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Ottobre 2012 | L'Oblo' sul Cortile

Oblo' sul Cortile - Ottobre 2012

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Primo numero dell'anno 2012-13. Ottobre.

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Ottobre 2012 | L'Oblo' sul Cortile

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° I2

Salute a tutti! Finalmente, dalla sem-pre più vasta redazione dell’Oblò, esce il primo nu-mero ufficiale. Eccoci anche quest’anno a ricominciare

dall’editoriale, a cui però è stata ap-portata un’importante modifica. An-cora non potete notare niente perché questo è solo il primo di una, senza dubbio, lunga serie, ma mi preme spiegarvi che l’editoriale non sarà sempre e incessantemente scritto dal direttore, quest’anno Eleonora Sacco, né dal caporedattore, Jacopo Mala-testa, ma dai redattori stessi, che ricoprono ruoli non ufficiali o che non ne ricoprono affatto; essi potranno sperimentare a turno questa nuova opportunità. Ebbene sì, anche tu, tu, tu, che stai leggendo, se vorrai parte-cipare alle redazioni insieme a noi (il mercoledì alla sesta ora in 1D) potrai scrivere ciò che vorrai nell’articolo più agognato del giornale – non hai già la pelle d’oca dall’emozione? Inol-tre, se ricordate, all’inizio ho parlato di primo numero ufficiale: “Allora”, vi chiederete, “cos’erano quei nu-meri 0 e 0.5 usciti prima di questo?”. Chiamiamoli anteprime. Il numero 0 è stata una geniale idea (presa in prestito dal Giornalotto del Volta) per accogliere al meglio i “quartini” nel Carducci e nell’Oblò stesso, perché

già in molti sono venuti a trovarci in redazione; la seconda uscita è stata invece un’approfondita delucidazione sulle elezioni per Consiglio di Istituto e Consulta. E, a proposito di elezio-ni, abbiamo eletto Carlo Polvara per la Consulta e i quattro rappresen- tanti per il CdI: Matteo Cairo, Michele Spinicci, Martina Brandi (Lista III) e Anna De Ponti (Lista II). Questi nomi altisonanti provengono dalla quarta e dalla quinta liceo e tra di loro c’è Martina Brandi, parte integrante di questo giornalino da ormai quattro anni suonati. Ma di novità nella scuola ce ne sono altre e ben più importanti: abbia-mo un nuovo dirigente scolastico, Michele Monopoli, che ci auguriamo porti una ventata d’aria fresca a questo istituto. Già il solo appel-lativo “nuovo preside” ci fa tirare un sospiro di sollievo: sentendolo parlare si può anche credere che, in quanto scuola e soprattutto in quanto stu-denti, nonostante il grave calo degli iscritti, possiamo dare ancora più di quello che pensiamo. Non perdetevi a riguardo l’intervista esclusiva a pag. 8 e l’articolo del professor Sponton, responsabile dell’orientamento in en-trata, sul calo di iscrizioni a pag. 13.Evviva le novità, quindi, che ci fanno sentire ancora vivi!

di Chiara Conselvan

L’editoriale sommarioPag

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Storie di un altro mondo

Pietro ichino: proPietro ichino: contro

Hugo Chavez

hugo chavez

iNTERVISTA AL NUOVO DSiNTERVISTA AL NUOVO DS

iNTERVISTA AL NUOVO DS

iNTERVISTA AL NUOVO DS

eCLISSI DEL CLASSICO?

nOI CI DISSOCIAMO!

sTAGE TO SALISBURY

vivere in uNA FAMIGLIA NUMEROSA

cINEMA!

cINEMA!qUATTRO STRACCI lA BIBLIOBUSSOLA

iL PROFUMO DEI LIMONI dAI FUMETTI ALLE GRAPHIC NOVEL

aUDIO-PHILES

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vIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE

mELTEMIIl gallo che salvò roma

Una poesia

i redattori dell’oblò

retrocopertina: ci siete anche voi!

Un albero e un fiore? Già, ma perché? Abbiamo scelto come simbolo dell’Oblò sul Cortile e del Carducci la magnolia sempreverde dell’ingresso, più che cinquantenne ma sempre più grande e bella ogni anno, che ha salutato uno per uno tutti i carducciani passati di qui. Disegno di Francesca Bonini

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Ottobre 2012 | L'Oblo' sul Cortile 3

La nostra storia è ambientata in un universo molto simile al nostro e ha inizio nel lontano anno 8002. Siamo nell’alter-Italia, dove è appena stato eletto

un nuovo governo. Presidente ne è l’onorevole Silvio Berluzbzb. Fin da subito genio, professionalità e com-petenza dei nuovi potenti appaiono evidenti; una prova immediata ne è l’eclatante riforma passata alla sto-ria col nome di Finanziaria e appro-vata con l’obbiettivo di far fronte alla crisi economica che ha messo in ginocchio l’intero paese. Servo-no soldi, Orue per l’esattezza è il nome della moneta locale. Pronta-mente il ministro dell’economia Giu-lio Trecolline si adopera per porre fine agli sprechi di denaro pubblico attraverso l’effettuazione di cosid-detti “tagli”. Particolarmente degni di memoria sono i tagli alle risorse per la scuola pubblica effettuati in stretta collaborazione col ministro dell’istruzione Mariastella Gelmizbzb, che acconsente a sottrarre 1.372 mi-lioni di Orue ai finanziamenti destinati all’istruzione, causando una riduzione del personale scolastico pari a 47.000 insegnanti. Quale gesto di grazia nei confronti dei mille mila alter-precari che se prima avevano zero possibilità di assunzione ora ne hanno meno die-ci! Non investire nell’istruzione delle nuove generazioni in un momento di crisi è, a rigor di logica, una strategia vincente; anzi, avere neo-diplomati sempre meno istruiti rende più facile sottometterli ai propri giochi di po-tere… astuti! Ma non è finita qui.Nello stesso anno la presidentessa del-la Commissione Cultura, Scienza e I- struzione dell’alter-Camera dei Depu-tati, la temibilissima Valentina Apre-a-chiude-b, propone il ddl 953, altresì detto ex Aprea. Ma in men che non si dica ecco opporsi alla nuova riforma la massa indignata di tutti gli studenti e insegnanti e genitori dell’altermondo, che con la loro protesta riescono a evitarne l’approvazione. Per quanto

riguarda i contenuti della temutissima legge, tenterò di riportarli nella ma- niera più fedele possibile, il giudizio sia poi lasciato agli attenti lettori. Punto cardine della riforma è l’autonomia statutaria (ovvero auto-governo) delle scuole: ogni scuola sarà dotata di un proprio statuto, in grado di regolare l’istituzione e la compo-sizione degli organi interni (Consiglio di Istituto, Collegio Docenti, Consiglio di Classe) nonché le forme e le moda-lità di partecipazione della comunità alla vita scolastica, entrambe cose fino ad oggi regolamentate dal “Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione” (297/’94) va-lido su tutto il territorio nazionale.Questo significa in primo luogo che in nessuna scuola sarà più garantita la presenza di quegli organi attraverso i quali tutte le componenti scolastiche possono partecipare in maniera de-mocratica alla vita dell’istituto e in secondo luogo che è minacciato anche il diritto di assemblea, prima ben definito all’interno del Testo Unico. Infatti il ddl prevede il riconoscimen-to di tale diritto, ma rimanda tempi, forme e modalità al regolamento che ogni singolo istituto stilerà per sé. Stabilisce inoltre che il più importante organo interno (il CdI) venga sostituito da un Consiglio dell’Autonomia (CdA), al quale p a r t e c i p e -ranno ancora tutte le com-ponenti sco-lastiche ma in misura dimez-zata; detto ciò anche per quanto riguar-da le norme di funzionamento di questo Con-siglio, il ddl rimanda al rego lamento

interno. Non ci si potrà più appel-lare, dunque, a una normativa ge-nerale e la situazione in ogni scuo- la potrebbe diventare molto cao-tica o, nella peggiore delle ipotesi, essere sfruttata a proprio vantag-gio da chi in questo modo decide-rebbe di imporre le proprie regole.

Eclatante è anche la decisione di in-trodurre eventuali membri esterni all’interno del CdA. Si tratterebbe di rappresentanti delle realtà culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi del territorio in grado di con-cedere contributi finalizzati al soste-gno economico dell’istituto; questo comprometterebbe l’autonomia delle scuole oltre che l’imparzialità stessa degli insegnamenti. Ma perché una scuola pubblica, finan-ziata dallo Stato, dovrebbe ricevere sussidi da privati? Qui c’è puzza di “privatizzazione”… Anno 2102. Al governo di alter-mon-do pare ci siano tecnici di vario tipo (elettricisti, idraulici, meccanici…). Eppure gira voce che di nascosto qual-cuno abbia rimesso in gioco il ddl 953 e che con qualche modifica abbia de-ciso di farlo approvare… in segreto!

di Martina Brandi

STORIE DI UN ALTRO MONDOAttualità/Scuola

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° I4

ICHINO: UNA BIOGRAFIA MANCATAdi Riccardo Galbiati

Nato nel 1949, Pietro Ichino si è laureato in diritto del lavoro presso l’Università Statale di Milano nel 1972. Da quel momento ha svolto la professione di giuslavorista come dirigente della Fiom-Cgil, ricercatore, avvocato e giornalista per Il Sole 24 Ore e Il Cor-riere della Sera. Tra il 1979 e il 1983 è stato membro della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati, eletto nelle liste del Partito Comunista Italiano; oggi è senatore del Partito Democratico (di cui è stato membro fondatore) nonché insegnante di diritto del lavoro alla Statale di Milano. Nella sua lunga carriera è stato insignito di numerosi riconoscimenti ufficiali, tra cui il Premio Marco Biagi di Milano e la commenda al merito della Repubblica. Ha pubblicato decine di libri in materia di lavoro, rivolti anche al pubblico di non giuristi.Dal marzo 2002 vive sotto scorta in seguito a esplicite minacce di morte ricevute dalle Nuove Brigate Rosse.Il 16 novembre sarà ospite del nostro liceo per un incontro in aula magna sulla questione del diritto al lavoro.

«Le misure di politica del la-voro si dividono in due cate-gorie: quelle politicamente praticabili e quelle proposte da Pietro Ichino»: con que-sta affermazione lapidaria un

celebre giornalista sembra denuncia-re l’inguaribile carica di utopismo alla base delle idee dell’onorevole Ichino. Le sue battaglie, benché abbiano a volte avuto buon esito, si sono infatti spesso protratte per lunghi anni, e

hanno sempre trovato decisi conte-statori sulla propria strada. Numero-sissime si levano tuttora le grida di protesta contro il “Progetto Flex-security”, che prevede un profondo rinnovamento del mercato del lavoro nazionale sul modello dell’economia danese.

Insomma, Pietro Ichino è innegabil-mente una figura che si ama o si odia. È però fondamentale che anche le critiche più accese siano fondate su un’effettiva conoscenza del suo pen-siero, e non provengano invece da dietro le trincee di una cieca appar-

tenenza ideologica. Troppe volte in-fatti, tramite grottesche semplifi-cazioni, si sente parlare di Ichino come di colui che vuole abolire il sindacato o attenta quotidiana-mente al welfare nazionale.

Una visione manichea della que-stione, che porti dunque a bollare

facilmente come sfrenato liberista un uomo in realtà profondamente democratico, è la premessa sbagliata per qualunque confronto.

Solo il dialogo aperto permette invece

– come sempre – la formazione di una coerente c o n v i n z i o n e personale: se odio deve es-sere, perlome-no che sia mo-tivato.

In ogni caso, sono personalmente convinto – o forse la mia è solo una speranza – che l’eccezionale razio- nalità e l’onestà intellettuale di Pie-tro Ichino saranno prima o poi in grado di garantirgli un largo apprezzamento pubblico, finalmente commisurato ai suoi sforzi. Egli infatti – come ha apertamente ammesso – ha dedicato la propria esistenza al tentativo di migliorare il mondo del lavoro, e mai, nonostante momenti certamente dif-ficili, ha pensato di demordere.

