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MASTER IN ANALISI, PREVENZIONE E CONTRASTO DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA E DELLA CORRUZIONE FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE Università di Pisa AVVISO PUBBLICO, Enti Locali e Regioni per la formazione civile contro le Mafie. LIBERA Associazioni, Nomi e Numeri contro le Mafie PREVENZIONE E CONTRASTO DELLA CORRUZIONE: ASPETTI GIURIDICI PARTICOLARI DOTT. SSA CHIARA IANNUZZIELLO a.a. 2010/2011

PREVENZIONE E CONTRASTO DELLA CORRUZIONE … · Si analizza il regime penal- repressivo della corruzione, sia dal punto di vista strettamente sanzionatorio che in considerazione delle

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MASTER IN ANALISI, PREVENZIONE E CONTRASTO DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA E DELLA

CORRUZIONE FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE – Università di Pisa

AVVISO PUBBLICO, Enti Locali e Regioni per la formazione civile contro le Mafie. LIBERA Associazioni, Nomi e Numeri contro le Mafie

PREVENZIONE E CONTRASTO DELLA CORRUZIONE: ASPETTI GIURIDICI PARTICOLARI

DOTT. SSA CHIARA IANNUZZIELLO

a.a. 2010/2011

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INDICE

I Controlli amministrativi come possibile antidoto alla corruzione nella p.a. ......................... p.1

Il codice di comportamento dei dipendenti pubblici e quello della magistratura .................... p.5

1. Il codice di comportamento dei dipendenti delle p.a. e le sanzioni disciplinari ............... p.5

2.Le sanzioni disciplinari dei magistrati e il loro codice etico............................................. p.7

La corruzione in atti giudiziari e la configurabilità della forma susseguente .......................... p.10

L’incandidabilità ...................................................................................................................... p.13

Il regime sanzionatorio e le nuove fattispecie penali ............................................................... p.16

La corruzione tra privati in Europa e in Italia ...................................................................... p.19

La giurisdizione della Corte dei Conti e le consulenze esterne ............................................... p.23

Il danno all’immagine della P.A. ............................................................................................. p.27

Conclusioni .............................................................................................................................. p.34

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L’analisi svolta si concentra solamente su alcuni aspetti del fenomeno corruttivo, da un punto di vista giuridico, anche in considerazione del disegno di legge anticorruzione ddl 4434 e di alcune riforme intervenute negli ultimi anni. Si analizza, tra gli strumenti che sono presenti nell’ordinamento, in ambito amministrativo, per la prevenzione al fenomeno della corruzione, il regime dei controlli amministrativi. Si passa poi all’analisi del codice di comportamento dei dipendenti pubblici e di quello della magistratura ordinaria, da poco modificato, anche in rapporto alle sanzioni disciplinari. A seguito dell’importante arresto della Cassazione a sezioni unite, ci si sofferma sulla corruzione in atti giudiziari e sulla configurabilità della forma susseguente. L’unico strumento previsto dal disegno di legge anticorruzione in materia di corruzione politica è il regime dell’incandidabilità, si è ritenuto perciò importante darne conto. Si analizza il regime penal- repressivo della corruzione, sia dal punto di vista strettamente sanzionatorio che in considerazione delle nuove fattispecie penali che il disegno di legge anticorruzione sembra voler introdurre. Più specificamente ci si sofferma sul reato di corruzione tra privati. Alla luce delle denunce della Corte dei Conti si analizza il danno erariale, con riferimento all’attribuzione delle consulenze esterne all’amministrazione e il danno all’immagine della pubblica amministrazione.

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I Controlli amministrativi come possibile antidoto alla corruzione nella p.a. Il termine controllo ha due diverse accezioni che corrispondono a due diverse origini, una

francese che indica, nel suo originario significato di “contre-role” contro-ruolo, un registro utilizzato per fare da riscontro ad un altro, e viene usato con riguardo alla verifica di conformità di un atto a regole predeterminate, l’altra è inglese, control, e viene usato come sinonimo di governo, indirizzo, guida, gestione, in questo senso il termine viene utilizzato nell’espressione controllo di gestione.

In considerazione della pluralità delle categorie di controlli, la dottrina ha opportunamente limitato la semantica dell’espressione ad un significato più ristretto, ritenendo che il controllo è la verificazione amministrativa di conformità a determinati canoni o prescrizioni.

Se i canoni che si prendono in considerazione si fanno coincidere con la legalità, il buon andamento, l’imparzialità i controlli possono servire a contrastare il fenomeno della corruzione1.

All’inaugurazione dell’anno giudiziario 2011 il Presidente della Corte dei Conti ha affermato che la lotta alla corruzione debba fondarsi essenzialmente su quattro pilastri: l’etica, la trasparenza, la semplificazione, il controllo.

Sino alla fine degli anni ’80 i controlli amministrativi riguardavano per lo più gli atti e rientravano nello schema del controllo-verifica, la logica su cui si fondava il sistema era quella del controllo preventivo di legittimità esercitato da un organo esterno rispetto all’amministrazione agente ed esteso, praticamente, a tutti gli atti prodotti da quest’ultima. L’esito positivo del controllo preventivo di legittimità, il “visto”, era condizione di efficacia dell’atto.

