6
Faraday. Ritratto dello scienziato da giovane (di Giuseppe Mussardo) La sera del 20 Giugno 1862, un venerdi’, si era creato un grande affollamento in una via nel cuore del West End, a Londra, un vero e proprio fiume di cilindri e di graziose cuffiette di pizzo. Tra le larghe pieghe delle crinoline spuntavano le teste di diversi ragazzini, anche loro eccitati da tutto quel subbuglio e da quella strana agitazione che sembrava possedere i grandi. E la tensione, con il passare dei minuti, non sembrava scemare, anzi: all’angolo della strada continuava incessante lo scalpitio dei cavalli e il via vai delle carrozze. Dagli sportellini uscivano velocemente eleganti signore e distinti signori che correvano ad allungare la coda formatasi all’ingresso del maestoso colonnato dell’edificio situato al 21 di Albemarle Street, sede della Royal Institution. Pareva la calca di una prima teatrale o il pigia pigia di una opera famosa, in ogni caso un evento a cui nessuno voleva mancare. Era in effetti un giorno molto particolare ma per un motivo insolito: quella sera infatti calava il sipario su una rappresentazione straordinaria, uno spettacolo durato ininterrottamente per quasi trent’anni. Era la serata del toccante addio di uno scienziato, oramai vecchio e malato, a quel pubblico che lo aveva adorato. Un grande scienziato, ma anche un grande comunicatore, che aveva deliziato ogni venerdi’ grandi e piccini con tutte quelle affascinanti spiegazioni sui fenomeni naturali: con parole semplici aveva svelato loro le sorprese che riservavano i campi della chimica e dell’elettromagnetismo, con grande maestria aveva fatto si’ che il fantastico libro della natura si aprisse magicamente sotto i loro occhi. Nel pubblico di quell’ultima sera c’era chi ancora ricordava il soprendente esperimento della gabbia metallica, un congegno in grado di schermare completamente i campi elettrici esterni: nella gabbia venne messo una sera un gatto, che rimase sdraiato all’interno, beato e pacifico, a dispetto delle scintille e delle scariche elettriche da migliaia di volt che sprizzavano verso l’esterno dalle pareti della gabbia. C’era chi, invece, aveva ancora ben nitido il ricordo dell’ago magnetico che si muoveva come impazzito all’accensione di una bobina elettrica. E non erano queste le uniche cose mirabili viste durante quegli anni! Ogni venerdi’ sera la sala semicircolare della Royal Institution era sempre gremita di gente. Ma, quei fortunati che riuscivano a trovare posto erano sicuri di poter assistere ad uno spettacolo sensazionale: vedere la decomposizione elettrolitica dell’acqua nelle bollicine gassose dell’ossigeno e dell’idrogeno, guardare con meraviglia il colore azzurrino che assumevano i gas una volta liquefatti, seguire con lo sguardo, rapiti, le linee di forza che la limatura di ferro tracciava intorno ad un magnete, per rimanere infine affascinati dalle incantevoli spiegazioni su cosa agiti la fiamma di una candela. Nei laboratori sottostanti la sala, in quell’istituto che per quasi cinquant’anni era stato tutto il suo mondo, quello scienziato aveva investigato a fondo le relazioni che legano l’elettricita’ al magnetismo. Era riuscito a dimostrare un fatto sensazionale: come indurre una corrente elettrica Michael Faraday da giovane

Faraday. Ritratto Dello Scienziato Da Giovane

Embed Size (px)

DESCRIPTION

Faraday

Citation preview

Faraday. Ritratto dello scienziato da giovane(di Giuseppe Mussardo)

La sera del 20 Giugno 1862, un venerdi’, si era creato un grande affollamento in una via nel cuore del West End, a Londra, un vero e proprio fiume di cilindri e di graziose cuffiette di pizzo. Tra le larghe pieghe delle crinoline spuntavano le teste di diversi ragazzini, anche loro eccitati da tutto quel subbuglio e da quella strana agitazione che sembrava possedere i grandi. E la tensione, con il passare dei minuti, non sembrava scemare, anzi: all’angolo della strada continuava incessante lo scalpitio dei cavalli e il via vai delle carrozze. Dagli sportellini uscivano velocemente eleganti signore e distinti signori che correvano ad allungare la coda formatasi all’ingresso del maestoso colonnato dell’edificio situato al 21 di Albemarle Street, sede della Royal Institution. Pareva la calca di una prima teatrale o il pigia pigia di una opera famosa, in ogni caso un evento a cui nessuno voleva mancare. Era in effetti un giorno molto particolare ma per un motivo insolito: quella sera infatti calava il sipario su una rappresentazione straordinaria, uno spettacolo durato ininterrottamente per quasi trent’anni. Era la serata del toccante addio di uno scienziato, oramai

