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Shakespeare “come piaceva”
Alcuni esempi di As You Like It sulle scene
di
Renata Savo
C’era una volta un genio incompreso
«Io vivo in Shakespeare».1
In uno dei Registres del Vieux Colombier Jacques Copeau dichiarava la
sua vicinanza al sommo poeta inglese, manifestando il suo
desiderio di instaurare con lui una sorta di legame atavico e
indissolubile. Lui, Jacques Copeau, un francese che di libri
ammetteva di averne graditi veramente pochi2 – ma che
paradossalmente era giunto al teatro proprio attraverso la
letteratura3 – nel 1914 asseriva di aver letto uno dopo l’altro
alcuni dei drammi del Bardo e di averne ricevuto in cambio «forza
e gioia».4
L’enorme successo di Shakespeare sui palcoscenici di tutto il
mondo può apparire agli occhi dello spettatore contemporaneo un1 Cfr. J. COPEAU, Registres III, Paris, Gallimard, 1979, p. 242 (lettera del 30 novembre 1914).2 «Non sono mai stato un grande lettore. Durante molti anni sono sempre stato a un passo dal mettermici. Mi ci mettevo, in cerca di una vera cultura […]. Ci sono alcuni libri, ma molto pochi, che conosco bene. Ne ignoro di essenziali. Questa ignoranza mi ha messo spesso in imbarazzo». Cfr. Journal di J. COPEAU, estate 1919, citato in ID., Il luogo del teatro. Antologia degli scritti, a cura di M. I. Aliverti, La casa Usher, Firenze, 1988.3 J. COPEAU, Artigiani di una tradizione vivente. L'attore e la pedagogia teatrale, a cura diM. I. Aliverti, Firenze, La casa Usher, 2009, p. 127.4 J. COPEAU, Registres III, cit..
dato palese, su cui oggi non avrebbe neppure senso discutere.
Eppure, è esistita un’epoca in cui William Shakespeare non era
affatto considerato universalmente il più grande poeta drammatico
di tutti i tempi. Non ancora, quel mito esistito da sempre. Molte
fonti dimostrano che in passato la drammaturgia shakespeariana
oltre agli elogi subì anche le critiche, il più delle volte
scaturite da una cattiva diffusione (cui facevano seguito pessime
interpretazioni) della sua opera grandiosa. Certo, non è stato
sempre così. O, almeno, non ovunque.
È in Francia, più che altrove, che le opere shakespeariane prima
di affermare la loro presenza nei teatri ufficiali sono state
protagoniste di una lunga e accesa diatriba, che si spense non per
una conquista reale e convincente delle tavole francesi, ma
piuttosto grazie all’affermazione di un gusto – risvegliato dalla
stessa poetica shakespeariana – tendente alla funzione
spettacolare e al forte potere d’intrattenimento del mezzo
teatrale.
La storia dell’affermazione di Shakespeare sui palcoscenici
europei, in particolare tedeschi e francesi – narrata da Mara
Fazio in Il mito di Shakespeare e il teatro romantico – cominciò intorno agli
anni Settanta del Settecento in Germania5 e si concluse in Francia
verso gli anni Trenta del XIX secolo,6 risuonando, molto più
debolmente e in ritardo, anche in Italia. Ovviamente, le origini
e, soprattutto, gli sviluppi di questa storia hanno attraversato
percorsi differenti in ciascuna nazione, quasi opposti, verrebbe
da dire, nel caso della Francia e della Germania. Mara Fazio
5 M.FAZIO, Il mito di Shakespeare e il teatro romantico. Dallo sturm und drang a Victor Hugo,Roma, Bulzoni, 1993, p. 15.6 Ivi, p. 85.
spiega come gli esiti di questa battaglia culturale siano stati
profondamente influenzati dalle diverse situazioni politiche; in
Francia, il classicismo – rappresentato dalle tragedie di
Corneille e di Racine e dalla commedia di Molière – coincideva con
la sua cultura nazionale, consolidatasi nel corso di due secoli di
monarchia assoluta, di cui rifletteva anche l’immagine
sclerotizzata. E la rivoluzione culturale sarebbe avvenuta dopo
quella politica, grazie all’influsso straniero.7 Al contrario, in
Germania, dove gli intellettuali erano «più propensi a sentirsi
come individui, parte della Natura, che come parte di una società
o di uno Stato»,8 l’unità culturale anticipò quella politica (che
avrebbe avuto luogo con l’unificazione del 1870),9 manifestandosi
nella nascita di un movimento “nazionale”, lo Sturm und Drang, il
cui spirito rivoluzionario si levava da premesse ideologiche
lontane dalle tendenze culturali francesi. Tali premesse ruotavano
intorno al concetto di Streben, termine difficile da tradurre in
italiano senza l’ausilio di più vocaboli, come “tensione”,
“ricerca continua”, ma anche autenticità, diversità, fantastico,
esaltazione dell’individuo, dell’irrazionale, desiderio di
evasione;10 una fuga non solo in senso spaziale, ma anche da canoni
estetici troppo rigidi.
Agli intellettuali tedeschi il classicismo (e il suo equivalente
filosofico, il razionalismo) calzava stretto, essendo una «cultura
del limite»,11 fondata in campo teatrale su norme precise,
avvertite come obsolete. Il rispetto delle unità aristoteliche, la
7 M. FAZIO, Op. cit., p. 14.8 Cfr. Ibidem.9 Ivi, p. 15.10 Cfr. Ibidem.11 Cfr. Ibidem.
rigorosa distinzione tra i generi, la versificazione in
“alessandrini”, la bienséance (il “buon senso”), l’ordine verosimile
degli eventi scaturito dalle azioni di personaggi “razionali”,
l’imitazione dei classici:12 tutti questi elementi, ancora
osservati alla stregua di argomentazioni bibliche o auctoritates dai
francesi, in Germania avevano finito per connotare uno stile
freddo, asettico, privo di originalità.
Proprio per il suo carattere irrazionale, ma allo stesso tempo
vicino alla Natura umana, nella quale il tragico si mescola
talvolta al comico – in un mondo popolato da “individui” e non da
esseri pensanti e agenti allo stesso modo – nonché per la sua
capacità di afferrare l’essenza della vita, Shakespeare fu, a
partire dagli anni Settanta del XVIII secolo, presto assimilato
dalla nuova, emergente classe intellettuale germanica.
In Francia, invece, il teatro di Shakespeare fu avvertito come
potenziale nemico della tradizione francese, barbaro
rappresentante di un gusto “straniero”. Un gusto non
corrispondente ai canoni estetici del classicismo cui il pubblico
francese era stato educato. Malgrado ciò, per vie traverse la
drammaturgia shakespeariana raggiunse la Francia, attraverso le
assai discutibili traduzioni e gli orribili adattamenti convertiti
alla maniera francese. La battaglia non avvenne soltanto in campo
letterario, ma anche in campo scenico: le opere shakespeariane, o
i soggetti nuovi composti sui loro principi estetici, trovarono
nei teatri non ufficiali, i Boulevard, il loro habitat naturale e
nel melodramma, il genere più idoneo a insinuare i germi della
12 Voltaire e Shakespeare, materiale didattico a cura di Mara Fazio, A.A. 2011-12.
libertà e dell’immaginazione.13 Molto tempo sarebbe trascorso prima
che Shakespeare potesse esser salutato dagli intellettuali
francesi come «la mano più potente che abbia mai scritto per il
teatro»14 e la sua poesia drammatica come «la più bella dei tempi
moderni».15 Melpomene, la musa tragica francese, avrebbe impiegato
«98 anni», scriveva Alfred De Vigny, «per decidersi a dire a voce
alta: un fazzoletto».16
Nel 1864 il francese Victor Hugo poteva esprimersi senza remore
con quegli stessi toni poetici che, quasi un secolo prima, avevano
animato gli elogi dei cugini tedeschi:
Shakespeare è la fertilità, la forza, l’esuberanza, la mammella
gonfia, la coppa spumeggiante, il tino pieno fino all’orlo, la
linfa in eccesso, la lava a torrenti, i germi in vortici,
l’abbondante pioggia di vita, tutto a migliaia, tutto a milioni,
nessuna reticenza, nessuna chiusura, nessuna economia la
prodigalità insensata e tranquilla del creatore. […] grande come
l’Iliade! […] Shakespeare, come tutti i grandi poeti e come tutte
le grandi cose, è intriso di sogno. […] È uno di quei geni
volutamente non imbrigliati da Dio perché si spingano in modo
tenace e a pieno volo nell’infinito.17
13 M. FAZIO, Op. cit., pp. 41-45.14 A. De Vigny, Lettera a Lord***, Paris, 1830, in M. FAZIO, Op. cit., p. 151.15 È. Deschamps, dalla Prefazione agli Studi francesi e stranieri, Paris, 1828, in M. FAZIO, Op. cit., p. 148.16 A. De Vigny, Op. cit, in M. FAZIO, Op. cit., p. 156.17 V. Hugo, da William Shakespeare, Paris, 1864, p. in M. FAZIO, Op. cit., pp. 161-163
Il meraviglioso nella parola!
Gli effetti emotivi del teatro shakespeariano sull’uditorio sono
stati teorizzati in Germania nel lontano 1793 da Ludwig Tieck,18
famoso soprattutto per essere l’autore di numerose fiabe
rivisitate in chiave romantica.
