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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVIII • Febbraio 2014 • n. 2 SOMMARIO Enrico Berti - Le parole del corpo umano di Giancarlo Cerasoli Paolo Gagliardi - Al röb al cambia di Paolo Borghi E’ tira e’ vent, nench e’ vincion di Loretta Olivucci Pezpan: un toponimo fra storia, ipotesi e dubbi di Pietro Barberini Al féri ad Sisto di Nevio Semprini Illustrazione di Giuliano Giuliani Le figure magiche nelle fiabe popolari romagnole: III - Il follet- to (parte seconda) di Cristina Perugia Parole in controluce: ducé, dumè Rubrica di Addis Sante Meleti Dolfo Nardini: un poeta cesenate da tenere in stretta considerazione di Maurizio Balestra I scriv a la Ludla La fugarena di Magnon di Eugenio Fusignani Garavél Enrico Banzola - ‘Na scola ‘d lus di Paolo Borghi p. 2 p. 4 p. 6 p. 7 p. 8 p. 10 p. 11 p. 12 p. 13 p. 14 p. 15 p. 16 La Schürr, a partire da quest’anno, ha istituito un riconoscimento - denominato L’Argaþa d’Arþent - da conferire a quei romagnoli che hanno contribuito con il loro impegno a divulgare il dialetto nei più svariati ambiti culturali. La prima targa dell’Argaþa d’Arþent è stata assegnata al poeta forlivese Arrigo Casamurata. La consegna è avvenuta, durante una semplice ma sentita cerimonia, la sera dello scorso primo febbraio presso l’Agritu- rismo Fattoria La Quercia di Bertinoro. Arrigo Casamurata fin da giovane si è dilettato nel comporre poesie in romagnolo, privilegiando i contenuti faceto-satirici senza tuttavia tra- scurare i temi lirici e sociali. Gran parte della sua ispirazione prende corpo nella forma del sonetto: una struttura metrica che egli ama par- ticolarmente e nella quale è diventato un vero maestro. Ad oggi sono poco meno di duemila i sonetti usciti dalla sua penna, molti dei quali hanno avuto premi e segnalazioni nei concorsi ai quali l’autore ha par- tecipato. Una scelta dei suoi lavori si può trovare nella raccolta Senza pil int la lengva edito a Forlì nel 2008. Il libro è corredato da illustrazioni del- l’autore stesso, noto anche come valente acquarellista. L’Argaþa d’Arþent Febbraio 2014 Bertinoro, 1 febbraio. La vicepresidente della Schürr, Carla Fabbri, consegna l’Argaþa d’Arþent ad Arrigo Casamurata.

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVIII • Febbraio 2014 • n. 2

SOMMARIO

Enrico Berti - Le parole del corpoumanodi Giancarlo Cerasoli

Paolo Gagliardi - Al röb al cambiadi Paolo Borghi

E’ tira e’ vent, nench e’ vinciondi Loretta Olivucci

Pezpan: un toponimo fra storia,ipotesi e dubbidi Pietro Barberini

Al féri ad Sistodi Nevio SempriniIllustrazione di Giuliano Giuliani

Le figure magiche nelle fiabepopolari romagnole: III - Il follet-to (parte seconda)di Cristina Perugia

Parole in controluce: ducé, dumèRubrica di Addis Sante Meleti

Dolfo Nardini: un poeta cesenateda tenere in stretta considerazionedi Maurizio Balestra

I scriv a la Ludla

La fugarena di Magnondi Eugenio Fusignani

Garavél

Enrico Banzola - ‘Na scola ‘d lusdi Paolo Borghi

p. 2

p. 4

p. 6

p. 7

p. 8

p. 10

p. 11

p. 12

p. 13

p. 14

p. 15

p. 16

La Schürr, a partire da quest’anno, ha istituito un riconoscimento -denominato L’Argaþa d’Arþent - da conferire a quei romagnoli chehanno contribuito con il loro impegno a divulgare il dialetto nei piùsvariati ambiti culturali. La prima targa dell’Argaþa d’Arþent è stata assegnata al poeta forliveseArrigo Casamurata. La consegna è avvenuta, durante una semplice masentita cerimonia, la sera dello scorso primo febbraio presso l’Agritu-rismo Fattoria La Quercia di Bertinoro.Arrigo Casamurata fin da giovane si è dilettato nel comporre poesie inromagnolo, privilegiando i contenuti faceto-satirici senza tuttavia tra-scurare i temi lirici e sociali. Gran parte della sua ispirazione prendecorpo nella forma del sonetto: una struttura metrica che egli ama par-ticolarmente e nella quale è diventato un vero maestro. Ad oggi sonopoco meno di duemila i sonetti usciti dalla sua penna, molti dei qualihanno avuto premi e segnalazioni nei concorsi ai quali l’autore ha par-tecipato.Una scelta dei suoi lavori si può trovare nella raccolta Senza pil int lalengva edito a Forlì nel 2008. Il libro è corredato da illustrazioni del-l’autore stesso, noto anche come valente acquarellista.

L’Argaþa d’Arþent

Febbraio 2014

Bertinoro, 1 febbraio. La vicepresidente della Schürr, Carla Fabbri, consegna l’Argaþa d’Arþent ad Arrigo Casamurata.

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la Ludla2 Febbraio 2014

Esiste un “gergo” dei malati e delle malattie? Mi sono posto questa domanda quando Enrico Berti miha portato il dattiloscritto che sarebbe poi diventato ilsuo nuovo libro: Le parole del corpo umano. Viaggio nei ter-mini dialettali della medicina popolare di Romagna, pubbli-cato a Cesena dalla Società Editrice Il Ponte Vecchio.Conoscevo i gerghi “furbeschi” dei canapini e dei mura-tori di Romagna e molte delle parole trascritte ed esami-nate da Berti hanno qualcosa in comune con questi.Esse nascono dall’esperienza concreta che unisce tutto ilgruppo dei malati, ovvero dal “vissuto di malattia”, dalsentirsi e percepirsi non più in salute. Fanno parte di unlinguaggio diverso dalla normale lingua parlata, perchésono declinati in dialetto, ma, al contrario dei gerghi“furbeschi”, non sono fatti per nascondere ma per farmeglio comprendere come ci si sentiva. Sono parole con-cretissime, capaci di svelare immediatamente il lorosignificato. Per comprenderle bene però bisogna calarsidentro il tempo e le condizioni oggettive nelle qualisono state coniate. Non è una impresa facile, ma Berti ciaiuta trascrivendo per noi le definizioni presenti neivocabolari e, spesso, fornendo proprie illuminanti inter-pretazioni. L’autore, nei suoi oltre trent’anni di carriera come otori-nolaringoiatra, si è fatto affascinare da queste parole: neè stato dapprima colpito e poi travolto. Il suo interesseoriginario si è ben presto trasformato in un’ardente pas-sione che l’ha fatto andare alla ricerca dei termini dialet-tali che riguardano il corpo umano e gli stati concernen-ti la salute e le malattie interrogando migliaia di persone,dai pazienti ai glottologi, e prendendo in esame centina-ia di pubblicazioni: vocabolari, dizionari, atlanti linguisti-ci, racconti, fiabe, poesie, proverbi, fino ai libri di cucina.Berti in tutti questi anni ha costruito, pazientemente,tenacemente, sapientemente una vera e propria enciclo-pedia fatta di centinaia di lemmi nel dialetto di granparte della Romagna: da Modigliana fino a Cattolica. Ilrisultato delle sue fatiche è tutto in questo libro pondero-so (296 pagine) dove la grande mole di materiale lingui-stico selezionato è stata sapientemente organizzata perconsentirne una più agevole lettura suddividendola indue raggruppamenti: uno di ordine generale e uno piùspecifico. Nella parte generale sono presentati i terminiche riguardano: lo stato di salute e i modi per mantener-lo, lo stato di malattia e il malato e il suo aspetto esterio-re, gli esercenti le arti della salute, i presidi terapeutici, lafisionomia generale dell’individuo e le varie età dellavita. La seconda parte è divisa in diciotto capitoli che siriferiscono a parti o apparati anatomici con le loro pato-logie, compresi il sangue, la riproduzione e le malattieinfettive e parassitarie. L’ultimo capitolo riguarda lamagia, la stregoneria e le credenze popolari. Quest’organizzazione riprende in larga parte quella cheGiuseppe Pitrè diede alla sua Medicina popolare siciliana,edita per la prima volta nel 1896, e la rigorosa attenzionecon la quale Berti considera la lingua è la stessa del gran-de medico e folklorista siciliano che, a proposito dellesue ricerche, così scriveva:

«Dei fatti anatomici, o fisiologici, o patologici più impor-tanti nella tradizione ho dato sempre il nome dialettalesiciliano o speciale di qualche parlata dell’isola. Queifatti io li ho illustrati con modi di dire, proverbî, motti,formole e con ciò che concorre a render chiaro il pensie-ro del popolo circa i fatti medesimi. Niente è superfluoin questo campo, e niente va trascurato che lumeggi iltema da trattarsi. Una frase spesso ripetuta senza scopo orimasta senza significato, è documento vivo di un’usanza,di un avvenimento passato senza ricordo. Il ricordo è lafrase stessa, reliquia della vita fisica e morale nella quale

Enrico Berti

Le parole del corpo

umano

di Giancarlo Cerasoli

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la Ludla 3Febbraio 2014

nacque ed alla quale partecipò. Que-ste frasi, dalle apparenze modeste,anche troppo modeste, son molte,quante potevano, quante possonofarne nascere le occasioni, i bisogni,le speranze, le passioni della vita:povere frasi, non di rado destinate alpoco invidiabile ufficio di scherzo, difreddura, di fatuità»1.

Le centinaia di parole con le quali ècostruito il libro di Enrico Berti sonoveramente vive «reliquie», capaci diricordarci qualcosa delle condizionidi vita «fisica e morale» nelle qualiesse nacquero e alle quali esse parte-ciparono. Molte di esse sopravvivonoancora; alcune si sono trasformateper rendersi più affini all’italiano2 ealtre si sono rimpastate in modi didire che si usano soprattutto per evi-denziare situazioni fuori dell’usuale3.Leggiamole con attenzione perchémolte di loro sapranno farci ricorda-re momenti e situazioni della nostravita, permettendoci di comprenderemeglio quanto sia inestimabile ilnostro «patrimonio folklorico».

Note

1. G. Pitrè, Medicina popolare sicilia-na, Firenze, Barbèra, 1949, pp. XIV-XV.2. Questa loro mutazione è ben evi-dente nello straordinario libro diMaria Valeria Miniati, Italiano diRomagna. Storia di usi e parole, Bolo-gna, CLUEB, 2010.3. Molti di questi modi di dire sonostati raccolti e pubblicati anche sullepagine di questa rivista e nei libriediti in questi ultimi anni da AlbertoCacciari, Silvio Lombardi, ErmannoPasini, Addis Sante Meleti e MarioMaiolani.

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Dal volume di Enrico Berti riportiamo,come saggio dell’opera, i due paragrafiriguardanti la nomenclatura della pelle edelle sue macchie. Le sigle tra parentesiindicano i dizionari o i repertori sui qualisono stati riscontrati i vocaboli.