vecchio e malato, a quel pubblico che lo aveva adorato. Un grande scienziato, ma anche un grande comunicatore, che aveva deliziato ogni venerdi’ grandi e piccini con tutte quelle affascinanti spiegazioni sui fenomeni naturali: con parole semplici aveva svelato loro le sorprese che riservavano i campi della chimica e dell’elettromagnetismo, con grande maestria aveva fatto si’ che il fantastico libro della natura si aprisse magicamente sotto i loro occhi.

Nel pubblico di quell’ultima sera c’era chi ancora ricordava il soprendente esperimento della gabbia metallica, un congegno in grado di schermare completamente i campi elettrici esterni: nella gabbia venne messo una sera un gatto, che rimase sdraiato all’interno, beato e pacifico, a dispetto delle scintille e delle scariche elettriche da migliaia di volt che sprizzavano verso l’esterno dalle pareti della gabbia. C’era chi, invece, aveva ancora ben nitido il ricordo dell’ago magnetico che si muoveva come impazzito all’accensione di una bobina elettrica. E non erano queste le uniche cose mirabili viste durante quegli anni! Ogni venerdi’ sera la sala semicircolare della Royal Institution era sempre gremita di gente. Ma, quei fortunati che riuscivano a trovare posto erano sicuri di poter assistere ad uno spettacolo sensazionale: vedere la decomposizione elettrolitica dell’acqua nelle bollicine gassose dell’ossigeno e dell’idrogeno, guardare con meraviglia il colore azzurrino che assumevano i gas una volta liquefatti, seguire con lo sguardo, rapiti, le linee di forza che la limatura di ferro tracciava intorno ad un magnete, per rimanere infine affascinati dalle incantevoli spiegazioni su cosa agiti la fiamma di una candela.

Nei laboratori sottostanti la sala, in quell’istituto che per quasi cinquant’anni era stato tutto il suo mondo, quello scienziato aveva investigato a fondo le relazioni che legano l’elettricita’ al magnetismo. Era riuscito a dimostrare un fatto sensazionale: come indurre una corrente elettrica

Michael Faraday da giovane

in un circuito usando un campo magnetico variabile, una scoperta veramente elettrizzante, che gli aveva portato onori e fama in tutto il mondo. In quei laboratori aveva condotto ricerche sulle sostanze diamagnetiche e su quelle paramagnetiche. Aveva poi sfruttato abilmente quelle ferromagnetiche per creare artificialmente una calamita e costruire il primo motore elettrico. A quell’uomo si doveva una serie impressionante di scoperte, destinate a cambiare radicalmente il mondo e ad aprire la strada a nuove e profonde rivoluzioni scientifiche e tecnologiche. Lo scienziato su cui, quella sera, calava il sipario era Michael Faraday.

Ogni epoca ha i suoi personaggi-simbolo, ovvero quelle personalita’ in grado di evocare magicamente con il loro nome tutta l’atmosfera di un periodo. Cosi’ come l’Inghilterra elisabettiana e’ riassunta meravigliosamente dal nome di Shakespeare, quella vittoriana e’ sintetizzata -- per ragioni quasi antitetiche -- dai nomi di Charles Dickens e Michael Faraday. Con Dickens l’arte dell’Ottocento raggiunse il suo culmine, mescolando il folle riso con la piu’ incosciente discesa nelle tenebre. Faraday scrisse invece una delle pagine piu’ belle della fisica sperimentale. Dickens -- con l’acqua fangosa del Tamigi, la nebbia giallo-oscura che copriva Londra come un velo fuligginoso e una serie interminabile e cialtronesca di emarginati -- e’ l’immagine piu’ oscura della rivoluzione industriale e dell’Inghilterra dell’800. Faraday, con i suoi amperometri, magneti e provette, ne e’ invece l’icona piu’ luminosa. Se i vari Oliver Twist, Arful Dodger o David Cooperfield -- personaggi straordinari dei racconti dickensiani -- ci riportano immediatamente alla memoria la cruda realta’ dello sfruttamento del lavoro minorile, le violenze familiari o le miserabili condizioni di vita negli slum londinesi, la figura di Faraday ci comunica invece ancora oggi l’entusiasmo delle grandi scoperte e la vibrante atmosfera scientifica della Londra vittoriana. La storia della sua vita, inoltre, ha dell’incredibile: sembra quasi volerci dire che le cose che contano nella vita sono la tenacia e la passione, e che le vere passioni trovano sempre una loro realizzazione, a dispetto di tutte le peggiori avversita’. Michael Faraday ha infatti questo di straordinario, l’essere stato allo stesso tempo la perfetta incarnazione di un personaggio dickensiano e il protagonista di una storia a lieto fine.

