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Shakespeare “come piaceva” Alcuni esempi di As You Like It sulle scene di Renata Savo C’era una volta un genio incompreso «Io vivo in Shakespeare». 1 In uno dei Registres del Vieux Colombier Jacques Copeau dichiarava la sua vicinanza al sommo poeta inglese, manifestando il suo desiderio di instaurare con lui una sorta di legame atavico e indissolubile. Lui, Jacques Copeau, un francese che di libri ammetteva di averne graditi veramente pochi 2 – ma che paradossalmente era giunto al teatro proprio attraverso la letteratura 3 – nel 1914 asseriva di aver letto uno dopo l’altro alcuni dei drammi del Bardo e di averne ricevuto in cambio «forza e gioia». 4 L’enorme successo di Shakespeare sui palcoscenici di tutto il mondo può apparire agli occhi dello spettatore contemporaneo un 1 Cfr. J. COPEAU, Registres III, Paris, Gallimard, 1979, p. 242 (lettera del 30 novembre 1914). 2 «Non sono mai stato un grande lettore. Durante molti anni sono sempre stato a un passo dal mettermici. Mi ci mettevo, in cerca di una vera cultura […]. Ci sono alcuni libri, ma molto pochi, che conosco bene. Ne ignoro di essenziali. Questa ignoranza mi ha messo spesso in imbarazzo». Cfr. Journal di J. COPEAU, estate 1919, citato in ID., Il luogo del teatro. Antologia degli scritti, a cura di M. I. Aliverti, La casa Usher, Firenze, 1988. 3 J. COPEAU, Artigiani di una tradizione vivente. L'attore e la pedagogia teatrale, a cura di M. I. Aliverti, Firenze, La casa Usher, 2009, p. 127. 4 J. COPEAU, Registres III, cit..

Shakespeare "come piaceva" - Alcuni esempi di "As You Like It" sulle scene

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Shakespeare “come piaceva”

Alcuni esempi di As You Like It sulle scene

di

Renata Savo

C’era una volta un genio incompreso

«Io vivo in Shakespeare».1

In uno dei Registres del Vieux Colombier Jacques Copeau dichiarava la

sua vicinanza al sommo poeta inglese, manifestando il suo

desiderio di instaurare con lui una sorta di legame atavico e

indissolubile. Lui, Jacques Copeau, un francese che di libri

ammetteva di averne graditi veramente pochi2 – ma che

paradossalmente era giunto al teatro proprio attraverso la

letteratura3 – nel 1914 asseriva di aver letto uno dopo l’altro

alcuni dei drammi del Bardo e di averne ricevuto in cambio «forza

e gioia».4

L’enorme successo di Shakespeare sui palcoscenici di tutto il

mondo può apparire agli occhi dello spettatore contemporaneo un1 Cfr. J. COPEAU, Registres III, Paris, Gallimard, 1979, p. 242 (lettera del 30 novembre 1914).2 «Non sono mai stato un grande lettore. Durante molti anni sono sempre stato a un passo dal mettermici. Mi ci mettevo, in cerca di una vera cultura […]. Ci sono alcuni libri, ma molto pochi, che conosco bene. Ne ignoro di essenziali. Questa ignoranza mi ha messo spesso in imbarazzo». Cfr. Journal di J. COPEAU, estate 1919, citato in ID., Il luogo del teatro. Antologia degli scritti, a cura di M. I. Aliverti, La casa Usher, Firenze, 1988.3 J. COPEAU, Artigiani di una tradizione vivente. L'attore e la pedagogia teatrale, a cura diM. I. Aliverti, Firenze, La casa Usher, 2009, p. 127.4 J. COPEAU, Registres III, cit..

dato palese, su cui oggi non avrebbe neppure senso discutere.

Eppure, è esistita un’epoca in cui William Shakespeare non era

affatto considerato universalmente il più grande poeta drammatico

di tutti i tempi. Non ancora, quel mito esistito da sempre. Molte

fonti dimostrano che in passato la drammaturgia shakespeariana

oltre agli elogi subì anche le critiche, il più delle volte

scaturite da una cattiva diffusione (cui facevano seguito pessime

interpretazioni) della sua opera grandiosa. Certo, non è stato

sempre così. O, almeno, non ovunque.

È in Francia, più che altrove, che le opere shakespeariane prima

di affermare la loro presenza nei teatri ufficiali sono state

protagoniste di una lunga e accesa diatriba, che si spense non per

una conquista reale e convincente delle tavole francesi, ma

piuttosto grazie all’affermazione di un gusto – risvegliato dalla

stessa poetica shakespeariana – tendente alla funzione

spettacolare e al forte potere d’intrattenimento del mezzo

teatrale.

La storia dell’affermazione di Shakespeare sui palcoscenici

europei, in particolare tedeschi e francesi – narrata da Mara

Fazio in Il mito di Shakespeare e il teatro romantico – cominciò intorno agli

anni Settanta del Settecento in Germania5 e si concluse in Francia

verso gli anni Trenta del XIX secolo,6 risuonando, molto più

debolmente e in ritardo, anche in Italia. Ovviamente, le origini

e, soprattutto, gli sviluppi di questa storia hanno attraversato

percorsi differenti in ciascuna nazione, quasi opposti, verrebbe

da dire, nel caso della Francia e della Germania. Mara Fazio

5 M.FAZIO, Il mito di Shakespeare e il teatro romantico. Dallo sturm und drang a Victor Hugo,Roma, Bulzoni, 1993, p. 15.6 Ivi, p. 85.

spiega come gli esiti di questa battaglia culturale siano stati

profondamente influenzati dalle diverse situazioni politiche; in

Francia, il classicismo – rappresentato dalle tragedie di

Corneille e di Racine e dalla commedia di Molière – coincideva con

la sua cultura nazionale, consolidatasi nel corso di due secoli di

monarchia assoluta, di cui rifletteva anche l’immagine

sclerotizzata. E la rivoluzione culturale sarebbe avvenuta dopo

quella politica, grazie all’influsso straniero.7 Al contrario, in

Germania, dove gli intellettuali erano «più propensi a sentirsi

come individui, parte della Natura, che come parte di una società

o di uno Stato»,8 l’unità culturale anticipò quella politica (che

avrebbe avuto luogo con l’unificazione del 1870),9 manifestandosi

nella nascita di un movimento “nazionale”, lo Sturm und Drang, il

cui spirito rivoluzionario si levava da premesse ideologiche

lontane dalle tendenze culturali francesi. Tali premesse ruotavano

intorno al concetto di Streben, termine difficile da tradurre in

italiano senza l’ausilio di più vocaboli, come “tensione”,

“ricerca continua”, ma anche autenticità, diversità, fantastico,

esaltazione dell’individuo, dell’irrazionale, desiderio di

evasione;10 una fuga non solo in senso spaziale, ma anche da canoni

estetici troppo rigidi.

Agli intellettuali tedeschi il classicismo (e il suo equivalente

filosofico, il razionalismo) calzava stretto, essendo una «cultura

del limite»,11 fondata in campo teatrale su norme precise,

avvertite come obsolete. Il rispetto delle unità aristoteliche, la

7 M. FAZIO, Op. cit., p. 14.8 Cfr. Ibidem.9 Ivi, p. 15.10 Cfr. Ibidem.11 Cfr. Ibidem.

rigorosa distinzione tra i generi, la versificazione in

“alessandrini”, la bienséance (il “buon senso”), l’ordine verosimile

degli eventi scaturito dalle azioni di personaggi “razionali”,

l’imitazione dei classici:12 tutti questi elementi, ancora

osservati alla stregua di argomentazioni bibliche o auctoritates dai

francesi, in Germania avevano finito per connotare uno stile

freddo, asettico, privo di originalità.

Proprio per il suo carattere irrazionale, ma allo stesso tempo

vicino alla Natura umana, nella quale il tragico si mescola

talvolta al comico – in un mondo popolato da “individui” e non da

esseri pensanti e agenti allo stesso modo – nonché per la sua

capacità di afferrare l’essenza della vita, Shakespeare fu, a

partire dagli anni Settanta del XVIII secolo, presto assimilato

dalla nuova, emergente classe intellettuale germanica.

In Francia, invece, il teatro di Shakespeare fu avvertito come

potenziale nemico della tradizione francese, barbaro

rappresentante di un gusto “straniero”. Un gusto non

corrispondente ai canoni estetici del classicismo cui il pubblico

francese era stato educato. Malgrado ciò, per vie traverse la

drammaturgia shakespeariana raggiunse la Francia, attraverso le

assai discutibili traduzioni e gli orribili adattamenti convertiti

alla maniera francese. La battaglia non avvenne soltanto in campo

letterario, ma anche in campo scenico: le opere shakespeariane, o

i soggetti nuovi composti sui loro principi estetici, trovarono

nei teatri non ufficiali, i Boulevard, il loro habitat naturale e

nel melodramma, il genere più idoneo a insinuare i germi della

12 Voltaire e Shakespeare, materiale didattico a cura di Mara Fazio, A.A. 2011-12.

libertà e dell’immaginazione.13 Molto tempo sarebbe trascorso prima

che Shakespeare potesse esser salutato dagli intellettuali

francesi come «la mano più potente che abbia mai scritto per il

teatro»14 e la sua poesia drammatica come «la più bella dei tempi

moderni».15 Melpomene, la musa tragica francese, avrebbe impiegato

«98 anni», scriveva Alfred De Vigny, «per decidersi a dire a voce

alta: un fazzoletto».16

Nel 1864 il francese Victor Hugo poteva esprimersi senza remore

con quegli stessi toni poetici che, quasi un secolo prima, avevano

animato gli elogi dei cugini tedeschi:

Shakespeare è la fertilità, la forza, l’esuberanza, la mammella

gonfia, la coppa spumeggiante, il tino pieno fino all’orlo, la

linfa in eccesso, la lava a torrenti, i germi in vortici,

l’abbondante pioggia di vita, tutto a migliaia, tutto a milioni,

nessuna reticenza, nessuna chiusura, nessuna economia la

prodigalità insensata e tranquilla del creatore. […] grande come

l’Iliade! […] Shakespeare, come tutti i grandi poeti e come tutte

le grandi cose, è intriso di sogno. […] È uno di quei geni

volutamente non imbrigliati da Dio perché si spingano in modo

tenace e a pieno volo nell’infinito.17

13 M. FAZIO, Op. cit., pp. 41-45.14 A. De Vigny, Lettera a Lord***, Paris, 1830, in M. FAZIO, Op. cit., p. 151.15 È. Deschamps, dalla Prefazione agli Studi francesi e stranieri, Paris, 1828, in M. FAZIO, Op. cit., p. 148.16 A. De Vigny, Op. cit, in M. FAZIO, Op. cit., p. 156.17 V. Hugo, da William Shakespeare, Paris, 1864, p. in M. FAZIO, Op. cit., pp. 161-163

Il meraviglioso nella parola!