Se è vero, come è stato detto della Camera dei Comuni inglese, che in un parlamento siede per il 10% il meglio di una nazione, per il 10% il peggio, e per l’80% un campione rappresenta-tivo della nazione stessa, allora sono sicuro che Pietro Ichino appartiene alla schiera dei migliori: il suo mes-saggio di meritocrazia, eguaglianza e rinnovamento è destinato a tutti, gio-vani in primis.

Mi piace ricordare, in conclusione, le parole di solidarietà pronunciate da Piercamillo Falasca, vicepresidente del sito “libertiamo.it”, in occasione del processo alle nuove BR del 28 mag-gio 2012: «Pietro Ichino è la biografia mancata dell’Italia contemporanea, il superamento degli schemi e delle ap-partenenze del secolo scorso in nome del pragmatismo e della necessità di riformare secondo buon senso le i-stituzioni materiali ed immateriali del paese, adeguandole alla società con-temporanea e alle pressioni globali. Una biografia mancata, appunto, ma ancora una biografia possibile.»

Attualità/pro e contro

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Ottobre 2012 | L'Oblo' sul Cortile 5

I RISCHI DEL FLEXSECURITYdi Daniele Gagliano

L’onorevole Pietro Ichino è sicuramente uno dei massi-mi esperti in Italia di diritto del lavoro, materia di cui si occupa da mol-

tissimi anni. Le sue posizioni - in particolare quelle inerenti al periodo più recente - sono state oggetto di aspre critiche, talvolta sicuramente esagerate nelle forme, ma non per questo meno fondate. In partico-lare nel mirino delle contestazioni sono le opinioni del senatore sul ruolo del sindacato e una proposta di legge, nota come: “progetto flex-security”, che è stata portata avan-ti da Ichino in questi ultimi anni. Gli argomenti appena citati sono troppo vasti per essere trattati in modo esauriente nel corso di un breve articolo, per cui conviene limi-tarsi ad osservarli per sommi capi.

In linea generale le sue osservazioni partono da un presupposto più che condivisibile: l’arretratezza del siste-ma italiano di contrattazione lavorati-

va e la necessità di rinnovarlo in modo da adeguare il paese ai livelli com-petitivi internazionali, garantendo una maggiore possibilità per la fascia

più giovane della popolazione di essere inserita nel mercato del lavoro.

Queste pur no-bili finalità sono

state tradotte da parte di Ichino nella progettazione di un modello di con-trattazione differente da quello a cui siamo abituati e che potrebbe sollevare non pochi problemi per chi si doves-se inserire nel mercato del la-voro.

I dubbi, avan-zati principal-mente ma non solo da alcuni dei maggiori sindacati ita- liani, sono in-dirizzati ai

rischi che un modello come quello proposto da Ichino potrebbe com-portare nei confronti di alcuni di-ritti sindacali, in particolare quelli sanciti dallo Statuto dei lavoratori. L’opinione più diffusa tra i contesta-tori del senatore è che i suoi progetti, nonostante il dichiarato tentativo di diminuire gli svantaggi subiti dalla fascia di lavoratori protetta da meno garanzie, porteranno ad adeguare l’intero mercato del lavoro a con-dizioni contrattuali di bassa garanzia.

Insomma, ad Ichino bisogna senza dubbio attribuire il merito di essersi impegnato con coraggio ed applicazio- ne per trovare una via d’uscita dai complessi problemi che opprimono il mondo del lavoro in Italia, pur senza dimenticare quanto le sue soluzioni possano essere non del tutto condi-visibili e quindi oggetto di riflessione e discussione.

A questo proposito concludo invitando tutti coloro che avranno l’opportunità di assistere all’intervento di que-sto grande personaggio nel corso dell’assemblea scolastica di novem-bre a fare in modo di favorire per quanto possibile un clima di confron-to e dibattito, che, finché si mantiene in un clima di rispetto reciproco, può essere solo fonte di arricchimento.

CHE COSA CI IMPEDISCE DI LAVORARE?

A Milano, venerdì 16 novembre 2012, h.

11.15-13.15

Le difficoltà che i giovani incontrano entrando nel mercato del lavoro (e il modo per superar-le). Conferenza-dibattito promossa dal Liceo Carducci riservata agli studenti e ai profes-sori dell’Istituto.

« In Italia chi tocca lo statuto

dei lavoratori muore. »

(Pietro Ichino)

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° I6

Hugo Chavez è il presidente del Venezuela dal 1998. Politico e leader assai dis-cusso, è il protagonista di una stagione di cam-biamento ed evoluzione

del suo paese, da lui definita “rivo-luzione bolivariana”. L’argomento è complesso e non può essere banaliz-zato in un ideologico gioco delle parti: può essere dunque prezioso, prima di entrare nello specifico, tratteggiare in breve un quadro della storia più re-cente dell’America Latina. Un territorio enorme, ricchissimo di risorse naturali, è stato per decenni considerato dagli Stati Uniti come il proprio cortile di casa: essi sono in-tervenuti direttamente appoggiando

sanguinarie dittature militari o per vie traverse creando stati “vassalli” esportatori di materie prime, “ben disposti” verso la penetrazione delle multinazionali e proni alle ingerenze del potente vicino. Il principale tentativo democratico di presa del potere da parte di forze pro-gressiste, con la vittoria dell’Unidad Popular di Salvador Allende in Cile nel 1970, fu barbaramente stroncato dal generale Augusto Pinochet, sostenuto dagli Stati Uniti. Unica isola libera da questo modello, nel bene e nel male, era Cuba.

Tutto ciò sta cambiando. In un momen-to storico in cui sembra che in Europa le forze progressiste, anche se al po-

tere come in Francia, fatichino a im-porre un cambio di passo, il Sud Ameri-ca vive una straordinaria primavera. In Argentina e Brasile si succedono presidenti socialisti, mentre un cam-biamento ancor più incisivo avviene in Bolivia, con l’elezione di Evo Morales, il primo indio alla guida del paese, e in Venezuela Chavez è stato ap-pena rieletto, sconfiggendo in elezio- ni valide per autorevoli osservatori in-ternazionali come il Centro Carter e per la stessa opposizione lo sfidante Capriles, un imprenditore esponente di una coalizione eterogenea. Chavez ha vinto con il 54,2% dei voti contro il 45%: la sua vittoria è quindi netta.

La questione che divide e fa discutere la nostra opinione pubblica è princi-

CHAVEZ: DEMAGOGICO DITTATORE O SPERANZA PER LE AMERICHE?di Carlo Polvara

Attualità/Estero

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Ottobre 2012 | L'Oblo' sul Cortile 7

palmente questa: Chavez è o no un dittatore? Ex militare, è stato nomina-to presidente nel 1998 e subito, come aveva promesso in campagna eletto-rale, ha aperto i lavori di un’assemblea costituente con il compito di cambi-are radicalmente l’assetto istituzion-ale dello stato. Il Venezuela diviene quindi ufficialmente “Republica Boli-variana “, guidata da un presidente con un mandato di sei anni che può essere destituito a metà mandato , come tutte le cariche elettive, mediante referendum.

Approvata la nuova Costituzione si tengono nel 2000 nuove elezioni che confermano Chavez nel suo ruolo. Nel 2002 piani alti dell’esercito ten-tano un colpo di stato che non riesce a rovesciarlo, anche a causa dello scarso sostegno popolare. Fallisce nel 2004 il referendum che potrebbe sfiduciarlo, viene rieletto nel 2006 e, dopo una modifica costituzionale necessaria per permettergli un terzo mandato, vince ancora nel 2012. Premetto che personalmente, in quan-to avvezzo ad un sistema democratico dove dovrebbe esserci l’alternanza di forze e persone diverse al potere, l’idea di un capo di stato idolatrato dal popolo e al comando da un ven-tennio mi inquieta e mi mette a disagio. E’ inoltre innegabile che Chavez si lasci andare ad atteg-giamenti eccessivi e populisti nei modi e nei discorsi: il continuo richiamo a Simon Bolivar, il Liber-atore di buona parte dell’America Latina dal dominio coloniale spagno-lo e gli anatemi contro l’imperialismo americano ci paiono quanto meno di cattivo gusto.

E’ però improprio definirlo ditta-tore. Il me-todo di voto elettronico è giudi-cato af-fidabile

da osservatori esterni, il paese non è retto da un sistema a partito unico o totalitario e le opposizioni esercitano liberamente l’attività politica.

Un tema controverso è quello del rap-porto coi media: benché sicuramente episodi quali la confisca arbitraria di frequenze a una televisione pri-vata non siano all’insegna della tra-

sparenza, nel paese vi è un solo grande quot id i a -no pro Chavez, il Correo de O r i n o c o ,

mentre quello a tiratura più diffusa, Ultimas Noticias, è addirittura di pro-prietà della famiglia del suo ultimo sfidante. Inoltre, se è vero che la TV di stato è filogovernativa, è anche da notare la presenza di numerose emittenti private fortemente in op-posizione.

Perché allora la maggior parte dei venezuelani appoggia Chavez? Sicura-mente gli va riconosciuto il merito di aver rotto con una serie di governi corrotti e proni agli Stati Uniti, usan-do il petrolio, di cui il paese è uno dei

principali esporta-tori a livello

m o n d i a - le, na-z i o - na l iz -z a t o

come moltissime industrie di base come fonte per finanziare programmi sociali.

Il Venezuela si è liberato dall’ analfa-betismo, si sta dotando di una sanità pubblica con l’aiuto di Cuba, milioni di persone ricevono beni alimentari a prezzo agevolato o gratuitamente. Il tasso di povertà estrema è passato dal 1998 ad oggi dal 21 al 6.9% e il Vene-zuela è lo stato sudamericano con il minor divario tra ricchi e poveri. Certo, il paese è largamente dipendente dall’esportazione di idro-carburi, la nuova classe dirigente è spesso purtroppo corrotta, la crimi-nalità permane endemica nei grandi centri urbani e l’inflazione galoppa, benché bilanciata da un forte aumen-to dei salari: l’aver sottratto milioni di persone alla povertà, l’aver dota-to il paese di servizi e infrastrutture basilari, l’aver operato a favore della cooperazione tra i paesi sudamerica-ni e contro le ingerenze statunitensi nella politica delle nazioni del terzo mondo (benché ciò abbia a volte con-dotto deprecabilmente Chavez ad appoggiare dittatori come Gheddafi o Ahmadinejad o a esternazioni in-condivisibili sul sionismo) sono però sicuramente da riportare come grandi successi di questo governo.

Come deve quindi porsi un abitante dell’Europa Occidentale di fronte ai cambiamenti in atto in Venezuela? Senza pregiudizi, contestualiz-zando il fenomeno nel quadro di un’emancipazione legittima e ine-vitabile dei popoli sudamericani, non dimenticando le nostre colpe storiche come “occidentali” e cercando di ap-portare il nostro contributo a soste-

gno di questo processo di evolu-zione.

«Il Venezuela si è liberato dall’ analfabe-tismo, si sta dotando di una sanità pub-blica con l’aiuto di Cuba, milioni di per-sone ricevono beni alimentari a prezzo

agevolato o gratuitamente.»

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° I8

MICHELE MONOPOLI , NUOVO DS:

Scelga un modo di presen-tarsi.

Sono il dirigente scolastico del Carducci, ho sei anni di esperienza professio-

nale come dirigente scolastico, di cui cinque trascorsi all’istituto Vanoni di Vimercate. La prospettiva con la quale faccio questo lavoro è certa-mente quella di incidere in maniera il più significativa possibile sul rinno-vamento della scuola; credo che la scuola debba essere un’agenzia cul-turale al passo coi tempi e il compito che mi sono prefisso è quello di rius-cire nell’istituzioni nelle quali lavoro a dare questo impulso, che ritengo strategico anche per lo sviluppo del Paese. Quale università ha frequentato?

