termine che può avere entrambi i sensi) e il suo suono (pbEmi). In Platone la natura di tale rapporto rimane molto problematica, ma egli riconosce che almeno in parte i suoni non hanno una connessione così stretta, con i significati ad essi usualmente associati, da non poter essere facilmente sostituiti da altri suoni (Crat. 434e sgg.; Epist. 7, 343 ab). Per Aristotele, che è un convenzionalista, si può distinguere nettamente fra il logos e la ph5ng (Probi. phys. 10,39-40): la loro connessione infatti è accidentale (Sens. 1, 437 a 12-15), sebbene il primo sia come la forma e l'altro come la ma-teria della parola (Gen. anim. 5,7, 786 b 19-22). Una conseguenza di

IS Linguaggio e discorso

questa posizione è che da un lato lo studio della pb5né delle parole viene assegnato alla "metrica" (Poet. 20; Pan. anim. 2,16, 660 a 2-8), dunque a una disciplina essenzialmente non linguistica, e dall'altro che Aristotele dà poca importanza alla ricerca etimologica. Gli stoici — o alcuni di essi -sono indotti invece a collocare buona parte dei loro contributi allo stu-dio del linguaggio nei capitoli peri pb5nés dei loro trattati dialettici (vedi Diog. Laert. 7,55 e 7,62) per via della loro insistenza sulla "naturalezza" del linguaggio anche nel suo aspetto fonetico; ma questo vuol dire il ten-tativo di elaborare una "etimologia scientifica" (prendendo sul serio la sezione etimologica presente nel Cratilo di Platone), ma non una fonetica.

Per i pensatori greci in genere esiste una connessione stretta fra linguag-gio — almeno nella dimensione del logos — e pensiero (noisis, dianoia ecc.): essi tendono a vedere nel linguaggio (effettivamente espresso) nient'altro che la manifestazione esteriore del pensiero, che a sua volta è visto come nient'altro che un (o il) logos interiore, non espresso. Una tale posizione è presente, in forma solo implicita ma chiara, già in Parmenide (28 13 6,1, 8,8, 8,17 e 8,50 DK; vedi. Hoffmann, 1925, p. 11). Quanto a Platone, questi afferma espressamente l'identità o coincidenza di logos e

dianoia, quest'ultima essenciò per lui un discorso o dialogo silenzioso che l'anima conduce con sé stessa (Tbeaet. 189e - 190a; Soph. 263e). La stessa concezione ricorre in Aristotele, che, oltre a fare del linguaggio un rispecchiamento del pensiero (Interpr. 1), concepisce la distinzione fra i due termini come una distinzione fra discorso esteriore (exà logos) e discorso interiore (es5 logos) (APost. 1,10, 76 b 24 sgg.). Quest'ultima distinzione rimane acquisita nella cultura dei secoli successivi.

Esiste un'identità di struttura non solo fra linguaggio e pensiero, ma anche fra pensiero e realtà (almeno limitatamente all'aspetto intelligibile di quest'ultima). Si fa dipendere il linguaggio dal pensiero e questo dalla realtà, ammettendo che il primo è una copia o immagine puntuale del se-condo e il secondo una copia della terza. Così per Platone (Tbeaet. 206 d) il logos espresso è come uno "specchio" o riflesso della dianoia, che a sua volta è, direttamente o indirettamente, una copia della realtà intelligibile (vedi per esempio Tini. 29b-d; Criti. 107 b sgg.). Secondo Aristotele, come il linguaggio scritto è una riproduzione puntuale di quello orale, quest'ul-timo riproduce le "affezioni" dell'anima (dunque il pensiero) che sono a loro volta "imitazioni" della realtà extrapsichica (Interpr. 1).

Questa concezione dei rapporti fra linguaggio e pensiero non ha la con- seguenza (che ci si potrebbe aspettare) del predominio di un approccio psicologistico ai problemi della linguistica e della logica. Non sono in ef- fetti gli aspetti propriamente psicologici del pensiero quelli ai quali viene data importanza, ma al contrario, per il fatto stesso di concepire il pen-siero come "discorso" o dialogo, se ne privilegiano quegli aspetti logici

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e concettuali che interessano alla dialettica o anche alla retorica, finendo col fare di esso nient'altro che un linguaggio inespresso (si noti per esem-pio come Platone, in Phil. 38e- 39a, paragoni l'anima a un libro nel quale si iscrivono i discorsi). Questo atteggiamento si traduce nell'ammissione che certe proprietà, in qualche modo di ordine logico, come quella di essere vero o falso, sono comuni al linguaggio e al pensiero (vedi per esem-pio Plat. Soph. 2646).

Dal nostro punto di vista si tratta quindi di una prospettiva che tende a proiettare le strutture linguistiche nel pensiero e di lì nella realtà stessa. Basti ricordare che anche quegli autori che non riconoscevano l'esistenza, postulata da Platone, di una realtà intelligibile (dunque traducibile in lin-guaggio) separata da quella fisica, ammettevano pur sempre la presenza di un logos o pensiero (razionale) in tutta la realtà, attribuendo ad esso un ruolo dominante (questo vale per Eraclito, Anassagora, Diogene di Apollonia — al quale poi pare richiamarsi il divulgatore Senofonte in Mem. 1,4 —, l'ippocratico autore dello scritto Sul regime, gli stoici e altri ancora). Quando non sia concepita come costituita da caratteri matema-tici (come era in effetti per i pitagorici e, in qualche misura, per Platone), la realtà fisica è concepita come costituita da caratteri linguistici. Questo è mostrato anche dal fatto che autori come Democrito (anche se forse ancora in forma ante litteram; vedi Leuc. 67 A 9 DK) e come Platone (Tim. 48b) estendono alla realtà fisica il paradigma della composizione delle parole mediante lettere ("elementi"). A questo proposito va ricor-dato pure che certi metodi di conoscenza, come quello della classifica-zione dicotomica (in auge nell'Academia platonica), derivavano, almeno in parte, la loro struttura da procedimenti di tipo discorsivo, in partico-lare dialettici, che richiedevano la posizione di alternative nette (l'affinità fra il classificare le cose e la disputa dialettica era suggerita dalla stessa parola dialeghestbai: vedi Xenoph. Mem. 4,5,12).

Tipico di questo approccio ai fatti linguistici è che, anche quando non si disconosce il fatto che il linguaggio serve per la comunicazione inter-umana, se ne fa dipendere la possibilità unicamente (o quasi) dal riferi-mento a oggetti identici per tutti: il linguaggio è un mezzo per mettersi in rapporto con le cose (extralinguistiche) e solo per via di tale rapporto gli uomini riescono a comunicare fra loro. Questo presupposto è alla base dell'affermazione fatta da Gorgia nello scritto Sul non-essere (85), se-condo cui è ciò che è esterno (to ektos) a "rivelare" il logos, cioè a dare senso alle parole, e non viceversa. È pure significativo che Platone (Crat. 387c) dia per scontato che l'usare il linguaggio (to leghein) è un'attività (praxis tis) consistente nel mettersi in rapporto con le cose (peri ta pragmata). Anche quanto dice Aristotele sul linguaggio si comprende solo in questa luce.

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L'esistenza di funzioni linguistiche come quella del comandare, dell'in-vocare, del fare promesse, del persuadere in genere, non è invero ignorata. Un interesse per la distinzione di diversi tipi di enunciati sulla base delle funzioni esercitate è già presente in Protagora: secondo Diogene Laerzio (9,53) egli avrebbe distinto quattro tipi di discorso (preghiera, domanda, risposta, ingiunzione), mentre altri dopo di lui avrebbero introdotto classi-ficazioni differenti. Aristotele opera espressamente una distinzione netta fra enunciati dichiarativi ("apofantici"), che comportano un valore-verità, ed enunciati come la preghiera che non sono né veri né falsi (Interpr. 4, 17 a 2-4). Un'analoga distinzione è fatta dagli stoici (Diog. Laert. 7,65-66), che separano il giudizio (axitinza) dagli altri tipi di enunciati.

È pure riconosciuta l'importanza che le funzioni non descrittive o non dichiarative del linguaggio hanno per usi come quello retorico (vedi per esempio Aristot. Interpr. 4, 17 a 4-7). Tuttavia anche queste funzioni vengono ricondotte alla funzione rappresentativa del reale come princi-pale funzione del linguaggio, e questo perché le si fanno dipendere dal suo carattere in qualche modo "pittorico" (anche un quadro può provo-care reazioni emozionali, che sono quelle che darebbero origine a quelle funzioni) oppure perché si proiettano nella realtà rapporti che tali fun-zioni linguistiche si limiterebbero a riprodurre. Si reperiscono rapporti causali comuni alle cose e alle parole (una tesi rilevante per la teoria della retorica, come vedremo) oppure altre affinità. Così nella prospettiva di Empedocle esiste, fra i quattro elementi cosmici, come un "giura-mento" che esclude il predominio definitivo dell'uno sugli altri (31 B 30 e 115 DIO, e in quella di Platone l'intelligenza (non umana) esercita come una "persuasione" nei confronti della "necessità" che predomina nel mondo naturale (Tim. 48a). Inoltre sia in Platone che in Aristotele si trova la tesi che la parte superiore dell'anima esercita una funzione di comando nei confronti di quelle inferiori (vedi per esempio Plat. Resp. 4,15, 440d; Tirn. 70ab; Aristot. Eth. Nic. 1,13, 1102 b 13 sgg.).

2. 1l dibattito sul linguaggio

Mancando il riconoscimento di una genuina autonomia del linguaggio, c'è il pericolo di doverne affermare la superfluità (e adottare la pratica dei dotti della swiftiana Accademia di Lagado). In effetti, in Platone almeno, si trova dichiarata (per esempio in Crat. 438e sgg.) la desidera-bilità di una conoscenza della realtà (quella ideale) che prescinda total-mente dal linguaggio. Tuttavia egli pare piuttosto voler sostenere (Crat. 425 cd; la stessa idea probabilmente sta alla base di quanto è detto della "seconda navigazione" in.Phaed. 99d sgg.) che, seppure a titolo di espe-

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diente faute de mieux, la necessità del linguaggio deve essere riconosciuta. La questione dell'indispensabilità del linguaggio pare essere sollevata da Aristotele nella Poetica (19, 1456 b 7-8, purtroppo di incerta lettura), che risponde così: se le cose (pragmata) fossero evidenti (ei pbanoito) non ci sarebbe bisogno del linguaggio; dunque è il fatto che non lo sono (o non lo sono sempre) a rendere il linguaggio indispensabile. Probabil-mente la stessa idea è presente nell'asserzione aristotelica (Metapb. 7,15, 1040 a 2-6) secondo cui noi conserviamo nell'anima descrizioni o desi-gnazioni linguistiche (logoi) delle cose sensibili che, per il fatto di essere transitorie, diventano non evidenti (ailla). Tale capacità di "rendere ma-nifeste agli occhi della mente" realtà "non evidenti" mediante "opinioni" (linguisticamente espresse) è considerata pure da Gorgia (Hel. 13) come uno degli esempi della "forza del logos". Si può aggiungere che per Ari-stotele, come per altri autori, il linguaggio è fatto di segni (simeia oppure symbola, vedi Interpr. I e 3), e i segni, che sono sempre segni di qual-cos'altro, possono esserlo di realtà non evidenti o non accessibili a noi (vedi APr. . 2,27, specialmente 70 b 6 sgg.; per la posizione degli stoici vedi soprattutto Sext. Adv. mal,. 8,141 sgg.). Si ha l'impressione che l'aspetto della non-evidenza non sia nettamente tenuto distinto da quello dell'universalità dei termini linguistici che ne garantisce l'applicazione a più individui (e-dunque a quelli non accessibili); alle volte però si riscon-tra la tesi che l'universalità è un fatto inerente all'uso di segni linguistici che permette di evitare la dispersione nell'infinita molteplicità delle cose o di fatti singoli (questa è presumibilmente la posizione degli stoici, anti-cipata da Aristotele in Soph. el. 1).