La pelle

pël, pëla; pell o pella (PM), pelle;

codga (Mo.) “cotenna, cotica, propr.vale la pelle del porco ma dicesi anche diquella dell’uomo”;la prĕma pël, “epidermide, cuticola: laparte superiore, più sottile e senza sensodella cute” (Mo.), “quell’epidermidecolla quale nascono i bambini e la qualesi secca e cade in pochi giorni da per séstessa” (Mo.);pël d’ôca o pëla birinēna (o pulas-trēna); càerna plòina (di pollo;A.G.); pel techinana (di tacchina,Ne.), “dicesi di pelle che nel momento difreddo febrile o di paura si fa ruvidacome quella dell’oca” (Mat.); “chenoder-matosi, malattia della cute che diventapiena d’innumerabili tubercoli comequella delle oche” (Mo);tra cura e’ pël, “poco addentro nellapelle, succutaneo, subcutaneo, che èimmediatamente sotto la cute” (Mo.);chêrna môrta, pelle priva di sensi-biltà;plĕdga; plézga (Q.), pelletica, pellecadente, avvizzita, floscia;rŏfia, forfora; “escremento secco biancoe sottile che si genera nella cute del caposotto i capegli o quello che producono sulviso le bollicine secche delle volatiche oempetiggini e simili” (Mo.);fè la plarèla (Q.), lo squamarsi, lospellarsi della cute;crespa, rinfĕgna; grenza (Mo.),crisparena (Mo.), ruga (Mat.), cre-spa, grinza, ruga; “crespa della pelle especialmente sul volto e sulle mani prove-niente dall’età” (Mat.);arincraspês (Mo.), arinzignês (Mo.)“rincrespare, raggrinzare, ridurre in cre-spe o grinze”; agrinzès (Pi.) “diventaregrinzoso”;cal, callo; “pelle indurita e quella carneasciutta che si genera ne’margini d’un’ul-cera e ne impedisce la cicatrizzazione”(Mo.); calusité (Mo.) “carne indurita,bianchiccia e priva di senso”;pél, pelo; “filamento conico e corneoche esce più o meno dalla pelle al cui tes-suto aderisce per via d’una borsetta mem-branacea detta bulbo, la cui cavità è ri-piena di sottilissimi filicini” (Mat.); pélmat, pél bicōch, pél vãn, lanugine,peluria degli imberbi.

Le macchie

gagia, rĕmal, rĕmul, rèmula (Q.).tlezan (G.A.Mo.), lentiggini, efelidi;

macia d lenta (Mo.), “lentiggine,lintiggine, lentiglia; macchiette fos-che simili in colore, grandezza e figu-ra a piccole lenticchie, le qualisogliono comparire altrui sulle partidel corpo esposte al sole e più dirado su quelle che sono coperte”;anche lantézni (A.G.2) e inteþni perQ. che, alla voce vida, riporta la fraseel legrimi dla vida el fa sparì gl’in-teþni, la linfa della vite potata fa scom-parire le lentiggini;(s)gagiarlê, gargiulê, gag, rimulê,lentigginoso; tliznê propriamentearrugginito, soprattutto se riferito amacchie rugginose sulle foglie, maper estensione anche “lentigginoso”;péccia (Mo.), macchia nella pelle“macchietta, macchiuzza” (Mo.); picê(Mo.), chiazzato, coperto di macchie;palastra (Mo. Mat.), “chiazza, efelide;larga macchia che viene in pelle per trop-po calore” (Mo.);macia (Mo.), “macchia sulla pelle, livi-da o rossa, con crosta o senza, di rogna,di volatica o di calore morboso”;vŏja, “voglienza “ (Mat.) “voglia, quelsegno esteriore o variamento di colorenato all’uomo in qualche parte del corponella pelle dentro l’utero della madre”(Mo.);vŏja d frêgla, d cafè, d vẽn négar, dfégat, d ciculêta, d pĕs (pellesquamosa, ittiosi), d baghẽn (chiazzecutanee pelose), d lat o d’arcöta(chiazze di pelle bianca, priva dimelanina, leucodermia, vitiligineovvero ciocche di capelli bianchi), dzriða (grosso neo rilevato e rossas-tro);ni; i (Mo. Mas.), nëjo (Mo.), nëo(Mo.), nenn (Mat.), néin (Q.), neo“piccola macchietta nericcia che nascenaturalmente sopra la pelle dell’uomosenza veruna offesa” (Mo.);ni cun e’ rĕz, neo peloso;ch’à un ni ch’un s véd, l’à una furtō-na ch’un s la créd;ptĕcia; técia (Q.), petecchia “mac-chiette rosse o nere che accompagnanoalcune malattie o che vengono in pellenelle febbri maligne” (Mo.);al vach o vachi, “incotto, vacca; que’lividori o macchie che vengono talora alledonne nelle cosce quando tengono ilfuoco sotto la gonnella in tempo di vernoo nelle gambe di coloro che, scaldandosi,le avvicinano troppo al fuoco” (Mo.).

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la Ludla4 Febbraio 2014

Da qualche tempo, con l’avvento diinternet e della sterminata platea diforum, social network e narcisismoonline che percorrono e intasano larete, ci vediamo sommersi da una pro-fusione di banalità e di luoghi comu-ni quando non assistiamo addirittura(il vaffa è ormai la norma) all’apoteo-si dell’arroganza e della trivialità con-vertite in insulto.Siamo conniventi e implicati in untempo storico e in una cultura digita-lizzata al cui interno i suoi adepti,fomentati da sensazioni effimere etuttavia accattivanti di anonimato ed’incolumità – non scevre da unacerta dose di petulante vanagloria –percepiscono come consuetudineormai suffragata l’esibizione dellamalcreanza e del superfluo.Nell’epoca odierna, in definitiva,mediocrità e irrilevanza proliferanosenza rimedio in gran parte delle argo-mentazioni e degli assunti, e tuttopare assoggettarsi a tali modelli dicomportamento condizionandoci dilà da quello che pensiamo non solonei gesti primari, ma anche nelle ten-denze più concettuali e alternative.Per quanto concerne la poesia, limi-tiamoci a considerare la moltiplicazio-ne e lo sfoggio di tutto ciò che non ènecessario, prendendo atto di come,persino quella, appaia rassegnataall’assedio dell’insignificanza. Stiamoassistendo a un proliferare del super-fluo che, manco fosse provvisto dellafacoltà di auto replicarsi, determinacol suo eccesso una sorta di ristagnoche si accatasta assillante sul lettore,annoverando come unica e discutibi-le prerogativa, quella di ostentarel’ambizione e la vanità dei presuntipoeti che l’hanno partorito e patroci-nato.Per buona sorte capita talora diimbattersi nella provvidenziale bocca-ta d’ossigeno dispensata da raccolteche accolgono al loro interno qualco-sa che le contraddistingue dalla sum-menzionata paccottiglia, un nulla ingrado di indurci alla riflessione: Al röbal cambia è una di queste.Ci troviamo di fronte a una sillogeinsieme provocatoria e toccante,afflitta e beffarda, un disilluso canzo-niere che si riparte in tre intense eben distinte strutture narrative,

improntate a una lapidarietà checaratterizza, senza ricorrere a espe-dienti epidermici, il taglio che PaoloGagliardi intende conferire al suoimpegno poetico, nell’intento di con-quistare il consenso partecipe del let-tore.La cura e lo scrupolo nel servirsi deldialetto, schivando ogni forma di faci-loneria e autocompiacimento, pun-tualizzano l’inconciliabilità di questapoesia con lo sfoggio fine a sé stessodi qualsiasi forma d’affettazione e pre-ziosismo formale.Prerogative salienti di questo libro sce-vro da contraddizioni, è la misura concui il poeta prende atto di ciò che staavvenendo all’interno di una comuni-tà disorientata, e pertanto inabile adesprimere serene valutazioni sulcumulo di carenze congenite e strut-turali, che la stanno gravando e nonda ora.Una smania d’affrancamento e diriscatto affiora dall’espressivo percor-so poetico, mediante il quale Gagliar-di si cala in questo coacervo di proble-matiche oltremodo spinose e attuali,lasciando lievitare nell’intera sillogeun’aspettativa di autentica rigenera-zione, nei riguardi di una società cheegli sogna tanto meno incline a china-re la testa, quanto più vessata.

“Las ch’i dega, t’an fëga e’ quaioun. E pu ’s’a t’venl in bisaca?” E me, tra murì d’in pi o andér aventi in þnöc, a j ò las dezidr a la mi scheina. 1

Prendendo le distanze dagli stereotipidella consuetudine e dell’astrazione,per riconoscersi negli interrogativi

imposti dalla zavorra quotidiana di unprecariato diffuso e apparentementeinsanabile, ecco che quest’ultimolavoro di Gagliardi converte il privatoin esperienza collettiva, con una mol-teplicità di contenuti tale da trascen-dere quasi i propositi stessi del poeta.Una pagina dopo l’altra il suo males-sere di isolato si fa globale, trasfor-mandosi per gradi in convinzioni einquietudini su cui non c’è concessofingere ignoranza, scetticismo e tantomeno disinteresse: oramai concluse leesequie della classe contadina e abuon punto con quelle della classeoperaia, siamo condotti ad assistere,inermi, alle manovre volte ad affossa-re anche il ceto sociale intermedio.

U j è sté di dèche i mi fiul i m’dgéva:“a t’arcùldat,quand ch’a simi sgnur…” 2

Il mandato di cui l’autore investe lapoesia di Al röb al cambia, è quello direndere esplicita la sua battaglia per-sonale – quasi un corpo a corpo – conle traversie dell’esistenza, specchio diun’istintiva ricusa ad assoggettarsi allecircostanze in modo remissivo. Perquesta ragione, una volta elaborato iltrauma, il poeta non può che accetta-re il confronto e le sue parole si allar-gano, convertendo da lotta interiore astrumento di analisi, nell’assillo di farluce sul contenuto in ombra del pro-prio avvenire.Delineando la trama di un’indagineautentica e oggettiva, ma in nessuncaso soggetta a comportamenti inclinial disinganno e allo sconforto,Gagliardi è del tutto conscio di quelloche scrive, anche quando il contenuto

Paolo Gagliardi

Al röb al cambia

di Paolo Borghi

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la Ludla 5Febbraio 2014

del discorso accenna a farsi più lieve,stemperandosi in un sarcasmo amaroe pur tuttavia in grado di metabolizza-re contrarietà e amarezza.

“Staðì tranquel – i s’dgè –adës la putrà sól andé mej”Bëla fórza, peþ d’acsè! 3

Inseguendo l’autore all’interno dellesue poesie, in ogni passo della raccol-ta ci accomuniamo all’esternarsi diuno stato d’animo, o meglio di unapresa di coscienza, che la dice lungasull’uomo e su come giungano adessere traumatiche situazioni pari aquella di ritrovarsi da un momentoall’altro allo sbando, senza occupazio-ne, defraudato dei mezzi che consen-tono di fare assegnamento su undomani anzitutto degno.