Mi sono laureato in giurisprudenza all’Universià di Bari con il massimo dei voti; poi ho seguito anche dei per-corsi di studio successivi, tra i quali il master di secondo livello in ma-nagement nelle istituzioni scolastiche formative.

Ha un motto o un valore particolare di cui vorrebbe che le le sue azioni fossero impregnate? Non mi ispiro ad una particolare filoso-fia. Mi piace soprattutto l’espressione “il rischio dell’educare” che è stata usata da don Milani, perché penso che risponda effettivamente alla neces-sità che abbiamo tutti noi di fare uno sforzo per includere tutti, per dare a tutti una possibilità di apprendere e quindi di avere un successo nella vita; però ci sono varie forme, di slogan o

di motti che potrebbero essere signifi-cativi.

Dall’esterno che opinione aveva di questa scuola?

Del Carducci ho sempre avuto una grande opinione in quanto è sempre stato un punto di riferimento nella storia, non soltanto milanese, ma anche nazionale e credo che è stato in passato e continuerà ad essere un luo-go di formazio-ne della futura classe dirigente di queto paese; anche in questi primi giorni ho avuto la certez-za che qui si trova il materia-le umano più interessante per provare a dare a questo paese una diversa dimensione.

Le era giunta mai voce di qualche nostro problema in particolare?

Quando arrivo in una scuola cerco di non farmi condizionare dai giudizi esterni, perché sono più espressioni dell’immaginario collettivo, penso.

Il liceo classico attraversa un mo-mento molto delicato e il calo delle iscrizioni potrebbe costringere molti licei all’accorpamento. A cosa è do-vuto secondo lei questo declino?

Credo che i licei classici subiscano come tutti i licei delle ondate. C’è stata una crescita in questi ultimi anni dei “licei nuovi”, come il linguistico e quello delle scienze umane, che hanno certamente spostato il campo,

o per esempio l’idea che la dimen-sione scientifica sia coltivabile sol-tanto nel liceo scientifico. L’elemento critico che dobbiamo raccogliere è quello di essere capaci di stare al passo con i tempi, di innovare anche nelle metodologie e nell’utilizzo della strumentazione: i licei classici devono essere in grando di poter fare quello sforzo per coniugare la grande tradizione della cultura classica con le nuove forme dell’innovazione. Si

potrebbero fare dei laboratori, attraverso uno s p o s t a m e n t o metodo log ico da un apprendi-mento di tipo astratto, nozio-nistico ad uno

più calato in una competenza labora-toriale.

Quindi lei ritiene che il liceo classico sotto certi aspetti sia più arretrato rispetto ad altri indirizzi? Forse è più ancorato alla grande tradizione, il che anche è comprensi-bile in quanto i licei classici sono stati la fucina ... (gli squilla il cellulare) ... della classe dirigente di questo paese, non soltanto in campo umanistico, ma anche in quello scientifico. Ecco, ad esempio i ragazzi del classico non fanno mai sperienze dirette nel mon-do delle professioni e del lavoro, che può essere uno degli elementi su cui ragionare per attivare negli studenti delle competenze di tipo trasversale. I fabbisogni esterni vanno tenuti in con-siderazione e commisurati alla real- tà.

domande a cura di Eleonora Sacco e Jacopo Malatesta

« I licei classici devono essere in grado di poter fare quello sforzo

per coniugare la grande tradizione della cultura classica con le nuove

forme dell’innovazione. »

L’ INTERVISTA con l’oblo’

cronache carducciane

Ama parlare e confrontarsi con l’interlocutore, cita don Milani e parla di passaggio del testimone fra generazioni. Ma dietro l’affabilità e la compostezza del grande diplomatico si nasconde un preside dall’impegno febbrile, con un fortissimo senso della sua missione. Lo abbiamo incontrato un lunedì pomeriggio nel suo ufficio di presidenza tutto bianco e spoglio e questo è il risultato di nostri quaranta minuti di conversazione.

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Due anni fa è toccato alle aule del seminterrato, quest’anno all’ala ovest del terzo piano; a giudicare dallo spopolamento delle sue aule, il Carducci sembra risentire in modo particolare di questa depressione. Qual è l’aggravante nel nostro caso?

Personalmente ho notato una qualità professionale elevatissima; il declino potrebbe anche essere semplice-mente dovuto a dei fenomeni esterni, esogeni. Una delle cause di questa crisi può anche essere un’errata stategia di comunicazione di quello che il liceo fa, soprattutto in termini di offerta formativa extracurricolare, che è molto ricca e qualificata. Biso-gnerebbe comunicare in maniera più forte la grande qualità professionale esistente all’interno dell’istituto uti-lizzando appunto strategie comunica-tive più moderne, magari attraverso un sito interattivo capace di rispon-dere alle sollecitazioni coinvolgendo nelle riflessioni culturali soggetti es-terni - come rappresentanti del mon-do delle professioni e del mondo acca-demico - , di modo che il liceo abbia un atteggiamento dinamico capace di

interpretare ciò che si muove attorno a sé, anziché chiudersi su se stesso. E’ anche possibile che il Carducci abbia ricevuto una cattiva pubblicità da parte della stampa?

Può darsi che qualche situazione ab-bia inciso negativamente; ritengo che magari anche i rapporti con la stampa debbano essere gestiti in maniera che l’istituto riacquisti quell’immagine forte, qualificata e rassicurante per l’utenza che ha sempre avuto in pas-sato.

Cosa ne pensa del sito della scuola?

Credo che vada migliorato, non tanto perché diventi una vetrina, ma perché sia uno strumento di relazione molto più forte con le famiglie, le utenze e col territorio, un veicolo attraverso il quale raggiungere anche pezzi della realtà metropolitana che sfuggono ad una comunicazione più diretta, che è quella che possiamo fare quando organizziamo le attività di orienta-mento. Il sito è strategico. Dico che la qualità è sempre nel processo di in-

segnamento e di apprendimento, ma gli sturmenti di comunicazione oggi assumono una rilevanza di cui va te-nuto conto e che non può essere sot-tovalutata.

Che cosa non la convince del sito?

Appare - per quel poco che ho avuto modo di valutare - un pochino statico, difficile nella ricerca delle informa-zioni; i siti hanno una loro vitalità se riescono ad essere aggiornati, ma se permettono anche di avere una rela-zione con altri soggetti, ottenendo quindi un ritorno in termini di capa-cità di rendersi conto di quello che si muove all’interno dell’istituto.

A detta di molti, l’apparato burocra-tico sarebbe uno dei punti deboli del Carducci. Da quel che ha potuto ve-dere è d’accordo?

Quello della segreteria può essere un difetto non necessariamente connesso con il Carducci: ho notato che negli ultimi anni c’è stato un forte turn- over e questo ha impedito il consoli-damento di competenze, causando

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° I10

delle disfunzioni. La ricostituzione di un apparato amministrativo più sta-bile potrebbe rappresentare effet-tivamente un elemento ulteriore di affidabilità dell’istituto stesso, soprat-tutto per le famiglie; in questo può aiutarci la tecnologia, perché alcune delle cose che normalmente vengono gestite oggi dalle segreterie potreb-bero essere più facilmente attivabili attraverso una relazione che passi attraverso delle aree riservate del sito; quindi si potrebbe alleggerire il carico di lavoro dell’amministrazione sul piano della compilazione cartacea e migliorare invece l’efficienza del servizio internet. Ci tengo comunque a precisare che le persone che vi la-vorano lo fanno col massimo impegno e con la massima disponibilità: questo è un bel patrimonio su cui si può co-struire un rapporto di maggiore effica-cia degli apparati.

Lei prima ha citato la questione delle attrezzature: che cosa va migliorato secondo lei?

Le aule dovrebbero essere multi-attrez-zate ed ogni aula dovrebbe avere un suo apparato tecnolog-ico. Nell’immediato penso di proporre un piano di in-vestimenti per do-t a r e cinque o sei a u l e d i l a -

vagne interattive multimediali, con la possibilità di un collegamento wi-fi attuato con un sistema di cablaggio che permetta al segnale di giungere in tutte le zone dell’istituto. Penso che che nell’arco di un trennio o quin-quennio la scuola debba avere tutte delle aule multi attrezzate con possi-bilità per i giovani di accedere a mec-canismi che sono molto più familiari rispetto alla tradizione della scuola italiana. Poi credo che si possa pen-sare anche alla costruzione di aule specifiche destinate a particolari am-biti disciplinari, dove sia consentito accedere a possibilità di lavoro diver-sificate da parte del docente in modo da valorizzare le diverse competenze che sono presenti in una classe. Come delle aule scientifiche, che siano in grado di avere biblioteche multime-diali, lavagne interattive, postazioni di lavoro...

Nel suo benvenuto agli studenti ha scritto: “Spero di poter

creare un clima di col-laborazione e di sin-ergie condivise”. Ep-pure è risaputo che la nostra scuo-.la

sia divisa in due fazioni, specie nel corpo do-centi. Questa

spaccatura era in larga parte lega-ta all’approccio

con il vec-chio DS: si è già accorto di ques-ta divi-s ione? C o m e pensa d i

conciliarla?

Non entro nel merito della prece-dente gestione, non sarebbe corretto, ma in generale ritengo che il plural-ismo sia una ricchezza e che le diver-sità vadano valorizzate. L’importante è che ci sia una comune convergenza su quello che è l’interesse generale, cioè fare che sia una buona scuola per i nostri ragazzi. Che ci siano orienta-menti differenti in una scuola io lo considero un ele-mento di forza e non di debolezza. L’importante però è che questo non sfoci nel conflitto e nella contrapposizione fine a se stessa.Ho notato che c’è una ricchezza di posizioni, ma io sono contento di avere una scuola viva piuttosto che omologata: nella scuola pubblica uno dei valori più grandi che dobbiamo preservare è proprio il pluralismo, che va stimolato continuamente. E non ha paura di eventuali conflitti?

Non mi spaventano: io cerco sempre di trovare una dimensione di media-zione del conflitto, non credo che l’esasperazione giovi al funzionamen-to della scuola. Bisogna cercare di mediarlo quando è possibile e soprat-tutto tenendo conto che l’intresse che abbiamo è quello di far funzio-nare la scuola. Su questo ci sarà tutto il mio impegno nel cercare di rendere possibile una conciliazione eventuale di interessi.

La Cogestione è da diversi anni una tradizione qui al Carducci. Di fronte a questo tipo di progetto la legge non si esprime con chiarezza. Qual è la sua posizione a riguardo?

Lo dico, sono contrario nella misura in cui crea una fase di confusione all’interno della scuola: penso che ab-biamo tante occasioni per fare delle riflessioni culturali insieme; si pos-

sono trovare soluzioni che in qualche modo vadano

incontro anche alle aspettative degli stu-denti; credo che ci siano spazi che pos-sano accogliere le iniziative degli stu-denti, ma all’interno di un si-stema di

cronache carducciane

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Ottobre 2012 | L'Oblo' sul Cortile 11

regole che sia condiviso e che sia ac-cettato da tutte le componenti. Credo che la cogestione metta in pericolo questo elemento di unitarietà. Può rappresentare un elemento di rottu-ra in una dialettica di confronto alto e culturalmente rilevante. Questa è la mia impressione. Non bisogna togliere spazio al protagonismo gio-vanile, significa trovare gli stumenti attraverso i quali scuola e giovani, docenti e tutto l’apparato, possano collaborare per valorizzare questa dimensione, senza paralizzarla, ma senza creare situazioni che possano nuocere all’immagine della scuolla e ai contenuti culturali che vengono espressi in certe circostanze.

Ha in mente dei progetti in alterna-tiva alla Cogestione?

Io penso che si possano trovare forme di collaborazione su temi par-ticolarmente rilevanti individuati dai giovani ma su cui la scuola può dare il proprio contributo in termini di collaborazione, per esempio at-tivando delle riflessioni comuni con la partecipazione di persone esperte che siano in grado di dare al dibat-tito una qualità scientifica che alcu-ne volte può mancare nella gestione diretta da parte degli studenti. Ad esempio si possono dedicare dei sa-bati culturali o studiare strategie a tavolino.

