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CAPITOLO II * LA CRISI DEL PATRIMONIO ARTISTICO IN ITALIA Bruno Zanardi 1. Premessa Sotto gli occhi di tutti è la sempre più violenta aggressione al patrimonio storico e artistico italiano in quelli che ne sono i caratteri fondamentali, unici in occidente per qualità e diffusione. L’indissolubile natura ambientale. L’ultramilenario radicamento al territorio. L’onnipresenza nel paesaggio. Altrettanto sotto gli occhi di tutti è la liquidazione che ormai da anni si sta operando delle strutture amministrative preposte alla tutela di quello stesso fragilissimo e irriproducibile, perciò stesso finito, patrimonio storico e artistico: gli Istituti centrali e le Soprintendenze territoriali, ancora oggi considerati esempio nel mondo intero d’un razionale sistema organizzativo di tutela. Mai però si parla della principale causa della maggior parte delle storture e delle inefficienze del settore. La legge 1089 del primo giugno 1939, voluta dall’allora Ministro per l’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, scritta da Santi Romano, il cui testo appare lecito pensare sia stato elaborato anche sentendo il parere del gruppo di storici dell’arte, architetti e archeologi che allora ruotava intorno allo stesso Bottai: su tutti, Giulio Carlo Argan e Roberto Longhi 1 . Una legge, la 1089/1939, da settant’anni cardine della tutela in Italia, tanto da essere, nei fatti, ancora vigente; era al centro del Testo unico dei beni culturali (d.lgs. 490 del 12 ottobre 1999), rimane fondamentale riferimento per il nuovo Codice dei beni culturali (d.lgs. 42 del 22 gennaio del 2004) 2 . Se poi di norma la legge 1089/1939 viene spesso detta la migliore delle leggi di tutela finora scritte non solo in Italia, giusto è chiarire come la responsabilità di quella legge nella mancata salvaguardia del patrimonio storico e artistico sia in gran parte involontaria. Il problema non sta infatti in una legge che negli anni in cui fu promulgata poteva trovare una propria ragion d’essere, ma nell’averla fatta sopravvivere oltre ogni ragionevole limite di tempo, perciò condannandola a un sempre più veloce allontanamento dai concretissimi problemi creati alla custodia e alla salvaguardia del patrimonio storico e artistico dalla ricaduta sull’ambiente d’una realtà socio-economica che, dal secondo dopoguerra in poi, è andata sempre più radicalmente e velocemente mutando. Un nuovissimo problema di tutela, la conservazione del patrimonio storico e artistico in rapporto all’ambiente, che non riguardava più singole opere, com’era nella ratio della legge 1089/1939, bensì l’insieme di quel patrimonio; più in particolare, il nuovissimo rapporto che si andava * È il capitolo II del libro di Astrid, Beni culturali tra tutela, mercato e territorio, a cura di Lugi Covatta, di prossima pubblicazione in Passigli Editori, del quale pubblichiamo la prefazione di Marco Cammelli e l’introduzione di Luigi Covatta nella Rassegna di Astrid numero n. 159, 10/2012 del 29 maggio 2012. 1 Su Bottai e le figure a lui vicine per la redazione della 1089: S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento, Torino, Einaudi, 2010, 123 ss., 161 ss.; Id., Discendere alle cose». Giulio Carlo Argan e i beni culturali, in «Belfago»r, 2010, 287-301. Per Longhi frequentatore abituale di Bottai: G.C. Argan, La creazione dell’Istituto centrale del restauro, (1989), in Mibac. Uff. Studi, Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni trenta, a cura di V. Cazzato, introduzione di S. Cassese, I, Roma, Ispz, 2001, 730. Sulla genesi della 1089 si veda tra gli altri: S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini (1975), in L’Amministrazione dello Stato, a cura di Id., Milano, Giuffrè, 1976, 153-183; M. Serio, La legge di tutela delle cose di interesse artistico e storico, in Mibac., op. cit., II, 331-346; Id., La relazione di Santi Romano a Bottai sul progetto di legge per la tutela delle cose di interesse artistico o storico, ivi, 395-401; S. Settis, Paesaggio, locc. citt.; ma vedi anche E. Cavalieri, La tutela dei bei culturali. Una proposta di Giovanni Urbani, «Rivista trimestrale di diritto pubblico» 2 (2011), 473-494. 2 Sulla genesi del nuovo codice: S. Settis, op. cit., 259 ss.

C II LA CRISI DEL PATRIMONIO ARTISTICO IN ITALIA · Sotto gli occhi di tutti è la sempre più violenta aggressione al patrimonio storico e artistico ... patrimonio storico e artistico:

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CAPITOLO II*

LA CRISI DEL PATRIMONIO ARTISTICO IN ITALIA

Bruno Zanardi

1. Premessa

Sotto gli occhi di tutti è la sempre più violenta aggressione al patrimonio storico e artistico italiano in quelli che ne sono i caratteri fondamentali, unici in occidente per qualità e diffusione. L’indissolubile natura ambientale. L’ultramilenario radicamento al territorio. L’onnipresenza nel paesaggio. Altrettanto sotto gli occhi di tutti è la liquidazione che ormai da anni si sta operando delle strutture amministrative preposte alla tutela di quello stesso fragilissimo e irriproducibile, perciò stesso finito, patrimonio storico e artistico: gli Istituti centrali e le Soprintendenze territoriali, ancora oggi considerati esempio nel mondo intero d’un razionale sistema organizzativo di tutela.

Mai però si parla della principale causa della maggior parte delle storture e delle inefficienze del settore. La legge 1089 del primo giugno 1939, voluta dall’allora Ministro per l’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, scritta da Santi Romano, il cui testo appare lecito pensare sia stato elaborato anche sentendo il parere del gruppo di storici dell’arte, architetti e archeologi che allora ruotava intorno allo stesso Bottai: su tutti, Giulio Carlo Argan e Roberto Longhi1. Una legge, la 1089/1939, da settant’anni cardine della tutela in Italia, tanto da essere, nei fatti, ancora vigente; era al centro del Testo unico dei beni culturali (d.lgs. 490 del 12 ottobre 1999), rimane fondamentale

riferimento per il nuovo Codice dei beni culturali (d.lgs. 42 del 22 gennaio del 2004) 2. Se poi di norma la legge 1089/1939 viene spesso detta la migliore delle leggi di tutela finora

scritte non solo in Italia, giusto è chiarire come la responsabilità di quella legge nella mancata salvaguardia del patrimonio storico e artistico sia in gran parte involontaria. Il problema non sta infatti in una legge che negli anni in cui fu promulgata poteva trovare una propria ragion d’essere, ma nell’averla fatta sopravvivere oltre ogni ragionevole limite di tempo, perciò condannandola a un sempre più veloce allontanamento dai concretissimi problemi creati alla custodia e alla salvaguardia del patrimonio storico e artistico dalla ricaduta sull’ambiente d’una realtà socio-economica che, dal secondo dopoguerra in poi, è andata sempre più radicalmente e velocemente mutando. Un nuovissimo problema di tutela, la conservazione del patrimonio storico e artistico in rapporto all’ambiente, che non riguardava più singole opere, com’era nella ratio della legge 1089/1939, bensì l’insieme di quel patrimonio; più in particolare, il nuovissimo rapporto che si andava

                                                            * È il capitolo II del libro di Astrid, Beni culturali tra tutela, mercato e territorio, a cura di Lugi Covatta, di prossima pubblicazione in Passigli Editori, del quale pubblichiamo la prefazione di Marco Cammelli e l’introduzione di Luigi Covatta nella Rassegna di Astrid numero n. 159, 10/2012 del 29 maggio 2012. 1 Su Bottai e le figure a lui vicine per la redazione della 1089: S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento, Torino, Einaudi, 2010, 123 ss., 161 ss.; Id., Discendere alle cose». Giulio Carlo Argan e i beni culturali, in «Belfago»r, 2010, 287-301. Per Longhi frequentatore abituale di Bottai: G.C. Argan, La creazione dell’Istituto centrale del restauro, (1989), in Mibac. Uff. Studi, Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni trenta, a cura di V. Cazzato, introduzione di S. Cassese, I, Roma, Ispz, 2001, 730. Sulla genesi della 1089 si veda tra gli altri: S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini (1975), in L’Amministrazione dello Stato, a cura di Id., Milano, Giuffrè, 1976, 153-183; M. Serio, La legge di tutela delle cose di interesse artistico e storico, in Mibac., op. cit., II, 331-346; Id., La relazione di Santi Romano a Bottai sul progetto di legge per la tutela delle cose di interesse artistico o storico, ivi, 395-401; S. Settis, Paesaggio, locc. citt.; ma vedi anche E. Cavalieri, La tutela dei bei culturali. Una proposta di Giovanni Urbani, «Rivista trimestrale di diritto pubblico» 2 (2011), 473-494. 2 Sulla genesi del nuovo codice: S. Settis, op. cit., 259 ss.

istituendo tra quel particolarissimo e fragilissimo insieme e l’ambiente in cui si trovava. Perciò un problema per la cui soluzione del tutto inutili divenivano i disposti della 1089/1939, vale a dire una lunga serie di puntiformi provvedimenti solo ostativi in passiva difesa di singole opere «di interesse particolarmente importante», unita a delle generiche e di nuovo puntiformi «opere di restauro» da rivolgere sempre a singole opere. Nessuno però ha voluto dar voce a quest’ennesima esigenza d’innovazione del paese. Una moderna e diversa organizzazione amministrativa della tutela, che ponesse al proprio centro il problema ambientale, aggiungendo così altro ritardo alla definizione degli obiettivi per la crescita civile, culturale e economica del paese stesso; nel caso, creare un modello di progresso fondato su un’armonica composizione tra conservazione e sviluppo.

Esito di quest’ennesimo default progettuale dell’Italia è stato indurre la gran parte della società civile a ritenere la tutela del patrimonio artistico un’inutile e speciosa e persecutoria questione di divieti, vincoli e notifiche rivolti a singoli monumenti e opere, ovvero di metafisiche discussioni sui risultati estetici dei loro restauri, cioè una somma di azioni farraginose e incoerenti del tutto inefficaci per contrastare l’aggressione al patrimonio artistico e al paesaggio, che infatti andava proseguendo (e prosegue), inesorabile. Da qui il sempre maggior disinteresse di quella stessa società civile verso una tutela che mai è riuscita a divenire azione attiva, cioè il momento dell’integrazione materiale del passato nel nostro divenire di uomini. E da qui l’apparentemente inarrestabile deriva del Ministero preposto all’esercizio di quella stessa tutela, nei fatti oggi in via di liquidazione. Una deriva già vista da Giovanni Urbani nel 1977, trentaquattro anni fa, invano indicando come solo attraverso l’innovazione le istituzioni – dal Ministero alle soprintendenze – possano risarcire la loro distanza dal sentire della «comunità»3:

Se di un’istituzione vengono messe in gioco le sue stesse ragioni d’esistenza, questo

avviene perché, per un motivo o per l’altro, si tratta di ragioni non più ricevibili da una comunità che ha comunque titolo per pronunciarsi su di esse. Ed è a questa comunità che l’istituzione deve allora fornire decisamente nuove e incontrovertibili ragioni della propria esistenza.

2. La legge di tutela n. 1089 del 1939

Per un giudizio equilibrato sulla legge 1089/1939 va di nuovo sottolineato come essa sia stata pensata per un paese poco o per nulla perturbato dal punto di vista socio ambientale. L’arcaica Italia monarchica e fascista, allora capillarmente abitata, perciò presidiata da un corrente lavoro di manutenzione di chiese, palazzi, edifici d’abitazione e dei loro arredi, manutenzione inoltre condotta secondo una tradizione storica di arti e mestieri che pareva non dovesse mai estinguersi. Inoltre una legge pensata in un paese pochissimo cementificato e con un’economia a carattere prevalentemente rurale, che consentiva un capillare presidio del territorio da parte d’una moltitudine d’addetti all’agricoltura intenti a coltivare anche la più remota e minima e grama particola di terreno, perciò con tutto l’interesse a tenere in perfetta efficienza fossi, rive di torrenti e fiumi, boschi e sottobosco e tutto quant’altro potesse portare danni d’origine idrogeologica. Tre diverse e efficacissime forme di conservazione preventiva – manutenzione degli edifici storici e dei loro arredi, coltivazione dei suoli e scarsa o nulla cementificazione dei suoli – che consentivano alla

                                                            3 G. Urbani, Per un nuovo rapporto tra Istituto centrale del restauro e soprintendenze (1977), in Id., Intorno al restauro, a cura di B. Zanardi, Milano, Skira, 2000, p.119.

1089/1939 di disinteressarsi completamente del contesto ambientale in cui originariamente il patrimonio storico e artistico giace, vale a dire della fondamentale fonte del suo degrado.

Effetto di quel disinteresse fu che, nel nome dello Stato etico hegeliano (quello, a parer loro, realizzato dal fascismo), la legge 1089/1939 ritenesse autotutelato il patrimonio storico e artistico pubblico, rivolgendo invece ogni attenzione a quello in mano privata. Ed è questo il motivo per cui al suo interno non si trova un’indicazione, o anche un semplice accenno, a altri modi d’esercitare la tutela in aggiunta a un lungo elenco di vincoli, notifiche e altre limitazioni d’uso da applicare ai manufatti storico-artistici mobili e immobili non di proprietà dello Stato dichiarati dalle soprintendenze di «interesse particolarmente importante». Sanzioni giustamente tese a scongiurare un ulteriore depauperamento del patrimonio artistico dopo quello, gravissimo, prodotto nei secoli dal commercio delle opere d’arte; quest’ultima, un’attività economica nata con il formarsi stesso del collezionismo (tradizionalmente, la seconda metà del sec. XV), e andata in seguito assumendo un tono sempre più frenetico, fino a divenire dramma con le spoliazioni napoleoniche, né fenomeno che si era interrotto dopo l’Unità d’Italia. La dispersione, a cui già avevano tentato d’opporsi gli Stati preunitari con una lunga serie di leggi, decreti, ordinanze e provvedimenti generali. Primo esempio può essere considerato l’atto di revoca con cui nel 1244 Innocenzo IV annulla l’atto tramite il quale i Frangipane s’erano arrogati il diritto di cedere all’imperatore Federico II la metà del Colosseo – revoca motivata dal fatto che il Colosseo era un monumento pubblico – fino alla facoltà di concedere permessi d’esportazione delle opere d’arte accordata il 4 settembre 1860 dalla Luogotenenza delle province venete all’Accademia di Venezia. Leggi spesso di grande perspicuità – su tutte, l’Editto con cui nel 1820 il Cardinal Bartolomeo Pacca disponeva la salvaguardia degli «antichi Monumenti» – tanto da restare in vigore anche dopo l’Unità. Sono infatti primo motore della legge che nel 1871 ripristina i «fedecommessi» (l’antico istituto che affermava l’indivisibilità di un’intera eredità, o di parte di essa) per le grandi collezioni private di opere d’arte, già disposti da Pio VII nel 1816, ma cassati nel 1865, così come restano vigenti nelle disposizioni relative alle esportazioni della prima e debolissima legge di tutela 185/1902, la c.d. legge Nasi. Tutto ciò fino al 1903, quando le disposizioni preunitarie accolte dalla legge Nasi vengono sostituite con un apposito provvedimento4. Da quel momento, le leggi preunitarie passano a essere d’ideale orientamento per la copiosa produzione legislativa sulla tutela prodotta dopo il 1903, una lunga serie di provvedimenti che, nel riordinare il pregresso, fondano l’azione di tutela del patrimonio storico, artistico e paesaggistico arrivata, nel bene e nel male, fino a noi. Tutto ciò a partire dalla seconda,

ma nei fatti prima vera legge generale di tutela dell’Italia unita, la legge 364/19095. Ultimo vulnus della legge 1089/1939 è nelle figure stesse cui la legge affidava il giudizio di

merito circa la sua applicazione sul patrimonio archeologico, storico artistico e architettonico: i soprintendenti. Figure in possesso d’un titolo di laurea raro nell’Italia negli anni trenta del novecento, forse un centinaio o poco più gli storici dell’arte e gli archeologi, più numerosi gli architetti. Il che rendeva accettabile l’autocratico ruolo amministrativo, tra prefettizio e di superiore competenza, concesso ai soprintendenti dalla legge 1089/1939. Un potere autocratico in piena sintonia con lo Stato fortemente centralizzato e autoritario dell’Italia del ventennio fascista, tuttavia da allora mai più revocato in dubbio. Nei fatti, fino a oggi, quando i laureati in archeologia, storia dell’arte e architettura assommano ormai a alcune centinaia di migliaia (un numero peraltro assurdo,

                                                            4 M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli Stati italiani preunitari, Milano, Giuffré, 1988, 9; G. Volpe, Manuale di legislazione dei beni culturali. Storia e attualità, introduzione di S. Settis, Padova, Cedam, 2005, 59 ss. 5 R. Balzani, Per le antichità e belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’Italia giolittiana, Bologna, il Mulino, 2003.

ma questo è altro argomento), senza che in sostanza ne sia mutata la formazione rispetto a quella impartita negli anni trenta del novecento. Così che, mentre in grado di esprimere pareri critici e estetici sui restauro sono divenuti centinaia di migliaia di laureati in archeologia, storia dell’arte e architettura, nessuno è stato formato per affrontate in modo razionale e coerente l’enorme ampliarsi e diversificarsi dei fattori di degrado del patrimonio artistico, specie ambientali.