Michael Faraday nacque il 22 settembre del 1791 in un sobborgo degradato a sud di Londra, ultimo di tre fratelli. La sua era una famiglia umile e priva di cultura. Il padre, un maniscalco, era un uomo che a stento riusciva a sostenere la moglie Margaret e i tre figli. Benche’ disperatamente poveri, i Faraday erano pero’ una famiglia insolitamente felice. La grande forza d’animo che li sorreggeva proveniva dalla loro fede religiosa, dall’essere cioe’ membri della setta di Robert Sandeman. Una setta fondamentalista, perche’ basata sull’interpretazione letterale della Bibbia e sull’incrollabile fiducia nella salvezza celeste per i suoi adepti: una certezza che li aiutava molto a tollerare tutte le durezze del vivere quotidiano. Poco interessati ai beni materiali, i Sandemani avevano un amore incondizionato per il prossimo e uno spiccato senso della fratellanza, simile a quello che animava le antiche comunita’ cristiane. Questa forte impronta religiosa della famiglia resto’, per tutta la vita, un tratto dominante della personalita’ di Michael Faraday: oltre ad uno stretto codice morale che gli fece addirittura rifiutare molte onorificenze, gli diede anche la serenita’ necessaria per affrontare le pesanti vicissitudini che gli si presentarono. La fede lo aiuto’ anche nel suo futuro lavoro di scienziato, convinto come era che capire i segreti del grande libro della natura scritto da Dio era tanto importante quanto leggere l’altro suo grande testo, la Bibbia.

Da ragazzo Michael ricevette un’educazione molto rudimentale, passando la maggior parte del tempo per strada. La sua era una vera e propria lotta per la sopravvivenza: nei periodi di carestia l’unico sostentamento era un misero pezzo di pane da far durare un’intera settimana. La sua adolescenza fini’ tra l’altro bruscamente a tredici anni quando, per le precarie condizioni di salute del padre, fu costretto ad andare a lavorare presso un librario, un rifugiato francese di nome George Riebau.

A dispetto delle apparenze, questo pero’ fu il suo primo colpo di fortuna. Le rilegatorie londinesi, negli anni turbolenti dell’inizio del diciannovesimo secolo, erano posti molto interessanti: non erano solo botteghe dove si rilegavano e si vendevano libri ma anche luoghi di vivaci discussioni e di incontri stravaganti. Quella situata al numero 2 di Blandford Street non era da meno in questo e per giunta Riebau era un brav’uomo. All’inizio il compito assegnatogli fu quello di distribuire i giornali e di recuperare le copie invendute ma, per la simpatia che gli ispirava quel ragazzo, dopo un anno Riebau decise che era il caso di insegnargli un mestiere, quello di

rilegatore. Lo prese quindi come apprendista. Michael aveva decisamente talento e mostrava per di piu’ una spiccata manualita’: era un piacere vedere con quale maestria maneggiava le grandi pagine piene di inchiostro, osservare come le piegava e ne cuciva con cura i bordi, come i libri prendevano infine forma tra le sue mani. Oltre a rilegarli, pero’, Faraday i libri li leggeva pure, e anche voracemente! La sua era una lettura entusiasta e indiscriminata. “Non pensare che fossi molto profondo all’epoca – confido’ molti anni dopo a John Tyndall, suo successore alla Royal Institution – avevo solo una grande fantasia. Potevo credere tanto facilmente alle Mille e una Notte quanto all’Enciclopedia Britannica. Quello pero’ che mi salvo’ furono i fatti, questi erano molto importanti per me, potevo credere ad un fatto solo dopo che l’avevo scrutinato con attenzione e l’avevo verificato personalmente.” Per Faraday i fatti erano sacri come i versetti della Bibbia, percio’ la sera, quando il laboratorio era finalmente deserto, ripeteva gli esperimenti riportati nei libri che aveva letto.