Gli effetti emotivi del teatro shakespeariano sull’uditorio sono

stati teorizzati in Germania nel lontano 1793 da Ludwig Tieck,18

famoso soprattutto per essere l’autore di numerose fiabe

rivisitate in chiave romantica.

Tieck coglie un aspetto fondamentale della drammaturgia

shakespeariana, che consiste non, banalmente, nella violazione

delle regole classiche, ma nell’«arte infinitamente grande con cui

[Shakespeare] non fa notare l’assenza di regole».19 Grazie alla

presenza di alcuni elementi, le sue opere procurano al lettore – e

al pubblico – sensazioni che sono assimilate dall’autore tedesco

al concetto di “meraviglioso”: la capacità di creare già

all’interno del testo l’illusione scenica. Non si dimentichi,

infatti, che nel teatro elisabettiano la scenografia era molto

scarna, quasi assente, e il potere illusionistico era affidato in

maggiore misura alla parola. Come ricorda Masolino d’Amico, a

proposito delle opere di Shakespeare, in particolare, quelle in

cui i luoghi sono maggiormente connessi all’azione (per esempio,

Come vi piace, che ci interesserà da vicino):

È vero che anche nelle sue opere le descrizioni sono più rare di

quanto possa venir fatto di credere, soprattutto quando si

associano nella memoria certe scene, se non addirittura certi18 L. Tieck, Il meraviglioso in Shakespeare, Berlin-Leipzig, 1796, in M. FAZIO, Op. cit., pp. 91-113.19 Ivi, p. 91.

drammi nella loro interezza (Come vi piace, Sogno di una notte di mezza

estate, Tempesta) a determinati ambienti indissolubilmente connessi

all’azione; ma attribuire la creazione di tali ambienti totalmente

o prevalentemente all’uso di elementi scenici, visivi, significa

sottovalutare l’importanza dell’uso shakespeariano della

scenografia verbale, ovvero della parola come creatrice di

illusione. Tale uso non si limita affatto alla descrizione diretta

e più o meno poetica della scena che si vuole proporre alla

fantasia degli spettatori, ma si articola attraverso tutta una

serie di espedienti anche indiretti o perfino subliminali,

impressionante per varietà, discrezione ed efficacia […]20

Tieck aveva analizzato proprio quegli “espedienti anche indiretti

o perfino subliminali” citati sopra, rintracciando la loro matrice

nella semplicità delle rappresentazioni popolari, rese nobili

dalla sensibilità del poeta:

[Shakespeare] ha sposato la fantasia popolare ma ha anche voluto

nobilitare e raffinare la sensibilità. In questa unione ha

nobilitato la superstizione comune elevandola alla più bella

finzione poetica, ha escluso da essa gli elementi infantili e

insulsi senza togliere però quell’elemento strano e avventuroso

senza il quale il mondo dello spirito si avvicinerebbe troppo alla

vita quotidiana.21

Il poeta tedesco opera, all’interno del suo saggio, anche una

distinzione tra le commedie e le tragedie, dove individua

differenti qualità (e quantità) di “meraviglioso”.22 Come esempi20 Cfr. M. D’AMICO, Scena e parola in Shakespeare, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2007, pp. 54-55.21 Cfr. L. Tieck, Op. cit, in M. FAZIO, Op. cit., p. 92.22 Sull’uso del fantastico e nel funzionamento del meraviglioso nelle tragedie di Shakespeare rimando allo stesso saggio (ivi, pp. 105-113).

comici di somma meraviglia nomina La tempesta e Sogno di una notte di mezza

estate. Non sarebbe sbagliato, forse, aggiungere ad esse anche Come

vi piace (unendoci, in qualche modo, alla tesi di Masolino d’Amico),

in cui ugualmente il meraviglioso si dispiega in tutte le scene

ambientate nella Foresta di Arden, dove i personaggi sono immersi

in uno scenario idilliaco, lontano dalla realtà; scene in cui

l’attenzione del lettore resta sulla soglia tra l’illusione di un

mondo possibile, basato su presupposti diversi da quelli sociali,

e il distacco dai nodi centrali dell’azione, che avanza a fatica

per la presenza di numerosi personaggi secondari.

All’interno delle commedie, e in particolare delle due opere sopra

citate, Tieck riconosce principalmente quattro fattori che

concorrono a produrre il “meraviglioso”. In primis, la durata

dell’illusione che coincide con la durata del dramma (per questo,

probabilmente, non viene citato Come vi piace, non essendovi

l’illusione costante):

1. Attraverso la rappresentazione di un intero mondo meraviglioso

che faccia sì che l’anima non ritorni più nel mondo dei mortali e

che non si interrompa l’illusione. […] L’illusione più squisita

nasce perché durante l’intera durata del dramma rimaniamo sempre in

questo mondo meraviglioso in cui una volta siamo stati condotti e

nasce, ancora, perché nessun particolare contraddice le condizioni

in cui ci siamo abbandonati una volta all’illusione;23

2. La messa in moto di effetti non troppo forti o improvvisi

sull’emotività del lettore, insieme a una loro distribuzione

omogenea all’interno della commedia, in cui la monotonia è evitata

grazie alla varietà dei personaggi:

23 Cfr. Ivi, pp. 93-95.

Per rendere il meraviglioso realmente capace di illudere non

sembrano importanti la quantità e l’effetto ininterrotto degli

esseri soprannaturali, risulta invece indispensabile la

molteplicità degli esseri rappresentati. […] Ma nell’intero dramma

il poeta evita con cura gli alti gradi, gli estremi delle passioni.

[…] il poeta mitiga ogni forma di eccitamento, non permette mai che

la tensione emotiva dello spettatore raggiunga un grado troppo

alto, non vuole scuoterci a fondo in nessun momento […].24

3. L’uso del comico, che riesce a mantenere viva l’illusione

attraverso la perdita momentanea della nostra concentrazione dagli

elementi più accattivanti; anche in gradazioni differenti, il

“meraviglioso” diventa tanto più efficace se si realizza proprio

nella varietà dei personaggi, come avviene ne La tempesta, in cui

sono esseri completamente comici Stefano e Trinculo, ma dove anche

all’orribile Calibano, proprio in virtù della sua bizzarra

mostruosità, viene talvolta assegnato il ruolo di personaggio

“comico”:

[…] sono in particolare le scene comiche quelle in cui il poeta

disperde la nostra attenzione e dove fa sì che noi non fissiamo uno

sguardo troppo fermo e scrutante sugli esseri della sua

immaginazione […] Il ridicolo qui non intende rafforzare il

terribile, ma principalmente accrescere la varietà degli esseri che

tengono occupata la fantasia.25

Infine, ma non meno importante, è la presenza della musica, di cui

è nota sin dall’antichità lo straordinario potere nel muovere gli

affetti:

24 Cfr. Ivi, pp. 94-95.25 Cfr. Ivi, p. 103.

[4.] Attraverso i suoni la fantasia viene anticipatamente sedotta e

la ragione più severa viene addormentata; […] Shakespeare non fa

mai tacere la musica nel dramma, conosceva troppo l’influenza che

l’arte dei suoni esercita sugli animi.26

Leggendo il suo saggio, ci si accorge che Tieck dedica poco spazio

all’elemento più importante, e cioè, la parola: l’immediatezza del

suo significato, la naturalezza con cui il poeta è stato capace di

dipingere (e la metafora non è casuale, essendo stata utilizzata

da Hugo per descrivere la capacità di Shakespeare più che di

raccontare, di «rendere visibile»)27 i dialoghi tra i personaggi.

Ai tempi di Shakespeare la parola doveva essere lo strumento più

adatto a mantenere costante l’illusione, una parola conservata,

dov’era necessario, fedele alla vita. Shakespeare scriveva tenendo

bene a mente la finalità dei suoi drammi, prodotti non per essere

contemplati sulla carta stampata, ma per la scena – anche se ai

puristi apparve difficile crederlo, per la presenza nel testo di

cambiamenti repentini di tempo e di luogo. I puristi non avrebbero

mai potuto prendere in seria considerazione le parole di Tieck.

Soltanto qualche francese meno attempato come Alfred De Vigny, sul

finire degli anni Trenta dell’Ottocento, dimostrò di aver colto

fino in fondo il senso di quell’operazione culturale che in

Francia era stata quasi portata a termine, e invitò i puristi a

comprendere la preziosa differenza che separa il linguaggio

forbito di Shakespeare dagli inutili orpelli classici, buoni

soltanto ad annoiare:

26 Cfr. Ivi, p. 105.27 «Shakespeare è […] un pittore colossale. Il poeta in effetti fa più che raccontare, rende visibile». Cfr. V. Hugo, Op, cit., in M. FAZIO, Op. cit., p. 161.