Tieck coglie un aspetto fondamentale della drammaturgia
shakespeariana, che consiste non, banalmente, nella violazione
delle regole classiche, ma nell’«arte infinitamente grande con cui
[Shakespeare] non fa notare l’assenza di regole».19 Grazie alla
presenza di alcuni elementi, le sue opere procurano al lettore – e
al pubblico – sensazioni che sono assimilate dall’autore tedesco
al concetto di “meraviglioso”: la capacità di creare già
all’interno del testo l’illusione scenica. Non si dimentichi,
infatti, che nel teatro elisabettiano la scenografia era molto
scarna, quasi assente, e il potere illusionistico era affidato in
maggiore misura alla parola. Come ricorda Masolino d’Amico, a
proposito delle opere di Shakespeare, in particolare, quelle in
cui i luoghi sono maggiormente connessi all’azione (per esempio,
Come vi piace, che ci interesserà da vicino):
È vero che anche nelle sue opere le descrizioni sono più rare di
quanto possa venir fatto di credere, soprattutto quando si
associano nella memoria certe scene, se non addirittura certi18 L. Tieck, Il meraviglioso in Shakespeare, Berlin-Leipzig, 1796, in M. FAZIO, Op. cit., pp. 91-113.19 Ivi, p. 91.
drammi nella loro interezza (Come vi piace, Sogno di una notte di mezza
estate, Tempesta) a determinati ambienti indissolubilmente connessi
all’azione; ma attribuire la creazione di tali ambienti totalmente
o prevalentemente all’uso di elementi scenici, visivi, significa
sottovalutare l’importanza dell’uso shakespeariano della
scenografia verbale, ovvero della parola come creatrice di
illusione. Tale uso non si limita affatto alla descrizione diretta
e più o meno poetica della scena che si vuole proporre alla
fantasia degli spettatori, ma si articola attraverso tutta una
serie di espedienti anche indiretti o perfino subliminali,
impressionante per varietà, discrezione ed efficacia […]20
Tieck aveva analizzato proprio quegli “espedienti anche indiretti
o perfino subliminali” citati sopra, rintracciando la loro matrice
nella semplicità delle rappresentazioni popolari, rese nobili
dalla sensibilità del poeta:
[Shakespeare] ha sposato la fantasia popolare ma ha anche voluto
nobilitare e raffinare la sensibilità. In questa unione ha
nobilitato la superstizione comune elevandola alla più bella
finzione poetica, ha escluso da essa gli elementi infantili e
insulsi senza togliere però quell’elemento strano e avventuroso
senza il quale il mondo dello spirito si avvicinerebbe troppo alla
vita quotidiana.21
Il poeta tedesco opera, all’interno del suo saggio, anche una
distinzione tra le commedie e le tragedie, dove individua
differenti qualità (e quantità) di “meraviglioso”.22 Come esempi20 Cfr. M. D’AMICO, Scena e parola in Shakespeare, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2007, pp. 54-55.21 Cfr. L. Tieck, Op. cit, in M. FAZIO, Op. cit., p. 92.22 Sull’uso del fantastico e nel funzionamento del meraviglioso nelle tragedie di Shakespeare rimando allo stesso saggio (ivi, pp. 105-113).
comici di somma meraviglia nomina La tempesta e Sogno di una notte di mezza
estate. Non sarebbe sbagliato, forse, aggiungere ad esse anche Come
vi piace (unendoci, in qualche modo, alla tesi di Masolino d’Amico),
in cui ugualmente il meraviglioso si dispiega in tutte le scene
ambientate nella Foresta di Arden, dove i personaggi sono immersi
in uno scenario idilliaco, lontano dalla realtà; scene in cui
l’attenzione del lettore resta sulla soglia tra l’illusione di un
mondo possibile, basato su presupposti diversi da quelli sociali,
e il distacco dai nodi centrali dell’azione, che avanza a fatica
per la presenza di numerosi personaggi secondari.
All’interno delle commedie, e in particolare delle due opere sopra
citate, Tieck riconosce principalmente quattro fattori che
concorrono a produrre il “meraviglioso”. In primis, la durata
dell’illusione che coincide con la durata del dramma (per questo,
probabilmente, non viene citato Come vi piace, non essendovi
l’illusione costante):
1. Attraverso la rappresentazione di un intero mondo meraviglioso
che faccia sì che l’anima non ritorni più nel mondo dei mortali e
che non si interrompa l’illusione. […] L’illusione più squisita
nasce perché durante l’intera durata del dramma rimaniamo sempre in
questo mondo meraviglioso in cui una volta siamo stati condotti e
nasce, ancora, perché nessun particolare contraddice le condizioni
in cui ci siamo abbandonati una volta all’illusione;23
2. La messa in moto di effetti non troppo forti o improvvisi
sull’emotività del lettore, insieme a una loro distribuzione
omogenea all’interno della commedia, in cui la monotonia è evitata
grazie alla varietà dei personaggi:
23 Cfr. Ivi, pp. 93-95.
Per rendere il meraviglioso realmente capace di illudere non
sembrano importanti la quantità e l’effetto ininterrotto degli
esseri soprannaturali, risulta invece indispensabile la
molteplicità degli esseri rappresentati. […] Ma nell’intero dramma
il poeta evita con cura gli alti gradi, gli estremi delle passioni.
[…] il poeta mitiga ogni forma di eccitamento, non permette mai che
la tensione emotiva dello spettatore raggiunga un grado troppo
alto, non vuole scuoterci a fondo in nessun momento […].24
3. L’uso del comico, che riesce a mantenere viva l’illusione
attraverso la perdita momentanea della nostra concentrazione dagli
elementi più accattivanti; anche in gradazioni differenti, il
“meraviglioso” diventa tanto più efficace se si realizza proprio
nella varietà dei personaggi, come avviene ne La tempesta, in cui
sono esseri completamente comici Stefano e Trinculo, ma dove anche
all’orribile Calibano, proprio in virtù della sua bizzarra
mostruosità, viene talvolta assegnato il ruolo di personaggio
“comico”:
[…] sono in particolare le scene comiche quelle in cui il poeta
disperde la nostra attenzione e dove fa sì che noi non fissiamo uno
sguardo troppo fermo e scrutante sugli esseri della sua
immaginazione […] Il ridicolo qui non intende rafforzare il
terribile, ma principalmente accrescere la varietà degli esseri che
tengono occupata la fantasia.25
Infine, ma non meno importante, è la presenza della musica, di cui
è nota sin dall’antichità lo straordinario potere nel muovere gli
affetti:
24 Cfr. Ivi, pp. 94-95.25 Cfr. Ivi, p. 103.
[4.] Attraverso i suoni la fantasia viene anticipatamente sedotta e
la ragione più severa viene addormentata; […] Shakespeare non fa
mai tacere la musica nel dramma, conosceva troppo l’influenza che
l’arte dei suoni esercita sugli animi.26
Leggendo il suo saggio, ci si accorge che Tieck dedica poco spazio
all’elemento più importante, e cioè, la parola: l’immediatezza del
suo significato, la naturalezza con cui il poeta è stato capace di
dipingere (e la metafora non è casuale, essendo stata utilizzata
da Hugo per descrivere la capacità di Shakespeare più che di
raccontare, di «rendere visibile»)27 i dialoghi tra i personaggi.
Ai tempi di Shakespeare la parola doveva essere lo strumento più
adatto a mantenere costante l’illusione, una parola conservata,
dov’era necessario, fedele alla vita. Shakespeare scriveva tenendo
bene a mente la finalità dei suoi drammi, prodotti non per essere
contemplati sulla carta stampata, ma per la scena – anche se ai
puristi apparve difficile crederlo, per la presenza nel testo di
cambiamenti repentini di tempo e di luogo. I puristi non avrebbero
mai potuto prendere in seria considerazione le parole di Tieck.
Soltanto qualche francese meno attempato come Alfred De Vigny, sul
finire degli anni Trenta dell’Ottocento, dimostrò di aver colto
fino in fondo il senso di quell’operazione culturale che in
Francia era stata quasi portata a termine, e invitò i puristi a
comprendere la preziosa differenza che separa il linguaggio
forbito di Shakespeare dagli inutili orpelli classici, buoni
soltanto ad annoiare:
26 Cfr. Ivi, p. 105.27 «Shakespeare è […] un pittore colossale. Il poeta in effetti fa più che raccontare, rende visibile». Cfr. V. Hugo, Op, cit., in M. FAZIO, Op. cit., p. 161.
È soprattutto nel dettaglio dello stile che potrete giudicare la
maniera della scuola cortese che oggi ci annoia in modo così
perfetto. Non credo che uno straniero possa arrivare facilmente a
comprendere a quale grado di falsità fossero giunti versificatori per la
scena, non voglio chiamarli poeti. Per darvi qualche esempio tra
centomila, quando si voleva dire spioni si diceva: «Quei mortali il
cui stato garantisce la sorveglianza». Vi rendete conto che solo
un’estrema cortesia verso la corporazione degli spioni ha potuto
dar luogo ad una perifrasi così elegante, e che coloro tra quei
mortali che per caso si trovassero nella sala ne sarebbero
sicuramente riconoscenti. […]28
Per questo motivo, anche se a differenza di altre commedie in Come
vi piace sono assenti elementi fantastici o straordinari – intendendo
come tali, ad esempio, le figure di Ariel o Calibano o la magia di
Prospero – l’opera conserva un suo fascino peculiare, assimilabile
al meraviglioso teorizzato da Tieck, coltivato dal poeta
attraverso l’ironia, lo stile eufuistico, le sciarade, le
ambiguità del linguaggio oltre che dei mascheramenti di genere;29
elementi che fanno di essa molto di più di una semplice e ingenua
commedia, come spesso è stata giudicata e come dimostra il
seguente estratto, da una recensione di una versione realizzata da
Jacques Copeau, andata in scena nel 1938 ai giardini di Boboli di
Firenze, per la rassegna del Maggio Fiorentino:
“Come vi garba” non è commedia così fantasiosa e fiabesca come il
“Sogno”; i suoi personaggi vivono la vita di tutti i giorni; niente
28 A. De Vigny, Op. cit., in M.FAZIO, Op. cit., p. 153.29 La commedia di Shakespeare, infatti, ha come fonte un’opera di Lodge, Rosalind, Euphues’ Golden Legacy, che imitava a sua volta lo stile complesso di Lily, chiamato “eufuistico”. M. HATTAWAY, Introduction, in W. SHAKESPEARE, As You Like It, edited by Michael Hattaway, The New Cambridge University Press, 2000, p. 13.
che oltrepassi il sensibile; un principe spodestato che vive coi
suoi amici nella foresta dove ha formato una specie di Corte
rustica, ricca di attrattive naturali; una ragazza Rosalinda (sua
figlia) che cacciata anche lei in esilio dal Duca usurpatore se ne
va alla ventura nel bosco, accompagnata dalla fedele amica Celia,
figlia dell’usurpatore stesso. […] Nulla di straordinario, dunque.