A causa dell’annullamento del con-corso per presidi lei si trova a la-vorare su due scuole. Questo rende più diffi-cile la dirigenza del Carducci?

Certo, diventa per me molto più faticoso; la dimensione di due scuo- la collocate in due province diverse (Vimercate, e Milano) è complessa!La mia scelta di venire al Carduc-ci è stata responsabile e voluta, mi dispiace che questa situazio-ne tolga tempo e spazio per poter esercitare in maniera più pervasiva il mio ruolo qui all’interno dell’istituto. Ovviamente metterò tutto il mio im-

pegno e il mio tempo per poter essere presente in entrambe le istituzio-ni scolastiche, però effettivamente complica notevolmente la possibilità di incidere realmente in maniera si-gnificativa, anche soltanto come cono-scenza dei processi. Sì, le reggenze sono un problema: non sono mai stato particolarmente favorevole. Se uno ha una scuola è giusto che si dedichi soltanto a quella. Si finisce forse per diventare un pochino più burocrati ed avere una minore dimensione educa-tiva, probabilmente. Non è soltan- to l’organizzazione del servizio scola-stico, ma anche il rapporto con stu-denti, docenti che si costruisce giorno dopo giorno in momenti particolari della giornata, che viene a mancare.

Un riferimento forte all’interno della scuola è essenziale per assicurare la ri-uscita dei pro-getti: anche per i ragazzi stessi avere un inter-locutore, un dirigente, pre-

sente con cui poter dialogare continua- mente è un elemento di forza.

Per quanto tempo persisterà questa situazione?

Sappiamo solo che il 20 novembre dovrebbe pronunciarsi il consiglio di Stato sul ricorso presentato sul con-

corso, però c’è il rischio che possa andare avanti per tutto l’anno scola-stico. Spero per l’anno in corso e mi auguro di poter essere il dirigente del Carducci a tutto tondo, ecco.

C’è altro che vorrebbe dirci?

In generale son contento della mia scel-ta. In questo mese mi hanno sorpreso molto piacevolmente la dimensione culturale ed educativa, posso chia-marvi… “dei miei studenti”, ormai… Il mio compito è quello di offrirvi la dimensione più corretta dal punto di vista della vostra crescita culturale. Il mio impegno è tutto verso i giovani e verso gli studenti: lo è sempre stato nella mia attività di docente e lo sarà anche in quella di dirigente qui al Car-ducci.Mi auguro che sappiate interpretare bene il vostro ruolo nella società e di consegnare il testimone perché è giu-sto che voi diventiate protagonisti nella vita socio-enomica e culturale di questo Paese.E io penso che voi abbiate tutte le condizioni per poterlo fare, sta a noi assicurare un adeguato passaggio di consegna.

Infine vi ringrazio, come sempre gen-tili e anche per le domande signifi-cative. Grazie a lei!

« Il mio impegno è tutto verso i giovani e verso gli studenti: lo è sempre stato nella mia atti-

vità di docente e lo sarà anche in quella di dirigente qui al

Carducci. »

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° I12

L’ECLISSI DEL CLASSICO?del prof. Giovanni Sponton

Partiamo dalla cornice. Per il liceo classico sono indub-biamente tempi di vacche magre. Voci importanti del-la cultura attuale parlano apertamente di “sopravve-

nuta marginalizzazione del liceo clas-sico” (L. Serianni, L’ora di italiano, 2010, Laterza, pag. 22), di cui sareb-bero spia la sua riduzione a “territo-rio” prevalentemente femminile e la progressiva prevalenza di licei clas-sici nel meridione; il primo dato di-mostrerebbe che i giovani studenti stanno progressivamente migrando verso ambienti formativi più legati all’attualità e alle esigenze del mondo del lavoro, lascian-do alle studentesse la formazione uma-nistica, cioè quella destinata a sfo-ciare soprattutto nell’insegnamento; il secondo, invece, attesterebbe la tendenza delle zone culturalmente ed economicamente più dinamiche del Paese ad abban-donare modelli culturali legati a un sapere ritenuto sotto molti profili “inattuale”. Sce-nario poco incoraggiante, anche per-ché non sembra dovuto alla fisiologica alternanza di stagioni nel gradimento di questo o quell’ordine di studi; chi osservasse laconicamente “nihil novi sub sole: oggi è di moda lo scienti-fico, domani tornerà in auge il clas-sico” non offrirebbe una lettura sod-disfacente del fenomeno. La poderosa accelerazione scientifico-tecnologica che stiamo vivendo (basti pensare allo stupefacente concentrato di intelli-genza racchiuso nel processore di un qualsiasi cellulare) da un lato impone ai Paesi industrializzati di incremen-tare nelle nuove generazioni il sapere matematico, fisico, chimico, biolo-

gico, informatico e linguistico, pena l’esclusione dai circuiti importanti del progresso e dell’economia; dall’altro, quasi moderno vaso di Pandora, apre sempre nuovi orizzonti di ricerca e di scoperta (provate a leggere il supple-mento tecnologico Nòva, allegato al Sole 24 ore della domenica…) e spri-giona un fascino assai più immediato e magnetico rispetto a quello di una cultura alla quale si deve accedere attraverso un tirocinio faticoso come lo studio del latino e del greco. Dif-ficile davvero cogliere nel presente i presagi di una inversione di tendenza ma, tutto sommato, non è detto che

il fenomeno debba essere valutato solo in chiave negativa. In che senso? Diamo uno sguardo ai dati: il responso delle prove scritte di maturità dice che la percentuale di coloro che - dopo cinque anni di fatica - riescono a dominare un testo di media difficoltà è bassa. Ora, la fortuna del classico è legata da sempre ad un prestigio cul-turale dalle solide e indiscutibili fon-damenta; chi scrive nutre tuttavia il sospetto che tale autorevolezza abbia attratto e forse ancora attiri, quasi per forza d’inerzia, giovani intelli-genze che potrebbero sortire migliori risultati in altri ambiti (altrettanto qualificanti). Non sarebbe un male,

allora, accettare senza drammi il ri-dimensionamento imposto dai tempi, se questo significasse avere meno studenti ma mediamente più portati verso lo studio dell’antico e, nel con-tempo, vedere una maggior percen-tuale di giovani serenamente avviati ad una preparazione più sintonizzata sia con i loro effettivi talenti, sia con le esigenze della modernità. Quanto invece al Carducci, un istituto che negli ultimi tre anni è passato da nove a cinque prime classi denuncia chiaramente qualche problema ulte-riore rispetto a quelli dell’intero or-dine di studi. Non è ovviamente questa

la sede per un’analisi circostanziata del suo stato di salute; né sarebbe corretto additare responsabi-lità in absentia, cioè in un contesto privo di contraddittorio da parte delle per-sone eventualmente coinvolte. Quello che si può fare - pro-prio approfittando di un momento forte come il mutamento della dirigenza - è guardare in avanti e rilanciare con ener- gia un aureo afo-risma sallustiano: concordiā parvae

res crescunt, discordiā maxumae di-labuntur (Bellum Iugurthinum, X, 6; non farò ai miei venticinque lettori l’offesa di tradurre). Solo un ambien-te nel quale esiste una forte conso-nanza di metodi e di intenti tra tutti i suoi soggetti (dirigente scolastico, docenti, allievi, famiglie) può creare intorno a sé un richiamo persuasivo e proporsi come un ricco terreno di crescita per chi aspira a costruirsi un consistente bagaglio di sapere e di formazione umana prima del salto nel mondo universitario. C’è lavoro per tutti, insomma; a ciascuno l’onere e il privilegio di dare il suo prezioso con-tributo.

cronache carducciane

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Ottobre 2012 | L'Oblo' sul Cortile 13

Buongiorno Carducci.Venerdì scorso, il dodici ottobre, durante l’assemblea di presentazione delle liste, sono state dette cose che ci hanno irritato, ma anche e soprattutto intristito.

Uno studente ha accusato, davanti a tutta l’assemblea, il professor Giorgio Giovannetti di stru-mentalizzare e pilotare il Collettivo e il Giornale studentesco. Allo scopo di dimostrare che queste affermazioni sono false e tendenziose, abbiamo raccolto le firme degli studenti del prof. Gio-vannetti, dei membri del Collettivo e dell’Oblò, e di chiunque si sia sentito di dissentire con le pesanti affermazioni provenienti da qualcuno che non è mai venuto al collettivo, al giornalino, e non ha mai seguito una lezione del Prof. Giovannetti.

a cura del Collettivo Carducci

LETTERA APERTA AGLI STUDENTI

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° I14

STAGE TO SALISBURYdi Beatrice Sacco

“Can you spell your name please?” è stata una delle prime domande che i nostri “genitori” ci hanno posto.Non credevo fino ad allora che gli inglesi avessero que-

sta tale difficoltà nel pronunciare una qualsiasi parola italiana, a partire dal nostro semplice “ciao”. Anche i primi giorni a scuola l’insegnante passava almeno cinque o dieci minuti a cer-care di dire correttamente i nostri nomi. Le nostre famiglie ci hanno ac-colto subito con entusiasmo (anche se non per tutti è stato così), e per noi, prima volta in una host family, è stato abbastanza strano abituarci a questo nuovo ambiente e ai loro modi di fare. Poi, non essendo noi solite a parlare in Inglese e a sentirlo, nelle prime conversazioni abbiamo avuto qualche incertezza, e non riuscivamo neanche a capire bene quello che dicevano, tanto che ci è capitato di fare fi-gure davvero imbarazzanti – “Do you usually watch X-Factor?” “No, thanks, no more salad for me!”.

Ma, in fondo, il tempo che passavamo in famiglia era poco. Difatti di domen-ica le nostre guide Claire e Seb, Yellow Shirt, ci portavano, con le prof. Pier-gallini e Musante, in gita nella mitica

capitale inglese, Londra. Ovviamente il tempo era ristretto e abbiamo visto a malapena il Big Ben ma, avendo vin-to la maggioranza, ci siamo goduti lo shopping nel “Corso Buenos Aires” di Londra, che è all’incirca il quadruplo. La scuola inizia-va già di lunedì: dovevamo arran-giarci da soli a prendere il bus per raggiungerla; Kaplan, il centro dove seguivamo le lezioni, era un college, comple-tamente diverso dall’idea di scuo-la italiana. Qui parlavamo solo Inglese con gli insegnanti, e questi, molto simpatici e gentili, facevano una lezi-one multimediale di giochi, dibattiti e anche grammatica inglese. Di pomer-iggio abbiamo avuto la possibilità di visitare la nostra piccola città; Salis-bury è molto carina e piena di vita: ci ha lasciati davvero di stucco, però, il fatto che i negozi e bar, diversamente da Milano, chiudano alle 17.

Solo il cibo ci ha scoraggiati: ogni gior-no la nostra cara famiglia ci prepara-va, devo però dire con tanto amore,

il tipico Packed Lunch inglese, che di base comprendeva due sandwich pieni zeppi di burro e un pacchetto di pa-tatine multi gusto. Dunque una buona parte di noi studenti italiani, dopo il terzo giorno così, non è riuscita a

sopravvivere a questa scossa ed ha quindi corag- giosamente ri-nunciato al pran-zo (anche se in realtà non era poi così male…).

A metà settimana Claire e Seb ci hanno accompa-

gnati nella cittadina di mare Bourne-mouth; qui i Carducciani più valorosi si sono gettati a braccia aperte nel gelido oceano Atlantico. E dire che in questa “vacanza” non ci siamo dimen-ticati del nostro amatissimo latino, perché abbiamo anche avuto la pos-sibilità di andare a visitare i bagni e il museo romano della località di Bath, attrazione molto interessante e carat-teristica di questo piccolo borgo.

