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Giovanni Caselli I FIGLI DEL CIELO E DELLA TERRA ATLANTE DI MITOLOGIA CLASSICA Ripreso dalle fonti classiche per giovani e adulti CAPITOLO 1 LA NASCITA DEGLI DEI LA "TEOGONIA" DI ESIODO CAPITOLO 2 DEI E MITI DEL CIELO GLI DEI DELL'OLIMPO E LE LORO PRODEZZE CAPITOLO 3 DEI E MITI DELLA TERRA, DELLE ACQUE E DELL'ALDILA' DIONISO, DEMETRA, ADE, PERSEFONE, ORFEO, POSEIDONE, PAN CAPITOLO 4 PROMETEO

MITOLOGIA CLASSICA

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Giovanni Caselli

I FIGLI DEL CIELO E DELLA TERRA

ATLANTE DI MITOLOGIA CLASSICA

Ripreso dalle fonti classiche per giovani e adulti

CAPITOLO 1 LA NASCITA DEGLI DEI

LA "TEOGONIA" DI ESIODO

CAPITOLO 2 DEI E MITI DEL CIELO

GLI DEI DELL'OLIMPO E LE LORO PRODEZZE

CAPITOLO 3 DEI E MITI DELLA TERRA,

DELLE ACQUE E DELL'ALDILA' DIONISO, DEMETRA, ADE, PERSEFONE, ORFEO,

POSEIDONE, PAN

CAPITOLO 4 PROMETEO

MITI DEGLI EROI ANTICHI LA CASA DI DANAO, PERSEO, ERACLE

LA FAMIGLIA DI EOLO E GLI ARGONAUTI LA FAMIGLIA DI ETOLO, LA CASA DI MINOSSE

CERCOPE ED ERETTEO, TESEO, LA CASA DI LABACO, EDIPO RE, I SETTE CONTRO TEBE

INDICE GENERALE

Genealogia degli Dei secondo Esiodo

INTRODUZIONE:

DA UNO SOLO A TANTI DEI LE FONTI STORICHE DEI MITI

COS'E' IL MITO, I MITI CONTINUANO AD ESISTERE OMERO E L'IDEA DEL MONDO

CAPITOLO 1

LA NASCITA DEGLI DEI LA "TEOGONIA" DI ESIODO

CAPITOLO 2

DEI E MITI DEL CIELO GLI DEI DELL'OLIMPO E LE LORO PRODEZZE

CAPITOLO 3 DEI E MITI DELLA TERRA,

DELLE ACQUE E DELL'ALDILA' DIONISO, DEMETRA, ADE, PERSEFONE, ORFEO,

POSEIDONE, PAN CAPITOLO 4

MITI DEGLI EROI ANTICHI LA CASA DI DANAO, PERSEO, ERACLE

LA FAMIGLIA DI EOLO E GLI ARGONAUTI LA FAMIGLIA DI ETOLO, LA CASA DI MINOSSE CERCOPE ED ERICTONIO, TESEO, LA CASA DI

LABACO, EDIPO RE, I SETTE CONTRO TEBE

"I FIGLI DEL CIELO E DELLA TERRA"

ATLANTE DI MITOLOGIA

INTRODUZIONE Da un solo dio a tanti dei Nella notte dei tempi, quando gli uomini non sapevano ancora scrivere e vivevano in tribù isolate, ogni comunità aveva un dio o una dea loro propri, generalmente si trattava di personificazioni di cose o fenomeni della natura, come un fiume, una montagna, un albero, un animale. Oltre alla divinità locale molti riconoscevano anche grandi divinità comuni a molti popoli, come ad

esempio una Grande Madre, identificata con la Terra o un Dio Sole che tutti illumina. Quando le tribù vennero ad unirsi e a formare quelle unità più grandi che oggi chiamamo nazioni, tutte le divinità furono riunite e si formò, col divenire della nazione stessa, quello che si chiama in greco "pantheon" o "casa di tutti gli dei". Mentre fra e varie tribù che si univano avvenivano litigi e lotte per la supremazia, così si narravano storie di battaglie fra gli dei delle tribù in conflitto. Infine una tribù prevaleva sulle altre e tutta la nazione accettava che le divinità della tribù predominante assumessero più importanza di tutte altre. Fu così che Amon-Ra conquistò il primo posto fra gli dei dell'Egitto, Zeus fra quelli dell'antica Grecia, Giove fra gli dei dell'Italia latina, Odino fra quelli dell'Europa germanica. Gli Ebrei, che provengono dalla tribù di Abramo, ebbero un solo dio.

Le fonti storiche dei miti Omero, il poeta greco vissuto all'inizio dell' VIII secolo a.C., il primo e il più grande di tutti i poeti, cantò i due famosi poemi "epici" (che narrano imprese di eroi) che ci sono stati tramandati coi titoli di "Iliade" e "Odissea". I due poemi, memorie storiche tramandate dapprima per via orale, narrano, il primo, della collera dell'eroe Achille durante la grande guerra fra gli Achei della Grecia e i Troiani dell'Asia Minore. Il secondo delle avventure dell'eroe Odisseo (Ulisse per i Romani) durante il suo ritorno i patria da Troia. Si fa riferimento, non sappiamo con quanta accuratezza, a eventi storici accaduti alcuni secoli prima di Omero. Nei due lunghi racconti Omero intercala numerose informazioni e storie concernenti gli dei della Grecia, sono queste le più antiche informazioni scritte sull'argomento. Un'altro poeta, Esiodo, di una generazione più giovane di Omero, scrisse egli stesso, una storia degli dei Greci in un poema che intitolò "Teogonia" (nascita degli dei). E' questa la prima opera letteraria della Grecia dove si cerchi di dare un senso logico e cronlogico a tutta una serie di divinità e storie fino ad allora disperse in una miriade di fonti e tradizioni non tutte collimanti. Alla stessa epoca appartengono altre opere concernenti gli dei; ci è stata tramandata, ad esempio, una serie di poemi detti "Inni omerici", ma non attribuibile a un solo autore. Erodoto, il geografo e storico che nacque all'inizio del V secolo a.C., diceva che senza Omero ed Esiodo non avremmo saputo nulla di preciso sugli dei greci. Fra il VI e il V secolo a.C., Pindaro, altro grandissimo poeta, compose numerosi poemi "lirici" (da cantarsi accompagnati dal suono della lira), che contengono ulteriori numerosissime informazioni e storie riguardanti gli dei. Dal V secolo in poi non si contano più le opere letterarie concernenti, direttamente o indirettamente, gli dei greci. Soprattutto il teatro dei grandi drammaturgi narra le storie di dei, semidei e figure leggendarie degli albori della civiltà greca.

Eschilo, Sofocle ed Euripide scrissero numerose "tragedie" (così dette da una antica "canzone della capra", capra=tragos) concernenti dei, eroi e personaggi leggendari, molte delle quali sono giunte intatte sino ai nostri tempi. Furono anzitutto queste tragedie ad ispirare gli artisti Greci, i cui fregi, le cui statue, i cui stupendi vasi dipinti, ci sono giunti numerosissimi. Da tutto questo materiale, e da ciò che vi aggiunsero scrittori, artisti e poeti di epoca romana, possiamo oggi ricostruire in grande dettaglio, tutto il "pantheon" greco e la "mitologia" degli dei, ossia le storie che li riguardano sencondo la tradizione popolare.

Cos'è il mito Un mito non è una fiaba, né una storia per bambini, nemmeno lo si può chiamare una "storia tradizionale" nel senso comunemente inteso. Il mito è assai più di tutto ciò. Il mito è un ingrediente fondamentale della civiltà, non vi è civiltà senza miti. La differenza principale fra l'uomo e l'animale sta nel fatto che la vita dell'uomo è interamente pervasa dal mito, quella dell'animale dall'istinto. Ogni civiltà si contraddistingue per un certo tipo di comportamento che le appartiene in esclusiva. Il comportamento collettivo delle nazioni è determinato da quello in cui credono le donne e gli uomini che le formano, non dalla contingenza, né dalla realtà oggettiva, che nessuno è in grado di percepire, se non attraverso il canocchiale deformante delle proprie convinzioni, dei miti. Dalle sue origini, un popolo incomincia a narrare e rinarrare, cambiando e distorcendo, ciò che man mano accade nella comunità a cui appartiene. Ogni accadimento, ogni fatto che scandisca il passare del tempo, viene interpretato alla luce dei parametri preesistenti. Cresce così nel tempo una grande e complessa ragnatela di storie, di origine locale o importate, tutte collegate fra loro dalla trama di concetti e percezioni comuni, peculiari di quella società. All'interno di questa trama di storie e di interpreatzioni, gli uomini e le donne trovano risposte a ogni quesito e ogni modello di comportamento per qualsiasi circostanza.

I miti continuano ad esistere Noi in Occidente, inclusi Greci, Romani, Celti e Germani, siamo gli eredi della civiltà che iniziò in Mesopotamia oltre 4000 anni a.C., anche noi stiamo ora, in questo momento, coi nostri libri e coi nostri giornali quotidiani, tessendo quella stessa trama, quella ragnatela, che ha al suo centro l'antica Mesopotamia. Questo libro narra, soprattutto attraverso le immagini, delle origini degli dei greci, delle loro prodezze e misfatti, basandosi sulle informazioni contenute nelle opere menzionate qui sopra e tante altre che sarebbe troppo lungo elencare, secondo un ordine di cui sltanto l'autore è responsabile.

Tuttavia, la struttura di questo lavoro deve molto a Orazio, a Thomas Bulfinch, a Charles Mills Gayley, a Pierre Grimal e all'immaginazione dell'autore.

Omero e l'idea del mondo Non vi è dubbio alcuno che Omero, come tutti i Greci del suo secolo, ritenesse la Terra piatta e di forma circolare. La Terra era insomma come un disco, circondata dall'Oceano che egli riteneva essere non un mare, ma un grande fiume composto di nove correnti, o flussi sovrastanti l'uno all'altro, che continuamente scorreva attorno. La volta del cielo, che egli definisce "bronzea" o "ferrea" per denotarne la solidità, era da lui ritenuta concava, come il "firmamento" della Bibbia, e poggiante lungo il perimetro della Terra. Ritenendo che questa solida e pesante calotta necessitasse di un forte appoggio, egli immaginò che essa poggiasse su forti colonne bronzee. Di queste colonne si occupava il gigante Atlante, figlio del titano Giapeto e nipote di Gaia, la Terra. Dopo l'epoca di Omero si ritenne che Atlante stesso reggesse la volta celeste con le sue potenti braccia. Non è dato sapere, né tramite Omero, né tramite altri autori, quale fosse la reale collocazione di queste colonne. Ma probabilmente Omero stesso riteneva questa concezione non una realtà obiettiva, ma piuttosto una spiegazione mitologica di un mistero altrimenti inspiegabile. Omero ritenne anche che il sole si levasse dalla corrente dell'Oceano a oriente per immergersi di nuovo in essa a occidente. Cosa accadesse al sole durante la notte non è un problema che Omero, o altri suoi contemporanei, si curassero di spiegare chiaramente. Alcuni ritenevano che il sole e gli astri, al tramonto si imbarcassero in vascelli d'oro e, facendo mezzo giro del mondo, si portassero di nuovo a oriente. Le stelle si comportavano come il sole, tuffandosi nell'Oceano al mattino e riemergendo alla sera. Tuttavia, a un attento osservatore non doveva sfuggire il fatto che la Stella Polare e le stelle vicine ad essa (che i Greci chiamavano Orsa o Carro) non tramontavano mai, ma roteavano nel cielo del nord. Omero menziona anche altre costellazioni, come le Pleiadi, Orione, etc., e ciò fa ritenere che l'osservazione astronomia dei Greci dell'epoca fosse molto sviluppata specialmente grazie alla navigazione commerciale, che si orintava con le stelle. Omero non semba avere alcuna cognizione dei quattro punti cardinali. Dicendo "verso l'Aurora e il Sole" egli si riferiva all'Oriente, mentre col termine "l'Oscurità" egli designava l'Occidente. Tuttavia Omero designava i "quattro venti", le cui direzioni e i cui nomi devono essere stati determinati dai marinai per i quali la conoscenza de venti era una necessità. I venti venivano collocati esattamente sui punti cardinali quali li intendiamo noi. Borea era il vento del nord, esso portava tempo buono e cielo sereno, ma anche forti marosi. Noto era il vento del

sud, un vento portatore di tempeste violente. Zeffiro era il vento dell'ovest e anch'esso portatore di burrasche. Euro, il vento dell'est non aveva una grande importanza per i Greci. Omero non nomina l'Egeo, egli fa riferimento a "il mare" per antonomasia, intendendo probabilmente tutto il Mediterraneo e, probabilmente, anche il Mar Nero, che egli, tuttavia, non pare conoscere. Egli mantiene sempre una netta distinzione fra il mare e l'Oceano, ritenendo quest'ultimo la sorgente di tutte le acque della Terra, incluse le fonti e i pozzi. Omero non aveva alcun concetto dei continenti, come invece lo ebbero i Greci dopo di lui, i quali divisero il mondo in Asia, Europa e Africa. Egli menziona la Libia, il nome con cui i Greci designavano l'Africa, ma non fa alcun riferimento all'Asia o all'Europa. Sotto la Terra, sotto il disco circondato dall'Oceano, (ma a volte oltre il flusso di questo), i Greci collocavano il Tartaro, la regione più profonda del mondo, ancora più profonda dell'Ade, o gli inferi, dove vanno le anime dei morti. Fra l'Ade, che si trova immediatamente sotto la superficie terrestre, e il Tartaro, la distanza era, ifatti, eguale a quella fra il cielo e la Terra. Nella mitologia anche il Tartaro è personificato, analogamente a Gaia, la Terra, assieme alla quale egli ha dei figli. Pagg. 8-9

CAPITOLO 1

LA NASCITA DEGLI DEI LA "TEOGONIA" DI ESIODO

Nascita di Gaia, la Terra

1) ...."Vi narrerò ora come nacquero la Terra e i primi dei;

vi racconterò come nacquero i fiumi, il mare sconfinato coi suoi flutti impetuosi,

le stelle splendenti e l'ampio cielo sopra di loro. Gli dei, che questi popolarono,

come si spartirono queste ricchezze? Come si divisero gli onori fra di loro?

Come conquistarono il grande Olimpo? Aiutatemi voi, oh muse che abitate l'Olimpo,

ditemi quale di queste cose venne per prima" (Esiodo, Teogonia)

2) Dapprima era il Caos "lo sbadiglio", il "baratro abissale", il nulla. Poi venne Gaia "la terra", dall'ampio seno, la solida base di tutti gli dei immortali, padroni delle vette nevose del monte Olimpo, della terra, del mare e degli oscuri recessi del Tartaro "l'Occidente". Assieme a lei comparve il piccolo Eros (Amore), che unisce le cose.

3) Dal Caos vennero anche Erebo "il buio", e la nera Notte. Dall'unione di Erebo e Notte nacquero Etere e Giorno che furono i primi ad esistere, assieme a Gaia. a) Secondo gli antichi Greci la terra era piatta, racchiusa in una sfera dove al di sopra si trovavano l'etere, ossia la parte più alta dell'atmosfera, e l'aria, la parte più bassa e più densa, dove sono le nubi. Al di sotto era l'Erebo, un luogo buio, umido e solitario.

__________________ Pagg. 10-11

Urano e Gaia 1) Gaia stessa generò lo stellato Urano, il cielo, suo figlio pari a lei, che la avvolse interamente offrendo una sede dignitosa per i suoi futuri dei. 2) Poi Gaia creò catene di monti, popolandoli di innumerevoli Ninfe. Poi, senza amore, diede alla luce Ponto, "il mare", con le sue sterili profondità e i suoi flutti impetuosi.

I Titani 3) Gaia si unì ad Urano e da questa unione nacque per primo Oceano, dai gorghi paurosi, poi seguirono i Titani Ceo, Crio, Iperione e Giapeto. Più tardi vennero alla luce le Titanidi, Teia e Rea, Temi, Mnemosine e Foebe dall'aurea chioma, quindi la bella Teti. L'ultimo nato fu il furbo Crono, il più giovane e il più temibile dei figli di Gaia. a) I Titani sono sei e hanno sei sorelle, le Titanidi. Oceano, definito "l'origine di tutto", era concepito come un grande fiume; Coeus "l'intelligente", Crio "l'ariete del cielo", Iperione "colui che abita in alto" padre del sole, Giapeto "il frettoloso", Crono "il corvo, il fecondo". Le Titanidi erano: Teia "la divina", Rea "la terra", Temi "l'ordine", Mnemosine "la memoria", Febe "luna splendente", Teti "la fecondità dell'acqua".

________________ Pagg. 12-13

I Ciclopi e gli Ecatonchiri 1) Gaia generò i superbi Ciclopi, Bronte il tuonante, Sterope il fulminante e il testardo Arge, il vivido. Essi

erano come dei, ma possedevano un solo occhio in mezzo alla fronte. A Zeus diedero poi tuono e folgore. 2) Altri tre figli furono generati da Gaia e da Urano, essi erano gli Ecatonchiri, Cotto "colui che colpisce", Briareo "il forte", e Gige "dalle molte braccia". Dalle loro spalle spuntavano infatti cento braccia e ognuno aveva cinquanta teste. La loro forza era irresistibile, fra tutti i figli di Gaia essi erano i più temibili e i più odiati dal padre.

La mutilazione di Urano

3) Lo scellerato Urano, temendo ora i propri figli, prese a segregarli in un luogo segreto, nel profondo Tartaro, compiacendosi poi di questa sua malvagità. 4) Gaia, che invece languiva, escogitò una astuta vendetta contro il suo crudele compagno. Essa modellò una poderosa falce di dura selce e parlò del suo piano ai cari figli. 5) "Figli miei, puniremo il vostro crudele padre, egli solo è colpevole della vostra prigionia" 6) La paura pervase i figli timorosi del poderoso padre. Solo Crono, il più furbo, si fece avanti con coraggio. "Madre cara, farò ciò che chiedi poiché non rispetto un padre che commette tali malvagità". 7) Quando, accompagnato dalla nera Notte, Urano giuse cercando la sua sposa, l'astuto Crono, dal suo nascondiglio, brandendo la micidiale falce, recise, con un poderoso fendente, il membro del padre e lo gettò nel mare.

______________ Pagg. 14-15

La nascita di Afrodite 1) Il sangue che sgorgò dalla ferita di Urano fecondò Gaia che diede alla luce le poderose Erinni che dimorano nell'Erebo, e i cento Giganti dalle armature splendenti, poi generò le Melie che dimorano nei frassini dell'immensa terra. a) Le Erinni sono le Furie dei Romani, dee violente all quali gli stessi dei devono sottomettersi. I loro omi erano Aletto, Tisifone e Megera. b) Le Moire sono i destini, ogni uomo ha la sua Moira. Esse sono inflessibili non potendo trasgredire. I loro nomi erano Atropo, Cloto e Lachesi.

c) I Giganti, che non vanno confusi coi Titani, erano mortali, nati per vendicare i Titani vinti dagli Olimpici. Anch'essi vengono man mano sconfitti dagli dei. 2) Dal mare, dove era caduto il membro di Urano, si sprigionò una bianca schiuma dalla quale nacque una bellissima giovane. 3) Aiutata da Eros e Desiderio, suoi eterni compagni, essa salì su una conchiglia e, spinta dal vento, navigò verso l'isola di Cipro dove venne a terra. Ove ella pose i piedi il suolo si coprì d'erba e di fiori. 4) Dei e uomini chiamano la bella, Afrodite Ciprogenita. d) Afrodite "nata dalla schiuma", Ciprogenita "nata nell'isola ni Cipro".

_________________ Pagg. 16-17

I figli della Notte 1) Frattanto la Notte generò i suoi temibili figli. 2) Essa partorì per prime le Esperidi, le dee del tramonto a) Le Esperidi, che si chiamavano Egle, Erizia ed Esperaretusa, vivevano nell'estremo Occidente, presso il monte Atlante. Esse vegliavano sul giardino degli dei, dve crescevano i pomi d'oro, ossia le arance. 3) Poi concepì Amicizia e Inganno, Biasimo e Sventura. 4) Essa generò la Sorte il Fato e la Morte. Poi nacque da lei il Sonno che si circondo' dei numerosi Sogni e dei Destini. 5) Infine ecco Tribolazione, Vecchiaia e Nemesi, che per sfuggire a Zeus si mutò in oca. b) Nemesi rappresenta la vendetta divina che punisce i crimini e gli eccessi degli dei e dei mortali, essa piega l'orgoglio dei re. Nemesi produsse l'uovo da cui nacquero Elena e i Dioscuri.

______________________________ Pagg. 18-19

I figli di Ponto 1) Ponto, "il flutto marino", generò con Gaia, Nereo "il bagnato", colui che non sa mentire. Gli uomini lo chiamano "il Vecchio del Mare" poiché egli è buono e giusto.

2) Dall'amore di Gaia, Ponto ebbe altri figli, fra questi erano il grande Tauma "il meraviglioso", e il fiero Forci "il cinghiale", Ceto "creatura marina" dal viso roseo, ed Euribia "grande forza" dal cuore di selce. 3) Nereo e Doris, la figlia di Oceano, ebbero cinquanta figlie, le Nereidi, o Ninfe del Mare. 4) Tauma sposò Elettra, figlia di Oceano, da lei ebbe la svelta Iride "arcobaleno", e le tre rapaci Arpie. 5) Forci e Ceto ebbero le Graie, grigie sin dalla nascita. Poi ebbero le Gorgoni terribili che abitano oltre la corrente di Oceano, nella terra vicina alla Notte. Esse si chiamano Stenno, Euriale e Medusa, l'unica mortale. a) Le Graie, le "vecchie", Enio, Pefredo e Dino, avevano un solo occhio e un solo dente in tre. Esse erano le guardiane della via che conduce alle Gorgoni. b) Le Gorgoni abitavano in Occidente, vicino alle Esperidi. Chiunque le guardasse si tramutava in pietra. Solo Poseidone osò unirsi a Medusa. 6) Figlio di Ceto fu anche il temibile serpente che custodisce i pomi d'oro nel segreto Giardino delle Esperidi, presso i confini occidentali della terra. 7) Crisaore, generato dal sangue di Medusa, sposò Callirroe, figlia di Oceano e da lei ebbe figli mostruosi... ...Gerione dalle tre teste ...ed Echidna, metà bella ninfa e metà orribile serpente. 8) Echidna si unì a Tifone, suo simile, e generò Ortro, il feroce cane di Gerione, poi Cerbero, il cane dell'Ade. 9) Infine Echidna partorì la perfida Idra di Lerna, il serpente dalle nove teste. 10) Idra fu madre di Chimera, il mostro triforme, dall'alito ardente. 11) Echidna si unì a Ortro e generò la mortale Sfinge, funestatrice della campagna Nemea.

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Pagg. 20-21

Divinità del Cielo 1) Teia ed Iperione, i Titani, si unirono e generarono il magnifico Elio, il sole.

Da essi nacque poi la chiara Selene, la luna, quindi venne Aurora , l'aurora che splende sui mortali come sugli dei eterni. 2) Euribia, la forte, unita a Crio, ebbe Astreo, Pallante e Perse, eminente fra i sapienti. 3) Aurora si innamorò di Astreo e con lui generò i Venti dal poderoso cuore, Zefiro, Borea, Noto ed Euro. Poi partorì Eosforo, la Stella del Mattino, e tutte le altre stelle che coronano i cieli. a) I Venti erano situati Borea a nord, Noto a sud, Euro a est e Zefiro a Ovest. 4) Stige, figlia di Oceano, si unì a Pallante ed ebbe figli prodigiosi, utili all'uomo, quali Zelo "la rivalità", Nike "la vittoria", Crato "la forza" e Bio "il potere". Essi dimorano ove gli Dei vogliono. 5) Febe e Ceo si unirono e nacque la dolce Leto, la più gentile di tutto l'Olimpo. Essa partorì poi Asteria che divenne la sposa di Perse. 6) Febe concepì Ecate, onorata sopra ogni altra per donare immensi favori a chi la invoca.

___________________________ Pagg. 22-23

I figli di Oceano e Teti

1) Teti "l'umidità feconda", l'adorata figia di Gaia e di Urano, unendosi con Oceano generò tutti i fiumi della Terra: Nilo, Alfeo, Eridano (Po), Stimone, Meandro, Istro (Danubio), Fasi, Reso, Acheloo, Nesso, Rodio, Aliammone, Ettaforo, Granico, Esepo, Simoide, Peneo, Ermo, Caico, Sangario, Ladone, Partenio, Eueno, Ardesco, Scamandro e tanti altri. 2) Teti partorì poi numerose figlie, le Oceanine, le quali, assieme ai fiumi e con l'aiuto di Apollo, si curano dei giovani. Esse si chiamano Pito, Admete, Iante, Elettra, Doris, Primmo, Urania, Ippona, Climene, Rodeia Calliroe, Zeusso, Clitie, Iduia, Pasitoe, Plessaure, Galassaure, Dione, Melobosi, Toe, Polidore, Cercei, Pluto, Perseide, Ianira, Acaste, Sante, Ptrea, Menesto, Europa, Meti, Eurinome, Teleto, Criseide, Asia, Calipso, Eudora, Tiche, Anfiro, Ociroe, Stige. Ma tremila sono le Oceanine che danno il nome e custodiscono le nazioni della terra.

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Pagg. 24-25

Gli Olimpici 1) Rea e Crono, i più cari figli di Gaia, si unirono in matrimonio e generarono splendidi figli. La prima fu Estia "il cuore", poi Demetra "madre del grano", poi Era "la protettrice", e Ade "l'invisibile" che regna nelle regioni del sottosuolo. 2) Venne poi "il tuonante, il cielo limpido", colui che fa tremare la Terra, il saggio Zeus, padre di dei e di uomini. 3) Ma Crono ingoiava tutti i suoi figli man mano che la madre li generava. Come suo padre Urano, egli temeva che un figlio ambizioso un giorno rubasse il suo posto. Egli aveva udito dai genitori la profezia che un giorno egli sarebbe stato spotestato da un suo figlio. 4) Rea, addolorata, stava ora per partorire Zeus. Si recò dai genitori e chiese consiglio. Appena ebbe il figlio, essi la inviarono a Licto, nella fertile isola di Creta, laggiù Gaia lo accolse e lo nascose in una remota caverna sul boscoso monte Egeo. 5) Ritornata, in luogo del figlio, essa diede a Crono una grossa pietra avvolta nel pannolino. Egli, ignaro, prese il fardello nelle sue mani e subito lo inghiottì.

La Guerra dei Titani 6) Mentre Zeus, cresceva forte e poderoso, Rea convinceva Crono a vomitare i suoi figli. Allora Zeus tramò un piano per liberare i Titani, fratelli di suo padre, dalle catene dell'oscuro Tartaro. 7) Ma una terribile battaglia si scatenò fra i Titani. Da un lato quelli che tenevano per Zeus e l'Olimpo, dall'altro quelli che tenevano per Crono e volevano mantenerlo al potere. 8) La battaglia ebbe inizio, la Terra tremò, l'Olimpo stesso fu scosso fino alle fondamenta dal cruento conflitto. Infine fu Zeus, il vittorioso, a sedere sul trono dei cieli. Unico incontratato signore, Zeus confinò i suoi nemici, in catene, nelle profonde oscurità dell'Erebo.

_______________________ Pagg. 26-27

Prometeo e i suoi fratelli 1) Giapeto, il buon Titano, figlio di Gaia, sposò la bella Climene, figlia di Oceano e Teti.

Ben presto ella partorì Atlante "il sofferente" dal cuore generoso, destinato a sostenere la volta del cielo dai confini della Terra. 2) Seguì l'orgoglioso Menezio "sfidatore del fato", quindi nacque l'astuto Prometeo "colui che pensa prima", che diede il fuoco agli uomini, e infine il maldestro Epimeteo "colui che pensa dopo", che Zeus doveva poi confinare nell'Erebo.

Tifeo il terribile 3) Dopo che Zeus ebbe confinato i cattivi titani nelle profondità della Terra, Gaia, istigata da Afrodite, amò Tartaro e diede alla luce il suo ultimo figlio, Tifeo "il tifone", dalle cui spalle nascono cento teste di serpente dalle lingue vibranti. Un drago mostruoso e temibile che Zeus confinò nelle viscere della Terra, da cui ancora emanano i suoi orribili muggiti. Il potere di Zeus era adesso incontrastato.

______________________ Pagg. 28-29

La nascita di Atena 1) Zeus, signore degli dei, prese Meti "la consigliera", la più saggia fra dei e mortali, come sua prima amante. Quando ella fu incinta e pronta a dare alla luce Atena dagli occhi chiari, Zeus astutamente la ingannò ingoiandola, come avevano consigliato di fare Gaia e Urano. 2) Zeus, come suo padre prima di lui e suo nonno ancor prima, temeva che un figlio gli rubasse il potere. 3) Ma ecco che un giorno, sulle rive del fiume Tritone, un dolore lo afflisse alla testa. Efesto accorse con la sua ascia di bronzo e spaccò d'un colpo la fronte del dio. 4) Al fendente dell'ascia bronzea Atena guizzò dall'alto della testa del padre con un'urlo terrificante. Il cielo e la terra, nosra madre, tremarono dinanzi a lei. a) Il significato del nome Atena è ignoto. 5) Eurinome, figlia di Oceano, si unì a Zeus e diede lui le tre Grazie, Aglea, Eufrosine e Taleia. Da Eurinome nacque anche il dio-fiume Asopo. 6) Poi Zeus si unì a Temi che partorì le Ore, le tre stagioni dell'anno. Poi nacque la vergine Astrea, che è la giustizia, quindi vennero alla luce le Parche, Cloto "la filatrice", Lachesi "la

misuratrice", e Atropo "colei che non si volta", le filatrici che dispensano agli uomini il tempo della loro vita.

___________________ Pagg. 30-31

Persefone, Apollo e Artemide 1) Zeus amò la sorella Demetra, padrona dei frutti della Terra. Essa partorì la splendida Persefone "la portatrice di distruzione", dalle bianche braccia, che un giorno sarebbe stata rapita e condotta al fianco di Ade, regina dell'aldilà. 2) Zeus raggiunse Menemosine, dai bei capelli, e da lei ebbe le nove Muse che deliziano gli uomini con la musica, il canto, il dramma, la scienza, le lettere. a) Le Muse erano queste: Calliope (poesia epica), Clio (storia), Polinnia (pantomima), Euterpe (flauto), Tersicore (poesia leggera e danza), Erato (lirica corale), Melpomene (tragedia), Talia (commedia), Urania (astronomia). 3) Leto "la signora", si innamorò allora di Zeus. Vedutala incinta, Era se ne ingelosì e le proibì di partorire in qualsiasi luogo della terra. Leto errò per il mondo finché giunse sulla piccola isola di Delo, sopra la quale il Dio del mare creò una volta d'acqua che la nascose agli occhi di Era. 4) Così Leto partorì due splendidi gemelli, Apollo "il distruttore", e Artemide "la luna", dea della caccia, che si deliziano nel tiro all'arco, i più bei figli della stirpe di Gaia e Urano.

_________________________ Pagg. 32-33

Zeus ed Era 1) Infine Zeus sposò sua sorella Era che presto gli diede tre figli, Ebe, Ilizia e Ares. 2) Ebe "la giovinezza", la figlia dedita alla casa e alla madre. Essa serve il nettare, l'ambrosia, cibo dei genitori. 3) Ilizia "la nutrice" che presiede ai parti, anch'essa serva della madre, ne codivide gli odi e le gioie. 4) Ares "il guerriero", è il dio della guerra, violento, impetuoso, la sua dimora terrena è la selvaggia Tracia. 5) Era, sdegnata dai continui tradimenti di Zeus, senza unirsi a lui, diede alla luce il famoso Efesto "colui che brilla di giorno", il più estroso fra i discendenti di Urano.

6) Efesto, il dio del fuoco, difendeva sempre la madre nelle sue continue querele con Zeus. Un giorno Zeus, lo afferrò per un piede e lo scagliò dal cielo, Efesto cadde ferito sull'isola di Lemno, da allora egli fu chiamato "lo zoppo". 7) Poseidone "colui che disseta dalla montagna", fratello di Zeus, regna sul mare, la sua sposa è Anfitrite, la regina del Mare, figlia di Nereo e Doris. Poseidone la scoprì nelle profondità marine, guidato dai delfini, si unì a lei e da questa unione nacque Tritone che con loro regna sugli abissi profondi.

_____________________ Pagg. 34-35

Armonia, Ermes, Dioniso, Eracle 1) Afrodite, innamoratasi di Ares, il saccheggiatore di città , lo volle sposare e da lui ebbe straordinari figli. I primi figli furono Panico e Paura, che gettano nel disordine i ranghi degli eserciti in guerra. Ma ebbe anche Armonia, la bellissima figlia che Cadmo poi fece sposa. 2) Maia "la nonna", la figlia di Altlante, si recò un giorno nel letto di Zeus e dal loro amore nacque il glorioso Ermes "il pilastro", l'araldo degli dei immortali. Maia diede alla luce lo splendido figlio in una caverna del monte Cillene, in Arcadia. 3) Semele, la divina figlia di Cadmo ed Armonia, chiese ad Era di conoscere Zeus e di vederlo nel suo pieno splendore. Era acconsentì, ma ingannò la bella di Tebe che morì fulminata. Zeus salvò il loro figlio consegndolo alle ninfe di Nisa che lo allevarono con amore. 4) Il figlio di Semele era Dioniso "il dio zoppo", il dio che fece conoscere la vite, il vino e l'ebrezza agli uomini. 5) Alcmena era una mortale, sposa di Anfitrione, re di Tirinto. Un giorno, mentre il re era assente, Zeus ne assunse le sembianze e si unì a lei. Da questa unione nacque Alcide "il grande", il più grande giustiziere di tutti i tempi che, assunto il nome di Eracle "gloria di Era", divenenne immortale.

____________________ Pagg. 36-37

Divinità magiche 1) Perseide, la figlia di Oceano, si unì ad Elio che illumina gli uomini e gli diede due figli splendenti: Circe "il falco", la maga dell'isola di Eea, e Aete "l'aquila", re di Colchide. 2) Aete, a sua volta, prese in sposa Idia, un'altra filgia di Oceano, la quale, per volere degli dei, ebbe la bella e potente maga Medea "la furba". 3) Demetra, scesa sull'isola di Creta, si unì un giorno all'eroe Iasione, un mortale. Da questa unione nacque uno straordinario figlio, Pluto "ricchezza", un dio generoso che volando attraverso il mondo, dispensa ricchezze a chiunque lo incontri. 4) Armonia, la figlia di Afrodite, sposa di Cadmo, ebbe da lui quattro figlie che rallegrano la ricca corte di Tebe. Esse sono Ino "colei che tiene assieme", Semele "la luna", Agave "nata in alto" e Autonoe "l'anticonformista".

___________________ Pagg. 38-39

La nascita dei grandi eroi 1) Aurora si unì al bellissimo mortale Titonio ed ebbe da lui i poderosi guerrieri Emazione e Memnone "il risoluto", che divenne re degli Etiopi. 2) Unitasi poi a Cefalo essa partorì il giovane Fetonte "il luccicante", che Afrodite fece guardiano notturno del suo santuario. 3) La dea Teti, fu attratta da Peleo, re di Ftia in Tessaglia e gli diede uno straordinario figlio, Achille "senza labbra", cuor di leone, distruttore di guerrieri. 4) Afrodite vide Anchise, il pastore troiano, pascolare il suo gregge sui verdi pendii del monte Ida e si innamorò di lui. Dichiarandosi figlia del re di Frigia a lui si unì e nacque Enea "il lodevole", l'eroe troiano e dei Latini. 5) Circe la figlia di Elio, nipote di Iperione, amò l'eroe Odisseo, che un giorno approdò alla sua isola. Dalla loro unione nacquero eroi che regnarono nel lontano Occidente. Questi furono Agrio, Latino e Telegono. 6) Infine Calipso, sorella di Circe, si unì a Odisseo, che nel suo peregrinare, giuse anche sulla sua lontana isola di Ogigia. Calipso, "colei che nasconde", partorì due forti figli, Nausitoo "servitore della dea del mare", e Nausinoo "furbo marinaio".

7) Questi furono i figli simili a dei, nati da dee immortali e da uomini mortali, ma non comuni. ___________________________________________________

_______________________________ Pagg. 4O-41

CAPITOLO II

I GRANDI DEI DEL CIELO E I LORO MITI

Pag. 42 (illustrazione del monte Olimpo) Pag.-43

L'Olimpo e i suoi dei

I grandi dei greci abitavano la sommità dell'Olimpo, un monte immaginario simbolizzato dal vero monte Olimpo in Tessaglia. Una cortina di nubi, custodita da le Ore (le Stagioni) si apriva e si chiudeva per consentire agli dei di viaggiare fra il cielo e la Terra. Nell'Olimpo ogni divinità aveva la propria casa, ma tutti, anche gli dei che abitavano la terra, le acque o gli Inferi, quando convocati, si riunivano nel palazzo di Zeus. Nella gran sala delle udienze del re dell'Olimpo gli dei banchettavano ogni giorno nutrendosi di ambrosia e bevendo nettare. Queste sostanze conferivano l'immortalità e rendevano il sangue degli dei sostanzialmente diverso da quello dei mortali. Gli dei discutevano delle cose del cielo e della terra mentre si nutrivano del cibo divino che Ebe dispensava loro. Apollo suonava la sua lira mentre le Muse cantavano. Al tramonto gli dei si ritiravano nei loro rispettivi quartieri per trascorrere la notte, come i comuni mortali. I grandi dei olimpici erano: Zeus, re dell'Olimpo Atena, sua figlia, partorita dalla sua mente Era, sua sposa e sorella Ares, Ilizia ed Ebe, i loro figli Apollo e Artemide, figli di Zeus e di Leto Afrodite, figlia di Urano (secondo altri di Zeus e Dione) Efesto, figlio partenogenetico di Era Ermes, figlio di Zeus e Maia Estia, sorella maggiore di Zeus Questi erano dei del più alto ordine, con l'eccezione di Ebe e di Ilizia che rivestivno un ruolo minore. A questi dieci grandi dei si uniscono Demetra, sorella di Zeus, ma divinità terrestre, Poseidone, fratello di Zeus, signore del mare e Ade, fratello di Zeus e di Poseidone, signore dell'aldilà.