È soprattutto nel dettaglio dello stile che potrete giudicare la

maniera della scuola cortese che oggi ci annoia in modo così

perfetto. Non credo che uno straniero possa arrivare facilmente a

comprendere a quale grado di falsità fossero giunti versificatori per la

scena, non voglio chiamarli poeti. Per darvi qualche esempio tra

centomila, quando si voleva dire spioni si diceva: «Quei mortali il

cui stato garantisce la sorveglianza». Vi rendete conto che solo

un’estrema cortesia verso la corporazione degli spioni ha potuto

dar luogo ad una perifrasi così elegante, e che coloro tra quei

mortali che per caso si trovassero nella sala ne sarebbero

sicuramente riconoscenti. […]28

Per questo motivo, anche se a differenza di altre commedie in Come

vi piace sono assenti elementi fantastici o straordinari – intendendo

come tali, ad esempio, le figure di Ariel o Calibano o la magia di

Prospero – l’opera conserva un suo fascino peculiare, assimilabile

al meraviglioso teorizzato da Tieck, coltivato dal poeta

attraverso l’ironia, lo stile eufuistico, le sciarade, le

ambiguità del linguaggio oltre che dei mascheramenti di genere;29

elementi che fanno di essa molto di più di una semplice e ingenua

commedia, come spesso è stata giudicata e come dimostra il

seguente estratto, da una recensione di una versione realizzata da

Jacques Copeau, andata in scena nel 1938 ai giardini di Boboli di

Firenze, per la rassegna del Maggio Fiorentino:

“Come vi garba” non è commedia così fantasiosa e fiabesca come il

“Sogno”; i suoi personaggi vivono la vita di tutti i giorni; niente

28 A. De Vigny, Op. cit., in M.FAZIO, Op. cit., p. 153.29 La commedia di Shakespeare, infatti, ha come fonte un’opera di Lodge, Rosalind, Euphues’ Golden Legacy, che imitava a sua volta lo stile complesso di Lily, chiamato “eufuistico”. M. HATTAWAY, Introduction, in W. SHAKESPEARE, As You Like It, edited by Michael Hattaway, The New Cambridge University Press, 2000, p. 13.

che oltrepassi il sensibile; un principe spodestato che vive coi

suoi amici nella foresta dove ha formato una specie di Corte

rustica, ricca di attrattive naturali; una ragazza Rosalinda (sua

figlia) che cacciata anche lei in esilio dal Duca usurpatore se ne

va alla ventura nel bosco, accompagnata dalla fedele amica Celia,

figlia dell’usurpatore stesso. […] Nulla di straordinario, dunque.

La commedia è semplice e, si direbbe, se non potesse sembrare

irriverente, ingenua.30

Di questa leggerezza, però, si parlerà più avanti. Ora è meglio

inabissarsi nel discorso sulla sua fortuna scenica.

Una cronistoria della fortuna scenica di As You Like It

LONDRA. ANNO 1600 ca. – È una delle primissime volte, forse la prima

in assoluto, che il Globe spalanca le sue porte. La sua bellissima

struttura, a forma di “wooden O”, viene inaugurata da As You Like It di

William Shakespeare…31 No, di quest’informazione non si hanno

notizie certe; tuttavia, gli studiosi concordano nel datare la

produzione della commedia al 1600,32 durante lo stesso periodo di

apertura del teatro.

Da una lettera del 1603 emerge chiaramente un’occasione in cui la

commedia andò in scena.33 Durante le festività natalizie, poco dopo

la morte della Regina Elisabetta, la compagnia dei King’s Men si

30 C. GIACHETTI, Stasera: Shakespeare in Boboli, «Gazzetta del popolo», 1 giugno 1938.31 M. HATTAWAY, Op. cit., p. 13.32 Ivi, p. 43.33 Ibidem.

esibì davanti al nuovo sovrano d’Inghilterra, Giacomo I Stuart,

proprio con As You Like It.

In seguito a questa data, però, non sono pervenute ai posteri

altre registrazioni in cui il nome della commedia compaia legato a

rappresentazioni in ambito professionale, prima del 1740. Fatta

eccezione per un pallido adattamento che risale al 1723;34 un testo

riscritto da Charles Johnson, dal titolo Love in a Forest, fu

rappresentato al Drury Lane. Una versione in cui l’autore spazzò

via, com’è prevedibile, tutti i personaggi non essenziali: Pietra

di Paragone, Aldrina, Martext, Corinno, Febe, Silvio e Guglielmo.

E analogamente a un’operazione che avrebbe commesso Ducis in

Francia – ben settanta anni dopo35 – con la sua traduzione di Otello,

dove lo strangolamento di Desdemona sarebbe stato sostituito da un

colpo di pugnale,36 Johnson inserì un duello a spade al posto della

“volgare” lotta a mani nude tra Orlando e Carlo.37

Il testo non manomesso arrivò finalmente sulle tavole del Drury

Lane tra il 1740 e il 1741: in questi anni, dunque, sono

documentati i primi segni di stima verso Shakespeare nella veste

di commediografo.38

Nello stesso teatro, dal 1776 al 1817 As You Like It era l’opera

shakespeariana più rappresentata in assoluto, dove si esibirono in

quel periodo attrici molto apprezzate dal pubblico. Ne siamo a

conoscenza anche perché qualcuna di loro non disdegnò di sfogare

34 Ivi, pp. 45-46.35 Questo ritardo ci dà una misura di come la Francia perseverasse nel suo atteggiamento anti-shakespeariano.36 J. F. DUCIS, Othello (1792), Materiale didattico a cura di Mara Fazio, A.A.2011-12.37 M. HATTAWAY, Op. cit., in W. SHAKESPEARE, Op. cit, pp. 45-46.38 Ibidem.

con qualche critico il suo dispiacere per l’indecenza androgina

del proprio costume, su cui le connotazioni di genere venivano

annullate, per ragioni di pudicizia.39

Nei Paesi non anglofoni, per motivi culturali, non si è avuta

traccia di versioni aderenti al testo prima del XIX secolo. A tal

proposito, ne sono esistite due degne di nota: Comme il vous plaira

(1855-1856) di George Sand – che ha inaugurato la rappresentazione

della commedia shakespeariana nella Comédie-Française – dove

Jacques cedette il suo lato malinconico per diventare l’eroe della

commedia e il corteggiatore di successo di Celia. L’altro

adattamento, più o meno simile, è una versione norvegese per la

quale fu coinvolto nella stesura del testo Henrik Ibsen, una sorta

di comédie-vaudeville, scritta per la compagnia del Norwegian Theatre

nel 1855.40

Nel XIX secolo cominciarono a fare la loro comparsa

interpretazioni più ardite: furono sperimentati tentativi di

trasformazione della commedia in una sorta di melodramma,

aumentando i contenuti musicali al suo interno. Come le versioni

montate da Frederic Reynolds su musiche di Henry R. Bishop e

Thomas Arne, che utilizzavano anche canzoni di altre commedie e

sonetti shakespeariani convertiti in musica.41 Nello stesso

periodo, altri adattamenti violavano la semplicità del teatro

elisabettiano. Numerose comparse, e alberi sorprendentemente

realistici, iniziarono ad affollare – nel nome della

verosimiglianza – i palcoscenici dei teatri londinesi più

importanti, tra cui il Covent Garden. Così, per molto tempo il

39 Ivi, p. 47.40 Ibidem.41 Ibidem.

successo della commedia si sarebbe basato quasi esclusivamente

sulla sua spettacolarità e sulla quantità di denaro messa a

disposizione dai suoi produttori.42 Fatta eccezione per G. Bernard

Shaw, che si oppose alla tendenza prevalente nell’Ottocento di

alterare la natura del testo (diventato quasi un melodramma a

tutti gli effetti), per enfatizzare «il profondo sentimento

evocato da un paesaggio silvestre e pastorale».43 Forse, però, non

fu l’unico a rimanere colpito da questo particolare aspetto

sotteso al testo, se è vero che a Manchester qualcuno pensò

addirittura di far collocare sul palcoscenico un branco di cervi.44

In quel periodo, correva anche la moda di rappresentare lo

spettacolo all’aperto,45 un’usanza che ha trovato conferma anche

nel Novecento. Un esempio di questo tipo è dato dalla regia di

Jacques Copeau del ‘38 – citata in precedenza – presso i giardini

di Boboli di Firenze, adattamento che rendeva omaggio al luogo,

nella traduzione di Paola Ojetti46 dal titolo convertito in un

toscano Come vi garba. Una rappresentazione, a detta di un critico

presente alle prove, che dovette essere molto spoglia, in linea di

pensiero con il passato, e con la scuola, quindi, del Vieux

Colombieu; dove Copeau aveva insegnato che «la gioia degli occhi»

poteva essere «assolutamente indipendente dal costo» dello

spettacolo:47

42 Ivi, pp. 47-50.43 Cfr. Ibidem.44 Ivi, p. 50.45 Ibidem.46 Dieci anni dopo la sua traduzione sarebbe stata utilizzata da Luchino Visconti, per la sua memorabile Rosalinda o come vi piace. Fonte: http://www.luchinovisconti.org/pagine/opere_1_vis/scheda.asp?id_opera=38&id_genere=5. Verificato il 01.06.2012.47 I. ALIVERTI, Jacques Copeau, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 73.

Copeau ha voluto metterla a contatto diretto del pubblico,

senza velarla di orpelli, senza allontanarla nello spazio. Un

semplice cortile, una scenografia elementare, pochi alberi gli

sono stati sufficienti. Il risultato dirà se ha avuto ragione.