La commedia è semplice e, si direbbe, se non potesse sembrare
irriverente, ingenua.30
Di questa leggerezza, però, si parlerà più avanti. Ora è meglio
inabissarsi nel discorso sulla sua fortuna scenica.
Una cronistoria della fortuna scenica di As You Like It
LONDRA. ANNO 1600 ca. – È una delle primissime volte, forse la prima
in assoluto, che il Globe spalanca le sue porte. La sua bellissima
struttura, a forma di “wooden O”, viene inaugurata da As You Like It di
William Shakespeare…31 No, di quest’informazione non si hanno
notizie certe; tuttavia, gli studiosi concordano nel datare la
produzione della commedia al 1600,32 durante lo stesso periodo di
apertura del teatro.
Da una lettera del 1603 emerge chiaramente un’occasione in cui la
commedia andò in scena.33 Durante le festività natalizie, poco dopo
la morte della Regina Elisabetta, la compagnia dei King’s Men si
30 C. GIACHETTI, Stasera: Shakespeare in Boboli, «Gazzetta del popolo», 1 giugno 1938.31 M. HATTAWAY, Op. cit., p. 13.32 Ivi, p. 43.33 Ibidem.
esibì davanti al nuovo sovrano d’Inghilterra, Giacomo I Stuart,
proprio con As You Like It.
In seguito a questa data, però, non sono pervenute ai posteri
altre registrazioni in cui il nome della commedia compaia legato a
rappresentazioni in ambito professionale, prima del 1740. Fatta
eccezione per un pallido adattamento che risale al 1723;34 un testo
riscritto da Charles Johnson, dal titolo Love in a Forest, fu
rappresentato al Drury Lane. Una versione in cui l’autore spazzò
via, com’è prevedibile, tutti i personaggi non essenziali: Pietra
di Paragone, Aldrina, Martext, Corinno, Febe, Silvio e Guglielmo.
E analogamente a un’operazione che avrebbe commesso Ducis in
Francia – ben settanta anni dopo35 – con la sua traduzione di Otello,
dove lo strangolamento di Desdemona sarebbe stato sostituito da un
colpo di pugnale,36 Johnson inserì un duello a spade al posto della
“volgare” lotta a mani nude tra Orlando e Carlo.37
Il testo non manomesso arrivò finalmente sulle tavole del Drury
Lane tra il 1740 e il 1741: in questi anni, dunque, sono
documentati i primi segni di stima verso Shakespeare nella veste
di commediografo.38
Nello stesso teatro, dal 1776 al 1817 As You Like It era l’opera
shakespeariana più rappresentata in assoluto, dove si esibirono in
quel periodo attrici molto apprezzate dal pubblico. Ne siamo a
conoscenza anche perché qualcuna di loro non disdegnò di sfogare
34 Ivi, pp. 45-46.35 Questo ritardo ci dà una misura di come la Francia perseverasse nel suo atteggiamento anti-shakespeariano.36 J. F. DUCIS, Othello (1792), Materiale didattico a cura di Mara Fazio, A.A.2011-12.37 M. HATTAWAY, Op. cit., in W. SHAKESPEARE, Op. cit, pp. 45-46.38 Ibidem.
con qualche critico il suo dispiacere per l’indecenza androgina
del proprio costume, su cui le connotazioni di genere venivano
annullate, per ragioni di pudicizia.39
Nei Paesi non anglofoni, per motivi culturali, non si è avuta
traccia di versioni aderenti al testo prima del XIX secolo. A tal
proposito, ne sono esistite due degne di nota: Comme il vous plaira
(1855-1856) di George Sand – che ha inaugurato la rappresentazione
della commedia shakespeariana nella Comédie-Française – dove
Jacques cedette il suo lato malinconico per diventare l’eroe della
commedia e il corteggiatore di successo di Celia. L’altro
adattamento, più o meno simile, è una versione norvegese per la
quale fu coinvolto nella stesura del testo Henrik Ibsen, una sorta
di comédie-vaudeville, scritta per la compagnia del Norwegian Theatre
nel 1855.40
Nel XIX secolo cominciarono a fare la loro comparsa
interpretazioni più ardite: furono sperimentati tentativi di
trasformazione della commedia in una sorta di melodramma,
aumentando i contenuti musicali al suo interno. Come le versioni
montate da Frederic Reynolds su musiche di Henry R. Bishop e
Thomas Arne, che utilizzavano anche canzoni di altre commedie e
sonetti shakespeariani convertiti in musica.41 Nello stesso
periodo, altri adattamenti violavano la semplicità del teatro
elisabettiano. Numerose comparse, e alberi sorprendentemente
realistici, iniziarono ad affollare – nel nome della
verosimiglianza – i palcoscenici dei teatri londinesi più
importanti, tra cui il Covent Garden. Così, per molto tempo il
39 Ivi, p. 47.40 Ibidem.41 Ibidem.
successo della commedia si sarebbe basato quasi esclusivamente
sulla sua spettacolarità e sulla quantità di denaro messa a
disposizione dai suoi produttori.42 Fatta eccezione per G. Bernard
Shaw, che si oppose alla tendenza prevalente nell’Ottocento di
alterare la natura del testo (diventato quasi un melodramma a
tutti gli effetti), per enfatizzare «il profondo sentimento
evocato da un paesaggio silvestre e pastorale».43 Forse, però, non
fu l’unico a rimanere colpito da questo particolare aspetto
sotteso al testo, se è vero che a Manchester qualcuno pensò
addirittura di far collocare sul palcoscenico un branco di cervi.44
In quel periodo, correva anche la moda di rappresentare lo
spettacolo all’aperto,45 un’usanza che ha trovato conferma anche
nel Novecento. Un esempio di questo tipo è dato dalla regia di
Jacques Copeau del ‘38 – citata in precedenza – presso i giardini
di Boboli di Firenze, adattamento che rendeva omaggio al luogo,
nella traduzione di Paola Ojetti46 dal titolo convertito in un
toscano Come vi garba. Una rappresentazione, a detta di un critico
presente alle prove, che dovette essere molto spoglia, in linea di
pensiero con il passato, e con la scuola, quindi, del Vieux
Colombieu; dove Copeau aveva insegnato che «la gioia degli occhi»
poteva essere «assolutamente indipendente dal costo» dello
spettacolo:47
42 Ivi, pp. 47-50.43 Cfr. Ibidem.44 Ivi, p. 50.45 Ibidem.46 Dieci anni dopo la sua traduzione sarebbe stata utilizzata da Luchino Visconti, per la sua memorabile Rosalinda o come vi piace. Fonte: http://www.luchinovisconti.org/pagine/opere_1_vis/scheda.asp?id_opera=38&id_genere=5. Verificato il 01.06.2012.47 I. ALIVERTI, Jacques Copeau, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 73.
Copeau ha voluto metterla a contatto diretto del pubblico,
senza velarla di orpelli, senza allontanarla nello spazio. Un
semplice cortile, una scenografia elementare, pochi alberi gli
sono stati sufficienti. Il risultato dirà se ha avuto ragione.
Come dice Rosalinda nell’Epilogo “il buon vino non ha bisogno
d’insegna”, Copeau non ha cercato nessuna insegna all’ombra
della quale mettere il nome del gran Will; la commedia deve,
secondo lui, vincere coi suoi propri mezzi, con la poesia che
vi è profusa a piene mani, con la dialettica sottile, con la
piacevolezza del dialogo, con la profondità del suo
pensiero.48
Shakespeare e il Novecento: l’esempio di Luchino Visconti
Agli albori del Novecento, ancora si registravano allestimenti
ispirati al gusto realista che non lasciava spazio
all’immaginazione dello spettatore, presupposto fondamentale su
cui si basava la poetica del teatro shakespeariano. Uno strato di
foglie verdi e color ruggine ricopriva il palcoscenico fino
all’altezza delle caviglie, nella realizzazione curata per la
prima volta da Sir Frank Benson nel 1910, dove gli interpreti
potevano ostentare strascicamenti o addirittura inciampare.49 Il
primo storico tentativo di spezzare le catene dell’illusione
scenica fu eseguito da Nigel Playfair nel 1919, prima a Stratford
48 C. GIACHETTI, Stasera… art. cit..49 M. HATTAWAY, Op. cit. in W. SHAKESPEARE, Op. cit., p. 51.
e poi a Londra (al Lyric Theatre); qui restava intatta la
preferenza per uno Shakespeare più “operistico”, ma «i musicisti
erano visibili sul palcoscenico, e le sue emblematiche scene
medievali-cubiste con i costumi nei colori primari (di Claude
Lovat Fraser) furono violentemente attaccate da alcuni critici per
le loro qualità “futuristiche”».50
Un esperimento simile ma calato in un Settecento surrealista,
anziché in un Medioevo futurista, avrebbe avuto luogo anche in
Italia quasi quarant’anni dopo, anche qui suscitando reazioni
violente; a dimostrazione del fatto che l’Italia, con la
drammaturgia shakespeariana, era davvero rimasta indietro rispetto
al resto d’Europa. Questa versione fu portata in scena il 26
novembre 1948 al Teatro Eliseo di Roma, da Luchino Visconti:
Rosalinda o come vi piace. Per lei vale la pena spendere qualche parola
in più.