Nello stesso giorno siamo stati anche al sito preistorico di Stonehenge, senza dubbio impressionante, anche se meno stimolante. Non vi ho ancora però parlato dell’imprevedibile tem-po meteorologico; siamo a dir il vero stati molto fortunati, perché parados-salmente abbiamo molto spesso in-contrato il caldo sole di settembre, e contenti così non abbiamo potuto as-sistere a tipici temporali inglesi. Però il vento freddo di primo mattino o quando il cielo è rannuvolato si è fat-to ben sentire, e noi, vestiti a strati, piangevamo quasi nel vedere i bam-bini britannici in pantaloncini corti e giacchetta. Essendo stata per me una nuova esperienza, devo dire che mi è apparsa molto suggestiva e non vedo l’ora di ripeterla.

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Ottobre 2012 | L'Oblo' sul Cortile 15

VIVERE IN UNA FAMIGLIA NUMEROSAdi Gaia Cantone vignetta di Francesca Grassi

Vi siete mai chiesti come sia avere 7 fratelli? Come si possa riuscire a vivere in una famiglia numerosa? Abbiamo intervistato un ragazzo di 14 anni.

La “famiglia numerosa” è una tradizione per la tua famiglia?No, perché mia madre ha un fratello e mio padre ne ha due.

Che sforzi ti richiede avere tanti fra-telli?Innanzi tutto mi devo organizzare in modo preciso e regolare nello studio, per poi badare ai miei fratelli oppure praticare i miei sport e hobby prefer-iti. Io e mia sorella siamo i più grandi tra tutti i 7 figli ed è ne-cessario che noi due aiutiamo in casa nelle fac-cende domestiche al fine di rendere il nostro appartamento un posto vivi-bile. Infine bisogna dotarsi di molta pazienza.

Praticate tutti sport o attività ex-trascolastiche?Sì, eccetto i miei fratelli più piccoli (minori di 6 anni), in quanto i miei genitori ritengono che fare sport sia sano perché aumenta il benessere fi-sico e facilita le relazioni con i coe-tanei.

Possono bastare i genitori oppure necessitate di aiuti dalla rete paren-tale?Tre volte alla settimana, solitamente, si alternano la zia materna e la nonna paterna, per aiutare mia madre nello svolgimento delle faccende di casa, ossia stirare, stendere etc.. Tutto ciò permette, a mia madre, di ricavare del tempo per se stessa, e a noi figli maggiori di dedicare più tempo allo studio.

Quali sono i momenti più critici nella gestione della quotidianità?I momenti più critici si manifestano prima di arrivare a scuola e durante

la cena, perché non si riesce a di-scutere e ciascuno di noi non riesce a farsi ascoltare.

È fondamentale avere un lavoro con orari flessibili per potersi occupare della crescita di tutti i figli?Sì, è fondamentale avere un’occupazione che permetta ai miei genitori di allontanarsi dal posto di la-voro per qualsiasi imprevisto.

Quali sono oggi le principali difficoltà che incontra una famiglia numerosa?Una della principali difficoltà è quella economica. Ossia risparmiamo non andando al cinema, al ristorante, trascorriamo le vacanze estive in pos-ti situati nelle vicinanze di Milano ed evitando tutti i beni superflui.

Dunque, ti è accaduto di dover ri-nunciare a qualche bene non essen-ziale?Sì, non abbiamo la TV, bensì abbiamo solo lo schermo per la proiezione di film, non abbiamo video-giochi, cellulari ed il computer lo uti-lizziamo solo per la scuola.

Come trascorri il tempo libero con la tua famiglia?Gli unici momenti che trascorriamo tutti insieme sono: durante la proiezi-one di un film il sabato sera e la parte-cipazione alle varie cerimonie.

Riesci ad avere dei momenti di in-timità?Sì, perché la mia casa è stata pro-gettata e suddivisa da mio pa-dre che è architetto, così cia-scuno ha degli spazi propri.

Avere tanti fratelli ti aiuta maggior-mente a misurarti con gli altri e a di-ventare migliore?Sì, perché vivere con tanti fratelli mi ha fatto sviluppare le competenze dello stare insieme agli altri.

Puoi spiegare la gioia e l’emozione oppure il disappunto per l’arrivo di un’ altra sorella?Prima di apprendere la notizia della futura nascita non volevo più saperne, ma quando ne sono venuto a cono-scenza sono stato contento.

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° I16

CINEMA

La fine del mondo. Almeno una volta ci siamo chiesti cosa potrebbe succedere se il mondo finisse e come ci potremmo

comportare: manterremmo la calma o im-pazziremmo all’idea di morire?Justine si è appena sposata: è bellissima nel suo vaporoso abito bianco, e non smette un attimo di sorridere. Il ricevimento di nozze si terrà nella lussuosa villa del marito di Claire, sorella di Justine; tutto sembra essere per-

fetto, neanche il ritardo dei due novelli sposi sembra poter rovinare questa giornata. Purtroppo, a causa di un padre infantile ed assente e di una madre egoista, quello che sarebbe dovuto essere il giorno più emozionante di Justine si tramuta in una tragedia. Justine lascia il ricevimento per prendere un po’ d’aria e per stare da sola. Fa un giro nello spettacolare giardino della villa, guarda il cielo: là c’è una stella più luminosa delle altre. Justine va e viene dal rice-vimento, neanche Claire riesce a farla riprendere; ormai è troppo tardi. Justine non ha mai desiderato tutto questo:

Melancholia

Il 1931 è uno degli anni più impor-tanti per l’intera storia del cinema. È l’anno in cui, per la prima volta,

l’attore ungherese Bela Lugosi inter-pretò Dracula, ruolo che lo cristallizzò in un’immagine eterna che sopravvive ancora nell’immaginario comune. Incu-riosisce il fatto che Lugosi fu talmente affascinato dal ruolo, che fu chiamato ad interpretare più volte, da affermare persino “Dracula is my Hamlet”. Il 1931 è anche l’anno in cui nei cinema americani si proiettò in prima visione il Frankenstein diretto da James Whale. Anche chi non ha visto il celebre film ne ha in mente alcune scene immor-tali (come quella del celebre urlo “It’s alive!”), così come l’atmosfera rical-cata dal film parodia Frankenstein Junior e l’immagine, anch’essa ormai canonica, della Creatura con il volto di Boris Karloff. Mentre il personaggio del conte Dracula sembra purtroppo essersi esaurito, (non riesco infatti ad avvicinarlo al cosiddetto “fenomeno Twilight”), come tanti altri personaggi horror del periodo, il mito del Mostro, della Creatura di Frankenstein, non è mai scomparso dagli schermi e la tras-posizione del ’31 ne rimane un impor-tantissimo punto di riferimento.L’ossessione della possibilità di poter creare artificialmente la vita umana è, inoltre, alla base della maggior parte dei film moderni di fantascienza. Una creatura che diventa umana, talvol-ta more human than human (citando

Blade Runner) e l’inevitabile interro- garsi su chi dei due, creatura o creatore, sia il vero mostro, sono due elementi degli che compongono lo scheletro di una storia immortale, quella pubbli-cata da Mary Shelley nel lontano 1816. Sono del parere che l’affascinante tema del doppio in Frankenstein sia stato rappresentato al meglio dal reg-ista scozzese Danny Boyle ( Tr a i n s p o t -ting, The Mil-lionaire), che, tra il 2010 e il 2011, ha sorprendente-mente deciso di tornare m o m e n t a -n e a m e n t e alla direzione teatrale, proponendo una versione di Frankenstein per il National Theatre. La sua idea è stata quella di scegliere due attori che fossero in grado di soste-nere entrambe le parti, sia quella della Creatura, sia quella di dottor Frank-enstein. La scelta ricadde su Jonny Lee Miller e Benedict Cumberbatch. Entrambi avevano già collaborato con il regista, il primo in Trainspotting, il secondo nello spettacolo teatrale The Children’s Monologues. Di Frankenstein, Boyle rappresentò quindi due versioni, in cui, a serate alterne, i due attori interpretavano

l’uno o l’altro ruolo. Ho visto una delle versioni dello spettacolo, non a teatro ma proiettata in un cinema londinese (e solo recentemente anche l’altra). Nonostante nel copione di Nick Dear il confronto tra creatura, vera pro-tagonista dell’adattamento, e creatore apparisse banale, e inconsistente, ho avuto invece modo di notare come lo

speciale legame tra i due person-aggi, in questo adattamento, sia stato reso perfet-tamente da un raffinata recitazio-ne soprattutto fi-sica da parte dei due attori (che hanno condiviso per i due ruoli un Olivier Award) il

cui miglior esempio sta nella simbolica, e ricca di tensione, stretta di mano. In Italia la proiezione dello spettacolo, comunque valorizzata da un ottimo montaggio, è arrivata in pochi cinema e, incomprensibilmente, solo in una delle due versioni (quella con Miller e Cumberbatch). Sperando nella realizzazione di un dvd dello spettacolo di Boyle, concludo consigliandovi di recuperare il film del 1931, augurandovi di lasciarvi traspor-tare da una storia senza epoca.

Frankenstein: James Whale e Danny Boyledi Morgana Grancia

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Ottobre 2012 | L'Oblo' sul Cortile 17

la cerimonia, l’abito, il bel marito. Travolta da queste dolorose constatazioni, Justine sembra non aver più coscienza delle sue azioni: la sera stessa, pone fine al suo matrimonio ancora prima che sia cominciato.Justine, dopo il tentativo fallimentare del matrimonio, è caduta in un profondo stato di depressione; Claire decide di intervenire, portando la sorella a vivere con lei, il marito John e il figlio Leo. I primi giorni Justine non riesce a par-lare o mangiare; l’eccitazione di John e di Leo per il passaggio vicino alla Terra del pianeta Melancholia non riescono inizialmente a svegliarla dal profondo coma in cui è caduta. Giorno dopo giorno, Melancholia si avvicina sempre più alla Terra, ma l’eccitazione iniziale lascia il posto all’ansia e alla paura che (apparentemente) solo in Claire questo avvenimento eccezionale provoca. Claire infatti, dapprima la sorella calma e razionale, durante una ricerca in rete legge su Melancholia la teoria de “La danza della morte”, per la quale secondo molti il pianeta impatterà sulla Terra. Assistiamo ad un ribaltamento di ruoli tra le due sorelle: Justine appare fisicamente più forte mentre Claire è agitata e si sente impotente. Durante la notte il pericolo della collisione sembra evitato, ma la mattina dopo Melancholia è ancora più vicina. Come affrontare qualcosa che sai che accadrà inevitabilmente? La noncuranza e l’imperturbabilità che avvolgono Justine le fanno affrontare la fine con un coraggio impressionante: assieme al nipotino Leo costruisce una capanna, nella quale si rifugiano mentre la Terra vive i suoi ultimi istanti di vita.

Una recensione canonica si soffermerebbe sul lato tec-nico di questo film, dalla regia — efficace, ma priva forse di quel “tocco d’autore” che i grandi registi

sanno dare — alla sceneggiatura, e così via fino ad arrivare agli inevitabili confronti con la controparte cartacea. E non parlo di un libro qualsiasi, visto che si tratta di una delle vette più alte raggiunte dallo scrittore londinese Patrick McGrath, Asylum (tradotto in italiano con il titolo di Fol-lia). Una recensione canonica, dicevo, non avrebbe molto di più da dire a riguardo. Eppure io fatico a restare obiet-tivo di fronte ad una trasposizione magari imperfetta, ma sicuramente capace di riprodurre il conturbante senso di angoscia, l’Eros dirompente e il cinismo che hanno reso il libro un capolavoro moderno. Si tratteggia, infatti, l’oscura vicenda di Stella Raphael, moglie del vicedirettore di un manicomio vittoriano, invischiata in una relazione adultera con l’artista uxoricida Edgar Stark. Come se non bastasse, al disarmante quadro iniziale fanno da sfondo ambientazioni tanto desolate quanto desolanti: l’austero manicomio criminale, una Londra fumosa e dai vicoli angusti; poi campagne sterminate, nebbiose, eppure lontane dalla tipica serenità bucolica. Il paesaggio rispec-chia lo stato d’animo della protagonista, tragica eroina in-capace di conciliare il proprio ruolo di madre e di moglie di un’importante psichiatra — il che obbligava a seguire una certa, rigida, etichetta — a quello di donna frustrata, in-soddisfatta psicologicamente e sessualmente, e per questo facile preda della fredda follia di Edgar. Quest’ultimo, ot-timamente interpretato dall’attore neozelandese Marton Csokas (Lord Celeborn ne “Il Signore degli Anelli”, per in-tenderci), riesce ad attrarre sin da subito lo spettatore con la propria ambiguità: razionalità e follia, fredda insicurez-za, amore per Stella e cieca gelosia; tutti questi carat-teri si fondono fino a creare l’immagine dell’artista un po’ bohemienne e trasandato, ma dal fascino imprevedibile e passionale.