A j ò pérs e’ count dal vólt,che coma dj étar crest,a m’so ’rtruvé sot’a sta cróð.L’è gueinta una via crucis,par qui dla mi eté,fé séra a cuntér agli ór,þùvan par la pinsioune vec par un lavór. 4

In un avvicendarsi di pagine assorte escomode, che si sperimentano fino alnucleo di questioni quanto mai con-crete, il tempo di Gagliardi prende afranare in un inverno immemore, unciclo che non sembra più in grado disalvaguardare il reiterarsi delle stagio-ni, e si tratta di una consapevolezzache lo fa ineluttabilmente complicedelle difficoltà altrui, lo pervade di unsenso di solidarietà tale da affratellar-lo ai clandestini che scompaiono nelCanale di Sicilia, perseguendo utopi-stici sogni di affrancamento da tuttequelle condizioni di arbitrio, prevari-cazione e indigenza cui stanno cercan-do scampo...[...]

L’è sté che dèch’u s’n’anghè piò d’stantaprema d’arivé d’có. I dið che quand ch’i jj à truvé e’ paréva d’tiré so di toun. 5

... per rinvenirsi a fare i conti con iproblemi d’integrazione all’interno diuna società come quella odierna, in

preda ad una crisi pressoché generaliz-zata e di conseguenza ben poco incli-ne a unanimi forme di sostegno, neiconfronti di tutti coloro che con lafame e il bisogno vantano ereditarieconsuetudini.

Quand che la fem la dið dabount’ci spöst nench a fét tratécoma un animél.U s’fa prëst a dì “turnìv a ca!” 6

In un succedersi di toni in cui consi-stono ombra e luce, prostrazione eansia di riscatto, l’autore si svela com-piutamente pervaso da quelli chesono gli assunti di questa sua ultimaincombenza poetica, e nel comporreil quadro appare determinato a misu-rarsi con ogni singola parola, nel ten-tativo di convertire sé stesso e le suevicissitudini in proiezione di un disa-gio collettivo, maschera, portavoce edemblema di un oggi che lo coinvolgee ci coinvolge in percorsi ingrati, deiquali non si avvertiva l’urgenza.

L’è sté oun d’quich’i s’fa seinza bigliete seinza incioun da chent.A j ò incóra adöstot i segn d’che viaþ. 7

Dai suoi versi, che pure non sollecita-no risposte a tutta una catena d’inter-rogativi affatto deducibili e tuttaviainespressi, si evidenzia la globalità diuna crisi al cui interno scorre un gro-

viglio di tensioni sociali e avversità,sottratte alla cronaca e avocate a sédal poeta, in una sintesi personaledi nemesi intrinseca a lui stesso epreambolo della sua conseguenterinascita.[...]L’avéva raðoun Lino a dì che vìvar l’è fadiga, mo u n’t’s-cienta sól al spal, u t’ruba nench i sogn. 8

E attrae l’immagine che possa essereproprio il concetto di questa rigenera-zione-palingenesi che, a chiusura diInciöstar, fa asserire a Gagliardi: A sogueint quel ch’a scriv 9, visto che deve ancora nascere il poetaaffrancato da simile metamorfosi.

Traduzioni

1. Lascia che dicano. “Lascia che dicano,\ non fare lo stupido. \ E poi cosa ci gua-dagni?” \ Ed io, tra morire in piedi\ oandare avanti in ginocchio, \ ho lasciatodecidere alla mia schiena.2. Eravamo. Ci sono stati giorni \ in cuii miei figli mi dicevano:\ “ti ricordi,\quando eravamo ricchi…”3. Ci dissero. “State tranquilli – ci disse-ro –\ ora potrà solo andare meglio”\Bella forza, peggio di così!4. Via crucis. Ho perso il conto dellevolte,\ che come altri cristi,\ mi sonoritrovato sotto questa croce.\ È diventatauna via crucis,\ per quelli della mia età,\far sera a contare le ore,\ giovani per lapensione \ e vecchi per un lavoro.5. da Dei tonni. [...] È successo quelgiorno \ che ne annegarono più di set-tanta \ prima di arrivare in fondo.\Dicono che quando li han trovati \ sem-brava di tirar su dei tonni.6. Se dice sul serio. Quando la fame dicesul serio \ sei disposto anche a farti trat-tare \ come un animale.\ Si fa presto adire “tornate a casa!”7. Segni. È stato uno di quelli \ che sifanno senza biglietto \ e senza nessunoaccanto.\ Porto ancora addosso \ tutti isegni di quel viaggio8. da Vivere. [...] Aveva ragione Lino(Guerra)\ a dire che vivere è fatica, \ manon ti rompe solo le spalle, \ ti rubaanche i sogni.9. da Inciöstar. Sono diventato quelloche scrivo.

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la Ludla6 Febbraio 2014

Leggendo l’articolo “Torna a soffiarela curéna” sullo scorso numero de “LaLudla”, mi sono venuti in mente ricor-di e considerazioni sul vento che mipiace condividere con i lettori dellarivista.“U n è fred s’u n è ad vent, u n è mêl s’ un è ad dent” e’ dgéva la mi suocera cvândch’e’ tiréva che vent giazê ch’ u s’infilévaint agli ös e, se l’éra pröpi un vent fôrt, uncvicadon e’ dgéva nenca: “E’ tira e’ vent,nench e’ vincion”.Molti sono i proverbi, i modi di dire,le favole, i racconti e anche parti dicante romagnole in cui si parla delvento. Tot i sa che “e’ tira la curena cun e’fiasch ad drida a la schena” alludendo alfatto che dopo tre giorni di “corina” ingenere piove; c’è però anche un altrovecchio modo di dire leggermentediverso “la curena l’è un’amiga che un belpô la t’aiuta e dal vôlt la t’ castiga” oppu-re “la curena la meða o la ðmeða” perchéquesto vento a volte è troppo violentoe apportatore di eccessivo maltempo,altre volte permette al fieno di seccare,al grano di maturare…Da Cervia fino al riminese questovento viene chiamato e’ garben (ilvento del Magreb) e, quando una per-sona è innervosita o si spazientiscecon poco, si sente dire: “ét e’ garben?”alludendo all’influenza che ha il ventosull’umore delle persone e a volteanche sulla salute, non per niente achi si ammala facilmente dicevano: “uj dà dân e’ vent de’ dvanadur”.E pu u j è la bura, vento freddo che sof-fia da nord-est e cvând e’ tira la bura, lamëþalâna la t’ fa tirê fura” o “la bura lat’ taja i pen adös” altrimenti “la bura tridè la dura”. Infatti la pioggia della boradura tre giorni, alla sera del terzo gior-no l’arluð e’ sól. Se invece la bora si alzaverso mezzogiorno, presagisce tempobuono. E’ buret l’è una specie ad burach’la tira d’istê e la pôrta e’ bon temp, cosìcome e’ sarnêr (maestrale) che, standoal nome, dovrebbe portare il sereno,ma il nord - ovest da cui soffia questovento, è anche e’ mêl canton e “e’ sarnérl’è e’ bab dla név” o “se e’ tira e’ sarnér e’fa crichê e’ sulér”.Un vent che e’ fa cambiê e’ temp in prisial’è e’ sciröch che “e’ cambia paré da e’ dè ala nöt” e “e’ sciröch de’ cânt dla matenal’impines la sculena, e’ sciröch de’ cânt dlaséra e’ s-cêra la véla”.

Cvând ch’l’è sren, int e’ stes dè e’ tira e’ sci-röch che e’ ven da e’ mêr, cioè la brezzamarina e e’ vindðen che spira da ovest,detto anche vento di terra o brezza ter-restre. Il nostro Antonio Sbrighi(Tunaci) chiama questo vento (cioè e’sciröch) “l’amigh di lavuradur” perchécominciava a spirare sulle dieci e illavoro sarebbe diventato duro in cam-pagna a quell’ora se non ci fosse statoun po’ di refrigerio dovuto al vento.Era altresì credenza popolare che ilvento che tirava il Sabato Santo, quan-do si slegavano le campane, tirassetutto l’anno, altri dicevano che era ilvento che spira la notte di Natale a sof-fiare per tutto l’anno; Libero Ercolani,nel suo vocabolario, scrive che il ventoche spirava a mezzanotte delle “quat-tro tempora” avrebbe dominato pertre mesi.Grande è dunque l’attenzione che, inun passato non troppo lontano, le per-sone dedicavano a “studiare” il ventoper indovinare il tempo meteorologi-co e quindi regolarsi di conseguenzasui lavori da fare nei campi e non solo:in genere non si travasa il vino quan-do tira vento, soprattutto la curena (os’l’è lóna cativa) perché il vino inacidivao e’ dvintéva trovd.La parola “vento” inoltre è usata anche

in senso lato: “l’è cambiê e’ vent” signifi-ca che è cambiata la situazione, il regi-me politico, che quello che prima erafavorevole, adesso non lo è più. Se e’tira un brot vent significa che le cosevanno male, inveci se t’é e’ vent int e’ culle cose vanno bene, hai fortuna.Il sopra-vento è un termine che derivadal gergo della marina militare altempo della vela e la flotta che si trova-va col vento a favore (il sopra-vento),aveva mezza vittoria in tasca; è un po’come dire “spiegare le vele al vento”.Sottovento significa dalla parte oppo-sta del vento; gli animali cacciano sot-tovento; nel “Dizionario della linguaitaliana” del Devoto Oli, al termine“sottoventare” trovo scritto: “Nel lin-guaggio marinaresco di nave che dirigela rotta in modo da passare sottoventodi un punto o di un oggetto di riferi-mento; anche, disporre la nave inmodo da togliere il vento a un’altranave”.Fra i modi di dire, alcuni dei più cono-sciuti sono: “parlare al vento” chesignifica parlare inutilmente, “gridareai quattro venti” cioè urlare forte odire una cosa a tutti, chi va veloce sipuò sentir dire che “corre come ilvento”. Se qualcuno fa qualcosa dimale e ne riceve ancora di più o, per

E’ tira e’ vent,

nench e’ vincion

di Loretta Olivucci

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la Ludla 7Febbraio 2014

dirla in altri termini, viene ripagatocon la stessa moneta, gli si può tran-quillamente dire “Chi semina vento,raccoglie tempesta”.Me a m’arcôrd, che cvând ch’ a séra unaburdëla, a jò let un racont che e’ spiega par-chè e’ vent e’ fes-cia e e’ pê ch’ u s lamen-ta, miga e’ “venticello d’autunno” chestacca “dai rami le foglie appassite delgelso…”.

Donca… u jéra e’ vent ch’ l’avéva mêl ai pi e u-s farmè da e’ calzulêr a fes spianêal schêrp. E’ calzulêr u gli spianè e e’vent u i dgè che l’andéva a pruvê se agliandéva ben, mo u-n turnè piò indrì. E’pasè e’ temp e e’ vent l’avéva bðogn d’ar-nôv ad maðês al schêrp e e’ turnê da e’calzulêr, mo lo, che u l’avéva cnunsù, e’mitè un ciôd int la schêrpa che e’ daðévafura un bël pô e pu u j aðvarsê una bëla

steða ad cöla. Cvând che e’ vent e’ turnè,e’ ripetè la stesa stôria: “A végh a pruvèal schêrp e pu a tóran a paghêt”. Mocvând che e’ fo fura, la schêrpa la cmin-zè a fej mêl, mo mêl…Da alóra e’ vent u-s lamenta int al pôrt eint al finëstar dal ca: e’ zerca e’ calzulêrpar fês cavê la schêrpa e arbàtar e’ ciôd,mo u n’è trôva piò parchè e’ calzulêr u narves piò la pôrta a i cativ client.