Negli ultimi venti anni le politiche normative hanno profondamente ristrutturato il sistema dei controlli. Riscontrata la sterilità dei controlli sugli atti, il legislatore ha progressivamente assecondato il passaggio da questi ultimi al controllo di gestione, finalizzato a raffrontare obiettivi programmati e risultati effettivamente raggiunti, in un’ottica collaborativa più che sanzionatoria.

Il ripensamento di tale attività costituisce il naturale corollario della riforma della governance pubblica, introdotta dal d.lgs. n.29 del 1993 e successivamente potenziata con altre disposizioni di legge. Con queste riforme è stato avviato il passaggio dal modello di amministrazione “per atti” a quello di amministrazione “per risultati”, al fine di migliorare l’efficienza, l’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa.

La differenza tra il controllo di gestione e quello di legittimità è stata enucleata dalla Corte Costituzionale, la differenza attiene all’oggetto che è individuato nella complessiva attività dell’ente e non più nei singoli atti ed al parametro del controllo che non è più volto a verificare la conformità a legge2 dell’atto ma a verificare ex post la rispondenza dei risultati agli obiettivi prefissati. Differente è anche l’esito che non consiste più in provvedimenti eliminativo-sanzionatori ma in interventi di carattere collaborativo.

Il controllo sugli atti risulta inadeguato per combattere la corruzione, infatti non c’è sempre una correlazione tra la commissione di determinati reati, come concussione o corruzione e l’illegittimità degli atti. Semmai l’illegittimità dell’atto può costituire un indizio di comportamenti non regolari. Più efficace risulta invece il controllo sull’attività in generale.

Riguardo alla contrapposizione tra controlli preventivi e successivi deve sottolinearsi che, al fine del contrasto alla corruzione e alla malamministrazione in generale, i controlli preventivi non sono

1 la Convenzione ONU anticorruzione all’articolo 5 pone, per la prevenzione della corruzione, tra gli altri, due principi fondamentali: trasparency e accountability, accountable, infatti, significa essere sottoposto all’obbligo di rendicontazione; si deve, cioè, dimostrare (in ogni momento), anche documentalmente, che nell’azione amministrativa siano stati rispettati, non solo i canoni della legalità, ma anche quelli dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità. 2 La stessa nozione di legittimità, intesa come conformità di un atto alle norme vigenti, ha assunto una diversa connotazione. Essa non rappresenta più un valore assoluto, per sé stesso rilevante, ma uno strumento di buona amministrazione, la via da seguire per la produzione di buoni risultati nell’interesse della collettività. In questo senso si parla di legalità sostanziale.

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adeguati. Gli ordinari controlli sull’attività delle pubbliche Amministrazioni, impostati su tale logica, possono essere interni se sono affidati ad uffici od organi incardinati nella struttura che svolge compiti di amministrazione attiva, ovvero esterni se sono affidati ad istituzioni estranee all’Amministrazione agente.

In particolare il legislatore degli anni novanta ha riordinato e potenziato il sistema dei controlli interni con il d.lgs. n.286/1999 recante “Riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche, a norma dell’art. 11, l. 15 marzo 1997, n.59”.

Il controllo interno si configura come un sistema, un complesso di metodi e strumenti che la direzione di un’Amministrazione ha a disposizione per il governo di quest’ultima, scopo del controllo interno è verificare, attraverso un continuo monitoraggio del rapporto, anche in corso di esercizio, tra costi e risultati, non tanto la legittimità del singolo atto amministrativo, quanto il conseguimento, da parte degli organi di gestione, degli obiettivi indicati dagli organi di governo dell’ente. Si tratta perciò di controlli di carattere collaborativo3 con i quali l’ente “sterilizzando” le criticità della propria organizzazione, migliora l’efficienza del suo agire ed è in grado di evitare di incorrere in controlli ispettivi esterni.

È noto come i limiti dei controlli interni previsti dal d. lgs. n. 286/1999, essenzialmente incentrati sul condizionamento-asservimento degli organi a ciò deputati ai vertici politici dell’amministrazione interessata, li abbiano resi fino ad oggi inidonei a svolgere la funzione di individuazione delle responsabilità. Il loro maggior pregio è consistito nello svolgere una funzione di “monitoraggio” dell’attività finalizzata ad indirizzare l’amministrazione verso il tendenziale raggiungimento di livelli sempre maggiori di efficacia, efficienza ed economicità.

Da verificare è l’impatto concreto che avrà sugli organismi di controllo interno la riforma dell’art. 30, comma 4, decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 1504 che si propone di superare i limiti legati all’assenza di indipendenza e capacità tecnica di giudizio dei controllori interni mediante abrogazione dell’art. 6, commi 2 e 3, d. lgs. n. 286/1999; come noto, in loro sostituzione, l’art. 14, d. lgs. n. 150/2009, in attuazione della legge n. 15/2009, ha previsto l’istituzione di “Organismi indipendenti di valutazione della performance”. Gli effetti della riforma sulla qualità dell’amministrazione non sono ancora misurabili5.

Sono almeno due, infatti, le condizioni necessarie a garantire il corretto funzionamento dei controlli interni della Pubblica amministrazione: innanzi tutto l’indipendenza dell’organismo di valutazione6 e poi la costruzione e l’applicazione di un insieme di strumenti in grado di garantire l’analisi, preventiva e successiva, della congruenza tra le missioni affidate dalle norme, gli obiettivi prescelti, nonché l’identificazione degli eventuali fattori ostativi, delle eventuali responsabilità, dei possibili rimedi.