Sin dalla prima sequenza — Stella e famiglia in macchina verso la nuova residenza all’interno del manicomio, in silenzio, con solo una crepuscolare melodia in sottofondo — si intuisce già il tono tragico che la vicenda andrà assu-mendo di lì a poco, nonché il tema costante della solitudine. A farci caso, tutto il film è costruito sull’incomunicabilità tra i vari personaggi, veri e propri “scogli” sparsi in un mare di paure e istinti nascosti; sicché le uniche scene di comprensione reciproca risultano essere non quelle, come ci si potrebbe aspettare, tra Stella e l’amico/psichiatra Pe-ter, bensì gli sporadici amplessi che, non a caso, vengono sottolineati da un “rinvigorimento” della colonna sonora. Apparentemente senza personalità, senza “anima”, questa trasposizione riesce invece a ricreare una rete di person-aggi soli, incapaci di domare i propri istinti e le proprie paure, e per questo intrappolati nel proprio, personale, vortice di follia.

di Anna Vaccari

Folliadi Dario Zaramella

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° I18

Quattro stracci sono pen-sieri liberi, umili ma pieni di dignità. Sono musica semplice, sen-za troppe pretese ma profonda e vibrante,

alla Guccini; ver-si sparsi o fantasia senza schemi, traboccante di vita. Quattro stracci è una rubrica nuova: spunti e idee a sfondo letterario, pensieri trasversali su musica e parole del cantautorato del secondo Novecento (o giù di lì).

Francesco De Gregori scrive Alice non lo sa, il piccolo Decameron, nel 1973. Non a caso l’album è intitolato ad Ali-ce, la ragazza dei gatti e del sole: la prima traccia racchiude dentro di sé, in miniatura, struttura e tempera-tura dell’intero disco. Abbandonan-dosi al calore dell’attacco, ci si può far cullare dai raggi del sole del tardo pomeriggio in cui la bella Alice, una Amélie Poulain mediterranea, coccola i suoi neri gatti di sguardi. Alice è spettatrice passiva, uno sguar-do vago e immobile; la sua schiena, protagonista dolce nel quadretto da balconcino di un monolocale, incor-nicia le altre storie, che si staccano lentamente dall’intonaco giallino e sviolinato dello sfondo. Alice vive nell’ombra sinuosa dei gatti, igno-rando le vite e le sofferenze a lei parallele. Non sa di Irene, che fuma l’ultima sigaretta allo specchio, pri-

ma del suicidio. De Gregori le dedi-cherà un’intera canzone, più avanti nell’album (“Il mondo passa accanto a lei e non la sfiora mai | Con le mani aperte, il cuore aperto, Irene guarda giù”). Non sa di Lili Marleen, la bion-da nazista dei manifesti, dal sor-riso eternamente giovane. E mentre il torpore inizia ad avvolgerci le mem-bra, lo sposo irrompe nella scena infran-gendo l’equilibrio degli sguardi. Il “ma io non ci sto più” è un atto di ribel-lione, non solo al matrimonio forzato con la sposa incin-ta, ma all’inerzia e alla passività placida dell’Alice-cornice. Lo sposo (impazzito? Ubria-co? Lucidissimo, invece) indigna i cappelli beneducati degli invitati e la nostra tranquil-lità uditiva, rompendo il vetro che separa le storie dalla vita reale (a mo’ di “Il laureato”) e affermandosi attivo e intenzionato a migliorare la sua si-tuazione, in bilico come tutte le altre presentate. “Ma la sposa aspetta un figlio e lui lo sa: non è così che se ne andrà” – andrà tutto bene, comunque. Il mondo, che prima girava senza fretta, ora si avvicina ad Alice, vuo-le mostrarsi, ma ella rimane rapita

dalle sagome nere dei felini. La Terra si apre su Cesare (quel Cesare Pavese) che aspetta paziente sotto la pioggia di Torino ballerina, una sua compagna di liceo che non arriverà. Passa anche l’ultimo tram della notte, e la delu-

sione amorosa – la prima di una lunga serie – gli lascia, in-

sieme al freddo, una forte pleurite. L’Alice che am-

maliava di sguardi ini-zia a sembrare un po’ snob. Ignora anche il cancro nel cap-pello (poi censurato in “qualcosa”) del mendicante arabo; davvero un porta-fortuna sicuro. “Non ti chiede mai pane o carità”; dorme per

strada, lui. E i suoi gat-ti sono randagi.

Alice è serena perché ignora i suicidi, la guerra, il

rifiuto amoroso, la malattia e la povertà; a voi tutte le possibili con-getture filosofico-morali per il sentie-ro della felicità. Mentre Alice, nel suo mondo di meraviglie, ha la vista an-nebbiata persino per l’eclissi d’amore di Sole e Luna o per la morte dei gatti, lo sposo ci ricorda che i pazzi siamo noi: l’estate è finita. E lui forse è l’unico che si salverà dalla paralisi del mondo.

di Eleonora Sacco

Cultura / le rubriche

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Ottobre 2012 | L'Oblo' sul Cortile 19

Dopo aver iniziato con La Strada l’anno scorso, tor-niamo a parlare di Cormac McCarthy, questo misterio-so scrittore statunitense che nonostante l’auto-

esilio negli sconfinati deserti del Texas continua a far echeggiare la sua voce potente in tutto il mondo. Non è un caso se molti gli riconoscono di es-sere uno dei più grandi, se non il più grande, romanziere contemporaneo. Sul Washington Post è stato descritto così: “scrittori come lui lottano cor-po a corpo con gli dèi”. Un’ imma- gine azzeccatissima, perchè è questo che deve fare il grande cantastorie: prendere fra le mani la propria epo- ca, strapparle il cuore, raccontare sulla carta tutto il marcio, i desideri, i conflitti, le passioni dei piccoli grandi uomini che la abitano. Lottare con gli dèi del mondo. E McCarthy così fa, e nella sua strenua lotta si impone, pa-gina dopo pagina. Ecco perchè oggi vediamo Non è un paese per vecchi, forse il suo romanzo più celebre, sicuramente il più celebrato, al punto che il film che ne è stato tratto (bel-lissimo, ve lo consiglio) ha conquista-to ben 4 premi Oscar.Incipit semplicissimo: Llewelyn Moss, l’emblema dell’uomo qualsiasi, si im-batte per caso in una valigetta traboc-cante di dollari, rimasta abbandonata in seguito a una trattativa finita male fra narcotrafficanti. Llewelyn non è stupido e sa bene che qualcuno vorrà venire a riprendersela, così scappa. Lo inseguono in due: lo sceriffo Bell, che sta a rappresentare quel mondo e quei valori che McCarthy ha conosciu-to nella sua infanzia ma che ora si sono estinti, e soprattutto Anton Chig-urh, il cattivo più cattivo che abbiate mai incontrato, che invece simboleg-gia la logica caotica, furiosa e abietta della società contemporanea. Presto la vicenda sconfina dai margini di un semplice inseguimento e diventa una epica lotta fra concezioni del mondo: a Bell non interessa più solo dare una buona riuscita alle indagini, ma de-

sidera difendere la vita in pericolo di Llewelyn, e dimostrare a se stesso che il mondo non è ancora impazzito del tutto e che i buoni vincono ancora; Chigurh invece percorre un sentiero piastrellato di sangue e di distruzione che, senza guardare in faccia a nes-suno, lo porta dritto verso il suo obiet-tivo: la valigetta. Ma lo fa per i soldi? No, e proprio qui sta il punto. L’analisi del male operata da McCarthy in ogni sua opera tocca i suoi vertici, teoriz- zando che questa forza surreale ma che esiste, il Male, appunto, non c’entra con la natura, che è sempre vista come positiva, ma è impiantato nel mondo dalla follia dell’uomo. E il Male non agisce mai con uno scopo: perpetra misfatti solo perché vuole. L’unico risultato ottenuto dal Male è il male stesso. Chigurh è il caos del 2012, e quel che è più drammatico nell’opera di McCarthy è che Chigurh vince. Bell segue le regole, e rimane sconfitto (“Se le regole che hai seguito ti hanno portato sino a questo punto, a che servivano quelle regole?”, dice Chigurh). Appare manifesto che nella realtà selvaggia del mondo (simboli-camente rappresentato dalle terre di confine fra Texas e Messico) non c’è spazio per chi fa le cose per bene. Non c’è giustizia se non quella del caos. Appunto, non è un paese per vecchi.La facilità con cui Llewelyn uscirà di scena ha un che di sconvolgente, e non è da tutti gli scrittori avere la forza e il coraggio di trattare così i propri personaggi; ma è proprio da questo che emerge la vera drammati-cità e portata uni-versale dello scon-tro fra il vecchio Bene e il moderno Male. Si esce dalla semplice trama, si entra sul palcosce-

nico universale. Il lettore è costretto ad interrogarsi, leggendo le violenze che vengono raccontate, se non è magari che Chigurh vince anche per-ché noi lo aiutiamo. Perchè, Bell ce lo ricorda, non è sempre stato così. Il Male, quello certo che c’è sempre sta-to, ma c’era anche chi combatteva. Ora, in silenzio, si assiste al massacro.Ma credete che la grandezza di Mc-Carthy si riduca a una presa di po-sizione nichilista? Non vi anticipo il (meraviglioso, perfetto) finale, ma la vicenda si conclude con lo sce-riffo Bell che racconta di un sogno fatto quella notte: lui da bambino e il padre, sulle montagne, di notte, nella tormenta. Il padre con una fiac- cola in mano, ricavata da un corno “bianco come la luna”. “Sapevo che stava andando avanti, per accendere un fuoco da qualche parte, in mezzo a tutto quel buio e quel freddo, e che quando ci sarei arrivato lo avrei trovato lì”. Come a dire: nonostante tutto questa sofferenza insensata che ci capita, alla fine ci aspetta un fuoco chiaro che illumina la notte. Alla fine non può vincere il male. Possiamo permetterglielo noi uomini, qui nel Texas del mondo; ma c’è uno schema imperscrutabile ed eterno tale per cui le tenebre, no, non prevarranno.