Un altro aspetto dell'indispensabilità del linguaggio viene sottolineato particolarmente da Aristotele nella Politica (1,2, 1253 a 7-18): mentre la voce di cui sono forniti gli animali (pb5iJ, o voce inarticolata) è suffi-ciente per "segnalare" ad altri individui le sensazioni di piacere e di do-lore, è solo mediante il linguaggio (logos) che è possibile — e soltanto agli uomini — comunicare agli altri la propria percezione del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto, insomma dei valori, e in tal modo costituire una comunità politica fondata su leggi e altre norme. (Assieme a questo passo meriterebbe di essere citato per esteso e commentato quello più lungo, e molto suggestivo, di lsocrate, Nicocl. 5-9, sul logos come fondamento della civiltà in tutti i suoi aspetti.) Ma come già rilevava Platone (Phaedr. 263a sgg.; Eutbyphr. 7 a sgg.), i termini indicami i valori sono appunto quelli circa i quali più facilmente c'è differenza di opinione fra gli uo-mini, mentre non sorge disputa per quanto è evidente ai sensi (per esem-pio che il ferro sia ferro). Non è peraltro chiaro se la dipendenza dei valori dal linguaggio riconosciuta in questo modo sia fatta risiedere in una loro mancanza di evidenza.

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Nel pensiero greco è pure presente la tendenza, opposta a quella con-siderata, ad ammettere che la conoscenza di certi fatti linguistici (in par-ticolare del significato delle parole) costituisce o implica già di per sé la conoscenza (l'unica possibile) della realtà. Questa tesi viene discussa da Platone nel Cratilo (435d sgg.), in stretta connessione con quella dell'im-possibilità dell'errore nell'ambito del discorso. Si tratta di una conce-zione immanentista del linguaggio, già sviluppata da alcuni sofisti (una posizione del genere è introdotta, e invero ridotta all'assurdo, da Gorgia nel suo scritto Sul non-essere) e anche da altri pensatori. In effetti, sia che del linguaggio si faccia uno specchio fedele della realtà (almeno di quella intelligibile), sia che esso sia visto come una realtà in sé stessa com-pleta e intrascendibile (che non lascia altro fuori di sé), la conseguenza è sempre quella di escludere la possibilità che il linguaggio si distacchi dalla realtà e abbia funzioni o caratteristiche sue proprie. In questo modo si elimina ogni spazio per quei fatti o quelle attività — dire il falso o in-gannare, creare finzioni, esercitare la persuasione indipendentemente dai fatti, usare procedimenti (deduttivi ecc.) validi anche se non rispecchiano dati oggettivi — che richiedono appunto che ìl linguaggio non coincida immediatamente con la realtà, ma operi secondo regole sue proprie. Que-sto tipo di conseguenza non è sempre parso così assurdo da essere respinto totalmente da tutti i filosofi antichi.

Gran parte del dibattito filosofico di allora si concentrava sulla que-stione se sia proprio del linguaggio, in quanto logos, poter dare luogo a falsità, permettere di dire le cose ma non come stanno. Che ci sia questa possibilità è contestabile in due modi, ed entrambi paiono essere stati presi in considerazione da dei pensatoti greci. 1) Si ammette che la falsità è bensì un fatto, ma un fatto in qualche modo extralinguistico: il lin-guaggio genuinamente tale non può falsare la realtà. Tutto ciò che, nel dire effettivo degli uomini, ha a che fare con la falsità costituisce come una caricatura del linguaggio, è uno pseudolinguaggio. 2) Si esclude la possibilità stessa della falsità, vale a dire si afferma che i cosiddetti "di- scorsi falsi" sono bensì discorsi (logoi) e fanno dunque senz'altro parte del linguaggio, ma, per questo fatto stesso, sono chiamati a quel modo per sbaglio. Questa seconda posizione è evidentemente come un rovescia-mento della prima: per entrambe c'è coincidenza fra discorso significante e verità; ma la prima riduce il discorso significante a quello che risulta essere vero, mentre l'altra esclude tale restrizione e fa di ogni discorso un discorso che, per essere significante, non può non essere vero.

La prima posizione rappresenta perlomeno una linea di tendenza, riscontrabile in certi pensatori, che è suggerita dal fare coincidere linguag- gio e logos: deviare dalla realtà (essa stessa logos) è un fatto irrazionale e pertanto non fa parte del linguaggio. La posizione di Parmenide, se

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comporta (come credo che si possa sostenere) la non-dicibilità, e non-pensabilità, non solo del non-essere (28 B 2, 6 e 8,8-9 DK) ma di tutto quanto ha a che fare con esso, dunque tutto ciò che comporta pluralità e transitorietà, viene a ridurre a denominazioni spurie, a meri onomata (B 8,38), dunque a uno stravolgimento del linguaggio, le denominazioni che i "mortali" compiono pretendendo di parlare di cose di tal fatta. Linguaggio dunque sarà solo quello che riesce a designare o rappresen-tare l'essere (nella sua unità e immutabilità). Tracce di tale prospettiva sono riscontrabili ancora negli stoici, per i quali non solo le espressioni vocali di animali come il pappagallo ma anche quelle dei bambini (fino ai quattordici anni) non sono linguaggio perché non sono accompagnate da intelligenza: si tratta di un "come se (fosse) linguaggio" (vedi Varr. Ling. Lat. 6,56).

La seconda posizione è quella di autori come Antistene, che contesta-vano non solo la possibilità di dire il falso ma anche quella di contraddirsi. La possibilità di dire il falso è contestata (già da alcuni sofisti, come sug-gerisce Platone nell'Eutidemo), perché dire il falso è "dire quello che non è", e questo non è possibile, giacché il dire non può essere che un "dire qualcosa", la quale cosa sarà qualcòsa che è (se no sarebbe un nulla e non qualcosa). Il contraddirsi, cioè il fare affermazioni contraddittorie a pro-posito della stessa cosa, è impossibile in quanto, se due interlocutori par-

lano della stessa cosa, non possono che dire la stessa cosa, mentre se dicono cose differenti, questo avviene appunto perché non parlano della stessa cosa (Antisth. fr. 47 A, B Decleva). Come si può notare, l'impossi-bilità così affermata risiede in gran parte nel fatto che si fa di ogni "dire" un "dire qualcosa" che è un'unica cosa (oltre a essere una cosa che è), in base alla convinzione che l'unità del dire comporta un'unità di ciò che è detto. Ne segue pure (come sostiene lo stesso Antistene, fr. 44 A, B Decl.) l'impossibilità di offrire una definizione (per esempio precisando il genere e la differenza specifica) di una cosa, in quanto la complessità della defi-nizione non corrisponde all'unità della cosa definita.

Platone e Aristotele polemizzano con questa posizione, cercando di mostrare che è possibile un dire "composito" che non escluda l'unità del dire stesso e della cosa (reale) detta. Questo vale sia per il caso del dare una definizione che in quello del fare affermazioni (o negazioni). In quest'ultimo caso si tratta sempre di un "dire qualcosa di qualcos'altro" (ti kata tinos, nella formulazione aristotelica), dunque di istituire un rap- porto fra due termini, che però è un rapporto di unità (il predicato nor-malmente designa qualcosa di non isolabile dal soggetto). Questo significa che il rapporto introdotto sul piano linguistico può non corrispondere a quello esistente nella realtà. Così è possibile sia dire le cose come non

sono (il che non equivale a dire che non sono) sia contraddirsi, perché è

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possibile affermare e negare lo stesso rapporto. (L'analisi delle proposi-zioni in soggetto e predicato, ovvero in "nome" e "verbo", è introdotta da Platone in Sopb. 261e sgg.; la teoria della verità come corrispondenza è espressamente enunciata da Aristotele in testi come Metapb. 6,4 e 9,10.) In questo modo si cerca, separando significato e verità, di mostrare che la falsità è possibile ed è possibile come parte del linguaggio. Un tale tenta-tivo comporta il riconoscimento di una certa autonomia del linguaggio, pur nell'insistenza sulla necessità che esso sia riferito a qualcosa di extra-linguistico. Peraltro è evidente che i problemi posti da tesi come quelle di Antistene non sono, per Platone e per Aristotele, problemi da poco, il che dipende dal fatto che essi non hanno abbandonato completamente quei presupposti sulla natura del linguaggio che vi danno origine, e che hanno tutti a che fare con l'idea che esso deve in qualche modo aderire alle cose perché di queste si possa parlare.

Il massimo che si può trovare quanto ad affermazione dell'autonomia del linguaggio è un'osservazione di Aristotele (Sopb. el. 1, 165 a 4 sgg.) riprendente un commento di Platone (Crac. 432e: le parole non hanno sempre o completamente le stesse proprietà delle cose di cui sono i segni). Secondo Aristotele, dunque, non è giusto ritenere che quanto vale per i nomi valga ugualmente per gli oggetti ("come avviene a coloro che fanno calcoli usando ciottoli"), dal momento che è limitato sia il numero dei nomi sia la quantità dei discorsi, mentre gli oggetti sono numericamente infiniti, per cui "è necessario che un medesimo discorso esprima parecchie cose e che un unico nome indichi più oggetti" (le fallacie sofistiche dipen-derebbero in gran parte appunto dalla mancata distinzione dei due piani). È importante, in questa osservazione, che Aristotele chiami symbola i segni linguistici (Sopb. el. 1, 165 a 8; vedi anche Interpr. 1, 16 a 4). Sym-bolon vuol dire "pegno", "contrassegno", "indice". Un oggetto dato o ri-cevuto in dono può essere il "simbolo" dell'amicizia fra due persone. Fra tale oggetto e ciò che costituisce l'amicizia (certi sentimenti ecc.) non deve darsi né identità di natura né un rapporto di causalità (o comunque una connessione naturale), nonostante che esso certamente sia un segno di amicizia. Dunque il linguaggio è costituito da segni delle cose (pragmata), segni che non hanno necessariamente caratteristiche in comune con esse o che ne derivino in qualche modo. Tuttavia da questo passo non si può desumere molto di positivo sulla natura di questi segni ovvero sulle loro funzioni (e la spiegazione delle fallacie sofistiche rimane troppo generica per chiarire come si formino e vadano combattute); e il passo ben noto di Interpr. 1 tende pur sempre a suggerire l'esistenza di una connessione uno a uno fra i segni linguistici e gli oggetti di cui sono i segni.

In una prospettiva come quella adottata da Platone e Aristotele l'indi-spensabilità del linguaggio è riconosciuta, ma le ragioni di tale indispensa-

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bilità si riconducono in sostanza al fatto che non è possibile all'uomo tro-varsi sempre in presenza costante di ciò che vi è di intelligibile nella realtà: sono dunque ragioni che riflettono la costatazione di una sua condizione di difetto rispetto a quella (ideale) della piena razionalità. È pure ricono-sciuto che il linguaggio si presta a dare luogo alla falsità, all'errore, all'illu-sione, ma anche questi fatti sono visti come deviazioni da quel rapporto di totale congruenza fra linguaggio e realtà che è, di nuovo, la condizione di piena razionalità. Ogni teoria complessiva della natura del linguaggio elaborata da questo punto di vista rifletterà quindi la doppia preoccupa-zione di giustificare a) la possibilità che il linguaggio sia una riproduzione della realtà, b) la possibilità che tale riproduzione non sia sempre fedele, ma qualche volta sia invece distorta, ingannevole.