Al di sopra d’ogni cosa, fece scalpore il fatto che un regista che
al cinema sembrava aver imboccato la strada del neorealismo – e a
teatro quella di un naturalismo di stanislavskijana memoria –
avesse scelto improvvisamente di abbandonarla per rifluire nello
spettacolo sfarzoso e disimpegnato. Oltretutto, proprio subito
dopo aver girato un film come La terra trema, Visconti affidò la cura
delle scene e dei costumi a uno dei geni più visionari della
terra: Salvador Dalì. Una decisione “insolita” che fece passare
alla storia Rosalinda o come vi piace come un mero esercizio di stile, un
errore di percorso nella carriera di Luchino regista teatrale.
Commenti simili a questo, oltrepassarono i confini italiani:
50 Cfr. Ibidem.
La combinazione tra un regista realista e un pittore surrealista
che ha voltato le spalle al surrealismo fece ottenere il peggio di
entrambe le cose.51
Gerardo Guerrieri, il dramaturg della compagnia di Visconti – al
quale Rosalinda non piacque affatto – condivideva il parere di un
critico, che offriva una spiacevole descrizione dei fondali
dipinti dall’artista spagnolo:
«In Rosalinda per il settecento futuribile [Visconti] si era servito
della collaborazione con Dalì che “si era scapricciato con quegli
elefanti a zampe d’insetto come palloni nell’etere, e il tempio
palladiano della corte che esplode in quattro, certo l’atomo,
mostrando il nucleo-pomo del paradiso terrestre”».52
Gli elefanti, cui il critico faceva menzione, furono ispirati (o
“ritornati in mente”)53 molto probabilmente all’artista da una
visita al Parco dei Mostri di Bomarzo, avvenuta proprio sedici
giorni prima dello spettacolo.54 L’associazione elefante-insetto su
uno dei fondali di Rosalinda non era casuale, ma simbolica:51 Ibidem.52 G. GUERRIERI, Visconti verso Cechov, in ID., Il Teatro di Visconti, a cura di Stefano Geraci, Roma, Officina, 2006, p. 153.
53 «[L’immagine dell’elefante] comparve per la prima volta nell'opera del1944 Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio.L'elefante [presente anche in La tentazione di Sant’Antonio, 1946] è ispirato alpiedistallo di una scultura di Gian Lorenzo Bernini che si trova a Roma[a piazza della Minerva] e rappresenta un elefante che trasporta unantico obelisco». http://www.inmsol.es/corsi-spagnolo-spagna/larte-di-salvador-dali.html. Verificato il 01.06.2012. Per una curiosaassociazione, anche l’atomo “diviso in quattro” di cui si parla nelladescrizione ricordata da Guerrieri è una citazione di un’altra operadell’artista – Dematerializzazione del naso di Nerone (1947) – che appartienealla fase del “misticismo nucleare”, successiva alla seconda guerramondiale. http://it.wikipedia.org/wiki/Salvador_Dal%C3%AD. Verificato il01.06.2012.54 http://salvadordali.forumattivo.com/t309-i-viaggi-di-dali-in-italia#bottom. Verificato il 01.06.2012.
«l'elefante rappresenta la distorsione dello spazio […] le zampe
lunghe ed esili contrastano l'idea dell'assenza di peso con la
struttura»;55 si trattava, dunque, di un gioco linguistico fatto
nel campo della pura irrealtà, proprio com’è irreale l’immagine
della Foresta di Arden, diventata per la corte del buon Duca lo
scenario ideale per un mondo idealizzato.
Come detto in precedenza, però, la commedia di Shakespeare aveva
sempre sofferto di giudizi negativi, ritenuta da molti un lavoro
poco brillante, ingenuo, non all’altezza di altre opere
shakespeariane, soprattutto per la presenza di troppi personaggi,
un intreccio complesso e un ritmo dell’azione molto lento in
alcuni punti.
Luciano Lucignani, recensore dello spettacolo su «L’Unità»,
collegava la scelta dell’artista spagnolo, quindi, al desiderio
del regista di riportare in scena un’opera che aveva perduto da
troppo tempo, ormai, la sua suggestione. Tale suggestione andava
“reinventata” dal regista, per offrire ai contemporanei la
bellezza visiva e spettacolare implicita nel testo. E l’unica via
possibile per rendere attuale la bellezza del testo era adeguarla
al gusto novecentesco. Per questo Visconti si servì di un artista
vivo, visionario, con del talento da vendere per le scene come
Dalì:
[…] Diciamo cioè che accusare Visconti, come i leggeri dissensi
durante e dopo lo spettacolo di ieri sera tendevano a dimostrare,
di aver usato il testo a pretesto per musiche, balli e luci, era
accusa che se mai andava legata al fatto stesso di avere scelto
questa commedia; essa aveva per i suoi contemporanei, una
55 http://www.inmsol.es/corsi-spagnolo-spagna/larte-di-salvador-dali.html. Verificato il 01.06.2012.
suggestione che in qualche modo bisognava reinventare. Può darsi
che Visconti abbia ecceduto in questo, particolarmente servendosi
dei costumi e delle scene di Salvador Dalì, che peraltro egli
doveva aver molto controllato, se la scena appariva così poco
distante dal suo gusto, ma anche questo è un errore che va preso
tutt’insieme con le virtù di questo regista. […] A detta di critici
che lo videro, il “Come vi piace” di Jacques Copeau, realizzato nel
giardino di Boboli, a Firenze, una dozzina d’anni fa, era piuttosto
inferiore. E a coloro che dicono “ma è stato ucciso Shakespeare”
vorrei proporre d’andarsi a rileggere la commedia nel testo;
vedranno quant’essa è a volte sì, deliziosa, fresca, leggera, ma
anche spesso ferma, pesante, noiosa…56
Lo stesso regista avrebbe ricordato ai critici quale dovesse esser
stata la funzione della commedia ai tempi di Shakespeare: quella
di dilettare la corte della Regina Elisabetta che, si narra, trovò
la commedia abbastanza noiosa e richiese all’autore di inserirvi
musiche, canzoni e danze, le cui indicazioni sono contenute nel
testo. Per tale motivo, era impossibile parlare di “purezza
infranta” oppure di mancanza di fedeltà al testo, anzi. Il regista
sfidava chiunque a realizzare uno spettacolo altrettanto fedele a
Shakespeare, dichiarando che la sua interpretazione non solo era
la più fedele che gli fosse mai riuscita di un testo, ma
addirittura quella più fedele che si fosse mai vista sulle scene:57
56 Luciano Lucignani citato in L. VISCONTI, Rosalinda o Come vi piace, in Il mio teatro (1936-1953), a cura di Caterina d’Amico de Carvalho e Renzo Renzi, vol. I, Bologna, Cappelli, 1979, p. 132.
57 «Coloro infatti che hanno assistito allo spettacolo con mente sgombrada preconcetti, si accorgono che, per quanti difetti ci possano trovare,la mia interpretazione è la più fedele che si possa tentare diquest’opera di Shakespeare. Dirò di più, ritengo che sia la più fedeleche mi sia mai riuscita di un testo». Cfr. L.VISCONTI, Sul modo di mettere in
[…] Giacché, sia vero o no l’episodio della Regina Elisabetta che,
alla prima di As you like it si sarebbe annoiata e avrebbe imposto
all’autore musiche, canzoni, danze, sono vere, comunque sono le
indicazioni che dà lo stesso testo di Shakespeare. Il quale è una
fèerie, un concerto musicale, al confine col balletto; i suoi
personaggi sono, nel dialogo o negli atteggiamenti, musica e danza;
le avventure della storia sono, nel campo della più assoluta
libertà, quindi.58
Sostenendo la possibilità insita nel testo di poter lavorare con
assoluta libertà, come d’altronde suggeriva il titolo stesso
dell’opera, Visconti stravolse l’epoca in cui le vicende sono
ambientate e le calò in un Settecento fiabesco, surreale ed
immaginario. L’atmosfera in cui i personaggi sono avvolti nella
commedia, infatti, è quella di un mondo “altro” rispetto alla
corte e al presente di Shakespeare, un microcosmo “meraviglioso”–
per usare un termine caro a Tieck – che si prospettava come un
futuro auspicabile; sopra la realtà e, quindi, “surreale”. Silvio
d’Amico, sorpreso positivamente dal lavoro di Visconti,
evidenziava la funzione della scenografia come surrogato dei
valori lirici del testo – come nel famoso monologo pronunciato da
Jacques, “Tutto il mondo è un palcoscenico…” – che, rappresentati
in un'altra lingua e in un’altra epoca (quella coeva al regista),
finivano inevitabilmente per andare perduti:
Per quali vie le vicende della fiaba, tra farraginosa e puerile,
diventano canto e danza? Che significano i sospiri dell’eroe? A che
mirano i commenti di Pietra-di-paragone, il buffone? Qui è il
scena una commedia di Shakespeare, in «Rinascita», dicembre 1948. 58 Ibidem.
segreto ineffabile del dramma, tenero e ironico, gaio e accorato. E
di qui nasce il problema del regista intento a tradurre la sua
poesia, non solo a un altro tempo, ma in un altro idioma: che vuol
dire, in una versione dove i valori lirici che danno incanto alla
lettera del testo vanno irrimediabilmente perduti. […] Alla quale
impresa, realizzata con un fasto fino a oggi sconosciuto nella
nostra scena di prosa, lo ha sostenuto Salvador Dalì coi suoi
costumi d’un barocco filtrato al gusto novecentista […]59
Anche Giovanni Calendoli, per «Scenario», poneva l’accento sugli
elementi visivi e sonori che Visconti utilizzava in tutte le forme
possibili a sostegno della parola, sulla scia della
spettacolarizzazione della commedia in voga durante il XIX secolo.