3 Il disegno complessivo del controllo interno si articola in due sottosistemi, uno che ha un ruolo di garanzia oggettiva dell’ordinamento, assicurando la trasparenza dell’azione amministrativa, l’altro che è destinato a migliorare l’efficienza dei diversi livelli dell’amministrazione in una prospettiva volta a perseguire l’ottimizzazione della performance degli enti pubblici. Il sistema dei controlli interni è strutturato su quattro livelli: a)il controllo interno di regolarità amministrativa e contabile b)il controllo di gestione sull’efficienza, l’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa; c)la valutazione del rendimento dei dirigenti d)il controllo strategico sull’amministrazione in relazione agli obiettivi finali in sede politica. Per garantire l’ottimale funzionamento i quattro livelli sono amministrati da uffici diversi i quali, peraltro, hanno l’obbligo di predisporre opportuni meccanismi di coordinamento. 4 Il d.lgs. n. 150/09 prevede espressamente il ricorso al controllo di gestione ex. d.lgs. 286/1999. 5 Il d.lgs. 27 ottobre 2009, n.150 ha introdotto importanti novità: con questa riforma si eleva al rango di legge una serie di principi sino ad oggi rientranti nelle c.d. buone pratiche dell’amministrazione. Ci si riferisce alle disposizioni che tipizzano il ciclo di gestione della performance, che prevede anche la rendicontazione dei risultati agli organi di indirizzo politico-amministrativo, ai vertici delle amministrazioni nonché ai competenti organi esterni. In questo nuovo processo di valutazione della performance ruolo predominante è assegnato alla trasparenza, che dovrebbe avere l’effetto di responsabilizzare il funzionario pubblico, di permettere ai cittadini di controllare la gestione della cosa pubblica e sicuramente di svelare la presenza di illeciti all’interno della p.a.. 6 Questo principio dovrebbe essere assicurato dall’art. 14 del d.lgs. citato, l’OIVP deve riferire eventuali disfunzioni sia alla Corte dei Conti che all’Ispettorato della funzione pubblica.

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I controlli esterni sull’attività delle pubbliche Amministrazioni sono affidati in primo luogo, ai sensi delle norme di cui alla l.n. 14/1/1994 n. 20, alla Corte dei conti, istituzione che la nostra Costituzione pone in posizione di autonomia ed indipendenza rispetto agli altri Poteri dello Stato.

Nell’esercizio delle proprie funzioni di controllo, di regola svolte in base a programmi e criteri di riferimento definiti annualmente, la Corte dispone di ampi poteri istruttori.

L’esito del controllo si risolve nella predisposizione di relazioni ed osservazioni destinate alle Amministrazioni controllate. In caso di giudizio negativo esse devono attenersi alle indicazioni della Corte ed ovviare agli inconvenienti riscontrati7. L’esito del controllo, inoltre, costituisce oggetto di referto alle assemblee elettive, ed in primo luogo al Parlamento, così da permettere agli organi rappresentativi di esercitare consapevolmente ed efficacemente il proprio ruolo istituzionale. E’ proprio il referto che dovrebbe assumere un valore deterrente per l’amministrazione controllata al compimento di ulteriori irregolarità. Ma i risultati dei controlli non determinano, il più delle volte, “reazioni virtuose” da parte del parlamento e delle amministrazioni. Le misure (le “sanzioni”) contro i responsabili delle disfunzioni riscontrate sono rare o inesistenti. Da parte loro, le assemblee rappresentative sono tradizionalmente refrattarie ad esercitare la funzione di controllo (politico) sui rispettivi governi e sulle amministrazioni che ne dipendono.

Degni di nota sono i controlli ispettivi, per via della straordinarietà che li caratterizza. Le ispezioni, infatti, si risolvono in interventi di controllo mirati e temporanei, esercitati da un organo di un’Amministrazione sull’attività svolta da altri organi della stessa Amministrazione ovvero sull’attività svolta da altre Amministrazioni8.

Le risultanze di un accertamento ispettivo possono costituire il presupposto per l’attivazione di un procedimento disciplinare, o l’ispezione può inserirsi in tale procedimento come momento istruttorio di verifica di fatti (c.d. inchiesta disciplinare). Inoltre l’accertamento ispettivo può risultare indefettibile per completare riscontri cartolari finalizzati alla revoca di una concessione o di una autorizzazione (perciò si può inserire in un più vasto procedimento c.d. di secondo grado con la specifica finalità di acquisizione di elementi necessari per un corretto esercizio del potere di autotutela). L’ispezione può comportare anche l’acquisizione di elementi utili per l’adozione di sanzioni amministrative nei confronti dell’ispezionato, o per un trasferimento per incompatibilità ambientale di un pubblico dipendente. Molto spesso poi il riscontro in sede ispettiva di irregolarità amministrative o contabili porta all’adozione di atti di autotutela da parte dei vertici dell’amministrazione ispezionata (es. annullamento di atti di inquadramento del personale ritenuti illegittimi).

Quindi per la lotta alla corruzione gli unici controlli relativamente affidabili, almeno strutturalmente, appaiono i controlli esterni.