Pagg. 44-45

Zeus ed Era Zeus Il nome "Zeus" o "Dios", significa "la radiante luce del cielo". Zeus, il Giove o Juppiter dei Latini, era il signore supremo dell'universo, il più saggio e il più glorioso fra tutti gli dei. Seduto sul suo alto trono, sullo sfondo del cielo azzurro, Zeus creava le nubi e la neve, dispensando piogge e venti, amministrando la luce, il calore del sole e regolando il ciclo delle stagioni. Egli era il tuonante che brandisce il fulmine. Valoroso e forte, egli era venerato, con riti diversi, in molte regioni. Chi lo pregava doveva essere puro nel corpo e nello spirito. Zeus amministrava la giustizia, punendo ogni violazione dei doveri nell'ambito della famiglia, della società e dello stato. Zeus era anche profeta e le sue predizioni potevano essere udite presso l'oracolo di Dodona, in Epiro, il più antico santuario della Grecia. Erano ovunque consacrate a lui le montagne più alte. Zeus, anche se sposato a sua sorella Era, ebbe oltre a questa relazione incestuosa (ma gli dei si consentivano questo e altro), numerosi rapporti, non solo con dee, ma anche con donne mortali. Oltre ai figli che risiedevano sull'Olimpo, Zeus ebbe, con Semele, Dioniso, dio del vino, un dio terrestre; con la sorella Demetra ebbe Persefone, sposa di Ade e regina dell'aldilà; con Alcmene ebbe Eracle, il più grande degli eroi greci. I Greci immaginavano Zeus guerriero sul suo carro di tuono, lanciante saette, terrore dei suoi nemici. Egli vestiva il pettorale di bronzo detto "egida", imitante una pelle di capra, fronzuto di serpenti, terribile a vedersi, costruito per lui da Efesto, il dio fabbro. Il suo messaggero personale era l'aquila. Era Sorella e moglie di Zeus, chiamata Giunone dai Latini, il suo nome significa probabilmente "la signora". Esempio di tutte le donne, fedele, incorruttibile, ma pronta all'ira e alla vendetta, quando il marito la tradisce. Era, modello di virtù e dignità, è l'amica delle donne sposate, le aiuta nel bisogno, il suo atteggiamento nei confronti di Zeus è di esempio a tutte le donne. Figlia di Urano e Gaia, fu allevata da Oceano e Teti nel loro palazzo, nel lontano Giardino delle Esperidi, presso la corrente di Oceano. Era sposò Zeus, all'insaputa dei genitori, là dove fluivano torrenti di ambrosia e dove in loro onore crebbe l'Albero della Vita, dai pomi del colore del tramonto. Era è la più dignitosa fra le dee, Omero chiama "occhi di bue" intendendo esaltare la mansuetudine e la bontà che emana il suo sguardo, mentre Esiodo la chiama "sandali d'oro" . La sua presenza effondeva un grande senso di regalità, specialmente quando Era saliva sul suo carro d'oro, preparato dalla figlia Ebe e dalle Ore.

La sua gelosia poteva renderla furiosa e temibile, una volta tentò di incatenare il suo infedele consorte con l'aiuto di Poseidone e di Atena. A volte i due passavano alle mani. Un giorno, Zeus, provocato, la appese alle nubi con manette d'oro ai polsi e una incudine legata ai piedi. Favorite alla dea erano le città di Argo, Sparta e Micene, nel Peloponneso. Gli animali favoriti erano la mucca e il pavone, molte mandrie erano dedicate a lei. Pagg. 46-49

Gli amori di Zeus La maggior parte delle storie concernenti Zeus riguarda i suoi amori. Una delle rivali di Era fu Leto, una dea dell'oscurità, figlia dei titani Ceo e Febe. Leto divenne la madre di Apollo e Artemide ed Era non perdonò mai questo tradimento di Zeus. Per ingannare dee e mortali Zeus ricorreva spesso ad astuti espedienti e alla sua capacità di trasformarsi. Egli amò Danae, la figlia del re di Argo, trasformandosi in pioggia d'oro. Amò Alcmena assumendo le sembianze di re Anfitrione, suo marito. Si unì a Leda, figlia di Testio, re di Etolia, assumendo le sembianze di un cigno. Vedremo più avanti alcune di queste avventure nell'ambito di altre storie di dei ed eroi. Con uguale furbizia Zeus si unì ad Io, Callisto, Europa, Semele, Egina, Antiope. Vediamone le storie: Io Io era figlia di Inaco, uno dei figli di Oceano. Un giorno Era, vedendo il cielo coprirsi di nubi, pensò che Zeus stesse per combinarne una delle sue. La dea soffiò via le nubi e vide il marito seduto su un verde prato, vicino a una bella mucca. Era pensò subito che dietro le sembianze della mucca si celasse una ninfa, o comunque una sua potenziale rivale in amore. Infatti Zeus aveva trasformato Io in una giovenca proprio per ingannare la moglie. Allora Era si avvicinò a Zeus e gli chiese in regalo la bella giovenca, egli, non trovando alcuna scusa per rifiutare acconsentì al regalo. Era inviò allora la mucca presso il mandriano Argo dai cento occhi, affinché ne sorvegliasse ogni movimento. Io, non potendo parlare e rivelare ad Argo la propria identità, scrisse il suo semplice nome sulla sabbia con l'unghia. Il padre Inaco, che cercava sua figlia scomparsa, trovò il nome scritto sulla sabbia e si disperò. Zeus, mosso a compassione inviò sulla terra il furbo Ermes, travestito da pastore, con il compito di uccidere Argo ,che non avrebbe mai disobbedito Era, e liberare Io. Ermes si avvicinò al guardiano dai cento occhi e lo addormentò cantandogli una nenia, accompagnato dal suono magico del suo flauto. Appena i cento occhi di Argo si furono tutti chiusi egli lo uccise liberando Io. Era, rammaricata per la morte di Argo, prese i suoi occhi e li gettò contro la coda del pavone che da allora acquistò l'aspetto che lo rende il più bello fra i volatili. Poi prese un

tafàno e lo inviò a tormentare Io, la quale per liberarsene, come fanno spesso le mucche, dovette gettrasi nel mare. Quel mare prese da lei il nome di "Ionio". Io nuotò finché giunse sulle sponde del Nilo. Zeus, addolorato per la sorte di Io, chiese perdono alla sposa promettendole di non tradirla ed Era subito acconsentì a far riacquistare alla povera Io le sue sembianze. Callisto Callisto era una ninfa cacciatrice dei boschi dell'Arcadia che aveva fatto voto di verginità e si era unita ad Artemide e alle sue amiche cacciatrici. Un giorno Zeus la colse addormentata e la amò dopo aver assunto le sembianze di Artemide stessa. Callisto era incinta quando dovette recarsi al bagno con le compagne, queste, vedendola svestita, scoprirono il suo stato e fu scandalo. Era, ingelosita, la trasformò in un orsa. Callisto, da cacciatrice che era, si trovò cacciata dai suoi stessi segugi e, avendo paura degli orsi, si trovava ad esserne uno. Molti anni dopo un giovane cacciatore incontrò l'orso. Callisto riconobbe nel giovane suo figlio Arcade, ora giovinetto. Sconvolta, voleva abbracciarlo, ma egli, impaurito, sollevò la lancia e mentre stava per trafiggere l'orso il suo braccio fu fermato da Zeus. Ancora una volta, sentendosi in colpa, per il dolore che la sua scelleratezza aveva causato, Zeus trasporò madre e figlio in cielo tramutandoli in costellazioni. Oggi Callisto e Arcade sono noti a tutti come Orsa Maggiore e Orsa Minore. Era, insolentita per l'onore riservato a Callisto, si recò nell'Occidente presso i genitori adottivi, Oceano e Teti, e chiese loro di non ricevere le due costellazioni quando ogni mattino esse sarebbero tramontate. Oceano acconsentì ed è per questo motivo che l'Ora Maggiore e l'Orsa Minore sono le uniche costellazioni a non tramontare mai, a dispetto di Era. Europa Europa era la giovane figlia di Agenore, re di Fenicia, un figlio di Poseidone. Un giorno Zeus vide Europa mentre giocava con le compagne sulla spiaggia di Sidone. Alla vista della bellissima giovane Zeus ne escogitò una delle sue. Si trasformò in un toro dalle corna lunate e dal pelame candidissimo, in queste sembianze egli si avvicinò alla ragazza con un bellissimo fiore di croco in bocca. La ragazza, dapprima impietrita dalla paura, eccettò il dono e incominciò ad accarezzare il candido e poderoso collo del toro finché, baldanzosamente, si sedette sulla sua groppa. Subito il toro si alzò e si precipitò verso il mare, mentre Europa gridando afferrava con una mano le corna lunate e con l'altra la propria gonna purpurea. Il toro prese a nuotare verso il largo con la ragazza terrorizzata in groppa. I due giunsero presto in vista di Creta mentre Zeus rivelava la sua identità alla ragazza. Giunti a terra i due si unirono in amore sotto i frondosi platani della fonte di Gortino, che da allora non persero più le foglie. Europa divenne moglie di Asterio re di Creta, da lei l'Europa

prese il suo nome e dalla sua unione con Zeus nacquero Minosse, re di Creta, Radamanto il saggio, e Sarpedone che divenne re di Mileto i Licia. Zeus, riconoscente, fece a Europa tre regali. Uno fu Talo, un grande robot di bronzo che sorvegliava le coste di Creta da sbarchi indesiderati, un'altro fu un segugio al quale nessuna preda sfuggiva, infine un giavellotto da caccia che non falliva mai il bersaglio. Semele Semele, come sappiamo, era figlia del re di Tebe, Cadmo e di sua moglie Armonia, figlia di Afrodite e di Ares. Non meno bella della madre né della nonna, Semele attrasse i desideri di Zeus, il quale stabilì una relazione con la ragazza senza necessità di alcuna trasformazione. Era, accortasi del tradimento, prese le forme di Beroe, la nutrice di Semele, e insinuò con la ragazza che il suo amante non fosse Zeus, ma un'impostore. -Se egli è veramente Zeus, chiedigli di provartelo ! Chiedigli di presentarsi a te in tutto il suo splendore e in tutta la sua potenza, come è nell'Olimpo. La consigliò Era. Allora Semele chiese a Zeus di soddisfare un suo desiderio senza rifiutare per alcun motivo. Egli giurò di farlo e quando la ragazza gli chiese di presentarsi a lei in tutto il suo splendore, egli, pur cosciente del pericolo che avrebbe corso la sua bella amante, fu costretto ad acconsentire. In una caverna, presso il fiume Stice, il giorno prestabilito, Zeus comparve a Semele che lo attendeva, nel suo abito Olimpico. La ragazza rimase uccisa all'istante dai fulmini che accompagnavano il re degli dei e i suo corpo si ridusse in cenere. Ma appena la ragazza cadde Zeus si affrettò a salvare l'embrione che portava in seno e se o mise sotto la pelle di una coscia. Quando nacque Dioniso, Zeus affidò il neonato ad Ermes affinché lo conducesse presso Atamante re di Tebe. Per sviare le ricerche di Era, che voleva la morte del figlio nato dall'iganno, Zeus chiese a Ino moglie di Atamente, di vestire il piccolo con abiti femminili. Tuttavia Era non si fece ingannare e punì Ino e Atamante facendoli impazzire. Allora Zeus portò il bimbo dalle ninfe di Nisa, in Asia, che lo allevarono in quel lontano paese della Fenicia. Egina Egina era una ninfa, figlia del dio-fiume Asopo. Zeus, non resistendo la sua bellezza, la rapì. Il padre, angosciato la cercò dappertutto. Sisifo, re di Corinto, sapendo dell'intrigo, promise di rivelare l'accaduto ad Aspo, a condizione che questi facesse scaturire una copiosa fonte sull'alta rocca di Corinto. Asopo esaudì il desiderio di Sisifo, ma Zeus, accortosi dell'inganno, spedì questo re nell'aldilà confinando Asopo, a suon di fulmini, nel suo alveo dove ancora oggi si trovano copiosi carboni. Zeus portò Egina nell'isola di Enone, nel Golfo Saronico, dove essa ebbe un figlio, Eaco. L'isola prese in seguito il nome di Egina, ed Eaco ne fu il re, ma ormai Egina stessa viveva in Tessaglia dove aveva sposato Attore e gli aveva dato un figlio, Menenzio, futuro padre di Patroclo.

La vendetta di Era si riversò sull'isola di Egina. Nere nubi si addensarono un giorno sull'isola e il vento del sud rese l'aria infuocata, pozzi e fonti si asciugarono, migliaia di serpenti uscirono dalla terra riarsa e riversarono il loro veleno in pozzi e fonti. Incominciarono a perire gli animali e gli uccelli, i buoi cadevano sotto l'aratro, la lana cadeva dalle pecore belanti, i cavalli nitrivano nelle stalle. Tutti languivano, i cadaveri giacevano nelle strade, nei campi, nei boschi e le carogne avvelenavano l'aria. Infine furono gli uomini a soffrire e a desiderare la morte non potendo più sopportare il caldo e i miasmi. Essi si radunarono attorno a pozzi e fontane e bevvero l'acqua infetta finché incominciarono a cadere come ghiande dalla quercia. Re Eaco ebbe un sognò in cui egli si trovava davanti all'altare di Zeus e levando le braccia diceva: - Tu che sei mio padre, restituiscimi il mio popolo o fammi perire con esso! Subito udì un tuono e una quercia crebbe nel recinto sacro. Sul tronco dell'albero Eaco vide brulicare miriadi di formiche e un'implorazione gli venne spontanea: - Padre! Dammi un popolo numeroso come questo formicaio affinché le mie città tornino a popolarsi di uomini. Al mattino il figlio Telamone lo svegliò eccitato: -Padre! Vieni a vedere il prodigio che sta accadendo! Eaco si avvicinò alla porta del palazzo e vide una moltitudine di uomini, numerosi come le formiche della quercia del sogno, che gli si facevano incontro acclamandolo loro re. Eaco ringraziò il Padre e chiamò il suo popolo "Mirmidioni", da "myrmex", il nome greco per formica. I Mirmidioni furono i valorosi soldati di Achille alla guerra di Troia. Antiope La ninfa Antiope era un'altra figlia del dio-fiume Asopo e sorella di Egina, anche molti la ritengono figlia di Nitteo, re di Tebe. La bellezza di Antipope non sfuggì a Zeus e mentre essa danzava nell'ebbrezza del vino egli, trasformatosi in satiro, la amò. Antiope ebbe da Zeus due figli, Anfione e Zeto, che, per paura del padre, abbandonò sul monte Citerone. I due neonati furono però allevati da dei pastori che li avevano casualmente rinvenuti ma, mentre essi ignoravano la loro origine, la madre fu informata sulla loro sorte. Dopo varie peripezie, Antiope cadde nelle mani di suo zio Lico, l'usurpatore del trono di Tebe il quale, istigato dalla consorte Dirce, trattava Antiope con estrema crudeltà. Quando Dirce riuscì a farla condannare a una atroce morte, essa ebbe modo di informare i figli, ormai grandi. Essa gli rivelò la loro vera identità, ma scoprì che, ironia della sorte, erano stati designati essi stessi esecutori della crudele sentenza, perciò fu facile per loro, in quel frangente, rivoltrasi verso Lico e uccidere lui invece della madre. Mentre Zeto si dilettava nella caccia e nella pastorizia, il fratello Anfione fu educato alla musica da Ermes, divenendo uno dei più grandi musicisti del panteon greco.

Salito al trono di Tebe, si racconta che Anfione, durante la costruzione delle mura cittadine, facesse volare le pietre al suono della sua lira. Tuttavia la vita di Anfione fu funestata dal suo matrimonio con Niobe, come vedremo in una prossima storia. Pagg. 50-51

Zeus, il migliore amico dell'uomo

Bauci e Filemone L'amore di Zeus per i mortali traspare in molte delle sue storie, ma in particolare nella storia di Bauci e Filemone. Quando un giorno Zeus, assieme ad Ermes, visitò, la Frigia, regione dell'Asia Minore, intese presentarsi a quelle genti come un comune viandante, bussando alle porte e chiedendo ospitalità. Un giorno, poiché l'ora era tarda, nessuno si alzava dal letto per aprire la porta, finché i due olimpici giunsero, a notte tarda, presso una capanna di legno e paglia. Qui la vecchia Bauci e suo marito Filemone li accolsero offrendo ai viandanti quello che avevano con sincera generosità. I due poveri contadini offrirono loro dei modesti sgabelli e rattizzarono il fuoco. Bauci preparò delle erbe cotte e tagliò della carne salata, quindi riempì un mastello di acqua calda affinché i due viandanti potessero lavarsi. La vecchia pulì quindi il tavolo, lo profumò strofinandolo con una manciata di timo e lo apparecchiò. Pose sul tavolo delle olive di Atena, delle corniole sotto aceto, aggiunse delle radici , del formaggio di yogurt e delle uova cotte sotto la cenere del focolare. Il pranzo fu servito in semplici recipienti di terracotta, vi era poi un cratere con del vino, un'anfora con acqua di pozzo e due tazze di legno per bere. Quando la zuppa di rape e carne salata fu pronta i due ospiti mangiarono completando il pasto con mele e miele selvatico. I due vecchi avevano notato che, durante il pasto, il vino che veniva mischiato con l'acqua nel cratere, non finiva mai. Sbigottiti, Bauci e Filemone accortisi di trovarsi di fronte a delle divinità, caddero sulle ginocchia e chiesero loro perdono per aver offerto a degli dei un così povero pasto. Quindi cercarono di afferrare un'oca, che faceva la guardia alla capanna, intendendo sacrificarla ai divini ospiti, ma l'oca li eluse correndo via. A questo punto Zeus ed Ermes dissero: -Si, siamo dei dell'Olimpo e questo paese pagherà cara la sua inospitalità, voi soli sarete liberi dal castigo che infliggeremo. Lasciate questo tugurio e venite con noi sull'alto della collina! I due vecchi obbedirono e, man mano che salivano, la valle con i villaggi e i campi, si riempiva d'acqua divenendo un lago. Soltanto la loro capanna rimaneva all'asciutto. Poi la capanna si trasformò d'incanto in uno splendido tempio con colonne di candido marmo e tegole d'oro.

Zeus, rivolgendosi ai due vecchi sbigottiti, chiese loro cosa desiderassero più di ogni altra cosa. Filemone e Bauci si consultarono per un istante e dissero: -Vorremmo essere i sacerdoti e custodi di quel tempio e di morire ambedue nello stesso momento quando il tempo verrà. Il loro desiderio venne esaudito, ma quando la morte li visitò, essi non morirono, Bauci si tramutò in un tiglio e Filemone in una quercia. I pastori si fermano ancor oggi numerosi all'ombra dei due antichi e ombrosi alberi, presso il tempio di Zeus.

Era e il dono migliore per l'uomo

Bitone e Cleobi Ciò che Era riteneva il miglior regalo per i mortali è spiegato dalla storia di Bitone e Cleobi. Cidippe, una vecchia sacerdotessa di Era, desiderava vedere la nuova statua della dea nel suo grande santuario della città di Argo. Poiché la vecchia non era in grado di muoversi, i figli la posero su un carro e, non avendo cavalli né buoi, si misero essi stessi alla stanga tirando il veicolo per molte miglia nel caldo e nella polvere, fino alla grande capitale dell'Argolide. I tre giunsero stremati presso il tempio di "Era Argiva" dove li attendeva la popolazione attorno alla magnifica statua "crisoelefantina" (d'oro e avorio) della dea, opera dello scultore Policleto. Cidippe officiò un rito e chiese alla dea: - Oh Era, sono stata per molti anni e sono ancora la tua sacerdotessa. Tu, vergine matrona, ai cui occhi irati perfino Zeus trema, ascoltami! Desidero che i miei figli, i quali con gran sacrificio si aggiogarono al carro e mi condussero da te, abbiano quello che tu ritieni il dono migliore! A queste parole gli occhi della statua si illuminarono roteando, mentre il tuono scuoteva i cieli sopra il popolo di Argo ammutolito. Allora tutti cercarono Bitone e Cleobi finché videro i due giovani giacere, uno presso l'altro, come addormentati, col sorriso sulle labbra. Quando Cidippe si avvicinò a loro volendo svegliarli, si accorse che erano morti. Pagg. 52-53

Atena e i suoi miti

Atena: natura e carattere Atena era la dea vergine che nacque dalla testa di Zeus completamente armata, lanciando un grido di guerra che risvegliò gli echi del cielo e della terra. Atena, la Minerva dei Latini, era la dea dell'intelligenza, patrona delle arti e dell'artigianato, sia degli uomini -agricoltura e navigazione-, sia delle donne -filatura, tessitura e cucitura-. Essa era anche la dea del fulmine che giunge come una lancia dal cielo nuvoloso. Atena era la dea dei temporali e delle saette e portava l'egida, come il

padre, con la testa di Medusa effigiata al centro per impietrire chi osava guardarla. Atena era la dea della guerra, ma tollerava soltanto guerre difensive. Non amava la violenza e il sangue come Ares, essa si rallegrava al suono della banda militare, proteggeva il cavallo da battaglia e la nave da guerra, ma aveva un aspetto delicato e pensieroso. Il suo nome latino, "Minerva" significa "Mente" poiché essa era saggia, abile, contemplativa, protettrice delle arti manuali, della tessitura, dell'agricoltura. La dea proteggeva le città e la città di Atene le era stata donata in riconoscimento del suo atteggiamento pacifico durante la contesa per la supremazia sulla citta fra lei e Poseidone. Al tempo di re Cecrope, il primo sovrano di Atene, le due divinità si erano contese il patronato della città. Gli dei decisero di affidare la protezione città alla divinità che avesse donato alla città la cosa più utile. Poseidone portò il cavallo e Atena l'olivo. Cecrope decise, col volere degli dei, di affidare la città alla dea e il popolo chiamò la città Atene in suo onore. Essa era venerata, oltre che ad Atene, anche ad Argo, a Sparta e a Troia. A lei si sacrificavano buoi e giovenche. Oltre all'olivo le erano cari la civetta, il gallo, il serpente e il corvo. Aracne Un giorno fu un mortale a sfidare la "dea dagli occhi chiari". Aracne, una giovane filatrice, era così abile come tessitrice e ricamatrice, che le ninfe stesse lasciavano i loro boschi per venire a osservarla al telaio. Non erano solo belle le sue tele, ma era meraviglioso osservarne la lavorazione. Osservandola si sarebbe detto che Atena stessa le avesse fatto scuola. Ma Aracne, superba, sosteneva di aver imparato quell'arte da sola. -Fate che Atena venga a sfidarmi e vedrete chi è la più brava! Soleva dire. - Se la dea vincerà, pagherò io la scommessa. Atena che la udì ne fu dispiaciuta. Un giorno la dea si presentò ad Aracne in guisa di vecchia e le disse: -Sfida pure i mortali, ma lascia stare Atena, anzi, chiedigli perdono per la tua arroganza. -Tieniti i tuoi consigli, vecchia citrulla! Non ho paura della dea, lascia che vanga a sfidarmi se ne avrà il coraggio! Rispose Aracne ancor più altera. -Eccola allora! Disse la vecchia assumendo le sembianze della dea. Tutti gli astanti si inchinarono sorpresi di fronte ad Atena. Solo Aracne non batté ciglio e continuò a tessere, anche se le sue guance divennero prima rosse, poi si sbiancarono di colpo. Atena e Aracne, sedute ai rispettivi telai, iniziarono la grande sfida, osservate da numerosi spettatori. Le spolette incominciarono a zigzagare, i pettini a battere il filo e compattare la trama. La lana rossa di Tiro si alternava in bande ad altri colori che si fondevano armoniosamente gli uni negli altri, come accade nell'arcobaleno che rallegra i cieli dopo la pioggia. La dea, sulla sua tela, creò la scena della sua sfida con Poseidone, vi si contavano dieci figure oltre a quelle del

dio del mare col suo tridente e Atena completamente armata, con l'egida sul petto. Aracne invece creò sulla sua tela una scena dove si osservavano tutte le debolezze e le sconfitte degli dei dell'Olimpo. Si vedeva Leda e il Cigno, Danae e la pioggia d'oro, Europa sulla schiena del toro. La tela di Aracne non risultò inferiore in alcun modo a quella della dea. Atena, iratissima, prese la sua spoletta e strappò la tela di Aracne, quindi le toccò la fronte e fece in modo che la giovane si rendesse conto del suo peccato. Aracne, non sopportando ciò che aveva fatto si impiccò. Allora Atena intervenne e le disse: - Vivrai con la tua colpa, e a testimonianza di questa lezione, vivrai sospesa a un filo e così faranno tutti i tuoi discendenti! Spruzzando la ragazza col veleno dell'aconite, la trasformò in un ragno. Pagg. 54-56

Ares e i suoi miti

Ares: natura e carattere Ares, Marte per i Latini, era il dio della guerra, figlio di Zeus e di Era. Il suo nome significa "Uccisore", "Vendicatore", Maledizione", per i Latini "lo splendente" o "l'infuocato". Ares è sempre rappresentato come un implacabile combattente dell'età eroica, guidato dall'ira e dal piacere per la violenza. Egli esulta al rumore della battaglia, si delizia nelle carneficine. La sua vita è condizionata dalle lotte e dalle uccisioni; egli si getta nella mischia senza curarsi di chi sia dalla parte della ragione. Alto due metri, nella sua sfolgorante armatura, egli è terribile a vedersi. Normalmente combatte a piedi, ma a volte lo troviamo sulla quadriga da guerra, sempre accompagnato dai figli Panico e Paura. Ma egli non è sempre vincitore, durante la guerra di Troia Atena ed Era lo ostacolano, Zeus lo tratta da rinnegato e lo odia più di ogni altra divinità. La sua amata sposa è Afrodite e il guerriero si riposa fra le sue braccia dopo la battaglia. La loro figlia Armonia è la matriarca della tormentata dinastia reale di Tebe. La terra che Ares più ama è la Tracia, aspra e selvaggia, i suoi simboli sono la torcia ardente e la lancia, i suoi animali preferiti sono l'avvoltoio e lo sciacallo, frequentatori dei campi di battaglia. Ares e Diomede Durante la guerra di Troia, Atena parteggiava per i Greci ed Ares per i Troiani. Diomede, figlio di Tideo re di Etolia, era primo fra i capi dei Greci in una delle battaglie che si svolgevano sotto le mura di Troia durante il grande conflitto. Quando Ares lo vide si precipitò subito contro di lui col suo carro e gli scagliò un giavellotto. Atena, pronta a difendere i Greci, deviò l'arma che saettò sopra la testa di Diomede. A sua volta Diomede scagliò la sua lancia contro il gigantesco

dio della guerra, e Atena diresse il colpo verso il suo addome. Ares, colpito lanciò un urlo pari a quello di diecimila guerrieri, volò subito sull'Olimpo e disse a Zeus: - Padre, non sei indignato alla vista di questo affronto? E' colpa tua se creasti quella donna che, unica fra noi Olimpici, fa sempre ciò che vuole! E' lei che ha istigato il figlio di Tideo a colpire un dio immortale! Zeus guardò suo figlio negli occhi e disse: - Tu, figlio rinnegato, non venire a piangere da tuo padre! Ti odio più di qualsiasi altro dio che abiti l'Olimpo, tu che ami tanto le guerre e i conflitti. Ma poiché sei mio figlio guarirò la tua ferita. Detto ciò Zeus chiamò Apollo il quale pose del bianco latte di fico sulla ferita suturandola. Ebe lo lavò, lo vestì con nuovi abiti ed egli sedette di nuovo a fianco di Zeus. Così Ares, imparata una lezione, per qualche tempo cessò di istigare conflitti sia fra gli dei che fra gli uomini. Ares e Atena Ora pareva che il figlio di Era, appresa questa lezione, si tenesse lontano da Atena, ma non fu per molto tempo, infatti, sempre durante la guerra di Troia, Ares guarito ci provò ancora. Zeus sapeva ciò che stava per accadere e sogghignava seduto sul suo trono. Ares, tornato belligerante, si scagliò contro Atena con la sua lancia di bronzo esclamando: -Tu traditrice degli dei, perché dirigesti la maldestra lancia del mortale Diomede verso la mia pelle divina? Adesso pagherai caro ciò che mi facesti! Il bronzo colpì invano le scaglie impenetrabili dell' invincibile egida della dea, che nemmeno il padre degli dei col suo fulmine può scalfire. Atena, in ritorno, raccolse un grosso cippo, che gli uomini usavano per segnare il confine dei campi, e lo lanciò con sovrumana forza contro il dio della guerra. Colpito al collo dal cippo pesante, Ares cadde a terra in tutta la sua lunghezza, coi capelli nella polvere e grande clangore dell'armatura. Atena rise di cuore rumorosamente a quella vista e disse: -Pazzo, ti avevo appena avvertito che la tua forza non è paragonabile alla mia, quando imparerai a capire da che parte sta la forza? Tu che hai preso la parte dei Troiani contro che Achei! Detto ciò Atena si voltò e scomparve, mentre Afrodite, subito giunta sul posto, prese il suo preferito per la mano e lo accompagnò in Olimpo mentre egli imprecava, livido di rabbia e di percosse. Il destino di Cadmo Ares era capace di mostrarsi altrettanto vendicativo coi mortali quanto coi suoi pari. Questo dovettero constatarlo Cadmo e tutti i suoi discendenti, dopo che l'eroe ebbe ucciso un serpente sacro ad Ares. Quando Europa fu rapita da Zeus, suo padre Agenore ordinò al figlio Cadmo di ritrovarla e di non tornare senza di lei. Cadmo cercò la sorella ovunque, ma senza alcun risultato. Non potendo tornare a casa senza di lei, decise di recarsi a

Delfi per consultare l'oracolo di Apollo nella grotta di Castalia e poi decidere in quale paese stabilirsi. L'oracolo gli parlò e gli disse: -Uscito da qui vedrai una vacca in un campo, essa incomincerà a camminare, seguila, là dove si fermerà fonda una città e chiamala Tebe. Cadmo uscì dalla grotta, e subito vide una vacca che, levata la testa dal pascolo, iniziò a camminare. Accompagnato dai suoi servitori, Cadmo seguì la vacca da vicino per molte leghe mentre pregava Apollo. La vacca guadò il fiume Cefisso e raggiunse la piana di Panope dove si fermò come una statua. Cadmo ringraziò Apollo e si chinò a baciare il suolo della splendida valle. Volendo offrire una libagione ad Atena, la sua dea protettrice, Cadmo mandò i suoi servi in cerca di acqua di sorgente ed essi trovarono una fonte all'interno di una caverna, in mezzo a un bosco che non aveva mai conosciuto l'ascia. Ma nella caverna si annidava un pericoloso serpente, un drago con una orribile cresta sulla testa, con scaglie che scintillavano come l'oro, con occhi che parevano di fuoco e guance piene di veleno. Dalla bocca del drago, piena di denti aguzzi, saettava una lingua a tre punte e usciva un alito velenoso. Non appena i servi si avvicinarono per attingere alla fonte subito il drago li uccise, divorandone uno, schiacciando l'altro fra le sue spire e avvelenando il terzo col suo alito. Cadmo, che attendeva il ritorno dei suoi servitori, non vedendoli tornare, si incamminò in cerca di loro. Giunto alla caverna vide il loro corpi privi di vita, mentre la bocca del drago era rossa di sangue. Non sapendo che il serpente era sacro ad Ares, Cadmo sollevò una grossa pietra e la scagliò verso l'orrida testa, ma senza alcun risultato. Atena, che era presente sulla scena, ma invisibile, soccorse Cadmo il quale, scagliato il suo giavellotto trapassò il ventre del drago. Il serpente si contorse paurosamente, versando sangue dalla bocca mentre Cadmo, con la sua lancia, colpì ancora inchiodando la bestia a un albero vicino. Mentre Cadmo osservava il mostruoso corpo del serpente senza vita, udì una voce, quella di Atena, che gli comandava di prendere i denti del drago e di seminarli come grano nella terra della valle. Cadmo seguì il comando della dea e mentre seminava i bianchi denti, nel solco del suo aratro, soldati in piena armatura si sprigionavano dalle zolle. Cadmo, sbalordito, osservava questo esercito emergere dalla terra e vide che i soldati stavano combattendo fra di loro una feroce battaglia. La battaglia terminò quando cinque soli guerrieri rimanevano in piedi, questi si avvicinarono a Cadmo e gli offrirono di aiutarlo a costruire la sua città che, come ordinato, si chiamò Tebe. Per aver ucciso il serpente sacro ad Ares, Cadmo fu costretto a servire il dio per otto anni, ma dopo questa schiavitù, Atena lo inviò a Tebe dove Zeus gli diede per moglie Armonìa, la figlia di Ares e di Afrodite, dalla perfetta bellezza. Tutti gli dei dell'Olimpo onorarono quel

matrimonio con la loro presenza. Efesto regalò alla sposa una meravigliosa collana, fatta con le proprie mani. Dal matrimonio nacquero quattro figlie, Semele, Ino, Autonoe ed Agave, poi venne un figlio, Polidoro. Ma un destino crudele si abbatté sulla famiglia: Semele, Ino , Atteo, figlio di Autonoe, e Penteo, figlio Agave, morirono tutti violentemente. Cadmo e Armonia lasciarono Tebe, ormai a loro odiosa, e si recarono in Illiria, nel paese degli Encheli, i quali acclamarono Cadmo loro re. Ma col pensiero rivolto ai figli morti Cadmo non trovava pace e un giorno eclamò: -Se la vita di un serpente è così cara agli dei, allora perché non posso io diventare un serpente? Appena pronunciate queste parole egli incominciò a tramutarsi in un rettile. Armonia, che lo osservava, pregò gli dei affinché lei stessa potesse seguire la sorte del marito. Ambedue divennero allora inocui serpenti, del tipo che né rifugge, né avvelena il genere umano. Ma la maledizione di Ares non cessò di perseguitare la famiglia di Cadmo, come vedremo più oltre nella storia di Edipo, suo discendente. Pagg. 57-58

Efesto e i suoi miti

Efesto: natura e carattere Figlio di Era, nato senza l'intervento del padre, Efesto era il dio del fuoco, Vulcano per i Latini. Egli era infatti il dio del fuoco vulcanico, degli incendi, della forgia incandescente. Efesto è il dio fabbro degli dei, il più grande artigiano dell'universo. La sua forgia, sul monte Olimpo, non possedeva solo incudini, martelli e tenaglie, ma anche automi, o robots d'argento e d'oro in forma umana, da lui stesso fabbricati per essere suoi assistenti. Egli possiede forge nelle viscere di ogni isola vulcanica del Mediterraneo. Dal cratere del monte Etna, in Sicilia fuoriescono il fumo e le fiamme di una delle sua forge. E' lui che ha costruito le residenze d'oro e argento degli dei sull'Olimpo; lui costruì lo scettro di Zeus, gli scudi e le lance degli olimpici, le frecce di Apollo e di Artemide, la corazza di Eracle, lo scudo di Achille. Efesto non era bello come gli altri dei, zoppicava perché Zeus lo gettò giù dall'Olimpo credendo che egli fosse nato da un tradimento di Era. -Volai tutto il giorno e, al tramonto, caddi sll'isola di Lemno quasi morto. Raccontava a tutti, per giustificare la propria deformità. Egli prese parte alla creazione dell'uomo, anzi, alla creazione di Pandora, la prima donna, e aiutò Zeus a far nascere Atena. Secondo Omero ed Esiodo la sua sposa era Aglaia, la più giovane delle tre Grazie, ma nell'Odissea sua moglie è Afrodite. Egli era un dio amato e onorato dagli uomini per la sua bontà, per essere patrono degli artigiani e artefice di molte

utili invenzioni. Efesto fu spesso anche un guaritore e un profeta. Spesso egli fece ridere gli dei, ma non perché fosse stupido, anzi, egli era furbo e ingegnoso. I miti di Efesto Pochi sono i miti che vedono Efesto protagonista, egli compare in molte storie come personaggio secondario, rivelandoci il suo carattere e la sua natura. Quando Zeus gettò guì Efesto dall'Olimpo, ed egli cadde sull'isola di Lemno storpiandosi. Le dee marine Eurinome e Teti si presero cura di lui nel profondo dei mari, assistendolo per nove anni durante i quali egli imparò la sua arte di fabbro. Per vendicarsi della sciagurata madre che lo aveva voluto senza senza l'apporto di Zeus, irritando così il padre degli dei, Efesto escogitò un piano. Egli, nelle prfondità marine, forgiò un trono ingegnosissimo che inviò alla madre. Era accettò il dono e vi si sedette, ma improvvisamente catene e barre scattarono imprigionandola. Gli dei accorsero per aiutarla a liberarsi, ma senza riuscirvi finché Ares decise di portare Efesto in Olimpo con la forza, per costringerlo a liberare la madre. Ma davanti a Efesto, che dominava il fuoco, Ares dovette retrocedere. Allora intervenne l'allegro Dioniso, amato dal dio fabbro, e lo ubriacò con buon vino riuscendo così a condurlo in Olimpo sul dorso di un asino. Qui Efesto venne persuaso dagli dei e liberò la madre. Ma il dio artigiano non fu sempre ostile alla madre. Egli forgiò lo scudo di Achille, favorito di Era, in un'altra occasione egli accettò di lottare contro il fiume Xanto su richiesta della madre. Omero narra della battaglia fra il dio del fuoco e il dio-fiume. Quel giorno si videro bruciare gli ontani, i salici e i tamerici, la pianura del Xanto si coprì di carbone e le acque del fiume bollirono finché il dio-fiume fu costretto a chiedere la resa. Pagg. 59-68

Apollo e i suoi miti

Apollo: natura e carattere Apollo, detto anche Febo, era in realtà chiamato "Apollon" dai Greci. Figlio di Zeus e di Leto, egli era essenzialmente il dio del sole. Il nome "Febo" esprime la "natura radiante della luce del sole", mentre "Apollon" esprime la "natura distruttiva del sole di mezzogiorno". I miti di Apollo iniziano con la vicenda della sua nascita, proseguono narrando della sua vittoria contro le tenebre e il freddo e culminano con la descrizione dei benefici che egli portò all'uomo. Quando il dio fu giovinetto, Zeus gli regalò una mitra d'oro, una lira e un carro tirato da due cigni e voleva inviarlo a Delfi, nella Focide. Là esisteva un antico santuario della Madre Terra, da dove egli avrebbe dovuto parlare agli uomini e inculcare in loro il senso del diritto e della giustizia. Ma i cigni portarono il dio dai capelli d'oro

nella terra degli Iperborei, dove per sei mesi dell'anno il sole splende ininterrottamente e regna la primavera, dove è profusione di erbe e di fiori, dove si gode l'estasi dela vita. In sua attesa le genti di Delfi cantarono dei "peani", o inni di gloria, danzando attorno al tripode (un alto treppiede di bronzo) dove si era già seduta la sacerdotessa di Apollo in attesa dei comandi del dio. Un'anno dopo la sua partenza egli giunse a Delfi, sul suo carro tirato da cigni. Presso il santuario la fonte Castalia e il torrente Cefisso, uscirono dagli argini e gli uomini fecero offerte al dio. Ma il ritorno di Apollo non fu del tutto pacifico. Un pericoloso serpente che era uscito dal fango al tempo del Diluvio Universale, si anniava in una caverna del monte Parnasso sulle cui pendici sorgeva Delfi. Il mostro doveva essere un protettore dell'antico santuario. Apollo snidò il serpente, chiamato Pitone, e lo trafisse con le frecce d'oro scoccate con precisione dal suo arco d'argento. Per commemorare questa impresa egli istituì i "Giochi Pitici", competizioni in cui il vittorioso di prove di forza, di velocità nella corsa a piedi o con la biga, sarebbe stato incoronato con fronde di faggio. Apollo non portò agli uomini solo il caldo estivo, ma anche ricchi raccolti. allontanò le epidemie estive e autunnali, guarì gli ammalati. Apollo fu patrono della musica e della poesia. Mediante il suo oracolo di Delfi, il dio "pitico" (uccisore del pitone) rivelava il futuro a coloro che lo consultavano. Egli fu fondatore di città, promotore di colonizzazioni, legislatore, ideale di bellezza maschile. Apollo era un dio puro e giusto, chi lo adorava doveva farlo con corpo e animo puliti. Ma anche Apollo, come altri dei, non disdegnava le armi belliche. Ogni volta che la presunzione doveva essere punita, o giustizia fatta, egli piegava il suo arco e uccideva con le sue frecce di raggi di sole. In questo modo egli uccise Tizio e i figli di Niobe. Febo Apollo è la divintà olimpica del sole, intriso di luce, di forza spirituale, creativa e profetica, non è quindi da confondersi con Elio, il dio della più antica dinastia, figlio di Iperione, che rappresenta il sole nel suo corso giornalero e annuale, nella sua manifestazione fisica e non spirituale. Apollo, figlio di Zeus, anche se nessuno osava dirlo, era in realtà più potente e più grande di suo padre. L'arco di Apollo era ornato con rami di lauro in memoria di Dafne, che egli amò. Erano sacri a lui anche il lupo, il capriolo, il topo, il caprone, l'ariete, il delfino e il cigno. Le peregrinazioni di Leto Perseguitata dalla gelosia di Era, Leto viaggò per terra e per mare fino a quando riuscì a trovare il luogo, dove dare alla luce i suoi figli. L'isola di Ortigia era una sterile roccia vagante in mezzo all'Egeo, Leto si fermò su di essa, sentendo di non poter più attendere per dare alla luce i due figli.