3. Il corpo di leggi di tutela del 1939 e il problema dell’ambiente

Sempre per poter esprimere un giudizio equilibrato sulla legge 1089/1939 va sottolineato

come essa non sia stata la sola legge di tutela promulgata nel 1939 o intorno a quell’anno6. La 1089 era infatti il punto centrale d’un unitario disegno formato da una decina di leggi dedicate a altrettante e distinte materie inerenti la tutela. Leggi con una ben precisa ragione d’essere nell’Italia d’allora – in particolare quelle sul paesaggio (legge 1497/1939) e sull’urbanistica (legge 1150/1942) – non più nell’Italia del dopoguerra, in cui sono state tuttavia fatte sopravvivere tal quali per molti decenni, se non fino a oggi. Quindi leggi che hanno seguito lo stesso destino della legge 1089/1939, divenendo in breve anch’esse, non solo inadeguate alle esigenze di un paese che andava nel frattempo vorticosamente mutando, ma fondamentale elemento d’inefficienza nel governo delle materie da loro ordinate.

Esemplare in questo senso la capillare devastazione urbanistica, paesistica e ambientale avvenuta in Italia dal 1945 in poi, in barba alla legge 1497/1939 e alla legge 1150/1942. Il marasma edilizio su cui gravano, incancellabili, le colpe di una politica miope e ignorante, quando non corrotta, così come l’ideologica pretesa delle scuole universitarie di architettura e di urbanistica di creare con la loro opera una nuova e diversa storia dell’uomo. E infine, l’altrettanto ideologica pretesa, che la nuova architettura non dovesse avere alcun rapporto formale, urbanistico e proporzionale con la città storica. Ciò in vista delle «magnifiche sorti e progressive» che si sarebbero raggiunte con il «creare l’ambiente per una nuova civiltà democratica», come scrissero nel 1945 gli estensori del manifesto della «architettura organica», la più fortunata corrente di architettura in Italia nel dopoguerra, oltre che la più accesamente contraria a comporre la nuova architettura con quella storica. Corrente architettonica dei cui fondamenti di pensiero basti che il suo fondatore e ideologo in Italia, Bruno Zevi, a un certo punto si scaglia addirittura contro l’Acropoli di Atene, invitando gli architetti suoi seguaci (decine di migliaia), a «sottrarsi alla spazialità statica, alla volumetria finita e chiusa, insomma a tutti i dogmi e precetti che a distanza di 25 (venticinque) secoli, vengono ancora gabellati come valori eterni e permanenti dell’architettura». Le stesse magnifiche sorti e progressive perseguite dall’architetto-demiurgo mentore della vagheggiata rivoluzione socialista, per il quale «si progetta [...] per la rivoluzione, dunque contro ogni tipo e modo della conservazione», come scriveva Argan nel 1964 in un saggio di grande e lunga fortuna presso gli architetti italiani, Progetto e destino7. Programmi reboanti, quelli di Zevi e Argan, dei cui risultati tutti possono oggi facilmente giudicare dopo quasi settant’anni di piani urbanistici democratici e di nuove architetture rivoluzionarie.

Tornando però al corpo di leggi di tutela emanate nel 1939, nemmeno la legge 1240 del 22 luglio 1939, intitolata alla «Creazione dell’Istituto centrale del restauro presso il ministero dell’Educazione nazionale», pone il patrimonio storico e artistico in rapporto alla conservazione

                                                            6 Per i molti che hanno notato la cosa, S. Cassese, Introduzione, in Mibac, Istituzioni cit., I, 21-24. 7 Giulio Carlo Argan, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano 1965.

dell’ambiente 8 . Ma proprio la fondazione dell’Icr potrebbe giustificare l’assenza dalla legge 1089/1939 d’un qualsiasi accenno al decisivo problema della conservazione materiale delle opere d’arte. Non è infatti improbabile che, all’interno del generale riordino legislativo della tutela allora in corso, fosse disposizione sottaciuta, ma nota a tutti, che della questione conservativa stricto sensu si sarebbe occupato il neonato Icr, aiutato per la sua parte dall’Istituto per la patologia del libro,

fondato l’anno precedente (r.d. 1038 del 23 giugno 1938) 9. Sempre un giudizio equilibrato sulla legge 1089/1939 obbliga inoltre a chiarire che già poco

dopo l’Unità d’Italia l’ambiente aveva iniziato a essere un problema politico per il suo inevitabile confliggere con assai rilevanti e variegati interessi economici. Primo esempio di quel conflitto sono le violente polemiche – a favore e contro la difesa del diritto privato – sollecitate a fine ottocento dall’aggressione alla storica Pineta di Ravenna, «la divina foresta spessa e viva» di Dante (Purg., XXVIII) che si era iniziato a tagliare per venderne il legname. Con la legge 411 del 22 luglio 1905 vinse il diritto pubblico e la Pineta fu salva. Ma resta un fatto che già nella seconda, ma prima e vera legge generale di tutela, la legge 364/1909, si fu obbligati a distinguere le ragioni della tutela del paesaggio da quelle della tutela del patrimonio storico e artistico. Una distinzione da allora sempre mantenuta. La si trova nelle due appena dette leggi sul paesaggio (1497/39) e sull’urbanistica (1492/42). E rimane anche nel vigente d.lgs. 42 del 2004 che, nel titolare «Codice dei beni culturali e del paesaggio», quindi inserendo al proprio interno il tema ambientale, segna un importantissimo avanzamento nella disciplina, ma anche considera i beni culturali distinti dal paesaggio, assegnando loro dettati indipendenti e chiusi in sé stessi, quindi non completamente

vincolanti10. Dunque materie, patrimonio storico e artistico, ambiente e paesaggio, sempre tra loro

distinte nelle legislazioni dello Stato italiano, monarchico, fascista o repubblicano. Non però materie distinte, paesaggio e patrimonio artistico, nell’art. 9 della Costituzione. Ed è ratio certamente sottesa al nuovo Codice, ma nei fatti mai applicata, prima, da chi alla Costituzione dovrebbe comunque e sempre rifarsi, dopo, da chi al nuovo Codice dovrebbe ottemperare. Una ratio di tutela – ma prima, dovere civico e morale – da tutti finora scansati per due fondamentali ragioni. Una, la già vista difesa sempre compiuta da tutta la politica degli interessi economici con ricadute più o meno lecite nell’ambiente: in primis quelli della speculazione e dell’abusivismo edilizi, delle infrastrutture e delle industrie inquinanti. L’altra, la generale abitudine a considerare patrimonio artistico, ambiente e paesaggio materie in sé stesse autonome. Abitudine certamente fondata visto che, molto semplificando definizioni già note, il patrimonio artistico è l’insieme dei nostri monumenti e opere d’arte, l’ambiente è la natura, il paesaggio è l’ambiente antropizzato, cioè quello – soprattutto in Italia – redento dall’uomo, vuoi costruendovi città e monumenti, vuoi «ornandolo» con il lavoro agricolo. Ma prima ancora abitudine, considerare patrimonio artistico, ambiente e paesaggio materie in sé stesse autonome, che ha condotto a sottovalutare un fondamentale dato di fatto: che solo un governo razionale e coerente dell’ambiente può assicurare la conservazione del patrimonio artistico, perché, ribadisco, sono gli squilibri ambientali a attivare tutti gli scambi d’energia all’origine del degrado dei materiali costitutivi le opere, perciò è dall’ambiente che vengono tutti i possibili danni a quello stesso patrimonio.

                                                            8 «L’Istituto centrale del restauro», in Mibac, Istituzioni cit., II, 695-749. 9 «L’Istituto per la patologia del libro», ivi, 661-693. 10 Sull’argomento, M. Pallottino, Tutela e legislazione urbanistica (1998), in Zanardi, Conservazione cit., 291 s.

Quindi, una cosa sono ambiente e paesaggio, che devono avere modi e forme di tutela loro proprie, altra cosa è l’indissolubile rapporto tra patrimonio storico e artistico e ambiente, che altrettanto deve avere suoi propri modi e forme di tutela. Anche se, ed è ovvio, tutela dell’ambiente e tutela del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, hanno tra loro molti, e quasi sempre indistricabili, punti di coincidenza, inevitabilmente riversati infine nel paesaggio. Quel che spiega

perché Giovanni Urbani, 1986, avesse scritto11:

A oltre dieci anni dalla fondazione [ma lo stesso vale oggi, a oltre quarant’anni dalla fondazione], è ormai certo che il Ministero per i Beni culturali e ambientali non solo non ha risolto nessuno dei problemi che avrebbe dovuto affrontare, ma ne ha ancora più allontanato la soluzione con la sua stessa crescita in senso unicamente burocratico, a tutto detrimento della qualificazione tecnico-scientifica e della funzionalità dei suoi organi operativi territoriali (Soprintendenze), non meno che di quelli deputati alla ricerca (Istituti Centrali). E’ perciò altrettanto certo che per sanare questa situazione si rende necessaria un’inversione radicale dell’attuale linea di tendenza, chiaramente volta a svuotare di ogni contenuto concreto l’azione di tutela, a renderla strumentale al compromesso con interessi ad essa estranei se non addirittura contrastanti, e infine ad assoggettarla unicamente a criteri di convenienza politica. Tra gli ultimi e più gravi segni di questa involuzione [è] la creazione del Ministero dell’ambiente, con la conseguente rinuncia, a favore di due separati incarichi di governo, a una politica di tutela fondata sul rapporto organico tra beni culturali e ambientali. 4. L’Istituto centrale del restauro di Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi (1939-1941)

I confini teorici entro cui Giulio Carlo Argan porre il restauro sono espressi dallo storico dell’arte torinese nel Convegno dei Soprintendenti tenuto a Roma dal 4 al 6 luglio del 1938.

Preannunciando la fondazione dell’Icr, Argan afferma12:

Il restauro è oggi concordemente considerato come un’attività rigorosamente scientifica e precisamente come indagine filologica diretta a ritrovare e a rimettere in evidenza il testo originale dell’opera [...] fino a consentire di quel testo una lettura chiara e storicamente esatta.

Opera in tal modo Argan una confusione tra scienza e tecnica esiziale per il futuro stesso

della conservazione materiale del patrimonio artistico. Confusione esiziale, perché ha consentito agli addetti alla tutela di ritenere «scientifici» interventi tecnici di natura estetica, prima che conservativa, quali sono gli odierni restauri critici. Un errore già sottolineato nel 1960 da Edgar Wind nella prima delle sue Reith Lectures alla Bbc, le sei lezioni da lui stesso raccolte tre anni dopo nel celebre volume Arte e anarchia13:

In quest’epoca di ricerche intensive nel campo della storia dell’arte, che sempre più

tendono a coincidere con i risultati ottenuti nel campo della storia della scienza, è

                                                            11 G. Urbani, Proposte per la riforma della legge e degli organi di tutela (1987), in Id., Intorno cit., 145. 12 G.C. Argan, Restauro delle opere d’arte (1938), in Mibac, Istituzioni cit. I, 264-270: 264. 13 E. Wind, Arte e anarchia (1960/1963), traduzione di R. Wilcock, Milano, Adelphi, 1966, 30 ss.; come è noto, Arte e anarchia è il titolo della prima delle sei Reith Lectures tenute da Wind alla Bbc nel 1960, poi rese in volume tre anni dopo.

sorprendente che alcuni direttori di museo non riescano ancora a capire che dopo un certo tempo il trattamento «scientifico» di un dipinto sarà perfettamente databile. Lo stile di una pulitura si riconoscerà con la stessa facilità con cui si riconosceva quello di una ridipintura; perché nessuno può saltare sulla propria ombra storica.

Il fatto che nel campo del restauro simili avventure vengano oggi compiute con spirito temerario, e in scala molto più vasta di quel che sarebbe necessario, è conseguenza di una moda scientifica che è nello stesso tempo estetica. L’idea che tutti i vecchi dipinti debbano essere ripuliti, è paragonabile alla moda, un tempo in voga, di considerare obbligatoria per tutte le persone rispettabili di una certa età «la cura delle acque». Nel campo della conservazione dei dipinti, queste abluzioni ristoratrici vengono «consigliate» da un de-siderio di freschezza, freschezza a qualunque prezzo, anche a prezzo di ridurre il dipinto, in frammenti. Una volta che il quadro è stato in questo modo decomposto, la pittura «onestamente» lasciata così, allo stato semicrudo, come una rovina artificiale, oppure, per dirla con più delicatezza, come un «esemplare» scientifico accuratamente preparato, il quale, come qualsiasi altro prodotto di un’abile tecnica, non mancherà di registrare alcune delle peculiarità del tecnico che l’ha preparato.