Come dice Rosalinda nell’Epilogo “il buon vino non ha bisogno

d’insegna”, Copeau non ha cercato nessuna insegna all’ombra

della quale mettere il nome del gran Will; la commedia deve,

secondo lui, vincere coi suoi propri mezzi, con la poesia che

vi è profusa a piene mani, con la dialettica sottile, con la

piacevolezza del dialogo, con la profondità del suo

pensiero.48

Shakespeare e il Novecento: l’esempio di Luchino Visconti

Agli albori del Novecento, ancora si registravano allestimenti

ispirati al gusto realista che non lasciava spazio

all’immaginazione dello spettatore, presupposto fondamentale su

cui si basava la poetica del teatro shakespeariano. Uno strato di

foglie verdi e color ruggine ricopriva il palcoscenico fino

all’altezza delle caviglie, nella realizzazione curata per la

prima volta da Sir Frank Benson nel 1910, dove gli interpreti

potevano ostentare strascicamenti o addirittura inciampare.49 Il

primo storico tentativo di spezzare le catene dell’illusione

scenica fu eseguito da Nigel Playfair nel 1919, prima a Stratford

48 C. GIACHETTI, Stasera… art. cit..49 M. HATTAWAY, Op. cit. in W. SHAKESPEARE, Op. cit., p. 51.

e poi a Londra (al Lyric Theatre); qui restava intatta la

preferenza per uno Shakespeare più “operistico”, ma «i musicisti

erano visibili sul palcoscenico, e le sue emblematiche scene

medievali-cubiste con i costumi nei colori primari (di Claude

Lovat Fraser) furono violentemente attaccate da alcuni critici per

le loro qualità “futuristiche”».50

Un esperimento simile ma calato in un Settecento surrealista,

anziché in un Medioevo futurista, avrebbe avuto luogo anche in

Italia quasi quarant’anni dopo, anche qui suscitando reazioni

violente; a dimostrazione del fatto che l’Italia, con la

drammaturgia shakespeariana, era davvero rimasta indietro rispetto

al resto d’Europa. Questa versione fu portata in scena il 26

novembre 1948 al Teatro Eliseo di Roma, da Luchino Visconti:

Rosalinda o come vi piace. Per lei vale la pena spendere qualche parola

in più.

Al di sopra d’ogni cosa, fece scalpore il fatto che un regista che

al cinema sembrava aver imboccato la strada del neorealismo – e a

teatro quella di un naturalismo di stanislavskijana memoria –

avesse scelto improvvisamente di abbandonarla per rifluire nello

spettacolo sfarzoso e disimpegnato. Oltretutto, proprio subito

dopo aver girato un film come La terra trema, Visconti affidò la cura

delle scene e dei costumi a uno dei geni più visionari della

terra: Salvador Dalì. Una decisione “insolita” che fece passare

alla storia Rosalinda o come vi piace come un mero esercizio di stile, un

errore di percorso nella carriera di Luchino regista teatrale.

Commenti simili a questo, oltrepassarono i confini italiani:

50 Cfr. Ibidem.

La combinazione tra un regista realista e un pittore surrealista

che ha voltato le spalle al surrealismo fece ottenere il peggio di

entrambe le cose.51

Gerardo Guerrieri, il dramaturg della compagnia di Visconti – al

quale Rosalinda non piacque affatto – condivideva il parere di un

critico, che offriva una spiacevole descrizione dei fondali

dipinti dall’artista spagnolo:

«In Rosalinda per il settecento futuribile [Visconti] si era servito

della collaborazione con Dalì che “si era scapricciato con quegli

elefanti a zampe d’insetto come palloni nell’etere, e il tempio

palladiano della corte che esplode in quattro, certo l’atomo,

mostrando il nucleo-pomo del paradiso terrestre”».52

Gli elefanti, cui il critico faceva menzione, furono ispirati (o

“ritornati in mente”)53 molto probabilmente all’artista da una

visita al Parco dei Mostri di Bomarzo, avvenuta proprio sedici

giorni prima dello spettacolo.54 L’associazione elefante-insetto su

uno dei fondali di Rosalinda non era casuale, ma simbolica:51 Ibidem.52 G. GUERRIERI, Visconti verso Cechov, in ID., Il Teatro di Visconti, a cura di Stefano Geraci, Roma, Officina, 2006, p. 153.

53 «[L’immagine dell’elefante] comparve per la prima volta nell'opera del1944 Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio.L'elefante [presente anche in La tentazione di Sant’Antonio, 1946] è ispirato alpiedistallo di una scultura di Gian Lorenzo Bernini che si trova a Roma[a piazza della Minerva] e rappresenta un elefante che trasporta unantico obelisco». http://www.inmsol.es/corsi-spagnolo-spagna/larte-di-salvador-dali.html. Verificato il 01.06.2012. Per una curiosaassociazione, anche l’atomo “diviso in quattro” di cui si parla nelladescrizione ricordata da Guerrieri è una citazione di un’altra operadell’artista – Dematerializzazione del naso di Nerone (1947) – che appartienealla fase del “misticismo nucleare”, successiva alla seconda guerramondiale. http://it.wikipedia.org/wiki/Salvador_Dal%C3%AD. Verificato il01.06.2012.54 http://salvadordali.forumattivo.com/t309-i-viaggi-di-dali-in-italia#bottom. Verificato il 01.06.2012.

«l'elefante rappresenta la distorsione dello spazio […] le zampe

lunghe ed esili contrastano l'idea dell'assenza di peso con la

struttura»;55 si trattava, dunque, di un gioco linguistico fatto

nel campo della pura irrealtà, proprio com’è irreale l’immagine

della Foresta di Arden, diventata per la corte del buon Duca lo

scenario ideale per un mondo idealizzato.

Come detto in precedenza, però, la commedia di Shakespeare aveva

sempre sofferto di giudizi negativi, ritenuta da molti un lavoro

poco brillante, ingenuo, non all’altezza di altre opere

shakespeariane, soprattutto per la presenza di troppi personaggi,

un intreccio complesso e un ritmo dell’azione molto lento in

alcuni punti.

Luciano Lucignani, recensore dello spettacolo su «L’Unità»,

collegava la scelta dell’artista spagnolo, quindi, al desiderio

del regista di riportare in scena un’opera che aveva perduto da

troppo tempo, ormai, la sua suggestione. Tale suggestione andava

“reinventata” dal regista, per offrire ai contemporanei la

bellezza visiva e spettacolare implicita nel testo. E l’unica via

possibile per rendere attuale la bellezza del testo era adeguarla

al gusto novecentesco. Per questo Visconti si servì di un artista

vivo, visionario, con del talento da vendere per le scene come

Dalì:

[…] Diciamo cioè che accusare Visconti, come i leggeri dissensi

durante e dopo lo spettacolo di ieri sera tendevano a dimostrare,

di aver usato il testo a pretesto per musiche, balli e luci, era

accusa che se mai andava legata al fatto stesso di avere scelto

questa commedia; essa aveva per i suoi contemporanei, una

55 http://www.inmsol.es/corsi-spagnolo-spagna/larte-di-salvador-dali.html. Verificato il 01.06.2012.

suggestione che in qualche modo bisognava reinventare. Può darsi

che Visconti abbia ecceduto in questo, particolarmente servendosi

dei costumi e delle scene di Salvador Dalì, che peraltro egli

doveva aver molto controllato, se la scena appariva così poco

distante dal suo gusto, ma anche questo è un errore che va preso

tutt’insieme con le virtù di questo regista. […] A detta di critici

che lo videro, il “Come vi piace” di Jacques Copeau, realizzato nel

giardino di Boboli, a Firenze, una dozzina d’anni fa, era piuttosto

inferiore. E a coloro che dicono “ma è stato ucciso Shakespeare”

vorrei proporre d’andarsi a rileggere la commedia nel testo;

vedranno quant’essa è a volte sì, deliziosa, fresca, leggera, ma

anche spesso ferma, pesante, noiosa…56

Lo stesso regista avrebbe ricordato ai critici quale dovesse esser

stata la funzione della commedia ai tempi di Shakespeare: quella

di dilettare la corte della Regina Elisabetta che, si narra, trovò

la commedia abbastanza noiosa e richiese all’autore di inserirvi

musiche, canzoni e danze, le cui indicazioni sono contenute nel

testo. Per tale motivo, era impossibile parlare di “purezza

infranta” oppure di mancanza di fedeltà al testo, anzi. Il regista

sfidava chiunque a realizzare uno spettacolo altrettanto fedele a

Shakespeare, dichiarando che la sua interpretazione non solo era

la più fedele che gli fosse mai riuscita di un testo, ma

addirittura quella più fedele che si fosse mai vista sulle scene:57

56 Luciano Lucignani citato in L. VISCONTI, Rosalinda o Come vi piace, in Il mio teatro (1936-1953), a cura di Caterina d’Amico de Carvalho e Renzo Renzi, vol. I, Bologna, Cappelli, 1979, p. 132.

57 «Coloro infatti che hanno assistito allo spettacolo con mente sgombrada preconcetti, si accorgono che, per quanti difetti ci possano trovare,la mia interpretazione è la più fedele che si possa tentare diquest’opera di Shakespeare. Dirò di più, ritengo che sia la più fedeleche mi sia mai riuscita di un testo». Cfr. L.VISCONTI, Sul modo di mettere in

[…] Giacché, sia vero o no l’episodio della Regina Elisabetta che,

alla prima di As you like it si sarebbe annoiata e avrebbe imposto

all’autore musiche, canzoni, danze, sono vere, comunque sono le

indicazioni che dà lo stesso testo di Shakespeare. Il quale è una

fèerie, un concerto musicale, al confine col balletto; i suoi

personaggi sono, nel dialogo o negli atteggiamenti, musica e danza;

le avventure della storia sono, nel campo della più assoluta

libertà, quindi.58

Sostenendo la possibilità insita nel testo di poter lavorare con

assoluta libertà, come d’altronde suggeriva il titolo stesso

dell’opera, Visconti stravolse l’epoca in cui le vicende sono

ambientate e le calò in un Settecento fiabesco, surreale ed

immaginario. L’atmosfera in cui i personaggi sono avvolti nella

commedia, infatti, è quella di un mondo “altro” rispetto alla

corte e al presente di Shakespeare, un microcosmo “meraviglioso”–

per usare un termine caro a Tieck – che si prospettava come un

futuro auspicabile; sopra la realtà e, quindi, “surreale”. Silvio

d’Amico, sorpreso positivamente dal lavoro di Visconti,

evidenziava la funzione della scenografia come surrogato dei

valori lirici del testo – come nel famoso monologo pronunciato da

Jacques, “Tutto il mondo è un palcoscenico…” – che, rappresentati

in un'altra lingua e in un’altra epoca (quella coeva al regista),

finivano inevitabilmente per andare perduti:

Per quali vie le vicende della fiaba, tra farraginosa e puerile,

diventano canto e danza? Che significano i sospiri dell’eroe? A che

mirano i commenti di Pietra-di-paragone, il buffone? Qui è il

scena una commedia di Shakespeare, in «Rinascita», dicembre 1948. 58 Ibidem.

segreto ineffabile del dramma, tenero e ironico, gaio e accorato. E

di qui nasce il problema del regista intento a tradurre la sua

poesia, non solo a un altro tempo, ma in un altro idioma: che vuol

dire, in una versione dove i valori lirici che danno incanto alla

lettera del testo vanno irrimediabilmente perduti. […] Alla quale

impresa, realizzata con un fasto fino a oggi sconosciuto nella

nostra scena di prosa, lo ha sostenuto Salvador Dalì coi suoi

costumi d’un barocco filtrato al gusto novecentista […]59

Anche Giovanni Calendoli, per «Scenario», poneva l’accento sugli

elementi visivi e sonori che Visconti utilizzava in tutte le forme

possibili a sostegno della parola, sulla scia della

spettacolarizzazione della commedia in voga durante il XIX secolo.

I contorni onirici e simbolici della scena di Dalì sembravano

comunicare allo spettatore «come nella perfetta felicità, tutto

quanto solitamente più urge ed affligge debba assumere la

gradevole inconsistenza di un gioco che non ferisce»:60

Le intenzioni di Luchino Visconti sono rivelate dalla stessa scelta

del testo: egli ha voluto divertirsi sulle orme dell’itinerario

shakespeariano, ricostruendo l’immagine della meravigliosa foresta

come un’immagine di felicità perduta, come la memoria di un mondo

dove gli uomini si sciolgono dai vincoli dell’odio, della lotta e

del sangue per conquistare l’ineffabile levità di un’esistenza

senza amarezze, tutta protesa verso l’irrazionale incantesimo di un

sogno perenne. Lo spettacolo è perciò un divertimento nel senso

letterale della parola: tutti gli spunti sono stati colti dal

regista per divergere dal filo conduttore dell’azione già

tenuissimo ed intrecciargli intorno i più capricciosi disegni:

59 Silvio d’Amico citato in L.VISCONTI, Il mio teatro, cit., vol. I, p. 128.60 Giovanni Calendoli citato in Ivi, p. 130.

canti, danze, pantomime, apparizioni e sparizioni di luoghi e di

personaggi.61

La metafora del gioco e del sogno, d’altronde, era marcata dallo

stesso regista. Visconti ha sempre parlato della sua Rosalinda in

termini di «giuoco fantastico», «sogno irreale», nonché

«variazione su un tema d’amore».62 Ma, soprattutto, a distanza di

quasi vent’anni ne avrebbe ricordata la straordinaria bellezza

visiva, al punto da definirlo uno “spettacolo da godere con gli

occhi”:

Quando presentai Rosalinda di Shakespeare sapevo che doveva essere

uno spettacolo soprattutto da godere con gli occhi. Mi ricordo che

perfino Togliatti, dopo essere venuto a teatro, scrisse un articolo

per sostenere l’esattezza dell’interpretazione e la necessità di

dare certi testi in maniera apertamente visiva.63

Un altro aspetto che spiega l’interpretazione viscontiana del

testo è da rintracciarsi in un atteggiamento ricorrente che il

regista mostrava nel trattare i classici; si sentiva come attratto

in maniera diversa dai classici del passato rispetto alla

letteratura più recente. In entrambi i casi, il testo per lui

rimaneva un punto di riferimento imprescindibile, e ciò valeva al

cinema come a teatro, anche se in quest’ultimo caso il regista si

sentiva, certo, più limitato nelle sue possibilità.

61 Giovanni Calendoli citato in Ibidem.62 L. VISCONTI, Sul modo di mettere in scena… art. cit..63 L. VISCONTI, Vent’anni di teatro, in Il mio teatro … cit..

Eppure, come ha affermato Nadia Palazzo, «la sperimentazione

testuale consente al regista un fruttuoso confronto con moduli

drammaturgici eterogenei», che variano a seconda della vicinanza

con il presente. Ne risultava una sorta di “dualismo

interpretativo”,64 per cui Visconti preferiva adoperare un

linguaggio immediato e uno stile fortemente realista per il

repertorio coevo americano e francese, mentre guardava con aria

trasognata ai testi che sentiva distanti nel tempo, per i quali si

servì di una maggiore spettacolarità, come ha osservato Paolo

Puppa:

[…] se il repertorio americano o francese più recente e coevo

coinvolge Visconti in un’immediatezza di vita quotidiana e in un

forte investimento emotivo, quello antico consente viceversa un

raffreddamento ironico, tanto che si possono articolare i timbri

del regista in due categorie umorali: i testi vicini nel tempo, coi

corpi ben presenti in una scena trasformata nel luogo del

desiderio, della sofferenza e della protesta sociale, e quelli che

al contrario sfuggono al destino e richiedono una diversa natura,

l’«aura» di un gioco trasognato e incantatorio, il lusso e lo

spreco, i fasti dell’immagine e del suono.65

Lo stesso Visconti affermava in un articolo su «Rinascita» in

difesa alle accuse mossegli contro per aver “abbandonato” il

neorealismo – questa «assurda etichetta appiccicata addosso come

un tatuaggio» – che al cinema come a teatro aveva sperimentato

proprio il neorealismo «fin dove era possibile farlo»;

64 AA.VV., Op. cit., p. 38.65 P. PUPPA, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Bari, Laterza, 1990, p. 50.

[...] il teatro ha limiti e differenziazioni che non gli ho

scoperto io. Pure, nell’unico quadro dell’arco scenico, lasciamogli

intatte le sue possibilità di movimento, colore, luce, magia. Non

realismo o neo-realismo; ma fantasia, completa libertà

spettacolare.66

Introducendo alcuni ricordi su Il matrimonio di Figaro, Gerardo Guerrieri

ha notato come, in particolare per Rosalinda, Visconti avesse fatto

leva «su tradizioni culturali più ampie e in contrasto con

l’occasione o l’obbligo della messa in scena»67 perché sembrava

aver piena consapevolezza del fatto che «i classici non sono

affatto nostri contemporanei o lo sono solo nel momento in cui

possono alludere alla storia fatta con i se: gonfi di futuro, ci

trascinano verso un vuoto attraente».68

La recitazione degli attori, poi, in Rosalinda era un

riverbero della visualità dei costumi settecenteschi, progettati

dall’artista con un eccesso di stile e di colore, in armonia con i

fondali dipinti, luminosi e sgargianti. La figura dell’attore si

trasformava anch’essa in elemento visivo e, schiacciando la sua

immagine sullo sfondo, si rendeva parte di quel quadro vivente che

è la scena. Per far vivere il personaggio, l’attore deve, però,

liberare i suoi movimenti quasi fino a danzare, per adeguare il

suo corpo alla fisicità surreale dei fondali.66 L. VISCONTI, Sul modo di metter in scena… art. cit..67 G. GUERRIERI, Visconti verso Checov, cit..68 Cfr. Ibidem. Queste parole rappresentano, infatti, la parafrasi dialcuni versi pronunciati proprio nella commedia, da Jacques ilmalinconico (atto II, scena iii): «Chi condannasse l’umana vanità,accuserebbe forse questo o quello? Forse che non si gonfia da se stessa,la vanità, immensa come il mare, finché gli stessi mezzi onde si nutrenon le restano a secco col riflusso?». W. SHAKESPEARE, Come vi piaccia,trad. a cura di G. Ramponi, edizione elettronica, 2001, p. 52.

Alla recitazione degli interpreti fa riferimento Giovanni

Calendoli su «Scenario»:

E di un sapore vagamente settecentesco è la stessa recitazione di

tutti i personaggi, leziosa, manierata, scorporata dal peso di

sentimenti che ogni parola porta con sé […] Luchino Visconti ha

voluto molto evidentemente raggiungere, oltre ogni pretesto umano e

polemico, un ritmo di teatralità pura.69

«E rilegga il “Paradosso sull’attore comico”» di Diderot, risponde

Palmiro Togliatti all’autore di una recensione che stroncava

Rosalinda, impedendone la pubblicazione su «Rinascita». Non sappiamo

cosa vi fosse scritto in quella recensione, ma probabilmente

rimproverava «al campione del neorealismo», spiega Nadia Palazzo,

«che veniva appunto da una sorta di manifesto come La terra trema, di

aver abbandonato quel territorio per rifluire in quello dello

spettacolo sfarzoso e disimpegnato».70 Il leader storico del PCI,

dunque, interviene in difesa di Visconti perché, spiega, «un

intellettuale nostro amico e di tendenze progressive» non può

esser criticato solo per «un dissenso sulla rappresentazione di

una commedia di Shakespeare – tema opinabile in sostanza».71

“Tema opinabile”, questo è certo: Luchino Visconti altro non ha

fatto che parafrasare il titolo dell’opera di Shakespeare. Fedele

al testo dall’inizio alla fine.

E se è stato l’aspetto visivo un po’ barocco a provocare tanto

chiasso, Visconti risponde ai suoi detrattori che è Shakespeare in69 Giovanni Calendoli citato in L. VISCONTI, Il mio teatro, Op. cit., vol. I,p. 130.70 AA.VV, Luchino Visconti e il suo teatro, a cura di Nadia Palazzo, Milano, Bulzoni, 2006, p. 84.