In effetti, a questo proposito, più che di vere e proprie teorie del lin-guaggio, si può parlare di immagini o analogie offerte da certi autori per chiarirne la natura. Una delle più importanti, oltre che più correnti, è quella tra linguaggio e pittura. Già presente in Simonide limitatamente alla poesia (test. 1 Lanata: "Simonide definisce la pittura poesia silen-ziosa, la poesia pittura parlante"), l'analogia viene estesa alla retorica da

Gorgia (Hel. 18) e, almeno implicitamente, da Senofonte (Mem. 3,10).

In Platone essa è piuttosto frequente, seppure non sempre in forma gene-rale (come in Crat. 424d, 429a, 430d, 434b, e in Criti. 1076 sgg.). A volte l'immagine serviva, più che per illustrare la natura del linguaggio in ogni suo aspetto, per chiarire quella del linguaggio scritto in opposizione al linguaggio orale: così è nello stesso Platone (Pbaedr. 275 d) e in Alci-

damante che nel suo discorso (scritto) Contro gli autori di discorsi scritti (28) sostiene che, mentre la parola orale è dotata di vita e di anima, quella scritta è solo un'immagine o imitazione o raffigurazione dell'unico

logos genuino, cioè appunto quello orale. Questo fatto suggerisce che, là dove il linguaggio è paragonato nella sua generalità alla pittura, è per una certa assimilazione (intenzionale o meno) di quello orale a quello scritto.

La pittura, come analogatum del linguaggio (e lo è sia come opera pit- ' torica sia come attività che la produce), risponde ai requisiti prima men-

zionati• essa consiste infatti nel mettere insieme certi "elementi", come i colori, che coincidono con qualcosa (o hanno un corrispettivo esatto) nella realtà da riprodurre, ma questi elementi essa può metterli insieme sia in modo da riprodurre fedelmente la realtà sia in modo da comporre un'immagine distorta (questa idea, che pare anticipata da Empedocle in

31 B 23 DK, è presente in diversi passi platonici: vedi Crat. 424d, 434 ab;

Pol. 277 bc; Sopb. 234a sgg.). Un'altra analogia non infrequente è con la

musica (vedi per esempio Crat. 424 bc) e il suo significato non cambia molto rispetto alla prima. Come si può notare, sia alla pittura che alla musica è attribuito un valore paradigmatico perché i quadri e i pezzi di

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musica sono visti come "composizioni" di "elementi" nei quali riman-gono (almeno concettualmente) scomponibili; eppure questa idea di "composizione" e di "analisi" trova la sua migliore applicazione proprio nel linguaggio, cioè nella composizione e scomposizione delle parole in lettere (e in greco viene utilizzato correntemente lo stesso termine, stai-

cheia, per indicare le lettere e gli "elementi" in genere). Vedremo che questa osservazione è di grande momento per tutta la teorizzazione an-tica sul linguaggio e sulle arti del discorso.

3. Le arti del discorso: la retorica

Analogie come quella con la pittura sono importanti per la trattazione di quei tipi di discorso non (strettamente) logico oppure scientifico o comunque fattuale, che esercitano però un'influenza emotiva sull'uomo, in particolare il discorso retorico e quello poetico. Inizialmente queste due forme di discorso non erano discusse separatamente e ancora Gorgia (Hel. 9) sosteneva che l'unica differenza fra essi è che il discorso poetico comporta l'uso del metro. Tuttavia almeno a partire da Platone la pro-blematica della poetica sarà tenuta distinta da quella della retorica e ad Aristotele (Rhet. 3,1, 1404 a 26 sgg.) la posizione di Gorgia apparirà mo-strare un'assimilazione della prosa alla poesia. Qui mi limiterò a conside-rare la teorizzazione della retorica, chiamando in causa la poetica solo nei casi in cui ciò è rilevante per la prima.

L'osservazione che sia il discorso poetico sia quello retorico esercitano un'azione sulla psiche umana — un'azione che va oltre quella dovuta a una semplice trasmissione di informazioni o cognizioni e che introduce modifiche nella sua condizione affettiva, dunque un'azione che viene chiamata "psicagogica" — viene fatta abbastanza presto e diventa un luogo comune. Questo è mostrato dai riferimenti alla "psicagogia" per esempio in Senofonte (Mem. 3,10) a proposito della pittura, con evidente allusione alla poesia e alla retorica (vedi Lanata, 1963, pp. 288 sgg.); in Platone (Phaedr. 271 c sgg.) a proposito della retorica; in Aristotele (Poet. 6, 1450 a 33-35) a proposito della tragedia. E se il termine "psicagogia" non è usato espressamente da Gorgia, il cui riconoscimento di tale azione non ha bisogno di essere sottolineato (vedi per esempio Hel. 10 e 14), esso è però usato dal suo continuatore Isocrate (Evag. 10).

Peraltro il fatto che il riconoscimento di quest'azione esercitata dal linguaggio, o almeno dal linguaggio della poetica e della retorica, avvenga spesso in associazione con l'uso dell'analogia con la pittura (rilevante, oltre a certi passi citati, Plat. Resp. 10,5, 603a sgg.) suggerisce che si su-bordina l'azione alla funzione rappresentativa del linguaggio. Questa con-

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elusione è suggerita pure da una tesi piuttosto singolare (almeno per noi) ma assai corrente almeno fino al tempo di Platone, vale a dire l'asserzione del carattere ingannevole della poesia e della retorica. Che queste siano un inganno (apat) è affermato da Empedocle (31 B 23 DK, con riferimento espresso, ma certo non esclusivo, alla pittura) e da Gorgia (Hel. 8 e 10, con riferimento soprattutto alla retorica), il quale parla anche di "errore" (hamartEnza, 10) e di "discorsi menzogneri" (11). Da parte sua l'autore dei Dissoi logoi osserva che nella tragedia e nella pittura il più bravo è chi inganna di più (1,3,10) e che "i poeti compongono le loro opere in vista non della verità, ma del piacere degli ascoltatori" (2,3,10). L'inganno qui risiede, come dice espressamente l'autore, nel rendere (le cose che si di-cono) verisimili (homoia tois alEtbinois), dunque nel farle sembrare vere, mentre ovviamente non lo sono. Questa idea della poesia e della retorica come inganno è poi quella che suscita la loro condanna da parte di Platone (questi menziona rapati in retorica in Pbaedr. 261 e e 263 b), mentre in fondo suscitava un certo compiacimento da parte degli altri autori, che vedevano in questa capacità una prova della forza della parola (come risulta da Gorg. Hel. 8 e passim). Anche questa tesi, come si vede, si fonda sul presupposto della rappresentatività del linguaggio, che ottiene il suo effetto d'inganno offrendo rappresentazioni false o distorte della realtà.

Una tesi alquanto prossima a questa consiste nel dire, soprattutto con riferimento alla retorica, che il discorso è limitato all'eikos (il plausibile e verisimile) e all'opinione (doxa), in contrapposizione con ciò che è leal-mente tale (ont5s) ovvero alla verità (alétheia). La tesi, formulata con chiarezza dal retore Antifonte (Tetr. A P 10 e passim), è ripresa, per essere criticata, da Platone nel Fedro (272d sgg.), dove evidentemente è dato per scontato che si trattava di una tesi corrente. Questa tesi, come le precedenti, mostra che dell'azione della parola si rende conto prima-riamente al livello conoscitivo (il che può avere a che fare con l'intellet-tualismo" greco predominante in etica e psicologia), suggerendo che tale azione è possibile anche là dove la parola si distacca dalla realtà per il fatto che viene riconosciuta per buona la pretesa di offrire, mediante essa, una rappresentazione fedele della realtà.

Tuttavia in sede di teorizzazione della retorica emerge pure un'analisi dell'operare della parola (o del discorso) che è in parte autonoma rispetto alla teorizzazione precedente e che concerne più direttamente la sua fun- zione "psicagogica". Tale analisi risulta importante per giustificare la pre-tesa stessa della retorica (fatta valere per essa inizialmente dai sofisti) di essere una disciplina o competenza o arte (techni) che comporta un con-trollo consapevole sui mezzi adatti a ottenere il fine che ci si propone, dunque la persuasione, e che pertanto si fonda su una capacità o attitu-dine suscettibile di essere perlomeno migliorata con l'esercizio e lo studio,

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specie se condotto sotto la direzione di un buon maestro (i sofisti pre-tendono appunto di essere maestri di retorica). Ora si riconosceva che tale controllo non può consistere soltanto nell'usare e plasmare gli stru-menti offerti dal linguaggio in modo da riuscire a fornire una rappresen-tazione "verisimile" e persuasiva delle cose, ma anche nel riuscire a eser-citare per mezzo di essi un'influenza in qualche modo causale sulla psiche dell'uditorio (così da rafforzare l'effetto ottenuto al livello intellettuale).

La teoria della retorica che viene così elaborata può essere esposta (con notevoli semplificazioni) come segue: la capacità di esercitare la per-suasione dipende largamente dalla capacità di individuare nel linguaggio e nella psiche umana gli elementi o fattori la cui interazione dà luogo alla persuasione (come stato psicologico), dunque elementi linguistici che siano fattori (attivi) di persuasione ed elementi psichici che reagiscano all'azione dei primi come fattori di "persuadibilità" della psiche stessa. I primi elementi includono tutte le forme di discorso, comprese le argo-mentazioni, che servono appunto a ottenere quell'effetto; i secondi sono tutte quelle "affezioni" — non solo gli impulsi o "passioni", ma anche le disposizioni, come l'intelligenza e la prudenza e le virtù morali — che en-trano in gioco quando qualcuno si lascia persuadere da un'altra persona. Venivano infatti individuati nella psiche umana — per analogia con gli elementi qualitativi individuati nel cosmo dai presocratici e dai medici, come "il caldo", "il freddo", "l'umido", "l'asciutto" — "elementi" come "il prudente", "il coraggioso", "il fiero" (in greco l'aggettivo neutro sostantivato mediante l'articolo permette di isolare un fattore che si sup-pone stia alla base sia della virtù o disposizione posseduta sia della condi-zione in cui ci si trova nell'essere coraggioso, prudente ecc.). Tale analisi, va notato, concerne indifferentemente gli aspetti intellettuali e quelli non intellettuali della persuasione retorica e ricorre a un'idea di interazione che è più dialettica che causale nel nostro senso della parola (ma tale è anche se applicata agli elementi fisici), é certamente non ha molto a che fare con una teoria degli atti linguistici.

L'analogia che viene fatta valere, già da Gorgia (Hel. 14), per l'arte re-torica nel suo complesso è con l'arte medica: l'effetto della parola sulla psiche è simile a quello del farmaco sul corpo, e come l'effetto del far- maco è calcolabile o prevedibile (se non lo fosse non ci sarebbe arte me-dica), cosi lo è l'effetto della parola. Ora (sempre secondo la teoria medica del tempo) i farmaci agiscono perché i loro costituenti hanno certi rap- porti (solitamente di somiglianza o affinità e/o di opposizione) con i co-stituenti corrispondenti che si trovano nel corpo umano, di modo che l'assimilazione di uno o più di tali costituenti ha l'effetto di rafforzare oppure indebolire i costituenti corporei ad essi uguali o simili (oppure i loro contrari) e quindi di alterarne il rapporto complessivo, favorendo

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(od ostacolando) il ristabilimento di quella condizione di equilibrio che è la salute. In maniera analoga agiscono gli "elementi" del discorso sulla psiche umana, dando luogo a quei mutamenti nella sua condizione che si hanno nel passare da un'opinione a un'altra e nell'operare di conseguenza. (Fino a che punto tale azione fosse razionalizzabile e controllabile era sicuramente un punto assai dibattuto; lo stesso Gorgia continua a parlare di un potere magico della parola in Nel. 10.)