I contorni onirici e simbolici della scena di Dalì sembravano
comunicare allo spettatore «come nella perfetta felicità, tutto
quanto solitamente più urge ed affligge debba assumere la
gradevole inconsistenza di un gioco che non ferisce»:60
Le intenzioni di Luchino Visconti sono rivelate dalla stessa scelta
del testo: egli ha voluto divertirsi sulle orme dell’itinerario
shakespeariano, ricostruendo l’immagine della meravigliosa foresta
come un’immagine di felicità perduta, come la memoria di un mondo
dove gli uomini si sciolgono dai vincoli dell’odio, della lotta e
del sangue per conquistare l’ineffabile levità di un’esistenza
senza amarezze, tutta protesa verso l’irrazionale incantesimo di un
sogno perenne. Lo spettacolo è perciò un divertimento nel senso
letterale della parola: tutti gli spunti sono stati colti dal
regista per divergere dal filo conduttore dell’azione già
tenuissimo ed intrecciargli intorno i più capricciosi disegni:
59 Silvio d’Amico citato in L.VISCONTI, Il mio teatro, cit., vol. I, p. 128.60 Giovanni Calendoli citato in Ivi, p. 130.
canti, danze, pantomime, apparizioni e sparizioni di luoghi e di
personaggi.61
La metafora del gioco e del sogno, d’altronde, era marcata dallo
stesso regista. Visconti ha sempre parlato della sua Rosalinda in
termini di «giuoco fantastico», «sogno irreale», nonché
«variazione su un tema d’amore».62 Ma, soprattutto, a distanza di
quasi vent’anni ne avrebbe ricordata la straordinaria bellezza
visiva, al punto da definirlo uno “spettacolo da godere con gli
occhi”:
Quando presentai Rosalinda di Shakespeare sapevo che doveva essere
uno spettacolo soprattutto da godere con gli occhi. Mi ricordo che
perfino Togliatti, dopo essere venuto a teatro, scrisse un articolo
per sostenere l’esattezza dell’interpretazione e la necessità di
dare certi testi in maniera apertamente visiva.63
Un altro aspetto che spiega l’interpretazione viscontiana del
testo è da rintracciarsi in un atteggiamento ricorrente che il
regista mostrava nel trattare i classici; si sentiva come attratto
in maniera diversa dai classici del passato rispetto alla
letteratura più recente. In entrambi i casi, il testo per lui
rimaneva un punto di riferimento imprescindibile, e ciò valeva al
cinema come a teatro, anche se in quest’ultimo caso il regista si
sentiva, certo, più limitato nelle sue possibilità.
61 Giovanni Calendoli citato in Ibidem.62 L. VISCONTI, Sul modo di mettere in scena… art. cit..63 L. VISCONTI, Vent’anni di teatro, in Il mio teatro … cit..
Eppure, come ha affermato Nadia Palazzo, «la sperimentazione
testuale consente al regista un fruttuoso confronto con moduli
drammaturgici eterogenei», che variano a seconda della vicinanza
con il presente. Ne risultava una sorta di “dualismo
interpretativo”,64 per cui Visconti preferiva adoperare un
linguaggio immediato e uno stile fortemente realista per il
repertorio coevo americano e francese, mentre guardava con aria
trasognata ai testi che sentiva distanti nel tempo, per i quali si
servì di una maggiore spettacolarità, come ha osservato Paolo
Puppa:
[…] se il repertorio americano o francese più recente e coevo
coinvolge Visconti in un’immediatezza di vita quotidiana e in un
forte investimento emotivo, quello antico consente viceversa un
raffreddamento ironico, tanto che si possono articolare i timbri
del regista in due categorie umorali: i testi vicini nel tempo, coi
corpi ben presenti in una scena trasformata nel luogo del
desiderio, della sofferenza e della protesta sociale, e quelli che
al contrario sfuggono al destino e richiedono una diversa natura,
l’«aura» di un gioco trasognato e incantatorio, il lusso e lo
spreco, i fasti dell’immagine e del suono.65
Lo stesso Visconti affermava in un articolo su «Rinascita» in
difesa alle accuse mossegli contro per aver “abbandonato” il
neorealismo – questa «assurda etichetta appiccicata addosso come
un tatuaggio» – che al cinema come a teatro aveva sperimentato
proprio il neorealismo «fin dove era possibile farlo»;
64 AA.VV., Op. cit., p. 38.65 P. PUPPA, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Bari, Laterza, 1990, p. 50.
[...] il teatro ha limiti e differenziazioni che non gli ho
scoperto io. Pure, nell’unico quadro dell’arco scenico, lasciamogli
intatte le sue possibilità di movimento, colore, luce, magia. Non
realismo o neo-realismo; ma fantasia, completa libertà
spettacolare.66
Introducendo alcuni ricordi su Il matrimonio di Figaro, Gerardo Guerrieri
ha notato come, in particolare per Rosalinda, Visconti avesse fatto
leva «su tradizioni culturali più ampie e in contrasto con
l’occasione o l’obbligo della messa in scena»67 perché sembrava
aver piena consapevolezza del fatto che «i classici non sono
affatto nostri contemporanei o lo sono solo nel momento in cui
possono alludere alla storia fatta con i se: gonfi di futuro, ci
trascinano verso un vuoto attraente».68
La recitazione degli attori, poi, in Rosalinda era un
riverbero della visualità dei costumi settecenteschi, progettati
dall’artista con un eccesso di stile e di colore, in armonia con i
fondali dipinti, luminosi e sgargianti. La figura dell’attore si
trasformava anch’essa in elemento visivo e, schiacciando la sua
immagine sullo sfondo, si rendeva parte di quel quadro vivente che
è la scena. Per far vivere il personaggio, l’attore deve, però,
liberare i suoi movimenti quasi fino a danzare, per adeguare il
suo corpo alla fisicità surreale dei fondali.66 L. VISCONTI, Sul modo di metter in scena… art. cit..67 G. GUERRIERI, Visconti verso Checov, cit..68 Cfr. Ibidem. Queste parole rappresentano, infatti, la parafrasi dialcuni versi pronunciati proprio nella commedia, da Jacques ilmalinconico (atto II, scena iii): «Chi condannasse l’umana vanità,accuserebbe forse questo o quello? Forse che non si gonfia da se stessa,la vanità, immensa come il mare, finché gli stessi mezzi onde si nutrenon le restano a secco col riflusso?». W. SHAKESPEARE, Come vi piaccia,trad. a cura di G. Ramponi, edizione elettronica, 2001, p. 52.
Alla recitazione degli interpreti fa riferimento Giovanni
Calendoli su «Scenario»:
E di un sapore vagamente settecentesco è la stessa recitazione di
tutti i personaggi, leziosa, manierata, scorporata dal peso di
sentimenti che ogni parola porta con sé […] Luchino Visconti ha
voluto molto evidentemente raggiungere, oltre ogni pretesto umano e
polemico, un ritmo di teatralità pura.69
«E rilegga il “Paradosso sull’attore comico”» di Diderot, risponde
Palmiro Togliatti all’autore di una recensione che stroncava
Rosalinda, impedendone la pubblicazione su «Rinascita». Non sappiamo
cosa vi fosse scritto in quella recensione, ma probabilmente
rimproverava «al campione del neorealismo», spiega Nadia Palazzo,
«che veniva appunto da una sorta di manifesto come La terra trema, di
aver abbandonato quel territorio per rifluire in quello dello
spettacolo sfarzoso e disimpegnato».70 Il leader storico del PCI,
dunque, interviene in difesa di Visconti perché, spiega, «un
intellettuale nostro amico e di tendenze progressive» non può
esser criticato solo per «un dissenso sulla rappresentazione di
una commedia di Shakespeare – tema opinabile in sostanza».71
“Tema opinabile”, questo è certo: Luchino Visconti altro non ha
fatto che parafrasare il titolo dell’opera di Shakespeare. Fedele
al testo dall’inizio alla fine.
E se è stato l’aspetto visivo un po’ barocco a provocare tanto
chiasso, Visconti risponde ai suoi detrattori che è Shakespeare in69 Giovanni Calendoli citato in L. VISCONTI, Il mio teatro, Op. cit., vol. I,p. 130.70 AA.VV, Luchino Visconti e il suo teatro, a cura di Nadia Palazzo, Milano, Bulzoni, 2006, p. 84.