In un documento del 1262, si legge:“…Ecclesiam Santi Egidi de Battipagliasitum in plebatu Santi Mariae in Furcu-lo…”. Nell’anno 1264: “Plebe S.M. inFurculis fund. Batipalea…”. Alla finedella dominazione veneziana, 1509:“Alamonis Via Pamcipanis”, per diventa-re nel XVIII Sec.: “Piangipanis”. «Più felice e augurale.. “batti (pesta,trebbia) pane!” e non paglia! No.pr.più o meno simili sono anche in TSR(III, 559): Pinza-pane, e in C. IM.,(734) Pistalente, Piza-cise (pesta lentic-chie, pesta ceci). Ma non è certo: per-ché il romg. Pezpã, non ha nasalizzazio-ne della prima sill., né dittongo ed ècon -z- (sorda)». Così scrive alla vocePiangipane Antonio Polloni in “Topo-nomastica Romagnola”, Olschki,Firenze, 1966.Il Polloni fa una bella riflessione sultermine romagnolo “Pezpân”, e cosìprosegue: «Sibbene plange + panem (batti, treb-bia pane), doveva cadere facilm. nellasemantica, più ovvia e popolare: “pian-gi” (< plange) “rimpiangi + il pane”,come dimostra la grafia PIANGI-PANE.Cosa strana, per una zona che fu però,ed è, tra le più feraci dell’agro ravenna-te, “rimpiangere o compiangerepane”. Invero la pronuncia ravennaterisente, meglio, di altri incontri: peres.; pinza di pane; pizza di pane ecc.; [echissà: pesa del pane?]. Come pure diun *pinge-panem [da pingo ‹ pango; v.expingo, impingo], ital. spingo, conaltern. a/i, da pango, pangere (piantare,premere); pinge + panem, (premi, gra-mola, pane?)». Nonostante i lodevoli e argomentati“sforzi”, l’origine del toponimo èincerta e controversa.

Il luogo è identificato in due precisipunti già nel XIII sec.: la pieve diSanta Maria in “Furcolo” indicatasulle mappe più antiche dove apparecome “Forcolo” e un fondo “Battipa-glia” nei pressi dell’ecclesia di San-t’Egidio.Via Sant’Egidio va dalla Reale (S.S. 16Adriatica) alla via Canala, fra Camer-lona e Piangipane. L’ecclesia forsediede il nome alle valli che si stendeva-no fra Piangipane e Ravenna fino ametà del XIX sec.Era in quest’ultima località che si batte-va il grano con il correggiato, la zercia?La pratica separava la spiga dallo stelo,la paglia; in quelle terre, la coltivazio-ne del frumento era diffusa ancorprima dell’arrivo dei veneziani che laincentivarono.Resta da scoprire come si passa dallapaglia al pane!Qualcuno parla di Ferculis come picco-li “piadotti” distribuiti ai fedeli in unasorta di eucarestia, così Pez Pan.Cercando altre coincidenze si puòprendere in esame la paretimologiapopolaresca e dialettale, che traduce inotarili Plamzi Pane e Plateum Panis in‘Piangipane’.Il pezzo di pane diventava salarioaggiuntivo per lavoratori giornalieri in

quelle campagne appoderate, fra lavia Galassa e la Braccesca, toponimiche riconducono a grandi unità pode-rali di proprietà di ricche famiglie bor-ghesi e nobiliari.Alla fine dell’Ottocento il paese èdiventato “lungo” con almeno tre bor-ghi allineati su quella via che potevaanche “piangere” la mancanza delpane e del lavoro, binomio fondamen-tale sulla strada dell’emancipazionepolitica e sociale.Guidati dal dialetto esitiamo scettici,come facevo da bambino quando miopadre diceva di un tale: “E’ sta a Pez-pân”, ma il cartello stradale indicava:“Piangipane 5”: stavamo andando aGodo, mi correggo “al Godo” (a e’God).Non sarà stato ostico tradurre in dia-letto il settecentesco “Piangipanis” in“Pianz e’ pan ”? Forse, anche perché lanostra parlata ha bisogno della rapidi-tà di due sillabe come in “Pez pan”.Aggiungo la fatica che fa il dialettoromagnolo a tradurre le emozioni e isentimenti. La differenza fra lo scritto Piangipane eil parlato Pez d’pan, come diceva miopadre, resta ancora misteriosa e stuzzi-cante, anche a distanza di cinquan-t’anni.

Pezpân: un toponimo fra storia,

ipotesi e dubbi

di Pietro Barberini

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la Ludla8 Febbraio 2014

– Udour dòlz e gris, l’è l’udour dl’Africa,nira e lusènta cumè agl’òndi de mèr adnòta e cumè al gambi dla mi Gioia –Sisto e’ zcòr da par sé te capanounsvóit. Se dóid dla mèna bòna e’ carèzai scanél de lègn lavurèd da artésta. Sachi ócc znin e incasìd chi va dri médóid a zirchè un difèt. Pu e’ poiga latèsta d’un chént – parfèta, sti lavour u-ttòca fèi da par té, caro Sisto – e u-s bagnae’ dóid sé speud par cavè la pòibra dai sichétt d’intaj.

Sisto e’ lavurèva da zincvènt’an té sucapanoun e, ti utmi voint, i dé ad férii-s putéva cuntè sal doidi d’una mèna.Al féri par ló l’èra dagl’òri svóiti daimpinì, e ló u gl’impinìva si lavour piùbrigous, cvei ch’j avoiva bsògn d’ónamèna d’artésta. Portoun cius, telèfonostachèd e òna calura ch’l’èra fadìgaarfiadè. – Cvèsta l’è ’na béga – e’ pansèva, e ula mitìva da pèrta. Cvant ch’u j n’avoi-va sa e’ slarghéva al brazi sèchi e e’scrulèva la tèsta – U-m pienz e’ còr, mo’st’an ò za tróp impégn par al féri. – Tiutmi an l’avoiva ciap du ragaz adbutoiga, mo l’èra piò e’ narvous dlamèna ch’i j deva. – S’è ch’ò fat par meri-tèm sta cundàna? – e’ gieva me su gar-zoun che e’ lavurèva par dispèt. U jcavèva j atrez dal mèni u j fèva voida e’lavour pèr e’ vèrs – E’ lègn us manèzasla fòrza dal brazi e intènt u-s carèza salmèni, cumè ’na dona, avì capoi? – e pue’ tachèva óna litanéa ad mócli, mò slavousa basa, cumè s’l’avés paveura dafès sintoi da la crousa ad lègn tachèdaso dri ma la scrivanéa.

Mò che sabdi d’agòst un putéva ragnésa niseun. Sisto l’è da par sè, sal mènisi fiénch, sa du ócc chi bréla te gvardèla su creazioun: óna casa ad lègn nir,pina zèpa d’intaj fat sé scarplìn. L’èóna fèsta ad grap, sa dal garnèli gònfid’óva e zit sal pèmpni ch’i s’invróciadimpartòt tònda la casa, fina a furmèuna ghirlànda sòra la crousa, te mèzde cvèrc. Sisto u j zira da tònda sa dalrisadìni artrati, e’ pènsa ma la faza disu cumpaisen cvand ch’i la vidrà. U jsint zcòrr sotavousa tla cisa – Te vestSisto, ac sculteura ch’u s’è fat?. –Sisto l’à ènca fat óna casa più granda,ad lègn grèz, pèr masèi drointa ch’labara d’artésta, e mis-ciela tal rimanén-

zi de magazein. U-n vuloiva méga pasèper mat, e gnénca dè procupaziounma niseun. U la avréb trata fura cvandch’l’èra òra, e ancoura u i n’amanché-va: l’avoiva stentadù an e e’ stèva cumèun pécc. Intent u s’è bèla fat mizdèdl’utmi sabdi ad féri. Lundé l’à da vèrzdarnóv la butoiga, mo e’ decìd d’aspi-tè a nascònd la casa, tanimòdi l’à tótala dmènga par un lavour d’un cvèrtd’òra. Isè e’ scapa e e’ ciud a dòpiamandèda. La casa la arvènza puzèdama tèra, te mèz de sulèr, sòta óna cvèr-ta a cvèdri vérda e bló.

Al nòv e mèz dla soira puntuèl, Sistosla su Alfètta lócida l’è fèrmi a ’spitètla strèda mòrta dri ma la circunvala-zioun. E vò es e’ proim, cumè sé fószlous té voidla sa d’ilt ómni. U la gvèr-da ch’la smòunta zò de’ taxi, la saleu-da sla mèna al su cumpagni ch’agl’ar-vènza sòra par smuntè piò avènti. La jpèr una sculèra ch’la è artourna da lascòla s’e’ pulmin. La ointra ad prèsia ela-s mèt disdoi se sedoil ad pèla beis, laèlza e’ vistoid ròs par nò spigazèl e lascvèrz cal cosci pini, de colour dl’éba-no. La Gioia la spargója e’ parfómcumè ’na ròsa, óna ròsa nira cvèrta adfòj ròssi. La j da un basìn tla faza frè-sca ad rasadùra e pu la bagna sla lèn-gua la punta de fazulèt ad chérta, pèrsfrighè vì e’ sègn de’ rusèt stampèd drima l’urècia ad Sisto. Sisto stavòlta e’pasa ulta e’ sòlit Motèl, u sa fèrma piòavènti, t’un hotèl sa cvatri stèli. E’ scré-ca l’òcc mè ragàz dé burò – Ta-m pòrt sosópti un spumènt, ad chi bun. A-s sémcapoi. –

E’ sarà stè pèr via dla sudisfaziond’avói fnói e’ lavòur, dòp voint dè atèsta basa sòra ché lègn nir ch’l’èranèd sòta e’ soul dl’Africa, cumpàgn

ma la su Gioia; e’ sarà ché, énca se u-n s-ni vuléva incòrz, l’èra bèla còt adcla bèla sgraziéda, insòma, cla soiraSisto e’ paroiva cl’avés ciap tót e’vigour ad ché lègn africhén, ch’u-n s-laputoiva tò gnénca ló.