Senza immaginare cosa di nuovo potrebbe aggiungere oggi Wind rispetto a quanto è andato

accadendo nel restauro nel mezzo secolo che ci separa da allora. Senza nemmeno osservare che la pellicola pittorica «onestamente lasciata così, allo stato semicrudo, come una rovina artificiale» non può non evocare l’immagine d’una qualsiasi opera restaurata secondo i principi della Teoria di Brandi. Sottolineando inoltre come Giorgio Pasquali, già nel 1920, avesse avvertito che «la filologia non è né scienza esatta né scienza della natura, ma, essenzialmente se non unicamente disciplina storica», quindi evitando di chiedersi, se davvero la filologia testuale sia scienza applicabile ai testi

figurativi. Una domanda cui ha già risposto negativamente Gianfranco Fiaccadori14, senza troppo badare a tutto questo, che è comunque molto, credo però vada almeno osservato come i principi sul restauro enunciati da Argan siano nei fatti gli stessi cui subito s’adeguerà l’Icr, vale a dire gli stessi ai quali Cesare Brandi darà veste estetica nella sua Teoria del restauro, uscita nel 1963, ma il cui nucleo centrale aveva già avuto una prima pubblicazione in varie stazioni dalla fine degli anni

quaranta al 195315. Creato l’Icr con legge 1240/1939, il 21 ottobre del 1941 viene solennemente inaugurata la

sua sede nell’ex convento di San Francesco da Paola16. Per lascito di Argan, come lo stesso storico                                                             14 G. Pasquali, Filologia e storia (1920), intr. di F. Giordano, Le Monnier, Firenze, 1998, 50-66 («Le ‘leggi’ della filologia»): 50; Id., Storia della tradizione e critica del testo Storia della tradizione e critica del testo (1934), prem. di D. Pieraccioni, Le Lettere, Firenze 1988. Gianfranco Fiaccadori – cui devo l’istituzione ai dubbi sulla liceità di equiparare i problemi inerenti la filologia testuale con il restauro dei manufatti artistici – ha da tempo revocato in dubbio la liceità dell’estensione della filologia testuale al restauro delle opere d’arte in “Imago lateritia Beate Marie”. Per la fortuna e la storia del cantiere antelamico del Battistero di Parma, a c. di G.F. Fiaccadori, Battei, Parma 1991, pp. vii-xliv: xix; e in Filologia e Restauro, in Giovanni Urbani e la conservazione programmata del patrimonio artistico, in Atti della giornata di studi nel X anniversario della morte, a c. di B.Z. (Pisa, Scuola Normale Superiore, 22 giu. 2004), in corso di stampa. Ho discusso anch’io del problema sul versante applicativo, vale a dire in margine al restauro che ha ricollocato in sito una parte minima delle molte centinaia di migliaia di frammenti in cui il terremoto del 1997 ha ridotto la Vela con l’Evangelista Matteo dipinta da Cimabue nella Basilica Superiore di San Francesco: Cimabue in farfalle, «Il Sole24Ore», 2 apr. 2006 [ins. «La Domenica», p. 3]. 15 C. Brandi, Teoria del Restauro. Lezioni raccolte da L. Vlad Borrelli, J. Raspi Serra, G. Urbani, con una bibliografia generale dell’autore, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1963. Sulla lunga elaborazione della Teoria del restauro, B. Zanardi, Il restauro, Giovanni Urbani e Cesare Brandi, due teorie a confronto, prefazione di S. Settis, Skira, Milano 2009, 65 ss., 203-210. 16 C. Pileggi, 18 Ottobre 1941: fotografie inedite dell’inaugurazione dell’Icr, «Bollettino dell’Istituto centrale per il restauro», n.s., 3 (2001), 135-140.

dell’arte torinese racconta («Si era riusciti finalmente a varare l’Istituto centrale del restauro [...] e, a

quel punto, me ne fu offerta la direzione. Vi rinunciai»)17, ne diviene direttore Cesare Brandi. Né in tutto questo va mai dimenticato come nascita dell’Icr abbia comunque l’enorme merito d’aver rinchiuso entro un’esplicita griglia teorica il problema del restauro, dandogli statuto di disciplina, non più precettistica, ma riferita alla natura estetica dell’arte: «giungere al concetto di restauro per rigorosa deduzione dal concetto stesso dell’arte», come Brandi scrive già nel 194818.

La direzione di Brandi dell’Icr si chiude nel 196119, contestualmente concludendo il lavoro che ancora oggi resta l’esempio della perfetta applicazione della Teoria del restauro: il restauro della Maestà di Duccio20. Un intervento durato una decina d’anni e ancora oggi perfetto, a conferma della solidità dell’impianto critico e estetico della teoria, ma anche a conferma della non suscettibilità a sviluppi di quel pensiero. Quel che sposta la teoria di Brandi più su un versante artistico che scientifico, visto che, come si sa, le scienze sono tali solo quando possono revocarsi in dubbio a ogni stadio del loro sviluppo. Un dubbio, quello sui limiti d’una «teoria estetica del restauro», che fu già di Giovanni Urbani, tanto da fargli parafrasare criticamente un passo della teoria «brandiana» di centrale importanza nella definizione del rapporto tra materia e immagine, quindi di fondamentale importanza rispetto al tema conservativo; e se Urbani parla genericamente

d’una «teoria estetica del restauro», non v’è dubbio che il riferimento sia a Brandi21:

Esposta in forma molto sintetica, la teoria estetica del restauro consiste nell’assumere che lo stato di conservazione delle opere d’arte sia da valutare in rapporto non all’integrità o meno della loro costituzione materiale, ma a quella dell’originario «messaggio» artistico in esse contenuto. Questo significa che un’opera materialmente integra, ma per una ragione o per l’altra modificata nel suo aspetto originario da interventi successivi, sarà da considerarsi in cattivo stato di conservazione; mentre l’opposto varrà per un’opera indenne sotto l’aspetto suddetto, anche se frammentaria o addirittura in stato di rudere. Talché spesso dal restauro ci si attende che produca effetti d’invecchiamento o di destrutturazione, anziché di rimessa a nuovo o finitura.

Il punto dolente di questa teoria, e ancora più della pratica restaurativa che ne consegue, è che, a stare ad essa, diviene definitivamente imperseguibile l’obiettivo della conservazione materiale, perché è un palese controsenso mirare a tale obiettivo mettendo a nudo anziché ricoprendo, frammentando anziché ricomponendo.

Per la teoria estetica del restauro, la conservazione materiale dell’opera d’arte resta dunque una pura petizione di principio, una specie di imperativo morale a giustificazione del quale può essere prodotto solo l’argomento che se la materialità dell’opera non sussistesse, non sussisterebbe nemmeno il messaggio estetico in essa contenuto, e che è la sola cosa che importa conservare.

                                                            17 Argan, La creazione cit., 725 ss. 18 C. Brandi, Il restauro. Teoria e pratica, a cura di M. Cordaro, Ed. Riuniti, Roma 1994, 5-14: 7. Il testo di Brandi del 1948 è la prolusione al «corso di teoria e storia del restauro» pronunciata dal critico senese presso la scuola di perfezionamento di storia dell’arte dell’università di Roma con il titolo Il fondamento teorico del restauro. Pubblicato con uguale titolo in Bollettino dell’Istituto centrale del restauro, 1950, n. 1, 5-12, lo stesso testo è sintetizzato, con varianti anche nel titolo, in Id, Teoria cit., pp. 31-36 («I. Il concetto di restauro»). 19 Sulle complesse ragioni dell’uscita dall’Icr di Brandi, Zanardi, Il restauro cit., loc. cit. 20 C. Brandi, Il restauro della «Maestà» di Duccio, «Bollettino dell’Istituto centrale per il restauro» 37-40 (1959, numero monografico). 21 G. Urbani, Il restauro tra scienza e estetica (1983), in Id., Intorno cit., 65-68: 66 (mio, nel testo, il corsivo); ma v. anche, Zanardi, Il restauro cit., p. 85 sg.

Ed è sulla curiosa miscela tra i divieti, vincoli, notifiche e quant’altra punitiva limitazione d’uso della legge 1089/1939, su questa visione a dir poco confusa e inadeguata del problema della tutela, che le soprintendenze italiane hanno svolto per decenni (ma ancora oggi in gran parte svolgono), la loro opera di salvaguardia del patrimonio storico e artistico della nazione. Un sistema intento soprattutto a bloccare commercio e esportazione di opere «particolarmente importanti», attraverso i principi d’una teoria artistica del restauro i cui fondamenti scientifici sono quelli della «lettura chiara e storicamente esatta» di cui parlava Argan del 1938, e i cui fondamenti estetici sono quelli di una teoria scritta da Brandi a partire dalla fine degli anni ’40 del Novecento. Potendo inoltre contare, per la tutela del paesaggio, su una legge, la 1497/39, che fa del problema una questione estetizzante di «bellezze naturali» da proteggere con gli stessi vincoli, notifiche e limitazioni d’uso della legge 1089/1939, e potendo contare, per l’urbanistica, su una legge, la 1150/1942, che aveva mantenuto la distinzione tra urbanistica e paesaggio ereditata dalla 1497/1939. Una situazione in cui tutto va a acuire l’autonomia della prima dal secondo, tanto da condizionare la scrittura stessa della Costituzione che, all’art. 9, attribuisce le competenze sul paesaggio allo Stato, mentre all’art. 117 indica l’urbanistica tra le materie di competenza prevalente

delle regioni22 . Una visione ancor più confusa proprio perché vincoli, notifiche e quant’altra sanzione in negativo sono azioni passive di tutela, mentre il restauro è azione in se stessa attiva. Per questa ragione ancora oggi le soprintendenze sono convinte che il restauro estetico «brandiano» (ma di radice «arganiana») coincida con la tutela attiva del patrimonio artistico. Ciò fa sì che si continui a ritenere di tutelare le opere con il restaurarle esteticamente, quindi sottoponendole a nuove e puliture e reintegrazioni dell’immagine: le operazioni che sono il nerbo del restauro critico e estetico; ciò senza rendersi conto della dannosità di queste operazioni, specie quando compiute a distanza di tempo ravvicinata su una stessa opera, e senza nemmeno rendersi conto dell’inutilità di simili operazione in termini critici, visto che si tratta di opere già rivelate criticamente con precedenti restauri di matrice «argano-brandiana».

5. La Commissione Franceschini (1964-66)

Il 26 aprile 1964, con legge n. 364 viene istituita la Commissione di indagine per la tutela e

la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio23. Suo scopo, scrive nella prefazione ai tre volumi di Atti il presidente della Commissione, l’on. Francesco Franceschini, è «formare una salda coscienza nazionale che risolutamente affianchi l’azione dello Stato nella

salvaguardia dei suoi tesori minacciati, scoraggiando ogni attentato alla loro integrità»24 . Un programmatico intento didattico, cui è sottesa la sempre più diffusa preoccupazione per gli effetti prodotti sulla conservazione del patrimonio storico e artistico da una situazione socio-ambientale che sta virando con vertiginosa rapidità. La rivoluzione prodotta dal cosiddetto miracolo

economico25, da cui era venuta una giusta crescita del benessere materiale della popolazione italiana, ma anche una ricchezza diffusa che aveva portato con sé fenomeni fino a quel momento inediti nel paese: tra gli altri, la spietata aggressione alle città e al paesaggio naturale da parte della

                                                            22 Sull’argomento, M. Pallottino, Tutela e legislazione urbanistica (1998), in Zanardi, Conservazione cit., 291 s. 23Per la salvezza dei beni culturali in Italia. Atti e documenti della Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, I-III, Colombo, Roma 1967. 24 F. Franceschini, Prefazione, ivi, I, VIII. 25 G. Crainz, Storia del miracolo economico italiano. Cultura, identità, trasformazioni fra gli anni 50 e 60, Donzelli, Roma 2003.

speculazione e dell’abusivismo edilizi, l’inquinamento industriale, lo spopolamento del territorio, in particolare appenninico e montano e il diffondersi in tutti gli strati della società d’un soggettivismo sempre più irresponsabile e regressivo.

In altri termini, la Commissione Franceschini nasce in ragione dell’oggettiva insufficienza dell’azione di tutela, che ancora s’andava conducendo sulla base del corpo di leggi emanato tra 1938 e 1942, in primis la 1089/1939. Nonostante questo, dai lavori della Commissione non esce alcun vero e nuovo disegno di riforma della vigente legislazione di tutela. Anche se ne aleggia il richiamo, in particolare nei gruppi di studio per i beni archeologici (coordinatore Massimo Pallottino) e per i beni monumentali e ambientali (coordinatori Alfredo Barbacci e Giovanni Astengo); il primo, auspicando una distinzione, anche ex lege, della materia archeologica dalle altre, il secondo, affermando la legge 1089/1939 «non abbastanza aderente alle mutate condizioni della società e al progresso dell’estetica e della storia dell’arte», quindi proponendo una sua riforma in conseguenza, vale a dire rispetto alla tutela estetica degli «ambienti monumentali», estendo il concetto anche alle «architetture minori». Così che, in sintesi, i tre cospicui volumi degli Atti della Commissione Franceschini sono solo infine serviti a produrre una dettagliata e generosa enunciazione di molti dei problemi che affliggevano – e ancora oggi affliggono, intatti, quando non peggiorati – il patrimonio artistico, cui fanno il paio delle proposte organizzative di soluzione deboli e inefficaci, perché incentrate su temi tra il burocratico e il «post umanistico». Le criticità del sistema, pur enunciate, siano confinate nelle «Testimonianze» poste in fine al terzo volume, oppure che l’Icr sia chiamato a svolgere un ruolo di mera consulenza, sorvolando il fatto di come, con l’illuminata direzione di Pasquale Rotondi (1961-1973), già in quegli anni lo stesso Icr avesse iniziato a aprirsi al tema delle interazioni conservative tra patrimonio artistico e ambiente. Generica è l’invocazione d’un collegamento tra università e soprintendenze sul tema della tutela, sia dal punto di vista della ricerca scientifica, che da quello d’una specializzazione dei suoi addetti, funzionari storici dell’arte, esperti scientifici e restauratori, per i quali ultimi non si prevede una specifica formazione. Si parla nel titolo della Commissione di «valorizzazione dei beni culturali», ed è enunciazione innovativa, che tuttavia rimane a quello stadio. Innovativo è anche trattare come singola classe i «beni culturali ambientali», suggerendo di riportare a unità paesaggio e urbanistica, ma la Commissione dimentica d’inserire l’inquinamento tra le cause di degrado di quegli stessi «beni ambientali», quindi non considera il rapporto tra patrimonio artistico e ambiente tra le ragioni

per un incremento delle spese dello Stato in interventi conservativi di natura preventiva26. Né per questo, sia detto di passaggio, si deve imputare all’assenza di fondi la mancata soluzione del problema dell’inquinamento, tanto meno la mancata conservazione del patrimonio artistico. La costante invocazione di maggiori fondi da tutti fatta assumerebbe infatti senso solo quando quei danari servissero a finanziare lavori di formazione e ricerca, ovvero a istituire un’attività ordinaria di conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, mentre sempre finiscono, quando elargiti, per promuovere nuovi restauri estetici, inutili dal punto di vista critico, quando non direttamente dannosi in termini conservativi, a ennesima conferma del ritardo culturale del settore.

Resta però merito indubitabile della Commissione Franceschini l’aver per prima sostenuto la necessità d’una completa riforma dell’organizzazione della tutela, disegnandone anche lo strumento

                                                            26 La rimozione del problema dell’inquinamento dai lavori della Franceschini è sottolineato da Giovanni Urbani in: Aspetti teorici della valutazione economica dei danni da inquinamento al patrimonio dei beni culturali (1971) in Intorno cit., 19. I «beni culturali ambientali» come classe di beni a sé stanti in: Per la salvezza cit., I, 69.

attuativo; una «Amministrazione autonoma dei Beni culturali», una specie di agenzia per la tutela, che doveva sostituire l’ottocentesca Direzione generale Antichità e belle arti, gloriosa, ma obsoleta. Quindi la Commissione Franceschini scarta l’ipotesi della fondazione d’un apposito ministero, come di lì a poco invece sarà per pervicace, quanto infausta volontà di Giovanni Spadolini, per invece proporre una soluzione organizzativa agile e competente, quale era appunto la amministrazione autonoma. E’ la soluzione ancora rimpianta nel 1988 – 22 anni dopo la conclusione della Franceschini e 13 dopo la fondazione del Ministero – dal padre del diritto amministrativo repubblicano, Massimo Severo Giannini, già membro della Franceschini e a suo

tempo contrario alla fondazione del Ministero27:

Il pregio dell’Agenzia [Amministrazione autonoma] era che le si sarebbe potuto affidare tutta un’attività di carattere non pubblicistico con cui farla agire. In tal modo si sarebbe ottenuta una struttura molto agile. Come un grandissimo ufficio per l’organizzazione e il controllo della tutela, che per l’azione avrebbe potuto utilizzare strumenti di diritto privato, cioè applicare il Codice civile. Questo sarebbe stato il grande vantaggio.