71 Ibidem.
primis a dire che la commedia dev’esser fatta “come vi piace”. Il
poeta sembra, infatti, comunicare ai posteri “Immaginatela dove
volete, nella foresta di Arden, oppure nelle Ardenne francesi”,
non importa. Ciò che conta è che piaccia e che diletti il pubblico
con la sua frivolezza. E qui, l’immaginazione doveva diventare
tutto. Nella fiducia nel potere immaginifico e senza tempo di
Shakespeare risiedono le ragioni della maestosità della regia
viscontiana:
Quanto al criterio della rappresentazione, perché scegliere il
settecento, quando l’opera è nata a cavallo tra il cinque e il
seicento? Risponderò con altre domande, che sono i quesiti che io
stesso mi sono proposti prima di iniziare. Mi conviene «la fedeltà
storica»? A chi servirebbe la riproduzione storica di uno
spettacolo come si è svolto nell’epoca – ammesso che questo si
possa fare mente invece, e ugualmente nel caso della Commedia
dell’Arte, è impossibile? – A qualche professore o storico. Mi
servirò del quadro e dei costumi secenteschi, puritani, austeri,
dignitosi nell’atteggiamento e nella linea? Oppure mi avvicinerò –
dato che la storia è senza tempo e può essere accaduta nell’Arcadia
greca, o nelle foreste della Scozia, o nei boschi dei pittori
veneti – a un secolo più libero, romanzesco, immaginoso e
gradevole? Ecco come è sorta in me l’idea del settecento a cornice
dell’intrigo, del balletto, realizzato da Dalì in un settecento
autunnale, pieno di colore, allegria, melanconia, un settecento non
storico ma immaginario, il settecento innocuo della favola.72 […] E
la recitazione, del pari, armonizzata su canti e musiche (che sono,
fedelmente, quelli stessi scritti per Shakespeare) i quali evocano
con grazia atmosfere di antichi divertimenti […] è stata mossa,
coralmente, su un passo, e con gesti, che non sono quelli della
72
realtà, ma dichiaratamente, nella ricerca di un’efficacia
stilistica, di una essenziale libertà di movimenti e di gesti. […]
Libertà, insomma, e ritrovamento del meraviglioso. Di un mondo
delle meraviglie di cui il teatro ha smarrito da un bel po’ la
strada […]73
Shakespeare e il Novecento: l’esempio di Peter Stein
Intorno agli anni Settanta, As You Like It subì un nuovo insolito
fascino. Le regie di questo periodo tesero a far emergere in
superficie il senso politico nascosto nell’opera.74 Studi coevi
come quello di Jan Kott – il cui famoso Shakespeare Our Contemporary
apparve nel 1961 – diedero un contributo notevole in questa
direzione. Kott tentava per la prima volta di svelare chiavi di
lettura dietro l’intera opera shakespeariana analizzando scene,
battute, azioni e caratteri dei personaggi. A proposito di As You
Like It, in particolare, alcuni registi cercarono di concentrarsi sui
significati simbolici della Foresta di Arden, spesso associati a
una purezza ancestrale di cui si era smarrito il ricordo.
Nel 1973 per la Royal Shakespeare Company, Buzz Goodbody fece
realizzare allo scenografo Christofer Morley una foresta di tubi
di Plexiglass riciclato. Qui, le azioni di un cechoviano Jacques
sembravano scaturire proprio dal disprezzo per la Foresta, e
l’attore che interpretava Pietra di Paragone recitava alla maniera
73 L. VISCONTI, Sul modo di metter in scena, art. cit..74 M. HATTAWAY, Op. cit., p. 53.
di un comico televisivo contemporaneo, con allusioni al music-
hall.75 La produzione fece sistemare in scena un manifesto in cui
era ritratta la visuale posteriore di Ganimede vestito con jeans a
zampa di elefante, su cui figurava una didascalia che giocava con
l’equivoco sul sesso del personaggio, prendendo in prestito parole
piuttosto forti di Martin Lutero – ma qui l’effetto, ovviamente, è
comico: «Gli uomini hanno spalle larghe e fianchi stretti, e di
conseguenza possiedono l’intelligenza. Le donne hanno le spalle
strette e i fianchi larghi. Devono stare a casa; il modo in cui
sono state create indica il motivo per cui hanno i fianchi larghi
e un ampio basamento su cui sedere, rimanere a casa, partorire e
crescere i figli».76
Una versione catalana del 1983, Al vostre gust di Lluis Pasqual, andata
in scena al Teatro Lliure di Barcellona, regalava l’immagine di
una Arden «ecologica, pura, e ricca di pace … la cornice per il
conflitto sociale tra un’ingiusta gerarchia e coloro che
soffrivano per l’invasione dei diritti dell’individuo».77
Tuttavia, una delle rappresentazioni storicamente più importanti e
memorabili fu senza dubbio quella di Peter Stein, andata in scena
per la prima volta il 20 settembre 1977, che passò alla storia
come la più spettacolare riproduzione di Shakespeare in Germania
dai tempi di Max Reinhardt. Dello spettacolo è conservata memoria
anche attraverso una realizzazione filmica che, anche se è sublime
nello stile e nell’uso intelligente del montaggio, non rende molto
bene l’idea dell’immensità e la spettacolarità dello spazio
teatrale per l’uso frequente di primi piani. Difatti, Stein
rinunciò a mettere in scena la commedia nel suo Schaubühne am
75 Ibidem.76 Ibidem.77 Ibidem.
Halleschen Ufer e decise di allestirla agli studi cinematografici
della CCC Film Studios di Spandau, dove nove mesi prima si era
tenuta un’altra curiosa performance della compagnia diretta da
Stein: Shakespeare’s Memory.78
Tale performance rappresentò il primo avvicinamento del regista al
poeta inglese, con il quale preferì avere un approccio cauto,
maturato anche mediante personali approfondimenti sulla sua
drammaturgia nel corso di seminari laboratoriali frequentati da
lui e gli attori negli anni ’71-’73.
Shakespeare’s Memory – nel cui titolo inglese sono riuniti i due
vocaboli separati nella lingua tedesca Erinnerung (il “ricordo”) e
Gedachtnis (la facoltà della memoria) – nasceva precisamente, quindi,
dall’intento del regista di esplorare in senso più ampio gli
aspetti culturali e sociali dell’età elisabettiana. Il risultato
doveva emergere da una ricerca collettiva e individuale allo
stesso tempo; ciascun attore, infatti, fu invitato a pensare in
maniera separata dal gruppo ai temi che potevano essere
approfonditi, e a costruirvi sopra delle improvvisazioni da
mostrare agli altri solo in un secondo momento.79
La scelta per gli attori si prospettava davvero molto estesa.
Stein suggerì loro di far spaziare la fantasia tra le diverse voci
enciclopediche sul “teatro elisabettiano”, “fonti teatrali e di
altre arti ad esso inerenti”, “scienze naturali e filosofia”,
“teoria e pratica politica” e “modelli di pensiero del periodo
elisabettiano”, senza naturalmente trascurare altri aspetti
ugualmente importanti, come la vita quotidiana dei cittadini
78 M. PATTERSON, Peter Stein, Germany's Leading Theatre Director, CUP Archive, 1981,
p. 134.
79 Ivi, p. 124.
inglesi all’epoca di Shakespeare.80 Insomma, il progetto si
configurava come una sorta di vetrina, un museo vivente dell’età
elisabettiana. Proprio in questa freddezza del risultato, che
mostrava al pubblico l’esito di una ricerca senza rivelare i
processi, risiedette una parte delle critiche alla performance.81
Un’altra parte, invece, fu indirizzata alla qualità
dell’interpretazione attoriale, che fu definita «un’esibizione
degli stili teatrali fuori moda».82
Da un punto di vista scenico, poi, di elisabettiano c’era ben
poco, com’era giusto che fosse, altrimenti non avrebbe avuto senso
il lavoro svolto dagli attori attraverso l’improvvisazione. Le
parti pantomimiche, soprattutto, ricordavano il teatro da fiera,
con i suoi giocolieri, acrobati, illusionisti.83 Anche il modo in
cui lo spazio era strutturato concorreva a rievocarne l’idea. Le
varie performance, infatti, erano disposte in punti diversi dello
spazio e presentate simultaneamente in mezzo al pubblico. Veniva
messo in discussione, quindi, il rapporto tradizionale dello
spettatore con l’opera teatrale, dovendo egli esercitare una sua
personale politica della visione e esser lasciato libero di
muoversi da un punto all’altro dello spazio, secondo il suo
interesse. Ma c’è dell’altro. Sono gli stessi performer a
suggerire la disposizione del pubblico con azioni come muovere una
corda creando una circonferenza nell’aria, la disposizione di un
tappeto a terra, lo spostamento di un arredo scenografico; una
80 Ibidem.81 Ivi, p. 131.82 Ivi, p. 130.83 Riferimenti più precisi sono possibili grazie alla visualizzazione di una ripresa filmica prodotta dalla compagnia che testimonia le varie performance. Peter Stein, Shakespeare’s Memory, Schaubühne am Halleschen Ufer, 1976.
soluzione registica che avrebbe avuto influsso sul successivo As You
Like It.
Il repertorio letterario che aveva ispirato le performance era
incredibilmente vasto. Spaziava da un famoso mistery play del teatro
tardo-medievale, The Second Shepherd’s Play – una sorta di parodia della
Natività – ai saggi di alcuni protagonisti della rivoluzione
copernicana. Come a un comizio elettorale, Copernico, Tycho Brahe
e altri filosofi espongono al pubblico la propria visione del
cosmo e, come per cercare il consenso, la validità delle loro
argomentazioni è sostenuta attraverso mappe, disegni, modelli
planetari giganteschi.
Altri richiami letterari erano evocati da personaggi che
arrivavano in mezzo al pubblico su un pageant: Erasmo da Rotterdam,
naturalmente Shakespeare, e tra le citazioni c’era anche un antico
dramma popolare, il Revesby-play, simile a King Lear nella sinossi.
Proprio la tragedia di King Lear venne ricordata in una delle
performance, modulata sulla scena del povero Tom, al quale teneva
compagnia un grazioso e tranquillo cagnolino. Non mancava,
inoltre, qualche scorcio di vita quotidiana, come la scena di un
banchetto, dove fu fatto capire al pubblico di sedersi e mangiare.