Sisto e’ stèva sèmpra só da te lèt al sèt,énca proima sl’avoiva di pansìr, cladmènga u-s svégia al nòv. U-s vistès sicalzùn nir e la camìsa biénca adcutoun bun. U-s chéva al s-ciafli paranflè di mocasìn bló. Du fèti ad zam-bèla bagnédi te voin ròs e u s’aveja vèrse’ capanoun di dri ma la chésa. L’oin-tra e e’ ciud sla cieva e pu e’ fa sguilèzó la cvèrta ma tèra per scvèrz la casada mòrt. E’ ciapa la scaràna sa mèncapoibra da la scrivanéa dó ché fa icount e u la mèt ad schina countra lacasa. U-s met disdoi sal brazi puzèdime schinèl e se barbèt sòra i pouns.Sènza móvsi, un zèt ch’u-s sintoiva trèe’ fiè, intènt ché un sprai ad soul da e’vasistàs e’ tajeva in dó e’ cvèrc. Sistol’arvènza incantèd per un’òra bòna,mò i su pansìr i galupèva. E’ gvardèvacal garnèli gònfi d’óva e l’avdoiva altèti dla Gioia, e pu al su mèni niri saldoidi lònghi, te pòst dal peimpni inta-jédi te lègn. Pièn pièn la futugraféa dlaGioia la-s sbiavés, cumè sla stés cam-nénd tla nèbia, e davènti ma j’occ adSisto l’arvènza snò chi decori,ch’l’avoiva capè cumè cumpàgn de suutmi viaz. – Mò cóm ch’la sarà ’sta mòrta, l’“aldi-là”… me a dég ch’u gnè piò gnént adgnént… sè, mo cum ch’l’è e’ “gnént”? Fémacount ’ste capanoun svoit, propia svoit,sènza luci, sènza al pòrti e al finèstri, u-n’èméga gnènt, sa tót al cambièli ch’ò fat!;aloura un chèmp sènza piénti e sènza èrba,mo u j’è la tèra sòta i pi e e’ zil soura; alou-ra è deserto, mo u j’è la sabia, e’ vent… Mo

Al féri ad Sistodi Nevio Semprini

Racconto secondo classificato alla 7a edizione del concorso “e’ Fat”Illustrazione di Giuliano Giuliani

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la Ludla 9Febbraio 2014

se ch’l’è ’ste’ “gnent”, e còm ch’u-s stà, e indo ch’l’è, in véll? E va pu’ fnoi ch’u j’èdabóun e’ Signour ch’u t’aspèta, ch’l’è bèladó an ch’a-n vag ma la mèsa… –

E’ paroiva un burdèl, che dmandacòm c’u-s sta cvand ch’u-s dvèntagrand, mo i fil di ragiunamint i s’in-vroccia e piò e’ pansèva piò la matàsala j s’invrócèva. – Vut ché sea ch’u-n spòsa gnénca fè ’na próva proima, pr’ónaròba i sé gròsa, u s próva tót… è bastarébdu minut d’arlóz. –U j ciapa un strèmli, u-s speuda talmèni e u-sli sfroiga tre, cvatri vòlti. U-s èlza in pì, e’ fa tre pas e l’è davèntima la casa puzèda se’ sulèr ad cimènt.Ona strésa ad luce da la finèstra la fèva

brilè la poibra sòra. Mucieda ma tèra,la cvèrta scuzoisa, vérda e bló, docl’èra stè dinzì, brazèd sla Gioia, laproima vòlta. Sisto l’èlza e cvèrc e u-lpòza ad travèrs sòra la casa vèrta. U-safèrma un sgònd a gvardè i riflés devleud bló dla fòdra, pu u-s stènd pia-nin pianin da no fè caschè e’ cvèrc. Salpèlmi dal mèni e’ strèsa ché vleud pan-sènd ch’u-n èra mai stè drointa un lósisé. S’un sfòrz e’ suléiva e’ cvèrc, u-lzira e ul fa andè zó tl’incastri dla bateu-da.

– Un bój nir impistèd, un silénzi, unapèsa… e ad fura tròpa luce, tròp scaramàz,e cvéi ch’i-m ciapa pr’e’ cheul parchè a-n òtròv moj - e pansè ch’agli ò énca ’vù du-tre

dónini sla grèzia, mo mé, sa vut fèi, ladmènga a-n avoiva vòja d’andè in ziroun abrazèt, a j ò sèmpra di pecc da fè te capa-noun - e tóta cla cativiria dla zènta, lagvèra per campè, al sgrèzi… Isè a j’ò ciusfura ma tót. Ma tót. – E’ taca a zcòrr dapar sé, Sisto, cóm ché fèva sèmpra, eintènt e’ ciud j’occ pèr voida ancourapió scur. Pèr sintoi pròpia cóm ch’u-sstaréb da murt. E pu u j vèrz sópti, adscat, mo vidénd tót scur, parchè e’cvèrc l’aveiva un incastri parfèt, u j dàsó e’ dóbi ché sea mòrt dabóun. Mo l’è un dóbi isè, cumè ’na ròbach’la-n counta piò na masa, sènza piòniseuna pavéura. E s’óna faza frèsca etrancvéla, ch’u-n l’aveiva ’vuda mai, us’indurmènta.

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la Ludla10 Febbraio 2014

Nella fiaba il mazapédar si configuraquasi sempre come aiutante magico1,a volte perché costretto, ma più spes-so di propria volontà, e in questosecondo caso, soprattutto per gratitu-dine. È quanto succede nella fiabaLona la strazona e e’ prenzip cân2 in cuil’eroina salva da una biscia un follettosotto le mentite spoglie di un pettiros-so e quest’ultimo, per sdebitarsi, deci-de di aiutarla3. Tuttavia, nonostante ilbuon cuore dimostrato dal folletto diquesta fiaba, i mazapédar sono consi-derati nel folklore romagnolo esseripiuttosto volubili e capricciosi e, perquanto non veramente cattivi, sidimostrano spesso permalosi e vendi-cativi: “(…) il folletto, se si ritengaoffeso, si trasforma in irriducibile per-secutore” 4.Tale opinione popolare si rifletteanche nelle fiabe: Vela Turchina infat-ti spiega a Cruschetto che “int e’ böschu j è una trintena d’fulet: j n’è miga cativ,mo j è dispetuð e féls”5. Anche la vecchiache il protagonista incontra nel boscoè dello stesso avviso e raccomandaprudenza nei confronti di questi esse-ri magici:«(…) ló j è tent strignuð che un piasé i n’t’e’fa gnânch a murì; j è féls e permaluð. Moa m’aracmend, nench s’i t’ðbufona e i t’fadi spet, nö t’la ciapê, parchè se t’at instizescun ló, t’é pérs tot al sperânz. Se par chêð

i dið d’aiutêt, a m’aracmend, pasa da queda me; a n’ò piò nisona vartò, mo parò at’ pos dì se i dið da bon o s’i t’vô quaiunê».Un’altra caratteristica particolare delmazapédar, comune sia alla tradizionepopolare che alle fiabe, è la passioneche questa creatura fantastica sembranutrire per gli animali della stalla, e inparticolare per i cavalli. Afferma a talproposito De Nardis:E’ mazapégul (…) si addossa all’addo-me della bestia o la preme sul ventredi sotto in su: con la pena dello spasi-mo. (…) Non di rado maraviglierà divederle i crini della coda spartiti intrecciole indistricabili e così i crini delcollo; e regolari, perfette, tutte effettoe pazienza, che non s’è usata manodestra così a stringerle e connetterle.E lo strame è nuovo sulla posta e la

biada è abbondantenella greppia e i fini-menti luccicano dipolitezza. Perché e’mazapégul offre allabestia che gli dà pas-sione doni di tenerez-za com’è uso offrirealla donna (…)6.Nelle fiabe si ritrovaun esempio di questasua passione in Séðar e’suldê7, in cui Cesare,uscendo una mattina,trova il cavallo “totlòstar, coma s’i l’avesstrigê alóra, e la códal’éra tota una treza”.Anche il folletto Lin-chetto si rivela parti-colarmente premuro-so nei confronti dellacavalla Giumenta: Linchet u s’éra inamurê

in sta cavala, e tânti nöt u j andéva a fêal trez int la crinira e int la códa, u i pur-téva di chësp d’lupinëla da magnê, di gel-sumen, dla genda; adës pu ch’l’avéva e’pulidrì, u j éra sèmpar atóran8.

Note

1. Mentre è assai raro incontrarlonelle vesti di donatore magico. Nel-l’intero corpus di fiabe analizzato,solamente una volta il folletto ricoprequesta funzione: “«Una vartò la n’spérd» e’ turnè a dì e’ fulet, e pu l’andèfura sota una quérza zëra e e’ vens dentarcun öt-dið int al mân. «Ascólta ben, (...)met e’ tu sach indò ch’l’éra cla vôlta ch’e’vens a magnêla, meti dentar do-tre d’stalgend (...)».” (Baldini-Foschi a cura di,Fiabe di Romagna raccolte da ErmannoSilvestroni, vol. 1. Fiaba n. 13).2. Ibidem, vol.3. Fiaba n. 55.3. “E’ putéva èsar mëþanöt che Lona las’sintè tirê par e’ grimbialon, e a e’ lomdal stël la vest un umarì vsti d’vérd cun labreta rosa ch’u i des: «A vit, me a so unfulet. Incù avéva bðogn d’èsar un pitarân,mo cla vigliaca dla besa l’éra arivêda adêm l’incânt», e pu u s’faðè cuntê tot lastôria d’Lona. Fni cl’avet u i des: «Cun almi fôrz a n’t’pos fê gnit, mo a zarcaròd’dêt una mân piò ch’a pos (…)».”4. Calvetti A., Antichi miti di Roma-gna: folletti, spiriti delle acque e altre figu-re magiche, Rimini1987.5. Baldini-Foschi a cura di, Fiabe diRomagna raccolte da Ermanno Silvestro-ni, vol. 5. Fiaba n. 130. 6. De Nardis L., La manifestazioneamatoria d’e’ mazapégul, «La Piê», 8(1927), p. 55.7. Baldini-Foschi a cura di, Fiabe diRomagna raccolte da Ermanno Silvestro-ni, vol. 2. Fiaba n. 30.8. Ibidem, vol. 1. Fiaba n. 3.

Le figure magiche

nelle fiabe popolari romagnole

III - Il folletto (Parte seconda)

di Cristina Perugia

Giuliano Giuliani - E’ mazapédar

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la Ludla 11Febbraio 2014

ducé: in ital. adocchiare: dal lat.òculu[m], cioè oc’ ‘occhio’, attraversoun possibile verbo del lat. parlato*ad+oculare, che grazie al prefisso advale ‘guardare intenzionalmente’; giac-ché, pure chi ha gli occhi apertipotrebbe non vedere. Lo scrittore cri-stiano Tertulliano, II sec. d. C. scrivevaappunto: patent oculi, non vident ‘gliocchi si aprono, ma non vedono’. Siriferiva in verità a chi non crede in unDio che non vede; ma, almeno finchèsi è tra i vivi, è più grave non aver occhiper le cose terrene. Nel sostant. uceda‘occhiata’, però la d- prefissa non com-pare: dài ’n’uceda. Modi di dire: da’un’uceda a la pignata, a che burdél, ala strèda; oppure l’ha ducé ’na belafióla; a forza ad ducé, u s’è inþghì; l’èun pez ch’a l’ dóc’; l’ha buté l’oc’; ecc.1 Da segnalare anche a i vòi ben co i oc’[in silenzio], diverso da a i vòi e’ ben dioc’ [cioè davvero grande]2 o, addirit-tura, a me mègn con i oc’ [che è il mas-simo dell’affetto]; a m’ þog un oc’ dlatesta oppure u m’ gosta un oc’ dlatesta; l’ha speð un oc’; par cumprèll’ha buté via un oc’. C’è poi il ‘guardarcon l’occhio torto’, con l’oc’ tort chericalca il lat. obliquo oculo d’Orazio3:l’occhio torto fra l’altro poteva rivelare

il brutto vizio dell’invidére (in+vidére‘vedere contro’), da cui nascono l’in-vidia e il malocchio: e’ maloc’.