Né porta contributi sostanziali alla tutela quello che resta forse l’unico effetto concreto della

Franceschini. La ripresa della nozione di «bene culturale», adottata per la prima volta nel 1949, come ha chiarito Lorenzo Casini, e da allora variamente fatta propria da giuristi e esperti fino a assumere uso universale grazie alla sua comparsa nella Convention pour la protection des biens

culturels en cas de conflit armé elaborata nel 1954 dall’Unesco28. Nozione di bene culturale voltata dalla Franceschini in chiave antropologica, dando il via a una tutela che vedeva in quella nozione la chiave di volta d’un ideologico progetto di conservazione di ogni traccia storica del fare umano, non

più distinguendo tra capolavoro e manufatto d’uso29. Risultato di tutto ciò, l’equiparazione della tavola di Raffaello alla pipa del nonno garibaldino, piuttosto che la falce del contadino delle Murge.

Una confusione così definita nel 2005 da Salvatore Settis30:

Il «benculturalismo» è morbo che non perdona. Se attacca le vecchie care antichità e belle arti le trasfigura in quattro e quattr’otto in beni culturali. Con conseguente metamorfosi in giacimenti culturali (detti anche petrolio d’Italia), e finale metastasi in Patrimonio Spa (non senza qualche postumo di partiti della bellezza, lacrime di esteti e riunioni di dame).

Evidente è come, su queste premesse, il tema dei beni culturali non potesse che divenire in brevissimo tempo una pura dichiarazione d’intenti, solo utile a produrre scaffali d’inutili libri in cui si discuteva per centinaia e centinaia di pagine su cosa andasse inteso per «bene culturale», vista l’insufficienza della definizione di «testimonianza materiale avente valore di civiltà» data dalla Franceschini, troppo larga, quindi generica. Discussioni sul nulla, quasi sempre concluse con un «armiamoci e partite», per il quale tutti saremmo dovuti ideologicamente andare «dal museo al territorio», così conservando quei beni. Quindi un progetto di tutela, quello dei «benculturalisti», fondato su una pura petizione di principio, che aveva la pretesa, come subito, nel 1971, vide Urbani,                                                             27 M.S. Giannini, La legge di tutela e il Ministero dei beni culturali (1990), in Zanardi, Conservazione cit., 82; sul punto vedi Cavalieri, La tutela cit.,; su Giannini: Massimo Severo Giannini, a c. di S. Cassese, Laterza, Bari 2010. 28 L. Casini, Per una nuova legge di tutela. Oltre la mitologia giuridica dei beni culturali, Seminario Fondazione Astrid, dattiloscritto s. d., ma febbraio 2011, 3 e n. 8. 29 Per la salvezza cit., I, 22. 30 Citato in Casini, Per una nuova legge di tutela cit., 3.

«di operare nientemeno che la composizione del contrasto tra “momento estetico” e “momento storico”, cioè tra assoluto e contingente, dal superamento del quale gran parte del pensiero critico moderno fa dipendere la chiave interpretativa del significato ultimo dell’opera d’arte». Una petizione di principio che in nulla mutava la ratio del corpo di leggi del 1939, perché priva in partenza d’un qualsiasi corpo di azione tecnica e organizzativa. Quindi un progetto di tutela, quello sotteso al «benculturalismo», che faceva ancora una volta coincidere il restauro con la tutela, allegramente mettendo in carico della nazione non più solo (si fa per dire) le decine e decine di milioni di opere d’arte e monumenti stricto sensu costitutivi il nostro patrimonio artistico, ma anche il numero ancora maggiore degli indifferenti manufatti frutto del fare umano, per in fine riunire il tutto nell’unico e indifferente pentolone dei beni culturali.

Ed è su queste debolissime fondamenta tecnico-scientifiche, organizzative e giuridiche, che alla fine degli anni ’60 del Novecento si è inaugurata – e in ugual modo è proseguita, fino a oggi – la parte davvero cospicua, perciò davvero incisiva, della politica di tutela del patrimonio artistico condotta in Italia dopo l’Unità. Una politica di tutela condotta senza mai arrendersi alla piana evidenza di come il corpo di leggi promulgate tra il 1938 e il 1942 (1089/1939 in primis) fosse stato pensato per un’Italia con il re e il duce, inoltre poco o per nulla perturbata dal punto di vista socio ambientale, cioè per un’Italia che semplicemente non esisteva più. Una politica di tutela invece condotta come se nulla nel frattempo fosse cambiato, quindi senza capire come, se la stabilità socio-ambientale dell’Italia degli anni ’30 consentiva di preoccuparsi del restauro di singole opere, le ricadute sull’ambiente delle radicali trasformazioni socio-economiche subite dall’Italia nel secondo dopoguerra, spostavano invece il problema sul patrimonio artistico nel suo insieme. Quindi una politica di tutela condotta continuando a credere che la tutela coincidesse con il restaurare esteticamente, una a una, tutte le opere costitutive il patrimonio artistico della nazione, senza rendersi conto di come un simile progetto fosse prima assurdo, che antiscientifico, visto che le scienza mai ragiona su casi singoli, ma su insiemi relazionali. Inoltre una politica di tutela condotta senza poter contare su restauratori in possesso d’una regolare formazione accademica, quindi mettendo nelle mani di chiunque si autodichiarasse restauratore il fragilissimo e unico e irriproducibile patrimonio artistico del paese, come è avvenuto e come continua ancora a avvenire. Una sottovalutazione del problema del restauro anche dovuta all’assenza, se non d’una consapevolezza, almeno della percezione delle irreversibili e quasi sempre negative ricadute conservative dei restauri estetici su materiali e strutture costitutivi le opere. Restauri estetici inoltre eseguiti senza rendersi conto di come questi, una volta restituita l’opera alla sua – comunque soggettiva – lezione autentica, hanno per sempre concluso il loro compito critico, perciò dovrebbero aprire la strada, non a nuovi e sempre più rischiosi restauri estetici, come di norma accade, ma a una semplice opera di manutenzione ordinaria. Una politica di tutela inoltre condotta senza porsi problema alcuno su quale dovesse essere il rapporto in architettura, ancor più in urbanistica, tra la città storica e un «nuovo» che andava diffondendosi in forme e quantità sempre maggiori e sempre meno controllabili. Senza nemmeno immaginare che un’opera di tutela razionale e coerente innanzitutto richiede la realizzazione d’un inventario fotografico speditivo delle opere presenti in un territorio dato, distinguendole tra loro per tipologia, materiali costitutivi e stato di conservazione e rischio ambientale, quindi un catalogo diversissimo da quello, pur necessario, di classificazione storico artistico di quelle stesse opere, la strada invece scelta con la pretesa di fare di ogni scheda una specie di monografia, così che il catalogo del patrimonio artistico del paese è ancora oggi, 2012, lontanissimo dall’essere terminato.

6. La creazione del Ministero per i beni culturali e ambientali (1974)

Con il d.l. 14 dicembre 1974 n. 657, convertito nella legge n. 5 del 29 gennaio 1975, viene

creato il Ministero per i Beni culturali e ambientali31. Nasce soprattutto per volontà di Giovanni Spadolini, ma contro il parere di tecnici di alto e variegato profilo scientifico quali, tra gli altri, Giovanni Urbani, Pasquale Rotondi, Bruno Molaioli e, come già detto, Massimo Severo Giannini. A parere dei contrari, soluzione assai più razionale e agile d’un Ministero – del quale paventavano, facili profeti, un’involuzione in senso burocratico – era il rilancio della già vista Amministrazione autonoma dei Beni culturali ideata dalla Franceschini. Furono tuttavia messi a tacere dallo stesso Spadolini, il quale assicurò loro che quello dei beni culturali sarebbe stato un Ministero atipico, perché rigorosamente tecnico. Ben presto fu però chiaro come il nuovo Ministero null’altro fosse di diverso da una pletorica riedizione della piccola e gloriosa Direzione generale antichità e belle arti, che in seno al Ministero della Pubblica istruzione fino a quel momento aveva retto le sorti del patrimonio storico e artistico italiano. Tanto da poter dire che l’unico rinnovamento portato alla tutela dalla nascita del Ministero sia stato di natura linguistica.

Al seguito della Franceschini, s’inserì infatti nel titolo la nozione di bene culturale e si sostituì allo specificativo «dei», con cui di norma si titolavano i ministeri, il retorico (e demagogico)

«per» di servizio, esteso anche a Istituti centrali e Soprintendenze32. Quasi si pensasse di risolvere l’immenso problema tecnico-scientifico, formativo, organizzativo e giuridico della conservazione del patrimonio artistico del paese con un artificio linguistico. Anche da qui l’impietoso giudizio riportato da Sabino Cassese sul Ministero già nel 1975, cioè nello stesso anno in cui il nuovo dicastero inizia a lavorare. Un giudizio che vede nell’assenza d’una nuova legge di tutela il

principale punto debole del neonato dicastero33:

Il Ministero è una scatola vuota: il provvedimento [della sua costituzione] non indica una politica nuova, non contiene una riforma della legislazione di tutela; consiste in un mero trasferimento di uffici da una struttura all’altra e non si vede perché uffici che non funzionano dovrebbero funzionare riuniti in un unico Ministero.

Né aiutano a dare senso alla fondazione del Ministero le due innovazioni da questo prodotte

subito dopo la sua nascita, per molti versi rimaste le sole fino a oggi. Una, la trasformazione nel 1975 dell’Opificio delle pietre dure (Opd), antica fabbrica granducale ormai del tutto priva di qualsiasi funzione originaria, al rango di istituto centrale dedicato al restauro, un raddoppio dell’Icr, prima che inutile, dannoso per la tutela del patrimonio storico e artistico del paese. L’altra la fondazione nel 1976 dell’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione (Iccd), un’iniziativa fortemente voluta da Argan, nei fatti dando seguito a un’idea di catalogo onnicomprensivo già ben presente nel dibattito post unitario e nell’aria nel convegno dei soprintendenti del 193834. Un’idea già allora rintuzzata da Roberto Longhi, invitando a non ripetere gli errori commessi da Philippe De

                                                            31 La creazione del Ministero fu preceduta da alcune «prove al vero», nominando nei vari governi che si succedettero tra il 1973 e il 1974 alcuni ministri dei beni culturali (ma anche dell’ambiente) senza portafoglio: di loro, Settis, Paesaggio cit., 242 ss. 32 Su questa solo apparentemente variazione linguistica, Zanardi, Il restauro cit., p. 168. 33 Cassese, I beni culturali cit., 173. 34 La nota ad es. in Chiarante & Bonfatti Paini, Nota cit., p. 20.

Chenneviéres (da lui chiaramente chiamato in causa in metafora) con il suo Inventaire des richesses

d’art de la France redatto nel 1878, inventaire che contiene35:

Tutte le tare della cultura positivistica e democratica ottocentesca: pletora di materiali, deficienza di eliminazione critica, allineamento su un sol piano di tutte le cose schedate; e ciò per l’illusione naturale allo pseudo-storicismo di quei tempi, che la trascrizione in extenso di tutto il materiale archivistico esistente costituisse già, di per se stessa, la migliore e più completa delle storie.

Parole, queste di Longhi, facilmente estendibili all’opera dell’Iccd, dove «l’allineamento su

un sol piano di tutte le cose schedate» non avviene per adesione «allo pseudo-storicismo», bensì sulla scia dell’ideologica ubriacatura «benculturalista» di quegli anni. Tanto che, trentacinque anni dopo la sua fondazione, l’Iccd è, come appena detto, lontanissimo dall’aver concluso il suo compito. Così che l’unico catalogo su cui oggi poter far riferimento sono le gloriose Guide rosse del Touring Club, come peraltro incredibilmente si legge nella seconda di copertina dell’ultima edizione di quelle stesse guide: «L’Istituto centrale per il restauro del Ministero dei beni culturali e ambientali ha attribuito alla collana del Touring club italiano la valenza di repertorio dei beni culturali esposti in Italia per la conoscenza unica sulla consistenza, qualità e localizzazione del patrimonio storico-artistico del nostro paese»36.

Tutto ciò dona ulteriore linfa ai durissimi giudizi sul Ministero formulati da Giovanni Urbani nel 1988 e nel 1989. Giudizi in particolare significativi, perché espressi a quindici anni dal 1974 della fondazione di quel nuovo dicastero, quindi formulati in prospettiva storica. Nel primo, Urbani fa anche trasparire dalle critiche spiragli in positivo, com’era nel suo costume di uomo di Stato sempre e comunque teso a costruire prima che a distruggere. Inoltre in quel giudizio egli accenna anche a un tema, l’assoggettamento del patrimonio artistico a avventurosi e sbagliati calcoli politici: d’allora, l’affidamento dei restauri ai grandi gruppi industriali statali e parastatali, cioè la stagione Iri-Italstat, e d’oggi, la valorizzazione condotta dalla politica – nazionale e locale – nel nome dello slogan, prima puerile che sciocco, «Il patrimonio artistico è il petrolio dell’Italia»:

A oltre dieci anni dalla fondazione è ormai certo che il Ministero per i beni culturali

e ambientali non solo non ha risolto nessuno dei problemi che avrebbe dovuto affrontare, ma ne ha ancora più allontanato la soluzione con la sua stessa crescita in senso unicamente burocratico, a tutto detrimento della qualificazione tecnico-scientifica e della funzionalità dei suoi organi operativi territoriali (Soprintendenze), non meno che di quelli deputati alla ricerca (Istituti Centrali). È perciò altrettanto certo che per sanare questa situazione si rende necessaria un’inversione radicale dell’attuale linea di tendenza, chiaramente volta a svuotare di ogni contenuto concreto l’azione di tutela, a renderla strumentale al compromesso con interessi ad essa estranei se non addirittura contrastanti, e infine ad assoggettarla unicamente a criteri di convenienza politica

E’ invece preceduto da un’inappellabile stroncatura della nozione di bene culturale l’ancora

più radicale giudizio sul Ministero (e su Spadolini) espresso da Urbani nel 198937:

                                                            35 Longhi, Relazione sul servizio cit.,, p. 284, 286. 36 Guida d’Italia. Emilia Romagna, Touring Club Italiano & Mondadori, Milano 2007, p. s.n. (seconda di copert.). 37 Urbani, Restauro, conservazione cit., 56 ss.

Se dovessi indicare la ragione principale dei nostri mali, credo proprio che me la prenderei prima di tutto con l’oscura coercizione ideologica per cui di punto in bianco, un quarto di secolo fa, ci ritrovammo tutti a non parlare più di opere d’arte e testimonianze storiche, ma di beni culturali. Binomio malefico funzionante come un buco nero, capace di inghiottire tutto, e tutto nullificare in vuote forme verbali: beni artistici, storici, archeologici, architettonici, ambientali, archivistici, librari, demoantropologici, linguistici, audiovisivi e chi più ne ha più ne metta. Un enorme scatolone vuoto entro cui avrebbe dovuto trovare posto, secondo l’aulico programma spadoliniano, “tutta l’identità storica e morale della Nazione”, salvo poi non aver saputo infilarci dentro che l’ultimo o penultimo dei Ministeri.