Per Platone l'arte retorica di un Gorgia non è un arte genuina come la medicina, ma una pseudoarte, una sua contraffazione, come lo è la culi-naria. Questa sua valutazione della retorica (introdotta non a caso nel dialogo intitolato Gorgia) non comporta un sostanziale mutamento nella teoria dell'azione persuasiva della parola: i cibi elaborati dalla culinaria agiscono allo stesso modo di quelli elaborati dalla dietetica, dunque dalla medicina, solo che sono dannosi. L'analogia fra la persuasione esercitata dal retore e l'azione del medico viene quindi contestata per il fatto che l'arte medica, per essere tale, non può che avere un fine buono o positivo (il ristabilimento della salute) e lo ottiene con l'accettazione della verità, anche quando questa sia sgradevole al paziente (può essere necessario assorbire una medicina amara o peggio); la persuasione retorica non sod-disfa a questi requisiti della vera tecimi ma va incontro ai pregiudizi e ai desideri più edonistici di chi si lascia persuadere. La polemica di Platone si svolge anche sul piano più propriamente epistemologico: chi esercita la persuasione limitatamente all'ambito del verisimile (eikos) deve cono-scere anche il vero, per non confondere i due termini; ma allora il suo co-municare il verisimile anziché il vero è una perversione dell'arte e non arte esso stesso.

Nel Fedra c'è un'attenuazione della posizione del Gorgia, in quanto Platone prospetta l'esistenza di una retorica buona o positiva, che sa uti-lizzare l'influsso della parola per avvicinarsi alla virtù e alla conoscenza del reale, e quindi si oppone alla retorica cattiva che ci allontana da esse questa retorica buona è quella subordinata alla dialettica (o alla filosofia). La retorica in tale prospettiva ha una funzione essenzialmente didattica, e viene incontro a quanti non sono pervenuti (o non possono pervenire) al livello di virtù e di conoscenza garantito dall'esercizio della dialettica. Non sempre e non a tutti può essere comunicata la verità, ma una certa dose di consenso è indispensabile anche affinché la polis sia ben gover-nata. Si richiede allora che quanto viene comunicato sia almeno verisi-mile (eikos) non più nel senso del semplicemente plausibile ma di un'ef-fettiva approssimazione al vero.

Subordinando la retorica alla dialettica, come fa Platone, o ammet-tendo un'affinità (senza subordinazione) fra le due, come fa Aristotele nella sua Retorica (1, 2), si viene comunque a dare all'aspetto logico della

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persuasione, cioè all'uso di argomenti dotati di una certa cogenza, molta più importanza di quanta non gliene attribuissero Gorgia e gli altri sofisti e retori. Così l'analisi dei fattori linguistici di persuasione condotta da Aristotele viene estesa dallo studio delle suddivisioni del discorso, delle figure retoriche ecc. (cioè delle modalità o tecniche dell'espressione lin-

guistica o lexis) a quello della forma logica delle argomentazioni. Gli "elementi" della retorica diventano allora — in un senso traslato di "ele-menti",— certi schemi concettuali, tipici o paradigmatici, di carattere ge-nerale e comuni sia al discorso retorico che a quello dialettico (Aristotele

li chiama topoi, cioè "luoghi", presumibilmente perché essi andavano memorizzati, e una delle tecniche mnemoniche più comuni del tempo consisteva nell'associare i termini da memorizzare a dei "luoghi" in cui scomporre mentalmente un teatro immaginato).

Nel complesso l'impostazione che Aristotele dà alla sua trattazione della retorica, pur tradendo l'influenza di quella platonica, ne differisce notevolmente e comporta anzi un'importante novità rispetto a tutta la precedente teorizzazione. Nel definire l'ambito di azione della retorica egli riprende la tesi dei predecessori di Platone — alla quale del resto an-che questi si era in ultimo avvicinato — secondo cui esso coincide con

l'eikos. Tale ambito però per lui non è più riducibile alla sfera di un veri-simile che in qualche modo si sostituisca al vero o al reale (che, come tale, dovrebbe allora rimanere l'obiettivo principale — anche se forse irraggiun-gibile — della comunicazione interumana), perché: a) è l'ambito di quelle faccende umane che appartengono al mondo sublunare e che dipendono dalle nostre scelte, dunque è un ambito che esclude la necessità e la co-stanza e si sottrae pertanto alla conoscenza certa e stabile, cioè alla scienza

in senso stretto; b) è pure l'ambito delle opinioni generalmente accettate

(gli endoxa), sulle quali, nella vita di ogni giorno (e nell'attività politica), si deve far leva, senza poterne mai prescindere totalmente.

Con il secondo punto Aristotele rende esplicito un presupposto di gran parte della precedente tradizione retorica (specialmente nella sua prassi concreta): chi per esempio si difende in tribunale, se vuole difendersi con efficacia, deve presentare il suo caso in maniera tale che risulti convin-cente ai giudici, dunque deve far apparire la propria posizione in una luce

favorevole ai loro occhi, e questo comporta un'adesione (in tale sede) alle loro opinioni, ai loro giudizi di valore ecc. Questo vuol dire che le regole del gioco del discorso retorico, qual è utilizzato in un tribunale o in un'as-semblea, dal momento che è un discorso mirante all'efficacia (per esem-pio all'ottenimento di un verdetto favorevole), non sono le regole della verità in senso assoluto. È proprio questo che Platone trovava criticabile

(ancora in Pbaedr. 272de) nella retorica del suo tempo e di prima, e che invece Aristotele trova accettabile e in ogni caso inevitabile, limitando

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anch'egli la retorica all'opinione (doxa) o al plausibile (eikos), senza più prospettare la possibilità di un trascendimento di tale ambito verso il vero assoluto. Ai suoi occhi questo non è un ambito di falsità e di deviazione dal bene: una ragionevole approssimazione alla verità è assicurata dalla convergenza e anche dalla integrazione (vedi Pol. 3,15, 1286 a 24 sgg.) delle opinioni, ad esclusione di quelle di esse (o di quegli aspetti di esse) che sono peculiari e divergenti; e questa loro convergenza è pure garan-zia di esclusione dei comportamenti che non rispondono ai requisiti mi-nimi di moralità che in ogni comunità debbono essere soddisfatti.

Ovviamente la parte logica della retorica (il cui studio appartiene alla dialettica o "scienza analitica", vedi Rhet. 1,1, 1355 a 3 sgg. e 1,4, 1359 b 8 sgg.) è costituita da argomentazioni — in particolare gli entimemi — adatte allo scopo di cambiare le altrui convinzioni ma non a quello di pervenire alla conoscenza scientifica (che richiede dimostrazioni). La lo-gica della retorica in effetti non differisce da quella della dialettica, che è anch'essa non scientifica e limitata agli endoxa. Per entrambe dunque è fondamentale la raccolta dei topoi, cioè degli "elementi" (logici) di tali argomentazioni (per esempio vedi Rhet. 2,23-24). La ricerca e la sistema-zione delle "prove" (pisteis) retoriche, di cui questa raccolta è un aspetto, finiranno con l'essere riconosciute come una parte fondamentale dei trat-tati di retorica (chiamata heuresis dai greci e inventio dai latini). La di-stinzione di altre due parti della retorica riconosciute da Aristotele, una concernente la suddivisione e l'organizzazione complessiva del discorso, compresa la distribuzione delle prove nel suo corso (chiamata taxis o

dispositio) e una concernente l'elaborazione della forma verbale (lexis o

elocutio), diverrà pure canonica in quei trattati. Inoltre sarà normalmente adottata (salvo qualche variazione terminologica) la distinzione aristote-lica di tre generi di discorsi: deliberativo, giudiziario, epidittico (o enco-miastico). Invece non sempre ci sarà una parte della retorica di tipo etico e psicologico, concernente gli ethi (costumi, caratteri, disposizioni) e in genere quegli "elementi" psichici sui quali deve operare il discorso reto-rico, mentre alle volte saranno aggiunte parti concernenti le tecniche dell'actio (la recitazione del discorso con gesti e dizione appropriati) e le tecniche dell'apprendimento a memoria. Naturalmente è difficile dire quanto di questa tipologia sia un'elaborazione dello stesso Aristotele: la contemporanea Rbetorica ad Alexandrum, che fa parte del Corpus

Aristotelicum ma che probabilmente è da attribuire ad Anassimene di Lampsaco e che, pur essendo assai più breve del trattato aristotelico, è un'opera in sé stessa significativa e più aderente alla prassi effettiva dei retori, presenta un impianto simile. Non mi soffermo sugli scritti di Iso-crate, peraltro importanti, perché il suo contributo interessa la cultura di tipo retorico piuttosto che la teoria della retorica. Un'eccezione alla tra-

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dizione aristotelica è rappresentata dal contributo degli stoici, che tente-ranno di riprendere la concezione platonica della retorica come didattica subordinata alla dialettica, ma senza trovare molto seguito.

Peraltro il mantenimento dell'impianto aristotelico non vorrà sempre dire fedeltà alla concezione aristotelica della retorica. La prossimità che questa ha con l'effettiva pratica del dibattito (anche se deve trattarsi in gran parte di una teorizzazione o codificazione retrospettiva), insieme all'insistenza che comporta sul ruolo fondamentale delle argomentazioni (dunque della parte logica, dominante nella trattazione aristotelica), porta a un'opposizione fra retorica e poetica, e più in generale fra retorica e letteratura, che successivamente si attenuerà, fino a scomparire presso alcuni autori. Durante l'età ellenistica, con la crisi della prassi oratoria come momento significativo della vita pubblica e l'estendersi di un in-teresse di stampo erudito per il passato, lo studio della retorica (che di-venta parte importante del curriculum scolastico tipico) tende sempre più a essere uno studio letterario, nel senso di uno studio rivolto soprat-tutto all'elaborazione di categorie che permettano l'interpretazione delle opere letterarie della tradizione, neppure con restrizione a quelle specifi-camente di tipo retqrico. Questo mutamento di prospettiva è in parte preparato dall'opera di Teofrasto, al quale si deve la formulazione (in un trattato sull'argomento andato perduto) di una teoria dello stile che di-venterà canonica. Questa teoria, pur traendone spunti, va ben oltre la trat-tazione aristotelica, e si articola nella distinzione di quelle che in latino saranno chiamate le virtutes dicendi (puritas ovvero latinitas, corrispon-dente al greco bellaismos, perspicuitas, aptum o decorum, ornatus) e in quella dei genera elocutionis (bumile o subtile o tenue, medium o mixtum, grande o sublime). Fa pure parte di questo privilegiamento dello stile lo sviluppo dell'analisi della classificazione delle figure e dei tropi. Un impulso allo studio dei tropi (onomatopea, metafora, sineddoche, metonimia ecc.) in particolare viene da parte degli stoici, per via del loro interesse per la creazione delle parole (Barwick, 1957, p. 92), dunque più come risultato dei loro interessi linguistici generali che di interessi speci-ficamente retorici. (Non mi soffermo su un ulteriore sviluppo, vale a dire la teoria, dovuta in gran parte a Ermagora, dello "stato della questione" — stasis; status o constitutio causae — perché, legato com è alla proce-dura giuridica, ha carattere contenutistico più che linguistico.)