Poseidone nascose l'isola agli occhi di Era creando sopra di essa una grande volta d'acqua. Sull'isola, dopo nove giorni e nove notti di dolori, Leto diede alla luce due gemelli, Apollo e Artemide. L'isola fu da allora chiamata "Delo" (la brillante), in onore di Apollo, e gli dei la fissarono al fondo del mare con delle colonne, affinché più non vagasse. Non potendo rimanere indefinitamente sulla sterile isola, Leto prese i figli nelle sue braccia e volò lontano verso l'Asia, fino alla Licia, il "paese dei lupi". Leto assetata dopo il lungo viaggio, vide un laghetto nelle valle ai piedi della collina dove era giunta. Attorno al lago i contadini stavano tagliando i vimini e canne, Leto si avvicinò alle acque chiare e si chinò per bere, ma i contadini la fermarono e lei chiese loro: - Perché mi rifiutate quest'acqua? L'acqua è a disposizione di tutti, tuttavia ve la chiedo per favore. Non ho alcuna intenzione di lavarmi e di sporcarla, ma solo di bere e calmare la mia sete. Questi neonati, non vi fanno pietà? Ma i cotadini non cedevano, anzi, la allontanarono dal lago minacciandola. Alcuni entrarono nell'acqua e la mossero coi piedi, rendendola grigia e fangosa. Allora Leto, alzate le mani al cielo esclamò: -Che voi possiate restare nel lago, prigionieri del suo fango per sempre! Allora gli dei intervennero e i contadini si trasformarono. I loro colli scomparvero, si colorarono di verde e macchie nere comparvero sulla loro pelle, le loro voci si fecero gracidanti, finché il loro aspetto di rane divenne palese. La sconfitta di Titio e degli Aloadi Dopo l'uccisione di Pitone, la conquista di Delfi e la sua conferma come trionfatore nella luce, Apollo ebbe conflitti con un'altri mostri dell'oscurità e del gelo, forze della natura selvagge e incontrollate. Il dio dall'arco d'argento fu assistito in questa impresa dalla sorella Artemide. Con i loro micidiali dardi i due acrcieri piegarono il gigante Titio che non solo disturbava la pace del santuario di Delfi, ma offendeva Leto, la loro madre. Apollo e Artemide sconfissero assieme anche gli Aloadi, i figli di Poseidone e Ifimedia, Oto ed Efialte. Questi mostruosi esseri, rappresetavano le forze rigogliose della vegetazione ed erano famosi per la loro statura, la loro forza e il loro coraggio. Essi crescevano di un metro in altezza e in larghezza ogni anno, finché all'età di nove anni, attentarono al regno degli dei. I due giganti avevano posto il monte Ossa sopra il monte Olimpo e il monte Pelio sopra questi, raggiungendo altezze inimmaginabili, essi volevano sostituirsi agli dei, possedere Era e Artemide e sconvolgere l'ordine della natura sulla terra. Apollo e Artemide, con l'aiuto di Zeus, sconfissero gli Aloadi, i quali furono confinati e incatenati nell'Ade dove sono perpetuamente tormentati dal canto della civetta. Giacinto

Ma Apollo non fu noto soltanto per le sue vittorie contro i mostri dell'oscurità e per le sue influenze positive. La sua passione per la gioventù e il vigore giovanile fu spesso funesta per chi ne fu soggetto. Apollo si era affezionato a un giovane di nome Giacinto e sempre lo accompagnava nei suoi giochi. Lo seguiva quando andava a pesca o quando cacciava, camminando con lui per giorni sulle montagne, dimenticando la propria lira e il proprio arco d'argento. Un giorno Apollo e Giacinto si dilettavano nel lancio del disco. Apollo, con la sua forza lanciò il disco altissimo nell'aria, mentre Giacinto, corse cercando di afferrarlo prima che cadesse a terra. La discesa del disco fu così rapida che Giacinto, mancandone la presa, fu da questo colpito alla fronte e cadde morto. Apollo prese il ragazzo fra le braccia e lo sollevò cercando di rianimarlo, ma invano. Impotente di fronte alla morte, anche se dio, Apollo si disperò e fece una solenne promessa: -Tu sei morto, Giacinto, ti ho rubato la giovinezza, vorrei morire per ciò che ho fatto, ma poiché non posso, essendo immortale, ti ricorderò con la mia lira. La mia canzone canterà il tuo fato e diverrai un fiore sui cui petali scriverò del mio dolore! Dal terreno bagnato del sangue di Giacinto si sprigionò un fiore simile al giglio, ma più rosso della porpora di Tiro. Allora Apollo incise sui petali il suo lamento "Ai! Ai!". A ogni primavera, col rifiorire del giacinto il lamento di Apollo si rinnova. Fetonte Secondo una tradizione, diversa da quella tramandata da Esiodo, il giovane Fetonte non era figlio di Elio, bensì di Febo Apollo, un'altra personificazione del sole. Un giorno Epafo, figlio di Zeus e di Io, si beffava del giovane Fetonte negando che egli fosse figlio di un dio. Il ragazzo si lamentò dell'insulto di Epafo presso sua madre Climene, la quale lo invitò a recarsi dal padre e a chiedere a lui stesso la verità sulla propria paternità. Allora Fetonte si mise a camminare verso Oriente finché giunse al palazzo del sole. Si avvicinò a Febo Apollo, ma dovette fermarsi a una certa distanza poiché il bagliore lo accecava. Febo Apollo, vestito di porpora sedeva sul suo trono scintillante di diamanti, accanto a lui erano le Ore, il Giorno, il Mese, le Stagioni e l'Anno. Febo Apollo chiese al figlio il motivo della sua visita e il giovane rispose: - Oh, luce del mondo infinito, Febo, padre mio! Se tu sei davvero mio padre, dammene la prova. Provamelo e fai che possa io provarlo ad altri. Febo Apollo, toltasi la corona dai raggi accecanti, chiese a Fetonte di avvicinarsi a lui e lo abbracciò giurando che gli avrebbe dato qualsiasi prova fosse stata necessaria. Fetonte chiese al padre di poter guidare per un giorno il carro di fuoco del sole attraverso il cielo. Udita la richiesta, Febo Apollo si pentì del suo giuramento e cercò di dissuadere il ragazzo dall'insistere su quella pericolosa richiesta. - Nessun'altro al di fuori di me può guidare il carro del sole senza danno. Nemmeno Zeus, la cui mano scaglia le roventi saette, oserebbe stringere le fedini dei miei cavalli.

La prima parte del percorso è così ripida che a stento i cavalli riescono a raggiungere l'alto dei cieli, dove anch'io non oso guardare in basso, tanta è l'altezza. La discesa è così ripida e richiede un abile cocchiere per evitare un disastro! ... Il ragazzo ascoltava imperturbato. ...Il percorso è funestato da numerosi pericoli: devi passare fra le corna del Toro, davanti al Sagittario, presso le fauci del Leone, mentre da un lato ti aggredisce lo Scorpione, dall'altro ti minaccia il Cancro. Così disse Febo Apollo, ma Fetonte non si dissuadeva e fu condotto al carro dal padre. Lo splendido carro d'oro e argento, incastonato di diamanti, era opera di Efesto e, mentre il ragazzo lo ammirava, Aurora apriva le porte porporine dell'Oriente. L'argentea strada veniva cosparsa di petali di rose mentre le stelle tiravano da parte. Le Ore aggiogarono e imbrigliarono i quattro cavalli mentre Febo Apollo applicava l'unguento protettivo sul volto del figlio. Pose sul suo capo la corona smagliante e diede lui gli ultimi consigli. Fetonte salì sul carro, ma i cavalli, percepita la differenza fra questo e il normale cocchiere, si lanciarono in una frenetica e folle corsa, uscendo e rientrando nella corsia stabilita. Il carro traversò il cielo verso nord, scottando le costellazioni più lontane dal corso del sole. Dal culmine del cielo, Fetonte guardò in basso e le sue gambe tremarono mentre perdeva il controllo del carro. I cavalli allora correvano come impazziti, ora troppo in alto, ora troppo in basso, troppo verso nord o troppo verso sud. Quassù le nubi fumavano, laggiù le foreste erano in fiamme, la neve scomparve dalla sommità dell'Etna e le sorgenti del monte Ida si asciugarono. Fetonte, vide il mondo in fiamme, mentre la pelle delle genti d'Etiopia si anneriva col calore, i verdi prati della Libia bruciavano e il paese fra l'Egitto e Oceano diventava un immenso deserto. Gaia era esausta e inaridita quando Zeus accorse e colpì Fetonte con un fulmine che lo spacciò. Fetonte, coi capelli in fiamme, cadde verso la terra come una meteora, accolto dalle acque del fiume Eridano che traversa la grande pianura ai piedi delle Alpi. Le Eliadi, le sei sorelle di Fetonte, accorsero presso il fiume lamentando la morte del loro fratello e furono trasformate in pioppi, le loro lacrime divennero gocce d'ambra cadendo nel fiume, mentre le Ninfe del fiume preparavano la tomba di Fetonte. La punizione di Niobe Niobe era figlia di Tantalo, re di Frigia e figlio illegittimo di Zeus, per questo i due avevano avuto da Zeus l'onore di sedersi al banchetto degli dei. Questi avevano notato che Tantalo, come Niobe, non apprezzavano dovutamente l'onore a loro riservato. Non solo, Tantalo tradiva spesso i segreti degli dei e un giorno cercò anche di ingannarli servendo loro al banchetto la carne arrostita del figlio Pelope. Gli dei non si fecero ingannare, restituirono la vita al giovane Pelope e confinarono Tantalo nel Tartaro.

Ma la superba Niobe, indomabile, si lamentava che Zeus preferisse a lei Leto coi suoi soli due figli, piuttosto che lei e i suoi dodici. Leto, uditala e indignatasi, chiese ad Apollo e ad Artemide di punire la superba rivale. I figli di Leto eseguirono il comando della madre e trafissero con le loro frecce micidiali i dodici figli di Niobe. La madre si chinò sui corpi senza vita e mentre il vento muoveva i suoi capelli, la donna rimaneva impietrita dal dolore. Gradualmente la sua bocca si sigillò, il sangue cessò di scorrere nelle sue vene e Niobe divenne dura roccia, solo le lacrime continuarono a sgorgare dai suoi occhi di pietra. Oggi, sul monte Sipilo, in Asia Minore, una fonte sgorga ancora dalla viva roccia a formare un limpido ruscello. "Ai Linon!" Lino era il bellissimo figlio di Apollo e Psamante, figlia di re Crotopo di Argo. Partorito il figlio, Psamante, per paura del padre, lo espose sulla montagna dove egli fu trovato e allevato dai pastori assieme agli agnelli. Il gregge fu un giorno assalito dai cani e Lino fu ucciso e fatto a pezzi, mentre la madre, scoperta dal padre, fu cacciata di casa. Apollo infuriato, inviò un drago di nome Pene nella terra di Argo a ucciderne tutti i neonati per una intera stagione, finché il drago fu ucciso da un giovane di nome Corebo. Per pacificare Apollo le genti di Argo eressero nella loro terra un santuario in suo onore. Ogni anno, nel giorno della ricorrenza della morte di Lino, le mamme di giovani uccisi in tenera età si recavano al santuario per piangere Lino e Psamante in ricordo dei loro morti e per sacrificare tutti i cani incontrati per via. Come Giacinto, Lino fu un giovane colto prematuramente dalla morte a causa dell'eccesivo amore di Apollo. Questa storia simbolizza la morte prematura delle giovani piante all'arrivo del sole d'estate, che è detto 'canicola'. I contadini della Grecia, durante le carestie causate dalla siccità estiva, usavano lamentarsi con la frase "Povero mé!", che in greco suonava "Ai-Linon!". Le donne di Argo nel lamentare la morte di Lino pronunciavano esattamente le stesse parole. Asclepio: il primo medico Coronide, una principessa di Tessaglia, ebbe un figlio da Apollo e lo chiamò Asclepio. Dopo la morte prematura della madre, il piccolo fu affidato al famoso centauro Chirone, amico di Apollo e di Artemide. Chirone era stato addestrato alla caccia, alla medicina, alla musica e all'arte della profezia dai due divini gemelli. Quando il centauro giunse a casa col neonato, sua sorella Ocirroe gli si fece incontro e, alla vista del bambino, pronunciò una profezia sul suo brillante futuro. Cresciuto, Asclepio divenne il più grande medico della Grecia; una vota riuscì persino a resuscitare un morto. Ade, il dio dei morti, si indignò a questo affronto e chiese a Zeus di intervenire. Il padre degli dei colpì Asclepio col fulmine uccidendolo, ma invece di consegnarlo al fratello Ade, lo portò con sé nell'Olimpo dove Asclepio divenne il dio della medicina. Apollo lirico

Apollo, indignato alla sorte del figlio, impotente verso Zeus, diresse la propria ira contro i fabbricatori di fulmini del dio tuonante: i Ciclopi. I Ciclopi avevano il loro laboratorio nelle viscere del monte Etna in Sicilia, dal quale tutt'ora sprigionano il fumo e le fiamme della loro forgia. Apollo diresse le sue frecce d'oro contro i Ciclopi innocenti suscitando l'ira di Zeus. A causa di questo affronto il padre degli dei condannò il figlio a un'anno di esilio durante il quale Apollo sarebbe stato un comune mortale. Fu così che il dio arciere si recò in incognito presso re Admeto di Tessaglia e servì da pastore delle sue greggi presso il fiume Anfriso. Apollo, le cui mani non erano adatte al lavoro dei campi, costruì una lira con un guscio di tartaruga. Con il suono melanconico della sua lira il pastore divino strappava le lacrime dagli occhi dei duri pastori, allora re Admeto si accorse che la lira del nuovo arrivato era degna di allietare i banchetti reali e fece Apollo capo dei suoi pastori. Questi erano riluttanti ad accettare un inesperto come capo, ma infine fecero legge delle sue parole. Essi si chiedevano da dove il govane inesperto avesse tratto la sua saggezza, forse dalle foglie? O dalle pietre delle colline, oppure dalle acque delle sorgenti. Spesso, guardando i lunghi capelli biondi, i suoi occhi e il suo volto quasi femminile, ridevano e lo chiamavano 'buono a nulla'. Ma il tempo trascorse e Apollo tornò fra gli dei, allora i pastori consideratono santo il suolo da lui calpestato, la terra pareva loro più dolce, più piena d'amore, a causa sua. L'amore di Admeto e Alcesti ed Eracle nell'Ade Admeto, principe di Fere, in Tessaglia, era uno dei tanti pretendenti della bella Alcesti, figlia di Pelia, re di Iolco. Re Pelia decise che avrebbe concesso la mano della figlia soltanto a quello che fosse giunto al suo palazzo su un carro trainato da leoni e cinghiali. Con l'aiuto divino di Apollo, Admeto riuscì nell'impresa ed ebbe Alcesti in sposa. Ma Admeto si ammalò gravemente e fu vicino alla morte quando Apollo chiese ai Destini di salvargli la vita a patto che un'altro offrisse di morire al suo posto. Poichè Admeto era amato dai suoi sudditi, ritenne fosse facile trovarne uno che si offrisse alla Morte al posto di lui, ma non fu così. Neanche fra i più coraggiosi dei suoi guerrieri egli riuscì a trovare un volontario disposto a dare per lui la vita. Nemmeno fra i vecchi servitori riuscì a trovare uno disposto a regalare al padrone i pochi anni di vita rimasti. Quando neanche fra i parenti nessuno si offriva, Alcesti venne avanti e generosamente offrì la propria vita per amore del marito. Admeto non voleva accettare, ma le condizioni stabilite dai Destini erano state soddisfatte e nessuno poteva ora evitare il sacrificio Alcesti. Fu così che mentre Admeto recuperava, Alcesti cadeva ammalata e non trascorse molto tempo prima che morisse. Eracle, il figlio di Zeus e di Alcmena, giunse un giorno al palazzo di Admeto, suo vecchio amico e compagno argonauta, quando vide la sua disperazione e il lutto di

tutto il palazzo. L'eroe, commosso, si offrì subito di riportare Alcesti nel mondo dei vivi. - Andrò da Morte e lo stringerò in una morsa tremenda con le mie braccia, non lo lascerò sino a quando lascerà libera Alcesti. Se non riuscirò con Morte, allora mi recherò da Persefone e dall'innominabile suo Re, i quali non rifiuteranno a me la richiesta. Con la ua promessa solenne Eracle, il più grande di tutti gli eroi, partì per l'Occidente e Admeto attese il suo ritorno. L'attesa non finiva mai per Admeto, il tempo trascorreva ed Eracle non tornava. Venne il tempo in cui tutti credettero che l'eroe avesse fallito nel suo ambizioso disegno e fosse ora morto lui stesso. Ma un giornò l'eroe arrivò, provato dalla fatica, ma fiero, sotto la sua pelle di leone. A fianco dell'eroe era una figura di donna, con la testa coperta da un velo. -Admeto! - disse Eracle - Prendi e tieni con te questa donna, la mia prigioniera, fino a quando ritornerò con la tua Alcesti. Ma Admeto rifiutava di avere un'altra donna negli appartamenti dell'adorata sua sposa. Allora Eracle tolse il velo alla donna che si rivelò essere proprio Alcesti, felice di avere ancora una prova dell'amore dello sposo. Apollo il primo musicista Apollo non fu guardiano di bestiame soltanto in Arcadia, Laconia e Tessaglia ma, per volere di Zeus, egli fu anche mandriano delle numerose giovenche di re Laomedone sul monte Ida, presso Troia, in Asia. Mentre guardava le mandrie egli suonava la sua lira, allietando Poseidone costruttore delle mura di Troia, nella sua immane fatica. Apollo, nel suo ruolo di mandriano e musico, stabilì le regole musicali del flauto e della lira, affinché gli uomini potessero cantare inni e liriche amorose degne giovani donne e di ninfe immortali. Mida: Orecchie d'Asino Un giorno Pan, il dio dei mandriani e delle greggi, sentendosi umiliato, volle sfidare il dio dai capelli d'oro col suono del suo flauto. Apollo accettò la sfida scegliendo come arbitro Tmolo, dio della montagna. Al segnale, Pan soffiò nella sua 'siringa', allietando le orecchie dei presenti fra i quali era Mida, re di Frigia. Poi venne il turno di Apollo, il quale, presa la sua lira, intonò la più bella musica che il dio della montagna avesse mai udito. Finito il contesto, Tmolo assegnò la vittoria ad Apollo, col consenso di tutti gli astanti. Solo Mida non era daccordo e intendeva negare la vittoria al dio di Delfi. A questo affronto Apollo tramutò le insensibili orecchie del re in quelle di un'asino. Il re, per nascondere le ridicole orecchie si avvolse la testa in un turbante e tornò alla sua reggia. Un giorno il parrucchiere del re scoprì il segreto, ma il sovrano gli impose di non rivelarlo ad alcuno. Il parrucchiere, incapace di mantenere un tale segreto, fece un buco nel suolo e vi sussurrò dentro ciò che aveva visto. Ma le canne che crescevano in quel terreno sentirono della

mostruosità e ogni volta che il vento le muoveva, ripetevano: - Mida ha orecchie d'asino! Mida ha orecchie d'asino.... Marsia, il sileno scorticato Atena aveva inventato il flauto a due canne, ma Eros rise quando la dea soffiandovi gonfiò le sue belle guance deformandole. Alle risate la dea gettò via lo strumento minacciando chiunque lo raccogliesse. Marsia il sileno, un genio dei boschi della Frigia, trovò lo strumento e se ne impadronì andando poi fiero della sua musica che riteneva la più bella al mondo. Un giorno, saputo della sfida di Pan, volle anch'egli sfidare Apollo. Il dio accettò la sfida, ma a patto che il vincitore potesse fare del vinto qualsiai cosa egli volesse. Dapprima la sfida finì in pareggio, allora Apollo sfidò Marsia a suonare il flauto alla rovescia, come egli faceva con la sua lira. Apollo fu vincitore e per vendicare l'affronto, appese il sileno a un platano e lo scorticò vivo.

Gli amori di Apollo

"Dafne, sarai il mio albero" Se Apollo fu capace di odiare ebbe anche molti amori. Oltre a Psamante di Argo, Coronide di Tessaglia, e la ninfa Climene, egli amò Calliope, la musa della lirica, dalla quale ebbe un figlio, Orfeo. In Libia egli amò Cirene che fu madre di Aristeo. Ma il primo amore di Apollo fu istigato da Eros stesso e fu sfortunato. Un giorno Apollo vide Eros che giocava con l'arco e le frecce sul monte Parnasso e gli disse: - Lascia gli strumenti della guerra a chi ne è degno e occupati delle cose del cuore! A queste parole il compagno di Afrodite replicò: - Le tue frecce son capaci di trafiggere qualsiasi cosa, ma le mie trafiggeranno te! Così dicendo l'astuto fanciullo salì su una roccia ed estrasse dalla faretra due frecce di diversa fattura. L'una, del tipo che incita all'amore, era d'oro e assai appuntita, l'altra, del tipo che l'amore reprime, aveva la punta di piombo smussata. Con la freccia di piombo egli colpì la ninfa Dafne, figlia di Peneo, il dio-fiume, mentre con la freccia d'oro colpì Apollo dritto al cuore. Il dio si innamorò subito della bella fanciulla, mentre lei inorridiva all'idea dell'amore. Dafne si deliziava della caccia e della vita nei boschi, schivando ogni approccio amoroso e pregando suo padre di conservarla pura come Artemide la dea della caccia. Il dio-fiume esaudì il desiderio della figlia, ma la avvertì che la sua bellezza l'avrebbe tradita. Un giorno, mentre Apollo traversava i boschi della Tessaglia, vide Dafne correre coi capelli al vento. Subito il dio sentì una stretta al cuore e prese a seguire la ragazza nella sua veloce corsa. Dafne correva veloce più del vento, senza sosta, saltando ogni ruscello, schivando ogni albero con estrema agilità.

-Fermati - urlò Apollo - figlia di Peneo, non sono un nemico, ti seguo per amore! Ma la ragazza pareva non udire e Apollo ancora gridava: - Ascoltami, non sono un pastore o un contadino, Zeus è mio padre, sono il signore di Delfi e di Tenedo! Conosco tutte le cose, presenti e future. Sono il dio della musica, il dio della medicina. Una freccia fatale ha trafitto il mio cuore e non vi è medicina che possa guarirmi! Dafne continuava a correre, lasciando dietro sé il suo profumo, la gonna volava al vento e Apollo ancor più si angosciava. Ora il respiro del dio raggiungeva i capelli della ninfa la cui energia pareva esaurirsi. Allora ella chiamò suo padre: -Aiutami, Peneo! Spalanca la terra sotto i miei piedi, oppure muta il mio aspetto affinché io non sia più perseguitata! Appena pronunciate queste parole, le sue membra si irrigidirono e, gradualmente il suo corpo prese la forma di un lauro. Apollo abbracciò il tronco profumato e baciò il grigio legno dal quale si sprigionavano rami e foglie. Allora il dio, rassegnato, disse: -Se tu non sarai il mio amore, sarai il mio albero. Le tue fronde diverranno la mia corona, con esse ornerò la mia lira e la mia faretra. Ora l'albero, mosso dal vento, si inchinò, come per acconsentire. Marpessa, ti amo. Marpessa, figlia di Eveno, figlio di Ares e re d'Etolia, fu un'altra a rifutare l'amore di Apollo. Il dio della musica vista un giorno la mortale dolcezza di Marpessa non seppe resisterle e si innamorò di lei. Ida, un pretendente di Marpessa, il più forte e coraggioso degli uomini, saputo dell'interesse del dio per la ragazza, la rapì con l'aiuto di Poseidone, portandola via con un carro alato. Eveno cercò di fermare gli amanti in fuga, ma fu Apollo a ritrovarli a Messene, dove prese la ragazza e la portò via. Marpessa si divincolava cercando di liberarsi dalla presa del dio quando Zeus intervenne e, separando i due amanti disse ad Apollo: - Lascia che sia lei a decidere! Allora i tre si incontrarono. Da un lato era Apollo, dall'altro Ida e in mezzo Marpessa. Apollo disse: -E' un vero peccato che una donna così bella abbia un giorno a morire. Se sarai mia vivrai felice sopra il mondo, in pace o in estasi, ma immortale, diffondendo gioia senza fine, illuminando il mondo, portando pace agli uomini e alle donne, liberandoli dalle ombre della paura. Ida, umilmente, dal canto suo disse: - Dopo queste offerte cosa posso dirti? Quale misera promessa potrei farti? Ma poiché è privilegio femminile aver pietà e non aspirare alla gloria, dirò una cosa assai semplice: ti amo. A questa umile offerta Mapessa non ebbe più dubbi. Scelse Ida e gli disse: -Prosperemo insieme, invecchieremo insieme e moriremo lasciando buone memorie di noi sulla terra. Così dicendo i due si allontanarono, mano nella mano.

Clitie, il girasole La storia di Clitie è diversa dalle altre. Clitie era una naiade, una ninfa delle acque, innamorata di Apollo, ma egli non ritornava lo steso sentimento. La ninfa languiva, trascorreva giorni e giorni senza toccar cibo, piangendo e consumandosi. Clitie non aveva altro interesse che Febo Apollo, essa guardava il sole, seguendolo con gli occhi dall'Aurora all'Occidente, i suoi occhi erano sempre fissati verso il carro dorato di Febo. Clitie non si muoveva, mentre i giorni passavano, finché un giorno i suoi piedi misero radici nel terreno e il suo volto si trasformò in un giallo fiore, un fiore che girando sul suo stelo, segue sempre il corso del sole. Pagg. 69-71

Artemide e i suoi miti

Artemide, regina della caccia. Sorella gemella di Apollo, chiamata Diana dai Latini, Artemide nacque sull'isola di Delo dove Leto, sua madre, si era nascosta per sfuggire alla vendetta di Era. Artemide, come significa il nome, è una dea vergine, l'ideale della pudicizia, della grazia e del vigore della gioventù femminili. Abbiamo già incontrato Artemide, sorella di Apollo, in compagnia del dio in alcune avventure, alcune di esse atroci, come quella di Niobe. La rapida trasformazione di Dafne in lauro è stata attribuita al suo intervento. Si dice che lei abbia causato la trasformazione di Callisto nell'Orsa e che la stessa dea sia responsabile di numerose crudeli azioni perpetrate col suo micidiale arco. La sorella di Apollo, dai capelli di platino, è associata alla casta luce della luna. La falce della luna è l'arco di Artemide, i suoi raggi sono le frecce con le quali essa colpisce soprattutto i nemici femminili con rapidità e senza dolore. Artemide è spesso associata e confusa con Selene, la Luna, sorella di Elio, figlia di Iperione. Non sopportando le debolezze dell'amore Artemide impone sulle sue ancelle, le Ninfe, l'assoluta castità, punendo severamente ogni violazione. La dea della caccia, aggraziata, dai movimenti lesti, con arco e faretra, circondata da uno stuolo di ninfe, domina colline, valli, pianure, paludi e foreste, favorendo sorgenti e ruscelli. Essa è anche la protettrice degli animali selvatici e domestici, dona ai campi la verzura, ai pascoli erba rigogliosa. Quando è stanca della caccia essa si dedica alla musica e alla danza, allora sono la lira e il flauto ad accompagnarla. Un altare rustico o una piccolo tabernacolo sono sufficienti per officiare i suoi riti. Qui il cacciatore lascia le proprie offerte: corna di cervo, pelli e pellicce, le parti migliori della carcassa di un daino. Alla sua severità Agamennone, Orione e Niobe devono le loro lacrime. Essi testimoniano che la "regina della caccia,

dai capelli chiari", se pur piena di grazia non era un personaggio frivolo. Artemide era la signora delle brute forze creatrici, protettrice della giovinezza, patrona della temperanza, guardiana dei diritti civili. Le erano sacri il cipresso, l'orso, il cinghiale, il cane, la capra e la cerva. Le storie che seguono sono quelle più famose fra i miti di Artemide. La fuga di Aretusa Aretusa era una ninfa dell'Elide che si deliziava nella caccia. Un girno, tornando dai boschi affaticata, decise di bagnarsi in un limpido torrente e si spogliò delle vesti che lasciò sulla sponda. Mentre si tuffava nell'acqua fresca udì un gorgoglio salire dal fondo del torrente, impaurita, uscì dall'acqua salendo sulla sponda. Ma una voce misteriosa si fece udire: -Perché fuggi Aretusa? Sono Alfeo, il dio di questo fiume. Allora la ninfa prese a correre e il dio, uscito dalle acque, prese a rincorrerla. Aretusa, affaticata, si sentiva mancare le forze e chiese aiuto ad Artemide. La dea della caccia, uditala, avvolse la supplicante in una spessa nube. Il dio del fiume, perplesso cercava la ragazza dentro la nube, ma quando stava per raggiungerla, Aretusa sentì un brivido gelido avvolgerla tutta e, in un attimo, essa divenne una sorgente di acqua fresca. Alfeo tentò allora di mescolare le proprie acque a quelle di Aretusa, ma la dea della caccia aprì una voragine nel suolo e le acque della sorgente precipitarono nell'abisso. Traversando le viscere della terra Aretusa raggiunse di nuovo la luce del sole nell'isola di Sicilia, dove il dio-fiume Alfeo la seguì. Le chiare acque della fonte Aretusa e del fiume Alfeo, continuano ancora oggi a fluire in un laghetto cornato di papiri nella città di Siracusa. Il destino del cacciatore Atteo Così si racconta del destino di Atteo, nipote di Cadmo, i cui discendenti caddero sotto la maledizione di Ares. Un giorno Artemide si era riparata dalla calura in una valle folta di cipressi, dove sgorgava una fresca e limpida sorgente. La dea cacciatrice consegnò il giavellotto, la faretra e l'arco a una ninfa, le sue vesti a un'altra, mentre una terza le slacciava i sandali. Crocale, la più fedele ninfa di Artemide, le annodò i capelli alti sulla nuca, mentre Nefele, Iale e le altre attingevano acqua nella sorgente con le loro capaci anfore. Mentre la cacciatrice si stava facendo la toilette, Atteo, figlio di Aristeo e di Autonoe, che stava cacciando in quel luogo, giunse dentro il boschetto di cipressi e vide la scena. Le ninfe, gridando di sorpresa, si strisero presso la dea a coprirne le nudità, ma Artemide era assai più alta delle sue dame e Atteo vide le guance della dea arrossirsi dalla vergogna. Essa cercò di raggiungere l'arco e la faretra, ma non potendo, gettò acqua sulla faccia di Atteo dicendo: - Adesso vattene e racconta che hai visto Artemide nuda!