7. L’Icr di Giovanni Urbani (1973-1983)

E’ Giovanni Urbani a formulare quello che rimane – ancora oggi – l’unico e fondato e moderno progetto di tutela del patrimonio storico e artistico del paese38. Unico e fondato e moderno progetto di tutela, perché rigorosamente incardinato al tema dell’ambiente. Un progetto che era la somma dei piani da lui elaborati dalla direzione dell’Icr, incarico che assume nel 1973, a conclusione d’una carriera iniziata con il suo ingresso nel 1944 all’Icr come restauratore e da allora sempre proseguita all’interno di quella istituzione. Quel che gli consente, in particolare la nativa formazione di restauratore, un’assoluta sicurezza di giudizio circa le numerose fragilità disciplinari della materia del restauro, così com’era andata evolvendo dalla nascita dell’Icr, quindi al massimo livello allora possibile. Tanto da potersi chiedere, nel suo saggio d’esordio nell’agone teorico del restauro, Il restauro e la storia dell’arte, uscito nel 1967, quattro anni dopo la pubblicazione della teoria di Brandi: «E allora, potremmo ancora pretendere di non star restaurando come si è sempre restaurato, cioè alterando o manomettendo?» 39. Né per questo va pensato a una diretta posizione critica di Urbani verso il pensiero di Brandi. Mai egli polemizza direttamente con la teoria «brandiana». Semplicemente ne chiede una storicizzazione40. Egli sa infatti benissimo come la griglia teorica elaborata da Brandi, che per anni gli è stato maestro all’Icr, sia destinata a restare (anche oggi) punto di riferimento ineliminabile per chiunque voglia restaurare esteticamente un’opera d’arte secondo principi critici fondati. Altrettanto sa però bene dell’insufficienza di quella stessa teoria per affrontare, ancor più per risolvere, l’assai complesso problema organizzativo e tecnico-scientifico della conservazione del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente. L’ambiente sempre più inconsultamente aggredito dall’uomo, che nel 1966 dà il primo e inequivocabile segnale di crisi matura con le tre successive tragedie di Agrigento, Firenze e Venezia.

Il 19 luglio del 1966 franano a terra alcuni palazzi costruiti dalla speculazione e dall’abusivismo edilizi una decina d’anni prima nella Valle dei Templi di Agrigento, trascinando l’intera città in un disastro con migliaia di senzatetto, senza però (per purissimo caso) provocare morti. E sembrano scritte oggi le parole colme d’indignazione civile scritte qualche giorno dopo su «La Stampa» da Carlo Arturo Jemolo41:

                                                            38 Sulla figura di Giovanni Urbani, Zanardi, Il restauro cit.; v. anche Cavalieri, La tutela cit. 39 Urbani, Il restauro e la storia dell’arte cit, p. 16. 40 Id., A proposito di una rivista di restauro (1988), in Id Intorno cit., 78 s. Insolito è che in Intorno al restauro Urbani citi una figura di soprintendente, appunto Antonio Paolucci; il quale viene invece menzionato sia per l’occasione, la presentazione ufficiale del primo numero della rivista «Opd Restauri», fondata da Paolucci e che lo stesso Paolucci volle che Urbani tenesse, sia, soprattutto, per la gratitudine (ne sono diretto testimone) verso l’attuale direttore dei Musei Vaticani, unica figura di collega a aver riconosciuto in iscritto i meriti del suo lavoro di direttore dell’Icr: A. Paolucci, Il Laboratorio del restauro a Firenze, Istituto Bancario San Paolo di Torino, Torino 1986, 188 ss. 41 A.C. Jemolo, Chi paga i danni? Lo scandalo di Agrigento e altri, «La Stampa» 30 luglio, 1966, 1.

Il caso di Agrigento s’inquadra in una realtà quotidiana che accomuna Nord e Sud, città, borgate e villaggi. Il disprezzo per i valori culturali, sacrificati costantemente, in modo assoluto, all’elemento economico; una sempre minor preoccupazione per la vita umana […]. La verità è che non c’è nulla che sia sacro alla speculazione. Speculazione di singoli, non meditato sacrificio [da parte di uno Stato] che operi secondo un piano organico, però con una visione economica. Per la collettività quel che si sta facendo è di sicuro danno anche sul terreno dell’economia. Vano sperare che il turismo straniero non si accorga che le nostre spiagge divengono ammassi di case e cemento; ma non conta è l’accaparratore singolo di aree che avrà guadagnato. […] Voglio essere equanime, e riconoscere che un’attenuante le autorità – si tratti di lasciar deturpare il paesaggio o sorgere costruzioni malsicure – l’hanno: l’indifferenza delle popolazioni. In altri Paesi la distruzione di un giardino potrebbe far perdere a un’Amministrazione comunale buon numero di suffragi; da noi no. […] Nelle città i cui nomi ricordano terribili terremoti non si rispettano le norme antisismiche, pensando che forse un prossimo terremoto verrà solo tra un secolo. Si vedono tirar su case alla carlona, si pensa che non si sarà noi a abitarle. L’amor proprio nazionale batte false rotte. S’inalbera per un insuccesso sportivo; non resta offeso per questo anarchismo: al constatare che da noi […] non si sappiano far rispettare norme elementari, non si abbia mai il doveroso rigore di far demolire le costruzioni abusive

All’incirca tre mesi dopo, il 4 novembre, l’Arno straripa a Firenze, sommergendone l’intero

centro storico, così come nello stesso giorno si verifica a Venezia un eccezionale fenomeno di acqua alta, che raggiunge circa due metri. Con esso, va sott’acqua una parte enorme del patrimonio storico e artistico delle due città. Subito appare chiaro che le due tragedie avessero anche ragioni socio-ambientali. A Venezia, il mancato dragaggio da anni dei canali e l’abbandono a sé stessa della laguna, a Firenze l’irreversibile e rapidissimo spopolamento delle zone a monte della città con il conseguente abbandono delle coltivazioni agricole e, con esso, del governo fattuale delle condizioni idrogeologiche del territorio. Con altrettanta immediatezza appare inoltre chiaro che quanto successo a Firenze e Venezia poteva ormai accadere in ogni altra zona d’Italia. Quindi è ugualmente chiaro che la nuova condizione ambientale in cui il paese era venuto a trovarsi in modo così rapido e inaspettato non revocava più in dubbio, com’era fino a quel momento era sempre stato, la sicurezza di singole opere, bensì il patrimonio artistico nel suo insieme. Dimostrando una volta di più priva di qualsiasi fondamento (a quel punto, anche teorico) l’equazione che pretendeva il restauro estetico di singole opere sinonimo di tutela, altresì avvertendo dell’inutilità di notifiche e divieti rispetto a un problema che aveva caratteristiche certamente molte diverse dall’impedire la vendita all’estero delle opere d’arte in mano privata. Ed è di grande rilievo per la storia stessa della tutela, oltre che del restauro, il fatto che nell’appena citato saggio del 1967, quasi mezzo secolo fa, Urbani avesse tentato di far chiarezza su entrambi questi temi, in particolare avvertendo che ragionare di tutela e di storia dell’arte su singole opere non poteva corrispondere a un’attività scientifica, perché sempre le scienze ragionano per insiemi, mai per casi unici42:

La storia dell’arte, che è appunto conoscenza dell’arte nella totalità della sua storia,

sa che nessuna delle sue acquisizioni particolari ha valore se non sul piano dell’insieme; e perciò non può non sapere che il perseguimento dell’autenticità nelle singole opere resta un’impresa marginale e aleatoria, se non porta alla determinazione d’un criterio che abbia effetto sull’insieme, che cioè sia valido per la totalità delle opere d’arte.

                                                            42 Urbani, Il restauro e la storia cit. 19.

Pensare che questo effetto si potrebbe forse ottenere restaurando, nei modi d’oggi, una ad una tutte le opere esistenti, significa non solo porsi davanti ad una impresa imperseguibile perché smisurata, ma anche impostare il problema esattamente all’inverso di come andrebbe impostato: perché non è con un’infinità di risultati marginali e aleatori come quelli attuali, che si può comporre un insieme essenziale, certo e necessario. D’altra parte, è solo sul piano dell’insieme e della totalità che la scienza può venirci incontro: perché quello è il piano su cui essa si muove già per suo conto. A meno di non credere che la scienza serva a far meglio i ritocchi, e non a mettere i dipinti nelle condizioni per cui abbiano sempre meno bisogno di ritocchi.

L’unico criterio che può avere «effetto sull’insieme, cioè sia valido per la totalità delle opere

d’arte», è di natura conservativa, quindi rivolto alla conoscenza dei materiali costitutivi le opere e dei loro generali comportamenti chimico-fisici in condizioni ambientali date. Si tratta perciò di mettere a punto un coerente e razionale sistema organizzativo che ponga al centro della tutela la conservazione del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, perché è dall’ambiente, lo sottolineo un’altra volta, che provengono tutte le possibili cause di degrado delle opere d’arte. E’ il sistema organizzativo costruito da Urbani in tre distinte fasi, che corrispondono a altrettanti e del tutto innovativi lavori di ricerca: Problemi di conservazione (1973), Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria (1976), La protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico (1983) 43. Tre lavori di ricerca che, nei fatti, fondano la disciplina della conservazione preventiva, da Urbani trasformata nella nozione di «conservazione programmata» da lui stesso così definita44:

Una tecnica, alla quale qui diamo il nome di «conservazione programmata», di necessità rivolta prima che verso i singoli beni, verso l’ambiente che li contiene e dal quale provengono tutte le possibili cause del loro deterioramento. Suo obiettivo è pertanto il controllo di tali cause, per rallentare quanto più possibile la velocità dei processi di deterioramento, intervenendo, in pari tempo e se necessario, con trattamenti manutentivi appropriati ai vari tipi di materiali.

Inutile dire che il progetto di Urbani fu lasciato cadere nel nulla. Un destino comune a tutte

le iniziative prese in quegli stessi anni per l’attuazione di politiche ambientali scientificamente fondate, quindi non ideologiche e demagogiche. Uguale fallimento, per fare un solo esempio, subisce la Prima relazione sulla situazione ambientale in Italia, un’iniziativa dell’Eni circondata da

                                                            43 Problemi di conservazione cit.; Istituto centrale del restauro, Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria. Progetto esecutivo, con gli all. I-II, Tecneco s.p.a., Roma 1976 (= la «Presentazione», in Urbani, Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali dell’Umbria, in Id., Intorno cit., 103-112; d’ora innanzi questa è la versione cit.); Istituto centrale del restauro, La protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico, con gli all. 1-5, (Cat. della mostra, a c. di G. Urbani, 23 maggio–luglio 1981), Ist. centrale del restauro & Comas Grafica, Roma 1983 (una collazione dei testi di Urbani in Id., La protezione del partimonio monumentale dal rischio sismico, in Id., Intorno, cit., 139-144: d’ora innanzi questa è la versione cit.). un volume ancora oggi di riferimento per gli studi di conservazione preventiva, subito accolto in sede internazionale con grande interesse, come dimostra l’immediata pubblicazione degli abstracts di tutti i suoi contributi negli Art and Archaeology Technical Abstracts (AATA) da parte di Garry Thomson, uno dei padri nobili del moderno restauro (G. Thomson, Abstract, in «Art and archaeology technical abstracts», 10.2 (1973), nn. 578, 607, 644, 649, 652, 674, 695, 719, 721, 731, 746, 756, 765, 769, 770, 772, 773, 781, 794, 816, 817, 827, 830, 835, 838, 845, 846, 847, 849, 851, 853, 900, 905-907, 931, 955, [http://www.aata.getty.edu/NPS]). 44 Urbani, Piano pilota cit., p. 104; la noz. di «restauro preventivo» in Brandi, Cosa debba intendersi per restauro preventivo, «Bollettino dell’Istituto Centrale del Restauro», 27-28 (1956), 87-92 (= in Teoria, cit., pp. 81-89).

molte attese e speranze che fu presentata il 29 giugno del 1973 a Urbino, senza avere seguito alcuno. Di quella prima (e ultima) relazione Urbani è il «coordinatore della parte riguardante il patrimonio artistico», come lui stesso non a caso scrive in un suo brevissimo curriculum, producendo uno specifico contributo sul tema della conservazione del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente45. Ed è di grande interesse il giudizio dato su questa vicenda da Marcello Colitti, allora altissimo dirigente dell’Eni. Un giudizio che può essere trasferito – alla lettera, ed è prima impressionante oltre che sintomatico – all’assurdo scialo fatto dal Ministero per i Beni culturali del lavoro prodotto da Urbani in quegli stessi anni, in particolare il Piano umbro, uscito tre anni dopo, nel 1976, la Prima relazione dell’Eni46:

Il convegno di Urbino [Il Piano Umbro, mio il corsivo qui e dopo, n.d.t.] segnò l’atto

di morte del tentativo dell’Eni [dell’Icr] di conquistare un ruolo istituzionale nel settore dell’ecologia: un grande lavoro e un’équipe di qualità risultarono sprecati. La relazione ecologica [Il primo progetto di conservazione del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente] del paese non fu più rifatta [...]. Da allora, al discorso ecologico italiano [alla conservazione del patrimonio artistico italiano] è mancato per anni un elemento fondamentale: un centro di rilevazione e di elaborazione che abbia i mezzi per operare e la capacità tecnica e imprenditoriale, oltre alla credibilità verso il pubblico.

E’ tuttavia vero che a partire dagli anni ’90 del secolo scorso vi sono stati alcuni tentativi di

riprendere, con il nome di Carte del rischio, la georeferenziazione del patrimonio artistico in rapporto ai rischi ambientali, messa a punto per la prima volta una quindicina d’anni prima da Urbani nel Piano umbro. Con risultati però molto insoddisfacenti. Ed è con ogni probabilità per questa ragione, cioè per non ammettere l’errore allora commesso, che nemmeno le pur discutibili Carte del rischio variamente redatte in giro per l’Italia a partire dagli anni ’90 del Novecento sono state utilizzate come strumenti di pianificazione d’una politica di tutela. Confermando in tal modo il Ministero la sua costante disattenzione verso tutto ciò che metta in connessione il patrimonio artistico con l’ambiente, disattenzione figlia nei fatti della convinzione, va ridetto per l’ennesima volta, che la tutela coincida con la somma tra i vincoli passivi della 1089/1939 e l’attivo restauro estetico «brandiano». Una convinzione mai scalfita dai sempre più frequenti disastri ambientali di origine idrogeologica e sismica, che hanno colpito e colpiscono l’Italia, tanto che, all’oggi, continua a mancare nel paese una qualsiasi politica di prevenzione dal rischio sismico e idrogeologico del patrimonio monumentale o semplicemente storico, quella i cui termini tecnico scientifici e organizzativi erano stati indicati con ogni chiarezza nei lavori condotti quasi mezzo secolo fa da Urbani. La politica che, se praticata, avrebbe certamente diminuito, se non scongiurato, i morti e i gravissimi danni economici seguiti ai molti terremoti, frane e inondazioni di cui è stata vittima l’Italia durante e dopo gli anni del lavoro di Urbani. I terremoti di Marche e Umbria (con la caduta di parte della Basilica di Assisi), del Molise e dell’Abruzzo (con il crollo dell’intero centro storico dell’Aquila), le frane e le inondazioni, ieri, di Sarno, Valtellina, Novara o il Veneto, oggi (2012) di

                                                            45 Prima relazione sulla situazione ambientale del paese, a c. della Tecneco, voll I-IV, con tredici allegati, C. ed. Carlo Colombo & Tecneco, Milano 1974. Il ruolo di Urbani in un brevissimo curriculum autografo trovato nelle sue carte private arrivate a me in via ereditaria, che pubblico in Nota del curatore, in Urbani, Intorno cit., 7-12: 7. Parlo di questa Prima relazione in Zanardi, Il restauro cit., 167-184 («La breve storia del ‘Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria’»): 173 sgg.; grande spazio vi è dedicato in Settis, Paesaggio cit., 225 sgg. 46 M. Colitti, ENI. Cronache dall’interno di un’azienda, Egea, Milano 2008, 215 (ovviamente mie le equazioni in corsivo con l’Icr di Urbani e in part. il suo «Piano» dell’Umbria).