Dal momento che i trattati retorici ellenistici sono andati perduti, è necessario rifarsi soprattutto alle opere di retorica dei romani per avere delle sintesi che tengano conto degli sviluppi postaristotelici. Peraltro è difficile stabilire con sicurezza se queste opere, oltre a informarci sulle teorie dei greci, contengano innovazioni teoriche degne di nota. Nel com-plesso si ha l'impressione che ad autori come Cicerone e Quintiliano nep-

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pure premesse di introdurre innovazioni di questo tipo. In entrambi infatti c'è una reazione alla sopravvalutazione ellenistica dell'aspetto tec-nico della retorica: la forza persuasiva di un'orazione viene da essi fatta dipendere più dalla personalità dell'oratore che dal rispetto delle regole

dei trattati. Al centro dell'attenzione del De oratore di Cicerone, cioè della più

importante delle sue opere di retorica (che comprendono l'Orator, il

Hrutus e altri scritti più tecnici), e dell'Institutio oratoria di Quintiliano,

sta precisamente la formazione dell'oratore, che per il primo deve com-portare una conoscenza (peraltro limitata e diretta alla pratica) della filo- sofia, mentre per il secondo, che mostra riserve per la filosofia, si fonda

soprattutto sull'imitazione degli exempia del passato (compreso lo stesso

Cicerone). Entrambe le opere sono significative perché offrono una sintesi del pensiero precedente alla luce di un'ampia prospettiva culturale: in modo più speculativo quella di Cicerone, che riprende la riflessione pre-cedente, soprattutto filosofica (a cominciare da Platone e Aristotele), sull'importanza e la natura dell'arte retorica; in modo più didattico e sistematico quella di Quintiliano, che espone le.conoscenze retoriche, ma anche di altro tipo, come quelle grammaticali, che l'oratore deve posse-dere. Entrambi si sforzano di tener conto delle peculiarità dell'oratoria romana (per esempio quella giudiziaria si fonda sull'intervento diretto dell'oratore avvocato, e non più sulla recitazione fatta dalla parte in causa di discorsi preparati dall'oratore ghost-writer). Soprattutto a Cicerone si deve infine, come anche nel campo della filosofia, l'elaborazione di una terminologia appropriata per rendere in latino il linguaggio tecnico dei greci, una terminologia che passerà poi alle lingue moderne.

4. Le altre arti del discorso: la dialettica e la logica

L'idea della techni che abbiamo incontrato nei trattati di retorica è l'idea di una competenza che, oltre a presentare le caratteristiche già menzionate e quella di avere un compito (ergon o dynamis) ben definito,

comporta la capacità di distinguere ciò che è corretto da ciò che non è corretto (vedi Fleinimann, 1961). Così il possesso della tecbné della reto-

rica comporta il saper distinguere l'uso corretto (appropriato ai fini della retorica) da quello non corretto dei discorsi, dunque una conoscenza -di certe regole e la capacità di applicarle. Pertanto l'idea stessa che si dia

una techni che ha a che fare con il linguaggio richiede che nel linguaggio stesso si possano identificare e isolare certi aspetti o dimensioni di tipo,

in qualche modo, formale, cioè indipendenti dai contenuti del discorso che viene fatto in circostanze concrete. Sono appunto questi gli aspetti

31 Linguaggio e discorso

per i quali il linguaggio si presta a essere disciplinato, o nella sua utiliz-zazione (come nel caso della retorica) o nella sua formazione (là dove si ammetta che il linguaggio sia anch'esso il prodotto di una techni: una

possibilità che era certamente contemplata al tempo di Platone, come mo-strano certe affermazioni del Cratilo). Naturalmente questa dimensione

formale non è identica per tutte le tecbnai del linguaggio che si possono

riconoscere (e che erano generalmente riconosciute al tempo dei sofisti): la retorica e la poetica identificano per esempio certe figure linguistiche (la metafora, l'antitesi) la cui applicazione è importante per esse; comuni alla stessa retorica e alla dialettica sono l'identificazione e l'impiego di

certi schemi logici (i topoi) che stanno alla base delle argomentazioni; la grammatica identifica gli schemi delle declinazioni dei nomi e delle co-niugazioni dei verbi ecc.; l'analitica (come parte della logica) classifica le

figure del sillogismo, e così via. Quanto alle tecbnai che venivano allora riconosciute come aventi a che

fare con il linguaggio, si può partire da alcune osservazioni di Platone nel

Cratilo (4241) sgg.) che probabilmente sono l'esposizione in forma al-quanto sistematica dei risultati della riflessione precedente. Quivi Platone prospetta chiaramente l'esistenza di una serie di livelli di aggregazione o composizione nel linguaggio (tutti uniformati su quello iniziale): quello

delle parole (nomi e verbi: onomata e rbffmata, 425a), le quali sono in-

siemi di lettere (o elementi: stoicheia), quello dei discorsi (logoi) in senso

stretto (o enunciati), i quali sono insiemi di tali parole, e infine quello dei

discorsi (logoi) in senso lato, i quali sono insiemi dei primi (degli enun-

ciati). A questi livelli corrispondono delle arti (tecbnai), delle quali sono

menzionate solo l'"onomastica" (onomastikff ) e la retorica. La prima

(come mostra il contesto) non è soltanto la capacità di comporre le parole (per esempio nello scrivere) e di inserirle negli enunciati in modo gramma-ticalmente corretto, ma è anche quella di formarle te novo (capacità in-

vero attribuita a un legislatore forse solo mitico), dunque concerne anche la genesi delle parole e quindi del linguaggio tutto. Come parte di tale onomastica deve essere considerata la grammatica (grammatikff technE),

di cui Platone parla altrove (l'ha. 18b-d; Theaet. 202e sgg.; Sopb. 253 ab).

Inizialmente questa non è altro che l'arte delle lettere (grammata)" nel

senso più ovvio, cioè la capacità di mettere insieme le lettere corretta-mente per compone le parole, insomma di leggere e scrivere. Tuttavia la grammatica viene presto a includere pure la riflessione teorica sull'origine e costituzione delle parole, dunque a includere quello studio (etimolo-gico e morfologico) che anche per noi fa parte della grammatica. Oltre a queste arti sono sicuramente da annoverare fra le arti del linguaggio quelle, già menzionate, della poetica e della dialettica.

Per la teorizzazione della dialettica vale quanto s'è detto della teorizza-

32 Capitolo primo

zione della retorica: si tratta, a un tempo, della riflessione su una pratica di dibattito largamente diffusa e dell'elaborazione di un codice per tale pratica, ìl cui funzionamento dipende — come nel caso di quasi ogni gioco agonistico — dall'applicazione di regole piuttosto rigide. In realtà si deve parlare di più pratiche dialettiche o almeno di varianti della pratica dialettica, delle quali si possono ricordare almeno quella della disputa dialettica (in senso stretto) e quella dei discorsi antitetici (la pratica delle

• antilogie). Entrambe coinvolgono direttamente solo due interlocutori (mentre la retorica può servire ad affrontare un uditorio anche ampio), ciascuno dei quali cerca di prevalere sull'altro. Nel caso della prima pra-tica uno degli interlocutori pone domande all'altro, con l'intento di farlo cadere in contraddizione (se non ci riesce, ma l'altro si difende, è quest'ul-timo che vince); le domande, va notato, sono formulate in modo da per-mettere solo risposte del tipo: "sì", "no". Si tratta di una pratica spesso esemplificata nei dialoghi platonici, e non del tutto a torto Socrate è con-siderato privo di paideia (Hipp. ma. 288d, 290e) o ironicamente si di-

chiara lui stesso tale (Euthyd. 295a sgg.) quando interloquisce anziché limitarsi a quelle risposte: non sta alle regole del gioco (una teorizzazione della pratica e delle sue regole anche etiche si trova nei Topici di Aristo-

tele). Nel caso invece della pratica antilogica a un primo discorso di uno dei due interlocutori deve corrispondere un secondo dell'altro che ne sia l'antitesi nel modo più esatto possibile (per esempio smentendone gli argomenti punto per punto o adottando argomenti assai affini ma dimo-stranti tesi contrarie); spesso segue una replica del primo e una replica finale dell'altro, per cui si ha una "tetralogia". Questa è una pratica che, nella sua estensione all'ambito retorico, è esemplificata dai discorsi anti-tetici che si trovano con una certa frequenza nelle Storie di Tucidide (vedi per esempio 6,75-88, per il dibattito a Camarina) e dalle tetralogie di Antifonte. La diffusione della pratica, nella sua utilizzazione più pro-priamente dialettica, è testimoniata da Platone (Pbaed. 89c sgg.), che

identifica in Zenone — "l'eleatico Palamede" — il suo iniziatore (Pbaedr.

261c; vedi anche la testimonianza di Aristotele in Diog. Laert. 8,2,57). La dialettica antilogica è largamente applicata da Platone stesso nel Par-

menide (non a caso il dibattito inizia con un intervento di Zenone) e dall'autore anonimo dello scritto sofistico Dissoi logoi, mentre l'opera di

Protagora intitolata Antilogie è andata perduta. Il notevole grado di formalizzazione che si trova attuato in queste pra-

tiche non serve solo ad assicurare il massimo di efficacia, cioè il massimo controllo sui contenuti della discussione da parte di ciascun partecipante, unita alla massima indifferenza per i contenuti stessi (ciascun interlocu-tore deve essere pronto, di volta in volta, a difendere sia una tesi che la sua contraria). Serve pure a facilitare il compito del pubblico — sempre

33 Linguaggio e discorso

presente anche nel caso delle dispute dialettiche, come mostrano gli esempi in Platone e i riferimenti espressi alla sua presenza per esempio nello scritto ippocratico La natura dell'uomo (cap. 1) — che è quello di fare da arbitro. Il giudizio su chi è il vincitore della disputa è tanto più sicuro (e quindi più concorde per un gruppo anche numeroso di persone) quanto più rigorosamente sono osservate certe regole formali. Questo avviene per esempio quando si può valutare separatamente per ogni que-stione affrontata in un'antilogia di chi è l'argomento più forte (può capi-tare s'intende che la vittoria sia per knock down anziché ai punti). Questa esigenza di formalità unita a quella di offrire uguali chance ai due interlo-cutori era talmente rispettata che, spesso, nelle dispute in tribunale, si concedeva esattamente lo stesso tempo — misurato da una clessidra — a entrambe le parti in causa. Come si vede, si trattava di veri e propri agoni

di discorsi (logoi, donde antiloghia) la cui regolamentazione era la più

esatta possibile, così da assicurare il calcolo (loghismos o logos, secondo un'accezione della parola che per i greci era più affine a quella di "di-scorso" di quanto non sembri a noi) più sicuro e preciso possibile da parte del giudice o arbitro (il pubblico o la giuria popolare in un tribunale).

Indubbiamente il formalismo che fonda questo tipo di pratiche e che si presta alla codificazione in manuali di tecbné dialettica o retorica (pre-sumibilmente ce n'erano di antecedenti a quelli aristotelici, andati perduti anche per via della superiorità di questi) non è quello della logica formale; ma è altrettanto indubbio che esso (come ha sottolineato Wieland, 1976) ha aperto la strada alla teorizzazione propria della logica formale, quale si trova in Aristotele e negli stoici. La realizzazione di tanto formalismo nelle pratiche della dialettica e della retorica è accompagnato dall'elabo-razione, da parte dei sofisti, di un ideale di cultura generale (paideia, in

un senso affine a quello della parola tedesca Bildung, comportante l'inse-gnabilità), che è quella che deve essere posseduta da chi è maestro di tutte

le technai del linguaggio (alcuni sofisti, come Ippia, facevano risiedere tale cultura nel possesso di ogni technff, compresa quella del calzolaio:

vedi 86 A 11-12 DK). La formalità di tale ideale non è ancora sufficien-temente riconosciuta dai sofisti stessi, e questo li espone alla polemica di Platone, per il quale le enunciazioni protagoree del principio alla base di quelle pratiche (che per ogni pragma vi sono due logoi antitetici, vedi

Diog. Laert. 9,51 e anche 80 A 20 DK; e che si deve riuscire a rendere

forte il discorso debole, vedi 80 B 6 e C 2 DK) erano degli incoraggia-menti all'immoralismo e alla rinuncia al vero. Tale formalità è ricono-sciuta però da Aristotele, che parla (all'inizio delle Parti degli animali) di

una katholou paideia definita come la capacità di valutare, in ogni campo, la correttezza dei discorsi, espressamente tenuta distinta dalla loro verità, dunque dai loro contenuti. Al tempo stesso Aristotele esclude (come non

34 Capitolo primo

avevano fatto i sofisti) che le virtù propriamente etiche siano insegnabili allo stesso modo delle technai del discorso. Così egli ridimensiona quel-l'ideale di cultura, ma lo rende molto meno criticabile.