La BibliobussolaIdi Carlo Simone Non è un paese per vecchi

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° I20

Sulla strada che faccio ogni mattino per venire a scuo-la, all’angolo tra via Ressi e via Caproni c’è una casa con uno splendido giardino. Tra le siepi e i sempreverdi

spicca per bellezza un’insolita pianta, esile e vigorosa al tempo stesso. Un limone. Per uno abituato come me a vivere nel rigido clima milanese, gli agrumi hanno un che di miracoloso. Riempiono i giorni più grigi e freddi con colori squillanti e sapori squisiti. Sono degli instancabili serbatoi di sole, pronti a sprigionare luce nei mo-menti in cui più serve. Ma che cosa c’entrano i limoni con la tecnologia?“Un limone colto dall’albero ha la scorza ruvida. Più curato è l’albero più ruvida è la scorza. Se la si schiac-cia un poco ne esce un olio profumato e d’improvviso la superficie diventa liscia. E poi c’è quel succo asprigno ,cosi buono sulla cotoletta e con le cozze, nei drink estivi e nel tè caldo! Tatto, olfatto, gusto. Tre dei cinque

sensi non possono essere trasmessi attraverso la tecnologia. Tre quinti della realtà. Il sessanta per cento.”E’ così che Jonah Lynch, sacerdote, professore e scrittore americano ci introduce ad uno dei temi più attuali e sentiti da noi ragazzi: come vivere il rappor-to con la tecno-logia nell’era di Facebook?Ora, non voglio scrivere un trat-tato sociologico sull’uso delle nuove tecnologie. Non solo perché mi annoierei a morte, ma soprattutto perché non ne sarei in grado. E’ inutile che io, che non sono uno psicologo − e non ambisco a diven-tarlo − mi metta a ripetere cose già dette centinaia e centinaia di volte. A questo ci pensano già i prof più bac-chettoni o i genitori furibondi. Siamo noi che dobbiamo giudicare quanto le nuove tecnologie possano esserci

utili. Spetta a noi stabilire se i minuti passati online sono solo una perdita di tempo, in quale misura la tecnolo-gia ci aiuta o se un rapporto virtuale con una persona è paragonabile ad uno reale. E’ ovvio che oggi le nuove

invenzioni sono diventate essen-ziali per l’uomo e ci permettono di vivere molto meglio rispet-to al passato, s b r o g l i a n d o c i l’esistenza da

mille problemi e permettendoci di avere in ogni momento un mondo va-stissimo a portata di clic. Sta però di fatto che spesso ci dimentichiamo di quanti piccoli ma meravigliosi aspetti della nostra vita non possano essere trasmessi dalla tecnologia, come il suono di una risata, il calore di chi sta aldilà della chat o il profumo dei li-moni. Il mio è un invito a farci caso. da “Tecnologia e rapporti umani nell’era di Facebook”, JL

di Francesco Poggi

«Tatto, olfatto, gusto. Tre dei cinque sensi non possono essere trasmessi attraverso la tecno-logia. Tre quinti della realtà. Il

sessanta per cento.»

IL PROFUMO DEI LIMONI

Cultura

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Ottobre 2012 | L'Oblo' sul Cortile 21

di Cleo Bissong

Ho cominciato a leggere piuttosto presto, quan-do avevo circa quattro o cinque anni, prima dell’inizio della scuola. Leggevo non solo libri, ma

anche fumetti che prendevo con mia madre quando andavamo in Brasile a trovare i miei nonni. Si, i fumetti mi sono sempre piaciuti molto, non solo per le trame, ma anche per le illu-strazioni che tentavo spesso di copia-re, non con molto successo.

Crescendo, crebbe anche la mia pas-sione per i fumetti, grazie al ritro-vamento di una raccolta del celebre autore Will Eisner. L’intero volume era composto da fumetti di una o due pagine che raccontavano episodi di vita a New York, alcuni tragici, altri comici, ma tutti realistici. Pochi anni dopo, mio padre mi regalò un libro, scritto - e disegnato - da Will Eisner, che insegnava qualche trucco sul di-segno a fumetti, servendosi a mo’ di esempio di squarci di alcune sue opere più lunghe di quelle che avevo letto in precedenza: le graphic novel.

Tale termine fu coniato da Eisner stesso in riferi-mento alla sua opera “Contratto con Dio”, diversa dalle precedenti (la celebre seria “Spirit”), perché riguardante non supereroi o per-sonaggi speciali, ma gente co-mune, riscontra-bile nella quo-tidianità.

Fino ad allora la narrazione a fumetti era considerata un passatempo per ragazzini o un modo per alleggerire con strisce umoristiche le pagine dei quotidiani; Will Eisner e Hugo Pratt - creatore di Corto Maltese - seppero dimostrare che era possibile creare e raccontare storie complesse e interes-santi anche attraverso il fumetto.

Una graphic novel piuttosto conosciu-ta, che io considero molto bella, è Maus di Art Spiegel-man. Ambientato durante la seconda guerra mondia-le, racconta la tragedia dell’Olocausto, vissuta dal padre dell’autore. L’opera – fortemente autobiogra-fica – vede tutti i personaggi rappresentati sotto forma di animali antropomorfizzati, ciascuno con un preciso si- gnificato allegorico. Ad es-empio, i personaggi ebrei sono stati disegnati come topi, i nazisti gatti (che perseguitano i topi), gli americani cani (che scac-ciano i gatti) e così via.

Un’altra graphic novel che ho molto apprezzato è “Il Grande Male”, anche questo

un racconto autobiografico, che narra dell’infanzia dell’autore, David B, vis-suta affrontando con la sua famiglia la malattia del fratello maggiore af-fetto da epilessia, ai tempi chia-mata ‘grande male’. La sua famiglia gira il mondo alla ricerca di una cura ma, rivelatosi vano ogni sforzo, len-tamente comincia ad arrendersi. La rinuncia diventa totale quando il fra-tello malato incomincia a sfruttare la malattia a proprio favore. L’autore e protagonista crescendo crea attorno a se una corazza immaginaria, per non venire affetto dall’arrendevolezza del fratello, e continuare invece a lottare per vivere, e non ‘lasciare vivere’, come pensa un giorno.

Le due opere sopra nominate hanno riscosso molto successo anche da parte della critica (Maus ha vinto il Premio Pulitzer, la più prestigisa ono-reficenza statunitense per il giorna-lismo, le lettere e la musica), ma ne esistono molte altre, che spaziano fra molti altri temi, anche più leggeri. Varie sono tratte da romanzi (come Il Trono di Spade, Coraline o Twilight), ma personalmente consiglio di legger-le prima i libri, in modo da poter im-maginare i personaggi con la propria fantasia.

DAI FUMETTI ALLE graphic NOVEL

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° I22

King Crimson - In the Court of the Crimson King (E.G./Island Re-cords, 1969)

di Edo Mazzi

Nonostante que-sto disco sia il primo album

dei King Crimson ha riscontrato da su-

bito un notevole successo, diventando in seguito uno dei più importanti esempi mondiali di Rock progressive. Il lato A inizia con la devastante chitarra di “21th Century Schizoid Man”, uno dei più famosi brani della band, ca-ratterizzato in gran parte dal suono di questo strumento accompagnato dalla batteria; l’atmosfera poi si evolve, invece, con un alternarsi di sax e tromba. Segue “I Talk to the Wind”, canzone molto più armoniosa, in cui gli stru-menti, in particolare l’organo, che riesce perfettamente a ricreare un’atmosfera ventosa, danno molto più spazio all’armoniosa voce del cantante Greg Lake.Con la conclusione di questo brano ha inizio “Epitaph”, forse la più bella canzone dell’album, con una magnifica apertura di percussioni, a cui è accostata la chitarra. Il ritmo è mantenuto dalla batteria, che spesso accompagna la voce; e infine il brano va a concludersi con un crescendo ad altissima dinamica, ponendo fine così a questa prima parte dell’album. Il lato B si apre con “Moonchild”. La canzone inizia con una chitarra lenta e armoniosa, che affianca la voce solista, e il ritmo prosegue in crescendo con l’accompagnamento di percussioni e triangoli fino ad assestarsi; la seconda parte del brano è, invece, interamente strumentale, della du-rata di circa dieci minuti, in cui, tra i suoni dello xilofono e del triangolo, affiora la chitarra di Robert Fripp. L’album si conclude con “The Court of the Crimson King”, canzone dal ritmo molto più aggressivo rispetto alla pre-cedente, ricreato dal suono della chitarra e della batte-ria; rispetto alla precedente viene dato molto più spazio anche alla voce di Greg Lake, e, inoltre, è possibile udire il favoloso flauto di Ian McDonald. Un album, quindi, davvero unico nel suo genere, e a dir poco perfetto per chiunque volesse dedicare un po’ del suo tempo a un buon ascolto di Rock progressive.

« All that we see or seem is but a dream within a dream. » (Edgar Allan Poe)

The Alan Parsons Project - Tales of Mistery and Imagi-nation (20th Cen-tury, 1976)

di Francesco Bon-zanino

Dopo essere stato tecnico del suono dei Beatles di ‘Ab-

bey Road’ e dei Pink Floyd di ‘Dark side of

the Moon’ Alan Parsons si dà alla carriera solista con un concept album dedicato a niente di meno che Edgar Allan Poe. La prima traccia, “Dream Within a Dream” è stru-mentale ed è introdotta da una semplicissima, potentis-sima, ipnotica linea di basso sulla quale si svilupperanno le due tracce seguenti; e quando, dopo l’entrata della bat-teria si introduce un surreale arpeggio rivelatore, sai che non c’è niente di meglio per un cervello, delle orecchie così avidi di musica, e una mente così affamata di cono-scenza. La lucida visione (è questa la terribile magia di Poe traslata alla perfezione in musica ds Parsons) continua in un vivido e surreale scenario : “the Raven”.Visionario, allucinato,introspettivo, schizofrenico, così come Poe e i suoi racconti. Un disco che è un peccato far rientrare a forza dentro gli stretti e angusti cassetti di un genere, gli stereotipi che accompagnano i temi affrontati, la limi-tatezza di alcune parole.Dopo l’impressionante realismo della paura e del visci-do sospetto del testo di “Tell-tale Hearth”, accompa-gnato da una funambolica parte musicale e una delirante parte vocale, viene “Cask of Amontillado”dove è note-vole l’efficacia nel rispecchiare, con la soavità del coro, l’ingenuità dell’ubriaco del racconto. Veniamo all’unica nota parzialmente negativa del disco. Il secondo lato si apre con una ricostruzione in chiave orche-strale del racconto de “ il crollo della casa Usher”. Anche qui poco da ridire e molto da ammirare tacitamente, ma i 15 minuti di questa sinfonia sembrano un po’ troppi, e troppo pomposi; trovo comunque azzeccata la scelta di omettere le parole per meglio esprimere l’inquietudine che pervade tutto il racconto. Personalmente credo che sia l’unico momento dell’album dove Parsons tende a stra-fare sotto la pressione di un mito come Poe. Chiude “to One in Paradise”, il cui testo è il migliore dell’album, tal-mente prezioso da risultare forse eccessivamente etereo e onirico per rispecchiare un racconto di Poe. Consigliato a chi crede che, lavorando sul suono con i computer al giorno d’oggi, si produca musica migliore di quando, a so-stituire la tecnologia, c’erano ingegno e creatività.