Cinque Terre, Lunigiana, Genova, Messina e Catanzaro. Un ennesimo ritardo culturale del paese, che consente alle parole scritte da Urbani subito dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980, trentuno anni fa, di sembrare pronunciate oggi, al seguito di uno qualsiasi di quei disastri47:

Con la distruzione a decine d’interi comuni dell’Irpinia, con la perdita di oltre

tremila vite umane e con le sofferenze di centinaia di migliaia d’altre, col collasso di una città come Napoli, e coi costi o meglio sprechi d’una ricostruzione che si prospetta a dir poco caotica, non è necessaria nessuna competenza in economia per sapere quale sarà il saldo di una politica economica che non si è mai degnata di far entrare nei propri conti i costi del dissesto geologico, del disordine urbanistico e della incuria verso il patrimonio edilizio storico. Costi, si badi bene, che nel caso specifico non vanno calcolati solo in base alle distruzioni avvenute e alle ricostruzioni di là da venire, ma tenendo anche conto del fatto che, mentre certamente permarranno tutte le cause del malessere socio-economico che affligge da secoli quelle Regioni, sarà invece andata perduta per sempre, con la scomparsa dell’edilizia antica, l’unica condizione per cui le popolazioni locali potevano riconoscersi in una comunità e sentirsi legate alla propria terra [...].

Ci vorrebbe assai poco, una volta saputo che quasi metà della nazione è esposta a rischio sismico, proiettare su questa scala le perdite subite il 23 novembre [1980], e calcolare il corrispettivo danno economico che incombe sulla penisola ove persistesse, come purtroppo certamente persisterà, l’assenza di ogni politica di difesa del suolo e di consolidamento preventivo dell’edilizia storica. Tuttavia, è per la natura culturale dei nostri interessi che dobbiamo pretendere che essi non vengano in primo piano solo in occasione delle calamità riconosciute per legge, ma valgano piuttosto da “indicatori” dello stato di calamità permanente a cui il territorio nazionale è sempre più esposto, ben al di là della sua classificazione in zone più o meno sismiche.

Ma anche, i piani elaborati da Urbani non vennero presi in considerazione da Regioni,

Province e Comuni perché, se realizzati, sarebbero stati dei facili e assai efficienti strumenti di controllo delle aggressioni territoriali portate da speculazione e abusivismo edilizi e industrie inquinanti. Mentre all’interno dell’Amministrazione dei beni culturali quei piani non vennero presi in considerazione perché avrebbero costretto a una rivoluzione copernicana il settore della tutela. A cominciare da un incremento d’efficienza basato sul superamento dei pilastri stessi della 1089/1939, gli strumenti solo in negativo e punitivi dei vincoli e delle notifiche, ovvero la «lettura chiara e storicamente esatta» delle opere d’arte teorizzata da Argan nel 1938, cui Brandi da veste estetica a partire dalla fine del decennio successivo. Un superamento che poteva avvenire solo attraverso una profonda revisione delle competenze necessarie all’ingresso nelle carriere direttive ministeriali e al varo d’una nuova legge di tutela mirata a custodire e salvaguardare in positivo l’insopprimibile vocazione ambientale del patrimonio storico e artistico italiano. Verso questo primo e vero compito della tutela in Italia vanno le Proposte per la riforma della legge e degli organi di tutela formulate da Urbani nel 1987. Ed è inutile dire che anche questa iniziativa di Urbani sia nel più completo silenzio. Anzi, quelle proposte furono profondamente modificate, nei fatti stravolte, dalla stessa Italia Nostra, perché ritenute non in linea con la visione statalistica della solita 1089/1939. Confermando il tal modo anche quella volenterosa associazione d’essere organica al generale e enorme ritardo culturale settore. Ma così la sintesi svolta da Urbani – che, per quanto era successo, si dimise da Italia Nostra, – degli obiettivi di quelle proposte, sintesi che appare anche una breve,

                                                            47 G. Urbani, Le risorse culturali, in Id., Intorno cit., 49-56: 49 sgg.

ma veridica, storia della mancata tutela del patrimonio artistico, così come è andata articolandosi, in particolare dal 1974/75 dell’infausta fondazione del Ministero dei beni culturali48:

L’estensione dell’ambito ideale della tutela praticamente alla totalità delle testimonianze materiali della storia dell’uomo [attraverso l’assunzione della nozione di bene culturale], se da un lato è giustificabile con l’esigenza di preservare l’organicità del rapporto di tali testimonianze con l’ambiente di vita in generale, dall’altro ha finito per privilegiare il momento giuridico-amministrativo della tutela rispetto a quello tecnico scientifico. Mentre infatti per la piena esplicazione del primo è sufficiente il riferimento a classi generiche di beni, nei riguardi delle quali l’unica misura di tutela appropriata quella passiva della limitazione o divieto, uniformemente applicabile alla generalità indifferenziata dei beni rientranti in tali classi, per una tutela in positivo non ci si può invece riferire che alla realtà differenziata dei singoli beni, da ordinarsi quindi non più in classi generiche, ma in insiemi o sistemi determinati o circoscritti, e pertanto formati da componenti definite con ogni possibile precisione, anche se ovviamente non una volta per tutte, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo [...].

Per apprezzare la diversità di fondo tra i due tipi di tutela, basti considerare che per quella amministrativa, una volta suddiviso in classi generiche l’universo indeterminato dei beni, è del tutto indifferente che il successivo vaglio operato con la procedura della “notifica” porti a individuare un numero trascurabile o elevatissimo di beni. Tanto è vero che la notifica resta pur sempre un atto discrezionale, e che la quantità di beni ad oggi notificati non interessa minimamente e pertanto è quasi del tutto ignota all’amministrazione.

Si può obiettare che tutto ciò non rappresenta un troppo grave inconveniente, dal momento che la notifica si applica solo alle cose di proprietà privata o di enti di diritto pubblico, ed è pertanto ai proprietari delle stesse che incombe di renderne operanti gli effetti di tutela, con la semplice osservanza dei divieti e vincoli a questa inerenti.

Ma ciò non fa che mettere in luce l’inesistenza di ogni forma di tutela per i beni non notificabili perché di proprietà dello Stato, beni che “presumibilmente” costituiscono la parte di gran lunga preponderante del patrimonio storico-artistico nazionale. Presumibilmente, perché anche di questa parte l’amministrazione non possiede la benché minima conoscenza organizzata, intendendo per tale non una conoscenza fine a se stessa, ma che serva al conseguimento dei fini primari della tutela:

a) la conservazione materiale del patrimonio storico-artistico; b) il potenziamento delle funzioni proprie di tale patrimonio come “risorsa

produttiva” (in termini sia culturali che economici), e come “componente qualitativa” dell’ambiente.

Deve essere ben chiaro, e non si ribadirà mai abbastanza, che in difetto di questo tipo di conoscenza, quello che viene a mancare è anzitutto l’oggetto stesso della tutela, e tanto più la possibilità di fare di questa un esercizio concreto ed effettivo.

8. Il Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004)

Nel 2004, sessantacinque anni dopo il 1939 la promulgazione della legge 1089, con d.lgs. 42 del 22 gennaio viene varato il nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio, la cui redazione si avvale di importanti figure tecniche quali Sabino Cassese e Salvatore Settis. La sua nascita è però preceduta da alcune altre iniziative di legge. La più importante resta la legge 8 agosto 1985 n. 431 sulla tutela delle cose di particolare interesse ambientale, che prende il nome da chi fortemente la                                                             48 Id., Proposte per la riforma della legge e degli organi di tutela (1987), ivi, 145-151: 145 sg.; un esame in dettaglio di queste proposte in Cavalieri, La tutela cit.

volle: Giuseppe Galasso. Una legge, la Galasso, che cercava di uscire dalla ratio estetizzante e puntiforme della legge 1497/1939, affidando direttamente alle Regioni il compito dell’elaborazione di piani paesistici che salvaguardassero i valori storici e ambientali dei loro territori. Quindi legge di grande civiltà, tuttavia del tutto disattesa per il favore storicamente dato alla rapina del territorio da parte di tutta (tutta) la politica, tanto che ancora oggi alcune Regioni non hanno approntato piano paesistico alcuno49. Ma anche legge disattesa per il ritardo culturale d’un settore, quello della tutela, totalmente impreparato a affrontare un simile tema, come sinteticamente rilevava già nel 1989 Giovanni Urbani, definendo la Galasso50:

Il sogno di una persona dabbene, nei panni della quale non avrei però voluto essere il

giorno in cui si sarà risvegliata, trovandosi attorno delle Regioni e un Ministero per i quali un Piano paesistico non deve essere cosa molto diversa dall’araba fenice.

Le altre iniziative di legge prese prima del 2004 non sono mai tese, come solito, a collegare

tra loro conservazione del patrimonio artistico e ambiente. Esemplare in questo senso il d.lgs. 112 del 31 marzo 1998, testo di legge il cui contraddittorio dettato – da una parte, si conferma la competenza sulla tutela del patrimonio artistico allo Stato (art. 149), dall’altra, s’affidano gestione e valorizzazione di quello stesso patrimonio alle Regioni (artt. 150 e 152) – si deve con ogni probabilità al giusto imbarazzo del legislatore di devolvere alle Regioni anche la tutela del patrimonio artistico. Resta tuttavia un fatto che la legge formalizza la possibilità di tutelare senza insieme contestualmente valorizzare e gestire, ovvero, di valorizzare e gestire senza insieme contestualmente tutelare, ennesima prova del bizantino modo italiano di non governare i problemi51. Quel che spiega perché il d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, c.d. Testo unico dei beni culturali, non s’impegni a produrre una nuova e moderna legge di tutela, ma si limiti a riordinare (comunque meritoriamente) la farragine di leggi prodotte nei decenni precedenti intorno alla tutela, mai però sfiorato il legislatore da dubbio alcuno circa la necessità di porre in rapporto conservazione del patrimonio artistico e ambiente, né di dover dare efficienza organizzativa al settore, del quale perciò non si vedono esigenze di riforma. Pone infine un pesantissima ipoteca sull’attuazione d’una razionale e coerente azione di tutela la riforma del Titolo V della Costituzione, che formalizza l’incongruente divisione di poteri tra Stato e Regioni in materia di tutela operata dal d.lgs. 112/1998, sancendone in conseguenza per legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, la definitiva confusione di ruoli; con essa, la sempre più diffusa improvvisazione e incompetenza del settore, cioè, nei fatti, quello che potrebbe essere definito uno speciale «diritto costituzionale al dilettantismo» dei suoi attori. Il dilettantismo alla base del gravissimo ritardo culturale accumulato nei decenni dalle politiche di tutela del nostro paese, di cui già si è più volte detto52.

                                                            49 Esaustiva rassegna delle battaglie legali intorno alla Galasso e non solo: Settis, Paesaggio cit., 179 ss.; Amorosino, Introduzione cit. 50 Urbani, Restauro, conservazione cit., in Zanardi, Conservazione, restauro cit., 57. 51 Un commento in questa stessa direzione, S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela, cit., 674.

52 Faccio due esempi di vicende di cui sono stato testimone diretto intorno al 2005, quindi non un secolo fa. Un soprintendente statale mi affida il restauro di un ciclo di affreschi di Tiepolo in proprietà privata, dicendo poco dopo all’esterrefatto proprietario: ‘sì, ho firmato l’incarico, ma mi sono sbagliata’. Dopo di ché, a fronte delle perplessità esposte dal proprietario, di quegli affreschi (di Tiepolo!) mi affida il solo consolidamento, cioè non la parte figurativa. Nella solita logica critico-estetica del 1938, dove consolidare in una sola stazione un intero ciclo di affreschi è impresa tecnicamente sbagliata, consentita solo in caso di calamità quali terremoti, frane, eccetera. Il secondo esempio è un geometra comunale diplomato alle serali, che mi affida il restauro, da lui diretto, di una grande statua in bronzo, parte di

Nel 2004 finalmente viene promulgato il nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio, alla cui redazione partecipano eminenti figure di tecnici quali Sabino Cassese e Salvatore Settis. Suo fondamento è la Costituzione, come in particolare attesta l’aver riunito i legislatori entro lo stesso testo patrimonio artistico e paesaggio, tuttavia lanciando anche lo sguardo alla definizione di paesaggio (art. 131) data nella Convenzione europea sul paesaggio, sottoscritta a Firenze il 22 ottobre 2000. Ma se la riunione in una sola legge di patrimonio artistico e paesaggio operata dal codice è innovazione di straordinaria importanza culturale e giuridica, essa però non riesce a sanare la storica distinzione tra conservazione del patrimonio artistico e conservazione dell’ambiente (nei fatti, una crasi tra storia e natura) sempre operata nelle leggi di tutela italiane. Lo stesso però l’unione in una stessa legge di beni culturali e paesaggio è novità di grandissimo rilievo culturale e civile, nel suo creare il precedente per possibili azioni di tutela nel senso della conservazione del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente. Così da rendere non improbabile che le distinte integrazioni e modifiche al Codice, una inerente i beni culturali (d.lgs. 156 24 marzo 2006; d.lgs. 62 26 marzo 2008), l’altra il paesaggio (d.lgs. 157 del 24 marzo 2006; d.lgs. 63 del 26 marzo 2008) siano una risposta contenitiva a questa novità53. Se infatti in queste integrazioni e modifiche – firmate, nel 2006, dal Ministro Buttiglione, nel 2008, dal Ministro Rutelli – compaiono alcuni indubitabili chiarimenti tecnici al precedente dettato, resta il sospetto che dedicare distinti decreti leggi a ognuna delle due materie serva a isolare, anche formalmente, la tutela dei beni culturali da quella dell’ambiente per rendere l’ultimo più facilmente arrendevole agli interessi delle solite forze economiche: su tutte, la speculazione e l’abusivismo edilizi.

Altra importante novità del Codice è, tra le altre, la completa perdita di peso del restauro a favore della conservazione. L’art. 29 s’intitola infatti alla «Conservazione», non al restauro, e la materia viene correttamente suddivisa nelle sue articolazioni di «conservazione, prevenzione, manutenzione e restauro» (commi 1-4), dandone assai pertinenti definizioni e addirittura parlando, nel caso della conservazione, di «conservazione programmata», inoltre ponendo il restauro in rapporto con il rischio sismico, quindi gettando le basi per fare della tutela materiale del patrimonio artistico una moderna opera di conservazione preventiva dai rischi ambientali. Ma anche in quello stesso art. 29 finalmente si parla della formazione dei restauratori, coinvolgendo nell’argomento l’Università (commi 9-11) 54. Offende però il carico di dedizione, intelligenza e passione civile dei legislatori, e penso di nuovo a Cassese e Settis, il fatto che il Ministero abbia per primo disatteso quanto si legge all’art. 29 in materia di conservazione, prevenzione, manutenzione e restauro. Forse

                                                                                                                                                                                                     un monumento cittadino degli inizi del novecento. Siccome la statua aveva delle difficoltà di mobilitazione dopo il distacco dal piedestallo, mi dice che bisogna tagliarne le braccia. Io mi rifiuto. Lui mi sostituisce. Due vicende entrambe accadute nel nord dell’Italia. 53 Settis, Paesaggio cit., 259 sgg. 54 I primi quattro articoli del Codice furono scritti un pomeriggio dell’estate del 2003 nella sede del Ministero dei beni culturali da un gruppo di lavoro al cui tavolo si affrontarono, da un lato, Salvatore Settis, con Bruno Toscano e io, entrambi chiamati a quella discussione dallo stesso Settis; dall’altro lato, Giovanni Carbonara, con Marco Dezzi Bardeschi e Stella Casiello. Presiedeva il dott. Mario Torsello, consigliere giuridico dell’allora Ministro dei beni culturali Giuliano Urbani. Ricordo il fatto non tanto per future precisioni micro-storiche, ma perché quel tavolo fu oggetto di un’aspra e lunga discussione tra ‘noi e loro’. Noi al seguito del pensiero di Giovanni Urbani. Loro di quello di Argan e Brandi. Noi a evidenziare la necessità di uscire dalla ratio del restauro estetico a favore della manutenzione, indicandola come parte fondante di una razionale opera di conservazione preventiva e programmata. Loro a sostenere, impavidi, la pericolosità, in senso critico e estetico, della manutenzione ordinaria, cercando di non farne entrare il concetto nel Codice. Fu un’altra dimostrazione del ritardo culturale del settore, in particolare quello delle scuole universitarie di architettura ancora nel 2003 intente a sacrificare il tema conservativo a favore dell’estetica e della critica, evidentemente ritenendo queste due discipline la scienza del restauro; cioè ancora intente a ragionare sul restauro secondo i principi enunciati sessantacinque anni prima da Argan al convegno dei soprintendenti del 1938. Un ritardo culturale tuttavia non completamente irrisarcibile, visto il favorevole risultato colto «da noi» in quello scontro.

per non dover mettere revocare in dubbio la preparazione tecnico-scientifica della quasi totalità dei suoi funzionari, ovvero, più verosimilmente, per pigrizia e annosa incapacità di comprendere gli esatti termini del problema conservativo, il Ministero in nessun caso dispone che le soprintendenze adeguino le proprie azioni di tutela a quelle prescrizioni: peraltro, sia detto di passaggio, prescrizioni di legge.