Per Platone stesso la vera paideia (come risulta anche dai passi già Men-zionati, che documentano pure la posizione dei sofisti) è quella socratica, la quale (come lui la presenta) non si sottomette a regole formali se non per usarle come strumenti per un obiettivo di verità assoluta. Nelle prati-che dialettiche esemplificate nei suoi dialoghi Platone è, certo, tutt'altro che esente dall'influenza del formalismo sofistico. Però con la sua tesi della dialetticità della filosofia egli vuole riprendere, prima di tutto, la concezione eleatica della dialettica come procedimento fondamental-mente logico-linguistico, cioè come procedimento puramente intellettuale, che esclude il ricorso ai dati dei sensi e che consiste nella riflessione su ter-mini o concetti e postulati (espressi linguisticamente) interni al pensiero. Chiamando questa indagine una skepsis en logois (Phaed. 99e- 100a),

cioè un'indagine non solo sui discorsi (o anche: concetti, definizioni) ma

dentro (nell'ambito) di essi, Platone fornisce una formulazione esplicita ed efficace di questa concezione. La dialettica rimane per lui quello che era per Parmenide, cioè un procedimento che permette (se applicato cor-rettamente) di determinare com'è la realtà nella sua struttura intelligibile. (Una delle tecniche puramente intellettuali più tipiche usata da Platone, come in precedenza da Parmenide, per accertare come stanno le cose, è quella della riduzione ad assurdo della tesi opposta a quella della quale si afferma la verità.) Tuttavia lo stesso Platone, almeno in un'occasione

(Crat. 436 cd) — e forse per primo nella storia del pensiero — dimostra di avere preso coscienza della possibilità di adottare un procedimento dedut-tivo logicamente corretto (in particolare, che rispecchi le esigenze della coerenza logica) anche qualora i postulati di partenza sono falsi (oggetti-vamente). Si tratta di una costatazione decisiva per arrivare alla costitu-zione di una logica di tipo formale, cioè alla individuazione e codifica-zione di procedimenti formalmente corretti (validi) prescindendo dalla verità (o falsità) oggettiva delle proposizioni di partenza (le premesse).

Una logica del genere non è più elaborata da Platone stesso o dagli altri platonici membri dell'Academia — che forse avevano conservato la diffi-denza del maestro nei confronti di procedimenti formali (visti addirit-tura come un ostacolo alla conoscenza del reale a causa della loro rigi-dezza) — ma, come ci si può aspettare per la sua vicinanza al formalismo sofistico, da Aristotele. È questi che perviene, nei suoi Analitici primi, a

una sistemazione assai complessa e piuttosto rigorosa (per quanto incom-pleta) della sillogistica: una sistemazione di tipo (almeno tendenzialmente) assiomatico, cioè tale da fondarsi solo sulle regole e sui postulati propri della logica stessa o perlomeno puramente formali (nel caso della sillogi-

35 Linguaggio e discorso

stica i postulati di base o "elementi" sono i modi sillogistici della prima figura, dunque dati non fattuali). Una sistemazione affine a questa (in realtà piuttosto di tipo ipotetico-deduttivo, in quanto fra gli "elementi" sono incluse proposizioni contenutistiche sebbene non dimostrabili ulte-riormente) è quella prospettata da Aristotele negli Analitici secondi per le scienze matematiche o almeno per la geometria; ed è questo programma (probabilmente già realizzato in qualche misura in trattati contempora-nei) che viene attuato, in forma ritenuta definitiva per molti secoli a ve-nire, da Euclide nei suoi Elementi (redatti pochi decenni più tardi).

Come si può costatare, gli "elementi" di cui si parla nella presente con-nessione hanno un'affinità molto parziale con gli elementi-lettere di cui sono costituite le parole, ma quest'ultimo rimane il paradigma per la sistemazione di ogni techné e di ogni disciplina scientifica (forse l'anali-tica stessa finirà coll'essere considerata da Aristotele una vera e propria scienza, ma ancora in Rbet. 1,1, 1355 a 3 sgg. lo studio dei sillogismi è attribuito alla dialettica in genere). Un notevole grado di formalità, me-diante un'analoga sistemazione (con l'identificazione dei suoi "elementi" nei topoi), è raggiunto pure dalla dialettica ad opera di Aristotele, il quale non ritiene più che un procedimento puramente logico-linguistico (come anche per lui è quello della dialettica) possa di per sé — senza il ricorso a dati extraintellettuali — essere la via alla conoscenza della realtà. In questo modo le ambizioni della dialettica sono decisamente ridimen-sionate, ma da essa può emergere una logica vera e propria, l'analitica, che finirà con lo staccarsi dalla sua matrice per svilupparsi autonomamente.

Nel complesso nel pensiero antico, come si può costatare, c'è una con-tinuità fra dialettica e logica (analitica o formale) e non una loro contrap-posizione, qual è spesso affermata nei tempi moderni (almeno nella tra-dizione che si ispira a Hegel). In effetti anche dopo Aristotele gli stoici, che offrono della logica una sistemazione differente anche se non meno formale di quella aristotelica (non più una sillogistica essenzialmente ter-ministica, ma una logica riguardante connessioni o inferenze, come quella di consequenzialità, che legano intere proposizioni), la concepiscono espressamente come una parte della dialettica; e la loro sistemazione rende conto dei procedimenti effettivamente in uso nelle dispute dialetti-che meglio di quell'altra.

Aristotele finisce col separare la dialettica non solo dalla logica analitica ma anche dalla metodologia scientifica: essa rimane infatti un procedi-mento troppo ad hominem per permettere di affrontare un certo tema non solo quel tanto che basta per il convincimento dell'interlocutore (oppure di sé stesso come interlocutore ideale) o per prevalere su di lui, ma an-dando fino in fondo, cioè da una parte fino a dei principi che forniscano una giustificazione adeguata di quanto si vuole comprendere o spiegare, e

36 Capitolo primo .

dall'altra fino alle conseguenze ultime di tali principi (particolarmente si-gnificativa, al proposito, è l'osservazione, in Cael. 2,13, 294 b 6 sgg., che è abituale a tutti di non istituire la ricerca per la cosa in sé stessa (pros to

pragma), ma solo per colui che dice cose contrarie (pros ton tanantia

legonta), invece di arrivare a superare tutte le difficoltà che risultino dal-l'ambito studiato). Ed è proprio questa separazione della scienza dalla dialettica che permette ad Aristotele e ai suoi collaboratori di pervenire a una sistemazione scientifica — quella che si traduce in un'esposizione ben ordinata dei risultati in un trattato — di varie discipline come la zoo-logia, la botanica, la meteorologia e la stessa sillogistica e retorica. In questa sistemazione, che esercita la sua influenza su tutto il successivo sviluppo del sapere fino ai nostri giorni, agisce sempre il modello del riportare analiticamente i contenuti a "elementi" non più scomponibili.

Questi sviluppi paiono essere stati intuiti da Platone e da lui (invano) disapprovati. Perlomeno in questo modo si può dare senso alla polemica contro il ricorso al linguaggio scritto che egli sviluppa (soprattutto in Phaedr. 274b sgg.) a seguito, forse, di Alcidamante: la rigidezza del lin-guaggio scritto è vista come la fonte ultima della rigidezza di ogni sistema-zione del sapere (del syngramma, rigettato anche nella settima Lettera), che crea l'illusione della sua definitività. In questa prospettiva il carattere ad hominem della dialettica è un merito e non un limite, perché è tipico dell'oralità e perché fa del sapere qualcosa che coinvolge la personalità tutta di chi, per mezzo della dialettica, cerca di pervenire alla verità. Sep-pure in forma moderata una critica della fissazione dottrinale del sapere modellata sulla scrittura si trova anche nello scritto ippocratico I luoghi

nell'uomo (cap. 41). Questo testo (come pure i capitoli 10-12 del Contro i sofisti di Isocrate) conferma che la preoccupazione maggiore era susci-tata dall'applicazione del modello dell'analisi in elementi ad ogni possibile ambito del sapere. Si richiedeva per contro che il sapere fosse come quello del buon medico, che grazie al suo colpo d'occhio — consistente nel co-gliere il momento buono (kairos) e la giusta misura (metron) — può com- prendere caso per caso il rimedio adatto al paziente, anziché procedere applicando schemi rigidi. Ma, almeno per certi ambiti, il richiamo a questa concezione del sapere non poteva avere molta efficacia.

5. Linguistica e grammatica

La denominazione stoicheion per indicare la lettera dell'alfabeto, a dif-ferenza di gramma, probabilmente non è originaria, ma importata dalla musica, che però era essa stessa concepita come analizzabile in suoni-elementi. Comunque sia, l'idea che suggerisce, illustrata dalla sua appli-

37 Linguaggio e discorso

cazione al linguaggio, diventa (come risulta già dagli esempi finora con-siderati) uno dei paradigmi dominanti della cultura intellettuale della fine del quinto secolo e di quelli successivi. Dovevano colpire a) il fatto che le lettere dell'alfabeto permettono una rappresentazione grafica oltremodo esatta e fedele (realizzante una corrispondenza uno a uno) dei suoni espressi nella comunicazione linguistica; b) il fatto che esse, per quanto in numero ristretto, combinandosi fra loro secondo certe modalità, ven-gono a costituire tutta la grandissima varietà delle parole. A questo pro-posito viene fatta l'osservazione che una modifica anche minima, come un cambiamento nella disposizione delle lettere oppure l'aggiunta o la soppressione di una di esse, basta per fare di una parola un'altra, allo stesso modo in cui in aritmetica basta aggiungere o togliere un'unità per ottenere un nuovo numero (per quest'osservazione vedi Plat. Crat. 393 d

e 431e con Gentinetta, 1961, p. 113 e Diss. log. 5,11-14; inoltre può

essere pertinente il riferimento al calcolo del numero delle sillabe attri-

buito a Senocrate da Plutarco in Conv. quaest. 8,9, 733 A). Non è improbabile che inizialmente, prendendo lo spunto da tale osser-

vazione, venisse coltivata la speranza di identificare un numero limitato di regole o princìpi che permettessero di giustificare razionalmente la for-mazione di tutte le parole che costituiscono il linguaggio, arrivando in questo modo a un sapere universale (un simile programma di "combina-toria" viene ripreso nei tempi moderni da Leibniz e altri, che lo fondano però sull'invenzione di un linguaggio apposito). A questo obiettivo gra-dualmente si sostituisce quello più modesto di reperire, nei vari campi del sapere, "elementi" che differiscono fra loro per natura e funzioni, con l'abbandono (evidente in Aristotele) dell'idea di un sapere globale unico e il riconoscimento che il ruolo svolto da quegli elementi è comunque so-prattutto formale. Nondimeno persiste il richiamo a quel paradigma, ed esso opera anche all'interno della riflessione sul linguaggio che prefigura quella presente nei trattati di grammatica.