71 Ibidem.

primis a dire che la commedia dev’esser fatta “come vi piace”. Il

poeta sembra, infatti, comunicare ai posteri “Immaginatela dove

volete, nella foresta di Arden, oppure nelle Ardenne francesi”,

non importa. Ciò che conta è che piaccia e che diletti il pubblico

con la sua frivolezza. E qui, l’immaginazione doveva diventare

tutto. Nella fiducia nel potere immaginifico e senza tempo di

Shakespeare risiedono le ragioni della maestosità della regia

viscontiana:

Quanto al criterio della rappresentazione, perché scegliere il

settecento, quando l’opera è nata a cavallo tra il cinque e il

seicento? Risponderò con altre domande, che sono i quesiti che io

stesso mi sono proposti prima di iniziare. Mi conviene «la fedeltà

storica»? A chi servirebbe la riproduzione storica di uno

spettacolo come si è svolto nell’epoca – ammesso che questo si

possa fare mente invece, e ugualmente nel caso della Commedia

dell’Arte, è impossibile? – A qualche professore o storico. Mi

servirò del quadro e dei costumi secenteschi, puritani, austeri,

dignitosi nell’atteggiamento e nella linea? Oppure mi avvicinerò –

dato che la storia è senza tempo e può essere accaduta nell’Arcadia

greca, o nelle foreste della Scozia, o nei boschi dei pittori

veneti – a un secolo più libero, romanzesco, immaginoso e

gradevole? Ecco come è sorta in me l’idea del settecento a cornice

dell’intrigo, del balletto, realizzato da Dalì in un settecento

autunnale, pieno di colore, allegria, melanconia, un settecento non

storico ma immaginario, il settecento innocuo della favola.72 […] E

la recitazione, del pari, armonizzata su canti e musiche (che sono,

fedelmente, quelli stessi scritti per Shakespeare) i quali evocano

con grazia atmosfere di antichi divertimenti […] è stata mossa,

coralmente, su un passo, e con gesti, che non sono quelli della

72

realtà, ma dichiaratamente, nella ricerca di un’efficacia

stilistica, di una essenziale libertà di movimenti e di gesti. […]

Libertà, insomma, e ritrovamento del meraviglioso. Di un mondo

delle meraviglie di cui il teatro ha smarrito da un bel po’ la

strada […]73

Shakespeare e il Novecento: l’esempio di Peter Stein

Intorno agli anni Settanta, As You Like It subì un nuovo insolito

fascino. Le regie di questo periodo tesero a far emergere in

superficie il senso politico nascosto nell’opera.74 Studi coevi

come quello di Jan Kott – il cui famoso Shakespeare Our Contemporary

apparve nel 1961 – diedero un contributo notevole in questa

direzione. Kott tentava per la prima volta di svelare chiavi di

lettura dietro l’intera opera shakespeariana analizzando scene,

battute, azioni e caratteri dei personaggi. A proposito di As You

Like It, in particolare, alcuni registi cercarono di concentrarsi sui

significati simbolici della Foresta di Arden, spesso associati a

una purezza ancestrale di cui si era smarrito il ricordo.

Nel 1973 per la Royal Shakespeare Company, Buzz Goodbody fece

realizzare allo scenografo Christofer Morley una foresta di tubi

di Plexiglass riciclato. Qui, le azioni di un cechoviano Jacques

sembravano scaturire proprio dal disprezzo per la Foresta, e

l’attore che interpretava Pietra di Paragone recitava alla maniera

73 L. VISCONTI, Sul modo di metter in scena, art. cit..74 M. HATTAWAY, Op. cit., p. 53.

di un comico televisivo contemporaneo, con allusioni al music-

hall.75 La produzione fece sistemare in scena un manifesto in cui

era ritratta la visuale posteriore di Ganimede vestito con jeans a

zampa di elefante, su cui figurava una didascalia che giocava con

l’equivoco sul sesso del personaggio, prendendo in prestito parole

piuttosto forti di Martin Lutero – ma qui l’effetto, ovviamente, è

comico: «Gli uomini hanno spalle larghe e fianchi stretti, e di

conseguenza possiedono l’intelligenza. Le donne hanno le spalle

strette e i fianchi larghi. Devono stare a casa; il modo in cui

sono state create indica il motivo per cui hanno i fianchi larghi

e un ampio basamento su cui sedere, rimanere a casa, partorire e

crescere i figli».76

Una versione catalana del 1983, Al vostre gust di Lluis Pasqual, andata

in scena al Teatro Lliure di Barcellona, regalava l’immagine di

una Arden «ecologica, pura, e ricca di pace … la cornice per il

conflitto sociale tra un’ingiusta gerarchia e coloro che

soffrivano per l’invasione dei diritti dell’individuo».77

Tuttavia, una delle rappresentazioni storicamente più importanti e

memorabili fu senza dubbio quella di Peter Stein, andata in scena

per la prima volta il 20 settembre 1977, che passò alla storia

come la più spettacolare riproduzione di Shakespeare in Germania

dai tempi di Max Reinhardt. Dello spettacolo è conservata memoria

anche attraverso una realizzazione filmica che, anche se è sublime

nello stile e nell’uso intelligente del montaggio, non rende molto

bene l’idea dell’immensità e la spettacolarità dello spazio

teatrale per l’uso frequente di primi piani. Difatti, Stein

rinunciò a mettere in scena la commedia nel suo Schaubühne am

75 Ibidem.76 Ibidem.77 Ibidem.

Halleschen Ufer e decise di allestirla agli studi cinematografici

della CCC Film Studios di Spandau, dove nove mesi prima si era

tenuta un’altra curiosa performance della compagnia diretta da

Stein: Shakespeare’s Memory.78

Tale performance rappresentò il primo avvicinamento del regista al

poeta inglese, con il quale preferì avere un approccio cauto,

maturato anche mediante personali approfondimenti sulla sua

drammaturgia nel corso di seminari laboratoriali frequentati da

lui e gli attori negli anni ’71-’73.

Shakespeare’s Memory – nel cui titolo inglese sono riuniti i due

vocaboli separati nella lingua tedesca Erinnerung (il “ricordo”) e

Gedachtnis (la facoltà della memoria) – nasceva precisamente, quindi,

dall’intento del regista di esplorare in senso più ampio gli

aspetti culturali e sociali dell’età elisabettiana. Il risultato

doveva emergere da una ricerca collettiva e individuale allo

stesso tempo; ciascun attore, infatti, fu invitato a pensare in

maniera separata dal gruppo ai temi che potevano essere

approfonditi, e a costruirvi sopra delle improvvisazioni da

mostrare agli altri solo in un secondo momento.79

La scelta per gli attori si prospettava davvero molto estesa.

Stein suggerì loro di far spaziare la fantasia tra le diverse voci

enciclopediche sul “teatro elisabettiano”, “fonti teatrali e di

altre arti ad esso inerenti”, “scienze naturali e filosofia”,

“teoria e pratica politica” e “modelli di pensiero del periodo

elisabettiano”, senza naturalmente trascurare altri aspetti

ugualmente importanti, come la vita quotidiana dei cittadini

78 M. PATTERSON, Peter Stein, Germany's Leading Theatre Director, CUP Archive, 1981,

p. 134.

79 Ivi, p. 124.

inglesi all’epoca di Shakespeare.80 Insomma, il progetto si

configurava come una sorta di vetrina, un museo vivente dell’età

elisabettiana. Proprio in questa freddezza del risultato, che

mostrava al pubblico l’esito di una ricerca senza rivelare i

processi, risiedette una parte delle critiche alla performance.81

Un’altra parte, invece, fu indirizzata alla qualità

dell’interpretazione attoriale, che fu definita «un’esibizione

degli stili teatrali fuori moda».82

Da un punto di vista scenico, poi, di elisabettiano c’era ben

poco, com’era giusto che fosse, altrimenti non avrebbe avuto senso

il lavoro svolto dagli attori attraverso l’improvvisazione. Le

parti pantomimiche, soprattutto, ricordavano il teatro da fiera,

con i suoi giocolieri, acrobati, illusionisti.83 Anche il modo in

cui lo spazio era strutturato concorreva a rievocarne l’idea. Le

varie performance, infatti, erano disposte in punti diversi dello

spazio e presentate simultaneamente in mezzo al pubblico. Veniva

messo in discussione, quindi, il rapporto tradizionale dello

spettatore con l’opera teatrale, dovendo egli esercitare una sua

personale politica della visione e esser lasciato libero di

muoversi da un punto all’altro dello spazio, secondo il suo

interesse. Ma c’è dell’altro. Sono gli stessi performer a

suggerire la disposizione del pubblico con azioni come muovere una

corda creando una circonferenza nell’aria, la disposizione di un

tappeto a terra, lo spostamento di un arredo scenografico; una

80 Ibidem.81 Ivi, p. 131.82 Ivi, p. 130.83 Riferimenti più precisi sono possibili grazie alla visualizzazione di una ripresa filmica prodotta dalla compagnia che testimonia le varie performance. Peter Stein, Shakespeare’s Memory, Schaubühne am Halleschen Ufer, 1976.

soluzione registica che avrebbe avuto influsso sul successivo As You

Like It.

Il repertorio letterario che aveva ispirato le performance era

incredibilmente vasto. Spaziava da un famoso mistery play del teatro

tardo-medievale, The Second Shepherd’s Play – una sorta di parodia della

Natività – ai saggi di alcuni protagonisti della rivoluzione

copernicana. Come a un comizio elettorale, Copernico, Tycho Brahe

e altri filosofi espongono al pubblico la propria visione del

cosmo e, come per cercare il consenso, la validità delle loro

argomentazioni è sostenuta attraverso mappe, disegni, modelli

planetari giganteschi.

Altri richiami letterari erano evocati da personaggi che

arrivavano in mezzo al pubblico su un pageant: Erasmo da Rotterdam,

naturalmente Shakespeare, e tra le citazioni c’era anche un antico

dramma popolare, il Revesby-play, simile a King Lear nella sinossi.