Il senso di questa eccentrica visione registica è spiegato
chiaramente da Michael Patterson:
I trionfi che erano mostrati comunicavano comunque alcune
importanti idee al pubblico. Dato che nella nostra epoca il genio
di Shakespeare rende i suoi drammi ancora così vibranti e
rilevanti, è facile dimenticare quanto lo fossero per un uomo del
suo tempo, condizionato dalla politica e dalla filosofia dell’età
elisabettiana. […] Sospesa tra le superstizioni medievali e
impedendo il razionalismo dell’Europa occidentale, l’epoca
elisabettiana conteneva al suo interno una massa di contraddizioni
feconde, e la sua più grande letteratura drammatica le abbraccia
tutte.84
In seguito a questo tuffo nell’età elisabettiana, la compagnia di
Peter Stein decise che era giunto finalmente il momento di mettere
in scena Shakespeare. Dopo vari tentennamenti, pareva che aver
definitivamente pensato a La dodicesima notte, cosa che alla fine decise
di non fare, perché testo «troppo scontato».85 E la scelta ricadde
su Come vi piace.
I motivi furono diversi. Innanzitutto, a Stein piacque il forte
contrasto interno alla commedia tra sovrani buoni e cattivi, la
figura androgina di Rosalinda/Ganimede e la presenza di elementi
popolari della vita pastorale. Proprio quest’ultimo aspetto era
particolarmente importante per i tedeschi di Berlino Overst: «la
fuga da qualsiasi cosa, somigliante a una grande foresta, era
impossibile per gli spettatori mentre la città era circondata
dalla Repubblica Democratica Tedesca».86 Anche se da una parte la
commedia apparve a Stein come «totalmente estranea […] così ricca
d’idee, complessa, e altrettanto priva di consistenza», sembrò
comprensibile e appropriato che la sua visione fosse profondamente
consapevole del tema principale della commedia: l’evasione verso
un’Utopia pastorale e, allo stesso tempo, la natura precaria di
questa fuga.87 L’elemento pastorale è «una specie di allegoria»,
suggerisce Michael Hattaway, «in cui i personaggi, pastori e non
contadini, sono l’esempio antitetico [“antitypes”] dei proprietari
84
85 Ivi, p. 132.86 Ivi, p. 53.87 Ivi, p. 133.
terrieri o di una casta».88 In Arden, un po’ come ne La tempesta – che
condivide con As You Like It il tema dell’usurpazione di un trono ad
opera di un fratello e il conseguente “esilio” del fratello buono
– i personaggi ritrovavano momentaneamente se stessi per poi
ricostituire, non dove si era arrivati ma da dove si era partiti,
l’ordine che era stato distrutto. Ma ciò poteva solo e soltanto
accadere dopo aver «raggiunto una misura della ricognizione nel
corso del rustico dilettare»:89
L’universo pastorale, dove la “natura” invoca un mito di
uguaglianza politica, serve a definire quegli elementi di vita
“civilizzata”, che sono “innaturali”, crudeli, o hanno a che fare
con l’ascesa sociale.
Come osservava giustamente Jan Kott, nel suo saggio Shakespeare’s Bitter
Arcadia, stampato anche sul programma dello Schaubühne: «alla fine
del dramma ognuno lascia la Foresta di Arden; eccetto Jacques. È
l’unico che non ha ragione di lasciare la foresta perché non vi ha
mai creduto, non è mai entrato nell’Arcadia».90
È questa visione, piuttosto disincantata, che Peter Stein ha
voluto riprodurre simbolicamente, come dimostra l’epilogo dello
spettacolo,91 in cui il luogo della Foresta vergine si vede
inesorabilmente contaminato dal mondo civilizzato, dove le nozze
sono celebrate con lo stesso rigore con cui sarebbero state
compiute a corte, secondo l’usanza e il costume, e dove s’intuisce
chiaramente che il matrimonio tra Febe e Silvio non rappresenta88 M. HATTAWAY, Op. cit., p. 18.89 Ivi, p. 19.90 J. KOTT, Shakespeare’s Bitter Arcadia, in ID. Shakespeare Our Contemporary, NortonLibrary, 1967, p. 231.91 Riferimenti più precisi allo spettacolo sono stati possibili grazie alla visione del film realizzato da Stein. Peter Stein, Wie Es Euch Gefalt, Schaubühne am Halleschen Ufer, 1977.
affatto un lieto fine per la pastorella ma un legame forzato,
diversamente dalla superficialità con cui nel testo i due si
uniscono in matrimonio. Quando il carro nuziale, quel grosso
avanzo di civiltà – così artificiale nei suoi ornamenti – si muove
per fare ritorno a corte, esso non riesce a oltrepassare la soglia
che separa i due mondi antitetici. I personaggi, allora, con il
busto e le braccia che li fanno rassomigliare a delle marionette,
abbandonano il carro e s’incamminano sorridenti con le loro gambe.
Il loro felice e spensierato ritorno a corte dimostrava che la
loro ipocrisia nell’ostentare la contentezza in quel mondo così
lontano dal reale era tanto grande quanto il desiderio di
riappropriarsi del proprio status sociale. Ciò conferma, quindi,
l’interpretazione del testo offerta da Jan Kott, secondo cui
Shakespeare sapeva bene che al suo tempo uno scorcio di mondo in cuil’amore ideale può essere raggiunto è condannato a rimanere un’illusione:
«Shakespeare non ha illusioni, nemmeno l’illusione che uno possa vivere
senza illusioni».92
Peter Stein rappresenta bene quest’idea in As You Like It, quando
mostra quali sono le reali condizioni che gli ex-cortigiani devono
sopportare nella Foresta; tremanti e sofferenti per il freddo
selvaggio, che essi non hanno mai conosciuto tra gli agi della
corte, si accasciano a terra e si coprono il corpo con i pochi
mezzi a disposizione. La Foresta di Arden viene, quindi, fatta
percepire allo spettatore non come un locus amoenus, ma lo strumento
attraverso cui prendere coscienza di una sconfitta che non si ha
il coraggio di ammettere. È con evidente ipocrisia che il Duca
pronuncia i versi della prima scena del II atto:
92 Ivi, pp. 226-227.
Quando il gelido dente dell’inverno e il brutale rabbuffo dei suoi
venti mi mordono e mi soffiano sul capo fino a farmi attrappire
tutto il corpo per il freddo, io dico, sorridendo: “Questa almeno
non è adulazione. Questi son consiglieri che mi fanno sentire fino
in fondo quello che sono”.93
Ma la storia insegna che ci saranno sempre vincitori e vinti e che
il ciclo sarà destinato a ripetersi. Quando il duca Federigo, in
seguito al suo pentimento, giunge con i suoi cortigiani nella
Foresta per restaurare l’ordine delle cose, si spogliano tutti
delle pesanti armature e si lasciano cadere a terra per riposare e
godersi la quiete offerta dal posto. In virtù di questa ciclicità,
nell’ultima scena dello spettacolo, troviamo, quasi
irriconoscibile nel suo misero aspetto, proprio il duca Federigo,
sdraiato ai piedi di un faggio a cantare, laddove poco prima
c’erano i suoi “predecessori”. Non a caso, il testo della canzone
è tratto dai versi di un poema francese di Francis Ponge, dal
titolo “Il ciclo delle stagioni”:
Una nuova stanchezza, un nuovo capovolgimento morale. Lasciamo che
tutto ingiallisca e cada. Lasciamo che lo stato taciturno si
approssimi, spogliando tutto, l’AUTUNNO.94
Una così limpida visione morale della commedia non poteva non
esser realizzata “in grande”. Pur ammettendo che la sua intenzione
di mettere in scena As You Like It era nata per ragioni commerciali,
Peter Stein investì parecchio in quel progetto, perché gli
occorreva uno spazio molto ampio per realizzarlo.
93 W. SHAKESPEARE, Come vi piaccia cit., p. 35.94 Da notare come soltanto in solitudine l’uomo riesca ad ammettere la propria sconfitta, riconoscendo la sua «stanchezza». Incarna, quindi, in un certo senso, la stessa visione malinconica di Jacques.
Alla CCC Film Studios, dove fu allestito tutto, il pubblico appena
arrivato veniva fatto sistemare in piedi in una lunga e alta sala,
dove si rappresentava la prima parte dello spettacolo. Le pareti
di un bianco-blu pallido, fredde come il ghiaccio, erano rese
quasi abbaglianti da fari sistemati sotto le pedane e ai tre lati
della sala, al centro della quale si ergeva una passerella
collegata ai vari stages che componevano tutta la struttura scenica.
L’aspetto massiccio, freddo e asettico di quella costruzione
neoclassica contrastava con le figure scure e robuste dei
personaggi, ingessati nei loro movimenti da pesanti costumi dai
colletti stretti fin sopra il collo, ricchi negli ornamenti e dal
sapore pre-baroccheggiante; in perfetto stile elisabettiano,
quindi.95 L’ordine e il caos, la purezza e l’ipocrisia. L’occhio
può cogliere immediatamente che il luogo in cui questi personaggi
risiedono è uno spazio invivibile, fatto di costrizioni fisiche e
contraddizioni morali.