Fu galvanizzato, e’ il caso di dire, dalla lettura di un volume dell’Enciclopedia Britannica dal quale apprese l’esistenza dei fenomeni elettrici che suscitavano all’epoca tanta curiosita’: gli esperimenti con i fulmini di Benjamin Franklin o i racconti delle potenti scariche elettriche che venivano fuori toccando la famosa bottiglia di Leida, un grosso recipiente di vetro rivestito all’interno e all’esterno con un foglio di stagnola. Il testo dell’Enciclopedia Britannica era stato scritto da un certo James Tytler e il punto di vista da lui esposto era, rispetto alle opinioni del tempo, alquanto originale. Secondo Tytler, infatti, tutti gli effetti elettrici potevano essere spiegati sulla base dell’esistenza di un fluido, le cui vibrazioni davano ragione non solo delle correnti galvaniche o del funzionamento della pila di Volta, ma anche dei fenomeni ottici e di quelli termici. E’ difficile dire quale sia stata l’influenza di Tytler sulle future idee di Faraday circa un concetto cosi’ fondamentale come quello delle linee di forza del campo elettrico e magnetico, resta pero’ il fatto che riferimenti continui al volume di Tytler si ritrovano nel diario che Faraday inizio’ a redigere in quegli anni, pagine in cui teneva nota delle idee che sviluppava e dei primi esperimenti che faceva nel caminetto della tipografia.

Un’altra grande scoperta fu il libro di Jane Marcet Conversations in Chemistry, scritto in forma di dialogo, le cui protagoniste -- una governante e due cameriere – lo avvicinarono per la prima

La libreria di George Ribeau

volta alla filosofia chimica di Humphry Davy, il grande chimico inglese che di li’ a poco avrebbe giocato un ruolo determinante nella sua vita. Per Davy la chimica rappresentava la chiave di lettura dei misteri della natura, una visione del mondo completamente condivisa dalla Marcet, ragion per cui il libro finiva per essere non il classico arido catalogo di fatti chimici ma un grande affresco scientifico in cui simultaneamente trovavano posto reazioni chimiche, relazioni elettriche, fenomeni ottici e termici. L’impatto su Faraday fu notevole: accantono’ momentaneamente i suoi interessi per l’elettricita’ per dirigerli invece prepotentemente verso la chimica. Humphrey Davy divenne cosi’ ben presto il suo idolo, quello che lui voleva essere.

C’era pero’ un problema: la scienza nella prima meta’ del diciannovesimo secolo era in una fase transitoria. Tradotto in pratica, questo vuol dire che in quegli anni non vi era un cammino sicuro, o una prassi consolidata, per diventare scienziato: il termine stesso di “scienziato”, per esempio, fu coniato per la prima volta nel 1833. Non esistevano ne’ diplomi universitari ne’ tanto meno corsi di PhD da seguire. I pochi posti disponibili per fare scienza erano di solito appannaggio di quei ricchi gentiluomini che, disponendo del tempo e del denaro necessario, potevano dedicarsi senza problemi alle speculazioni della filosofia naturale. Era tra l’altro materia di discussione se la scienza fosse una vocazione o una carriera. Nella Londra vittoriana prosperavano infatti varie e rinomate istituzioni scientifiche, la piu’ famosa delle quali rispondeva al nome di Royal Society. Vi era inoltre una lunga tradizione di lezioni pubbliche, anche se a pagamento. Un’attivita’ apparentemente molto lucrosa per i conferenzieri, data la grande e generale curiosita’ per le nuove scoperte. Molto popolari erano le lezioni che vertevano sulla medicina, la chimica, la geologia e la mineralogia. Grandi folle richiamavano anche gli argomenti di astronomia e gli esperimenti di elettricita’, questi ultimi decisamente una miniera d’oro per chi voleva mettere in scena lo spettacolo straordinario offerto dalle forze naturali. La gente si esaltava a vedere le zampe delle rane contrarsi sotto l’azione di un elettrodo o si entusiasmava con tutta una serie di nuove pazzie: provare il brivido, per esempio, causato dalle scosse elettriche avvertite simultaneamente da una catena di persone, o vedere dei ragazzini che, sospesi in aria con delle corde di seta isolanti, iniziavano ad emettere scintille dalle mani e dai piedi, con i capelli tutti ritti, non appena venivano caricati con delle macchine elettrostatiche.