Proprio la tragedia di King Lear venne ricordata in una delle

performance, modulata sulla scena del povero Tom, al quale teneva

compagnia un grazioso e tranquillo cagnolino. Non mancava,

inoltre, qualche scorcio di vita quotidiana, come la scena di un

banchetto, dove fu fatto capire al pubblico di sedersi e mangiare.

Il senso di questa eccentrica visione registica è spiegato

chiaramente da Michael Patterson:

I trionfi che erano mostrati comunicavano comunque alcune

importanti idee al pubblico. Dato che nella nostra epoca il genio

di Shakespeare rende i suoi drammi ancora così vibranti e

rilevanti, è facile dimenticare quanto lo fossero per un uomo del

suo tempo, condizionato dalla politica e dalla filosofia dell’età

elisabettiana. […] Sospesa tra le superstizioni medievali e

impedendo il razionalismo dell’Europa occidentale, l’epoca

elisabettiana conteneva al suo interno una massa di contraddizioni

feconde, e la sua più grande letteratura drammatica le abbraccia

tutte.84

In seguito a questo tuffo nell’età elisabettiana, la compagnia di

Peter Stein decise che era giunto finalmente il momento di mettere

in scena Shakespeare. Dopo vari tentennamenti, pareva che aver

definitivamente pensato a La dodicesima notte, cosa che alla fine decise

di non fare, perché testo «troppo scontato».85 E la scelta ricadde

su Come vi piace.

I motivi furono diversi. Innanzitutto, a Stein piacque il forte

contrasto interno alla commedia tra sovrani buoni e cattivi, la

figura androgina di Rosalinda/Ganimede e la presenza di elementi

popolari della vita pastorale. Proprio quest’ultimo aspetto era

particolarmente importante per i tedeschi di Berlino Overst: «la

fuga da qualsiasi cosa, somigliante a una grande foresta, era

impossibile per gli spettatori mentre la città era circondata

dalla Repubblica Democratica Tedesca».86 Anche se da una parte la

commedia apparve a Stein come «totalmente estranea […] così ricca

d’idee, complessa, e altrettanto priva di consistenza», sembrò

comprensibile e appropriato che la sua visione fosse profondamente

consapevole del tema principale della commedia: l’evasione verso

un’Utopia pastorale e, allo stesso tempo, la natura precaria di

questa fuga.87 L’elemento pastorale è «una specie di allegoria»,

suggerisce Michael Hattaway, «in cui i personaggi, pastori e non

contadini, sono l’esempio antitetico [“antitypes”] dei proprietari

84

85 Ivi, p. 132.86 Ivi, p. 53.87 Ivi, p. 133.

terrieri o di una casta».88 In Arden, un po’ come ne La tempesta – che

condivide con As You Like It il tema dell’usurpazione di un trono ad

opera di un fratello e il conseguente “esilio” del fratello buono

– i personaggi ritrovavano momentaneamente se stessi per poi

ricostituire, non dove si era arrivati ma da dove si era partiti,

l’ordine che era stato distrutto. Ma ciò poteva solo e soltanto

accadere dopo aver «raggiunto una misura della ricognizione nel

corso del rustico dilettare»:89

L’universo pastorale, dove la “natura” invoca un mito di

uguaglianza politica, serve a definire quegli elementi di vita

“civilizzata”, che sono “innaturali”, crudeli, o hanno a che fare

con l’ascesa sociale.

Come osservava giustamente Jan Kott, nel suo saggio Shakespeare’s Bitter

Arcadia, stampato anche sul programma dello Schaubühne: «alla fine

del dramma ognuno lascia la Foresta di Arden; eccetto Jacques. È

l’unico che non ha ragione di lasciare la foresta perché non vi ha

mai creduto, non è mai entrato nell’Arcadia».90

È questa visione, piuttosto disincantata, che Peter Stein ha

voluto riprodurre simbolicamente, come dimostra l’epilogo dello

spettacolo,91 in cui il luogo della Foresta vergine si vede

inesorabilmente contaminato dal mondo civilizzato, dove le nozze

sono celebrate con lo stesso rigore con cui sarebbero state

compiute a corte, secondo l’usanza e il costume, e dove s’intuisce

chiaramente che il matrimonio tra Febe e Silvio non rappresenta88 M. HATTAWAY, Op. cit., p. 18.89 Ivi, p. 19.90 J. KOTT, Shakespeare’s Bitter Arcadia, in ID. Shakespeare Our Contemporary, NortonLibrary, 1967, p. 231.91 Riferimenti più precisi allo spettacolo sono stati possibili grazie alla visione del film realizzato da Stein. Peter Stein, Wie Es Euch Gefalt, Schaubühne am Halleschen Ufer, 1977.

affatto un lieto fine per la pastorella ma un legame forzato,

diversamente dalla superficialità con cui nel testo i due si

uniscono in matrimonio. Quando il carro nuziale, quel grosso

avanzo di civiltà – così artificiale nei suoi ornamenti – si muove

per fare ritorno a corte, esso non riesce a oltrepassare la soglia

che separa i due mondi antitetici. I personaggi, allora, con il

busto e le braccia che li fanno rassomigliare a delle marionette,

abbandonano il carro e s’incamminano sorridenti con le loro gambe.

Il loro felice e spensierato ritorno a corte dimostrava che la

loro ipocrisia nell’ostentare la contentezza in quel mondo così

lontano dal reale era tanto grande quanto il desiderio di

riappropriarsi del proprio status sociale. Ciò conferma, quindi,

l’interpretazione del testo offerta da Jan Kott, secondo cui

Shakespeare sapeva bene che al suo tempo uno scorcio di mondo in cuil’amore ideale può essere raggiunto è condannato a rimanere un’illusione:

«Shakespeare non ha illusioni, nemmeno l’illusione che uno possa vivere

senza illusioni».92

Peter Stein rappresenta bene quest’idea in As You Like It, quando

mostra quali sono le reali condizioni che gli ex-cortigiani devono

sopportare nella Foresta; tremanti e sofferenti per il freddo

selvaggio, che essi non hanno mai conosciuto tra gli agi della

corte, si accasciano a terra e si coprono il corpo con i pochi

mezzi a disposizione. La Foresta di Arden viene, quindi, fatta

percepire allo spettatore non come un locus amoenus, ma lo strumento

attraverso cui prendere coscienza di una sconfitta che non si ha

il coraggio di ammettere. È con evidente ipocrisia che il Duca

pronuncia i versi della prima scena del II atto:

92 Ivi, pp. 226-227.

Quando il gelido dente dell’inverno e il brutale rabbuffo dei suoi

venti mi mordono e mi soffiano sul capo fino a farmi attrappire

tutto il corpo per il freddo, io dico, sorridendo: “Questa almeno

non è adulazione. Questi son consiglieri che mi fanno sentire fino

in fondo quello che sono”.93

Ma la storia insegna che ci saranno sempre vincitori e vinti e che

il ciclo sarà destinato a ripetersi. Quando il duca Federigo, in

seguito al suo pentimento, giunge con i suoi cortigiani nella

Foresta per restaurare l’ordine delle cose, si spogliano tutti

delle pesanti armature e si lasciano cadere a terra per riposare e

godersi la quiete offerta dal posto. In virtù di questa ciclicità,

nell’ultima scena dello spettacolo, troviamo, quasi

irriconoscibile nel suo misero aspetto, proprio il duca Federigo,

sdraiato ai piedi di un faggio a cantare, laddove poco prima

c’erano i suoi “predecessori”. Non a caso, il testo della canzone

è tratto dai versi di un poema francese di Francis Ponge, dal

titolo “Il ciclo delle stagioni”:

Una nuova stanchezza, un nuovo capovolgimento morale. Lasciamo che

tutto ingiallisca e cada. Lasciamo che lo stato taciturno si

approssimi, spogliando tutto, l’AUTUNNO.94

Una così limpida visione morale della commedia non poteva non

esser realizzata “in grande”. Pur ammettendo che la sua intenzione

di mettere in scena As You Like It era nata per ragioni commerciali,

Peter Stein investì parecchio in quel progetto, perché gli

occorreva uno spazio molto ampio per realizzarlo.

93 W. SHAKESPEARE, Come vi piaccia cit., p. 35.94 Da notare come soltanto in solitudine l’uomo riesca ad ammettere la propria sconfitta, riconoscendo la sua «stanchezza». Incarna, quindi, in un certo senso, la stessa visione malinconica di Jacques.

Alla CCC Film Studios, dove fu allestito tutto, il pubblico appena

arrivato veniva fatto sistemare in piedi in una lunga e alta sala,

dove si rappresentava la prima parte dello spettacolo. Le pareti

di un bianco-blu pallido, fredde come il ghiaccio, erano rese

quasi abbaglianti da fari sistemati sotto le pedane e ai tre lati

della sala, al centro della quale si ergeva una passerella

collegata ai vari stages che componevano tutta la struttura scenica.

L’aspetto massiccio, freddo e asettico di quella costruzione

neoclassica contrastava con le figure scure e robuste dei

personaggi, ingessati nei loro movimenti da pesanti costumi dai

colletti stretti fin sopra il collo, ricchi negli ornamenti e dal

sapore pre-baroccheggiante; in perfetto stile elisabettiano,

quindi.95 L’ordine e il caos, la purezza e l’ipocrisia. L’occhio

può cogliere immediatamente che il luogo in cui questi personaggi

risiedono è uno spazio invivibile, fatto di costrizioni fisiche e

contraddizioni morali.