Un interesse particolare, manifesto nei Topici di Aristotele e di ordine prevalentemente logico e filosofico, è per certe associazioni di termini, come quelle che costituiscono un gruppo di termini "coordinati" o systoi-

cbia. In questi casi si presta attenzione alle affinità esteriori (fonetiche, morfologiche ecc.) delle parole in quanto possibile indizio di un'affinità concettuale fra i designata di tali parole. Era naturale che un tale interesse portasse a notare le variazioni alle quali può essere soggetta una stessa pa-rola e a tentarne una codificazione. Esso porta pure alla costatazione (come mostra la frequente associazione di systoicbia e pt5seis) che le mo-

difiche o inflessioni (pt5seis) alle quali sono soggetti i verbi (rbimata)

sono differenti da quelle alle quali sono soggetti i nomi (onomata), in

quanto le prime dipendono dal fare riferimento a momenti temporali

38 Capitolo primo

diversi, donde una distinzione fra essi che è chiaramente formulata da

Aristotele (Interpr. 3). Che quelle modifiche siano conformi ad alcuni schemi costanti doveva pure essere già noto ad Aristotele, come è sugge-rito dal fatto che egli usa la stessa terminologia anche per le figure sillogi-stiche (la parola scht•ma ricorre frequentemente negli Analitici primi, ma

in 1,26, 42 b 30 sgg. si trova anche il termine pt5sis). La riflessione che successivamente gli stoici dedicano a questo tipo di

fatti linguistici è molto influenzata dalla loro preoccupazione di provare la naturalità delle parole ricorrendo a procedimenti etimologici (ma questi erano certamente largamente usati già al tempo di Platone e ancor prima, com'è attestato dal Cratilo, e debbono anch'essi avere favorito molte sco-perte sulla forma delle parole). Il tentativo degli stoici di rendere suffi-cientemente rigorosa la ricerca etimologica (da notare che non era stata ancora introdotta una netta distinzione fra casi di flessione e casi di deri-vazione delle parole), oltre al loro generale interesse per i fatti linguistici, fa compiere notevoli progressi nel campo della morfologia, nonostante che molto di quella ricerca etimologica rimanesse piuttosto fantasioso. Il compito dei tardi autori dei trattati di grammatica sarà, in gran parte, quello di eliminare quanto v'era di troppo speculativo o altrimenti dubbio nei contributi degli stoici e di continuare le loro indagini, ampliando la raccolta di materiale da prendere in considerazione.

Buona parte della riflessione sul linguaggio che viene condotta nell'an-tichità — e che è importante anche per il costituirsi delle trattazioni pro-priamente grammaticali — si concentra sulla questione già menzionata del rapporto fra significato e forma verbale (fonetica e morfologica) delle pa-role. Una matrice di tale riflessione è propriamente filosofica, e consiste nel fatto che per diverse parole — come la parola "vuoto", la parola "caso", oppure anche la parola "generazione" — veniva contestata, da certe scuole filosofiche, a cominciare da quella eleatica, la possibilità che nella realtà sussista effettivamente ciò che esse apparentemente risultano designare. Questo tipo di considerazione viene presto esteso anche a certe particelle (presenti negli enunciati) aventi funzioni soprattutto logiche, come le particelle di congiunzione, di negazione e la combinazione "se... allora...". È, almeno in parte, questo tipo di riflessione che porta all'in-troduzione (probabilmente già con i sofisti) di una suddivisione, anche grammaticale, fra i costituenti degli enunciati (quelli che nelle gramma-tiche, prima antiche e poi moderne, saranno chiamati "le parti del di-scorso"), con il riconoscimento che per esempio gli articoli e la copula "è" non sono capaci (almeno da soli) di designare realtà oggettive, a dif-ferenza dei nomi e dei verbi. Una tipologia di tali "parti" si trova in Ari-

stotele (Interpr. 2-5 e Poet. 20) e in forma più elaborata — con una distin-zione in otto classi — nella grammatica di Dionisio Trace.

39 Linguaggio e discorso

È da notare che tutta questa riflessione linguistica è fondata sul presup-posto (dovuto in parte sia al predominio del modello, tipicamente atomi-stico, delle lettere-elementi sia alla sottovalutazione delle funzioni non descrittive e non designative del linguaggio) che il significato di un enun-ciato o di un discorso è normalmente riducibile a quello delle singole parole di cui è composto. In questa prospettiva diventa importante accer-tare quali parole abbiano un significato per conto proprio e quali invece siano "parassitiche" rispetto alle prime; ed è pure importante accertare se le parole hanno solo uno o più significati, come pure se parole diffe-renti hanno o no lo stesso significato, e così via. Le indagini condotte al proposito sono particolarmente rilevanti per i dibattiti dialettici (dal mo-mento che uno dei "trucchi" che si possono sfruttare per prevalere è quello dell'ambiguità di certe parole), e sono condotte sia dai sofisti (Pro-dico in particolare si sforzava di mostrare come anche parole apparente-mente sinonime siano solo affini nel significato), sia dai membri dell'Aca-demia platonica e da Aristotele (da questi l'ambiguità o equivocità era chiamata "omonimia", mentre la nostra sinonimia era chiamata "polio-nimia", cioè, rispettivamente, l'aver più cose uno stesso nome e l'avere

una cosa più nomi; quest'ultima poi era la categoria con la quale si cer-cava di rendere conto della diversità dei linguaggi). Peraltro viene rico-

nosciuto, sia da Aristotele (Sopb. el. 4, 166 a 6 sgg.) sia dagli stoici, che

esistono pure casi di ambiguità, chiamati di ampbibolia, concernenti la

connessione di due o più parole (per esempio "conoscenza degli uomini"). Lo studio sistematico di tali casi di ambiguità in qualche modo sintattica da parte degli stoici (a Crisippo in particolare sono attribuiti vari libri sull'argomento, vedi Diog. Laert. 7,193), assieme all'esame delle funzioni delle particelle e ,a quello di altri fatti linguistici rilevanti per la logica proposizionale, li porta all'elaborazione del concetto di "sintassi" (il ter-mine ricorre anch'esso nei titoli delle opere di Crisippo, vedi Diog. Laert. 7,192-93), un concetto che sarà di grande conseguenza per i successivi studi (più propriamente) grammaticali.

In relazione alla questione generale del rapporto fra significato e forma verbale delle parole ebbero luogo nell'antichità due dispute sulla natura del linguaggio, quella fra analogisti e anomalisti, e quella fra i sostenitori del carattere naturale (physei) e i sostenitori del carattere artificiale o

convenzionale (nom5i, synthikli, thesei) del linguaggio. La prima di queste dispute è relativamente tarda (inizia con gli stoici e prosegue con i grammatici specialisti) e risente nei termini in cui è formulata dell'impo-stazione data all'altra, ma ha un'influenza più diretta sugli sviluppi della grammatica. La disputa (il cui decorso e i cui termini esatti sono contro-versi) pare essere stata iniziata dalla discussione della tesi di Crisippo (formulata in un trattato peri an5malias) secondo cui nel linguaggio si dà

40 Capitolo primo

tutta una serie di discrepanze fra la forma che le parole effettivamente hanno e quella che il loro significato (o l'oggetto designato)richiederebbe: per esempio paidion (come il tedesco Kind) è neutro, mentre ciò che de-

signa è maschile o femminile; Tbébai è plurale, pur designando una città (si noti che Protagora, come suggeriscono certe testimonianze quali

80 A 27-29 DK, voleva "correggere" il linguaggio normalmente parlato per eliminare simili anomalie; tanto razionalismo suscita l'ironia di Ari-stofane in Nub. 658 sgg.). Il problema della presenza ed estensione di casi-

di "anomalia" nel linguaggio doveva essere importante, dal punto di vista degli stoici, soprattutto per accertare quanto vi sia in esso di razionale e di naturale insieme (razionalità e naturalità per essi coincidevano). In se- guito però il dibattito si sposta su un terreno più propriamente gramma-ticale, concernendo il grado di regolarità (analogbia) presente nel linguag- gio in relazione a parametri grammaticali, in particolare morfologici; ed è probabile che la preoccupazione di affermare la prevalenza dell'anoma-lia o dell'analogia abbia perso importanza rispetto a quella di stabilire in quali condizioni si dà analogia. Per questo motivo la disputa si rivela frut-tuosa per lo sviluppo degli studi grammaticali.

La questione della possibilità di identificare nel linguaggio regole (mor-fologiche ecc.) generalmente valide interessa pure la disputa (anch'essa viva nell'antichità, se si deve prestar fede a Sext. Adv. matti. 1,41 sgg.) sullo statuto epistemologico della grammatica, cioè se essa sia una vera e propria tecbni, dunque una disciplina scientifica, oppure una pratica

empirica (empeiria) che si accontenta del "perlopiù". Tuttavia la denomi-nazione "arte grammatica" (techni grammatiké) spesso esprimeva piut-tosto la raggiunta consapevolezza dell'autonomia di questa disciplina. In realtà, limitatamente alla morfologia (la sintassi era ben più arretrata), i tardi trattati di grammatica, pur conservando tracce della ancora recente separazione di tale disciplina da quella — largamente coltivata nel periodo ellenistico e più filologica — concernente la "purezza linguistica"(technE peri bellEnismou), e pur non essendo pervenuti a una completa elimina-zione di criteri nozionistici (specie quelli desunti dalla considerazione del significato delle parole), sono ormai "grammatiche" nel nostro senso. Questo vale in particolare per la Grammatica attribuita a Dionisio Trace, che servirà da modello per tutti i trattati successivi fino ai nostri giorni; la ricerca grammaticale compiuta nella tarda antichità dopo quest'opera trova espressione soprattutto in commenti e glosse ad essa.

La seconda disputa sul linguaggio nasce con i sofisti e prosegue nel quarto secolo (ma se ne trovano tracce anche in autori di secoli successivi, almeno fino a Sesto Empirico), e per vari aspetti non è altro che un'appli-cazione al linguaggio di una controversia più generale, concernente la na-turalità (cioè l'avere almeno un fondamento in natura) o la (esclusiva)

41 Linguaggio e discorso

artificialità delle istituzioni umane (comprese le leggi, le costituzioni poli-tiche, le pratiche sociali) nel loro complesso. Anche questa disputa riflette il presupposto che razionalità e naturalità coincidono (ma la parola greca pbysis ha una gamma piuttosto ampia di accezioni, fino a significare ciò che è genuinamente reale, in contrapposizione all'apparente), per cui la razionalità del linguaggio si mostra solo accertandone la naturalità, e quest'ultima viene stabilita mostrando che la forma delle parole è appro-priata agli oggetti da queste designati. In questo caso però la disputa ri-guarda soprattutto la fonetica delle parole, e la naturalità è provata con un procedimento prevalentemente genetico, mostrando che quelle parole la cui naturalità non è ovvia si riportano a parole, spesso arcaiche, la cui naturalità è sicura (questa può risiedere nell'onomatopea, ma anche in altre forme di "imitazione": vedi Pinborg, 1975, p. 95); il procedimento non è esclusivamente genetico, in quanto le parole del secondo tipo sono considerate "elementi" in un senso anche logico (vedi Plat. Crat. 422 ab). Già Platone (nel Cratilo) pare arrivare alla conclusione che, nella migliore delle ipotesi, solo rare volte si può provare in maniera adeguata o convin-cente la naturalità di una parola, e sembra cercare di superare l'alterna-tiva; successivamente Aristotele fa propria la tesi della convenzionalità (tnterpr. 2: è per convenzione che un certo significato è assegnato a una certa parola), la quale probabilmente era già stata sostenuta da Democrito (68 B 26 DK); gli stoici propendono nuovamente per la tesi della natura-lità (ma non senza riserve o incertezze, come pare mostrare la posizione di Crisippo sull'anomalia) e riprendono le indagini etimologiche. La que-stione, a quanto pare, sollevava controversia ancora al tempo di Sesto Em-pirico (secondo-terzo secolo d. C.), il quale si mostra un deciso sostenitore del convenzionalismo (Adv. matti. 1,142-54).