Il maggior punto debole che è stato individuato consiste nell’assenza di un effetto giuridico immediato e concreto ai rilievi critici contenuti nei rapporti degli organismi di controllo, ivi inclusi quelli di ispezione (comunque afferenti alla generale funzione di controllo) oltre che nell’assenza di validi poteri istruttori che consentano di ottenere una rappresentazione fedele e completa dell’attività amministrativa, in modo da andare oltre la mera lettura di atti e provvedimenti amministrativi.

Perciò se dalla c.d. riforma Brunetta è stata evidenziata la necessità di mantenere e valorizzare i controlli interni (eliminando le distorsioni che li hanno finora caratterizzati), si devono però creare dei collegamenti organici fra controlli interni ed autorità di controllo esterno, potenziando i

7 Proprio al fine di valutare l'impatto dei controlli svolti sulla capacità di autocorrezione delle Amministrazioni statali, la Corte ha istituito una formale ricognizione annuale degli effetti concreti delle pronunce intervenute nel corso dello stesso anno: da qui la delibera sul “Monitoraggio sulle modalità di adeguamento da parte delle Amministrazioni dello Stato alle osservazioni formulate dalla Sezione centrale di controllo sulla gestione nell'anno 2010” (n.17/2011/G). 8Secondo il più recente approdo dottrinale e giurisprudenziale l’ispezione si configura come sub-procedimento istruttorio, "servente" rispetto ad un più ampio procedimento di controllo destinato, di regola, a sfociare in un provvedimento di amministrazione attiva avente rilevanza esterna. Le indagini ispettive si inseriscono, in particolare, nella fase istruttoria di un più vasto procedimento "principale", divenendo esse stesse sub-procedimento istruttorio, e sono dunque di regola preordinate ad acquisire elementi conoscitivi necessari per lo svolgimento dell’azione amministrativa e per l’adozione di un provvedimento di rilevanza esterna.

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meccanismi di responsabilità del governo davanti al parlamento in esito ai reports che ad esso presenta la Corte dei Conti.

Per migliorare radicalmente il sistema dei controlli rendendoli efficaci, nel senso di capaci di incidere realmente sul miglioramento della qualità dell’amministrazione la premessa necessaria è quella di irrogare le opportune sanzioni (disciplinari, ma non solo) ai responsabili di processi (lato sensu) giudicati inefficienti, diseconomici e, dunque, generatori di disservizi alla collettività.

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Il codice di comportamento dei dipendenti pubblici e quello della magistratura 1.Il codice di comportamento dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche e le sanzioni

disciplinari In quanto stabiliscono doveri, divieti e incompatibilità non specificati dalla normativa generale e

definiscono i limiti di esercizio della autonomia dell’agente, i codici di comportamento presidiano quella zona grigia tra legalità e illegalità, tra “corruzione bianca” e “corruzione nera”, tra semplice onestà e moralità, dove si situano molti comportamenti di natura transattiva o prevaricativa, collusione e abuso di potere, che deviano dagli imperativi di lealtà all’organizzazione, di correttezza e di responsabilità nei confronti dei suoi utenti e clienti, e che alimentano la sfiducia nei suoi confronti colpendone la reputazione.

Il codice di comportamento dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche nasce a seguito delle vicende storiche legate a “tangentopoli”, agli inizi degli anni novanta, quando il tema dell’etica pubblica si scontra con l’emersione di fenomeni di diffusa corruzione all’interno della P.A., ed è necessario individuare uno strumento che sia accettato come modello generale di riferimento e possa guidare il dipendente nelle situazioni più ambigue.

E’ concepito dunque come uno strumento ausiliare alla morale del singolo anche per assicurare l’uniformità dei comportamenti.

L’art. 58 bis del d.lgs. 29/1993 prevede la definizione, da parte del Dipartimento della Funzione Pubblica, di un Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. L’approvazione del codice avviene nel 1994 e si caratterizza per l’essere costituito da soli 14 articoli ed essere concentrato soprattutto sui principi generali9.

In seguito, con d.c.m. 28 novembre 2000 viene varata una nuova versione del Codice di comportamento, che sostituisce il testo precedente espressamente abrogato10.

Riguardo al contenuto, l’art. 1 afferma che i contenuti del codice sono specificazioni degli obblighi di diligenza, lealtà, imparzialità che devono caratterizzare l’adempimento della prestazione lavorativa. Si puntualizza che i contratti collettivi devono coordinare le previsioni in materia di responsabilità disciplinare con i principi del codice. Le disposizioni del codice, in base al dettato dell’art. 1, trovano applicazione in tutti i casi in cui non sono applicabili norme di legge o di regolamento, o comunque per i profili non diversamente disciplinati da leggi o regolamenti e queste disposizioni possono essere integrate e specificate dai codici adottati dalle singole amministrazioni.

L’art. 2 specifica i principi ai quali il pubblico dipendente dovrebbe attenersi. In generale può dirsi che questi non sono altro che l’enunciazione di obblighi che sono già propri del lavoro presso le amministrazioni pubbliche.11 12

Punto importante è quello dedicato al rapporto con i cittadini: viene previsto che il rapporto deve essere improntato a fiducia e collaborazione, in modo da favorire l’accesso alle informazioni e cercando di semplificare il più possibile l’attività amministrativa.