Spregia altresì le rette intenzioni dei legislatori del Codice dei beni culturali e del paesaggio il d.lgs. 156 del 24 marzo 2006, che toglie all’università la formazione dei restauratori, stroncando sul così sul nascere quanto aveva iniziato a fare, dall’anno accademico 2001/2002, l’Università di Urbino «Carlo Bo», seguita da quelle di Torino, Napoli e Palermo. Un divieto emesso dal Ministero sulla base dell’articolo 12 della legge 1240/39 di fondazione dell’Icr che recita: «É vietato istituire scuole di restauro senza l’autorizzazione del Ministro per l’Educazione Nazionale, al cui controllo è sottoposto l’insegnamento del restauro nel Regno». Il che significa che, quando in tutte le nazioni dell’Occidente la formazione dei restauratori è universitaria, in Italia lo si impedisce sulla base d’una autorizzazione che dovrebbe concedere il ministro d’un regno dei Savoia che non esiste più da oltre mezzo secolo, ministro del regno che peraltro faceva riferimento a una scuola d’avviamento professionale, com’era stata allora pensata quella annessa all’Icr. Quindi un’iniziativa, il d.lgs. 156/06, che, nel suo essere ennesima prova della storica immobilità dell’Amministrazione beni culturali, è solo servita a aumentare la già immensa confusione in un settore, quello del restauro, da sempre lasciato crescere dal Ministero senza regola alcuna. Una situazione intollerabile, su cui tuttavia nessuno, tra Ministero e Soprintendenze, ha mai discettato, con il risultato che molte migliaia di persone senza un’accertata abilità manuale e senza alcuna preparazione culturale – non tutte, ma molte – si sono trovate a condurre irreversibili interventi di restauro estetico sul corpo vivo del patrimonio storico e artistico della nazione. Inoltre operando, i restauratori autodichiarati, sotto la guida di direzioni lavori tali, non perché specificatamente preparate a dare giudizi tecnico scientifici nella materia conservativa, ma ex lege, la solita 1089/1939, quindi per lo più in grado solo di dare soggettivi giudizi di natura estetica, ovvero, nei casi migliori, critica.

Aggiunge infine fiele al veleno l’equiparazione degli interventi di restauro ai lavori pubblici per la quale i lavori di restauro vengono ex lege (109/1994, e successive modifiche), aggiudicati con gare d’asta quasi sempre al maggior ribasso; gare quasi mai vinte da restauratori, ma da imprese edili, perché più avvezze a far cartello e con maggiori, si fa per dire, aderenze ministeriali, inoltre gare cui conseguono lavori di restauro la cui garanzia di scientificità proviene dai soliti soggettivi giudizi estetici delle Soprintendenze. Così da dare un senso di battaglia civile alla richiesta di moratoria dei restauri, avanzata nel 2007 da Carlo Ginzburg e Salvatore Settis55. Richiesta che, pur se pubblicata sulla prima pagina del quotidiano La Repubblica, non ha sortito effetto alcuno. A ennesima conferma della storica immobilità dell’Amministrazione pubblica italiana.

9. Prospettive per tutela e valorizzazione del patrimonio storico e artistico e l’art. 9 della Costituzione

Evidente è come la custodia e la salvaguardia del patrimonio artistico siano un problema d’interesse nazionale. Per questa ragione, non solo il Governo in carica, ma l’intero Parlamento dovrebbe promuovere la redazione d’un ampiamente condiviso piano a lungo termine che preveda in dettaglio modi e tempi d’una radicale riforma d’un settore il cui sistema organizzativo manifesta

                                                            55 C. Ginzburg, S. Settis, Fermiamo i restauri cambiano la nostra storia. Se ne fanno troppi: proponiamo una moratoria, «La Repubblica» 3 otto. 2007, 1 e 41.

da decenni – secoli, nell’oggi di internet – gravi difetti strutturali. Un’assai cospicua serie di carenze non risarcibili con i semplici aggiustamenti manageriali e operativi finora adottati, anche perché troppo spesso originati da motivi clientelari e non d’efficienza. Una riforma soprattutto rivolta alle competenze da dare ai dirigenti del settore, i soprintendenti, da formare perché finalmente entrino in possesso d’un fondato pensiero storico, tecnico scientifico e giuridico, sulla cui base poter poi gestire un condiviso piano a lungo termine, che abbia come fine la salvaguardia e la custodia della qualità essenziale del patrimonio artistico italiano: come già più volte detto, la sua natura ambientale. Prendendo con ciò anche atto che lo stesso concetto di «sito», così come inteso dall’Unesco, porta con sé una «accezione del patrimonio artistico integrato con paesaggio e natura»; ciò che vale per i 911 (oggi) siti individuati nel mondo dallo stesso Unesco come patrimonio dell’umanità, di cui il maggior numero, quarantadue storico-culturali, due naturali, è in Italia, a conferma dell’attuale interesse internazionale per il nostro patrimonio artistico e ambientale56.

Proprio perché finalizzato alla conservazione del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, quel piano dovrà porre al proprio centro l’equilibrio tra i principi di legalità e di sussidiarietà circa le attività di pianificazione territoriale e urbanistica di Regioni e Enti locali, nella piena consapevolezza che un’azione di tutela con interessi ambientali può avere un concreto destino solo quando condotta ripartendone in modo equo, razionale i diversi compiti, appunto, tra Regioni e Enti locali, sentendo anche i privati cittadini, vuoi proprietari di dimore storiche o di terreni urbanisticamente strategici, vuoi proprietari di industrie più meno invasive dell’ambiente57. Dove un punto di riferimento potrebbero essere, come ha di recente scritto Luigi Covatta, «i “piani di gestione” dei siti individuati dall’Unesco come patrimonio dell’umanità, che si stanno elaborando dal 2009, fondandoli su forme di cooperazione inter istituzionale da attivare e sostenere (anche finanziariamente) innanzitutto nel corso dell’attuazione di quel federalismo demaniale, che, se non bene indirizzato, rischia di divenire un fattore accelerativo del degrado del nostro patrimonio»58. Una ripartizione dei compiti nel settore della tutela ambientale che dovrà tuttavia mantenere allo Stato centrale poteri d’indirizzo, coordinamento, controllo e surroga, da esercitare attraverso gli istituti centrali, in primis l’Icr, il cui originario ruolo organizzativo e tecnico-scientifico andrebbe al più presto recuperato e rilanciato, inoltre attraverso le soprintendenze territoriali, che restano strumento di fondamentale importanza strategica per l’esercizio d’una conservazione del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente. Si darebbe in tal modo corpo di azione tecnica a quel «patto di alleanza e di rispetto tra noi stessi», cioè tra noi cittadini italiani, che nel 2003 Carlo Azeglio

Ciampi ha indicato come insuperabile premessa civile per attuare la tutela del patrimonio artistico59. Civile patto tra i cittadini da porre alla base d’una nuova – e condivisa dall’intero Parlamento – legge che finalmente tolga la tutela dall’ombra della 1089/1939, perciò legge che faccia di conservazione, gestione e valorizzazione del patrimonio storico e artistico una serie di azioni in positiva adesione alle esigenze del paese.

Restiamo allo strumento della notifica, emblema stesso della ratio eminentemente passiva e

                                                            56 La citaz. in Casini, Per una nuova legge di tutela, datt. cit., 2; più in gen.v.: La globalizzazione dei beni culturali, volume curato dallo stesso Casini per il Mulino, Bologna 2010. 57 Id., L’equilibrio degli interessi nel governo del territorio, Giuffré, Milano 2005. Ne ha discusso Icomos Italia in un convegno svoltosi a Venezia il 21 novembre 2009. 58 Ne ha discusso Icomos Italia in un convegno svoltosi a Venezia il 21 novembre 2009, come mi dice Luigi Covatta, che ringrazio. 59 C.A. Ciampi, Intervento del Presidente della Repubblica. 11 dic. 2003, cit., in Settis, «L’Italia che è dentro di noi»: la Costituzione e la tutela del patrimonio culturale, in Id., Battaglie senza eroi, I beni culturali tra istituzioni e profitto, Doc. e norme cit. nel testo a c. di D. La Monica, Electa, Milano 2005, 195-205: 197 e doc. 55, 379.

punitiva della 1089/1939, quindi della sostanziale inutilità di quella legge. Perché la notifica non può invece essere voltata in senso positivo, come (invano) suggeriva Giovanni Urbani nel 1989, ventidue anni fa60?

Chi ha detto che dovremmo rinunciare allo strumento della notifica? La dovremmo

piuttosto rivalutare, cioè finalizzarla seriamente a scopi di tutela chiari e definiti, e non, come ora, a una pura e semplice tesaurizzazione il cui primo effetto – paradossalmente – è quello di svalutare la cosa notificata. A giustificare l’atto della notifica non dovrebbe mai bastare “l’interesse particolarmente importante” della cosa da notificare [come ai sensi della 1089/1939]. Dovrebbe contare molto di più che questa cosa possa essere posta in funzione di un ben preciso fine conservativo o valutativo, da conseguirsi in tempi e con modalità definiti caso per caso. Sia per i beni mobili che per quelli immobili si tratta insomma di integrare l’atto della notifica con una serie di disposizioni e di accorgimenti che invece di mummificare la cosa notificata la rendano partecipe, assieme ai beni di proprietà pubblica, di una unica e coerente strategia di tutela. Penso in particolare ai beni immobili, per i quali la distinzione tra pubblico e privato diventa inessenziale se ci si decide a far valere questi beni come traguardi o punti fissi per la messa a fuoco sia di qualsiasi disegno di pianificazione urbanistica, territoriale o paesistica, sia dei criteri per le “valutazioni di impatto ambientale”. Ma mi rendo conto che è troppo chiedere che l’attuale Amministrazione dei beni culturali sia capace di legare il trastullo della notifica, come da essa è concepito.

Dunque una nuova e condivisa legge di tutela che imponga efficienza al settore, riunendo tra

loro in modo razionale e coerente il processo di codificazione con la riorganizzazione della struttura, non preoccupandosi più il legislatore solo di ripartire i poteri di tutela tra Stato, Regioni e Enti locali, ma anche e soprattutto di «dotare questa funzione di mezzi, istituti e procedure», come già è stato auspicato da Sabino Cassese, un tema poi ripreso da Lorenzo Casini61. Quindi una legge costituita da pochi e chiari articoli, che rimandino a un dettagliato e ben comprensibile regolamento i modi organizzativi d’una tutela in rapporto all’ambiente. Che poi null’altro è di diverso dal dettato dell’art. 9 della Costituzione, mai rammentato abbastanza: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

Art. 9 della Costituzione cui è toccato il singolare destino di non essere mai stato onorato nella direzione della salvaguardia e custodia del rapporto tra patrimonio artistico e paesaggio. Né per questo è detto che si debba restare per sempre a dover fare i conti con la «Costituzione inattuata» di Piero Calamandrei62. L’art. 9 dovrà perciò essere il punto di partenza istituzionale, sia per una condivisa azione legislativa mirata a semplificare al massimo l’eccessiva e farraginosa, quando non contraddittoria, massa di provvedimenti giuridici che disciplinano soprattutto l’ambiente e il paesaggio, sia per la definizione di un’azione di tutela che, proprio perché posta in rapporto all’ambiente, possa finalmente essere vista dalla politica in modo diverso da come questa sempre l’ha giudicata, vale a dire un impegno da anime belle, non troppo diverso dal «salvare la foca bianca». In altre parole si tratta di far capire alla politica come la conservazione del patrimonio

                                                            60 Urbani, Restauro, conservazione cit., in Zanardi, Conservazione, restauro cit., 55. 61 S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, «Giornale di diritto amministrativo» 7 (1997), 673 ss.; L. Casini, I beni culturali e la globalizzazione, in La globalizzazione dei beni culturali cit., 11-26: 25. 62 P. Calamandrei, La Costituzione e le leggi per attuarla, in A. Battaglia, P. Calamdrei, E, Corbino, G. De Rosa, E. Lussu, M. Sansone, L. Valiani, Dieci anni dopo. Saggi sulla vita democratica italiana, Laterza, Bari 1955, 209-319: 211.

artistico in rapporto all’ambiente possa divenire un fattore strategico della crescita culturale, civile e economica del paese. A cominciare dal dare onore a una lunga serie di problemi che aleggiano non solo sul patrimonio storico e artistico, ma sull’intera Italia di oggi, senza che nessuno, non solo se ne occupi, ma ne parli.

Per dirne solo alcuni, cosa accadrà del patrimonio edilizio storico che costituisce l’intero abitato delle migliaia dei minimi paesi dislocati soprattutto negli appennini, paesi dove ormai risiede stabilmente solo una popolazione di pochi anziani, quindi con l’unica prospettiva d’un loro prossimo e definitivo abbandono? Che fine farà l’immenso patrimonio di opere mobili (tele, tavole, sculture, oreficerie e quant’altro) e, soprattutto, immobili (affreschi, stucchi, altari, vetrate e simili) contenute nelle oltre centomila chiese sparse in ogni luogo del paese, chiese sempre più prive di sacerdoti che le abitino e di fedeli che le frequentino, in più a fronte di un’età media del clero oggi intorno ai sessant’anni? Come sopravvivrà l’altrettanto immenso patrimonio delle decine e decine di migliaia di dimore storiche sempre più spesso disabitate, perché economicamente ingestibili da un privato proprietario? Che tipo di fruizione avrà un patrimonio artistico che, in tempi di globalizzazione, con sempre maggior difficoltà può esser detto «nazionale», e di cui sempre maggiori si fanno le parti «immateriali» o d’interesse antropologico63?

Tutti problemi, quelli appena detti, la cui soluzione non può essere solo tecnica e organizzativa. Perciò andrà cercata in un diverso e condiviso modello di crescita del paese, che ponga come premessa d’un generale «progresso» la composizione armonica di «conservazione e sviluppo», dimostrandoli azioni solo apparentemente tra loro in contrasto. Modello strategico soprattutto oggi, quando sempre più evidente si stanno facendo i limiti politici d’un capitalismo industriale e finanziario solo intento a crescere su sé stesso a danno di natura e uomo. Quello di cui in questi ultimi anni si sono esponenzialmente moltiplicati i segnali: dalle Twin Towers, al fallimento di Lehman Brother, a Fukushima, fino all’odierna e terribile crisi dell’euro. Ma perché questo nuovo modello di crescita non cada nell’utopia, bisognerà tenersi lontanissimi da qualsiasi tentazione ideologica e demagogica. Quindi si dovrà prestare la massima attenzione alle diverse forme di creazione della ricchezza nel paese, vedendole come inevitabile premessa al «progresso». Dall’accompagnare con la massima attenzione la necessaria crescita industriale, lo sviluppo, alla programmazione di un diverso uso del territorio, la conservazione, ad esempio attraverso un rilancio delle politiche keynesiane di lavori pubblici.