Note

1. Inþghì ‘accecare’ e diverso da insché ‘fic-car dentro’ (da ‘innescare’: insché un didint un òc). Buté un oc’ poi ha anche unaltro significato: quello di provar interesse,persino ‘far progetti’ su qualcosa o qual-cuno. In quest’ultimo senso, è un calco suApuleio, Metam., X, 2: oculos ad privignumadiecit ([la giovane matrigna] gettò gli occhisul figliastro). Diverso da buté un oc’ o dadé un ucieda è scrichì l’oc’ o fè segn con ioc’ – in ital. ‘fare l’occhiolino’ – che trova ilsuo modello in Plauto, Miles 123-4: … oculismihi signum dedit / ne se appellarem ‘… midiede un segno con gli occhi che non lonominassi’, cioè ‘che non mostrassi diconoscerlo’. Invece fuþì i oc’, cumpagn ungat ch’u scapa s’t’ a l’ guerd ferum int i oc’si ritrova in Capt. 532: …quod meos te dicamfugitare oculos... ‘poiché direi che tu cerchi difuggire i miei occhi’: parchè tu ’n mi guerdint i oc’ o int la faza? Così si ritrova qual-cosa di simile a lustrés i oc’ in PetronioSatyr. XI: Postquam lustravi oculis totamurbem… ‘Dopo che lustrai con gli occhitutta la città’. Oggi usiamo il militarescoperlustraziòn. Molti di questi modi di dire,presuppongono il perdurare inavvertito diun’idea corrente nel mondo antico,eccettuati Democrito ed Epicuro: che il rag-gio visivo partisse dall’occhio per colpire glioggetti, e non viceversa: ecco spiegato butél’oc’, l’oculos adiecit di cui sopra.2. Vlé ben con i oc’ è il voler bene di chiama in silenzio con l’occhio appena illan-guidito. Vi è pure no guardè on par noconsumél. Neppure per vlé e’ ben di oc’manca il modello: sempre dal Miles 984:quae te tamquam oculos amet ‘[una] chet’ami tanto quanto i suoi occhi’; e neiFragm.: …amant ancillam meam ocùlitus…‘amano la mia schiava con gli occhi’: si li-mitano a guardarla. Ad un bimbo piccoloo a chi si ama si può dire: tu sé e’ ben dime oc’. Infine, da solo e’ ben di oc’ (o e’lom di oc’), è la vista: da la rabia ch’a i evaindòs, a i ho pers e’ lom di oc’: ovvia-mente in senso figurato. Poi, sempre Plau-to Trin. 1021, cambia registro ed usa inatte-so l’aggettivo vagamente ‘omerico’ oculi-crèpida: col crepitìo all’occhio.A m’ þóg un oc’ dla testa s’u ’n è [a]vera…è una scommessa ipotetica; e, infine,cumprè o vend a oc’ equivale a ‘senza

prendere misure’ o ‘senza pesare’; in colli-na pure a ùria (dal lat. ad aurem) tirando inballo l’orecchio.3. Per gli antichi turvus ‘torvo’ veniva datorquére › tòrcere › tôrz, ma oggi i più nonsono d’accordo: in ogni caso, in dial. l’agg.torv per ‘torvo’ è inusuale. Invece no tôrz ioc’ o no fè e’ ðgalòc’, come i piccoli sidivertono a fare, equivalgono a ‘non gio-care a far lo strabico’. Che tu ’n epa pu dopd’armisté con i oc’ struvliné, si diceva aibambini che ci provavano, ch’ui vó dopl’operazion int e’ bðdèl: era un modo di farpaura. Ma in latino esisteva pure turbidus‘torbido’, da cui il dial. ha tratto trovd,intruvdè, truvdài, ecc.; vdè trovd è ‘averuna cataratta’. Truvdài, infine, per affinitàdi suono scivola facilmente in truiài‘troiaio’, ma sarebbe una ‘falsa’ etimologia.

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dumè, dòma: ital. domare, dal lat.domare. Da domus ‘casa’1, anche la‘doma’: era un’attività frequente unavolta, e non solo in campagna lontanoda tutti, per addomesticare, cioè abitu-are alla sella o al basto cavalli, asini emuli. Ma il termine si prestò da sem-pre a metafore: Marziale, Epigr. IV 64:centeno ligone Tibur domate (domate [laterra di] Tivoli con cento zappate allavolta): quei poveri contadini erano alleprese con una terra molto dura.Oppure, in Plauto, Càs. 252: iamdomuisti animum…? ‘hai già domato latua animosità…?’ cioè l’incazadura. Aproposito della quale, si dice pure: u ’nè pio padròn ad sé, l’è [andè] for adtesta; u’ n dà pió [a] lé; u pè un cagnaz[a]rabì e altro ancora. Di un animale ‘restio’, ch’u ’n s’ lasadumè, si diceva pure sord a la dòma. Eper una ragazza ‘ritrosa’ (dal lat. retrover-sa ‘contratto’): ðbara, ðbara [scalcia]che tu t’ faré dumè pu enca te; maquando scoprivi che la ‘dòma’ era riu-scita ad altri, ti restava l’amaro inbocca, (l’amèr dl’insens in boca ‘l’a-maro dell’assenzio in bocca’).

Nota

1. Domus ha un lungo stuolo di derivati,anche in dial., cominciando da dòm‘duomo’, la casa del Signore, a ‘Domined-dio’, a ‘domicilio’, a dominus e domina, dacui don e dòna ‘donna’, duminè; e poi‘domestico’, ‘addomesticare’.

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

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la Ludla12 Febbraio 2014

Nel 2003, per i tipi di tosca edizioni,una microscopica associazione cese-nate che si occupa di letteratura e dieditoria, compare E’ lavor de’ pisirel diDolfo Nardini. Le prime cento copiein pochi giorni sono esaurite e nelgiro di un anno o due, il volumettosi deve ristampare altre tre volte. Intutto un quattrocento copie (a cui sidevono aggiungere le 185 copie scari-cate gratuitamente dal sito di tosca(www.toscaedizioni.it). Poca roba, seci si limita ai numeri. Un best sellerse si tiene conto del fatto che si trat-ta di poesia dialettale e di quantovenda la poesia oggi in Italia. Il suc-cesso lo si deve al taglio, volutamen-te scollacciato, che Nardini ha volutodare alla raccolta, a sottolineare lacarica dirompente del dialetto, che è“volgare” proprio per sua natura, incontrapposizione esplicita a chi se neserve epurandolo di quanto ha in sédi più vitale. Questo exploit che hareso Nardini immediatamente rico-noscibile lo ha anche fatto etichetta-re come autore scurrile e ridancianoe quindi marginale rispetto ad altricapaci di trattare argomenti “alti”. Paolo Borghi, lettore e critico atten-to, nella sua prima recensione com-parsa sulla Ludla (n. 3/2006 – Unatto di ossequio di Dolfo Nardini a Wal-ter Galli) si preoccupa di questo peri-colo, pubblicando volutamente unapoesia che “possiede ogni prerogati-va atta a smentire appieno questafama di autore licenzioso o addirit-tura scollacciato che parrebbe incal-zarlo”1.Nel 2005, Nardini pubblica I nomarde’ lot dal ca populeri di cui ho già par-lato ampiamente sulla Ludla (n.8/2007), un lavoro strano e per que-sto, credo, non ancora ben compre-so, che Davide Pioggia nel suo sitointernet (www.dialettiromagnoli.it)descrive in questo modo “Questo è illavoro più ampio e impegnativo diNardini. Si tratta di una sorta di“smorfia” romagnola, che per comesi presenta dovrebbe servire per trar-re dai sogni i numeri da giocare allotto, ma qualunque spunto serveall’autore per abbandonarsi alle asso-ciazioni libere della mente, le quali sisusseguono a ritmo incalzante in unmoto a spirale che produce un’atmo-

sfera onirica, sicché si perdono i con-fini fra il discorso sul sogno e ilsogno stesso.” In questo libro, Nardi-ni rompe, anche graficamente, con leforme della poesia tradizionale emischiando i generi (non c’è distin-zione fra poesia e racconto), speri-menta tecniche nuove (in relazioneal panorama della poesia dialettale).Roberto Mercadini in due suoiinterventi (visibili su Youtube) affer-ma che “…queste cose sono moltodifficili da leggere. Le corrisponden-ze sono messe in fila in modo moltosuggestivo, in modo da creare comedei racconti o quasi delle poesie…”.Nell’inverno del 2007, all’improvvi-so, mentre si è in attesa della suaseconda raccolta Cuntantes che escedi lì a poco, Nardini pubblica Tango:sette poesie che hanno come tema ilballo del tango. L’osceno, checomunque continua ogni tanto acomparire, anche se in modo moltomeno smaccato ed evidente, in Cun-tantes e nella successiva raccolta Anso miga un pataca (2010), in Tangoscompare completamente. Se neaccorge Elsbeth Gut Bozzetti, in unarecensione apparsa sulla Ludla nel2008 (n. 2/2008 – Dolfo Nardini .Ballare la vita al ritmo del Tango), doveafferma di non conoscere “quellibretto d’esordio” che lo staff dellaLudla non ha avuto il coraggio direcensire. Ma parla di Nardini comedi un poeta capace di “Ritirarsi, rovi-stare tra le parole, cercare quelle chedicono le cose difficili da dirsi.Come in un giuoco. Costruire qual-

cosa di nuovo con le cose di sempre.Osservare e ascoltare con orecchiopiù fino per poi parlare, far sentire lapropria voce poetica…”.Nel 2007 alcune sue poesie, lette daNino Severi, sono riportate nell’an-tologia in CD-Rom I poeti del dialettoa Cesena, pubblicato da tosca2. Nel 2008 Paolo Borghi ritorna suNardini (Ludla n. 5/2008) riportan-do una poesia: Fulvia3, tratta da Cun-tantes e arriva a constatare che, i certicasi, la poesia dialettale “sembriparadossalmente destinata a fareaddirittura da traino a quella in lin-gua, più restia ad accettare ormaiimprescindibili modelli di cambia-mento.”Gianfranco Camerani, ricordandosulla Ludla il poeta cesenate CinoPedrelli, appena scomparso, si spingesino ad accostare il nome di Nardinia quello dei due grandi cesenati,Pedrelli, appunto e Walter Galli (n.6/2012). “Walter e Cino due straor-dinari talenti cesenati che condivise-ro tanti tratti poetici, ma credoanche umani, ai quali noi romagnolisiamo debitori per la conoscenza del-l’animo sotto quella specie cesenateche ancora continua a parlarci maga-ri con Dolfo Nardini e che si faapprezzare per il profilo ribassato, labonarietà del tratto, la solida etica, itoni tenui e al tempo stesso franchi,come l’antiretoricità dialettale pre-tende.”Paolo Borghi (Ludla n. 1/2013),riprendendo una poesia pubblicatain An so miga un pataca4, ritorna sul-

Dolfo Nardini:

un poeta cesenate da tenere

in stretta considerazione

di Maurizio Balestra

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13Febbraio 2014

l’equivoco in cui i “più frettolosi”possono incappare, “segregando…l’autore a un ruolo laterale di com-primario dalla battuta licenziosa finea se stessa” mentre in realtà “questogenere di approccio altro non è,nella maggior parte dei casi che unpretesto… per affrontare con schiet-tezza impertinente… sfruttandolocome un amuleto… questioni nodalicome quelle dell’infermità, dellacupidigia, della morte…”.A riconoscimento di quanto afferma-to sino ad ora, anche Giuseppe Bel-losi ha voluto inserire Dolfo Nardi-ni, nell’antologia di “giovani poetiromagnoli”, nati nel dopoguerra tra-dotti in inglese: Poets from Romagna,con lo scopo di far conoscere lanostra cultura ed il nostro dialettoanche al di fuori degli stretti confinidella Romagna.