Segue una serie di disposizioni che si occupano di profili specifici(regali e altre utilità art. 3, partecipazione ad associazioni e altre organizzazioni art. 4, trasparenza negli interessi finanziari art.

9 In seguito l’art. 58 bis d.lgs. 29/93 era stato ulteriormente modificato dall’art. 27 del d.lgs. 80/1998 per permettere un coordinamento con le disposizioni dei contratti collettivi in materia di infrazioni e sanzioni disciplinari. Nel 1998 sono stati aggiunti 3 ulteriori commi che stabilivano la possibilità per l’organo di vertice di ciascuna pubblica amministrazione di verificare l’applicabilità del codice, apportando eventuali modifiche ed integrazioni, la possibilità di adottare uno specifico codice per ogni singola amministrazione, il dovere dei dirigenti di ciascuna struttura di vigilare sull’applicazione del codice e l’organizzazione a opera delle pubbliche amministrazioni di specifiche attività formative per il personale. 10 L’art. 58 bis ed i suoi contenuti sono confluiti nell’art. 54 del d.lgs. 165 del 2001. 11 Si fa riferimento ad esempio al dovere di servire esclusivamente la Nazione e di rispettare i principi di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione o a quello di dedicare la giusta quantità di tempo e di energie allo svolgimento delle proprie competenze. Secondo parte della dottrina queste formulazioni ripetono nozioni ovvie prive di efficacia innovativa. 12 Secondo alcuni autori in realtà si andavano a concretizzare, rendendoli nella sostanza più stringenti (e quindi codificandoli), i doveri di diligenza, di impegno, di riservatezza, di decoro, di tutela dell’immagine propria e della propria amministrazione previsti dallo statuto dei lavoratori del Pubblico impiego (il Testo Unico del ‘57).

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5, obbligo di astensione art. 6, attività collaterali art. 7, imparzialità art. 8, comportamento nella vita sociale art. 9, comportamento in servizio art. 10, rapporti con il pubblico art. 11, contratti art. 12 obblighi connessi alla valutazione dei risultati art. 13).

In generale può dirsi che se si prende come punto di riferimento l’obbligo di fedeltà si possono facilmente individuare tutti i comportamenti “sleali”e quindi vietati dal codice13.

Le disposizioni citate sono dirette a prevenire situazioni e comportamenti che potrebbero incrinare l’immagine esterna ed il prestigio dell’amministrazione.

Ciò detto, ci si deve chiedere quale siano le conseguenze di una violazione delle disposizioni del codice e che effetto possano avere sul piano disciplinare.

Come accennato, il comma 3 dell’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001 ha previsto che siano i contratti collettivi a provvedere al coordinamento delle disposizioni del codice di comportamento con le previsioni in materia di responsabilità disciplinare. Quindi spetta al contratto collettivo il compito di veicolare le previsioni “etiche” del codice nelle norme disciplinari, in modo da attribuire alle stesse un’efficacia vincolante e creare un collegamento tra infrazione e sanzione. Il codice di comportamento è infatti una fonte di obblighi metagiuridici e la sua inosservanza diventa rilevante se gli obblighi da esso previsti sono recepiti nel Codice disciplinare delineato dal contratto collettivo. Questo è avvenuto dal momento che la contrattazione di comparto, nell’individuare le violazioni agli obblighi che possono dare vita ad un’infrazione disciplinare, ha richiamato i principi espressi nel codice di comportamento, ad integrazione degli obblighi posti dai contratti stessi.14 Si deve notare, a questo proposito, che nei contratti collettivi dei vari comparti vi è stata una esplicitazione degli obblighi dei dipendenti, rifacendosi al codice di comportamento. Quindi se per quanto riguarda il riconoscimento degli obblighi dei dipendenti vi è pieno coordinamento delle previsioni contrattuali con quelle del codice, qualcosa resta ancora da fare nella specificazione delle sanzioni, molto spesso non vengono sanzionati i divieti di accettazione dei regali15, i conflitti di interesse, l’uso delle risorse d’ufficio a fini privati16.

In generale può dirsi che le disposizioni del codice di comportamento servono a riempire di contenuto le clausole generali che riguardano ad esempio il principio di correttezza, ed in generale i comportamenti da cui possa derivare un danno per l’amministrazione e di conseguenza l’irrogazione della sanzione, potendo essere utilizzate come criterio interpretativo di infrazioni che sono individuate in modo solo generico.

La contrattazione collettiva deve senza dubbio rispettare i principi posti a base del codice, in modo tale da non prevedere sanzioni per comportamenti ammessi dal codice e adattare la disciplina del codice alle diverse categorie di dipendenti, ma è ad essa che viene affidata l’individuazione e la definizione degli illeciti17.

La discussione sui codici etici non può inoltre essere disgiunta dalle novità legislative introdotte con il decreto legislativo n. 150/2009 in tema di valutazione delle performance, meritocrazia, previsione di sistemi premiali per le Amministrazioni pubbliche virtuose, volte ad eliminare sprechi, ritardi o addirittura fenomeni di rilevanza penale o amministrativo contabile. Non solo: il decreto legislativo n. 150/2009 affronta direttamente la tematica della legalità e della cultura dell’integrità all’interno di tutte le Amministrazioni Pubbliche.