Se l’incontro con Ribeau a tredici anni fu il primo colpo di fortuna per Faraday, il secondo gli capito’ a diciotto anni, quando lesse su un giornale, per caso, l’annuncio di una serie di lezioni pubbliche presso la City Philosophical Society. Il tema era la filosofia naturale, il termine allora usato per indicare genericamente la scienza. L’iscrizione costava uno scellino a lezione, una somma pero’ non trascurabile per le sue modeste finanze. Gli venne cosi’ in aiuto il fratello maggiore che si fece generosamente carico della retta. Faraday segui’ tutte le lezioni nelle sale della Philosophical Society con una sensazione crescente di vertigine, ad ogni lezione un nuovo mondo che gli si apriva davanti, con orizzonti impensati e meravigliosi. Annoto’ con cura tutto quello sentito e visto in quelle sale -- ragionameni, dimostrazioni, congetture, resoconti di esperimenti. Raccolse poi questi appunti in una serie di volumi. Rilegare, d’altra parte, era il suo mestiere.

A dispetto dell’entusiasmo euforico con cui si buttava in tutte quelle novita’, sembrava pero’ che ci fossero ben poche possibilita che Michael Faraday, apprendista rilegatore, diventantasse niente di piu’ che Michael Faraday, rilegatore. Ma a volte la sorte aiuta gli uomini di talento: i quattro grossi volumi di appunti da lui raccolti furono mostrati orgogliosamente da Ribeau ad uno dei clienti piu’ assidui e stravaganti della sua libreria, un certo Mr. Dance, anche lui appassionato di scienza. Colpito da quei libri cosi’ riccamente ornati, Mr. Dance chiese di poter prendere in prestito i volumi sia per conoscerne il contenuto che per mostrarli al padre. Il risultato di tutte queste felici coincidenze fu che l’anziano Mr. Dance si mostro’ oltremodo compiaciuto di far

avere a quel giovane apprendista i biglietti per assistere alle lezioni pubbliche del suo beniamino, il famoso chimico inglese Humphry Davy, all’epoca direttore della Royal Institution. La scelta del conte Rumford -- il fondatore di questa istituzione -- di volere proprio Davy come suo primo direttore si era dimostrata veramente azzeccata: la brillante oratoria del giovane chimico assicurava sia il successo delle lezioni che il tutto esaurito in sala. Davy era inoltre un uomo di bell’aspetto, un particolare cui sembra fossero molto sensibili le giovani donne dell’alta societa’, che correvano, numerose, a riempire i palchi ad ogni sua apparizione. Per Faraday partecipare alle lezioni di Davy fu come toccare il cielo come un dito: in quelle ore il grande chimico parlo’ della trasmutazione della materia, delle leggi dei gas, delle correnti galvaniche, dei composti del cloro e del carbonio, della scoperta dell’ossigeno e della sua combustione esplosiva, delle cose straordinarie che avvenivano combinando nelle provette sostanze diverse. Il contenuto di quelle lezioni furono prima trascritte da Faraday in bella calligrafia e poi stampate con le matrici della tipografia di Mr. Ribeau. Fece pervenire il volume all’illustre chimico e, come accaduto precedentemente con Mr. Dance, Davy ne rimase cosi’ impressionato da chiamare immediatamente quel ragazzo a ricoprire il posto di suo assistente. Quello fu il colpo di fortuna che spiano’ definitivamente a Faraday la strada verso la scienza. L’apprendista rilegatore non si sarebbe piu’ occupato dei libri degli altri, toccava a lui ora scrivere alcune delle pagine piu’ belle nella storia della fisica.