Note

1. L’andarà ’venti e’ mond nench senzaGalli? Te t’al savita / ch’l’era lo e’ poeta /d’insdéi / ’d fora de’ bar / da l’Italina / lozet / te zet / e lo u l’saveva / che te t’al savi-ta.2. L’opera, dedicata all’amico SauroSpada, recentemente scomparso, è com-posta da un volumetto in cui è riportatauna selezione delle opere di 14 poeticesenati: Armando Bonoli (Pelo),Luciana Ricci Lorenzi, Attila Carlo Fos-chi, Adriano Zanotti, Dino Rossini,Adriana Maria Belletti, Duilio Farneti,Cino Pedrelli, Walter Galli, Dolfo Nardi-ni, Daniele Casadei, Agostino Lugaresi,Gino Della Vittoria, Bruno Polini. Alvolume è allegato un CD-Audio (delladurata di ca. 80 minuti) in cui è possibi-le ascoltare le poesie recitate da: IlarioSirri, Franco Mescolini, Nino Severi e

Serena Comandini. Con musiche origi-nali di Pepe Medri.3. Fulvia As guardem int la faza / e intentch’la rid / la-m dis che sé / ch’l’è un an /ormai / ch’la j è ciapeda via / dal sori ciusi/ ch’u j è vlù un po’ / a arciapes / l’è stèfadiga / “...’sa vut par mé / l’è ‘ncora cumée’ fos / cmé dis en fa” / … / e as guardemint la faza… / e póus scapa da rid / cmé dupataca.4. Mé a magn / a zugh al cherti / béi poch/ ch’an pos / dal volti a civ ancora… / a socuntent / quant ch’à n’ò vest / pió zuvanche ne mé / indandarlì, imbarlè / incastrèad dentr una caroza? / E quant ch’i n’à srun-dlè / da e’ don Baroni? / I zuvan me im farid / i cor / i briga / i fa / ‘Sa curarai? / Indu vai? / E’ nench tot quii ch’i mocia / dibajoch. / ‘Sa vut muci? / ‘San fet pó /quand t’ci sech ingiandlì / pr un carcino-ma? / Mé a m’acuntent / e a sper int uncolp sech.

Cara Ludla,una riflessione sul verbo pirulè.Quando la nonna s’innervosiva e cisgridava perché eravamo inconclu-denti, usava questa frase:“A pirulì tot e’ dè, a n concludì gnit,fasì qual quël, fasì un pô ad giorni-no!” Pirulè significa “girare intor-no”, almeno nell’accezione che ioconosco. Quella volta che sbarcai ad Ateneseppi che il porto greco era denomi-nato Pereo. Quella volta che giunsiad Istanbul soggiornai al “Pera Pala-ce Hotel” presso il quartiere di Pera.Quando mi accade di rilevare i vec-chi toponimi della Romagna consta-to che S. Adalberto, ora S.Alberto,un tempo si chiamava Pereo.

Sarebbe interessante poter interpel-lare Giacomo Devoto, il grandeglottologo e linguista per approfon-dire questa radice, che del resto,anche nella lingua italiana, trovia-mo nelle parole “perimetro”, “peri-frasi” ed altre.Intanto io, per la mia amata “Ludla”,provo a sfilacciare la matassa.Un antico giocattolo di legno, la“trottola”, nel nostro linguaggioromagnolo si chiamava “pirona” e

con la frusta la si faceva girare.Quando si prestava una cosa cara dicui si raccomandava la restituzione,consegnandola si diceva: “La sciama pirì, torna indrì”. Ed ancora,nella sedia il piolo veniva chiamato“pirol”, poiché si avvita. Infine asera, quando i bambini iniziavano asbadigliare, la mamma soleva dire:“L’è arivè Pirò” e per i bambini eragiunta l’ora di andare a dormire.

Anna Valli Spizuoco

la Ludla

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la Ludla14 Febbraio 2014

I cvàtar d’fabrer l’è la Madona de’Fugh, ona dal tânti madòn piligrenich’al s’trôva in þir pr e’ mond e parlo-piò int la tésta di ciaten e di cardinzon.A Furlè l’è fësta grosa, cun al banchetide’ marchê tot e’ dè dniz a San Mercu-riêl e i fùran ch’i vend la pi d’la Mado-na, ch’l’è una speci dla nòsta pi bufo-na.Par me, inveci, sta fësta la m pôrta acvânt ch’a sera un burdël e cun la tëstaa m vôlt d’indrì e a m arcôrd dal fuga-reni ch’al s’faðeva int al nòst campâgne int e’ paeð. Cas-cion l’era tot un fugh,e ogni borgh l’aveva la su fugarena: dae’ borgh di Fariðel a e’ borgh de’ fion;da e’ marchê a e’ borgh de’ Mor; dal’Armaja a la Guarnira, e þò par la Fòsafina in chêv a la Dbanëla, pasend pr’e’Calaron.L’era al fugareni ch’al dgeva a la þentche prëst e’ sareb avnù Mêrz cun i sulom, mo l’era nench la prema ucaðionpar truvês tot cvent insen fura d’ca,simben e’ fred di dè dla merla e’ fos alè d’avðen par fês capì ch’a sema incoraint l’invéran. Chi grend falò, impié unpô dimpartot, i faseva stê insen la þente sugnê i burdel. Nenca int e’ borgh di Magnon aimpjema la fugarena. Un lamiron stéðint la corta, e sora la meda di stech,cult da e’ zi Bruno int e’ fion. Bëla,grânda, ch’la bruðeva tot la nöta e lamatena, cvand ch’a ‘ndeva a scôla, labréða la sprajeva incora sota la zendrach’la fumeva sora la lamira. U m pêd’avdéla adës cla fugarena fata d’stech, un cuparton da càmion e un pôd’ôli pas; cun e’ zi Bruno ch’u la tizevae e’ zi Stuanin che e’ marmugneva parla cunfiðion. E’ zi ‘Rmando ch’e’ scu-seva la tësta e e’ zi Renzo ch’u s la ride-va sota i bëfi, insen a e’ Murin d’Baro-ja, ch’u n staðeva int e’ nost borgh, moch’u n paseva una sera senza ch’l’avnesa truvê i Magnon.Tot e’ borgh l’era a lè, cun e’ bicir de’brulè int al mân, a scòrar dninz a e’fugh e par rìdar e scarzê, ðminghèndaspr un pô di gvëj d’la vita.E mi ba e la mi mâma (che par me j erai piò bel de’ mond) i tneva in braz laCheca, la mi surlina ch’l’era znina;dacânt la nona Riciota cun la biðaGigina; e pu e’ mi zi Bomba che e’tuceva al pastarin int e’ ven, e’ zi Baroncun la su zigareta tr’al dida e e’ zi Nano

che e’ daðeva torna a tot, nench s’l’ave-va la Floriana da cânt ch’la tneva lamân dla Federica parchè la n s scutes.L’avneva nench e’ mi nòn Ferdinând ela mi nòna Minghena, che i staðevad’là da la strê, pët par pët a l’Eðilo.Cla sera e’ scapeva nenca la Giordanacun la zi Gagia, insen a Gigin e la sumoj, l’Anna dla Sandrina. La zi Vgenial’era la piò burlona e la faðeva divartìtot cvent cuntend di fët un pô cundì.Inveci la zi Gigia e la zi Derna al scure-va di fët dla môda e al cnunseva totcvent j artèstar de’ cino.Int e’ borgh u j staðeva nench i Montie i Farena e a la fësta i n mancheva maiAschero e la Majaci cun e’ Re, ch’l’erae’ su ba. L’Orsolina, inveci, la faðeva sòe þò tra la corta e ca su, pr’avdé se i s’ar-duðeva e’ Spìgul e la su muðëla cun unmagnê d’buratel. Pasqualin e e’ Gaginch’j era þà grandgiot, u j piaðeva stê cunchi òman, insen a Meco. Parò j aveva e’mèrit d’fê dla fugarena di Magnon lapiò grânda d’Cas-cion, parchè j andevaben e spes int la cisterna a tur un göcd’nafta da butê int la fiâmba; faðendinfughì tot la lamira insen a e’ fégat de’zi Stuanin. A una zert’ora e’ daðeva fura nenca e’Nanen, êlt coma la su bicicleta e sfilìcoma e’ mângh dla badila, ch’e’ daðevae’ câmbi a e’ Sgnor Mario ch’u s ande-va a ca.E pu a j sèma nujet babin, alìgar e cun-fuðiuneri coma tot i babin, cun i calzoncurt, i þnoc scurghé e al gâmbi murëli,ch’a s’imbarbajema int al fiâmbi ch’als-ciucheva balinend, e a s’incantema aguardê al ludli ch’al s’impirulevapr’êria, balend alþiri vers e’ zil.E alora tot in fila a i sema: me, la Cri-stiana, la Camilla (ch’l’era incora unstrufacin), la Carlina d’Aschero, laManuela d’Farena e e’ mi amigon Gra-

ziano di Fren, tot cvent cun la gozla ae’ neð e e’ côr a cavaleta a s ciapema lamân e senza stachê j oc da cal ludli, acminzema a þirê datond a e’ fugh, can-tend coma ‘na litanì “Ligreza ligreza,Madona banadeta. Madona di faðul,un piat ad cuciarul.”Ad chi dè a vègh cêr incora gnacvël e aj ò stampê int j oc i mi dniz a che fughch’u j bruðeva un gnöch dl’invéran e uj scureva de’ tevd dla bona staðon cheprest la sareb rivêda.E incora mej a vègh nuiet babin còrarintorn a che fugh che par nó u n erasol e’ segn dla nòsta voja d’þughê, mol’era nenca la fiâmba dla nòsta prisiad’crèsar. Bel arcurd che e’ temp u n èstê bon d’ðbiavì com ch’l’è uð a fê cuni ritrèt.Dj arcurd ch’i m righêla un surið moch’i m lësa nenca tânta malincunì pr alprumesi che la vita la n’à mantnù, e ungran vuit pr e’ pinsìr d’tot i mi ch’i n jè piò. E sol e’ Zil e’ sa cvânt ch’im’amânca.Mo la vita la mêðna gnacvël e la corl’istes: cun i su gvëj e al su furtoni; cune’ bël e cun e’ bròt; cun e’ bon e cun e’cativ. Bðogna sol spirê ch’la n t miðnabrìðal.Par cvest, on di sigrit piò grend par nos fê maðnê e vìvar mej ch’u s pò, l’èpröpi cvel d’no ðmètar mai d’ésar chebabin ch’e’ þugheva alégar d’atond a e’fugh. E alora avreb che tot insen a n ðmitè-sum mai d’incantês dniz al ludli, ech’avèsum sempar la voja d’balêd’atond e’ fugh dal nost sperânzi e dinòstar sogn, cun al maravej d’chebabin. Parchè la piò grân bandizioncl’la j posa ésar, l’è propi cvela che e’babìn ch’aven incora ad dèntar a e’pët, u n s’epa mai d’aviê o ch’a l faðe-ma murì prema d’nó.