Nuovo rilievo viene dato al Codice di comportamento dalla riforma Brunetta che lo considera, almeno formalmente, uno strumento per contrastare la diffusione dei fenomeni di malcostume e corruzione e ridare credibilità alle pubbliche amministrazioni.

13 Ad es. la richiesta o l’accettazione di regali, compensi per lo svolgimento dei propri compiti, la partecipazione a decisioni o attività che coinvolgano gli interessi del dipendente, l’accettazione di raccomandazioni, lo sfruttamento della posizione ricoperta a fini personali ecc.. 14 Vedi contratto di comparto segretari comunali del 2006/2009. Vedi Circolare del ministero della Funzione pubblica del 12 giugno 2008, n. 41/2008. 15 Divieto esplicito si ritrova nel codice sanzionatorio previsto dal CCNL dei segretari comunali del 2006/2009 16 In questo senso, BG Mattarella in Le regole dell’onestà, p. 170 e ss. 17 In base all’art. 55 ter d.lgs. 150/2009 il procedimento disciplinare che abbia ad oggetto fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale, a meno che, per le infrazioni di maggiore gravità e nei casi di particolare complessità venga sospeso.

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La riforma Brunetta ha operato ulteriori specificazioni circa la rilevanza delle indicazioni del Codice di comportamento nel quadro della disciplina sanzionatoria: ad es. nell’art. 55 quater co 2 d. lgs 150/2009 si fa esplicito richiamo ai codici di comportamento per stabilire le violazioni degli obblighi concernenti le prestazioni che possano portare alla valutazione di insufficiente rendimento, alla base del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo. Quindi in questi casi la violazione delle norme del codice influisce sul giudizio di efficienza, comportando una responsabilità per i risultati.

Un altro riferimento si ha nel caso dell’art. 55 sexies, che prevede il richiamo al codice per individuare le violazioni commesse da parte del dipendente che comportano per la P.A. l’obbligo del risarcimento del danno.18

Sembra quindi dal richiamo che si fa ai contenuti del codice, che questo venga considerato come un parametro specifico, rilevante per sostenere gli interventi sanzionatori.

2. le sanzioni disciplinari dei magistrati ed il rapporto con il codice etico Un tipo particolare di dipendente pubblico è il magistrato che per la delicatezza del compito

svolto e degli interessi che ad esso sono sottesi è più di tutti vincolato allo svolgimento corretto della funzione.

L’attuale codice etico19 della magistratura ordinaria ha una sua peculiarità nella circostanza di essere previsto come obbligatorio da una norma primaria (art. 58 bis, 4° comma, d.leg. 3 febbraio 1993 n. 29, come modificato dall’art. 26 d.leg. 23 dicembre 1993 n. 54620).

Da questa disposizione si ricava l’indicazione che le regole contenute nel codice, in quanto definite regole etiche, da predisporsi dalle associazioni di categoria, entità, queste ultime che hanno natura privatistica, sottoposte all’adesione, cioè soltanto alla conoscenza ed al contributo, senza necessità di approvazione, degli associati, non hanno i caratteri di imperatività e coercibilità propri delle norme giuridiche21.

Questo elemento, che individua la particolare natura delle regole contenute nei codici etici22, è stato colto con chiarezza nei preamboli dei codici etici dei magistrati ordinari e dei magistrati del Consiglio di Stato.

Nel primo, tali regole si indicano quali “regole etiche cui secondo il comune sentire dei magistrati deve ispirarsi il loro comportamento … indicazioni di principio prive di efficacia giuridica, che si collocano su un piano diverso rispetto alla regolamentazione giuridica degli illeciti disciplinari”.

Tali regole, quindi, non sono regole giuridiche in senso proprio, in quanto indicano valori privi di coercibilità, piuttosto che precetti coercibili. Al tempo stesso esse, però, non appaiono neppure regole propriamente morali, in quanto queste ultime si esauriscono nella sfera dell’interiorità di ogni singolo soggetto.

Si tratterebbe quindi, di regole esteriori, non giuridiche, caratterizzate dalla completa mancanza del carattere di coercibilità23.

18 Per il dipendente, in questo caso, è stabilita, se non ricorrono i presupposti per l’applicazione di un’altra sanzione disciplinare, la sospensione da tre giorni a tre mesi. 19 Occorre fare una distinzione netta tra due concetti giuridici che sono realmente diversi, anche se nel linguaggio comune e nel linguaggio burocratico li troviamo in qualche modo accomunati. Una cosa è il codice etico, altra cosa è il codice di comportamento. Il codice di comportamento invece è un codice vero e proprio, cioè è una vera normativa giuridica di settore, specifica per il comportamento dei pubblici dipendenti. 20 La citata disposizione, di cui all’art. 58 bis, 4° comma, d.leg. 29/93 e successive modifiche, dispone che: “Per ciascuna magistratura e per l’avvocatura dello Stato, gli organi delle associazioni di categoria adottano, entro il termine di centoventi giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, un codice etico che viene sottoposto all’adesione degli appartenenti alla magistratura interessata. Decorso inutilmente detto termine, il codice è adottato dall’organo di autogoverno”. 21 La natura di questi codici è pari a quello dei codici etici liberamente adottati. 22 L’etica nella sostanza corrisponde al buon costume di cui all’articolo 2034 del Codice Civile. Il buon costume è una clausola generale, quindi, come tale, una scatola vuota da riempire di contenuti che corrispondono a quei valori che l’interprete di volta in volta ritiene siano l’espressione dell’ideologia morale dell’ordinamento e della coscienza della società civile, a prescindere dalle norme scritte. 23 Il codice è frutto di autonomia negoziale, la volontà negoziale interpreta il cambiamento della società ed il suo nuovo modello etico quindi propone ed impone a sé stessa una nuova diversa regola di condotta.