AUDIO PHILEs / %

Cultura

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Ottobre 2012 | L'Oblo' sul Cortile 23

Se sabato notte avessi fat-to un giro in Moscova, non avresti visto la solita Milano. Fra donne rigorosamente con tacchi e vestito e uomini in mocassini, avresti incon-

trato, nel centro di Milano, gruppetti di ragazzi attrezzati con scarpe da ginnastica, tuta e un nastrino rosso o blu, scivolare nella sera e riempire le strade della città. L’evento, una sorta del vecchio gioco “guardie e ladri” ri-visitato, è organizzato annualmente dal sito Critical City Upload, e com-prende come attività principale una corsa per la città, con vari check point e l’obbiettivo di non farsi prendere dagli inseguitori - pena diventare uno di loro. La notizia del gioco si dirama presto su facebook. Il ritrovo è a Villa Pizzone, le successive tappe si esten-dono per una ampia fetta di Milano: Monte stella, sottopassaggio via Colle-oni, via Corleone, scalinata via Marie Curie, corso Garibaldi, bar Picchio di via Melzo, via Paolo Sarpi. Raggiungo Villa Pizzone e mi viene spiegato il gi-oco. Gli strumenti permessi per muo-versi sono le proprie gambe e i mezzi

pubblici, gli organizzatori hanno in-oltre il buonsenso di dotarci di una cartina (inutile, ahinoi, nell’era degli iphone) e di un nastro blu da indos-sare dall’inizio, e da sostituire con quello rosso quando e se si è catturati dai chaser, i giocatori che rincorrono i runner. Al segnale di partenza, più di mille ragazzi invadono come un fiume in piena Villa Pizzone, vanno verso il passante, i più accaniti scavalcano il cancello del suddetto e si buttano sui binari pur di non essere presi dai cha-ser. Dopo che la massa si sparpa-glia - ognuno infatti decide di percor-rere le miriadi di stradine sconosciute di Milano pur di non farsi prendere - vedo un gruppo davanti a me, ci scrutiamo socchiudendo gli occhi per vedere se il nastrino sul loro braccio è rosso o blu, ma il buio ce lo impe-disce. Tiro un sospiro di sollievo, sono dei runners come me, inizio a correre, questa volta fianco a fianco ai miei nuovi compagni. Se pensavi di potere stare con i tuoi amici dall’inizio alla fine del gioco, ti sbagliavi di grosso: viaggio al termine della notte è fatto per correre, e non tutti hanno gli stes-

si ritmi; inoltre al momento di un at-tacco dei chaser non hai la possibilità di sce-gliere con chi scappare: devi seguire l’istinto. Dei perfetti scon-osciuti possono diventare fedeli com-pagni nella corsa. Il bello dell’evento è proprio la possibilità di conoscere nuove persone e di percorre strade di Milano delle quali nemmeno immagi-navi l’esistenza. L’unica pecca sono le prove – un po’ patetiche - da affron-tare ai check point per passare alla tappa successiva: danze della pioggia, prove d’abilità, flessioni. Correre da Bovisa a Porta venezia richiede fatica, ma una fatica di quelle che alla fine del percorso, sia che tu sia arrivato da runner che da chaser, provoca un grande senso di appagamento; se vuoi passare un sabato sera diverso dagli al-tri e vedere le facce sbigottite dei pas-santi alla vista di ragazzi che fuggono da altri ragazzi, se vuoi invadere le strade di Milano e sentire per una sera di conoscere perfettamente chiun- que ti scruti con sospetto, perché ac-cumunati dallo stesso segreto di una notte, àrmati di scarpe da ginnastica e inizia a correre.

di Giada Fanti

VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° I24

Direzione Kastro, per sen-tieri lastricati che si sno-dano tra l’oro delle col-line, il nero delle vigne e il blu ininterrotto di mare e cielo terso; la Spuma del

mare, una Venere capricciosa e troppo bella, piange il tuo amore che non le sai più dare. Piange la parola che non le sai più dire. Ma a te nulla nemmeno i suoi seni bagnati sotto uno spicchio di luna; nemmeno le sue ciglia imper-late di lacrime, o le sue fughe tra i cipressi ombrosi e i gradini bianchi di un cimitero. Implora – Eden che cola a picco sul mare – il sorriso. La tua chi-tarra e la tua sabbia suonano solo per il vento, ormai; nei tuoi occhi accogli solo stelle e mare. Cerchi il senso della tua vita, e il dolce sonno, nella salsedine della schiena, nelle barche verniciate a nuovo del porticciolo, nell’ombra delle tamerici, o forse nello stesso viaggio: il bel viaggio.Nausicaa fugge nel cimitero, tra le bianche lapidi dove nemmeno le ci-cale osano il canto. Ha il vestito della bisnonna viennese, una schiena liscia. Al mattino è sirena, scompare. Poi ritorna, occhi come un cielo greco

senza nubi, con le sue conchiglie. E ti riscopre.O tu, che sei sì triste ed hai presagi d’orrore - Ulisse al declino -, nessuna, (nessuna!) dentro l’anima tua dolcez-za aduna, la Brama, per una pallida sognatrice di naufragi che t’ama?Non rimarrai, Odisseo. Non puoi.A nulla valsero le sue conchiglie, i suoi giochi. Era il destino.Madre, madre, non voglio più bere vino né più toccare pane: stanotte ho visto il mio amato svanire come un pensiero.Cosa specchiano i tuoi occhi, Arianna? Sii bianca come queste case, profu-mata come la liquirizia, sincera come queste pietre faticate da uomini. Piangi lacrime da bambina! Piangile sotto la scogliera che crolla e muore, sotto i sugheri nodosi, tra i relitti del mare. Il tuo Teseo non tornerà.La sacerdotessa di Afrodite accende le candele nelle chiesette bianche del piccolo cimitero, una ad una, lenta-mente. Porta l’olio per la lampada con piedi alati. Nella sottile linea d’ombra, tutto tace. Il cancello di fer-ro battuto segna il confine del ricor-do di pace, una zona franca, dove il

tempo non scorre più e la carezza del Meltemi non giunge a disperdere gli amori. Nell’ombra dei cipressi e nel candore delle lapidi, sostano anche le scure braccia del greco naviga-tore di pensieri, ricciuto viaggiatore – Odisseo. Quelle braccia avrebbero conservato l’inafferrabilità di una via Lattea, il tocco leggero e nascosto nel silenzio della notte, delle onde del mare e del granello di sabbia, dietro le chiome di lei.Lì ci fermammo e riposammo. Lì trovammo acqua e frescura, nuova vita, e i nomi di chi solcò quel mare infecondo, arò quelle terre, costruì quelle case modeste e le imbiancò, incisi per l’eterno. Nessuno osava pa-rola. Né più bramava cibo, sonno, o lacrime: nella quiete di quel muro a mezzogiorno si svelarono la dignità e la pietosa insania che guida gli umani alle celesti corrispondenze d’amorosi sensi.Tacemmo a lungo. Un “αντίο” com-mosso, e partimmo per nuove rotte e nuovi mondi.E ora so i sepolcri imbiancati. Ora so i cipressi, la pace - il silenzio.

di Eleonora Sacco

MELTEMI

Cultura / i racconti

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Ottobre 2012 | L'Oblo' sul Cortile 25

IL GALLO CHE SALVO’ ROMA. #1

Estate dell’anno 222 a.C. I consoli Marcello e Scipione avanzano nella Gallia Cisal-pina.Il corridoio era buio e lui era solo. Avanzava incerto,

passo dopo passo tenendo la mano appoggiata al muro per evitare di cadere. L’unico rumore che sentiva era l’eco dei propri passi. Con un sus-sulto, si accorse di una luce in fondo al corridoio: sembrava scaturire dalla serratura di una porta. Ancora più incerto, proseguì, aprì la porta e…si svegliò. Era appena sorto il sole e il tepore dell’alba gli scaldava il volto. Il sogno gli era rimasto ben impresso nella memoria e lo aveva lasciato molto turbato: da molti anni era solito sognare di percorrere un corridoio al buio, ma mai aveva trovato un’uscita o della luce che gli illuminasse il cam-mino. Scosso, si alzò e si stiracchiò. Oltre la parete, il fornaio sistemava il negozio in attesa di clienti. Gli sarebbe piaciuto entrare e comprare del pane, ma non se lo poteva per-mettere. Era un ragazzo povero, di 16 o 17 anni, nemmeno lui lo sapeva, non conosceva il suo nome né quello di sua madre, figurarsi quello del pa-

dre. Era cresciuto ai margini della so-cietà di Milano, nella Gallia Cisalpina, capitale degli Insubri; era vissuto di elemosina e della pietà altrui, senza mai affezionarsi a nessuno, vivendo per se stesso e fugando ogni contatto. Aveva imparato a non farsi notare, a nascondersi nell’ombra e persino a ru-bare per riuscire a sopravvivere. Era evitato da tutti e creduto maledetto dagli dei a causa della sua sorte infe-lice; non che lui avesse dato qualche motivo agli altri per amarlo. L’unica persona che non odiava nel profondo era il fornaio che, pur non provando per lui vero affetto, gli aveva spesso dato cibo e vestiti caldi per l’inverno. Quella mattina, decise di fare un giro nella città per svegliarsi per bene. Si diresse verso la fontana, una delle meraviglie della capitale, per bere e osservare, rimanendo nell’ombra, la gente vivere nella normalità. La piaz-za era circolare, con la maestosa fon-tana nel centro, e diverse botteghe tutt’intorno. Sulla piazza si affacciava un imponente edificio in pietra, sem-plice e greve, in cui i magistrati mag-giori si riunivano. Dato che la piazza era ancora semideserta, pensò di sca-

lare la costruzione: se avesse avuto un po’ di fortuna, avrebbe potuto ascol-tare i magistrati discutere tra loro, e magari anche con i potenti druidi.

Cominciò la scalata e, non senza dif-ficoltà, riuscì ad arrivare non lontano dalla finestra dove si tenevano tali consigli. Udì delle voci concitate. Riuscì ad avvicinarsi ancora un po’ e sentì parlare il magistrato supremo in questo modo: “Mi ripeto: i Romani stanno arrivando. Abbiamo poco tem-po, dobbiamo decidere se contrattac-care o scendere a patti. Ma, mi chie-do, è davvero giusto scendere a patti con questi conquistatori? Noi, fiera e forte gente gallica?”.Il ragazzo sbiancò. Non sapeva per-ché, non gliene importava nulla in fondo se Milano veniva distrutta, sac-cheggiata o sottomessa, eppure un senso di paura lo colse. “E se drogassimo i capi romani con questo potentissimo farmaco al papa-vero?” propose un vecchio druido es-traendo una piccola pergamena dalla tunica.

“Mai, venerando: noi affronteremo il nemico con onore. È evidente che ora siamo stanchi. Rinvio la discussione a questo pomeriggio,” sentenziò il ma-gistrato supremo.Dopo che tutti se ne furono andati, il ragazzo si intrufolò nella stanza e, non essendovi nient’altro di valore, si impossessò della pergamena che il druido aveva dimenticato sul suo scranno. Poi, stringendola fra le dita, fuggì.

Tornò dal suo panettiere per prendere da mangiare, e nel tragitto pensò mol-to. “Prima il sogno e adesso i Romani… È meglio che cominci a cercare delle armi per difendermi. La luce in fondo al corridoio… Forse è finita la mia sof-ferenza? Sto forse per morire? O tutto sta per cambiare?” . Un mese esatto dopo, il primo colpo di catapulta romana colpiva le mura della gallica Milano.

di Pietro Klausner

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° I26

il sudoku del demonioDeposto personalmente dal Principe delle Tenebre, ecco a voi il Sudoku del Demonio.

Senza un perché, senza un senso e forse senza nemmeno una soluzione: solo il nostro amore per il sadismo ci poteva spingere a un gesto simile. Ma la verità è un’altra: non sapevamo

come riempire questa pagina. Più deludente dei sequel di Matrix, più sfigato del terzo dei Nirvana dopo Cobain e Grohl, più insignificante del programma elettorale di Renzi, più infelice del guarda-roba di Formigoni, c’è solo il nuovo caporedattore.

i giochi

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Ottobre 2012 | L'Oblo' sul Cortile 27

La Redazione dell’Oblò...DirettriceEleonora Sacco, 5F

Capo RedattoreJacopo Malatesta, 4C

Vignette e disegniSilena Bertoncelli, 4C Francesca Bonini, 5AFederico Regonesi, 5ADavid Thiam, 3D

ImpaginazioneJacopo Malatesta, 4C

FotografieEleonora Sacco, 5F

La RedazioneSilena Bertoncelli, 4CCleo Bissong, 1BFrancesco Bonzanino, 4EMartina Brandi, 4EGaia Cantone, 1DEleonora Catellani, 1DAlessandra Ceraudo, 4BChiara Conselvan, 4EFrancesca Grassi, 1DJacopo Malatesta, 4CEdo Mazzi, 4EMarta Piseri, 1DCarlo Polvara, 4BFederico Regonesi, 5DBeatrice Sacco, 2DEleonora Sacco, 5FClaudia Sangalli, 4DCarlo Simone, 5DAlessandra Venezia, 3BDario Zaramella, 5A

Collaboratori esterniGiada Fanti, 5ERiccardo Galbiati, 5HDaniele Gagliano, 5FMorgana Grancia, 5EPietro Klausner, 4EFrancesco Poggi, 3Dprof. Giovanni SpontonAnna Vaccari, 3B

Docente responsabileGiorgio Giovannetti

La redazione è aperta a tutti! Si riunisce un mercoledì ogni 2 sett. alle 13.10 in 1D, piano terra. Vi aspettiamo!

i giochi

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° I