La fugarena di Magnon

di Eugenio Fusignani

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la Ludla 15Febbraio 2014

Luca l’éra un ciatẽ.Un amigh d’infãzia da l’aðilo infena agli elementêri cun lamestra Cicognani ch’l’éra bóna coma una mãma. A l’aði-lo invezi u j éra la Superióra che quãnd a faðema dal biri-chinêdi la-s daðéva di piþgot cun e’pirulöt che u j avanzé-va e’segn. A ca, se la mãma la vdéva e’segn de’ piþgöt, la-tdaðéva e’rëst.Durãt e’ frõnt avẽ cminzê a fumê, prema la chêrta zala dlapcarì e pu la foja seca dal vidi e döp al cichi ch’a truvemapar la strêda.Döp agli elementêri a-s sẽ un pô pirs ad vesta, parchè mea stugéva a Ravena e Luca l’avéva cminzê a lavurê.Faðend e’ dutór a Cas-ciõ d’ Ravena, ho arciap nẽca a frec-ventê int e’ bar da Cànzio i sòlit amigh d’infãzia, tra iquali nẽch Bomba e Bujantõ, cvãnd ch’l’éra in ferji da laSvezra.J ònich raghez de’ gröp j éra Luca, Beppe e La Gnôrgna,e döp u s’è acudê nẽch i piò þùvan Francõ e Rimuleta.La Gnôrgna e’ sunéva la chitara e Beppe l’andéva tot j ena scijê, in zérca ad aventuri, che al n’j éra mai.Comunque Luca e’ faðet una surpréða a tot: zet zet u s’an-déva a lët cun la piò bëla dona ad Cas-ciõ, una dona ch’lafaðéva avnì i guzlõ a j oc e la bêva a la boca a tot: vec eþùvan.Sicom’ che lò e’ faðéva la comagnõ tot j en a Nadêl e aPascva, toti al vôlti a i dgéva:– A cunsêt, t’aj andré pu cun la carjôla par carghê tot i tupché!Lo e’ ridéva e l’arspundéva che quãnd u s’éra cunsê, l’éralèbar par pchê d’arnôv.Luca l’è armast sèmpar a Cas-ciõ, a difarẽza ad cvi che jandéva in þir a lavurê. I cas-ciunið, nẽch se j è migré, javãza sèmpar ad Cas-ciõ, coma Marlêra, Checo, Bujantõ,Fartlina, Pjulina e Alberto, e’ generêl.Lò l’éra un pô stregn, coma tot cvi che i-n s’è maridé:coma Beppe, coma Francõ (sè, e’ fradël de’ Bìgul), peròme a i putéva dì gnacvël, cumprés al cativérji, e lo u-nm’ha mai det “fat in là”, parchè e’ dgéva che a j avléva bẽl’istes.L’éra fanàtich de’ Turẽ coma la Fjorëlla, e’ Bìgul (Paulõ),Beppe, Ido, Lisẽ, Trùman, Dorligo, Eraldo, Pat (e’ micuðẽ), Ciuchẽ, e’ Tröcal e cetera, e ogni tãt andema a lapartida a Bulogna, quãnd u j éra e’ Tôr, mo mai in curva:sèmpar int i “distinti”, coma i sgnur.

In ùtum Luca l’ha lavurê da Bödi e a le e’ staðéva pröpi bẽ.Bödi l’éra de’ Bulogna: a créd ch’e’ fos l’ònich, parchè aCas-ciõ e’ Bulogna u n’ataca. Cun Bödi e’ faðéva di mur-set par i muradur e l’éra un pô l’om ad fiducia. L’avéva ungran rispët ad Bödi int e’ lavór, mo e’ lavór l’è durê infe-na a la môrta ad Bödi.Õn a la vôlta, ormai, i s’n’è andé tot, mo j ha nẽch lasê unbël vùit int e’ paéð; e cun Luca u s’è avjê un êt gnöch adCas-ciõ.

Dopo la pubblicazione del mio articolo Mo cum’ ëj i Ruma-gnul? [La Ludla, n. 8, settembre 2013, p. 7] si è scatenatoun piccolo dibattito sulla vera natura dei Romagnoli. Che il Romagnolo sia un po’ pataca è accettato all’una-nimità, che alcuni siano un po’ stregn (gli introversi) ealtri balech (gli estroversi) è ancora passabile, ma i Roma-gnoli proprio non vogliono sentirsi dare degli ‘invorni-ti’… eppure a volte così pare lo siano.Allora mi dico, forse, i fa j invurnì par no paghê la tasa,perché è ormai appurato che si scusa più facilmente uno‘stordito’ di un ‘dritto’, prendendolo meno sul serio:uno stratagemma di cui si servì ampiamente addirittural’astuta e accorta Caterina Sforza. Da qui il detto e’ smarì ‘d Catarnôn l’andeva a tartofla cunun bò ‘il tonto di Caterinona andava a trifola con unbue’. Si racconta, infatti, che, sul finire del XV secolo,persone finte tonte fossero inviate per le nostre campa-gne dalla cosiddetta Leonessa di Romagna. Queste, pro-prio per il loro modo di fare bonaccione e ingenuo, veni-vano accolte nelle case dei contadini, i quali si lasciava-no facilmente scappare male parole contro il governolocale che puntualmente il finto tonto riferiva a Cateri-na. La scaltra signora di Imola e Forlì veniva così infor-mata dell’umore dei cittadini e poteva prendere leopportune decisioni anche per mettere a tacere o elimi-nare eventuali pericolosi oppositori. È probabile che, traqueste persone al soldo di Caterina, ci fossero anchedegli stranieri che quindi avevano difficoltà ad esprimer-si, risultando ancora più rimbambiti. Quale migliorgaranzia dunque, per il popolo scontento, poter sfogarsicon un povero scemo che neppure poteva capire ciò chegli si stava dicendo? Meglio dunque fê e’ ðmarì ‘d Catar-non per non pagare pegno, poter fare e dire tutto, senzaesser presi troppo sul serio.Oltre a questo semplice espediente, può essere d’aiuto laclassica diplomazia romagnola ‘alla Luigi Carlo Farini’di cui abbiamo recentemente celebrato i 200 anni dallanascita: l’importante l’è stê sèmpar da e’ cânt de’ furminton(parteggiare per il grano) appoggiando insomma sempretutti e nessuno.

L’è môrt un amigh

E’ Médich

Garavél

Invurnì o Ýmarì d’ Catarnon?

Silvia Togni

Page 16: “Poca favilla gran fiamma seconda” la Ludla - · PDF file2 Febbraio 2014 la Ludla Esiste un “gergo” dei malati e delle malattie? Mi sono posto questa domanda quando Enrico

la Ludla16 Febbraio 2014

«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: «il Papiro», Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto CasadioRedazione: Paolo Borghi, Gianfranco Camerani, Veronica Focaccia Errani, Giuliano Giuliani, Omero Mazzesi, Addis Sante Meleti

Segretaria di redazione: Carla Fabbri

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Su un universo che annovera alle sue spalle miliardi dianni o sulla più insignificante fra le cellule del nostrocorpo, che esaurisce il suo impeto nell'orbita di una man-ciata di ore, la componente tempo, in un modo o nell'al-tro, la fa da padrone.Che la sua natura rappresenti qualcosa di cruciale o megliodi tassativo a livello assoluto, è del tutto irrefutabile cosìcome scontati gli effetti che egli determina sul decorso ditutto ciò che è materia, indipendentemente dalla sua mor-fologia. In pratica, dunque, è l'ingerenza del tempo a rende-re incompatibile ogni forma di vita e di realtà oggettive chela circondano, con l'ipotesi di un'eternità ideata dall'uomo,ma di per sé incompatibile con ogni concetto di scadenza.

Persino la poesia, così insita in noi nella sua insostituibilesuperfluità, non può che prendere atto di tutto questo eadeguarvisi, per cui non è un caso che tanti autori abbianocollocato l'incognita tempo al centro delle proprie opere edel proprio pensiero, facendone una riflessione intellettua-le intimamente legata al progresso antropologico della spe-cie umana, non disgiunta dalla sua crescita in ambito filo-sofico, letterario, artistico.Nell'impegno di definirne il concetto, il tema del tempoè stato coniugato in poesia con svariate procedure, at-tenendosi a quelle che sono le cognizioni acquisite dal-l'uomo nel corso degli eventi, e non sono pochi i casi neiquali, con illusoria presunzione, è stato lui stesso ad autoeleggersi quale suo promotore, in contrasto con chi, inaltre circostanze, lo ha definito come qualcosa di spieta-to e a sé stante.Forse ciò che più gli si addice, consiste proprio nello sdra-iarsi accanto ad Enrico Banzola restando poi due ore, tregiorni, trent'anni a meditare su un'entità senza origine néscadenza, indifferente a lui e alla sua effimera smania dicomprendere.

Paolo Borghi

Enrico Banzola

‘Na scola ‘d lus

‘Na scola ‘d lus

Andéva a spanèla stra ‘l terint un bur de Signore am so’ ingambarlèint un bus znì dla notcoma ‘na scola ‘d lus smalvidae alè a j’ò truvtot i dè de mondon drì cl’etarch’in pasèva maie a so’ stè alè, stuglèdo òr, tri dè, trent’en a guardè e’ tempch’un cminzéva, ch’un s’fnévae senza andè invele’ sghinléva int al carvaj dla teraint l’èria zigafena a la lóna, ch’an la vdéva brisa.

Una pozzanghera di luce. Andavo a casaccio tra i campi \ in un buio terribile \ e sono inciampato \ in un piccolo buco della notte \ comeuna pozzanghera di luce sbiadita \ e lì ho trovato \ tutti i giorni del mondo \ uno dietro l’altro \ che non passavano mai \ e sono rimasto lì,steso \ due ore, tre giorni, trent’anni a guardare il tempo \ che non iniziava che non finiva \ e senza andare da nessuna parte \ scivolava trale crepe della terra \ nell’aria cieca \ fino alla luna che non vedevo per niente.