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I valori essenziali, che emergono dai codici etici adottati da ciascuna magistratura, sono quelli dell’eguaglianza, e, conseguentemente, dell’esercizio del potere quale esclusivo servizio.

E’ stato da molti ritenuto che attraverso l’adozione di tali codici, che possono, appunto anche definirsi, come è stato fatto, codici d’onore, i magistrati manifestando nella loro essenza i valori ai quali ispirano la loro attività, si offrano ad una valutazione della società civile, rafforzando così la legittimazione del potere da loro esercitato in base alla legge ed in nome del popolo italiano.

Per quanto concerne il rilievo di questi codici nell’ordinamento giuridico, sembra che alle regole contenute in tali codici l’interprete possa far riferimento, per riempire di significato clausole generali contenute in disposizioni di legge, quali, ad esempio, “prestigio”, “buona considerazione”, “correttezza”. Le clausole generali esprimono, infatti, nel corpo delle disposizioni di legge, nozioni che devono essere definite con riferimento ad elementi non giuridici, quali quelli che possono essere tratti dal costume morale o sociale.

Il fenomeno dell’applicazione delle norme dei codici etici da parte della magistratura disciplinare, se pur ha cominciato a verificarsi, è avvenuto con molta cautela e parsimonia.

La possibilità di fare riferimento a fonti di carattere atipico nei giudizi di responsabilità dei magistrati, è un principio espresso dalla Corte di Cassazione nella sentenza delle SS. UU: n. 11732 del 20/11/1998, laddove si è affermato che la sezione disciplinare del CSM, nel valutare disciplinarmente i comportamenti dei magistrati, compie un’ordinaria attività ermeneutica di applicazione al caso concreto dell’art. 18 del R.D. Lgs. n. 511/1946. Tale attività, dice la Corte, può avvenire mediante un’interpretazione sistematica coordinata con le altre norme del diritto statale e, con le fonti di diritto interne all’ordinamento della magistratura e di livello infralegislativo, quali appunto, il codice etico, le fonti paranormative dello stesso CSM, i precedenti giurisprudenziali24.

Con il d.lgs 109/2006 il legislatore ha rinnegato la pregressa atipicità dell'illecito disciplinare, consacrata nel vecchio art. 18 r.d.l. n. 511 del 194625, prevedendo una serie di disposizioni che delimitano l’area dei comportamenti sanzionabili.

La dottrina, in particolare, aveva affermato che l’assenza di una tipizzazione degli illeciti disciplinari, per un verso, poteva impedire nel relativo procedimento di perseguire effettivamente e di sottoporre a sanzione i magistrati che avessero commesso abusi o scorrettezze deontologicamente rilevanti, nell’esercizio o fuori delle loro funzioni; per altro verso, poteva però anche consentire che i magistrati fossero arbitrariamente perseguiti attraverso un uso distorto, intimidatorio e persecutorio dell’illecito disciplinare.

Dunque, la tipizzazione degli illeciti disciplinari era vista dai più come un’esigenza di razionalità del sistema che potesse, al contempo, garantire ed assicurare la certezza del diritto e, a ciascun magistrato, la sua piena indipendenza, esterna come interna al sistema del governo autonomo.

Gli illeciti disciplinari sono distinti in due categorie, da un lato le ipotesi di illeciti commessi nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e dall’altro le ipotesi di illeciti commessi fuori dell’esercizio delle funzioni. Il primo articolo del citato decreto legislativo è dedicato ai“doveri del magistrato” e prevede una elencazione dettagliata dei doveri fondamentali cui devono attenersi i magistrati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Si tratta di principi26e valori deontologici essenziali per chi esercita la funzione giudiziaria e ricalca doveri ampiamente riconosciuti nell’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale. .

24 Nella sentenza a Sezioni Unite n. 7443 del 2005, la Corte in tema di libertà di manifestazione del pensiero da parte dei magistrati, pur sostenendo che i precetti giuridici e quelli etico professionali sono ontologicamente differenti per funzione e per natura, ha ancora una volta affermato che la violazione del codice etico può costituire l’indice o il riscontro di una violazione di norme disciplinari. 25 Nel periodo di transizione tra la caduta del regime fascista in Italia e l’instaurazione del sistema politico repubblicano, le esigenze di democratizzazione della società si fecero sentire anche nell’ambito della magistratura. Nel maggio del 1946 viene emanato un atto normativo che viene definito una “legge sulle guarentigie della magistratura” con il quale, nel nome comunque della continuità strutturale, si cerca di dare un nuovo assetto alla magistratura, istituendo, tra l’altro, il Consiglio Superiore della Magistratura e sollevando i magistrati del Pubblico Ministero dalla loro dipendenza funzionale con l’esecutivo. Tra le disposizioni introdotte con tale atto normativo, a noi interessa soprattutto il suo art. 18 il quale dispone che è soggetto a sanzioni disciplinari il magistrato che manchi ai suoi doveri o tenga in ufficio, o fuori, una condotta tale da renderlo immeritevole della fiducia e della considerazione cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario. 26 Vengono quindi richiamati il dovere di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio nonché di rispetto della dignità della persona come principi fondamentali da osservare nell’esercizio delle funzioni di magistrato.