A queste parole due corna di cervo crebbero sulla testa di Atteo, il suo collo si allungò, le orecchie crebbero appuntite, le sue mani e i suoi piedi divennero zoccoli, le braccia, le gambe e tutto il corpo si coprirono di peli. Atteo, terrorizzato fuggì, ma mentre fuggiva, con l'aspetto di un daino, i suoi stessi cani lo videro e lo inseguirono. Atteo saltò crepacci e guadò fiumi mentre l'aria si riempiva di latrati terribili, sempre più vicini. Infine i cani gli furono addosso e affondarono i loro denti nelle carni del povero cacciatore. Giunsero i compagni di Atteo che, esultanti, lo chiamarono perché vedesse la magifica preda uccisa dai suoi cani, ma non riuscirono a trovarlo. La morte di Orione Orione, figlio di Poseidone era un gigante e un grande cacciatore la cui fierezza e mascolinità avevano attratto l'attenzione della pudica Artemide. Ma Orione era innamorato di Merope, la figlia di Enopio, re dell'isola di Chio, e voleva sposarla. Orione uccise tutte le bestie feroci di quell'isola portandone le pellicce alla sua amata, ma poiché Enopio continuava a negarli la mano della figlia, il gigante tentò di ottenerla con la forza. Il re, furioso per la condotta di Orione, lo ubriacò, quindi lo fece accecare e gettare in mare. Il gigante, ora cieco, rivoltosi a un'oracolo fu consigliato a seguire i raggi del Sole del mattino. Orione che non vedeva, seguì invece il lontano ma poderoso rumore del martello di Efesto finché giunse sull'isola di Lemno, dimora del dio fabbro. Questo, mosso a compassione alla vista del gigante cieco, diede lui Cedalione, suo maestro, per fargli da guida. Posto Cedalione sulle sue poderose spalle, Orione poté continuare il suo cammino verso l'Aurora dove, incontrato il Sole, riebbe la vista. Dopo questa avventura egli si unì nella caccia ad Artemide e alle sue ninfe, sucitando non pochi pettegolezzi. Apollo, non approvando dell'ambigua situazione della sorella, spesso la redarguiva, ma senza risultato. Un giorno, osservato che Orione nuotava al largo nel mare con la testa fuori dall'acqua, Apollo indicò alla sorella quel punto scuro e la sfidò a colpirlo con una freccia. Artemide, non accettando alcun dubbio sulla propria abilità, subitò scoccò il suo infallibile dardo colpendo fatalmente il bersaglio. Più tardi le onde portarono il corpo di Orione sulla spiaggia. Artemide, afflitta dall'errore commesso a causa della propria superbia, trasformò il gigante in una stella. La stella Orione è raffigurata in guisa di gigante, munito di cinturone e spada, pelle di leone e mazza. Il suo cane Sirio lo segue e le Pleiadi lo guidano attraverso il cielo. Le pallide Pleiadi Le sette Pleiadi, che ora precedono Orione nei cieli, erano le figlie di Atlante e furono ninfe al seguito di Artemide. Un giorno Orione le vide in Beozia, si innamorò di loro e le inseguì. Terrorizzate, le sette sorelle, chiesero agli dei di salvarle trasformandole. Zeus intervenne e le tramutò

prima in colombe e poi in una costellazione. Delle sette sorelle soltanto sei sono visibili; si racconta che una di loro, Elettra, non potendo sopportare la vista di Troia in rovina -la città era stata fondata da suo figlio Dardano- divenne una cometa. Ora Elettra viaggia nel profondo degli spazi eterei, coi suoi lunghi capelli in balia del vento cosmico, mentre le sei sorelle, alla vista di Troia distrutta, si sbiancarono e il loro pallore le distingue dalle altre stelle. Il sonno di Endimione. Le frequenti e lunghe assenze di Artemide dall'Olimpo, venivano da alcuni degli dei attribuite non alle sue cacce, ma a qualche affare amoroso segreto della dea. Afrodite gioiva all'idea di cogliere in flagrante la casta Artemide che spesso la rimpoverava dei suoi eccessi amorosi. Artemide è una dvinità lunare, come il fratello Apollo è una divinità solare. Di frequente, nelle storie e nei miti, Artemide si identifica con Selene, la luna. Un giorno Artemide-Selene , traversando il cielo, guardò in basso e vide il pastorello Endimione che riposava presso le sue greggi sul monte Latmo. La dea trovando la sua bellezza irresistibile, discese verso di lui, lo baciò e si mise a osservarlo nel suo sonno beato. La cosa si ripeteva ogni notte e il segreto non poté durare a lungo per gli dei dell'Olimpo. Sempre più di frequente Artemide-Selene era assente dal cielo e ogni mattina appariva sempre più pallida e stanca a causa del suo struggimento. Infine Zeus intervenne e pose Endimone di fronte a una drammatica scelta. Egli doveva decidere se morire nel modo in cui egli stesso sceglieva, oppure avere l'eterna giovinezza ma nel sonno perenne. Endimione scelse il sonno e ancora oggi, mentre egli dorme in una caverna della Caria, la dea della Luna discende ogni notte da lui, guardando le sue pecore dai lupi e proteggendo il suo sonno. Pagg. 72-79

Afrodite e i suoi miti Afrodite: "nata dalla schiuma" Afrodite, dea dell'unione sessuale e della bellezza, è la Venere dei Latini. Abbiamo visto come nacque da Urano, ma vi è anche una antica tradizione che la vuole figlia di Zeus e di Dione, una dea della prima generazione. Il suo nome che significa "nata dalla schiuma" ci fa tuttavia ritenere che la prima tradizione sia quella originaria. Il vento di ponente la spinse verso Cipro dove la sua grazia conquistò ogni cuore. Ovunque , al posarsi dei suoi piedi, il terreno fioriva, mentre le Ore e le Grazie la circondavano intrecciando ghirlande e tessendo le sue

vesti che riflettevano i colori del croco e del giacinto, della viola, della rosa, del giglio e del narciso. La procreazione fra gli animali e le piante avviene grazie a lei. Afrodite è la dea dei giardini e dei fiori, della rosa, del mirto del tiglio. Le brughiere, le quiete valli, con le loro brezze primaverli, sono i luoghi dove i mortali la vedono. Nel suo cinto istoriato risiedono l'amore, il desiderio e i suggerimenti amorosi che corrompono anche i più saggi. Essa è la signora del fascino e della bellezza femminile, è l'aurea dolcezza sorridente, che domina i cuori degli uomini e delle donne. Essa dona ai mortali fascino e aspetto seducente, ma per pochi i suoi favori risultano positivi, per la maggioranza essi sono pericolosi e distruttori della pace. Questo lo vediamo nelle storie di Pigmalione, di Adone, di Paride, di Enea, Elena Arianna, Psiche, Procride, Pasife e Fedra. Il suo potere si estende su terre e mari. Sulle acque il cigno e il delfino le sono cari. Nell'aria essa ama il passero e la colomba. Con Afrodite si trovano l'alato Eros, la forza che attrae le creature assieme e le induce a procreare. Essa amava le terre di Cipro, Cnido, Pafo, Citera, Abido, il monte Erice e la città di Corinto, dove aveva i suoi santuari maggiori. Attorno alla dea dell'unione sessuale si intessono numerose storie di amore e passione. Il bell'Adone Un giorno la sorridente Afrodite stava giocando con l'alato Eros quando fu punta da una delle sue frecce. Prima che la ferita risarcisse, la dea pose i suoi occhi su Adone, il figlio di Mirra, principessa di Siria, e si invaghì di lui. Nessuno più la vide nei suoi luoghi sacri di Pafo, di Cnido e di Amato, e nemmeno compariva in Olimpo. Adone era per lei più caro del Cielo. La dea lo accompagnava ovunque, lei che amava sedersi con lo specchio a coltivare la propria bellezza, ora vagava per boschi e monti, vestendo l'abito di Artemide. Essa tuttavia cacciava la selvaggina minuta, tenendosi ben lontana dai pericoli della caccia grossa. Consigliava lo stesso ad Adone: -Sii coraggioso coi timidi. Coi coraggiosi non ne vale la pena, è troppo rischioso! Così dicendo, un giorno salì sulla sua biga tirata una coppia di cigni e si allontanò nell'aria. Adone era troppo fiero per badare a certi consigli e quando i cani ebbero snidato un cinghiale, il giovane lo colpì lanciando il suo giavellotto da lontano. L'animale, ferito, si liberò coi denti dall'arma che lo trafiggeva e si scagliò contro il cacciatore affondando le zanne taglienti nel suo fianco e distendendolo a terra. La gelosia di Ares era stata fatale al bel cacciatore della Siria. Mentre il sangue fluiva dalla ferita la pelle di Adone si sbiancava, le sue labbra impallidivano. Solo, sul monte Idalio, Adone stava morendo quando Afrodite tornò, troppo tardi, ormai il sangue del cacciatore aveva arrossato l'erba e i fiori di quel letto di morte.

Afrodite diede l'ultimo bacio al suo amato morente, mentre le sue lacrime fluivano copiose come il sangue di lui. Dalle lacrime di Afrodite spuntarono rose bianche che il sangue di Adone arrossì, quello stesso sangue diede origine agli anemoni e ad altri fiori tutto attorno. Ogni anno in primavera il "giardino di Adone", come lo chiamano in quel paese, rifiorisce sulle colline e sui monti del monte Idalio e Afrodite non manca mai all'appuntamento. L'Eros di Psiche Un re e una regina avevano tre figlie, due di esse erano bellissime, ma non esistono parole adatte a descrivere la bellezza della terza, la più giovaneil cui nome era Psiche (Anima). In quel paese i santuari di Afrodite erano deserti, mentre gli uomini si affollavano davanti alla casa della giovane dalla sovrumana bellezza. Quando Psiche passava la gente la osannava e ornava la strada con petali di rose e tappeti di fiori. Questi omaggi offendevano Afrodite nel profondo del cuore e si chiedeva se fosse davvero lei la più bella di tutte le donne. Come osava una mortale usurpare la posizione di una dea? Un giorno Afrodite chiamò Eros e gli ordinò di colpire Psiche con uno dei suoi dardi e di farla innamorare di qualche essere indegno. Nel giardino di Afrodite erano due fontane, una di acqua dolce e una di acqua salata. Eros riempì due fiale di ambra con l'acqua delle due fontane, le appese alla sua faretra e volò nella camera di Psiche mentre la giovane dormiva. Resosi invisibile, versò due gocce di acqua salata sulle labbra di Psiche, quindi toccò il suo fianco con la punta di una freccia. La fanciulla si svegliò improvvisamente ed egli, pur non visto, sobbalzò bruscamente, pungendosi con una delle proprie frecce. Ignorando la propria ferita, subito si adoperò a riparare il danno e versò l'acqua dolce sui suoi riccioli d'oro. Ma Psiche, ora odiata da Afrodite, non trasse benefici dall'intervento di Eros. Mentre le sue sorelle erano già sposate a due prìncipi, la bellezza di Psiche non suscitava l'amore di alcuno. I genitori, certi che la figlia fosse caduta vittima della gelosia degli dei, si recarono a Delfi per consultare l'oracolo di Apollo. L'oracolo disse loro: -La vergine è destinata a non trovare un amante fra i mortali. Il suo futuro sposo l'attende sulla vetta della montagna. Egli è un portento che né uomini, né dei possono resistere. Il responso dell'oracolo riempì i genitori di angoscia. Su richiesta di Psiche stessa furono fatti preparativi per il matrimonio. La giovane fu condotta in corteo nunziale verso la vetta della montagna indicata dall'oracolo e qui fu lasciata da sola ad attendere il suo destino. Mentre Psiche attendeva trepidante, giuse Zefiro, il vento, che la sollevò gentilmente e la trasportò in una verde valle adagiandola sull'erba fiorita.

Nell'attesa la giovane si addormentò e quando al mattino si destò, vide vicino un boschetto di alti aberi. Psiche vi entrò e vide in mezzo agli alberi una fontana, e più avanti un palazzo, un edificio che poteva essere solo la dimora di un dio. Essa entrò nell'edificio che apparve ricchissimo di ornamenti e decorazioni; mentre la fanciulla ammirava le meraviglie dell'edificio, udì una voce: -Principessa, tutto quello che vedi è tuo. Le voci che od sono quelle dei tuoi servitori; ritirati nelle tue stanze e riposati sul tuo letto. Dopo il riposo e il bagno, Psiche sedette a un tavolo imbandito mentre le sue orecchie erano deliziate da una soave musica. Per lungo tempo non vide il suo poso. Egli veniva al finire del giorno e se ne andava prima dell'alba, ma il suo comportamento era amorevole e onesto. Un giorno Zefiro condusse Psiche a visiatre le sorelle. Esse vollero sapere chi fosse lo sposo della sorella, ma Psiche non seppe dirlo. Allora le sorelle, gelose, insinuarono che fosse il mostro di cui l'oracolo aveva parlato, ma Psiche negava. Pareva piuttosto un giovane di belle forme, gentile e pieno di attenzioni. Tuttavia la curiosità di Psiche non poteva ormai esser placata. Un giorno, tornata al palazzo, essa preparò una lampada e un coltello appuntito e quella notte, quando l'amante era addormentato a suo fianco, Psiche si alzò e accese la lampada. Alla luce essa vide un giovane alato, mentre una goccia d'olio caldo dala lampada cadde su di lui. Risvegliatosi, senza una parola, stese le ali e volò dalla finestra. Eros stesso si rivelò essere l'amante segreto di Psiche, ed essa volle segurlo, ma cadde dalla finestra mentre Eros, soffermatosi un poco, le disse: -La tua curiosità è punita, ma l'unica punizione che posso infliggerti è quella di lasciarti per sempre. L' Amore non può coabitare col sospetto. Detto ciò volò via mentre Psiche, seduta sull'erba, si guardò attorno e si accorse che il giardino e il palazzo erano svaniti nel nulla. Psiche si mise a vagare in cerca del suo Eros, perseguitata dalla collera della gelosa Afrodite. La dea rinchiuse la fanciulla nel suo palazzo tormentandola con prove impossibili, fra le quali l'imposizione di scendere nell'Ade dove Psiche doveva ottenere da Persefone l'acqua della giovinezza. La dea dei morti diede lei un flacone del liquido miracoloso vietandole di aprirlo. Lungo la via del ritorno, incuriosita, Psiche aprì il flacone e cadde addormentata. Eros, disperato al pensiero di Psiche, la cercò e trovandola addormentata, la svegliò con una puntura della sua freccia, poi chiese a Zeus il permesso di sposarla. Zeus riconciliò Psiche e Afrodite, poi si celebrarono le nozze e la giovane bevve l'ambrosia offertagli dal re degli dei conquistando l'immortalità e un posto fra gli dei. Atalanta, l'atleta divina

Atalanta, figlia felicissima di Scheneo, re di Beozia, fu avvertita da un oracolo che il matrimonio per lei avrebbe significato la fine della felicità. Atalanta decise allora di abbandonare il mondo della civiltà e di diventare una cacciatrice nei boschi. Bella, senza paura, veloce e libera, divenne come Artemide, ma rimase una mortale, col cuore di donna. Ma ella resisteva ogni tentazione, uccidendo con le sue frecce persino i centauri che la perseguivano. A tutti gli uomini, suoi pretendenti, Atalanta diceva: -Sarò di colui che riuscirà a vincermi nella corsa, ma la morte sarà il castigo di chi fallirà. La sua bellezza era tale che molti vollero comunque provare. Un giorno un pretendente scelse Ippomene, figlio di re Megareo, come arbitro. Il principe riteneva che non valesse la pena rischiare la vita per una donna, ma quando vide Atalanta cambiò subito idea e decise di competere egli stesso. Ora la cacciatrice si tolse le vesti ponendosi di fianco al suo pretendente e quando Ippomene diede il segnale ella scattò in avanti con la velocità di un daino. Mentre correva la sua pelle, bianca come il marmo, si tingeva gradualmente di rosa, i capelli volavano dietro le sue spalle mentre il vento coglieva l'orlo della gonnella. Lo sfidante fu vinto e subito messo a morte, senza pietà, dagli altri pretendenti. Ippomene, desiderando ad ogni costo Atalanta, si fece avanti e si offrì per la sfida. La cacciatrice guardò il bel giovane ed esitò un momento, ma gli spettatori divennero impazienti, mentre anche il padre la incitava alla corsa. Allora Ippomene lanciò una supplica ad Afrodite: -Oh Afrodite Ciprogenita, aiutami poiché sei tu che mi hai incitato alla sfida! Afrodite, uditolo, gli fu propizia. Raccolse tre pomi d'oro dal suo giardino di Cipro e, non vista da alcuno, li consegnò ad Ippomene, spiegandogli come usarli. Il segnale fu dato. Egli fu subito il primo, poiché la giovane cacciatrice esitò un istante, pensando al fato di quel giovane. Egli presto udì il respiro della cacciatrice dietro le sue spalle e dalla sua mano cadde uno dei pomi. Atalanta vide un luccicare dorato nell'erba, ma proseguì la sua corsa, allora Ippomene lascò cadere il secondo pomo e la ragazza esitò perdendo terreno; lasciò il terzo e ora la cacciatrice si fermò del tutto, raccolse il pomo e subito riprese la corsa, ma.... ....troppo tardi! Un passo, un alito soltanto la separava dall'uomo che per primo raggiunse la mèta. Ambedue gli atleti, stremati, si guardarono, lei arrossendo porse il pomo al giovane dicendo col fiato in gola: -Prendi il tuo pomo e lasciami. Devo andarmene ora. Ma Ippomene afferrò mano e pomo dicendo: -No, vi tengo ambedue. Gli altri due pomi li dedico ad Eros e ad Afrodite, le forze che domarono il tuo cuore, questo pomo è invece per te che rubasti il mio. I due amanti, ora felici, dimenticarono di sacificare in ringraziamento di Afrodite attirandosi l'ira della dea. La

dea dell'amore si vendicò, fece in modo che essi offendessero Demetra, la quale trasformò Atalanta in una leonessa e Ippomene in un leone; li aggiogò poi al suo carro ed essi così vissero per l'eternità. Ero, la bella di Sestos Leandro era un giovane di Abido, città dell'Ellesponto. Attraverso il mare, sulla sponda europea, era un'altra città, Sestos, dove viveva la bella Ero che un giorno fece innamorare il dio Apollo coi suoi capelli. Il dio le offrì il suo trono per il privilegio di accarezzare le sue bionde chiome. Si racconta che Eros, mentre stava per colpirla con la sua freccia, la guardò e perse la vista, tanto fu abbagliato dalla sua bellezza. Un giorno Leandro si recò a Sestos in occasione della festa di Afrodite, per giurare fedeltà alla dea. Sulla via del tempio, fra la moltitudine dei fedeli, Ero e Leandro si incontrarono con lo sguardo. All'interno del tempio, il più bello fra tutti quelli dedicati alla dea, Ero sacrificò sangue di tartaruga sull'altare. In quel momento Eros, non visto, volò nel tempio e colpì Leandro dritto al cuore. Egli rimase come impietrito, gli occhi fissi sui capelli di Ero. La giovane, che ricambiava gli sguardi, cadde essa stessa vittima di Eros. Chi ha mai amato se non ha provato l'amore a prima vista? Leandro si inginocchiò, ma il suo pensiero non era rivolto alla dea, bensì alla mortale. Ero, sentendosi attratta al giovane, gli si avvicinò arrossendo. Essi conversarono toccandosi dolcemente le mani fino a quando lui parlò con gli occhi in lacrime, rivelando a lei il suo amore. Ero disse di ricambiare quel sentimento e che la notte avrebbe acceso una torcia sulla torre della sua casa. Il giovane, guidato da questa luce, avrebbe potuto raggiugerla a nuoto attraverso lo stretto di mare che separava le rispettive città. Così i due amanti si incontavano ogni notte. Leandro seguiva a nuoto la luce della torcia che lo guidava infallibilmente verso la casa di Ero. La fanciulla aveva fatto voto di castità ad Afrodite, ma Eros ebbe la meglio. Per tutta una estate le cose andarono bene, ma l'autunno fu annuciato da una notte di tempesta. Il mare faceva paura, Leandro lottò contro le onde, ma invano, il vento spense la torcia e il giovane annegò. Il suo corpo fu ritrovato sulla spiaggia di Sestos; fra la gente accorsa vi fu anche Ero la quale, visto il destino dell'amante, lo seguì gettandosi in mare. La vendetta di Afrodite fu compiuta ancora una volta. Pigmalione e Galatea Pigmalione, re di Cipro, detestava le donne. Se egli ne amava la bellezza, vedeva nelle donne tanto male che la aborriva, perciò decise di non sposarsi. Il re era anche un eccellente scultore e un giorno fece una meravigliosa statua di cedro, rivestita di avorio, raffigurante una donna bellissima. Chi vedeva la statua diceva che nessuna donna vivente avrebbe potuto sfidare la bellezza dell'opera di Pigmalione.

La statua pareva viva, sembrava una donna vera che per qualche sortilegio non potesse muoversi. Pigmalione guardava e guardava ogni giorno la sua statua, finché incominciò a innamorarsi di lei. Spesso la accarezzava, quasi per scoprire se non fosse di carne piuttosto che di avorio. Venne la festa di Afrodite che in Cipro, terra natale della dea, si celebrava con grande giubilo. Aveva luogo una grande ecatombe di animali da sacrificio. Gli altari fumavano e l'odore di arrosto e incenso rendeva densa l'aria. Pigmalione celebrò il su rito di fronte all'altare di Afrodite dicendo alla dea: -Oh, Afrodite, bella e magnanima, ascolta la preghiera di uno scultore, fai che l'immagine che ho creato diventi viva! L'avorio e l'oro che coprono la sua anima di cedro la rendono bella ma fredda. Toccala con la tua fiamma e fai che muova quelle rosee labbra, fai che il vento sollevi quei capelli d'oro, e fai che essa scelga me come sposo! Se così sarà ti costruirò un altare e lo coprirò d'oro. Quando il re scultore giunse al palazzo, vide con sorpresa che la sua statua era ornata con ghirlande di fiori. Sorpreso, egli udì una dolce voce chiamarlo, poi vide la statua muoversi. Egli tremò a questo prodigio, mentre si accorgeva che Afrodite lo aveva ascoltato. Pigmalione chiamò Galatea la sua creazione. Le nozze avvennero con la benedizione di Afrodite e da questa unione nacque Pafo, al cui nome fu dedicata a Cipro la città di Venere. Piramo e Tisbe Al tempo di Semiramide, Piramo era il più bel giovane di Babilonia, mentre Tisbe era la più bella fra le giovani dell'antica città sull'Eufrate. Esi abitavano nella stessa via, in case vicine. La vicinanza fece sì che i giovani si frequentassero e che Eros scoccasse le sue frecce. Quando vollero sposarsi, i genitori non diedero il loro consenso proibendo a loro persino di incontrarsi. Allora i giovani comunicavano a distanza con gli occhi e coi gesti, mentre il loro amore cresceva più intenso. Scoprendo delle crepe nelle pareti delle loro case confinanti, essi presero a parlarsi e scambiarsi messaggi attraverso il muro. Un giorno decisero di di incontrarsi di notte presso un edificio fuori le mura della città. L'edificio era la tomba di Nino e il primo dei due ad arrivarvi avrebbe atteso l'altro sotto il vicino gelso, presso la fonte. Venne la sera, Tisbe giuse per prima e si sedette nel luogo stabilito. Ma ecco che vide una leonessa, con la bocca rossa di sangue, avvicinarsi alla fonte. La giovane si dette alla fuga e nel panico perse il suo profumato velo. La leonessa, preso il velo con la bocca, lo trainò un poco attorno e poi lo lasciò. Quando Piramo giunse sul posto, vide nalle sabbia le impronte dell'animale, poi vide il velo strappato e sanguinoso. Stravolto dall'orrore il giovane esclamò: - Mia sfortunata Tisbe! Sono io la causa della tua morte, ma ti seguirò.

Così dicendo estrasse la spada, la piantò per terra e si trafisse al cuore. Il sangue che sprizzò dal cuore di Piramo tinse di rosso le bacche del gelso, poi, penetrando nel terreno, raggiunse le radici dell'albero stesso diffondendo una tinta rossastra al tronco, ai rami, alle foglie e a tutti i suoi frutti. Trascorso qualche tempo Tisbe tornò cautamente sul luogo dell'appuntamento. Quando vide l'amante dibattersi nell'agonia della morte, urlò battendosi il petto, abbracciò Piramo moribondo gridando: -Piramo! Cosa ti ha fatto far questo? Sono la tua Tisbe! Al nome di Tisbe, il giovane aprì gli occhi ma li richiuse e spirò. Allora la giovane vide il proprio velo intriso di sangue e capì, poi in silenzio, presa la spada sanguinante, si uccise allo stesso modo dell'amato. Da allora i gelsi dell'Eufrate produssero bacche rosse anziché bianche. Faone e Saffo Faone era il navichere vecchio e povero, che portava i passeggeri fra Lesbo e Chio. Un giorno la regina di Pafo e Amato, travestita da vecchia megera, chiese un passaggio gratuito al traghettatore. Il vecchio acconsentì volentieri a patto che la strega gli concedesse per sempre la giovinezza e la bellezza. Le donne di Lesbo ora impazzivano d'amore per lui, ma più di tutte lo amava Saffo, la poetessa di Lesbo la quale dedicò a Faone le sue più belle liriche d'amore. La vendetta di Afrodite Afrodite non mancava mai di punire chi non onorasse i suoi riti e sfidasse il suo potere. Il giovane Ippolito, che al ei preferiva Artemide, fu condotto alla rovina. Ella trasformò Polifonte in un gufo, Arsinoe in una pietra, Mirra, madre di Adone, in un arbusto. Mentre ebbe una influenza ambigua su Elena, Enone, Pasife, Arianna, Procride, Erifile, Laodamia e altre, le cui storie vediamo altrove. Pagg. 80-81

Ermes e i suoi miti

Ermes: natura e carattere Ermes, il Mercurio dei Latini, nacque in una caverna del monte Cillene nell'Arcadia, figlio di Zeus e di Maia figlia di Atlante. Il suo nome "Hermes" forse siginifica "il frettoloso", infatti egli è veloce come il vento, servitore e araldo di Zeus e degli altri olimpici. Ermes porta sandali o calzari alati ed è alato anche il suo "petaso", il tipico cappello. Come messaggero egli porta sempre il "caduceo", o bastone di legno o d'oro, alato e al quale sono avvinghiati due serpenti. Si tratta di una

bacchetta magica con poteri quali quello di destare chi dorme o di addormentare e far sognare chi è desto. Ermes era bello e nel fiore della giovinezza, al tono dolce e suadente della sua voce si aggiungeva il dono dell'eloquenza persuasiva. Il dio messaggero era anche un inventore, il primo al mondo, inventò la cetra e il flauto e si cimentò nella matematica e nell'astronomia. Ermes era il campione degli atleti per la sua velocità nella corsa, mentre a causa della sua furbizia egli poteva essere un nemico pericoloso. Egli era anche un ladro e un bugiardo nato, come vedremo presto. Patrono dei giocatori d'azzardo, dio della sorte, era anche promotore di attività legittime quali il commercio per terra e per mare. Oltre al suo ruolo di messaggero egli aveva quello di accompagnatore delle anime dei morti nel loro viaggio "verso le umide vie, oltre la corrente di Oceano, oltre la porta del sole e la terra dei sogni, verso i campi di asfodeli, nel buio regno di Ade, dove abitano le anime e i fatasmi degli uomini consumati", come dice Omero (Odissea 24, 1) Nascita e prodezze di Ermes Secondo Omero Maia partorì Ermes all'alba. Il dio, precoce senza eguali, suonava già la lira a mezzogiorno. Uscito dalla caverna del monte Cillene, dove la madre lo aveva partorito, Ermes trovò una tartaruga, la uccise, ne vuotò il carapace e costruì una lira applicandovi canne e corde. Con questo strumento egli cantò subito melodie di incredibile bellezza. La sera dello stesso giorno egli aveva già rubato le vacche che Apollo pascolava sulle montagne della Pieride. Fasciò i piedi degli animali con ciuffi di tamericio e gli condusse, all'indietro -per ingannare ancor meglio il suo fratellastro- nella caverna di Pilo. Nella caverna egli fece un fuoco, sfregando assieme due bastoncini di lauro, e bruciò due giovenche sacrificandole agli dei olimpici, che ora, dopo la sua nascita, erano dodici. Fatto questo, il piccolo Ermes, tornò nella grotta del monte Cillene e si riavvolse nelle fasce, dentro il cesto, come un innocente neonato. La madre, preoccupata, lo ammonì che Apollo lo avrebbe scoperto e punito, ma Ermes rispose di essere assai più furbo del fratellastro. Quando Apollo si accorse del furto, accusò Ermes, che era ancora innocentemente avvolto nelle sue fasce di neonato. Ma il furbo giurò su suo padre Zeus di non avere niente a che fare con quel crimine, non sapendo neanche cosa fosse una mucca. Ma Apollo ripeteva che le mucche erano state rubate da Ermes, mentre il piccolo insiteva di non saperne nulla. I due si presentarono allora davanti a Zeus al quale Apollo disse: -Non ho mai visto, in nessun luogo, un ladro di vacche così precoce, né ho mai visto un tale bugiardo! A queste accuse Ermes rispose:

-Padre! Sono un onesto neonato. E' Apollo un codardo poiché si approfitta della mia debolezza. A queste parole Zeus esplose in una risata di tuono che fece tremare la terra. Vi fu riconciliazione, Ermes diede ad Apollo la sua lira di guscio di tartaruga, Apollo diede ad Ermes il nerbo, la frusta da mandriano, nominandolo guardiano delle sue mucche. Dopo che Ermes ebbe giurato di non tentare mai più la sua furbizia ai danni di Apollo, questi diede lui il bastone magico detto "caduceo" che elargiva ricchezza, felicità e bei sogni. Ma Apollo lo avvertì di rivelare il futuro ai mortali soltanto mediante gesti, mai con le parole o con la poesia, che erano i privilegi di Apollo. Si dice che Ermes sfogasse la sua mania di rubare su altri dei. A diverse riprese egli rubò il cinto ad Afrodite, il tridente a Poseidone, le tenaglie ad Efesto. Il gesto più eroico di Ermes fu l'uccisione di Argo che abbiamo già narrato. Estia Estia, la Vesta dei Latini, era la prima nata da Rea e Crono. Estia è la personificazione del focolare domestico e non compare in nessun mito. Essa è il centro religioso della casa dei mortali e degli dei. Il suo nome è il primo ad essere pronunciato in ogni cerimonia. Pagg. 82-83

La Grecia settentrionale Mappa mostrante i luoghi menzionati nel testo e gli altri luoghi importanti per la mitologia. Attorno alla mappa vi sono piccole vignette che ricordano alcui dei miti principali. Pagg. 84-85

La Grecia Meridionale Mappa mostrante i luoghi menzionati nel testo e gli altri luoghi importanti per la mitologia. Attorno alla mappa vi sono piccole vignette che ricordano alcui dei miti principali.

Pagg. 86-87 CAPITOLO 3

DEI E MITI

DELLA TERRA, DELL'ALDILA' E DELLE ACQUE

ADE, DEMETRA,PERSEFONE, DIONISO, ORFEO, POSEIDONE

Dei della terra, dell'aldilà e del mare

Dopo la disfatta dei Titani, i tre figli di Rea si divisero l'universo, Zeus regnò sui cieli, Posedone sui mari e Ade sul mondo del sottosuolo, mentre la terra era dominio di tutti. Demetra Sulla terra regnavano anche altre divinità, legate soprattutto alle coltivazioni e alle piante utili all'uomo. Sappiamo che Gaia era la personificazione della Madre Terra, sposa di Urano, il Cielo. Di una generazione più giovane, era Rea, la sposa di Crono e madre di Zeus. Apparteneva quindi alla terza generazione Demetra, figlia di Rea e Crono, sorella di Zeus, la Cere dei Latini, patrona della semina e dell'agricoltura in generale. Demetra è anche legata ai riti e alle sacre cerimonie concernenti la morte e l'altro mondo. Demetra era al centro dei culto che si svolgeva nel suo santuario di Eleusi. Questi riti, detti "Misteri Eleusini", si svolgevano alla presenza di individui iniziati ed erano del tutto segreti, infatti ancora oggi ne sappiamo poco, oltre al fatto che comprendevano rappresentazioni simboliche teatrali dell'alternanza della vita e della morte nelle natura. Forse in questi culti si prevedeva la resurrezione e l'immortalità dell'uomo. Erano sacri a Demetra e a sua figlia Persefone le spighe del grano, i papaveri, la mucca, la pecora, il maiale. Persefone Persefone, la Proserpina dei Latini, era la figlia di Demetra e di Zeus, essa divenne regina dell'Aldilà nel modo in cui vedremo. Come dea della primavera, cara agli uomini, Persefone porta con sé la "cornucopia", il corno dell'abbondanza. Il corno della capra Aice che allattò Zeus neonato in una caverna del monte Ida a Creta. Persefone visitava la terra in primavera cospargendola di fiori. Come dea della morte, seduta a fianco di Ade, essa impartisce ordini alle Erinni e, come il marito, è crudele, ferrea, nemica di giovinezza, vita e speranza. Dioniso Dioniso, chiamato anche Bacco sia dai Greci che dai Latini, figlio di Zeus e di Semele, era il dio del vino e della vite, della vegetazione e degli animali. Egli simbolizzava l'ebrezza data dal vino, ma anche i suoi benefici sociali. Dioniso era un propagatore della civiltà, della legge e della pace. La sua testa era sempre incoronata di pampini e di rami di edera, egli cavalcava il leopardo, la tigre, la lince che a volte trainavano la sua biga acoppiati. Dioniso era seguito da una banda di Satiri e Menadi, i quali danzavano agitando il "tirso", un lungo bastone ornato d'edera, terminante con una pina. Dioniso era un dio conviviale, che presiedeva i bachetti. Pan Un accompagnatore di Dioniso era Pan, il dio dei pastori e delle greggi, figlio di Ermes e di una ninfa dei boschi. Pan dimorava nelle caverne, si aggirava per le montagne e le valli solitarie, si dilettava nella caccia, conduceva le danze delle Driadi -le ninfe della quercia- ed era il loro amante.

Ma Pan non era un dio bello, i suoi piedi erano caprini e due corna di capra gli spuntavano sulla fronte. Pan amava la musica e fu l'inventore della "siringa", il flauto dei pastori, a diverse canne di varia lunghezza. Come altre divinità dei boschi, egli era temuto da chi attraversava i boschi di notte. Per questo motivo, la paura irrazionale si chiama ancora oggi "timor pànico". Driadi, Naiadi, Oreadi, Menadi, Satiri e Sileni Le ninfe che accompagnavano Pan e Dioniso appartenevano a una classe particolare ed erano dette Driadi o Amadriadi, ossia "della querce" poiché erano spiriti di questo abero. Esse assumevano spesso le sembianze di contadinelle, pastorelle o cacciatrici. Le Driadi non erano immortali, ma nascevano, vivevano e morivano, assieme all'albero al quale gli dei le associavano. Per questo, abbattere un albero era, per i Greci, un atto crudele, spesso severamente punito, come vedremo in una delle storie che seguono. Oltre a queste vi erano le Naiadi, le ninfe delle fonti e dei corsi d'acqua, preservandogli per Artemide e le altre divinità dei luoghi selvaggi e naturali, come vedremo più avanti. Aretusa, della quale abbiamo visto la storia era una Naiade. Incontreremo anche le Oreadi o ninfe delle montagne e delle caverne. Le Menadi, ossia "le indemoniate", erano ancelle seguaci di Dioniso, dette anche "le Baccanti". Sono vestite di leggeri veli, incoronate di edera, portano il "tirso", e una coppa da vino. Esse suonavano il doppio flauto o il tamburello e danzavano freneticamente, accudendo agli animali di Dioniso. Esse simbolizzano gli spiriti liberi della natura. Le donne al seguito di Dioniso le imitavano. I Satiri, detti anche Sileni, erano demoni della natura, con gambe e coda di cavallo o di caprone. Essi bevevano con Dioniso e inseguivano sempre Ninfe e Menadi. Nelle raffigurazioni più tarde essi avevano un aspetto più umano. Orfeo Orfeo era figlio di Eagro, un dio-fiume, e della Musa Calliope. Egli è originario della Tracia, la regione a nord del monte Olimpo e portava gli abiti del suo popolo. Apollo lo educò alla musica e al canto ed egli divenne il più grande cantante lirico di tutti i tempi. Persino gli animali selvaggi e anche le pietre si commovevano al canto di Orfeo. Egli fu uno dei pochi mortali a discendere nel mondo dei morti e a ritornare. Quando morì la sua anima fu inviata nei Campi Elisi dove, vestita in una lunga tunica bianca, canta in eterno ai beati. Attorno a questo mito si sviluppò la teologia "orfica". Questa dottrina riteneva che egli avesse portato dall'aldilà informazioni sulle Isole dei Beati e su come i mortali potessero raggiungerle. Orfeo è l'antenato ideale di Omero. Ade

Ade è il nome del fratello di Zeus e Poseidone, ma il suo nome viene usato anche per designare il suo regno, ossia l'Aldilà, che è detto l'Ade. Ade è il Plutone dei Latini, a lui spettò la sovranità dell'Aldilà o del sottosuolo, dove vanno le ombre dei morti. Ade, "colui che non vede", è duro e inesorabile. L'elmo donatogli dai Ciclopi gli conferiva l'invisibilità, per questo i mortali lo temevano. Egli non era soltanto il signore di coloro che discendevano nelle viscere della terra, ma anche di tutto ciò che dalla terra proveniva, come i minerali. Per questo era anche detto Pluto, "colui che dà ricchezza". Ade visitava a suo piacimento il mondo dei viventi; spesso si recava persino in Olimpo, ma generalmente non si occupava di ciò che accadeva nel mondo superiore o di chi lo abitava. Quando i mortali lo invocavano essi battevano il suolo con le mani e gli sacrificavano pecore nere. Poseidone Come abbiamo visto nel I° capitolo, la prima dinastia delle divinità del mare fu fondata da Oceano e Teti, i quali generarono tremila fiumi e innumerevoli ninfe marine, le Oceanine. Il palazzo di Oceano era situato oltre i limiti della terra, circondato da giardini e innumerevoli bellezze. Da epoca immemorabile Ponto, "il flutto", o il "mare profondo", abitava nelle caverne, presso la casa di Oceano. Da Gaia egli ebbe il figlio Nereo, "il Vecchio del Mare", il saggio, noto per le sue capacità di profeta, la sua sapienza il suo amore per la verità e la giustizia. Sposando Doris, figlia di Oceano, egli ebbe cinquanta bellissime figlie dette Nereidi, le più famose delle quali erano Galatea, Teti e Anfitrite. Anfitrite sposò Poseidone, figlio di Crono e di Rea, fratello di Zeus, unendo la vecchia dinastia con quella dei figli di Crono. Poseidone e Anfitrite fondarono la giovane dinastia delle divinità marine. Il palazzo di Poseidone era situato nelle profondità marine, presso Ega in Eubea, ma egli si recava spesso nell'Olimpo. Il simbolo del suo potere era il tridente dei pescatori di tonno, col quale egli poteva spaccare le rocce, creare o calmare gli uragani oppure scuotere la terra, infatti egli si chiamava anche "lo scuotitore della terra", il causatore dei terremoti e maremoti. Poseidone donò il cavallo all'uomo e per questo era il patrono delle corse a cavallo. I suoi cavalli, che avevano gli zoccoli di bronzo e le criniere d'oro, tiravano la sua biga sulle onde del mare che si appiattivano davanti a loro. Delfini, foche e altre creature marine guizzavano festanti lungo la scia del carro di Poseidone. A lui venivano sacrificati tori bianchi e neri, maiali bianchi e arieti. Pagg. 88-91

Miti delle grandi divinità della terra

Poiché i miti di Demetra sono strettamente collegati al mondo dell'Ade e di sua figlia Persefone, li vedremo assieme a quelli. Qui vedremo i miti di Dioniso, il dio della linfa primaverile, della felicità che deriva dal vino, il dio inebriato, dai lunghi riccioli.