A questa disputa si connettono alcune prese di posizione sull'origine del linguaggio, come quelle di Democrito, di Epicuro e degli stoici (la tesi, menzionata nel Cratilo, dell'origine "barbarica" di certe parole reperibili nella lingua greca, potrebbe rispecchiare un'affermazione dell'origine co-mune delle lingue, forse attribuibile a Prodico o a Ippia). L'adozione della posizione convenzionalista si accorda, in Democrito (se Diod. 1,7-8 può valere come testimonianza sulla sua posizione), con l'affermazione che i vari linguaggi parlati da differenti popolazioni si sono formati indi-pendentemente l'uno dall'altro (in condizioni, anche ambientali, diffe-renti); Epicuro mitiga questa posizione, ammettendo una fase iniziale "naturale" (addirittura in un senso fisiologico) di formazione dei lin-guaggi, e una seconda fase nella quale subentra un elemento di convenzio-nalità; gli stoici riprendono l'idea (presente nel Cratilo) di un legislatore che fonda il linguaggio in conformità con la natura, il che pare suggerire pure l'adozione della tesi di un'origine unica delle lingue.

42

Capitolo primo

Nota bibliografica

Nel tentativo di sottolineare certe costanti del pensiero antico sul linguaggio e non potendo presuppone nessuna opera di sintesi che offra un quadro a un tempo artico-lato e unitario di contributi appartenenti alla linguistica, alla grammatica, alla retorica, alla dialettica, alla logica e alla filosofia, ho sacrificato alquanto la trattazione del pe-riodo delle origini e di quello più tardo.

L'opera più ampia e comprensiva rimane H. Steinthal, Geschichte der Sprachwis-senschaft bei den Griecben und Rbmern mit besonderer Riicksicht auf die Logik (1862-63), 2 voll. (Hildesheim 1961), ancora indispensabile sebbene invecchiata e carente sul periodo delle origini; una valida integrazione è data ora da M. Baratin e F. Desbordes, L'analyse linguistique dans Eantiquité classique, vol. 1 Les théories (Parigi 1981) che include una scelta di testi in traduzione francese, una buona intro-duzione di una certa ampiezza e una nutrita bibliografia cui rinvio soprattutto per le indicazioni delle fonti (un secondo volume dell'opera è in preparazione). La Storia della linguistica (1967) di R. Robins, trad. it. (Bologna 1971) è piuttosto sommaria ed è utile per la storia della grammatica (in effetti ricalca, per la parte antica, il suo Ancient and Mediaeval Grammatica! Theory in Europe, Londra 1951), meno per il resto; alquanto superficiale h Storia della linguistica (1967) di G. Mounin, trad. it. (Milano 1968). In parte rilevanti sono R. Pfeiffer,Storia della filologia classica (1968), trad. it. con introd. di M. Gigante (Napoli 1973) e D. Lanza, Lingua e discorso nel-l'Atene delle professioni (Napoli 1979); di modesta utilità E. Riverso, Il linguaggio nel pensiero filosofico e pedagogico del mondo antico (Roma 1973). Selettivo nei temi ma interessante è V. Hovdhaugen, Poundations of Western Linguistics (Oslo 1982).

Un ampio, informato e preciso quadro degli studi, soprattutto di storia della gram-matica, è fornito da J. Pinborg, Classica! Antiquity Greece, in T. A. Sebeok (a cura di), "Current Trends in Linguistics", vol. 13 Historiography of Linguistics (L'Aia e Parigi 1975) pp. 69-126 (mentre l'articolo di L. Romeo, Classica( Antiquity: Rome, ibid., pp. 127-77, è poco più di un lungo elenco bibliografico). Di utile consultazione A. Della Casa, La grammatica, in "Introduzione allo studio della cultura classica" (Milano 1973) vol. 2, pp. 41-91. Sempre sulla storia della grammatica, soprattutto per il periodo tardoantico, un contributo originale è dato da E. Siebenborn, Die Lebre von dm- Spracbrichtigkeit und ibren Kriterkn: Studien zur antiken normativen Gram-matik (Amsterdam 1976).

Una sintesi della riflessione filosofica sul linguaggio si trova in A. Graeser, On Lan-guage, Thought and Reality in Ancient Greek Philosophy, Dialettica, vol. 31, 359-88 (1977). Rimane istruttivo, per il periodo fino a Platone, E. Hoffmann, Die Sprache und die arcbaische Logik (Tubinga 1925); vanno pure tenuti presenti M. Buccellato, Linguaggio e società alle origini del pensiero filosofico greco, Rivista critica di Storia

della Filosofia, vol. 15, 339-53 (1960) e vol. 16, 3-32, 259-77, 363-84 (1961) e Poe-tica preplatonica, testimonianze e frammenti (con ampie note) a cura di G. Lanata

(Firenze 1963). Sui sofisti sono importanti il terzo volume (The Fifth-Gentury En-lightenment) di A History of Greek Philosophy di W. K. C. Guthrie (Cambridge 1969)

e i contributi (con bibliografia) di F. Heinimann sull'idea di technk, di W. Wieland

43 Linguaggio e discorso

sulla logica, di C. J. Classen e D. Fehling sulla linguistica, raccolti in Sopbistik, a cura

di C. J. Classen (Darmstadt 1976); su sofisti e stoici insieme va visto anche P. Genti-netta, Zur Sprachbetrachtung bei den Sopbisten und in der stoisch-bellenistischen

Zeit (Winterthur 1961). Si estende al periodo postsofistico, ma limitatamente a Pla-

tone, Aristotele ed Epicuro, D. Di Cesare, La semantica nella filosofia greca (Roma

1980). Su Platone sono stimolanti e ludici i due saggi di R. Robinson sul Graffio in-

clusi nei suoi Essays in Greek Pbilosophy (Oxford 1969); vedi inoltre J. Derbolav,

Platons Sprachpbilosopbie im 'Kratylos' und in den spateren Schriften (Darmstadt

1972), con ampia bibliografia ragionata; K. Gaiser, Name und Sacbe in Platons 'Kra-

tylos• (Heidelberg 1974); ancora su Platone e su Aristotele i saggi di A. Pagliaro inclusi

nei suoi Nuovi saggi di critica semantica (Messina e Firenze 1956). Su Aristotele il

miglior contributo complessivo è. quello di R. McKeon, Aristotle's Conception of

Language and the Arts of Language, Classical Philology, vol. 41, 193-206 (1946) e

vol. 42, 21-50 (1947); di modesto livello il libro di M. T. Larkin, Language in the

Pbilosophy of Aristotle (L'Aia e Parigi 1971); informativo G. Morpurgo-Tagliabue,

Linguistica e stilistica di Aristotele (Roma 1967). Sugli stoici sono importanti: M.

Pohlenz, La Stoa: storia di un movimento spirituale (1948), trad. it. (Firenze 1967);

K. Barwick, Probleme der stoischen Sprachlebre und Rhetorik (Berlino 1957); gli

articoli di A. C. Lloyd e A. A, Long in Problems in Stoicism, a cura di A. A. Long

(Londra 1971); gli articoli di logica, grammatica e semantica di I. Mueller, M. Frede e

A. Graser in Tbe Stoics, a cura di J.M. Rist (Berkeley 1978); infine, oltre all'articolo

già citato di Pinborg, R. T. Schmidt, Die Grammatik der Stoiker (1839), trad. ted.

con introduzione, note e bibliografia ragionata a cura di K. Hùlser e U. Egli (Braun-schweig e Wiesbaden 1979). Il libro di G. Rodis-Lewis, Epicure et son école (Parigi

1975) è una buona sintesi. Per il periodo tardoantico è opportuno menzionare almeno la recente traduzione inglese annotata della sintassi di Apollonio Discolo a cura di

F. W. Householder (The Syntax of Apollonius Dyscolus, Amsterdam 1981) e lo

studio della stessa opera di D. L. Blank, Ancient Philosophy and Gramma? (Chico,

Cal. 1982). Opere di introduzione alla retorica antica: R. Barthes, La retorica antica (1970),

trad. it. (Milano 1972); A. Plebe, Breve storia della retorica antica (Bari 1968); ancora

più sommario P. O. Kristeller, Retorica e filosofia dall'antichità al Rinascimento

(1979), trad. it. (Napoli 1980). Buona ampia sintesi (con indicazioni bibliografiche)

G. Kennedy, A History of Rhetoric (Princeton 1963-83): vol. 1 The Art of Persuasion

in Greece (1963), vol. 2 The Art of Rhetoric in the Roman World (1972), vol. 3

Greek Rbetoric under Christian Emperors (1983).11 sistema della retorica tradizionale

è esposto (seguendo soprattutto Quintiliano) da H. Lausberg, Elementi di retorica

(1949), trad. it. (Bologna 1969), che è una riduzione del suo noto Handbucb der

literarischen Rhetorik (Monaco 1960, 2a ed. 1973). Stimolanti J. de Romilly, Magic

and Rhetoric in Ancient Greece (Cambridge, Mass. 1975); C. A. Viano, Aristotele e la

redenzione della retorica, Rivista di Filosofia, vol. 58, 371-425 (1967); A. Hellwig,

Untersucbungen zur Tbeorie der Rhetorik bei Platon und Aristoteles (Gottinga 1973).

Una breve, ma efficace, storia della dialettica antica fino ad Aristotele è tracciata

da G. Ryle, Dialectic in the Academy, in R. Bambrough (a cura di), "New Essays in

Plato and Aristotle" (Londra 1965) pp. 39-68; pure interessanti E. Kapp, Greek Foun-

44 Capitolo primo

dations of Traditional Logic (New York 1942), L. Sichirollo, Dialettica Milano (1973)

e il secondo capitolo di G. E. R. Lloyd, Magia Ragione Esperienza (1979), trad. it.

(Torino 1982). Per la storia della logica sono particolarmente utili le seguenti opere (che però trascurano entrambe le origini dialettiche della logica): J. M. Bochenski, La

logica formale (1956), trad. it., 2 voll. (Torino 1972), che include un'ampia scelta di

passi in traduzione con note esplicative; W. e M. Kneale, Storia della logica (1962),

trad. it. (Torino 1972), che offre un'efficace e aggiornata trattazione. Introduttivo V.

Celluprica, La logica antica (Torino 1978), includente una scelta di passi annotati con

breve introduzione. Come esempio del crescente interesse per la logica e la dialettica

stoica cito la raccolta curata di L Brunschwig, Les stoiciens et leur logique (Parigi

1978); va poi ricordato che la raccolta più completa dei testi, compresi quelli gram-

maticali (con traduzione tedesca e commenti) è data da K. Hfilseq Die Fragmente zur

Dialektik der Stoiker (Costanza 1982) (edizione provvisoria in 8 volumi, consultabile

presso l'Università di Costanza). Sull'omonimia vedi E. Heitsch, Die Entdeckung der

Homonymie (Wiesbaden 1972). Sulla disputa natura/ convenzione rimane fondamen-

tale F. Heinimann, Nomos und Playsis (1945) (Darmstadt 1972).