Ulteriori approfondimenti

Emilio Segre’, Personaggi e Scoperte della Fisica Classica, Mondadori, 1996.

Edward Tatnall Canby, Storia dell’elettricita’, Mursia 1965.

Michael Faraday, The chemical history of a candle, Dover 2003.

Una colonna della Royal Institution

Michael Faraday fu assunto come assistente da Humphrey Davy alla Royal Institute il 1 marzo 1813. L’anno dopo fu invitato dallo stesso Davy ad accompagnare lui e la moglie, una ricca ed arrogante aristocratica conosciuta in una delle sue conferenze, in un lungo viaggio in Europa. Anche se la donna fece di tutto per umiliarlo e per ricordargli le sue umili origini, per Michael Faraday quello si rivelo’ un viaggio fondamentale per la sua educazione: ebbe modo di conoscere e di lavorare con gli scienziati piu’ influenti dell’epoca, come Ampere, Volta, Arago e Gay-Lussac, con cui rimase in contatto anche dopo. Al ritorno in Inghilterra inizio’ la sua straordinaria carriera scientifica. Si occupo’ inizialmente di chimica: in questo campo scopri’ le leggi dell’elettrolisi, identifico’ il benzene e ottenne la liquefazione di diversi gas. Nel 1821, subito dopo che il fisico danese Hans Orsted scopri’ l’influsso delle correnti elettriche sui magneti, Faraday pubblico’ il suo primo lavoro sull’elettromagnetismo e nel 1831, dopo 10 anni di intenso lavoro sperimentale, arrivo’ alla legge fondamentale dell’induzione elettromagnetica. Questa scoperta trasformo’ gli studi sull’elettricita’ e sul magnetismo da oggetto di pura curiosita’ a nuova potente tecnologia. Si narra della laconica risposta di Faraday al ministro delle Finanze britannico, curioso di conoscerne l’utilita’: ”Non lo so, signore, ma sono sicuro che un giorno lo stato ci guadagnera’ sopra con le tasse”. Nel campo dell’elettromagnetismo ebbe molte intuizioni, ad esempio quella che in un conduttore la carica puo’ solo risiedere sulla sua superficie e che cariche esterne ad esso non hanno nessuna influenza su quello che vi e’ all’interno. Questo effetto di schermo e’ noto oggi come gabbia di Faraday. Profondamente ancorato ai fatti sperimentali e poco incline alla teoria, Faraday sviluppo’ tuttavia il concetto fondamentale di linee di forza del campo elettrico e di quello

magnetico, punto di partenza per la successiva analisi di James Clerk Maxwell e per la mirabile sintesi dell’elettromagnetismo racchiusa nelle equazioni che portano il suo nome. Alla fine della carriera, gli appunti di laboratorio di Faraday consistevano in piu’ di sedicimila annotazioni, accuratamente numerate in successione e raccolte da lui stesso in meravigliosi volumi, memore della sua antica abilita’ di rilegatore. Nel 1826 istitui’ presso la Royal Institution i Colloqui del venerdi sera e I Colloqui del Natale, eventi che durano ancora oggi. Faraday coltivo’ particolarmente la sua abilita’ di conferenziere giungendo a risultati eccezionali nell’arte dell’esposizione scientifica. Una serie di conferenze da lui tenute a Natale, e pubblicate in un libro dal titolo The Chemical History of a candle (La storia chimica di una candela), ha deliziato, al pari di una fiaba di Christian Andersen, generazioni di ragazzi. Nel 1821 sposo’ Sarah Barnard, appartenente anche lei alla setta sandemaniana, da cui non ebbe figli. La coppia visse nell’appartamento all’interno dell’edificio della Royal Institution, l’istituzione che rimase la sua base operativa per tutta la vita e con la quale si identificava. Agli inizi del 1840, Faraday inizio’ ad accusare vuoti di memoria e forti emicranie, che lo costrinsero ad un rallentamento dell’attivita’ di ricerca. Tenne la sua ultima lezione pubblica alla Royal Institution il 20 giugno del 1862 e subito dopo si trasferi’ ad Hampton Court, in una casa donatagli dalla regina Victoria, dove mori’ il 25 agosto del 1867. E’ l’unico scienziato la cui effigie appare sulle banconote inglesi: neanche a Sir Isaac Newton fu riservato un tale onore.