I miti di Dioniso Dopo la morte di Semele, Zeus prese il neonato Dioniso e lo consegnò alle ninfe Nisee che lo accudirono durante l'infanzia e l'adolescenza. Ma un'altro guardiano e tutore di Dioniso fu il gioviale Sileno, un satiro, figlio di Pan e di una ninfa, il più vecchio dei satiri. Sileno era un tutore assai indulgente perché quasi sempre dedito ai piaceri del vino il quale, non potendo sempre camminar dritto, cavalcava solitamente un asino al seguito di Dioniso. Quando Dioniso raggiunse la giovinezza scoprì la coltura della vite e la tecnica per fare il vino. Per questa scoperta Era lo rese pazzo, costringendolo a vagare attraverso il mondo. Giunto in Frigia egli fu curato da Rea che gli insegnò anche i riti religiosi. Da allora Dioniso si mise in viaggio attraverso l'Asia insegnando le tecniche dellla coltivazione della vite alle popolazioni che incontrava. La più famosa delle sue spedizioni è quella che lo condusse in India, che durò molti anni. Al ritorno giuse trionfante in Grecia dove instaurò il proprio culto, ma inizialmente fu osteggiato da alcuni re i quali temevano l'ebrezza che egli portava al suo seguito. Giunto presso Tebe, la città di sua madre, dove Penteo, figlio di Agave, nipote di Cadmo e di Armonia, era divenuto re, trovò opposizione al culto che egli portava. Penteo stesso proibì i riti di del cugino Dioniso nella città. Quando Dioniso e il suo allegro corteo trionfale di giovani, di vecchi e donne inebriati, giusero in città, il re cercò di fermarlo. Gli amici e i consiglieri del re lo pregarono di non opporsi, ma queste preghiere rendevano ancor più furioso Penteo, il quale inviò le sue guardie ad arrestare il cugino. La storia del marinaio Acete Le guardie del re non riuscirono a catturare Dioniso, ma presero Acete di Etruria, uno del suo seguito e lo condussero, mani legate, davanti a Penteo. Il re minacciò di morte Acete ordinandogli di spiegargli cosa fossero questi riti di Dioniso e quale fosse il loro scopo. Il prigioniero, per nulla impaurito, disse che i suoi poveri genitori gli avevano lasciato in eredità la loro attività di pescatori, che egli aveva imparato a navigare osservando le stelle e che era diventato un timoniere. "Un giorno, raggiunta l'isola di Dia, i marinai andarono in cerca d'acqua, ma essi erano tornati con un giovinetto che avevano trovato addormentato. Ritenendo il giovane un nobile, dato il suo aspetto, essi lo avevano rapito pensando di chiedere un riscatto. Visto quel giovane di nobile aspetto lo ritenni un dio e gli chiesi perdono per la violenza che i marinai avevano esercitato su di lui.

I marinai, che volevano ottenere il riscatto, lo portarono sulla barca e partirono. Il giovane, che era Dioniso, si scosse dal suo sonno e chiese loro dove intendessero portarlo. Uno dei marinai rispose : -Non temere, dicci dove vuoi andare e noi ti porteremo là. Dioniso rispose: -La mia casa è nell'isola di Nasso, portatemi là e sarete ricompensati. Essi promisero di farlo, ma mi presero il timone e diressero la nave verso l'Egitto con l'intenzione di vendere il giovane come schiavo. Dioniso si accorse che la nave non era diretta a Nasso e, piangendo disse ai marinai: -Dove mi conducete? Queste acque non mi sono familiari. Non potete ingannare un povero ragazzo. Anch'io, impotente, mi disperavo mentre i marinai, deridendo ambedue, procedevano verso l'Egitto. Ma ad un tratto la nave si bloccò in mezzo al mare, come se una forza tremenda la tenesse ancorata al fondo. Gli uomini, sorpresi, remavano distendendo al massimo le vele, ma invano. Numerosi rami di edera stavano avvinghiandosi attorno ai remi e sui fianchi della nave spandendosi sulle vele. Attorno all'albero maestro si stava avvinghiando una vite piena di grappoli d'uva maturi. Si udiva intanto un gran suono di flauti mentre l'aria odorava di mosto fragrante. Guardammo attoniti Dioniso che adesso aveva in testa una corona di pampini e in mano una lancia coperta di edera. Attorno a lui erano comparsi tigri, leopardi e linci che gli si accovacciavano ai piedi. Intanto i marinai si erano trasformati in delfini e stavano guizzando attorno alla nave. Solo io e Dioniso rimanevamo sulla nave, allora il dio mi disse: -Non temere Acete, dirigi la nave su Nasso! Raggiunta Nasso, discendemmo a terra dove Dioniso celebrò sacri riti." Penteo interruppe bruscamente Acete ordinando alle guardie di metterlo subito a morte, ma Acete, per intervento divino, svanì nell'aria. Intanto il monte Citerone, presso Tebe, brulicava già di fedeli e il clamore delle feste dionisiache risuonava nell'aria. Penteo, arrabbiato, salì attraverso il fianco boscoso della montagna finché giunse in una radura dove si svolgevano le feste dionisiache. Fra le "baccanti" vi erano Agave, la madre del re e le sue zie Autonoe e Ino. Vedendo Penteo sbucare dai cespugli improvvisamente lo credettero un cinghiale e, senza esitare, gli si avventarono addosso con lance e coltelli e lo sbranarono tagliandolo poi a pezzi. Sua madre, contenta che adesso il culto di Dioniso non avesse più oppositori, cantava: -Vittoria! Vittoria! La gloria è con noi! Fu così che si affermò a Tebe il culto di Dioniso che subito si diffuse in tutta la Grecia. Più tardi, sull'isola di Nasso, Dioniso incontrò Arianna, figlia di Minosse, re di Creta, la quale era stata

abbandonata dall'amante Teseo, ma questa storia la narreremo più avanti. La scelta di Re Mida Un giorno Sileno, il satiro, si aggirava ubriaco nei boschi della Frigia, quando fu trovato da alcuni contadini che lo condussero da Re Mida. Mida lo accolse con tutti gli onori di corte e dopo undici giorni lo lasciò tornare da Dioniso. Dioniso volle ringraziare il re per il suo gesto e gli offrì un premio a sua scelta. Mida chiese di ottenere la facoltà di tramutare in oro tutto quello che toccasse. Dioniso acconsentì. Mida mise subito alla prova il dono di Dioniso e colse un ramoscello da una quercia che subito i tramutò in oro puro. Allora Mida prese una pietra, anche questa divenne subito oro massiccio; prese una zolla di terra e accadde lo stesso. Mida allora colse una mela nel giardino e subito si trovò nelle mani un pesante, splendido, pomo d'oro. Il re ordinò quindi un bel pranzo per festeggiare la sua nuova abilità, ma con grande preoccupazione si accorse che il pane era diventato oro al suo tocco, provò a morderlo, ma si ruppe un dente. Prese allora un bicchiere di vino, ma il liquido divenne oro mentre gli colava in gola. Angosciato, re Mida cercò di liberarsi dal suo potere. Ora odiava il dono di Dioniso. Alzò le mani al cielo, con le vesti scintillanti d'oro, pregando che Dioniso lo salvasse da una scintillante morte per fame. Allora il dio, nella sua misericordia, lo mandò a lavarsi nel fiume Pattolo le cui sabbie, da allora, sono polvere d'oro. Da allora Mida, liberatosi dal suo potere e dal suo desiderio di ricchezza, divenne un seguace del culto di Pan, il dio dei campi. Ma la sua scarsa intelligenza ancora si manifestò quando giudicò Pan superiore ad Apollo durante la famosa sfida musicale tenuta dai due. Pagg. 92-97

Miti delle divinità terrestri minori L'urlo di Pan Il paganesimo attribuiva qualsiai fenomeno naturale all'azione diretta della divinità. Pan, il cui nome significa "tutto", veniva considerato un simbolo dell'universo e una personificazione della natura stessa. Nei primi tempi dell'era cristiana Pan fu considerato il rappresentante di tutti gli dei pagani, egli fu il simbolo del paganesimo. Si narra che quando la nascita di Cristo fu annunciata ai pastori un tremendo urlo bestiale si udì attraverso tutto l'Egeo, era il grido di agonia di Pan, annunciante l'esilio o la morte degli dei dell'Olimpo. Nei boschi e nei campi, in compagnia di Pan, si trovavano i Sileni, i Silvani, i Fauni e i Satiri, tutti maschi, poi vi

erano le Oreadi, le Driadi o Amadriadi, le Naiadi che erano tutte considerate ninfe terrestri. L'Eco di Narciso Eco era una bellissina ninfa oreade, amante dei boschi e delle colline. Una favorita di Artemide, con la quale partecipava alla caccia. Ma Eco era una ninfa chiacchierina, parlava sempre, finché irritò Era al punto che essa la rese incapace di parlare per prima. Eco poteva solo rispondere. Innamoratasi di Narciso, un figlio del dio-fiume Cefisso, Eco non aveva la possibilità di esprimergli il suo amore se non ripetendo esattamente le parole che egli le diceva. Ma quello che Narciso diceva non sempre esprimeva quello che Eco avrebbe voluto dirgli. Un giorno Narciso gridò ad Eco dall'alto di una collina: -Vieni da mé! Eco rispose con la stessa frase e gli corse incontro a braccia tese, ritenendo che egli avesse ora compreso l'amore che aveva per lui. Ma Narciso non intendeva farsi toccare da alcuno e disse ad Eco: - Metti giù le mani! Morrei piuttosto che farmi abbracciare da te. -....farmi abbracciare da te. Ripeté Eco, ma invano. Rifiutata, Eco si ritirò in solitudine, vivendo nelle caverne, in fondo ai burroni, presso le pareti rocciose delle montagne, dimagrendo e consumandosi di giorno in giorno, fino a quando non rimase di lei che la voce. Narciso era la personificazione della vanità, egli ignorava le altre ninfe così come aveva ignorato Eco. Una di queste un giorno pregò gli dei che facessero comprendere anche a Narciso cosa fosse l'amore. Era udì l'implorazione e un giorno Narciso, mentre andava a bere a un laghetto, vide la sua immagine riflessa nell'acqua e se ne innamorò. Egli prese a parlare alla sua immagine, cercava di abbacciarla, di baciarla, fino a quando, languente, morì. Le ninfe piansero Narciso, in particolare le Naiadi che gli prepararono la pira funeraria per cremare il suo corpo, ma quando andarono a prenderlo, egli era scomparso e al suo posto vi era un bellissimo fiore con un forte profumo, allora le ninfe diedero al fiore il nome di Narciso. La fame di Erisìttone Erisìttone era un uomo empio e violento, non rispettando gli dei, un giornò violò con l'ascia un bosco sacro a Demetra. Egli aveva osato abbattere una veneranda quercia sul cui tronco i contadini solevano appendere iscrizioni di ringraziamento alla Driade, ninfa dell'albero. Attorno a questa quercia si vedevano spesso danzare le Driadi. Erisittone aveva ordinato ai suoi schiavi di abbattere la quercia, ma al loro rifiuto, egli brandì l'ascia e imprecando contro l'eventuale dea dell'albero, incominciò a colpirlo. La quercia pareva scuotersi e gemere ai colpi. Il sangue sgorgava ora dal taglio dell'ascia, ma quando uno

schiavo cercò di fermare Erisittone, egli lo uccise all'istante. Anche quando la voce della Driade si sprigionò dalla quercia ammonendolo, egli non la scoltò e abbatté l'albero. Allora le Driadi chiesero a Demetra che Erisittone venisse punito. Demetra acconsentì e inviò una ninfa Oreade nella gelida Scizia dove abitano Freddo, Paura, Tremore e Carestia. Raggiunto il Caucaso l'Oreade snidò i draghi che tirano il carro di Demetra. A queste creature la ninfa passò gli ordini di Demetra e ritornò i Tessaglia. Allora Carestia, volando speditamente giunse presso la casa di Erisittone cogliendolo nel sonno. Essa lo avvinse con le sue ali e respirò sul suo volto. Erisittone sognò di essere affamato, si svegliò con i dolori della fame, ma più mangiava, più era affamato. Mangiando e mangiando cadde i povertà e per denaro decise di vendere sua figlia come schiava. Poseidone salvò la giovane tramutandola in un uomo. Il compratore la restituì al padre, il quale la vendette ancora, ma ancora la giovane fu tramutata in un animale e restituita al padre. Infine Erisittone, non avendo più né denaro, né cibo, incominciò a divorare le proprie mani, poi le proprie gambe, fino a quando non si divorò competamente scomparendo. Driope e il fior di loto Driope era la figlia di re Driopo, ed era stata una delle amanti di Apollo. Più tardi essa sposò re Andremone. Un giorno, assieme a sua sorella Iole e al figlioletto Anfisso, essa raccoglieva fiori per ornare l'altare delle ninfe. Cogliendo un fiore di loto da un laghetto, essa si accorse che lo stelo sanguinava. La pianta era infatti la ninfa Loti che gli dei avevano trasformato così per proteggerla da un aggressore. Driope voleva fuggire, spaventata, ma si accorse che un incantesimo l'aveva pervasa e, mentre si scusava con la ninfa Loti, proclamandosi innocente, essa si accorse che foglie rotonde stavano sprigionandosi dal suo corpo. Disperata, pregava sua sorella di insegnare a figlio di non raccogliere piante e fiori, nel caso si trattasse di sua madre trasformata. E così anche Driope divenne una pianta di loto. Reco lo smemorato Un Assiro di nome Reco vide un giorno che una vecchia quercia della sua tenuta stava per cadere e la fece puntellare. La Driade dell'albero, credendo ormai di essere spacciata, espresse la propria gratitudine a Reco che gli salvò la vita, offrendogli di esaudire un suo desiderio. Reco le chiese il suo amore e la ninfa acconsentì dandogli un appuntamento presso l'albero un'ora prima del tramonto. Nel frattempo la Driade avrebbe fatto seguire Reco da un'ape, sua messaggera. Reco allora si sentì felice, gli pareva di volare in cielo mentre giubilante tornava a casa. Dalla contentezza Reco si mise a giocare a dadi con gli amici e dimenticò di guardare il sole e controllare l'ora. L'ape gli aveva ronzato

qualcosa nell'orecchio, ma lui, infastidito l'aveva scacciata con la mano. All'imbrunire Reco guardò la finestra e vide un rosso tramonto, a quel punto il cuore gli balzò in petto. Si precipitò fuori e corse verso la quercia, la raggiunse e si mise in trepidante atttesa, quando una voce si fece udire: -O Reco! Mai tu mi vedrai, né di giorno né di notte. Hai scacciato il mio messaggero, dimenticando il mio dono. Addio, tu non mi vedrai mai! Reco perse la vista e, impaurito, si batteva il petto in segno di colpa dicendo: -Abbi pietà, perdonami per questa volta, restituiscimi gli occhi! La Driade rispose: -Forse potrei anche perdonarti e restituirti la vista, ma la vista non può essere restituita alla tua cieca anima. Reco, sdraiato sotto l'albero attese e attese, senza udire più alcun suono. Quando l'alba venne Reco poteva vedere, ma era solo al mondo. Pomona e Vertunno Pomona era una Driade che viveva in Italia. Essa aveva il compito di proteggere e sorvegliare i meleti e altri frutteti. La Driade aveva spesso rifiutato le offerte amorose di Pan, di Silvano, di Fauni e Satiri. Anche Vertunno, il dio italiano dei giardini e delle stagioni, ebbe il rifiuto di Pomona. Vertunno aveva corteggiato Pomona in ogni guisa. Vestito da mietitore, da sarchiatore, da vendemmiatore e persino come pescatore e soldato, ma senza fortuna. Infine Vertunno escogitò un trucco e si presentò a Pomona trasformato in vecchietta. La vecchia si avvicinò a Pomona ed espresse ammirazione per i frutti del pomario in cui quel giorno si trovava. La vecchia si mise poi ad ammirare una gran vite che cresendo avvinghiata a un olmo, produceva neri grappoli d'uva. - Perché non trovi anche tu qualcuno a cui avvinghiarti -disse la vecchia- per esempio il giovane Vertunno. Vertunno, in sembianze di vecchia, continuò ricordando a Pomona che Ifi si impiccò quando rifiutato da Anassarete, lei era stata poi trasformata i pietra dagli dei. -Metti da parte la tua superbia -continuò la vecchia - e accetta l'amore che ti viene offerto. Così non vi saranno più né gelo invernale né venti furiosi a rovinare i fiori dei tuoi frutteti in primavera. Detto questo Vertunno abbandonò le sembianze di vecchia manifestandosi per ciò che era, un magnifico uomo nel fiore della sua giovinezza . A questo Pomona non poté che cedere. Ibico e il festival di Corinto Le Erinni, che abbiamo visto nel I° capitolo, usavano scendere sulla terra per punire la disobbedienza dei figli verso i genitori, dei giovani verso i vecchi, lo spergiuro, l'assassinio, la truffa e anche la mancanza di generosità verso i mendicanti. Esse vendicavano le anime di coloro che morivano per morte violenta e non avevano parenti o amici che li

vendicassero. Vi fu un tempo in cui le Erinni perseguitarono Oreste, un matricida e gli assassini di Ibico, un cantante. Ibico il cantante di Reggio, amato da Apollo, mentre si recava a Corinto per prender parte al festival musicale della regione dell'Istmo, fu assalito da due ladri nel Bosco di Poseidone. Mentre Ibico cadeva sotto i colpi dei suoi assassini, si rivolse a uno stormo di gru che stava in quel momento volando nel cielo, gridando loro: -Vendicatemi voi! Quando il suo corpo senza vita fu ritrovato tutta la Grecia si radunò al festival chiedendo giustizia per la morte del più grande dei cantanti. Lo stesso giorno, nel teatro di Corinto si rappresentava un dramma in cui il coro rappresentava le Erinni. I coristi, vestiti di nero, portavano in mano torce di pece infuocata. Ora avanzando tutti assieme si portavano allineati sulla scena. Le facce bianche, i capelli in forma di serpenti, esse formavano poi un cerchio e cantavano al suono angoscioso dei loro strumenti. -Felice è il cuore di colui che non ha colpe criminali! Noi non lo toccheremo. Egli potrà percorrere il sentiero della vita senza mai incontrarci. Ma disgraziato sarà colui che ha ucciso impunito. Noi, le figlie della Notte, ci getteremo su di lui, anima e corpo. Non pensi egli di sfuggirci! Noi lo prenderemo, noi instancabili. La pietà non arresta il nostro dovere, noi andiamo avanti sino alla fine, senza dar pace, senza dar tregua! La platea era impietrita, ma impovvisamente uno stormo di grù volò schiamazzante nel cielo e un urlo si udì dall'alto della gradinata: -Ecco chi vendicherà Ibico! Gli assassini, presenti nel teatro, si erano traditi da soli, non potendo spiegare il loro grido se non confessando il loro delitto. Pan e la driade Siringa La storia che Ermes narrò ad Argo per addormentarlo parlava di Pan e della Driade Siringa. Nelle fredde montagne dell'Arcadia viveva la più famosa delle Driadi che le amiche chiamavano Siringa. Essa aveva eluso molte volte gli assalti dei satiri e di altri esseri che popolavano le ombrose foreste e i fertili campi della regione di Nonacri. Siringa era era una seguace di Artemide e la imitava nei suoi passatempi e nelle sue virtù. Spesso essa veniva scambiata per la dea, data la sua bellezza. Un giorno, mentre ritornava da una caccia sul monte Liceo, Pan la scorse e la inseguì. Siringa fuggì con tutte le sue forze, finché il fiume Ladone non le sbarrò la strada. Subito ella si inginocchiò pregando le Driadi e il dio del fiume di salvarla trasformandola. Ma Pan la raggiunse, Siringa si gettò fra le canne della sponda sabbiosa e mentre volava nell'aria, si dissolse fra le canne, diventando simile a queste. Così Pan, sorpreso, abbracciò soltanto un fascio di canne. La canna in greco si chiama "siringa".

Pagg. 98-103

Dalla terra all'Aldilà Il ratto di Persefone Dopo che i Titani furono confinati nel Tartaro da Zeus e dai suoi amici, Ade temeva che il grande cataclisma generatosi esponesse alla luce del sole il suo regno sotterraneo. Preoccupato, salì sulla sua quadriga d'oro trainata da quattro neri cavalli, e fece un giro di ispezione per constatare i danni causati dalla guerra dei Titani. Mentre Ade viaggiava in lungo e in largo, attorno al monte Etna, Afrodite era seduta sul monte Erice e stava giocando con Eros, quando lo vide da lontano. La maliziosa dea disse allora ad Eros: -Figlio mio, prendi queste frecce e colpisci il nero monarca del Tartaro in mezzo al cuore. Se Atena e Artemide ci sfuggono e ci deridono, non vogliamo che anche Persefone, la figlia di Demetra, prenda la loro strada, quindi colpisci anche lei. Il ragazzo scelse i due dardi più affilati e ne scagliò subito uno dritto nel cuore di Ade, quindi colpì la ragazza, che si trovava allora in una valle del monte Etna. Persefone stava raccogliendo gigli e viole sulle verdi pendici della montagna cantando assieme alle sue compagne quando Ade la scorse. Il nero sovrano discese su di le e la amò, quindi la portò via con il suo carro. Persefone gridava aiuto invocando le amiche e la madre, ma il rapitore incitava i cavalli a una frenetica corsa. Quando la nera quadriglia raggiunse le sponde del fiume Ciano, il dio del fiume bloccò il passaggio. Allora Ade colpì il suolo col suo tridente aprendovi una voragine, qui il carro si introdusse ed egli raggiuse il Tartaro con la sua prigioniera. Le peregrinazioni di Demetra Demetra cercò sua figlia vagando per tutta la terra. L'Aurora la vedeva disperata al mattino, le Esperidi la ritrovavano disperata ed errante al tramonto. Stremata dalla vana ricerca, un giorno Demetra si sedette su una pietra, in un luogo detto Eleusi, e vi rimase immobile per nove giorni e nove notti. Lì, sotto il sole, la luna, la pioggia, Demetra soffriva per la perdita dell'amata figlia. Vicino vi era la casa di un certo Celeo la cui giovane figlia si mosse a compassione vedendo la disperazione di Demetra. - Signora -le chiese- perché te ne stai seduta tutta sola su quella pietra? Mentre il vecchio Celeo la invitava ad accettare l'ospitalità del suo tetto. Ma Demetra rispose: -Vai in pace o vecchio, sii felice di avere tua figlia con té. Io ho perduto la mia. Ma gli inviti dell'uomo finalmente convinsero Demetra che si alzò. Mentre camminavano verso la casa Celeo disse che il suo unico figlio maschio giaceva ammalato di

febbre. La dea si chinò e raccolse alcuni papaveri, quindi, entrando in casa trovò le donne in lacrime. Il bimbo, che si chiamava Trittolemo, pareva ormai destinato a morire. Allora Demetra si chinò sul bellissimo bambino e lo baciò sulla fronte. Trittolemo, che pareva ormai morto, riaprì subito gli occhi. La famiglia, giubilante apparecchiò subito la tavola imbandendola con miele, yogurt, panna, mele e noci. Mentre tutti mangiavano, Demetra mischiò del latte di papavero con quello di mucca che nutriva il bambino. Durante la notte la dea prese il bambino addormentato e gli massaggiò le braccia e le gambe pronunciando una formula sacra, poi lo adagiò sulle ceneri ancora ardenti del focolare. A questo la madre di Trittolemo balzò in avanti cercando di proteggere il bimbo dai carboni. Allora Demetra si fece riconoscere e un'aureola divina la circondò subito. Fra lo stordimento generale la dea disse: - Madre, sei stata crudele nel tuo attaccamento a questo figlio. Stavo per renderlo immortale, ma tu mi hai fermato. Tuttavia, egli crescerà grande e importante. Egli mostrerà agli uomini l'uso dell'aratro e dirà loro dei benefici che derivano dalla semina e dalla coltivazione della terra. Così dicendo Demetra si chiuse in una nube bianca, salì sul suo carro turato da serpenti e se ne andò. Demetra continuò la ricerca della figlia fino a quando tornò in Sicilia, al punto di partenza. Un giorno Demetra meditava sulle sponde del fiume Ciane. La Ninfa del fiume avrebbe volentieri rivelato alla dea cosa aveva visto, ma era terrorizzata al pensiero di una possibile vendetta di Ade. La Nifa allora si limitò a lasciare andare alle acque il cinto di Persefone, perduto durante il rapimento. Demetra riconoscendolo per il cinto della figlia maledisse quella terra dve la figlia era scomparsa. Seguirono carestie e pestilenze, alluvioni e siccità, fino a quando la fonte Aretusa intercesse spiegando a Demetra che quel suolo si era aperto ad Ade senza volere. Aretusa disse anche che durante il suo viaggio sotterraneo dalla Grecia alla Sicilia aveva visto Persefone, che pareva triste, ma non più spaventata. Ma c'era di più, Persefone era adesso la regina di Ade, signora dell'Erebo, o dell'Aldilà. Udito ciò, Demetra rimase attonita e chiese a Zeus di restituirle la figlia. Zeus acconsentì, ma a condizione che Persefone non mangiasse niente mentre rimaneva con Ade, altrimenti i Destini ne avrebbero proibito il ritorno. Accompagnato da Primavera, Ermes fu inviato nell'Aldilà per chiedere al nero re la restituzione di Persefone. Il tristo monarca acconsentì, ma diede a Persefone una melagrana dei cui semi succhiò il dolce involucro. Si giunse infine a un compromesso, Persefone avrebbe trascorso metà dell'anno con Ade e metà sulla terra. Trittolemo e i "Misteri di Eleusi" Demetra, ora soddisfatta, incominciò di nuovo ad amare la terra e ricordò la promessa fatta a Celeo e a sua moglie riguardante Trittolemo.

Insegò al ragazzo l'uso dell'aratro e come seminare il grano. Poi lo prese sul suo carro tirato da due serpenti alati e lo portò a fare il giro del mondo. Sotto la guida di Demetra, Trittolemo distribuì a molti popoli del mondo i semi per l'agricoltura e le tecniche dela coltivazione. Al ritorno Trittolemo costruì un grande tempio ad Eleusi, vicino a casa sua, dedicandolo a Demetra stabilendo il culto della dea sotto il termine di "Misteri Eleusini". Questo culto, riservato esclusivamente agli iniziati, superava qualsiasi altro in complessità e splendore. Pagg.104-105

L'aldilà Il Tartaro, i Campi Elisi

e le Isole dei Beati L'Aldilà L'Aldilà, o "Ade", era la regione delle tenebre, abitata dagli spiriti dei morti sulla quale regnavano Ade, fratello di Zeus, e Persefone, figlia di Zeus e di Demetra. Secondo Omero "le Case dell'Ade e della tremenda Persefone" erano situate "nella terra profonda" o "sotto la terra". Secondo il poeta dell'Iliade e dell'Odissea, il regno dell'Ade non era situato nelle viscere della terra, bensì sotto di essa, oltre la corrente di Oceano. La regione era raggiungibile da occidente, dalla terra dei Cimmeri, un luogo dove si trovava un'ampia costa, sempre avvolta in una densa nebbia, mai illuminata dal sole. Da questa terra dei Cimmeri si raggiungeva "l'umida Casa di Ade". Ma il regno delle tenebre era circondato da fiumi paurosi: lo Stige, sacro anche agli dei come il "fiume dei giuramenti", e l'Acheronte, il "fiume dell'afflizione", coi suoi affluenti Flegetone, o "fiume del fuoco", e Cocito, o "fiume dei lamenti". Si passavano poi le Rocce Bianche, che simbolizzano i bianchi scheletri dei morti, e si passavano le porte del sole. Era Ermes che aveva il compito di condurre le anime dei morti nell'Ade. I poeti posteriori ad Omero dicono che Caronte, il traghettatore, trasportava le anime attraverso lo Stige, ma a condizione che una moneta fosse stata messa nella bocca del morto per pagare il traghetto e se la salma fosse tata sepolta come di dovere. Se queste condizioni erano state rispettate l'anima avrebbe raggiunto l'Aldilà senza problemi, se invece esse non erano state seguite l'anima avrebbe vagato eternamente lungo le sponde brumose dello Stige, senza speranza di raggiungere la sponda opposta o tornare indietro. Lungo le sponde del fiume crescevano alti pioppi e salici che sempre perdevano le foglie prematuramente. Il regno dell'Ade era concepito come vasto e affollato. Ai cancelli del regno vegliava Cerbero, il cane con tre teste,

amichevole con quelli che entravano, ma nemico di chiunque tentasse di uscire. Il palazzo reale era oscuro e lugubre, situato al centro di campi stregati, dove nella bruma perenne si manifestavano numerose apparizioni. Attorno al palazzo vi erano solenni alberi, pioppi neri e cipressi, questi delimitavano i prati degli asfodeli, con scarsi cespugli dai pallidi fiori, dove si aggiravano lentamente le ombre. Il Tartaro e i Campi Elisi Raramente i vivi potevano comunicare con le anime dell'Ade, ciò poteva soltanto accadere per tramite di alcuni oracoli situati in luoghi cavernosi e in abissi precipitosi, profondi e melanconici torrenti, paludi desolate. Da questi arcani luoghi era chiaro si potesse accedere al mondo sotterraneo, che Virgilio e i poeti romani ritenevano effettivamente trovarsi nel sottosuolo. Ad Efira, nella paludosa Tesprozia, vi era un oracolo che consentiva di comunicare coi propri morti. Un'altro degli ingressi all'Ade era situato, come vedremo nella storia di Orfeo, presso Tenaro, in Laconia. Un terzo ingresso si trovava presso Cuma, in Italia, presso il lago Averno, le cui esalazioni erano così velenose da far cadere stecchiti anche gli uccelli che lo sorvolavano. Raggiunto l'Aldilà le anime dei morti dovevano presentarsi davanti a tre giudici: Eaco, che giudicava gli europei, Radamanto, che giudicava gli asiatici e Minosse gli altri, per sottoporsi a un vero processo. I condannati venivano inviati in una regione dove erano sottoposti a ogni tipo di tormento e tortura perpetrati da orribili mostri. Vi erano l'Idra dalle 9 teste, le Erinni e i Titani condannati da Zeus. Gli assolti invece entravano nei Campi Elisi, dove scorreva placido il fiume Lete. Le anime si abbeveravano continuamente nelle acque del Lete che avevano la facoltà di far dimenticare la vita passata. Le Isole dei Beati Omero menziona un luogo, a occidente, dove esiste una terra felice:

"...nella pianura Elisia, ai confini del mondo, ti condurranno gli eterni, dov'è il biondo Radamanto,

e là bellissima è per i mortali la vita: neve non c'è, non c'è mai freddo né pioggia, ma sempre soffi di Zefiro che spira sonoro

manda l'Oceano a rinfrescare quegli uomini:" (Omero, Odissea, IV, 563-568)

Qui giungono gli eroi senza morire, per vivere nel felice regno di Radamanto Anche Esiodo e Pindaro collocano la pianura Elisia a occidente, nell'Oceano, le "Isole dei Beati", o "Isole Fortunate". I Romani ritenevano che queste isole fossero le Canarie e da questa idea nacque il mito di Atlantide.

Pagg.106-107

Orfeo ed Euridice Uno dei pochi mortali che visitarono il regno di Ade, ritornando fra i vivi, è Orfeo, figlio di Eagro e della musa Calliope. Suo padre gli regalò una cetra e Apollo gli insegno a suonarla, così Orfeo divenne il più grande musicista sulla terra. Non solo gli uomini, ma anche gli animali selvaggi, rimanevano incantati dalla musica. Persino gli alberi e le pietre non parevano del tutto insensibili alla musica del prediletto di Apollo. La driade Euridice rimase un giorno incantata sia dalla musica che dall'aspetto del musicista stesso. Non trascorse molto tempo prima che Orfeo ed Euridice si sposassero, ma il matrimonio non fu fortunato. Durante la cerimonia nunziale il fumo delle torce fece piangere la sposa, questo fu un brutto segno. Poco dopo il matrimonio, Aristeo, un pastore, vide Euridice passeggiare in un prato e rimase affascinato dalla sua bellezza. Il giovane la inseguì e lei fuggì, ma una vipera le morse un piede e la ragazza dovette morire.

Orfeo pianse la moglie morta cantando il suo lamento a ogni creatura vivente; egli cantò il suo dolore agli dei così come ai mortali. Il tempo passava, ma il pianto di Orfeo non cessava e la sua angoscia diventava sempre più profonda e insopportabile. Infine egli decise di scendere fra i morti, nel regno dell'Ade, per ritrovare la sua amata. Discese una caverna che si apriva nel promontorio di Tenaro e raggiunse la sponda del fiume Stige. Facendosi largo fra una moltitudine di anime, riuscì a entrare nella sala del trono dove sedevano Ade e Persefone. Accompagnandosi con la lira cantò la sua supplica, dicendo che non sarebbe ritornato fra i vivi senza sua moglie. Il suo canto era così commovente che tutte le anime presenti piansero. Alle liriche di Orfeo, Tantalo cessò la sua ricerca di acqua, la ruota di Issione si fermò, l'aquila cessò di mangiare il fegato di Prometeo, le figlie di Danao smisero di raccogliere acqua in un colino e Sisifo sedette su una pietra ad ascoltare. Per la prima volta le guance delle Erinni divennero rosee. Persefone non poté evitare di commuoversi e nemmeno Ade, così chiamarono Euridice. La sposa di Orfeo giunse nella sala del trono zoppicante, assieme a un gruppo di anime appena arrivate. Ade concesse a Orfeo di portarsi via la sposa, ma a condizione che durante la via del ritorno, egli non si voltasse mai a guardarla fino a quando non avessero raggiunto la luce del sole. Attenendosi a questo comando essi procedettero, Orfeo davanti ed Euridice dietro. I due traversarono tutti gli orrori del Tàrtaro, mentre le anime trattenevano il respiro. Giunti in vista dell'apertura della caverna del Tenàro, Orfeo non resistette più e si voltò a guardare la posa, quasi dubitando che lei davvero lo seguisse. Ma, improvvisamente le Erinni giunsero, presero Euridice e la trascinarono di nuovo verso il Tàrtaro fra urla e pianti. Orfeo desolato, avendo perduto la sua amata per la seconda volta, pianse per sette mesi senza interruzione, seduto su una roccia presso il fiume Strimòne in Tracia. Le giovani donne di quel selvaggio paese tentarono invano di attrarre l'attenzione del divino musicista, egli respinse inesorabilmente tutte le loro offerte. Una delle donne, offesa ed irritata, non sopportando che Orfeo la ignorasse, scagliò un giavellotto contro di lui, ma l'arma fu deviata dal suono patetico della lira. Allora le donne, furiose, incominciarono a lanciare pietre contro Orfeo sopraffacendolo. Poi si avventarono contro di lui come iene rabbiose e lo fecero a pezzi. La sua testa e la lira furono gettate nel fiume Ebro, ma mentre queste venivano trasportate dalle acque, non cessavano di suonare e cantare. Infine le Muse seppellirono i resti di Orfeo a Libétra, dove ogni notte un usignolo canta ininterrottamente appollaiato sulla la stele della tomba. Zeus pose la lira di Orfeo fra le stelle, mentre l'anima del musicista i unì a quelle dei grandi eroi sulle Isole dei Beati.

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Le divinità minori dell'aldilà

Eaco, Minosse, Radamanto Eaco, Minosse e Radamanto erano tutti figli di Zeus. Da morti essi divennero i giudici delle ombre destinate all'Ade. Come sappiamo Eaco era stato il giusto sovrano di Egina. Minosse fù il famoso legislatore e re di Creta, mentre Radamanto, fratello di Minosse, fu un grande saggio che aiutò il fratello a scrivere il codice di leggi adottato da molte città greche. Per questo anche lui fu chiamato ad essere uno dei giudici delle ombre dei morti. Le Erinni Le Erinni, dette anche Furie ed Eumenidi, nacquero, come abbiamo visto, dal sangue di Urano, assieme ad Afrodite, alle Melie e ai Giganti. Esse erano forze primigenie, che rimangono fuori dalla giurisdizione di Zeus e degli dei delle generzioni posteriori. Persino Zeus deve sottostare al loro volere. I loro nomi erano Aletto, Tisifone e Megera, esse torturano le loro vittime fino a renderle folli. Esse vendicano i crimini contro la famiglia, ma causano esse stesse le disgrazie familiari. Ecate Ecate, figlia di Asteria e Perse, era indipendente dalle divinità olimpiche. Essa prodiga la benevolenza e concede le grazie agli uomini. Come Artemide essa rappresentava il chiarore notturno della luna, ma nel suo aspetto pauroso. Ecate appariva ai viventi presso i crocevia, nei cimiteri; essa proteggeva le streghe, soltanto i cani segnalavano la sua presenza abbaiando di notte. Sonno, Sogni, Morte Il Sonno, i Sogni e la Morte, erano i figli della Notte e anche loro dimorano nelle tenebre del sottosuolo. I Sogni domoravano assieme alla Morte sulle sponde dell'Oceano a Occidente. La loro casa aveva due porte, una d'avorio, da cui emanavano visioni false e allettanti, l'alta di corno da cui uscivano visioni esaltanti e nobili. Pagg. 110-111

Divinità delle acque

Tritone, le Arpie, Proteo, Fra le creature divine del mare abbiamo visto nascere Tritone, figlio di Poseidone e di Anfitrite. Tritone era il trombettiere del mare, soffiando nella sua conchiglia egli produceva un suono così poderoso da increspare le onde. Egli era un Sileno o un Satiro acqatico, un rapitore, seduttore e uno spaventatore di donne.