Le scene del I, del II (la seconda e la terza scena) e del III

atto (la prima scena), furono giustapposte quasi secondo un

montaggio cinematografico: «un attore o un gruppo pronunciava

qualche verso e poi si congelava in un tableau, mentre a lui

s’interponeva un altro passo di un’altra scena e recitato da altri

personaggi presenti in sala».96

Da un punto di vista scenico, questa prima parte condivideva

alcuni aspetti del teatro elisabettiano: la scenografia

95 Fatta eccezione per il costume di Pietra di Paragone, che comunque nonindossava il tradizionale costume da buffone, ma una tuta di colore nero,marrone cioccolato e grigia. M. PATTERSON, Op. cit., p. 134.96 Quest’interpolazione, ovviamente, ben si nota nella versione filmica, in cui sono presenti numerose controscene, come quella di Febe e Silvio (che suona vicino al laghetto); Rosalinda/Ganimede che si esercita a impugnare la spada; Orlando che scolpisce con mucchietti di legno il nomedi “Rosalind” nella neve, e altre ancora.

essenziale, la passerella aggettante dovevano forse servire a

riprodurre negli spettatori in piedi la sensazione di stare sotto

il proscenio delle playhouses. Il coinvolgimento emotivo sicuramente

cresceva, poi, con l’arrivo di due nobili che camminavano in mezzo

al pubblico e riferivano i versi sul duello da combattere tra

Orlando e Charles – destinati nel testo originale a Oliver e

Charles – come due gentiluomini che conversavano in una piazza

cittadina, in mezzo alla folla.97 Proprio l’ingresso di Charles

rappresentava il culmine di quest’uso totale dello spazio. Il

lottatore veniva preceduto da un signore che gridava in mezzo al

pubblico di fargli spazio, e gli spettatori eseguivano le sue

istruzioni, disponendosi in modo da creare un corridoio al centro;

una scena che ricorda la costruzione dello spazio mediante

l’azione in Shakespeare’s Memory.

Sulla passerella il giovane Orlando e Charles – un wrestler di

professione – lottavano in maniera molto edulcorata rispetto a un

combattimento reale; d’altronde, leggendo il testo di Shakespeare,

ci sembra quasi impossibile concepire la salvezza di Orlando ai

danni di Charles. Difficile capire come il giovane abbia fatto a

mettere k.o. un uomo che s’immagina di una statura e un peso

considerevoli. E quello che nel testo di Shakespeare sembrava un

miracolo, accadde invece per davvero. Nel film – ma esistono anche

foto che immortalano il momento teatrale – si vede chiaramente

Charles, grande e grosso, capovolto a testa in giù tra le braccia

di Orlando.

In generale, tutto il linguaggio del corpo della prima parte dello

spettacolo era improntato su una retorica pomposa e un ritmo

97 M. PATTERSON, Op. cit., p. 135.

abbastanza lento, accostato da Patterson alla maniera di recitare

caratteristica di numerosi teatri municipali tedeschi.98

La seconda parte dello spettacolo era anticipata da un’idea molto

originale, che consisteva nel far provare anche al pubblico

l’esperienza del viaggio dei protagonisti, attraverso un passaggio

labirintico – dalla “corte” alla Foresta di Arden – che si

percorreva in circa quindici minuti, durante i quali lo stupore

degli spettatori era generato, oltre che dal realismo di una

scenografia silvestre, anche da presenze che ricordavano da vicino

Shakespeare’s Memory. Una sorta di esperienza di Shakespeare’s Memory in

miniatura, ecco:

Come superavamo le pieghe di questo passaggio, trovavamo curiosi

collage incollati alle pareti, piccole “cabine” aperte che

ospitavano, per esempio, un laboratorio elisabettiano, l’uomo

androgino di Shakespeare’s Memory, una statua di gesso a grandezza

naturale con seni pienamente formati e un pene sporgente dalle sue

brache.99

E poi la Foresta. Grande, magnifica, per nulla “elisabettiana”.

Realizzata da Karl-Ernst Herrmann con dovizia di elementi

realistici. Era un gigantesco ambiente selvoso, dominato a

sinistra del pubblico da un enorme faggio e, a destra, da un

modello usato per spiegare la visione tolemaica del cosmo agli

spettatori di Shakespeare’s Memory. Ma lo spazio dell’illusione non

finiva lì. Circondava, anzi, tutto il pubblico, che poteva avere

la sensazione di essere immerso all’interno di un film, o di un

sogno. Effetti, questi, che erano accentuati anche da una

98 Ivi, p. 136.99 Ivi, p. 137.

partitura sonora realistica, cechoviana, e da un’illuminotecnica

curata nei minimi dettagli. L’area scenica principale, che

misurava circa quaranta piedi per cento, era circondata dalla

disposizione a ferro di cavallo di circa trecento posti.100 Questo

spazio, così ampio, consentiva di montare delle controscene alle

parti che non esigevano una concentrazione totale; in alcuni

momenti, com’era già capitato per Shakespeare’s Memory, il pubblico

poteva solo gettare lo sguardo qua e là, ma non catturare la

totalità delle azioni.101

Per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi, molta

dell’ispirazione doveva provenire proprio dal testo di Shakespeare

che, ricco di ambiguità, di curiose metafore e similitudini, fu

quasi parafrasato letteralmente. Basti pensare a Jacques.

Prendendo come riferimento il film, lo spettatore nota la sua

diversità rispetto agli altri membri del gruppo nel costume, che

accosta in maniera stravagante un cappotto in fantasia scozzese

bianco e nero, cappello giallo e bastone, ma anche e soprattutto

nella recitazione: è pensieroso, turbato e assume degli

atteggiamenti insoliti. Le espressioni del suo volto fanno

trasparire un’inquietudine che rasenta la follia. E man mano che

la commedia procede, il suo lato più inquietante emerge a galla,

ponendo il giudizio dello spettatore continuamente in bilico. E’

un matto oppure semplicemente un uomo che soffre di malinconia? E

fino a che punto i suoi compagni lo considerano una persona sana

di mente? A un tratto, Peter Stein sembra offrire come risposta

una soluzione intermedia: è un uomo che si finge matto perché sa

di non esserlo. Un essere umano che ha una perfetta coscienza di100 Ivi, pp. 138-139. 101 Ibidem.

se stesso e che è “felice” solo nella malinconia. Dopo aver

incontrato Pietra di Paragone, Jacques arriva correndo ed

esultante perché, dice, ha incontrato un matto, e racconta ai

compagni tutta la loro folle conversazione. Ma l’incontro col

matto qui non viene mai mostrato al pubblico, per cui si fa molta

fatica a crederlo una persona sana di mente. Per Stein, il mistero

del personaggio di Jacques è contenuto nelle parole dello stesso

Shakespeare [atto II, scena settima]:

Ah, vorrei essere pur io un matto! Portare indosso una livrea

screziata è davvero la mia grande ambizione! […] È l’unico costume,

francamente, che si conviene a uno come me. […] Vestito di quel

variegato arnese, mi gusterei la vera libertà, […] perché colui che

il matto colpisce molto intelligentemente è costretto anche lui a

fare il matto, e, pure sentendone tutto il bruciore, finger di non

aver sentito il colpo;

Il regista non ha fatto altro che parafrasare questi versi, perché

mentre Jacques li pronuncia, gli fa gettare addosso dai compagni

nastrini colorati, erba, un colbacco un po’ troppo grande, rametti

d’albero disposti a forma di corna sul suo capo: viene trasformato

per gioco nel “re del Carnevale” [«Lord of Misrule»].102

Anche se Stein ha dichiarato che non era suo intento concedere una

lettura introspettiva dei personaggi, involontariamente il trio

“Orlando – Rosalinda/Ganimede – Celia” è intriso di mistero e di

ambiguità. Ma questa non è una novità, conoscendo il testo di

Shakespeare e le ragioni culturali alle spalle (la situazione

reale di un uomo che interpreta una donna che si traveste da uomo,

di cui poi una donna s’invaghisce). La tradizione vorrebbe che le102 Ivi, p. 140.

due cugine siano innamorate dello stesso uomo, ma qui Rosalinda e

Celia si scambiano continuamente baci, occhiatine, abbracci

passionali; la mattina, appena svegliate, mostrano sorrisi

maliziosi, facendo intuire – ma non vedere esplicitamente – di

aver trascorso la notte nello stesso letto. Quando Ganimede e

Orlando s’incontrano, Celia fa finta di indietreggiare ma rimane a

osservarli. A un certo punto, la vediamo addirittura in preda ad

attacchi di gelosia e disturbare la loro conversazione lanciando

verso Rosalinda zollette di terra. Gelosia, quindi. Ma per chi? È

molto difficile pensare ancora che Celia sia gelosa di Rosalinda

quando, all’improvviso, durante la danza “rituale” seguente

all’uccisione del cervo, vediamo le due donne rotolare a terra sul

fianco, velocemente, fino a stringersi in un abbraccio ardente di

passione.

La stessa ambiguità ruota intorno alla figura di Orlando, che nel

testo sembra mosso sentimentalmente verso Ganimede da uno spirito

ingenuo, giocoso e infantile. In Stein, però, i due sono in più di

un’occasione quasi a un centimetro l’uno dall’altro, e la

vicinanza è data dal lento e ieratico approssimarsi di Orlando

verso Ganimede, per baciarlo, con graduale allontanamento di lei da

lui. Qualcosa non quadra, perché alla fine, al di là di ogni

convenzione, solo la povera Febe resta a bocca asciutta, dopo aver

appurato l’inesistenza dell’uomo della sua vita. O, forse, anche

qui, la pastorella avrebbe accettato di unirsi lo stesso in

matrimonio con la donna che impersonava l’uomo della sua vita? Non

lo sapremo mai. Con segnali così ambigui, continuando a domandarci

se i personaggi uniti in matrimonio siano o non siano realmente

attratti l’uno dall’altro, prima o poi, finiremmo per fare un

salto nel vuoto. Shakespeare avrebbe preferito solo riderci su e

procurare il riso agli altri. Di come stanno realmente le cose tra

gli amanti a lui, di sicuro, non interessava più di tanto.

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Video di supporto:

Peter Stein, Shakespeare’s Memory, Schaubühne am Halleschen Ufer, 1976.

Peter Stein, Wie Es Euch Gefalt, Schaubühne am Halleschen Ufer, 1977.

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