Lavori pubblici che ad esempio vadano dalla messa in sicurezza del patrimonio edilizio monumentale o semplicemente storico del paese rispetto ai rischi ambientali, in primis sismico e idrogeologico, allo svolgimento d’una manutenzione programmata di quel patrimonio e dei suoi arredi, manutenzione ordinaria e straordinaria, fino al riassetto dei suoli, quindi alvei di fiumi, patrimonio boschivo e così via. Senza però mai perdere di vista un altro fondamentale fattore di degrado, non solo del patrimonio storico e artistico del paese, ma anche di quello paesaggistico e naturale: lo spopolamento. Dove una politica di ripopolamento del territorio dovrebbe innanzitutto provvedere al recupero del patrimonio abitativo dei piccoli paesi storici e loro frazioni in via di definitivo abbandono. Si favorirebbe in tal modo lo svuotamento delle attuali e immonde periferie delle nostre città, ridistribuendone le popolazione, appunto, in quei piccoli paesi e loro frazioni. Tra l’altro, così procedendo si porrebbero le premesse per l’attuazione di politiche agricole – con particolare attenzione ai territori collinari e montagnosi – soprattutto aperte ai giovani, magari                                                             63 Su questi argomenti si veda, ad esempio, G. Santi, La tutela del patrimonio artistico di proprietà religiosa, in Zanardi, Conservazione cit., 245-266; N. Pasolini dall’Onda, La tutela del patrimonio artistico di proprietà privata, ivi, 267-288; ma anche, S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine sociale (1996), Garzanti, Milano 2000.

incentivandole con una dedicata e forte agevolazione fiscale per le nuove imprese. Un progetto, questo appena tracciato in modo rapido e inevitabilmente molto suntuario e corsivo, la cui realizzazione richiederebbe inoltre l’apertura, ma prima ancora, dove possibile, il ripristino di reti viarie e, soprattutto, ferrotranviarie, così come di chiedere alle scuole di restauro – architettonico e non solo – di indicare i modi per un riuso dell’edilizia storica e monumentale, togliendola dall’attuale e solo passiva destinazione a museo di sé stessa, che quasi sempre la condizione di partenza per un nuovo e diverso degrado. Da «non uso».

Dunque un nuovo modello di crescita che coniughi conservazione e sviluppo, avendo quale primo e fondamentale obiettivo di progresso ciò che giova all'uomo; ad esempio, iniziando tutti, politica e cittadini, a porre la massima attenzione al tema dei «beni comuni» di cui oggi molto si sta iniziando a parlare, un nome per tutti quello di Stefano Rodotà. Tutto ciò in piena sintonia con quanto auspicava Giovanni Urbani trent'anni fa, parlando della fondazione di un'inedita «ecologia culturale»64:

Nella nostra concezione della storia dell’uomo, in un’epoca in cui l’uomo comincia

ad avvertire la terribile novità storica dell’esaurimento del proprio ambiente di vita, certi valori che, come l’arte del passato, testimoniano della possibilità che il fare umano sia integrativo e non distruttivo della bellezza del mondo, cominciano ad assumere, accanto a quella cognita di oggetti di studio o di godimento estetico, la nuova dimensione di componenti ambientali antropiche, altrettanto necessarie, per il benessere della specie, dell’equilibrio ecologico tra le componenti ambientali naturali.

Se le cose, come credo, stanno così, allora è ben comprensibile che, anche se non ha rilevanza sul piano della comprensione storica e del godimento estetico, il cattivo stato dei nostri monumenti susciti in noi la stessa apprensione e volontà di recupero che sentiamo di fronte alla natura devastata. Così come è ben comprensibile che, di fronte al degrado delle nostre città, ci divenga intollerabile che a “tirare la volata” del sempre più rapido processo di deterioramento dell’ambiente urbano, sembrino essere proprio i monumenti, e cioè quei valori in cui invece, per un altro verso, andiamo riconoscendo le condizioni prime per una vita urbana a misura d’uomo. Un riconoscimento che, con tutta evidenza, non può più limitarsi a prendere atto del monumento per così dire a distanza, cioè come oggetto di studio o di contemplazione estetica, ma deve tentare di riportarlo nella dimensione di un oggetto d’esperienza attuale; in altri termini: nella dimensione di un prodotto ancora aperto al fare umano, su cui cioè, con azioni necessariamente nuove e diverse, possiamo riacquisire e ripetere l’esperienza dell’unica forma di attività che non ha mai devastato il mondo: l’attività

creativa. Né solo il concetto di «tutela» contenuto nell’art. 9 della Costituzione andrà ripreso, ma

anche quella di «promozione», al cui interno si trovano anche gli altri concetti citati in quello stesso art. 9: «ricerca scientifica e tecnica». Lo studio della storia dell’arte è infatti «ricerca scientifica e tecnica», ma anche promozione della conoscenza, cioè «sviluppo della cultura». Allo stesso modo di come sono ricerca scientifica e tecnica gli studi necessari a costruire, poniamo in ipotesi, un contenitore dell’Arco di Costantino funzionale alla conservazione preventiva dei rilievi dai danni ambientali. Studi che sono anche promozione della decisiva importanza di tutela della conservazione preventiva, quindi «sviluppo della cultura»; si pensi in questo senso allo

                                                            64 G. Urbani, La scienza e l’arte della conservazione dei beni culturali (1981), in Id., Intorno cit., 46.

straordinario tema di progettazione architettonica che sarebbero i contenitori per i monumenti all’aperto. Quel che spiega perché la promozione sia infine opera di valorizzazione. Una valorizzazione in indissolubile unione con la tutela, come nel dettato del nuovo codice dei beni culturali (art. 1, c. 2), perché entrambe concorrenti «a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura».

Tuttavia dispositivo di legge, il nuovo Codice, incredibilmente finora mai onorato dal Ministero, così che si prosegue imperterriti a condurre una valorizzazione rozza e incolta, ridotta a marketing consumistico. Le mostre d’arte antica che portano in viaggio sempre i soliti capolavori fragilissimi, l’ossessione del Caravaggio, enucleandoli dal loro contesto religioso e civile, cioè storico, quindi identitario, per farne feticci di sé stessi da svendere al miglior offerente, come invano da tempo denuncia Tomaso Montanari. Continue mostre e avvento di nuove tecnologie, le riproduzioni in 3D, ad esempio, di cui non importa tanto sottolineare lo svilimento portato alle opere autografe, peraltro già vaticinato, come tutti sanno, da Walter Benjamin un’ottantina d’anni fa, bensì gli imprevedibili effetti circa l’evolvere del generale interesse della società civile per la custodia e la cura del patrimonio artistico e storico65. Un interesse, come già detto, già oggi in forte calo rispetto agli anni ottanta del novecento, anche in grazia di tutte le varie forme di svilimento del patrimonio artistico favorite da una sempre maggiore sottovalutazione di scuole universitarie (e non), istituzioni, stampa e quant’altri del fondamentale, specie in Italia, quesito di quale sia il senso da dare alla presenza del passato nel mondo d’oggi. A ennesima conferma dell’immenso ritardo culturale raggiunto dal settore.

10. Per un’economia dei beni culturali

Il recente crollo della Schola Armatorarum di Pompei pone una volta di più sotto gli occhi di tutti l’incapacità dell’amministrazione pubblica italiana di far fronte alla tutela del patrimonio artistico della nazione. Molte le ragioni, già qui ampiamente discusse. Su una in particolare vale tuttavia la pena tornare. Il sempre più evidente sfalsamento di obiettivi e mezzi circa la concreta realtà della conservazione di materiali e strutture costitutive le opere. Obiettivi che sono la vittoria finale nel duro corpo a corpo tra la fragilissima materia di opere uniche e irriproducibili e le sempre più severe condizioni di contesto socio culturale e ambientale in cui quelle stesse opere si trovano a vivere. Mezzi che, nel concreto agire delle Soprintendenze, sono rimasti ancora oggi i puntiformi e solo ostativi e punitivi vincoli della 1089 del 1939, invano integrati dalla dilettantesca convinzione che il restauro possa essere la parte attiva della 1089/1939, cioè la parte attiva della tutela del patrimonio artistico. Evidentemente non rendendosi conto gli organi di tutela, né che i restauri sono comunque interventi ex post, che risarciscono un danno avvenuto, né della potenziale dannosità – sempre – dell’aggiunta di nuovi materiali di restauro ai materiali e alle strutture originali.

Torniamo però a Pompei. Evidente è che il crollo della Schola Armatorarum trova ragione nella storica inefficacia dell’azione di tutela di cui si è già lungamente detto. Qui, in particolare, dalla volontà di conservare Pompei nella stessa condizione di rovina romantica, che emozionava i viaggiatori del grand tour tra Sette e Ottocento, cioè secoli fa. Ma tutelare ciò che per definizione non si può conservare, appunto una rovina, è un ossimoro. Una contraddizione in termini, resa ancor più tale con il pretendere d’ottenerne una redenzione con aleatorie, quando non direttamente controproducenti, tecniche invisibili di consolidamento, ovvero, laddove entrino in campo problemi

                                                            65 W. Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa (1936), prefazione di C. Cases, Einaudi, Torino 1966.

statici, pretendendo d’usare materiali, dal cemento armato all’acciaio, al titanio, fino alle fibre di carbonio, distinguibili da quelli antichi nel nome di ormai ridicole esigenze di non falsificazione dell’originale. Tutto ciò nel nome del restauro critico invocato da Argan nel 1938 e teorizzato esteticamente da Brandi a partire dal 1948. Ma se le cose stanno davvero in questo modo, perché non pensare ai crolli della Schola Armatorarum come a un’occasione? L’occasione per finalmente uscire dal grave ritardo culturale del settore, inaugurando a Pompei una fino a oggi inedita in Italia opera di conservazione preventiva e programmata, dando in tal modo finalmente un senso vero al regime di autonomia amministrativa di cui il sito si è a lungo e inutilmente privilegiato? Ad esempio realizzando una serie di interventi che prendano in considerazione Pompei per quello che prima di tutto è? Una città. Una città i cui edifici, non importa se antico romani, vanno perciò dotati di tetti, finestre, porte e sistemi di smaltimento delle acque meteoriche entro un ben ramificato e efficiente sistema fognario. In altre parole, non potrebbero quei crolli diventare l’occasione per svolgere un lavoro di ricerca teso alla formulazione di nuovi materiali, tecniche e tecnologie con cui superare le rigidità estetizzanti degli attuali consolidamenti invisibili del restauro estetico «brandiano» di matrice critica «arganiana»? Evidente è che, così agendo, ci troveremmo di fronte a una sfida d’enorme fascino progettuale per la necessità di realizzare interventi poco o nulla invasivi dal punto di vista estetico, ma non per questo meno efficienti e funzionali. Una sfida anche di grande valore didattico, perché costringerebbe gli architetti a una progettazione libera e disciplinata nello stesso tempo: libera circa tipologie e proporzioni della ricostruzione, ma nel contempo disciplinata dall’ovvia necessità d’adeguare proporzioni e tipologie del nuovo con il contesto antico.

Altre domande. E se il delicatissimo lavoro di ricostruzione di Pompei fosse il laboratorio progettuale in cui le scuole universitarie di architettura finalmente passino a insegnare ai loro allievi come costruire un nuovo che sia compatibile con la città storica sia in senso urbanistico, che proporzionale e dei materiali utilizzati? Se fosse la ricostruzione di Pompei fosse anche il modo per insegnare come condurre la risistemazione urbanistica e di ricostruzione dell’edilizia più o meno speculativa che in questo ultimo mezzo secolo ha devastato l’intera Italia? Un’immensa sfida, la risistemazione delle nostre periferie, tanto culturale quanto sociale e economica, quindi, appunto, eminentemente politica? E se da qui si passasse a realizzare l’erculea fatica della ripulitura dallo sterco cementizio delle nuove stalle di Augìa, ancora oggi dissennatamente in corso di costruzione ovunque in Italia? Se così fosse, non sarebbe questo un modo razionale e concreto per far confluire il restauro negli interessi oggi più vitali del paese? E non sarebbe questo il modo d’arrivare a una vera «economia dei beni culturali»? Vera perché finalmente in grado di uscire dall’economia miope e indigente delle rendite (che non ci sono) dei biglietti d’entrata nei musei, non importa se più o meno valorizzati, cioè quasi sempre esteticamente peggiorati, dagli interventi di restyling del «grande architetto» di turno, ovvero dall’economia dell’indotto casuale e temporaneo delle mostre promosse dal «comunicatore-valorizzatore» di turno? Infine, se i crolli della Schola Armatorarum fossero l’occasione per capire una volta per tutte che le opere d’arte non sono vacche da mungere, anche perché latte non danno? Capire che l’economia dei beni culturali si può produrre solo in via esterna a loro, dall’innovazione tecnologica in senso conservativo, al turismo, al paesaggio, all’agricoltura? Capire una volta per tutte che la conservazione e valorizzazione dei beni culturali è un dovere di fronte al quale lo Stato non ha scappatoie?

11. Conclusioni

Quasi un secolo fa Spengler e Toynbee ci hanno avvertito che anche le civiltà muoiono, che «sono un viaggio e non un porto». All’incirca negli stessi anni Paul Klee ha dipinto l’acquerello Angelus novus, opera che secondo una celebre lettura datane da Benjamin è «l’angelo della storia». L’angelo che cammina con il volto rivolto al passato e vede in una sola catastrofe i cumuli di morte e distruzione che man mano vanno formandosi, ma non può fermarsi a impedire che tutto ciò accada, come vorrebbe, perché le sue ali sono impigliate in un vento di tempesta che soffia dal paradiso e lo spinge in avanti anche contro la sua forza, il vento del progresso. Tre diversi punti di vista, quelli di Spengler, Toynbee e Benjamin, tutti forieri d’una comune riflessione sugli esiti del cammino che la civiltà occidentale ha intrapreso all’incirca tre secoli fa sulla rotta tracciata dalla «tecnica» (Heidegger). Il cammino che ha condotto l’Occidente a uno scontro frontale con la Natura e, con esso, a un’apparente fine della Storia.

Fine della storia, non però perché redenta nella felicità consumistica della liberaldemocrazia occidentale, secondo un ottimistico vaticinio pronunciato una ventina d’anni fa negli Usa, ma subito smentito dall’attentato suicida dell’undici settembre 2001 al World Trade Center di New York e dalla crisi finanziaria mondiale che ne è seguita, con gli esiti oggi sotto gli occhi di tutti. Bensì la fine di una storia identitaria, d’un passato che agisce inevitabilmente nel presente. Ma se questa è davvero la tendenza, appare inutile anticiparne un giudizio. Non è infatti con astratte sentenze ideologiche che si può affrontare un’apparente ineluttabile tramonto della nostra ultramillenaria civiltà, ma solo prendendo atto che siamo di nuovo e sempre nella indeterminata zona tra pericolo e salvezza in cui la tecnica per sua stessa natura muove. La zona che, nel nostro oggi, è il luogo di convergenza, quindi di esame e di scelta, di tutte le potenzialità del divenire umano, sia di quelle passate che di quelle future.

Da quell’esame e da quella scelta dipende il destino della presenza del passato nel mondo d’oggi. Il passato che, nelle parole di Platone, «è come una divinità che quando è presente tra gli uomini salva tutto ciò che esiste» (Le Leggi, VI, 775).