Le Arpie, come sappiamo, erano creaute orribili, con la testa di donne e il corpo di ucceli rapaci, con ali e artigli. Le loro facce erano pallide dalla fame. Proteo era, secondo alcuni, un'altro figlio di Poseidone. Com Nereo, egli era un vecchio del mare che, oltre a possedere capacità profetiche, poteva mutare la propria forma a piacere. Altre mostruose creature marine le abbiamo viste fra i figli di Forci e Ceto, esse erano le Graie, le Gorgoni e Scilla. Le Sirene Ma nel mare vi erano anche le Sirene che, come le Arpie, erano demoni marini con la testa di donne e il corpo di uccelli. Alcuni le ritenevano figlie di Forci e di qualche Ninfa marina. Esse erano in principio solo due, più tardi esse diventano quattro: Telete, Redne, Molpe e Telesiope. Ma a volte gli vengono attribuiti nomi differenti. Le Sirene si trovavano in un'isola del Mediterraneo, presso la penisola sorrentina. Esse affascinavano col loro canto i marinai delle navi di passaggio, attirandoli e provocando il loro naufragio, quindi li divoravano. Atlante Anche il gigante Atlante, il figlio di Giapeto e di Climene, fratello di Menezio, Prometeo ed Epimeteo, appartiene alle divinità preolimpiche. Atlante partecipò alla guerra dei Titani ma scelse i nemici di Zeus e da lui fu condannato a reggere sulle sue spalle la bronzea volta del cielo. Egli si trova quindi nell'estremo Occidente, vicino al paese delle Ezsperidi e degli Iperborei. Perseo che, come vedremo, uccise la Gorgone Medusa, lo tramutò in roccia semplicemente mostrandogli la testa recisa del mostro. Ma prima del suo fato Atlante ebbe numerosi figli e figlie. Pagg. 112-115

Miti delle divinità delle acque

Miti di Poseidone Come accadde per gli altri figli di Rea, con l'eccezione di Zeus, anche Poseidone, alla nascita fu ingoiato dal padre Crono, ma si narra anche che Rea lo nascondesse al padre in mezzo a un gregge di pecore che pascolava presso la sorgente di Arne. A Crono, Rea diede un puledro avvolto nelle pezze del nascituro ed egli ingoiò quello. Poseidone fu poi allevato da Arne, la ninfa della sorgente delle pecore. Poseidone, Teofane e il Vello d'Oro Cresciuto, Poseidone volle trovare una sposa e la sua attenzione venne attratta da Teofane, figlia di Bisalte di Macedonia, un figlio di Elio e Gaia. Ma Teofane aveva numerosi pretendenti, Poseidone decise allora di rapirla e di portarla su un'isola lontana. Qui egli trasformò l'amata in una pecora ed egli assunse le sembianze di un ariete. I due poterono così godersi la luna

di miele indisturbati. Dalla loro unione sull'isola nacque un ariete alato dal vello d'oro. Quando Atamante si sposò in seconde nozze con Ino, egli decise di sacrificare i figli Erisso ed Elle, del primo matrimonio. Zeus, per salvare i due bambini, inviò loro l'ariete alato dal vello d'oro che li fece salire in groppa e li portò via. Erisso ed Elle volarono dalla città natale di Orcomeno verso l'Oriente. Durante il viaggio Elle cadde nel mare che da lei si chiamò "Ellesponto" e annegò, ma Frisso giuse in Colchide, una regione lontana sul Mar Nero, dove regnava Aete, figlio di Elio. Aete diede in sposa a Frisso sua figlia Calciope, questi sacrificò l'ariete in ringraziamento a Zeus e donò il vello d'oro ad Aete il quale, consacrato il trofeo ad Ares lo inchiodò alto fra i rami di un albero sacro. Poseidone, Alia e Roda Secondo un'altro racconto Rea avrebbe nascosto il neonato Poseidone sull'isola di Rodi affidandolo alla ninfa Cafira, figlia di Oceano. Gli abitanti di Rodi, i Telchini, figli di Ponto, costruirono per lui il tridente. Cresciuto, Poseidone si sarebbe innamorato di Alia, una ragazza dei Telchini. Poseidone e Alia ebbero sei figli e una figlia, questa so chiamò Roda e da lei prese il nome l'isola. A quel tempo Afrodite stava per approdare sulla costa di Cipro ed erano nati i Giganti. I sei figli di Poseidone avevano impedito uno sbarco di Afrodite sull'isola di Rodi. La dea li punì facendoli impazzire e fu per questo che violentarono la madre e tiranneggiarono gli abitanti di Rodi. Poseidone intervenne e fece sprofondare i sei figli colpevoli nelle viscere della terra. Da allora essi sono chiamati "spiriti dell'Oriente". La madre, Alia si uccise annegandosi, ma Poseidone non la fece morire, essa divenne uno spirito marino e fu chiamata, come Ino, Leucotea, ossia "dea bianca". Poseidone e Demetra Quando Demetra stava viaggiando per tutto il mondo alla ricerca di Persefone, Poseidone la perseguitò con proposte d'amore. Per sfuggire al fratello scellerato Demetra si trasformò in cavalla e si unì a un branco di cavalli di re Onchio. Poseidone, accortosi del trucco, si trasformò in uno stallone e si accoppiò con lei. Demetra, infuriata si trasformò in una Erinni, una dea dell'ira, e così rimase finché la sua ira non fu placata con un bagno nel fiume Ladone. Da quella unione nacque una figlia che Demetra non nominò mai, e nacque anche il cavallo Arione, dalla nera criniera, che fu il cavallo di Adrasto, re di Argo. Poseidone e Anfitrite Poseidone fu il creatore del cavallo, o comunque colui che lo rese noto agli uomini. I personaggi e le creature a lui collegati hanno spesso una natura equina, manifesta nel loro nome o nelle loro forme. Accompagnano Poseidone gli Ippocampi, metà cavalli e metà pesci. Molte ninfe del mare possiedono nomi che hanno a che fare con "hippos", il "cavallo" in greco. Vi

sono Ippo, Ippone, Ippotoe, Menippe, etc. forse tutte figlie di Poseidone e Anfitrite. Anfitrite era una ninfa del mare, figlia di Nereo e Doris, quindi una Nereide, ma aveva la stessa padronanza del mare che possedeva Teti, la sposa di Oceano. A loro appartenevano tutte le onde, le creature e i mostri marini. Poseidone vide Anfitrite danzare sull'isola di Nasso, assieme alle sorelle, se ne innamorò e cercò di rapirla, ma la giovane fuggì verso Occidente fino ai limiti fra il mare e l'Oceano, dove si trova il palazzo del "grande flusso". Ma un delfino di Poseidone scovò Anfitrite e la convinse a cedere, quindi la condusse dal suo sposo in una caverna del Mare Egeo. Per ricompensa il delfino che riportò Anfitrite fu messo fra le stelle. Vi fu un fastoso sposalizio, il corteo rivaleggiava quelli di Dioniso. Al seguito vi erano cavalli arieti, tori, cervi, leoni, tigri, tutti in guisa di mostri marini e con le Nereidi che li cavalcavano. Così come Zeus ed Era in cielo, Poseione e Anfitrite sedevano l'uno accanto all'altra sui troni nel mare. Poseidone, analogamente a Zeus ebbe molti figli naturali, essi furono eroi così come mostri e strane creature. Creature buone e cattive, eroi e antieroi. Da Anfitrite abbiamo visto che ebbe Tritone, ma era suo figlio anche il Ciclope Polifemo, che egli ebbe dalla ninfa Toosa, cugina di Anfitrite. Polifemo e Galatea Le divinità acquatiche abitavano sia il mare che le fonti, le sorgenti, i fiumi, i laghi e i torrenti. Fra le figlie di Nereo e Doris nessuna era più bella di Galatea, sorella di Anfitrite e Teti. Galatea amò il dio-fiume Aci, il figlio di Fauno e della ninfa Simeto, ma la sua felicità fu funestata dalle attenzioni insistenti del Ciclope Polifemo, figlio di Poseidone. Il Ciclope inamorato si adoperava invano per apparire sempre più attraente. Egli si pettinava i capelli incolti con un rastrello, si tagliava la dura barba con una falce e, specchiandosi nel mare calmo, ripeteva a se stesso: -Bella è la mia barba, bello è il mio unico occhio, i miei denti sembrano di marmo. Oh Galatea, bianca come il latte, perché rifiuti il mio amore? Perché fuggi da me come se fossi un grigio lupo? Anche se un solo occhio sta in mezzo alla mia fronte, se un solo sopracciglio la traversa da un orecchio all'altro, se il mio naso è largo e mi ricopre il labbro. Io possiedo mille vacche che mi danno il miglior latte del mondo. Il formaggio non mi manca mai; sia d'estate che d'autunno i miei cesti son sempre colmi di cibo. Suono il flauto come nessun'altro ciclope e lo suono per te fino a notte fonda. Se vieni da me nulla ti mancherà. Coglierò per te i fiori più belli, per te imparerò anche a nuotare. Vieni da me e dimentica la via del ritorno! A queste suppliche Glatea rispondeva: -Oh Ciclope, Ciclope, perché vaneggi così? Saresti più saggio se tu raccogliessi erba per i tuoi agnelli. Mungi le pecore che hai, accontentati di ciò che puoi avere, non rincorrere sogni

impossibili. Troverai un'altra Galatea, adatta a té, più bella di me! Un giorno Polifemo si aggirava per i boschi sulle pendici dell'Etna quando scorse Galatea ed Aci in una grotta. Infuriato, egli giurò che questo sarebbe stato l'ultimo dei loro incontri amorosi. Prese una grossa pietra e la scagliò contro il giovane schiacciandolo. Il sangue di Aci scorse in un rivo giù per il pendìo e schiarendosi man mano divenne il fiume che ancora oggi porta il suo nome. Galatea, sconvolta dal dolore, rimase inconsolabile. Glauco e Scilla Glauco era un'altra divinità marina, figlio di quel Sisifo confinato nell'Ade per empietà. Glauco era un bel giovane pescatore il quale, scoperta un'erba che aveva la proprietà di resuscitare i pesci morti, ne assaggiò lui stesso. Mangiata l'erba portentosa Glauco subì una strana metamorfosi e si trasformò per metà in pesce, assumendo l'aspetto di un dio marino. Fu così che egli, costretto a vivere nel mare, divenne guardiano dei pesci, dei nuotatori e dei marinai. Infatuatosi di Scilla, figlia di Forci e nipote di Ponto, la corteggiò, ma lei lo rifiutava. Disperato, Glauco si rivolse alla maga Circe per un consiglio. La maga, visto il bellissimo dio marino, se ne innamorò lei stessa e trasformò Scilla in un orribile mostro, una chimera con la parte inferiore del corpo composta di serpenti e cani latranti. In questa forma Scilla funestava le coste siciliane terrorizzando i marinai, fino a quando essa fu trasformata in una scogliera. Scilla cessò di terrorizzare i marinai, ma rimase un grave pericolo per le navi. Da allora Glauco, addolorato e senza speranza, si dedicò al recupero delle salme degli amanti che si suicidavano per annegamento. Scilla e Niso Vi fu un'altra Scilla, la figlia di re Niso di Megara. Questa tradì suo padre innamorandosi del suo acerrimo nemico, re Minosse II di Creta, mentre i due erano in guerra. Niso doveva la sua potenza e la sua invulnerabilità a un capello d'oro che gli pendeva sulla fronte. Scilla tagliò il capello al padre, mentre questi dormiva, e lo inviò a Minosse. Il re di Creta accettò il dono che gli sarebbe stato utile per vincere la guerra, ma dopo che ebbe conquistato Megara, legò la scellerata figlia di Niso alla prua della sua nave e la portò a Creta. Giunta la nave a Creta, Scilla era morta, ma gli dei benevolenti l'avevano trasformata in un airone. Anche Niso fu salvato dagli dei e trasformato in un'aquila di mare. Ma da allora la preda preferita dell'aquila di mare fu sempre l'airone. Ino e Melicerte Ino, figlia di Cadmo re di Tebe, sposò Atamante, figlio di Eolo. Atamante era già stato sposato con Nefele dalla quale aveva avuto un figlio, Frisso e una figlia Elle. Dal matrimonio con Ino nacquero due figli, Learco e Melicerte. Ino, gelosa dei figli di primo letto del marito, escogitò un crudele stratagemma per eliminarli. Ma il complotto fu rivelato ad Atamante che decise di sacrificare Io assieme al

piccolo figlio Melicerte. Ma mentre il sacrificio stava per compiersi, Dioniso intervenne e avvolse Ino e Melicerte in una nube facendoli fuggire non visti. Il dio del vino fece poi impazzire il re, ma Ino, addolorata, si suicidò gettandosi nel mare assieme al figlio. Gli dei, misericordiosi, trasformarono Ino in una dea marina dal nome di Leucotea, mentre Melicerte fu trasformato in un dio di nome Palemone. Ambedue le divinità divennero protettrici dei marinai i quali sempre le invocavano per scongiurare il naufragio. Aristeo e Proteo Quell'Aristeo, che si innamorò di Euridice, era figlio di Apollo e della Naiade Cirene. Egli era pastore e mandriano, protettore della vite e dell'olivo, e anche apicultore. Un giorno le sue api morirono ed egli si rivolse alla madre per un consiglio. Cirene che viveva nel fondo di un fiume assieme alle sue ancelle, fece aprire le acque per lasciar entrare il figlio alla sua presenza. La Naiade Cirene e le sue ancelle dissero ad Aristeo di rivolgersi a Proteo, il mandriano di Poseidone, che pascola le sue foche e i suoi delfini nel fondo del mare; egli sarebbe stato in grado di spiegare perché le api fossero morte. Tuttavia, per ottenere una risposta da Proteo sarebbe stato necessario incatenarlo e anche incatenato, Proteo avrebbe tentato di dileguarsi assumendo diverse forme. -Dovrai tenerlo saldamente incatenato- disse Cirene al figlio- e quando si accorgerà di non poterti sfuggire ti risponderà rivelandoti il segreto per allevare le api senza che esse muoiano. Cirene stessa condusse Aristeo alla caverna di Proteo nell'isola di Faro, presso il Delta del Nilo, in Egitto. Aristeo si nascose nell'antro finché a mezzogiorno giunse dalle acque Proteo con la sua mandria di foche. Mentre gli animali si distendevano sulla sponda, il mandriano, entrato nella caverna, si addormentò. Subito Aristeo lo incatenò mani, collo e piedi alla parete rocciosa, poi gridò con tutta la sua voce. Proteo, svegliatosi di soprassalto, immediatamente si ingegnò a trasformarsi prima in fuoco, poi in acqua, quindi in una terribile bestia. Ma le catene erano così ben congegnate che Proteo non riuscì a liberarsi, allora, rassegnato, riacquistò il suo normale aspetto e disse: -Tu causasti la morte di Euridice e sei stato punito a dovere. Per vendicare la sposa di Orfeo, le Driadi hanno distrutto le tue api. Ora tu devi placare la loro ira. Sceglierai quattro tori e quattro vacche di forme e peso perfetti, poi costruirai quattro altari alle ninfe Driadi, vi sacrificherai gli animali e lascerai lì le loro carcasse. Fatto questo tu dovrai pagare gli onori funebri a Orfeo ed Euridice per placare le loro ombre. Tornerai presso gli altari ed esaminerai le carcasse degli animali attentamente. Aristeo liberò Proteo ed eseguì le sue istruzioni. Quando egli tornò presso i quattro altari per esaminare le carcasse, trovò che in una di esse vi era un bellissimo sciame di api. Aristeo pose lo sciame nella sua arnia e le api si moltiplicarono negli anni, in buona salute.

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CAPITOLO 4 MITI DEGLI EROI ANTICHI

LA CASA DI DANAO, PERSEO, ERACLE - LA FAMIGLIA DI EOLO E GLI ARGONAUTI

LA FAMIGLIA DI ETOLO - LA CASA DI MINOSSE - CERCOPE ED ERICTONIO

TESEO, LA CASA DI LABACO - EDIPO RE, I SETTE CONTRO TEBE

Le origini dell'uomo e della donna Fin'ora abbiamo incontrato dei semidei ed eroi, ma come comparve l'uomo comune sulla terra secondo i Greci? A differenza degli Ebrei, i Greci non sembravano porsi la domanda o dare spiegazioni dogmatiche in proposito. Le spiegazioni mitologiche che essi davano erano poco più che favole e certamente non venivano prese sul serio dalle persone educate. Alcune idee e miti concernenti l'origine dell'uomo e le condizioni della vita sulla terra "primitiva" sono questi che seguono. Nella tradizione Greca l'umanità non iniziava con una coppia originaria del tipo di Adamo ed Eva. Generalmente si riteneva che gli uomini fossero cresciuti da alberi o da pietre, dai fiumi o dal mare. Alcuni sostenevano che gli uomini, come gli dei, erano venuti dalla Madre Terra. Si riteneva spesso che gli uomini fossero altrettanto antichi quanto gli dei. Infatti si riteneva che dei e uomini vivessero assieme in armonia fino a un tempo in cui gli dei si indignarono con loro a causa della loro arroganza e superbia, da quel tempo il rapporto fra dei e uomini venne regolato dai rituali. Prometeo creatore Un mito attribuisce la creazione dell'uomo a Prometeo che, come abbiamo visto, era figlio di Giapeto, un oppositore dell'ascesa di Zeus al trono olimpico. Prometeo, dotato di saggezza profetica aveva parteggiato per gli dei olimpici, figli di Crono, suoi cugini. A lui e a suo fratello Epimeteo fu affidato il compito di creare l'uomo e gli animali della terra, dotando l'uno e gli altri, dei mezzi necessari alla loro sopravvivenza. Epimeteo creò gli animali dando a ogni specie diversi doni come coraggio, forza, velocità, sagacia. Egli diede ali all'uno, artigli all'altro, un guscio al terzo. Prometeo invece creò l'animale più nobile di tutti: prendendo della terra la bagnò con l'acqua ottenendo dell'argilla con la quale creò una figura della stesso aspetto degli dei. Diede alla sua creatura una postazione eretta in modo che egli potesse guardare le stelle invece che la terra, come fanno gli altri animali. Della donna ancora non si parlava. Poiché Epimeteo aveva, troppo generosamente, dato tutti i doni disponibili agli animali, niente restava che Prometeo

potesse dare all'uomo. Allora egli salì nel cielo, accese una torcia al carro del sole e donò il fuoco agli uomini. Col fuoco a sua disposizione l'uomo poteva ora conquistare la terra e impadronirsi di tutti i suoi tesori, sviluppando la scienza, le arti e il commercio.

Prometeo, il primo eroe L'Età dell'Oro Quando gli uomini, tutti maschi, incominciarono a popolare la terra, durante il regno di Crono, vi fù un'era di innocenza e felicità. La verità e la giustizia regnavano e non vi era alcun bisogno di leggi né di autorità che le facessero rispettare. Le foreste non erano ancora state derubate dei loro alberi per costruire navi o fortificazioni per difendersi. Non vi erano spade, lance, elmi o scudi. La terra produceva tutto il necessario senza bisogno di arature o semine. Regnava una eterna primavera, i fiori crescevano senza bisogno di semi, scorrevano fiumi di latte e vino, dai tronchi degli alberi gemeva il miele. Quando gli uomini dovevano morire, si addormentavano fra sogni piacevoli per svegliarsi in una esistenza spirituale in cui, non visti dai vivi, li assistevano come angeli custodi. L'Età dell'Argento Zeus, giunto al potere, accorciò subito la primavera, dividendo l'anno in stagioni. Soffrendo il freddo e il caldo, l'uomo ebbe bisogno di ripari e si resero necessarie le prime case. Si abitarono le caverne, oppure capanne di rami e foglie. Divenne necessario seminare e piantare, il bue fu costretto a trainare l'aratro, la pecora a dare il latte e la lana. Fu questa un'epoca di uomini duri, ma anche insolenti ed empi. Quando un uomo moriva Zeus lo tramutava in uno spirito dell'Aldilà che però possedeva il dono dell'immortalità. Fu durante questa età, quando gli altari degli dei erano trascurati e i loro riti ignorati, che Prometeo si fece avanti e diede il fuoco all'uomo. Zeus, irato, voleva distruggere la specie umana e intendeva crearne lui un'altra migliore. Un giorno, mentre dei e uomini stavano litigando presso Sicione, sul Golfo di Corinto, Prometeo intervenne e cercò di favorire gli uomini. Prometeo squartò un toro sacrificale, ne avvolse le parti commestibili nella pelle, pose sopra il fardello le interiora bellamente disposte, attorno dspose le ossa e il grasso, quindi offrì a Zeus una scelta. Il re del Cielo, pur accorgendosi dell'inganno, scelse di proposito le ossa e il grasso, quindi, fingendosi insultato, usò tale pretesto per privare l'uomo del fuoco. Prometeo decise allora di riportare il fuoco sulla terra, nascose un piccolo carbone acceso un uno stelo di finocchio secco e lo riconsegnò all'uomo. Da allora i pastori della Grecia conservano il fuoco in questo modo, durante i loro spostamenti.

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La chiamarono "Pandora"

La prima donna A questo ulteriore affronto di Prometeo, Zeus divenne furioso ed escogitò un perfido stratagemma per punire più severamente l'uomo. Non si sa come gli uomini avessero fin'ora vissuto e avessero procreato senza donne. Questo gli antichi Greci non lo hanno spiegato, probabilmente per dimenticanza. Tuttavia, fu in questa età che gli dei, istigati da Zeus, crearono la donna. La costruirono Efesto ed Atena, ma ogni divinità diede il proprio contributo affinché la donna fosse un essere perfetto. Vi fù chi gli diede la bellezza, chi la grazia e la persuasione, chi il talento e la sensibilità per le belle arti, ma Ermes le diede la furbizia e il talento della menzogna. La chiamarono "Pandora", che in greco significa "dono di tutti gli dei". Così fornita, la prima donna fu spedita da Zeus sulla terra accompagnata da Ermes che la consegnò a Epimeteo. Epimeteo aveva promesso a Zeus di non accettare mai alcun dono, ma affascinato dalla bellezza di Pandora, si dimenticò il solenne voto e prese Pandora in sposa. Prometeo lo ammonì ricordadogli la furbizia d Zeus, ma egli non lo ascoltò. Gli dei avevano consegnato a Pandora un vaso con il coperchio sigillato, con raccomandazione di non aprirlo mai. Pandora, curiosa come lo sono in genere le donne, volle aprire il vaso e guardare cosa contenesse. Subito ne uscirono innumerevoli epidemie che colpirono gli uomini: gotta, reumatismi, coliche, colpirono il corpo, mentre l'invidia, la gelosia, il disprezzo, lo spirito di vendetta, colpirono la sua mente. Tutti questi malanni subito si diffusero su tutta la terra. Pandora cercò di richiudere il vaso e di salvare almeno qualcosa, ma soltanto un elemento rimase chiuso nel vaso: la speranza. Prometeo incatenato A causa della sua irriducibile devozione per l'uomo, Prometeo attirò su di sé l'ira tremenda di Zeus Olimpico. Per suo ordine egli venne incatenato con catene d'acciaio a una roccia in vetta a una montagna del Caucaso, lassù fu soggetto agli attacchi di una terribile aquila. L'aquila, figlia di Echidna e Tifone, giungeva ogni giorno e si accaniva contro il fegato di Prometeo, che essa consumava, ma che ricresceva ogni notte. Forse Prometeo avrebbe potuto porre termine a questo orribile tormento, ma egli volle sottomettersi, per sua stessa volontà, a Zeus, suo oppressore. Prometeo conosceva una profezia che riguardava la stabilità del trono di Zeus stesso. Egi sapeva che Zeus avrebbe avuto un figlio che lo avrebbe un giorno detronizzato. Zeus moriva dalla voglia di saperne di più,

ma Prometeo non gli rivelava nulla. Egli sapeva che un giorno, fra tredici generazioni, un grande eroe, figlio di Zeus stesso, sarebbe venuto a liberarlo. Infatti, trascorso questo tempo, l'eroe giunse, si trattava di Eracle, ma vedremo più avanti questa storia.

L'Età del Bronzo, l'Età del Ferro e il Diluvio

Dopo l'età dell'Argento fù l'Età del Bronzo, un'epoca più selvaggia, insanguinata dai conflitti armati, ma non del tutto negativa. Poi venne l'Età del Ferro, l'epoca più dura per l'umanità. Il crimine dilagava ovunque, onore, pudore, verità abbandonarono l'uomo, i doni della terra vennero impiegati male. Le guerre divampavano in patria e all'estero, il mondo era devastato dalle stragi. Gli dei, uno alla volta, abbandonarolo gli uomini e le donne. Astrea, la dea dell'innocenza e della purezza fu l'ultima ad andarsene. Zeus, osservando quanto accadeva, ardeva dall'ira e chiamò tutti gli dei a consiglio. Egli mostrò agli dei il suo piano per un mondo migliore e rivelò loro la sua volontà di distruggere questa umanità per crearne un'altra, diversa, meritevole del dono della vita e più riverente verso gli dei. Invece di usare il fuoco, che avrebbe potuto incendiare anche l'Olimpo, Zeus decise di usare l'acqua per distruggere l'umanità e chiamò Poseidone in suo aiuto. Venne il Diluvio Universale e le acque spazzarono via uomini e cose. Soltanto il monte Parnasso rimase all'asciutto. Lassù, sulla sommità della montagna di Delfi, Deucalione, figlio di Prometeo, e Pirra, figlia di Epimeteo, osservavano il cataclisma. Deucalione era un uomo giusto e Pirra una fedele devota degli dei. Zeus volle salvarli e quando le acque si ritirarono, i due cugini entrarono in un tempio. Nel tempio invaso dal fango, dove l'incenso più non bruciava, Deucalione e Pirra si prostrarono davanti alla statua del dio e pregarono chiedendo consiglio. La voce del dio non tardò a farsi sentire e disse loro: -Partite da questo tempio con le teste velate e le vesti sciolte, camminate e gettate dietro le spalle le ossa di vostra madre. I due ascoltarono attoniti e Pirra disse: -Non possiamo far questo, non possiamo profanare i resti dei nostri genitori. Allora si nascosero nei boschi e pensarono alle parole del dio, rimuginando sul vero significato. Alla fine Deucalione disse: -Se non sbaglio potremmo obbedire il comandamento senza offendere i nostri cari. La terra è la Grande Madre di tutti, le pietre sono le sue ossa. Andiamo e gettiamo pietre dietro di noi mentre camminiamo! Almeno proviamo, nessuno si offederà. Deucalione e Pirra seguirono il comando gettando pietre dietro le loro spalle e, voltandosi, vedevano che le pietre gettate dall'uno diventavano uomini, mentre quelle gettate da lei diventavano donne. Quella che si formò fu una

razza assai forte, adatta al duro lavoro e alle sofferenze di questo mondo. Pagg. 120-121

Gli Eroi Antichi

L'età che seguì fu chiamata l'Età dei semidei e degli Eroi. E' l'epoca dei cosiddetti "eroi eponimi', coloro che diedero il nome a popoli e nazioni. L'eroe Elleno, figlio di Deucalione e Pirra, divenne l'antenato degli Elleni, ossia i Greci. Eolo e Doro furono gli antenati degli Eoli e dei Dori. Pelasgo, figlio di Foroneo di Argo, nipote del dio-fiume Inaco, diede origine ai Pelasgi che abitarono l'Arcadia. Questi eroi, alcuni dei quali sono certamente esistiti, anche se i loro padri e le loro madri saranno stati comuni mortali, erano eccezionalmente coraggiosi e valorosi, sempre posseduti da qualità divine. Essi si mettevano a disposizione dell'umanità per distruggere i suoi nemici o i nemici del bene e della giustizia. Essi distrussero mostri, fondarono città, crearono civiltà. Sono questi gli "Eroi Antichi", essi sono noti per le loro prodezze personali o perché fecero parte nelle grandi avventure collettive quali furono la guerra di Troia, il viaggio degli Argonauti, la caccia al cinghiale di Caledone. Le avventure degl Eroi Antichi sono disposte in ordine cronologico, o a seconda delle dinastie reali .

La dinastia di Danao

Le dinastie reali del sud della Grecia, il Peloponneso, facevano risalire la loro origine al dio-fiume Inaco, figlio di Oceano. Foroneo, figlio di Inaco, è ritenuto il fondatore della gloriosa città di Argo che da il nome alla regione dell'Argolide. Egli conferì ai suoi sudditi, gli Argivi, i doni di Prometeo. A lui succedette il figlio Pelasgio, dal quale presero il nome i Pelasgi, uno dei popoli del Peloponneso. L'amore di Zeus per Io, sorella di Foroneo ci é già noto. Io ebbe un figlio, Epafo, che divenne re nel paese che doveva diventare l'Egitto. Da Epafo discesero Agenore, re di Fenicia, padre di Europa e di Cadmo, e Belo, suo successore al trono d'Egitto il quale ebbe due figli, uno si chiamò Egitto e fu fondatore di quella nazione, l'altro si chiamò Danao. Le Danaidi Egitto ebbe cinquanta figli e con questi cacciò Danao dal paese africano. Danao tornò ad Argo con le sue cinquanta figlie. Ma i figli di Egitto, giunti ad Argo chiesero a Danao di sposare le sue figlie. Danao acconsentì a malinquore e organizzò una grandiosa cerimonia nunziale. Prima del banchetto egli diede a ognuna delle figlie un pugnale ordinando loro di uccidere i rispettivi mariti. Il comando

fu eseguito da tutte con l'eccezione di Ipermestra che rifiutò di obbedire poiché il marito, Linceo, l'aveva rispettata. Più tardi Linceo fece uccidere tutte le sorelle della moglie assieme a re Danao, loro padre. Le figlie di Danao, dette "Danaidi" vennero confinate nel Tartaro e condannate in eterno a raccogliere l'acqua con dei colini. Fu così che Ipermestra e Linceo regnarono felicemente sulla città di Argo. Essi ebbero un figlio di nome Abas il quale a sua volta ebbe due figli gemelli, Acrisio e Preto. I due bambini che avevano ereditato l'odio per i loro antenati Egitto e Danao già si battevano nel ventre della madre. Cresciuti si diedero guerra e Acrisio fu il vincitore. Re Acrisio Quando Acrisio fu re di Argo ebbe una bellissima figlia di nome Danae Quando un oracolo rivelò al re e alla regina che i figli di Danae sarebbero stati i vendicatori della morte di Danao e delle sue figlie, essi rinchiusero la figlia in una prigione sotterranea affinché nessun uomo le si accostasse. Ma Zeus, che desiderava Danae, volle possederla e per entrare nella sua prigione si trasformò in una pioggia d'oro. La pioggia entrò nella stanza di Danae da una fessura del soffitto e cadde su di lei. Danae ebbe da Zeus un figlio che chiamò Persèo. Acrisio, preoccupato per il proprio destino, rinchiuse madre e neonato in una cassa e li gettò in mare. La corrente del mare trasportò la cassa presso l'isola di Serifo, nelle Cicladi, dove un pescatore la raccolse e la consegnò a re Polidette il quale offrì ospitalità a madre e figli Pagg. 122-123

Le avventure di Perseo La Gorgone Medusa Quando Perseo fu adulto, re Polidette, che si era innamorato di Danae, lo inviò in Occidente a uccidere la Gorgone Medusa, una impresa ritenuta impossibile, per liberarsi di lui. Chiesti e ottenuti i favori di Atena e di Ermes, Perseo fu costretto a partire. Dopo lunghe ricerche Perseo giunse nel paese delle Gorgoni. Lì uincontrò prima le Graie, le vecchie che possedevano un solo occhio in tre. Perseo rubò loro l'occhio e disse di non restituirlo se non gli rivelassero come egli potesse impadronirsi dell'elmo di Ade, per divenire invisibile. Ottenuto ciò che voleva, Perseo chiese loro di procurargli anche una borsa per mettervi la testa della Medusa. Ermes prestò all'eroe i suoi sandali alati e una micidiale scimitarra, Atena gli diede il suo scudo. Giunto presso il covo delle tre mostruose sorelle, Perseo vide gli eroi che lo avevano preceduto, tramutati in statue dallo sguardo terrificante di Medusa. Udì poi le urla bestiali delle tre Gorgoni, risuonare in quella terra desolata di ghiacci e brume.

Non potendo guardare direttamente negli occhi Medusa, Perseo usò il lucido scudo di Atena come specchio e guardò la sua immagine riflessa per potersi avvicinare a lei. Il mostro giaceva addormentato sul terreno ghiacciato, con le zanne bianche che gli spuntavano dalle labbra e i capelli serpentini sparpagliati al suolo. Con un colpo deciso e fulmineo Perseo decapitò la Medusa e, presa la testa per i capelli, la pose entro la borsa di cuoio. Dal sangue che uscì dal collo di Medusa si generarono due esseri: uno era Pegaso, il cavallo alato, che incontreremo più avanti, l'altro fu Crisaore, che abbiamo già conosciuto. Perseo e Atlante Dopo aver ucciso Medusa, Perseo prese il volo e grazie ai sandali di Ermes, traversò terre e mari portandosi sempre verso occidente, finché giunse ai limiti della terra, nella regione dove risiedeva il gigante Atlante. Atlante possedeva greggi e madrie, ma era soprattutto fiero di possedere il Giardino delle Esperidi, dove cresceva l'albero dai frutti d'oro. Perseo incontrò Atlante e disse: -Vengo a te come ospite, se dai importanza alle mie origini, ti dirò che sono figlio di Zeus, se dai valore alle mie gesta, ti dirò che ho ucciso la Gorgone Medusa. Ora cerco riposo e cibo, prima di tornare a casa. Atlante, ricordandosi di una profezia che diceva che un figlio di Zeus sarebbe venuto a rubare i suoi pomi d'oro, cercò di respingere Perseo. L'eroe, trovando che Atlante fosse troppo grande per sfidarlo in duello, estrasse la testa della Medusa dalla sua borsa e, voltando il proprio sguardo altrove, la mostrò al gigante. Il gigantesco Atlante guardò la testa mostruosa e subito si tramutò in pietra. La sua barba e i suoi capelli divennero foreste, le sue braccia e le sue spalle, montagne, la sua testa una vetta altissima, le sue ossa rocce. Poi egli crebbe a dismisura, finché divenne una grande catena montuosa sulla quale poggia la bronzea cupola del cielo, con tutte le sue stelle. Perseo e Andromeda Perseo si accinse ora a tornare a Serifo, ma lungo la via del ritorno si fermò nel paese degli Etiopi, dove erano sovrani re Cefeo e la moglie, la nereide Cassiopea. Cassiopea sosteneva di essere la più bella fra tutte le figlie di Nereo. Le sorelle, gelose e indignate da questo affronto, chiesero a Poseidone di inviare un mostro marino a funestare le coste dell'Etiopia. Cefeo e Cassiopea ebbero una bellissima figlia, Andromeda, promessa in sposa a Fineo, fratello del padre, ma il mostro che distruggeva il loro paese li rendeva infelici. Il re decise di consultare l'oracolo di Zeus Ammone, in Libia, il quale disse che per placare il mostro occorreva offrirgli Andromeda in sacrificio. Il popolo etiope costrinse Cefeo a sacrificare la figlia e la giovane fu incatenata a una roccia sul mare. Fu a questo punto che Perseo giunse in Etiopia e, vista dall'alto la bellissima ragazza incatenata e piangente, subito la raggiunse e se ne innamorò.

Si recò allora da Cefeo e gli chiese di sposare sua figlia qualora egli l'avesse liberata e ucciso il mostro. Il re acconsentì e Perseo volò verso il mostro marino. Una furiosa lotta iniziò nel mare, l'eroe, eludendo i denti del mostro, gli infilò la spada fra le scaglie del fianco, quindi gli inflisse il colpo mortale nel collo. Andromeda fu subito liberata da Perseo che in volo la trasportò al palazzo reale. Mentre si celebrava il banchetto di nozze, sopraggiunse Fineo, promesso sposo e zio di Andromeda, chiedendo che Andromeda fosse sua. Cefeo spiegò al fratello che il volere degli dei era compiuto e che se Fineo avesse davvero amato Andromeda sarebbe stato lui stesso a salvarla. Fineo, offeso, ordinò ai suoi soldati di uccidere Perseo, ma l'eroe estrasse la testa della Medusa dalla sua borsa e pietrificò all'istante Fineo e i suoi uomini. Terminata la festa, Perseo condusse Andromeda a Serifo. Giunto nell'isola natale, Perseo mostrò la testa della Medusa a re Polidette e alla sua corte. Morto il perfido re, Perseo, Andromeda e Danae vissero felici e contenti. Perseo restituì l'elmo di Ade, i sandali di Ermes e lo scudo di Atena ai rispettivi proprietari e regalò la testa della Gorgone ad Atena che da quel momento se la pose sul petto, come arma invincibile contro ogni nemico. In seguito Perseo e Danae tornarono, assieme ad Andromeda, nelle patria di origine, Argo. Prseo e Andromeda ebbero qui tre figli, uno di essi fu Elettrione, padre di Alcmena e nonno di Eracle. Pagg. 124-125

Bellerofonte e la Chimera

Pegaso, il cavallo alato che si levò in volo dal sangue della Gorgone Medusa, trovò un padrone in Bellerofonte di Corinto. Questo giovane apparteneva alla diastia di Elleno, attraverso suo padre Glauco, suo nonno Sisifo e il suo bisnonno Eolo, quindi dovremmo parlarne altrove, ma l'avventura di cui egli è protagonista segue da vicino quella di Perseo. Il padre di Bellerofonte era Glauco, ma il giovane aveva Poseidone come padre spirituale. Glauco era un grande appassionato di cavalli ed era famoso per i suoi cavalli da corsa e per le sue cavalle che alimentava con carne umana. Ma l'amante dei cavalli morì di una morte atroce quando la sua biga si ribaltò ed egli fu divorato dalle cavalle. Si sparse la voce che il Licia un mostro che sputava fuoco, stava seminando il pànico fra le popolazioni. Si trattava della Chimera, il mostro generato da Tifone e da Echidna. Il re di Licia, Iobate, cercava ora un eroe disposto ad uccidere la Chimera.