Le scene del I, del II (la seconda e la terza scena) e del III
atto (la prima scena), furono giustapposte quasi secondo un
montaggio cinematografico: «un attore o un gruppo pronunciava
qualche verso e poi si congelava in un tableau, mentre a lui
s’interponeva un altro passo di un’altra scena e recitato da altri
personaggi presenti in sala».96
Da un punto di vista scenico, questa prima parte condivideva
alcuni aspetti del teatro elisabettiano: la scenografia
95 Fatta eccezione per il costume di Pietra di Paragone, che comunque nonindossava il tradizionale costume da buffone, ma una tuta di colore nero,marrone cioccolato e grigia. M. PATTERSON, Op. cit., p. 134.96 Quest’interpolazione, ovviamente, ben si nota nella versione filmica, in cui sono presenti numerose controscene, come quella di Febe e Silvio (che suona vicino al laghetto); Rosalinda/Ganimede che si esercita a impugnare la spada; Orlando che scolpisce con mucchietti di legno il nomedi “Rosalind” nella neve, e altre ancora.
essenziale, la passerella aggettante dovevano forse servire a
riprodurre negli spettatori in piedi la sensazione di stare sotto
il proscenio delle playhouses. Il coinvolgimento emotivo sicuramente
cresceva, poi, con l’arrivo di due nobili che camminavano in mezzo
al pubblico e riferivano i versi sul duello da combattere tra
Orlando e Charles – destinati nel testo originale a Oliver e
Charles – come due gentiluomini che conversavano in una piazza
cittadina, in mezzo alla folla.97 Proprio l’ingresso di Charles
rappresentava il culmine di quest’uso totale dello spazio. Il
lottatore veniva preceduto da un signore che gridava in mezzo al
pubblico di fargli spazio, e gli spettatori eseguivano le sue
istruzioni, disponendosi in modo da creare un corridoio al centro;
una scena che ricorda la costruzione dello spazio mediante
l’azione in Shakespeare’s Memory.
Sulla passerella il giovane Orlando e Charles – un wrestler di
professione – lottavano in maniera molto edulcorata rispetto a un
combattimento reale; d’altronde, leggendo il testo di Shakespeare,
ci sembra quasi impossibile concepire la salvezza di Orlando ai
danni di Charles. Difficile capire come il giovane abbia fatto a
mettere k.o. un uomo che s’immagina di una statura e un peso
considerevoli. E quello che nel testo di Shakespeare sembrava un
miracolo, accadde invece per davvero. Nel film – ma esistono anche
foto che immortalano il momento teatrale – si vede chiaramente
Charles, grande e grosso, capovolto a testa in giù tra le braccia
di Orlando.
In generale, tutto il linguaggio del corpo della prima parte dello
spettacolo era improntato su una retorica pomposa e un ritmo
97 M. PATTERSON, Op. cit., p. 135.
abbastanza lento, accostato da Patterson alla maniera di recitare
caratteristica di numerosi teatri municipali tedeschi.98
La seconda parte dello spettacolo era anticipata da un’idea molto
originale, che consisteva nel far provare anche al pubblico
l’esperienza del viaggio dei protagonisti, attraverso un passaggio
labirintico – dalla “corte” alla Foresta di Arden – che si
percorreva in circa quindici minuti, durante i quali lo stupore
degli spettatori era generato, oltre che dal realismo di una
scenografia silvestre, anche da presenze che ricordavano da vicino
Shakespeare’s Memory. Una sorta di esperienza di Shakespeare’s Memory in
miniatura, ecco:
Come superavamo le pieghe di questo passaggio, trovavamo curiosi
collage incollati alle pareti, piccole “cabine” aperte che
ospitavano, per esempio, un laboratorio elisabettiano, l’uomo
androgino di Shakespeare’s Memory, una statua di gesso a grandezza
naturale con seni pienamente formati e un pene sporgente dalle sue
brache.99
E poi la Foresta. Grande, magnifica, per nulla “elisabettiana”.
Realizzata da Karl-Ernst Herrmann con dovizia di elementi
realistici. Era un gigantesco ambiente selvoso, dominato a
sinistra del pubblico da un enorme faggio e, a destra, da un
modello usato per spiegare la visione tolemaica del cosmo agli
spettatori di Shakespeare’s Memory. Ma lo spazio dell’illusione non
finiva lì. Circondava, anzi, tutto il pubblico, che poteva avere
la sensazione di essere immerso all’interno di un film, o di un
sogno. Effetti, questi, che erano accentuati anche da una
98 Ivi, p. 136.99 Ivi, p. 137.
partitura sonora realistica, cechoviana, e da un’illuminotecnica
curata nei minimi dettagli. L’area scenica principale, che
misurava circa quaranta piedi per cento, era circondata dalla
disposizione a ferro di cavallo di circa trecento posti.100 Questo
spazio, così ampio, consentiva di montare delle controscene alle
parti che non esigevano una concentrazione totale; in alcuni
momenti, com’era già capitato per Shakespeare’s Memory, il pubblico
poteva solo gettare lo sguardo qua e là, ma non catturare la
totalità delle azioni.101
Per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi, molta
dell’ispirazione doveva provenire proprio dal testo di Shakespeare
che, ricco di ambiguità, di curiose metafore e similitudini, fu
quasi parafrasato letteralmente. Basti pensare a Jacques.
Prendendo come riferimento il film, lo spettatore nota la sua
diversità rispetto agli altri membri del gruppo nel costume, che
accosta in maniera stravagante un cappotto in fantasia scozzese
bianco e nero, cappello giallo e bastone, ma anche e soprattutto
nella recitazione: è pensieroso, turbato e assume degli
atteggiamenti insoliti. Le espressioni del suo volto fanno
trasparire un’inquietudine che rasenta la follia. E man mano che
la commedia procede, il suo lato più inquietante emerge a galla,
ponendo il giudizio dello spettatore continuamente in bilico. E’
un matto oppure semplicemente un uomo che soffre di malinconia? E
fino a che punto i suoi compagni lo considerano una persona sana
di mente? A un tratto, Peter Stein sembra offrire come risposta
una soluzione intermedia: è un uomo che si finge matto perché sa
di non esserlo. Un essere umano che ha una perfetta coscienza di100 Ivi, pp. 138-139. 101 Ibidem.
se stesso e che è “felice” solo nella malinconia. Dopo aver
incontrato Pietra di Paragone, Jacques arriva correndo ed
esultante perché, dice, ha incontrato un matto, e racconta ai
compagni tutta la loro folle conversazione. Ma l’incontro col
matto qui non viene mai mostrato al pubblico, per cui si fa molta
fatica a crederlo una persona sana di mente. Per Stein, il mistero
del personaggio di Jacques è contenuto nelle parole dello stesso
Shakespeare [atto II, scena settima]:
Ah, vorrei essere pur io un matto! Portare indosso una livrea
screziata è davvero la mia grande ambizione! […] È l’unico costume,
francamente, che si conviene a uno come me. […] Vestito di quel
variegato arnese, mi gusterei la vera libertà, […] perché colui che
il matto colpisce molto intelligentemente è costretto anche lui a
fare il matto, e, pure sentendone tutto il bruciore, finger di non
aver sentito il colpo;
Il regista non ha fatto altro che parafrasare questi versi, perché
mentre Jacques li pronuncia, gli fa gettare addosso dai compagni
nastrini colorati, erba, un colbacco un po’ troppo grande, rametti
d’albero disposti a forma di corna sul suo capo: viene trasformato
per gioco nel “re del Carnevale” [«Lord of Misrule»].102
Anche se Stein ha dichiarato che non era suo intento concedere una
lettura introspettiva dei personaggi, involontariamente il trio
“Orlando – Rosalinda/Ganimede – Celia” è intriso di mistero e di
ambiguità. Ma questa non è una novità, conoscendo il testo di
Shakespeare e le ragioni culturali alle spalle (la situazione
reale di un uomo che interpreta una donna che si traveste da uomo,
di cui poi una donna s’invaghisce). La tradizione vorrebbe che le102 Ivi, p. 140.
due cugine siano innamorate dello stesso uomo, ma qui Rosalinda e
Celia si scambiano continuamente baci, occhiatine, abbracci
passionali; la mattina, appena svegliate, mostrano sorrisi
maliziosi, facendo intuire – ma non vedere esplicitamente – di
aver trascorso la notte nello stesso letto. Quando Ganimede e
Orlando s’incontrano, Celia fa finta di indietreggiare ma rimane a
osservarli. A un certo punto, la vediamo addirittura in preda ad
attacchi di gelosia e disturbare la loro conversazione lanciando
verso Rosalinda zollette di terra. Gelosia, quindi. Ma per chi? È
molto difficile pensare ancora che Celia sia gelosa di Rosalinda
quando, all’improvviso, durante la danza “rituale” seguente
all’uccisione del cervo, vediamo le due donne rotolare a terra sul
fianco, velocemente, fino a stringersi in un abbraccio ardente di
passione.
La stessa ambiguità ruota intorno alla figura di Orlando, che nel
testo sembra mosso sentimentalmente verso Ganimede da uno spirito
ingenuo, giocoso e infantile. In Stein, però, i due sono in più di
un’occasione quasi a un centimetro l’uno dall’altro, e la
vicinanza è data dal lento e ieratico approssimarsi di Orlando
verso Ganimede, per baciarlo, con graduale allontanamento di lei da
lui. Qualcosa non quadra, perché alla fine, al di là di ogni
convenzione, solo la povera Febe resta a bocca asciutta, dopo aver
appurato l’inesistenza dell’uomo della sua vita. O, forse, anche
qui, la pastorella avrebbe accettato di unirsi lo stesso in
matrimonio con la donna che impersonava l’uomo della sua vita? Non
lo sapremo mai. Con segnali così ambigui, continuando a domandarci
se i personaggi uniti in matrimonio siano o non siano realmente
attratti l’uno dall’altro, prima o poi, finiremmo per fare un
salto nel vuoto. Shakespeare avrebbe preferito solo riderci su e
procurare il riso agli altri. Di come stanno realmente le cose tra
gli amanti a lui, di sicuro, non interessava più di tanto.
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