Proprio in quei giorni Bellerofonte giungeva alla corte di Iobate per consegnargli una lettera di Preto, suo genero. Bellerofonte non sapeva che nella lettera vi era la sua sentenza di morte. Preto chiedeva al suocero di uccidere questo Bellerofonte, un coraggioso eroe, ma un pericolo per il suo matrimonio. La moglie di Preto e figlia di Iobate, Antea, si stava innamorando di lui. Iobate colse la palla al balzo e decise di inviare Bellerofonte a distruggere la Chimera. Bellerofonte accettò, ma prima di partire per la pericolosa avventura, decise di consultare il sapiente Poliido. Il saggio lo invitò ad affrontare il mostro a cavallo di Pegaso. Pegaso era stato catturato e domato da Atena stessa, la quale lo aveva consegnato alle Muse. Bellerofonte trascorse una notte nel tempio di Atena e mentre egli dormiva, la dea gli pose vicino delle briglie d'oro e gli suggerì di recarsi con queste presso il pozzo di Pirene a Corinto. Bellerofonte si recò a Corinto e vide il bellissimo cavallo bianco alato presso la fonte. Alla vista delle briglie Pegaso corse verso Bellerofonte porgendogli il collo per essere imbrigliato. Bellerofonte salì sul meraviglioso cavallo che subito lo portò in volo sulle montagne della Licia dove si aggirava il mostro col corpo di leone, la coda di serpente e due teste, una di leone e una di capra. Dall'alto, Bellerofonte piombò sulla Chimera, con la sua lunga lancia e la trafisse al primo colpo. Dopo la vittoria sulla Chimera Bellerofonte affrontò numerosi altri nemici di Iobate, sconfiggendo prima le Amazzoni, poi i Lidi. Guadagnatasi la stima e la riconoscenza del re, Bellerofonte ebbe sua figlia Filonoe in sposa e il diritto di successione al trono. A seguito di questo trionfo Bellerofonte si fece superbo e volle un giorno, col suo cavallo, volare fino nell'Olimpo. Zeus, per punire la superbia dell'eroe, punse il cavallo che scagliò via dalla sella il suo cavaliere. Bellerofonte cadde e rimase storpio fino a quando morì miseramente. Tuttavia egli fu venerato come eroe sia a Corinto che il Licia. Pagg. 126-127

Eracle, il più grande degli eroi Nascita e giovinezza di Eracle Alcmena, figlia di Elettrione, nipote di Pegaso e Andromeda, fu, come abbiamo visto, amata da Zeus. Il figlio che nacque da questa unione fu Eracle, nato a Tebe, eroe nazionale di tutti i Greci. Col nome di Ercole, questo eroe fu venerato da tutti i popoli italici. Le storie che lo riguardano sono numerosissime poiché alle più antiche se ne aggiusero continuamente delle nuove e a queste si aggiusero le varie versioni, fino alla fine dell'antichità. Alcmena di Tebe era la sposa di re Anfitrione, Zeus aveva messo gli occhi su di lei e profittando di una assenza del

re, la ingannò e assumendo le sembianze del marito e la rese incinta. Alcmena mise alla luce due gemelli, uno si chiamò Ificle ed era figlio di re Anfitrione, l'altro si chiamò Alcide, "il forte", ed era il figlio di Zeus. Più tardi egli assunse il nome di "Eracle" o "Gloria di Era". Era, offesa dall'ennesimo tradimento di Zeus, inviò due grossi serpenti presso la culla dei neonati, per disfarsi del piccolo, Ificle strillò, ma Eracle strangolò i due rettili con le proprie mani. Anfitrione che era accorso al grido del piccolo, vedendo la prodezza di Eracle capì che si trattava del figlio di un dio. Zeus volendo dare l'immortalità al figlio, un giorno ordinò ad Ermes di far allattare il piccolo ad Era, cosa che gli avrebbe garantito tale privilegio. Ermes portò il bimbo presso il seno di Era quando la dea stava dormendo, ma il bambino succhiò con tanta forza che Era si svegliò. La dea, sdegnata, spinse via da sè il piccolo che odiava e il latte spruzzò dalla sua mammella formando una grande scia nel cielo da allora quella scia si chiamò "Via Lattea". Eracle ricevette la migliore educazione possibile all'epoca. Il suo tutore fu Lino che gli insegnò lettere e musica, tuttavia Lino rimase vittima della collera di Eracle quando l'allievo, offeso dalle critiche del tutore, lo colpì troppo duramente col liuto sulla testa. Dopo aver imparato la saggezza e le virtù da Radamanto, Eracle ricevette l'educazione della campagna e fu inviato sulle motagne fra i pastori, dove egli crebbe forte raggiungendo la statura di quattro cubiti e un piede, compiendo, nel frattempo diverse imprese. Fra le prime imprese di Eracle vi è l'uccisione del leone del monte Citerone che molestava le greggi di Tebe. Presto Ercole prese parte ai giochi di Delfi, dove vinse contro ogni opponente, fino a quando si trovò a rivaleggiare con Apollo stesso per la conquista del tripode di Delfi. Ma Apollo ed Eracle furono sempre ottimi amici, ognuno rispettoso dei poteri dell'altro. Tornato a Tebe, Eracle aiutò Ificle e Anfitrione a liberare la città dal dominio della vicina potente città di Orcomeno, in premio egli ottenne la mano della principessa Megara, figlia di Creonte allora re di Tebe. Eracle e Megara ebbero numerosi figli, ma l'implacabile Era, che non si arrendeva, rese Eracle pazzo. Nella sua follia l'eroe uccise i propri figli, ma quando stava per uccidere anche il vecchio Anfitrione, Era lo colpì con una pietra ed egli sprofondò nel sonno. Quando Eracle si risvegliò la sua follia era cessata. Ma come espiazione dei suoi crimini, Era impose ad Eracle la soggezione ad Euristeo re di Tirinto, Micene e Midea, suo cugino. Era aveva ritardato la nascita di Ercole in modo che il cugino Euristeo nascesse prima di lui e a lui spettasse il trono di Micene.

Pagg. 128-131

Le 12 fatiche di Eracle Nessuno sa spiegare con motivi plausibili le ragioni per cui Eracle accettasse di sottomettersi a Euristeo e si sottoponesse a quelle che sono note come le "12 fatiche di Eracle", delle dure prove impostegli dal cugino, per volere di Era. Eracle era munito di una spada dono di Ermes, da arco e frecce dono di Apollo e di una corazza d'oro fabbricata da Efesto. Atena gli aveva dato il peplo, mentre i suoi cavalli erano dono di Poseidone. 1° Fatica: Il Leone di Nemea La prima delle fatiche di Eracle fu quella che gli imponeva di uccidere il Leone di Nemea. Un mostro, figlio di Ortro che terrorizzava le campagne di quella città dell'Argolide, per volere di Era. Il leone viveva in una caverna con due uscite ed era invulnerabile. Giunto nella campagna di Nemea, Eracle taglò un olivo selvatico e si costruì una pesante clava nodosa. Dopo avere invano usato la clava e le frecce contro il poderoso leone, Eracle strangolò la belva con le proprie mani e tornò a Micene indossandone la pelle. Spaventato dalla vista della pelle della belva morta e di tanta potenza, Euristeo impose ad Eracle di lasciare, d'ora in poi, i suoi trofei fuori città. 2° Fatica: L'Idra di Lerna Euristeo ordinò ora ad Eracle di distruggere la terribile Idra di Lerna, il famoso serpente a nove teste, figlia di Echidna, anch'essa posta da Era in quel luogo. Il mostro invincibile abitava presso Lerna, sul Golfo di Argo, in una palude presso la fonte di Amimone, emettendo strazianti e ininterrotti lamenti. Delle nove teste dell'Idra, quella centrale era immortale e tutte le sue bocche emanavano gas letali. Eracle, usando una corta scimitarra, tagliava una testa e al suo posto ne spuntavano due. Con l'aiuto di suo nipote Iolao, Eracle decise di cauterizzare col fuoco le ferite per impedire la ricrescita delle teste. Tagliata la nona, quella immortale, la pose sotto un grosso masso. Così la lamentosa Idra era spacciata e l'Argolide fu libera da un incubo. 3° Fatica: Il Cinghiale di Erimanto La terza fatica fu quella di catturare il cinghiale che infestava il monte Erimanto in Arcadia e di portarlo ad Euristeo vivo. Eracle stanò con le sue grida la bestia dal nascondiglio, poi lo spinse nella neve profonda che allora copriva la campagna, l'animale che non poteva più correre, fu immobilizzato. Eracle tornò a Micene col cinghiale sulle spalle ed Euristeo, a quella vista, si impaurì e si nascose in un'orcio che aveva appositamente preparato. 4° Fatica: La Cerva di Cerinea Euristeo ora volle che Eracle catturasse la Cerva di Cerinea. L'animale devastava i raccolti agricoli della regione di Enoe.

Era questa una di cinque eccezionali cerve appartenenti ad Artemide. Le sue corna erano dorate e l'animale era più grosso di un toro. Artemide usava quattro di queste cerve per trainare il suo carro, mentre la quinta pascolava sui monti a Cerinea in attesa di Eracle, per volere degli dei. La cerva era velocisima ed era peccato mortale ucciderla. Eracle la inseguì per un intero anno senza mai raggiugerla, infine la ferì con una freccia e la caricò sulle spalle. Sulla via del ritorno, traversando l'Arcadia, egli si imbatté in Apollo e Artemide che lo rimproverarono per aver commesso un gesto sacrilego. Eracle disse che era tutta colpa di Euristeo e le due divinità lo lasciarono proseguire. 5° Fatica: Gli Uccelli del Lago Stinfalo Dopo un'invasione di lupi, uno stormo di uccelli si era rifugiato in una foresta sulle sponde del lago Stinfalo in Arcadia e si erano moltiplicati a dismisura costituendo una piaga per le sementi della regione. Gli uccelli assalivano anche le persone, le loro penne erano d'acciaio ed essi le lanciavano spesso dal cielo sui malcapitati. Fu di Eracle il compito di eliminarli, ma era impossibile farli uscire dalla foresta. Allora Eracle li spaventò con il rombo di poderose nacchere di bronzo, fabbricate per lui da Efesto. Usciti dal folto del bosco gli uccelli si misero a volare ed Eracle li abbatté con le frecce e l'arco di Apollo. 6° Fatica: Le Stalle di Re Augias Augias, re dell'Elide era un figlio di Elio, il sole, e dal padre aveva ereditato numerose mendrie di vacche. Ma Augias non si curava molto del suo bestiame e le stalle si riempivano di letame. In tal modo, non solo gli animali si ammalavano, ma anche i raccolti della regione, privati del concime, stentavano. Euristeo, volendo umiliare l'eroe, impose lui di ripulire le stalle. Eracle allora, per non sporcarsi le mani e fare il disgustoso lavoro con rapidità, deviò due fiumi, l'Alfeo e il Peneo, convogliandone le acque attraverso le stalle che in un baleno furono ripulite. 7° Fatica: Il Toro di Creta A Creta, nelle mandrie di re Minosse, viveva un toro eccezionale che era uscito miracolosamente dal mare in un giorno in cui il re aveva promesso di sacrificare a Poseidone qualsiasi cosa uscisse dal Mare. Ma il toro era così maestoso che Minosse volle tenerselo, decidendo di sacrificarne un'altro al suo posto. Poseidone offeso da questo affronto rese furioso l'animale. Euristeo chiese a Eracle di portargli vivo proprio questo toro. Eracle chiese aiuto a Minosse, ma questi disse che gli avrebbe permesso di catturare l'animale soltanto se l'eroe lo avesse preso da solo, senza alcun aiuto. Eracle catturò il toro, se lo pose sulle spalle, traversò il mare a nuoto e portò la bestia a Micene. Euristeo decise di sacrificare il toro a Era, ma la dea rifiutò il dono proveniente da Eracle. I toro fu liberato e fuggì andando a pascolare a Maratona in Attica. 8° Fatica: Le Giumente di Diomede

Diomede era un re della Tracia, il quale, come faceva Glauco, dava in cibo carne umana alle sue cavalle. Le quattro giumente, Podargo, Lampone, Xanto, Deino, erano velocissime e feroci, esse infatti si cibavano degli stranieri che approdavano sulla coste della Tracia. Fu compito di Eracle condurre le cavalle a Micene e l'eroe partì con un gruppo di volontari, immobilizzò i guardiani delle cavalle e le condusse a bordo delle sue navi. Diomede cercò di opporsi al furto e inviò i suoi uomini a recuperare le giumente. Vi fu una battaglia, Diomede venne ucciso e dato in pasto alle cavalle. Giunto a Micene con le cavalle, Eracle le presentò ad Euristeo il quale le consacrò a Era. 9° Fatica: La Cintura di Ippolita Fu questa volta Admeta, figlia di Euristeo, a decidere quale dovesse essere la prossima fatica di Eracle. Essa volle che l'eroe le procurasse la cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni. Si trattava di una cintura non comune che Ippolita aveva avuto in dono da Ares. Eracle si imbarcò assieme a dei volontari su una nave e intraprese il lunghissimo viaggio verso la città di Temiscira, sulle coste del Ponto. Dopo numerose avventure l'eroe giunse nel paese delle Amazzoni. Non fu difficile all'eroe convincere ippolita a dargli la cintura, ma Era, travestita da amazzone, suscitò un parapiglia causando una battaglia. Eracle, ritenendo di essere stato tradito da Ippolita la uccise e portò via la cintura. 10° Fatica: I Buoi di Gerione Gerione, il mostruoso gigante a tre teste, figlio di Crisaore e Callirroe, possedeva numerose mandrie bovine. Uno dei suoi mandriani era Eurizione, egli pasturava le mandrie di Gerione sull'isola di Erizia aiutato dal mostruoso cane Orto, il figlio di Tifone e di Echidna. Sulla stessa isola, situata nell'Occidente, pascolavano anche alcune mandrie di Ade, guardate dal mandriano Menete. Eracle ebbe il compito di rubare le mandrie di Orto e di condurle, da quel lontano paese, fino a Micene. Eracle, non sapendo come raggiungere per via di terra l'isola di Erizia, chiese ad Elio di prestargli la sua barca d'oro. Era questa la barca con la quale il sole, raggiunto l'Oceano a Occidente, durante la notte, circumnavigando la terra, raggiunge di nuovo l'Oriente. Elio negò il prestito ed Eracle si incamminò attraverso la Libia infuocata. Giunto nel deserto, l'eroe minacciò Elio con le sue frecce, per il calore che gli inviava, e chiese di nuovo il favore della barca. Il dio del sole questa volta acconsentì ed Eracle poté continuare il suo viaggio per mare. Eracle giunse ad Erizia e subito il cane Orto si avventò su di lui, ma la clava dell'eroe spaccò le teste del cane in un colpo solo. Eurizione sopraggiunse cercando di affrontare Eracle, ma ebbe lo stesso trattamento del il cane. Eracle, radunati gli animali, si accinse a compiere il lungo viaggio di ritorno, ma Menete, il mandriano di Ade, che

aveva assistito alla scena, andò ad avvertire Gerione che subito sopraggiunze pazzo dall'ira. Sulle sponde del fiume Antemo i due si scontrarono e Gerione cadde trafitto da una pioggia di frecce. Eracle fece salire gli animali sulla nave del sole e navigò verso l'Europa e sbarcò nel paese di Tartesso. Il viaggio di Ritorno di Eracle fu lungo e pieno di avventure, queste sono così numerose e varie che fanno parte di un'altra serie di racconti e di miti sull'eroe. Eracle giunse infine a Micene con pochi animali superstiti che Euristeo sacrificò subito ad Era. 11° Fatica: Il Cane Cerbero Resosi conto che Eracle compiva l'impossibile, Euristeo decise, questa volta, di inviarlo nell'Ade chiedendogli di portare a Micene il cane Cerbero, guardiano delle porte dell'Aldilà. Un compito che Euristeo riteneva assolutamente impossibile. Ma Ermes e Atena, amici di Eracle, lo aiutarono. L'eroe i fece iniziare ai Misteri Eleusini nel tempio di Demetra ad Eleusi. Egli imparò così come le ombre raggiungono l'Aldilà dopo la morte. Non sappiamo se Eracle raggiugesse l'altro mondo entrando per la caverna del Tenaro, come fece Orfeo, oppure da un'altro ingresso. Giunto nell'Ade Eracle, accompagnato da Ermes, spaventò le anime dei morti, soltanto Medusa e Meleagro non si lasciarono intimidire. Eracle cercò allora di colpire Medusa con la spada, ma essa era solo un'ombra, come lo erano tutti gli altri, poi incontrò Meleagro e gli promise di sposare sua sorella Deianira L'eroe incontrò Teseo e Pitiroo che erano stati incatenati da vivi per aver tentato di riportare Persefone sulla terra. Eracle liberò Teseo, liberò altri eroi e cercò di aiutare chi poteva, finché giunse davanti al re dell'Aldilà, Ade stesso. Ade acconsentì che Eracle portasse via Cerbero a condizione che non gli usasse violenza e che lo domasse senza infierire contro di lui. Eracle prese il cane alla base dei tre colli e non lasciò la presa finchè il cane non si rese conto dell'inutilità di ogni suo sforzo. Eracle, con Cerbero al guinzaglio, uscì dall'Ade per la "Bocca dell'Inferno", una voragine presso Trezene in Argolide. Quando giunse a Micene Euristeo fu così terrorizzato che si nascose nell'apposito orcio. 12° Fatica: I Pomi d'Oro delle Esperidi Quando Era sposò Zeus ricevette in dono dei pomi d'oro da Gaia. Era fece piantare i semi nel suo giardino presso il monte Atlante dove crebbe un'albero che dava i meravigliosi frutti. Per evitare che i pomi d'oro venissero rubati, Era pose a guardia dell'albero il serpente figlio di Echidna e Tifone. Oltre al serpente stavano a guardia dell'albero anche le Esperidi, le Ninfe della Sera, Egle, Erizia e Esperaretusa.

Euristeo chiese ad Eracle di portargli i pomi d'oro del Giardino delle Esperidi. L'eroe sapeva che il giardino era situato a Occidente, ma non conosceva la strada per giungervi. Egli partì prima verso nord, traversò la Macedonia, l'Illiria, poi raggiunse il fiume Eridano (il Po). Incontrò le Ninfe dei fiume le quali lo mandarono da Nereo per chiedere informazioni sulla direzione da prendere. Nereo, dopo esservi costretto, rivelò la via a Eracle. Durante il percorso, assai tortuoso, Eracle fu protagonista di varie altre avventure: in Libia egli si scontrò col gigante Anteo, in Egitto dovette difendersi da Busiride, in Asia salì sul monte Caucaso e liberò Prometeo dal suo supplizio. Eracle raggiunse poi il paese degli Iperborei e quindi l'Atlante, ai cui piedi era il Giardino delle Esperidi. Lì Eracle uccise subito il serpente e si impadronì dei pomi. Le Esperidi divennero pioppi, come punizione degli dei per la loro negligenza, mentre il serpente fu inviato in cielo e divenne una costellazione. Euristeo, ricevuti i pomi li consegnò ad Atena che li ritornò nel giardino da cui provenivano. Pagg. 132-135

Le altre prodezze di Eracle

Si narrano molte altre prodezze di Eracle, alcune delle quali ebbero luogo durante le fatiche, ma che non vengono elencate fra queste. Alcune delle principali prodezze dell'eroe sono la liberazione di Prometeo che abbiamo già visto, la sua prigionia presso la Regina Onfale, la spedizione contro Laomedonte, le vittorie su Anteo e su Caco e molte altre. La Regina Onfale Un giorno Eracle incontrò il suo caro amico Ifito il quale stava cercando delle mucche che sapeva essere state rubate e affidate ad Eracle dai ladri. Ifito cercò di farsi restituire le mucche, ma Eracle, in un attacco di follia uccise Ifito. Per questo crimine Eracle fu condannato a tre anni di schiavitù presso la Regina Onfale di Lidia. In quella corte orientale egli condusse una vita lussuriosa, spesso portando vestiti femminili, filando la lana assieme alle ancelle di Onfale, mentre la Regina indossava la pelle di leone e brandiva la clava di Eracle. Ma durante questa piacevole prigionia Eracle ebbe numerosissime avventure cruente. Fra le altre cose liberò Dafni, un giovane pastore caduto prigioniero di Litierse, figlio di Re Mida. Trovò e seppellì il corpo di Icaro. Si unì agli Argonauti e prese parte alla conquista del Vello d'Oro. Eracle catturò i due ladri-giganti detti Cercopi. I Cercopi erano figli di Teia, e nipoti di Oceano. La madre li aveva avvertiti di guardarsi bene da "un uomo col sedere nero". Un giorno mentre egli dormiva i due ladri cercarono di derubarlo, ma l'eroe si svegliò, li legò ben bene e li appese ognuno a una estremità di un palo per i piedi, poi li trasportò come due agnelli. In quella posizione i Cercopi si

accrsero che Eracle aveva il sedere nero e si misero a ridere. Eracle, non resistendo alle risate, liberò i ladri. La spedizione contro Laomedonte Quando Eracle ritornava dal paese delle Amazzoni, decise di fermarsi a Troia e trovò la città in lutto. La città era stata vittima delle ire di Apollo e di Poseidone. I due olimpici avevano costruito le mura della città e il re Laomedonte si era rifiutato di pagare loro il pattuito. Ora la peste affliggeva la città e un mostro marino terrorizzava i suoi abitanti. La figlia del re, Esione, era stata offerta a mostro per placarlo ed era incatenata a una roccia sul mare quando Eracle la vide. Eracle si recò da re Laomedonte e offrì lui di salvare la figlia in cambio dei cavalli di Poseidone che il re possedeva. Il re acconsentì, Eracle uccise il mostro e liberò Esione, ma il re rifiutò di consegnargli i cavalli. Allora Eracle minacciò Laomedonte di tornare con una flotta agguerrita e di distruggere la città. Dopo la sua prigionia presso Onfale, Eracle preparò una flotta di diciotto navi e mosse contro Troia. Conquistata la città, l'eroe ucciseLaomedonte e e i suoi figli, con l'eccezione di Priamo che, dopo varie peripezie salì sul trono della città. Anteo Anteo, un figlio di Poseidone e Gaia, era un gigante lottatore col dono dell'invincibilità, ma a condizione che i suoi piedi toccassero sempre sua madre, la Terra. Anteo sfidava ogni straniero che giungesse nel suo paese, la Libia. Il perdente doveva morire e le sue spoglie sarebbero andate a ornare il tempio. Eracle incontrò Anteo durante il suo viaggio verso il Giardino delle Esperidi, il lottatore lo sfidò, ma Eracle lo prese in una morsa di ferro fra le sue braccia, lo sollevò da terra e lo soffocò. Caco Quando Eracle tornava verso Micene con le vacche di Gerione traversò l'Italia, giunto nel luogo dove sarebbe sorta Roma, lasciò pascolare la mandria nella pianura presso il Tevere, sotto il Colle Aventino. Nel fianco del colle si apriva una caverna dove viveva Caco, un gigante ladro di bestiame. Caco una notte rubò quattro vacche e quattro buoi di Gerione conducendo gli animali all'indietro nella caverna, per confondere le tracce. Eracle infatti non riuscì a ritrovare gli animali, ma mentre si allontanava dal luogo con la sua mandria, passando presso la caverna, gli animali prigionieri che udirono i loro simili, muggirono. Eracle entrò nella caverna e incontrò Caco, un gigante con tre teste, identico a Gerione. Eracle brandì la sua clava e con un colpo vibrato orizzontalmente distrusse le tre orribili teste.

L'ascensione di Eracle all'Olimpo Dopo una accanita lotta con il dio-fiume Acheloo, Eracle aveva sposato Deianira, figlia di Eneo di Calidone, sorella di Meleagro e aveva vissuto con lei tre anni felici. Un

giorno, mentre gli sposi viaggiavano assieme, giunsero presso il fiume Eveno. Su questo fiume faceva da passatore un centauro di nome Nesso ed Eracle pose Deianira sulla sua groppa affinché la trasportasse sull'altra sponda, accettando la tariffa pattuita. Il centauro, con la bellissima donna in groppa, giunto sull'altra sponda, cercò di rapirla fuggendo. Deianira urlò ed Eracle, udendola, scagliò una delle sue frecce al centauro colpendolo a morte. Sul punto di morte il cantauro pregò Deianira di prendere un pò del suo sangue e conservarlo, dicendole che sarebbe stato un valido amuleto per preservare l'amore del marito. Deianira accettò e conservò il sangue in una fiala. Trascorsero gli anni e accaddero molte cose fra le quali la prigionia di Eracle presso Onfale etc. Un giorno, gelosa delle attenzioni di Eracle per Iole di Ecalia, Deianira intrise una veste sacrificale di Eracle col sangue di Nesso. Quando Eracle indossò la veste, il sangue del centauro, che era velenoso, si sciolse e penetrò nella sua pelle. Eracle, accortosi di cosa stava accadendigli, preso dalla follia, scagliò nel mare il servo che gli aveva portato la veste. Cercò poi di togliersi l'indumento, ma questo era come incollato alla pelle e strappandolo si scorticò parte del corpo. In questo stato, Eracle fu imbarcò su una nave diretta a Trachis. Intanto Deianira, accortasi di ciò che aveva fatto al marito, si uccise. Giunto a Trachis Eracle salì sul monte Eta, innalzo una grande catasta di legname, vi salì e ordinò ai suoi servitori di appiccarvi il fuoco, ma nessuno obbedì l'ordine. Soltanto un certo Filottete, infine obbedì e l'eroe lo ricmpensò regalandogli il suo arco e le frecce. Quando il fuoco aveva avvolto Eracle, si udì un gran tuono, una nuvola si innalzò dal rogo trasportando l'eroe verso il cielo. Giunto in cielo Eracle fu accolto dagli dei olimpici come uno di loro. Era si riconciliò con lui, lo adottò come figlio e gli diede in sposa la figlia Ebe. Pagg. 136-139

La dinastia di Eolo Atamante, fratello di Sisifo, discendeva da Eolo, il cui padre, Elleno, era figlio di Deucalione di Tessaglia. Atamante ebbe per moglie Nefele e da lei nacquero due figli, Frisso ed Elle. Passarono gli anni e Atamante, stanco della moglie Nefele, la ripudiò e prese in sposa Ino, figlia di Cadmo. Quello che accadde a Frisso ed Elle lo abbiamo visto nel 3° capitolo (P.112). Il Vello d'Oro In Tessaglia vi era un'altro paese, Iolco, il cui re era Esone. Esone aveva un figlio di nome Giasone, ma abdicò in favore di suo fratello Pelia con il patto che quando Giasone avesse raggiunto la maggiore età avrebbe lui avuto il trono.

Giasone era parente sia di Bellerofonte che di Atalanta ed era cugino di Admeto, marito di Alcesti. Quando Giasone fu adulto, chiese allo zio di passargli la corona. Ma il crudele Pelia cercò di liberarsi dell'inopportuno nipote inviandolo alla conquista del Vello d'Oro. Se egli fosse ritornato con il prezioso trofeo, allora avrebbe avuto il trono. A Giasone l'idea non dispiacque affatto, il suo spirito avventuroso lo invogliava a cimentarsi in qualche prodezza prima di sedere sul trono che era stato del padre. Subito si fecero i preparativi per la spedizione, la prima spedizione della storia greca. Sin'ora i Greci avevano navigato soltanto nell'Egeo, in piccole barche da pesca, spesso si trattava di semplici canoe, un tronco d'albero scavato col fuoco o dei fasci di canne di palude legati assieme. Ma Giasone chiamò Argo, il più intelligente fra i costruttori di barche, chiedendogli di progettare e costruire una nava capace di trasportare cinquanta uomini per migliaia di leghe attraverso mari sconosciuti e poi di riportarli a casa. Questa opera pareva superiore alle possibilità umane, ma, con l'aiuto di Atena, Argo riuscì a costruire la nave alla quale fu dato il suo nome: Argo. Il legname della nave proveniva dal monte Pelio, il legno di prua era un dono di Atena a proveniva dalla sacra quercia di Dodona. Atena vi aveva scolpito una 'golena', la quale, se interrogata rispondeva profeticamente. Giasone scelse intanto gli uomini più valorosi della Grecia intera, chiamandoli uno ad uno a prender parte all'impresa, cioé a diventare gli "Argonauti", i marinai di Argo. Fra i cinquanta che risposero all'appello di Giasone vi erano uomini non comuni, eroi e semidei. Vi furono Castore e Polluce, detti i "Dioscuri", figli di Zeus e di Leda, vi era Orfeo con la sua lira, poi Zeto e Calaide, lo stesso Eracle, Teseo, Meleagro, Nestore, Eufemo, figlio di Poseidone, e tanti, tanti altri. Il viaggio degli Argonauti Dopo un sacrificio ad Apollo, la nave partì da Pegase fra le acclamazioni della popolazione. Navigando verso Oriente toccò l'isola di Lemno, dove gli Argonauti trovarono solo donne che vevano ucciso tutti i loro uomini, si unirono ad esse e le resero incinte. Sull'isola di Samotracia, essi si fecero iniziare ai misteri orfici su consiglio di Orfeo. Giunti nell'Ellesponto gli Argonauti si fermarono a Cizico, dove accadde un grave contrattempo col re. Vi fu una battaglia con la popolazione dei Dolioni e il re rimase ucciso per maono di Giasone. Argo giuse poi sulle coste della Misia, dove trovò la morte Ila, lo scudiero di Eracle. L'eroe si mise a cercare il suo scudiero assieme a Polifemo. Non vedendo ritornare i due eroi, Giasone partì con gli altri senza di loro. Gli Argonauti si fermarono poi nel paese dei Bebrici, dove regnava re Amico, ma anche qui si scatenò una rissa durante la quale i Bebrici furono decimati. Prima di

entrare nel canale del Bosforo gli Argonauti sostarono in Tracia dove incontrarono il saggio Finéo. Dopo aver liberato il saggio dagli attacchi continui delle Arpie, Giasone seppe da lui come la nave potesse attraversare le Simplegadi, o "rocce che si urtano", che impediscono l'accesso al Ponto Eusino (il Mar Nero). Giunti presso le Simplegadi gli Argonauti seguirono le indicazioni di Fineo. Essi liberando una colomba magica la quale volando davanti alla nave la condusse incolume lungo la rotta sicura. Mentre Giasone e i suoi uomini remavano con tutta la loro forza dietro la colomba, le rocce galleggiati si scontravano rovinosamente dietro la nave, spesso sfiorandola pericolosamente. Passata la nave, le rocce si fermarono e rimasero per sempre stabili. Ora gli Argonauti navigavano nel Ponto, il Mar Nero, e la prossima fermata fu nel paese dei Mariandini. Qui gli Argonauti persero Idmone nella caccia al cinghiale, poi morì il loro timoniere Tifi che fu sostituito da Anceo. Costeggiando il monte Caucaso la nave Argo e i marinai superstiti giunsero nella Colchide, all'estremo limite orientale del mare. Giasone si recò subito alla corte di Re Aete e chiese lui il Vello d'Oro. Aete acconsentì, ma a una condizione, che Giasone aggiogasse due feroci tori, spiranti fuoco e aventi unghie di bronzo, all'aratro, quindi seminasse in un campo i denti del drago di Ares, ucciso da Cadmo presso Tebe. Giasone sapeva che da ognuno dei denti seminati sarebbe uscito un guerriero che si sarebbe subito avventato contro di lui, ma accettò la prova. Ma prima di compiere la pericolosa impresa Giasone si rivolse a Medea, la figlia di Aete dotata di poteri magici, e anche di una grande passione amorosa per l'eroe. Assieme, i due giovani, si appellarono alla dea Ecate e sacrificarono al suo altare. La principessa diede a Giasone un unguento che doveva proteggerlo dai pericolosi tori se spalmato sul corpo. Quando il giorno della prova venne, Giasone si sentì pronto. Non gli fu impossibile aggiogare i feroci buoi e questo già sorprese tutti i Colchidi presenti, mentre i Greci applaudivano. L'eroe si mise quindi a seminare i denti di drago e poi arò la terra che li ricoprì. Man mano che i semi venivano ricoperti dalle zolle che l'aratro rivoltava, i noti guerrieri spuntavano dal terreno, uscivano e si mettevano a rincorrere Giasone brandendo lance e spade. I Greci ora tremarono mentre i Colchidi ridevano; Medea stessa impallidiva dalla paura. Giasone riuscì per un pò a tenere a bada i guerrieri con lo scudo e la spada, ma essi crescevano sempre più numerosi e l'eroe fu costretto a ricorrere all'espediente consigliatogli da Medea. Egli raccolse una pietra e la gettò in mezzo ai nemici, disorientati essi cessarono di inseguirlo e si misero a uccidersi a vicenda. Non passarono molti minuti che tutti i guerrieri erano morti. Ora Giasone poteva recarsi presso l'albero dove Aete aveva inchiodato il Vello d'Oro, ma ai piedi dell'albero vi era di guardia un pericoloso e orribile serpente.

Medea diede a Giasone una pozione magica ed egli, giunto vicino al mostro sbuffante, che si attorcigliava al pedano dell'enorme albero del Vello, gli spruzzò il liquido sugli occhi. Il drago cadde subito assopito, Giasone salì sull'albero e si impadronì dello splendente Vello d'Oro. Pagg. 140-141

Il ritorno degli Argonauti

Il ritorno degli Argonauti non fu meno lungo né meno denso di eventi del viaggio di andata. Giasone partì improvvisamente col Vello d'Oro e Medea si unì a lui, assieme al fratello Apsirto. Aete, colto di sorpresa, fece inseguire i Greci, ma Medea uccise il fratello, lasciando lungo il percorso, le sue membra, in modo che i macabri ritrovamenti ritardassero gli inseguitori. L'atroce espediente ruscì e quando Aete si accorse che i fuggitivi erano ormai troppo lontani li lasciò andare. La nave Argo, con Medea, Giasone e gli Argonauti superstiti, risalì il fiume Istro (Danubio), poi la Sava fino ad entrare nell'alto Adriatico. Nell'Adriatico Zeus mandò una tempesta per punire Medea e Giasone dell'uccisione di Apsirto. La golena dell'Argo rivelò a Giasone che la collera di Zeus si sarebbe placata solo se gli Argonauti fossero stati purificati da Circe, la sorella di Aete, che abitava nell'isola di Eea in Occidente. Allora Giasone portò la nave verso il fiume Eridano (il Po) e lo risalì, da questo fiume entrò nel Ticino e lo risalì fino alle Alpi, dove le sorgenti di questo sono vicinissime a quelle del Rodano. L'Argo passò nel Rodano, traversò il paese dei Liguri e dei Celti per discendere nel Mar Tirreno, dove si trovava l'isola di Eea (il monte Circeo). Circe purificò Giasone e Medea, ma rifiutò ospitalità all'eroe, allora l'Argo riprese i mare e navigò verso sud passando presso gli scogli delle Sirene (Sorrento). Queste si misero a cantare per incantare gi Argonauti, ma Orfeo le sfidò con la sua musica e i marinai ascoltarono soltanto lui. La nave traversò le Isole Erranti (le Lipari) e affrontò poi lo stretto di Scilla e Cariddi per puntare verso est e raggiungere Corcira (Corfù), il paese dei Feaci, dove Alcinoo era sovrano. A Corcira si imbatterono in un manipolo di Colchidi inviati da Aete alla ricerca di Medea. Essi chiesero ad Alcinoo di consegnare loro la ragazza, ma il re disse che l'avrebbe fatto soltanto se Medea non avesse già sposato Giasone. Intanto, Giasone e Medea, avvertiti, si affrettarono a sposarsi e così rimasero uniti. Gli Argonauti ripresero allora il viaggio che ormai appariva breve, ma una tempesta deviò l'Argo dalla sua rotta portandolo presso le coste libiche, nel Golfo della Sirte. I marinai, disorientati, portarono la nave nel vicino Lago Tritonio dove incontrarono il dio del lago Tritone, il quale li diresse verso Creta. Cercando di sbarcare a Creta

gli Argonauti furono respinti dal gigantesco robot Talos che lanciò enormi pietre alla nave. Il gigante costruito da Efesto guardava le coste dell'isola ed era invulnerabile, eccetto che se colpito presso il tallone, dove era un cavo di trasmissione vitale. Medea, coi suoi incantesimi fece impazzire Talos ed egli, danneggiatasi la caviglia, cadde privo di energia. Gli Argonauti sbarcarono a Creta, eressero un altare ad Atena e ripartirono il giorno seguente. Lasciata Creta i marinai si trovarono disorientati, in una strana atmosfera priva di luce o di segni adatti all'orientamento. Giasone invocò Febo-Apollo, il quale giunse e coi suoi dardi e indicò all'Argo la strada del ritorno. Gli Argonauti si fermarono nell'isola di Anafe ed eressero un altare a Febo-Apollo il Radioso. La nave toccò poi l'isola di Egina e dopo alcuni giorni entrò nel porto do Pegase, quattro mesi dopo la partenza. Giasone portò il Vello d'Oro a Pelia e dedicò la gloriosa nave Argo a Poseidone. Medea ed Esone La carriera di Medea come maga non si fermò qui. Giasone chiese un girono a Medea di ringiovanire suo padre Esone. Allora la maga si appellò alle stelle, a Ecate e a Tellus, la dea del suolo. Medea viaggiò su una biga trainata da serpenti attraverso molte regioni in cerca di piante magiche che solo lei conosceva, essa viaggiò per nove notti e fu sempre sola. Al ritorno Medea eresse due altari, uno a Ecate e uno ad Ebe e sacrificò una pecora nera, versando libagioni di latte e vino. Infine implorò Ade e Persefone di lasciar vivere il vecchio Esone. Chiamato Esone, lo fece sdraiare come morto su un cataletto cosparso di erbe magiche e lo addormentò profondamente. Poi preparò un liquido magico in un grosso calderone, quindi, tagliata la gola al vecchio, riversò il liquido nel suo stomaco e nelle sue vene. La pozione ebbe l'effetto desiderato. I capelli e la barba di Esone persero il candore per riacquistare il loro colore corvino, le membra flaccide ripresero il vigore della giovinezza ed Esone si svegliò di quaranta anni più giovane. Ma Giasone divenne re di Iolco? Pelia non intendeva ragioni e procrastinava. Intanto le figlie di Pelia volevano che Medea ringiovanisse anche loro padre. La maga, fingendo di acconsentire, preparò una pozione a base di acqua e di erbe di nessun effetto. Quindi chiese alle figlie del re di tagliare la gola al padre per effettuare la stessa operazione che aveva ringiovanito Esone. Le ragazze menarono colpi maldestri al padre addormentato, egli, svegliandosi, pensò che le figlie fossero diventate matte e volessero assassinarlo. Esse fuggirono mentre Medea infliggeva il colpo mortale a Pelia.

Si tentò di tutto per ravvivare il re, ma intanto Medea si era nascosta, avendo tolto l'ultimo ostacolo a Giasone che ora poteva essere re. Giasone, ingrato, sposò Creusa, principessa di Corinto. Medea, indignata, alla decisione dell'amato, inviò una veste avvelenata a Creusa che indossandola morì, quindi uccise i suoi figli neonati e incendiò il palazzo reale. Salita sulla sua biga tirata da serpenti, Medea raggiunse Atene dove sposò re Egeo, il padre di Teseo, del quale vedremo le avventure. Giasone morì vecchio e triste, all'ombra della nave Argo, ormai scolorita, all'ormeggio nel porto di Pegase. Pagg. 142-143

La dinastia di Etolo Meleagro Uno degli Argonauti era stato Meleagro, figlio di Eneo e Altea, sovrani di Calidone, in Etolia. I suoi genitori erano cugini e discendevano da un figlio di Endimione di nome Etolo, il colonizzatore dell'Etolia. Fra i parenti di Eneo e Altea figuravano i personaggi più famosi dell'era mitica. La figlia Deianira era, come sappiamo, moglie di Eracle, mentre Leda, la sorella di Altea, era la madre dei gemelli Castore e Polluce, di Clitennestra e di Elena, famose durante la Guerra di Troia. Quando nacque Meleagro, Atlea ebbe una visione delle Moire. Mentre queste filavano le dissero che il figlio non avrebbe vissuto più a lungo di quanto avesse impiegato a consumarsi un particolare tizzone del focolare. Altea prese subito il carbone e spentolo, lo accudì amorosamente, cercando di farlo durare il più a lungo possibile. Così Meleagro poté crescere, divenire uomo e sposarsi con la principessa Cleopatra. La caccia di Calidone Un giorno, dopo un'abbondante mietitura, Eneo decise di sacrificare a tutti gli dei, ma si dimenticò di onorare Artemide. La dea, indignata, inviò un enorme cinghiale a devastare i fertili campi di Calidone. Meleagro chiamò allora tutti gli eroi della Grecia ad unirsi in una grandiosa caccia al cinghiale. Risposero all'appello del principe, Teseo e Piritoo, Giasone, Peleo, Telamone, Nestore, Ificle, gemello di Eracle, e tanti altri. A loro si unì anche Atalanta l'atletica cacciatrice, figlia di Scheneo. Infine anche Plesippo e Toseo, fratelli della regina Altea, dei poco di buono, gelosi di Meleagro, si unirono ai cacciatori. Forti reti furono legate ai tronchi degli alberi in luoghi strategici e i cani vennero sciolti. Poi i cacciatori si avvicinarono al nascondiglio del cinghiale, fra i giunchi di una palude, in mezzo al bosco. L'animale, udita la cagnara, uscì improvvisamente dal nascondiglio avventandosi contro i cacciatori.

Prima uno, poi un'altro, in due furono subito sbranati dalle zanne lucenti della belva. Giasone, Nestore e Telamone si fecero sotto, ma invano, la bestia li eluse. Ma ecco Atalanta farsi ora avanti coi suoi levrieri e colpì con un dardo l'animale nel fianco. Melagro gridò subito vittoria, ma l'animale rinnovò il suo attacco, ancora più infuriato di prima. Peleo, Anfiareo, Teseo e Giasone scagliarono tutti assieme le loro lance mentre Ancheo cadeva mortalmente ferito. Anfiarao colpì il cingiale in un occhio. Meleagro appora piantò la sua daga nel fianco della belva, subito dietro l'ultima costola. Il cinghiale sbuffò, grugnì e tentò ancora di attaccare i suoi nemici, ma la ferita era mortale e infine egli cadde con la schuma alla bocca. Un urlo di gioia si alzò allora dai cacciatori che si fecero attorno a Meleagro stringendogli la mano. Meleagro mise un piede sulla testa dell'animale e voltandosi verso Atalanta offrì a lei la testa e la pelle della belva, come trofei del suo successo. Il principe nutriva un segreto amore per la cacciatrice, nonostante fosse sposato a Cleopatra. I cugini di Meleagro, Plesippo e Toseo, indignati, chiesero loro il trofeo, ma Meleagro, furioso, li uccise subito. Quando Altea seppe dell'assassinio dei suoi fratelli, prese il carbone che aveva a lungo conservato e lo gettò nel fuoco. Meleagro morì subito invocando Atalanta e sua madre. Quando giustizia fu fatta Altea e Cleopatra si suicidarono. Castore e Polluce Leda, sorella di Altea, sposò Tindareo, re di Sparta. Zeus si innamorò di lei e trasformatosi in un cigno per ingannarla, le si avvicinò e la rese incinta. Da Tindareo Leda ebbe Castore e Clitennestra, da Zeus ebbe Polluce ed Elena. Castore e Polluce nacquero gemelli, ma di padri diversi, l'uno figlio di un mortale, l'altro di un dio. Mentre Castore divenne un domatore di cavalli, Polluce si dedicò al pugilato. I due gemelli furono sempre assieme in tutte le loro avventure, come la caccia al cinghiale di Caledone, oppure assieme agli Argonauti alla conquista del Vello d'Oro. Durante la spedizione degli Argonauti avvenne che nell'Egeo vi fu un temporale e Orfeo pregò gli dei di Samotracia usando la sua lira. Quando il fortunale cessò gli Argonauti videro che erano comparse due stelle sulla fronte dei gemelli figli di Leda. Per questo prodigio essi vennero da allora venerati come i protettori di chi viaggia. Persino Talo, il robot di bronzo, protettore di Creta, fu ammaliato dalla vista dei due gemelli con la stella in fronte. Più tardi, quando Teseo e Piritoo portarono via Elena da Sparta, i giovani eroi, Castore e Polluce, si adoperarono per liberarla e vi riuscirono. Un giorno i due gemelli ebbero una disputa con Ida e Linceo di Messene, non si sa se per motivi di donne o di pascolo, e nella lotta Castore rimase ucciso. Polluce, inconsolabile per la perdita del fratello, chiese a Zeus di

prendere la sua vita in cambio di quella di Castore. Zeus offrì che i due fratelli godessero ambedue del dono della vita, ma a periodi alterni. Ognuno di loro avrebbe trascorso un giorno in cielo e uno in terra, senza però incontrarsi. L'idea a lungo andare non funzionò e così Zeus pose i due gemelli fra le stelle del cielo. Da allora essi sono noti ai naviganti come i Gemelli o i "Diòscuri" (Figli di Zeus). Pagg. 144-145

La dinastia di Minosse

Teseo, Arianna e il Minotauro Re Minosse di Creta discendeva da Inaco, suo antenato di sei generazioni. Minosse era figlio di Zeus e di Europa e come sappiamo, dopo la morte, assieme ai suoi fratelli Radamanto ed Eaco, divenne giudice delle anime nell'Ade. E' questo il Minosse di Omero e di Esiodo, il grande legislatore. Suo nipote, Minosse II, anch'egli re di Creta, pretendeva di essere in grado di ottenere qualsiasi cosa mediante la preghiera. Per dimostrare questa sua facoltà, egli implorò un giorno Poseidone di inviargli un toro per il sacrificio. Come sappiamo il torò apparì, ma Minosse decise di non sacrificarlo. Nettuno si indignò e fece impazzire il toro, ancor peggio, fece in modo che la regina Parsife si innamorasse dell'animale. Il toro, come abbiamo già visto, venne catturato e domato da Eracle, il quale lo cavalcò attraverso il mare da Creta alla Grecia. Ma la regina aveva intanto dato alla luce un mostro, un uomo con la testa di toro che lei aveva chiamato Asterio, ma che la gente chiamava "Minotauro". Minosse, scandalizzato dal parto della moglie, chiamò il grande architetto Dedalo e gli ordinò di costruire un apposito edifico per nasconde il fenomeno dalla vista dei sudditi. Dedalo dietro consiglio del dio-fiume Meandro, costruì un immenso labirinto, concepito in modo tale che chiunque vi entrasse non ne sarebbe mai uscito. Il crudele Minosse rinchiuse il mostro nel labirinto e lo abituò ad alimentarsi di carne umana. Dopo che Minosse ebbe soggiogato la città di Megara, in Grecia, chiese un tributo di sette giovani e sette ragazze all'anno, questi sarebbero stati sacrificati al Minotauro. Il giovane eroe ateniese Teseo, volendo porre fine all'atroce suppplizio dei giovani di Megara, si offrì di andare a Creta assieme a loro. Quando i giovani giunsero a Creta, Arianna, la bella figlia di Minosse e Pasife, vide Teseo fra i giovani Greci e subito se ne innamorò. Teseo offrì di sfidare il Minotauro e quando stava per entrare nel labirinto, Arianna gli si avvicinò e diede lui in gomitolo di lana, come gli aveva consigliato di fare lo

stesso Dedalo. Teseo, capendo a cosa servisse il filo, ne legò un capo all'ingresso e lo srotolò man mano che si addentrava nell'edificio, in modo da poter ritrovare la strada al ritorno. Dopo una accanita lotta Teseo uccise il Minotauro. Uscito illeso dal labirinto, l'eroe si attirò, assieme ad Arianna, le ire di Minosse, ma i due riuscirono a fuggire su una barca e a raggiungere l'isola di Nasso. Durante la sosta nell'isola, Teseo si allontanò dall'amata con la nave, lasciandola addormentata sulla spiaggia. L'eroe amava Egle, figlia di Panopeo e avendo salvato la vita ad Arianna, in cambio della propria, decise di abbandonarla. Ma la giovane principessa non pianse a lungo per la perdita dell'amato. Proprio in quel tempo giunse a Nasso Dioniso con grandi quantità di vino e con un festante seguito. Dioniso, dall'alto del suo carro trainato da pantere, vide Arianna sola sulla spiaggia e subito se ne innamorò. Così Arianna sposò il dio che la condusse nell'Olimpo. La sposa ebbe in regalo da Efesto un diadema d'oro che in seguito divenne una costellazione nel cielo. Pagg. 146-147

Dedalo e Icaro

Dedalo, avendo costruito il labirinto, rimase vittima delle attenzioni amorose della regina Pasife, fu così che cadde in disgrazia con Minosse e fu imprigionato assieme al figlio Icaro nel suo stesso labirinto. L'astuto Dedalo, un grande inventore, una volta in prigione si mise subito al lavoro per escogitare il mezzo di evadere. Nel labirinto l'architetto e il figlio non trovarono altro che delle piume di uccello e degli alveari, ma questi materiali furono sufficienti all'architetto per concepire un originale mezzo per la fuga. Dedalo costruì due paia di ali usando le penne e la cera d'api, le legò alla proprie braccia e a quelle del figlio alzandosi in volo assieme a lui. Dedalo e Icaro volarono via dal labirinto come gabbiani sul mare. Ma il padre avvertì il figlio di non lasciarsi prendere dall'entusiasmo e di non volare troppo in alto. I raggi del sole avrebbero potuto sciogliere la cera e le ali si sarebbero disintegrate. Ma tutto andò bene fino a quando padre e figlio, sorvolata l'isola di Samo. Stavano volando su Delo quando Icaro, sentendosi sicuro del suo mezzo di trasporto, volle salire sempre più in alto, ma, come aveva previsto il padre, le penne incominciarono a staccarsi dalla cera che era divenuta morbida. Il caldo torrido del sole stava sciogliendo le ali di Icaro, ora troppo in alto per potersi salvare. Il giovane cadde giù come un sasso nel mare, dove si sparsero le bianche penne delle sue ali, che le Nereidi raccolsero piangendo.

Dedalo, intanto, perduto il figlio, giunse in Sicilia dove atterrò alla corte di re Cocalo. In Sicilia egli costruì un tempio ad Apollo dove appese le sue ali in offerta al dio. Minosse, saputo dov'era finito Dedalo, partì con una flotta di navi e raggiunse la reggia di Cocalo. Il re di Creta stava trattando con Cocalo l'estradizione di Dedalo ma, mentre faceva un bagno, una delle figlie di Cocalo, versò acqua bollente nella vasca causandone la morte. Dedalo non soffriva l'idea che altri potessero superarlo nell'ingegno. Una volta gli fu affidato il nipote Perdice al quale egli doveva insegnare la propria arte. Perdice era un genio e stava imparando rapidamente. Ad esempio, un giorno camminando lungo la spiaggia raccolse una lisca di pesce e osservandola inventò la sega. Poi inventò il compasso e si apprestava a creare chissà quante altre cose quando lo zio, geloso, lo spinse nel vuoto dall'alto di una torre appena costruita uccidendolo. Ma Atena, avendo pietà del giovane Perdice, lo trasformò in un uccello che ora porta il suo nome "pernice". Troveremo ancora dei discendenti di Inaco narrando le vicende dei discendenti di Labdaco. Pagg. 148-149

La dinastia di Cecrope ed Eretteo

Cecrope gunse in Attica da Creta o dall'Egitto per fondare Atene -ma alcuni dicono che spuntasse dal terreno e che fosse mezzo serpente. Fu lui a sceglere Atena invece di Poseidone, come protettrice dalla città. Il suo successore, Eretteo, era un guardiano di Atena, lei stessa lo allevò nel tempio. Suo figlio Pandione ebbe due figlie, Procne e Filomela. La prima andò in sposa a Tereo, re di Tracia, un paese selvaggio. Dopo che Procne ebbe il primo figlio, Itilo, Tereo si stancò di lei e violentò la sorella Filomela, poi gli tagliò la lingua perché non raccontasse l'accaduto e la richiuse. Filomela, in prigionia, riuscì a tessere su una tela la storia che la riguardava e a far giungere la tela alla sorella. Procne, saputo cosa aveva fatto il marito concepì per lui un atroce ricatto. Uccise il figlio Itilo, lo cucinò e lo diede in pasto, come stufato di maiale, al marito traditore. Tereo pagò cara la sua vigliaccata, ma gli dei punirono le due sorelle. Procne fu tramutata in una rondine e Filomela in un usignolo, mentre Tereo fu trasformato in falco. Da allora il falco sempre perseguita la rondine e l'usignolo. Pagg. 150-151

Teseo Egeo, re di Atene, era un discendente di Eretteo. Recatosi a Trezene, in Argolide, egli si invaghì di Etra, la nipote di

re Pelope, la amò e da loro nacque il più grande eroe dell'Attica, Teseo. Prima di lasciare Trezene, Egeo lasciò la sua spada e i suoi sandali sotto un grosso macigno e disse a Etra: -Appena tuo figlio sarà in grado di sollevare questo sasso e di prendere quello che vi ho lasciato sotto, madalo subito da me. Il giovane Teseo crebbe felicemente a Trezene dove era sovrano Pitteo, suo nonno. Quando Etra ritenne che il figlio dovesse sottoporsi alla prova voluta da suo padre, lo condusse sul luogo e gli chiese di sollevare il macigno. Il giovane lo sollevò con estrema facilità ed estrasse la spada e i sandali di suo padre. Allora la madre lo invitò a recarsi dal padre ad Atene, ma lo consigliò di andarvi per mare poiché le strade erano infestate di briganti. Ma il giovane sentendo dentro di sé lo spirito dell'eroe, volendo emulare Eracle, intraprese il viaggio più pericoloso e avventuroso per via di terra. Il primo giorno di cammino lo portò ad Epidauro dove abitava Perifete, un figlio di Efesto, un feroce energumeno che terrorizzava i viaggiatori brandendo una clava di ferro. Ma Perifete cadde presto sotto i colpi del giovane, come caddero per mano di Teseo molti altri malviventi della regione fra Troesene e Atene. Uno dei duelli più duri fu quello con Procruste, lo "stiratore". Questo gigantesco brigante aveva un letto di ferro dove legava i malcapitati che riusciva a catturare. Se questi erano più corti del letto gli stirava allungandoli, se invece erano più lunghi, tagliava loro le gambe. Teseo giunse ad Atene dove nuovi pericoli lo attendevano. Medea, la maga che era fuggita da Corinto dopo la sua separazione da Giasone, aveva sposato Egeo e sapeva, grazie alla sua veggenza, chi era lo straniero. Temendo l'influenza che egli poteva esercitare col re qualora egli avesse riconosciuto Teseo come suo figlio, cercò di avvelenarlo. Ma la spada che il giovane portava con sé, lo fece subito riconoscere al padre il quale o salvò cacciando Medea. La maga fuggì in Asia e il paese dove si recò prese da lei il nome di Media. Teseo fu riconosciuto come legittimo figlio di Egeo e successore al trono. Fu dopo questo riconoscimento che l'eroe si recò a Creta e uccise il Minotauro. Pagg. 152-153

Le avventure di Teseo

Teseo e le Amazzoni Quando Teseo divenne re di Atene decise di intraprendere una spedizione contro le Amazzoni. Egli le assalì qando ancora esse non avevano recuperato dalla disfatta inflitta loro da Eracle e riuscì a portar via la loro regina Antiope. Le donne guerriere seguirono la loro regina e il suo

rapitore fino ad Atene dove ebbe luogo una feroce battaglia. Teseo sconfise definitivamente le Amazzoni entro le mura della città. Teseo e Piritoo Teseo divenne amico di Piritoo, figlio di Zeus e re dei Lapiti di Tessaglia, nel mezzo di una lite. Un giorno Piritoo aveva fatto una incursione nella piana di Maratona e stava razziando le mandrie del re di Atene. Teseo accorse per difendere il bestiame del padre e scacciare i ladri. Quando il re dei Lapiti lo vide rimase stupito dalla personalità e dall'aspetto dell'eroe, gli si fece incontro tendendogli la mano in segno di pace e disse: -Giudica tu. Cosa desideri come ricompensa per ciò che ti abbiamo fatto? -La tua amicizia! - Rispose Teseo. I due giurarono fedeltà assoluta al patto e da allora in poi furono come fratelli. Quando Pritoo sposò Ippodamia, figlia di Atrace, Teseo si unì all'amico nella rissa che si generò fra Lapitii e Centauri al banchetto di nozze. Era accaduto che fra gli invitati alle nozze vi erano anche i Centauri e uno di loro, Euritione, ubriacatosi, cercò di violentare la sposa. Altri Centauri seguirono il suo esempio e vi fu una sanguinosa rissa. Teseo si lanciò nella mischia e non pochi degli invitati finirono coi loro capelli nella polvere. Più tardi i due amici decisero di sposare due figlie di Zeus; Teseo scelse Elena, la figlia di Leda, allora bambina, ma che divenne famosa durante la guerra di Troia. Con l'aiuto di Piritoo, l'eroe la rapì, restituendola subito dopo alla madre. Piritoo invece aspirava non meno che alla moglie del re dell'Aldilà. Teseo, se pure cosciente del pericolo che poteva comportare una tale avventura, decise di accompagnare Piritoo nell'Ade. Giunti nell'Aldilà, Ade li catturò subito incatenandoli a una roccia presso le porte del suo regno. I due amici rimasero incatenati fino all'arrivo di Eracle il quale decise di liberare l'amico Teseo, lasciando Piritoo incatenato. Fedra e Ippolito Dopo la morte di Antiope Teseo sposò non Elena ma Fedra, sorella di Arianna, figlia di Minosse. Fedra giunse alla corte dello sposo, ma visto Ippolito, il figlio di Teseo, un giovane dotato di straordinaria bellezza, e della stessa sua età, si innamorò di lui, invece che del padre. Quando egli, per rispetto al padre, respinse le offerte di Fedra la quale sentì il proprio amore tramutarsi in disperazione e odio. Fedra si impiccò lasciando un testamento nel quale accusava Ippolito di essere la causa del suo tragico atto. Teseo infatuato com'era di Fedra, fu preso dalla gelosia per il figlio e chiese che la vendetta di Poseidone si abbattesse su di lui. Un giorno, mentre Ippolito correva con la sua biga lungo la spiaggia, un mostro marino emerse dalle acque spaventando i cavalli che, imbizzarriti, si diedero a una folle corsa, distruggendo la biga e uccidendo Ippolito.

Asclepio fu subito chiamato presso il principe ormai morto, ma riuscì a riportarlo in vita. Artemide, per mettere in salvo il giovane dal padre vendicativo, lo trasportò in Italia e lo mise sotto a protezione della Ninfa Egeria. Raggiunta la vecchiaia Teseo si accorse di aver attratto le antipatie dei suoi sudditi. Il vecchio eroe decise allora di ritirarsi a vita privata presso Licomede, re di Sciro. Questi dapprima lo accolse amichevolmente, ma più tardi provocò la sua morte. Pagg. 154-155

La dinastia di Labdaco Le sfortune di Tebe Tornando ora alla dinastia di Inaco, ricorderemo che la maledizione abbattutasi sulla testa di Cadmo quando uccise il serpente di Ares, non risparmiò nessuno dei sui parenti e discendenti. Le sue figlie Semele, Ino, Autonoe, Agave, i suoi nipoti, Melicerte, Atteo, Penteo, vissero tristemente e morirono violentemente. Ci rimangono da narrare le disgrazie di un ramo della famiglia di Cadmo, quello di suo figlio Polidoro. La maledizione pareva aver risparmiato Polidoro, e anche suo figlio Labdaco ebbe una vita abbastanza tranquilla come re di Tebe fin quando lasciò il trono al figlio Laio. Laio fu avvertito da un oracolo che la sua vita e il suo trono sarebbero stati in pericolo qualora suo figlio, ora neonato, avesse raggiunto l'età adulta. Saputo ciò, Laio consegnò il fglioletto a un mandriano ordinandogli di ucciderlo. Il mandriano, mosso a compassione, ma non osando disobbedire, bucò il piede del fanciullo intendendo esporlo agli elementi sul monte Citerone. Edipo e la Sfinge Il mandriano diede il figlio di Laio a un pastore, noto per la sua pietà. Il pastore consegnò il piccolo al re di Corinto, Polibo e a sua moglie i quali lo adottarono e lo chiamarono "Piede Gonfio", ossia Edìpo, a causa del piedino che era stato forato dal padre quando intendeva esporlo, legato a una corda, alle intemperie del monte Citerone. Passarono gli anni e Edipo, ora adulto, seppe da un oracolo che egli avrebbe causato la morte di suo padre. Disperato, il giovane lasciò la reggia di Polibo, che egli riteneva il suo vero padre. Mentre Edipo vagava per le strade a ovest di Tebe con la sua biga, in una strada assai stretta si imbatté in un'altra biga, quella di Laio, re di Tebe. Il re era diretto a Delfi accompagnato da un solo scudiero; questi ordinò a Edipo di farsi da parte e lasciare la strada al re di Tebe. Edipo rifiutò di obbedire il brusco ordine e lo scudiero di Laio uccise uno dei suoi cavalli. A questo affronto Edipo, accecato dall'ira per l'arroganza del re, uccise questo e lo

scudiero. Le predizioni dei due oracoli si erano avverate in un solo incidente. Edipo si fermò a Tebe e dopo qualche tempo che egli risiedeva nella città dei suoi antenati, accadde che un mostro infestasse le strade del regno molestando i viaggiatori. Il mostro era la Sfinge, col corpo di leone e la testa e le spalle di donna. Essa si appollaiava su una roccia, presso la strada, in qualche luogo solitario, e da lì poneva indovinelli a chi passava; chi sapeva rispondere se ne andava incolume, chi non sapeva la risposta veniva ucciso. Nessuno era stato in grado di rispondere alla domanda che la Sfinge aveva posto, molti erano morti e la domanda era sempre la stessa. Edipo, per niente intimorito dalle vittime della Sfinge, si propose di affrontare il suo micidiale indovinello. Giunto nel luogo dove la Sfinge era stata vista per l'ultima volta, l'attese. La domanda del mostro fu la seguente: -Qual'è l'animale che al mattino cammina su quattro gambe, a mezzogiorno su due e alla sera su tre? Edipo rispose subito: -E' l'uomo. Da banmbino egli cammina su mani e ginocchia, da adulto cammina su due piedi e da vecchio si aiuta col bastone. La Sfinge che aveva giurato di uccidersi qualora Edipo avesse indovinato, udita la risposta giusta si gettò nel vuoto dall'alto della sua rupe e rimase uccisa. Pagg. 156-157

Edipo re

Fu per gratitudine, per averli liberati dalla Sfinge, che i tebani, privati del loro sovrano, offrirono a Edipo di essere loro re. Edipo accettò e sposò Giocasta, la regina vedova di Laio. Edipo, che a propria insaputa era divenuto l'assassino di suo padre, era ora diventato lo sposo di sua madre. Questa situazione orribile non fu scoperta che molti anni più tardi. Vi fu un tempo in cui si rese necessario consultare l'oracolo di Delfi poiché una grande pestilenza e una carestia si erano abbattute sulla città. L'oracolo, indirettamente e tortuosamente, com'era il suo modo di esprimersi, spiegò ai tebani cosa era accaduto. Giocasta si impiccò immediatamente, mentre Edipo, attanagliato dall'orrore, si accecò colpndosi gli occhi con i gioielli della madre-moglie morta esclamando: -Poiché non avete visto le mie sofferenze, non avete visto il male che ho fatto, ora guardate nel buio... Edipo a Colono Dopo questo atroce evento Edipo voleva andarsene da Tebe, ma l'oracolo, ancora consultato dai Tebani, proibì loro di lasciar partire il disgraziato re.

Intanto Creonte, fratello di Giocasta, fungeva da reggente per i due figli di Edipo, ancora minorenni. Dopo che Edipo si era rassegnato a rimanere a Tebe, i suoi figli, con la complicità di Creonte, lo cacciarono in esilio. Accompagnato dalla figlia Antigone, Edipo vagò elemosinando attraverso il regno. La sua seconda figlia Ismene rimase a Tebe. Maledicendo i figli che lo avevano abbandonato, ma piegandosi al volere degli dei, Edipo stava ora avvicinndosi alla morte nel villaggio di Colono, presso Atene. Il suo amico Teseo, re di Atene, lo confortò e lo sostenne fino all'ultimo. Ambedue le figlie di Edipo erano con lui, si udivano pianti e lamenti, poi il silenzio. Allora una voce lo chiamò e la sua anima le seguì. Gli dei lo liberarono da su supplizio. Antigone tornò a Tebe dove la sua fedeltà al padre-fratello non venne mai meno. I fratelli Eteocle e Polinice erano intanto saliti assieme sul trono e si dividevano il potere; Un anno regnava i primo, un anno il secondo. Il primo anno fu sul trono Eteocle e quando il suo tempo terminò, egli rifiutò di lasciare il potere al fratello. Polinice andò allora ad Argo, dal re Adrasto il quale diede a lui sua figlia in sposa e un esercito per riguadagnarsi il trono. Questa divenne nota come la spedizione dei "Sette contro Tebe". I Sette contro Tebe Gli alleati di Adrasto e Polinice nella loro impresa contro Tebe furono Tideo di Calidone, fratellastro di Meleagro, Partenopeo di Arcadia, figlio di Atalanta e di Ares, Capaneo, Ippomedonte e Anfiarao di Argo. Anfiarao, cognato di Adrasto, si oppose alla spedizione poiché, essendo un veggente, sapeva che nessuno di loro sarebbe ritornato dalla spedizione contro Tebe. Tuttavia, sposando Erifile, la sorella del re, egli aveva promesso che ogni volta egli non fosse stato daccordo con Adrasto, sarebbe stata Erifile a decidere. Polinice, sapendo tutto ciò, regalò ad Erifile la collana di Armonia per farla decidere in favore della spedizione. Era questa la collana che Efesto aveva regalato ad Armonia in regalo per le sue nozee con Cadmo. Polinice l'aveva presa fuggendo da Tebe. Ma la collana era ancora sotto gli influssi malefici della maledizione che pesava sulla dinastia di Cadmo. Fu così che i Sette andarono verso il loro destino. Anfiarao si comportò coraggiosamente nella battaglia che seguì. Rincorso dal nemico, egli stava fuggendo lungo il fiume, quando un fulmine lanciatogli da Zeus aprì una voragine nel terreno ed egli vi precipitò con la sua biga e i suoi aurighi. Durante la battaglia si distinse per fedeltà Evadne, sposa di Capaneo. Quando egli, nel tentativo di scalare le mura di Tebe venne colpito dal fulmine di Zeus e morì, essa si gettò sul rogo funerario del marito e morì. L'assedio della città continuò, nonostante la sorte e gli dei fossero dalla parte di Tebe.

Le due parti combatterono a lungo finché fu deciso che i due fratelli si combattessero in duello. Fu così che Eteocle e Pilinice caddero ambedue, l'uno ucciso dall'altro. Ma gli eserciti continuarono la battaglia che si protrasse fino a quando gli attaccanti dovettero ripiegare sconfitti, lasciando i loro morti sul terreno insepolti. Creonte, zio dei due fratelli caduti, divenne re di Tebe e seppellì con i dovuti onori il principe Eteocle, laciando sul terreno Polinice e proibendo a chiunque di seppellirlo. Antigone Antigone, sorella di Polinice, si indignò all'editto di Creonte che voleva lasciare agli sciacalli e agli avvoltoi il corpo del fratello. Mente si stava accingendo a dare gli onori funebri alla slama del fratello, fu vista e condotta davanti a Creote. Il re chiese ad Antigone se avesse davvero intenzione di disobbedire la legge. La donna rispose che le leggi degli dei erano più importanti ed erano quelle a cue essa obbediva. Creonte ordinò allora che Antigone fosse sepolta viva. Emone, il figlio di Creonte, innamorato di Antigone, udito il verdetto si tolse la vita. Fu soltanto dopo la morte del figlio che Creonte si rese conto della durezza del suo giudizio e da allora egli divenne un re magnanimo. Le gesta degli eroi continuano.

FINE Pagg. 158-159 Glossario

Ambrosia e nettare : Gli dei mangiano "ambrosia" e bevono "nettare", sostanze che conferiscono loro l'eterna giovinezza e l'immortalità, come le conferirebbero a qualsiasi mortale. L'Ambrosia cresceva nel Giardino delle Esperidi e il suo nome deriva da "àmbrotos" = immortale. Il nettare è il liquido dolce che deriva da molti fiori, ma quale fosse il nettare e cosa esattamente fosse l'ambrosia degli dei nessun antico scrittore lo ha detto. Dodona A Dodona i Greci chiedevano previsioni sul futuro nel tempio di Zeus, sotto la sacra quercia che cresceva nel sacro recinto. Secondo la leggenda due colombe nere, preso il volo da Tebe d'Egitto, volarono l'una a Dodona, l'altra nell'oasi di Ammone, nel Desrto Libico. In ambedue i luoghi le colombe chiesero agli abitanti di erigere un tempio a Zeus. Secondo alcuni non si trattava di colombe, bensì di sacerdotesse. Quando si consultava l'oracolo i sacerdoti deducevano le risposte interpretando il fruscio delle foglie della sacra quercia mosse dal vento. Egida Zeus bambino fu allattato in una caverna di Creta dalla ninfa Amaltea che secondo alcuni era una capra. La capra si chiamava Aice, si diceva discendesse da Elio, il sole e che fosse una creatura terrificante. I Titani la temevano a tal punto che l'avevano fatta confinare nella caverna cretese. Quando Zeus combatté contro i Titani si fece una armatura con il vello di Aice, ed é questo mantello protettivo ad essere chiamato "egida", da "Aice". Era costume fino pochi decenni orsono che i pastori si proteggessero con pelli di capra o di pecora gettati sulle spalle. A lungo andare l'egida divenne un pettorale di bronzo, con la testa della Gorgone raffigurata al centro del petto, in epoca ancora più tarda si chiamò egida l'armatura decorata di un comandante. Peano: Dio delle guarigioni, a volte identificato con Apollo stesso. Aloadi: Così chiamati perché Ifimedia, loro madre, era moglie di Aloeo. Adone: Eroe di origine siriana. Nato da Mirra, figlia del re Teia tramite un incesto istigato da Afrodite. Per salvare Mirra dalla vendetta del padre, gli dei trasformarono la ragazza in un arbusto. Dieci mesi più tardi la corteccia dell'arbusto si sollevò e ne uscì un bambino, Adone. Afrodite e Persefone si contesero il bel bambino, fino a quando Zeus decise che egli trascorresse due terzi dell'anno con la prima e un terzo con la seconda. Pag. 160 Indice

INTRODUZIONE Una notte d’estate ormai lontana, prima che la televisione ci rinchiudesse tutti in casa, prima che le citta’ emanassero quel gran bagliore che cancella dal cielo notturno ogni stella, giacevo supino assieme a mio nonno sul prato dietro casa a guardare il cielo, in silenzio. Il nero cielo appariva ora come un tendone nero sforacchiato da fucilate a munizione fina, ora come un pauroso baratro senza fine dove luccicavano innumerevoli soli lontani lontani e distanti fra loro. A un certo punto mio nonno ruppe quel silenzio che incominciava a farsi inquietante: - Ve’, quello e’ il Gran Carro......e quello la’ e’ l’aratro. - E quella striscia chiara che traversa il cielo in tralice cos’e’ nonno? - Quella e’ la “Via Lattea” - Perche’ “Lattea” nonno? - Perche’ un giorno la Madonna e Sant’Anna tornando a casa trovarono Gesu’ Bambino che aveva fame. La Madonna se lo pose al seno e lui, affamato com’era, succhio’ cosi’ forte che il capezzolo gli scappo’ di bocca e un gran getto di latte spruzzo’ il cielo di traverso da un capo all’altro. Non so dove mio nonno, che era analfabeta, avesse udito quella storia, ma molti decenni piu’ tardi trovai che proprio quella storia derivava da un mito ben preciso riguardante Era ed Ercole piuttosto che la Madonna e Gesu’ Bambino. La nostra cultura occidentale, sia nelle sue manifestazioni subalterne che in quelle egemoniche, e’ tutta pervasa dal mito greco. Nella letteratura, nell’arte figurativa, nella musica di ogni tempo e paese si riscontrano riferimenti assai precisi a miti o a personaggi del mito greco. Il mito greco che giunse a Roma attraverso gli Etruschi, e in Europa attraverso i Romani, fu poi di nuovo recuperato dal Rinascimento e dall’Illuminismo, quindi dal Romanticismo e dal Neoclassicismo. Non e’ sempre facile rintracciare le vie attraverso le quali un dato mito ellenico, nelle sue numerose versioni, si sia insinuato nella nostra cultura. Mio nonno poteva aver ereditato la storia che mi narro’ direttamente dagli Etruschi suoi antenati, mentre i nostri scrittori medievali potrebbero aver raccolto alcuni miti dalle fonti classiche conservate nei monasteri d’Irlanda e di Northumbria. Piu’ tardi vi furono le traduzioni, prima in latino, poi nei volgari di tutte le grandi lingue dell’Occidente europeo, delle opere di Omero, di Esiodo e dei grandi tragici greci. Tuttavia, nonostante i grandi temi del mito greco e i nomi dei suoi protagonisti ci siano sin troppo familiari, solo alcuni esperti saprebbero collocare storie e personaggi al loro posto giusto. Ma qual’e’ il “posto giusto”? Le versioni dei miti sono altrettanto numerose quanto gli autori che li descrissero; persinio delle origini, della paternita’ e

maternita’ degli dei e degli eroi esistono infinite varianti e versioni. Questo lavoro non vuole aggiungere nulla alla confusione, fornendo le diverse versioni classiche, bensi’ cerca di semplificare e chiarire traendo per quanto possibile da certe fonti, le piu’ antiche, le piu’ coerenti o le piu’ consuete. Pertanto ho iniziato il lavoro fornendo una versione abbastanza fedele delle origini degli dei affidandomi alla Teogonia di Esiodo, quindi, per quando concerne il carattere e i miti delle grandi divinita’, mi sono affidato sia alla stesso Esiodo, che a Omero. In alcuni casi mi sono pero’ rivolto a Ovidio poiche’ egli stesso nelle sue “Metamorfosi” cerca di dar coerenza e continuita’ alle varie tradizioni, sia pure enfasizzando il tema della trasformazione. Il risultato dovrebbe essere di qualche utilita’ proprio a chi volesse sapere chi e’ un tale personaggio e quali miti sono ad esso collegati. Oltre a divertire con le immagini da me create, questo volume dovrebbe risultare di qualche utilita’ a chi volesse riconoscere i vari personaggi del mito greco presenti, appunto, nell’arte figurativa, nella letteratura, nel dramma, nelle opere musicali di ogni tempo. G. Caselli