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L’art. 2 del decreto legislativo contiene un dettagliato elenco tassativo di ipotesi di illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni27, mentre l’art. 3 prevede una serie di condotte tenute fuori dell’esercizio delle funzioni che possono dar vita ad un procedimento disciplinare. Si segnalano, ad esempio, l'uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sé o per altri; il frequentare persona sottoposta a procedimento penale o di prevenzione comunque trattato dal magistrato, ovvero l’intrattenere rapporti consapevoli di affari con una di tali persone. Nonché l’assunzione di incarichi extragiudiziari senza la prescritta autorizzazione del Consiglio superiore della magistratura; ovvero la partecipazione ad associazioni segrete o i cui vincoli sono oggettivamente incompatibili con l’esercizio delle funzioni ed altresì l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici ovvero il coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato. L’art. 4 del decreto individua inoltre gli illeciti disciplinari conseguenti al reato stabilendo una specie di automatismo fra i fatti per i quali è intervenuta una condanna per delitto doloso e l’azione disciplinare, anche se il reato è estinto per qualsiasi causa o l’azione penale non può essere iniziata o proseguita, mentre per i delitti colposi puniti con la reclusione, occorre riscontrare il carattere di particolare gravità per le modalità e le conseguenze del fatto28.

Si intende verificare quale rapporto vi sia tra questo decreto ed il codice etico di recente introduzione29. Deontologia e responsabilità disciplinare sono, infatti, due profili di uno stesso problema. Prima della riforma al regime disciplinare vi era la necessità di dare un contenuto concreto alla formula dell’art. 18, che era molto generica. Ora questo problema non si pone: il legislatore ha puntualmente individuato tutti i casi sanzionabili, quindi l’intervento integrativo sul piano interpretativo del codice etico sembra notevolmente ridotto.Un caso di ausilio può avvenire ancora con riferimento alla lettera d) dell’art 2 del d.lgs citato che fa riferimento alla “correttezza”. Quindi il ruolo che sembrava fosse stato perso, viene riacquistato dal codice grazie alla vaghezza della disposizione, che consente perciò il riferimento al codice etico. In generale, avendo riguardo anche al nuovo codice etico si può affermare che mentre in passato i precetti deontologici e di responsabilità disciplinare, si preoccupavano di una tutela ossessiva di certi valori tanto tradizionali quanto indefiniti, come il prestigio, il decoro e la dignità dell’Ordine, in epoca più recente l’attenzione si è spostata ai valori del buon funzionamento, imparzialità, credibilità della funzione e correttezza di un servizio che deve essere reso in favore della collettività dei cittadini.

27Premettendo che non possono mai dar luogo a responsabilità disciplinare l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove, vengono individuate 25 ipotesi che costituiscono fattispecie tipiche di illecito commesso nell’esercizio delle funzioni; si indicano, a mero titolo di esempio, i comportamenti che, violando i doveri del magistrato, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti; ovvero l’omessa comunicazione al Consiglio superiore della magistratura della sussistenza di una delle situazioni di incompatibilità parentale di cui agli artt. 18 e 19 dell’ordinamento giudiziario, nonché la consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione; così anche i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell'ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori; l’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di altro magistrato e nell’omessa comunicazione al capo dell’ufficio, da parte del magistrato destinatario, delle avvenute interferenze, ed inoltre la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile ed il travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile; e numerose altre di altrettanto rilievo. 28Secondo Mario Fresa, componente della sezione disciplinare del csm, in La riforma del procedimento disciplinare, gli aspetti processuali, le prime applicazioni della nuova disciplina tipizzata degli illeciti dimostrano come questa sia più gravosa e più rischiosa per il magistrato incolpato rispetto alla precedente. In particolare, il raffronto in concreto tra il vecchio art. 18 e le nuove fattispecie tipizzate, al fine di stabilire quale sia la norma più favorevole per l’incolpato nel regime transitorio, si risolve quasi sempre nel senso della applicazione della disciplina abrogata, che non prevedeva tra l’altro in nessun caso un tetto minimo di sanzione e che assicurava comunque al giudice una più ampia discrezionalità nella effettuazione del concreto apprezzamento della lesione del prestigio dell’ordine giudiziario e della credibilità della funzione giudiziaria esercitata. 29 Il 13 novembre 2010 il Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati ha approvato il nuovo codice etico della magistratura. Vengono colmate le lacune presenti nella precedente formulazione riguardo ai rapporti tra magistrati dei tribunali e quelli delle procure, con gli organi di stampa e al comportamento nella vita privata.

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La corruzione in atti giudiziari e la configurabilità della forma susseguente La corruzione in atti giudiziari si connota per il particolare oggetto del pactum sceleris,

consistente nel compiere un atto conforme o contrario ai doveri d’ufficio, al fine di favorire o danneggiare una parte in un processo. L’art. 319 ter, introdotto dalla legge n. 86/1990, secondo il prevalente orientamento, prevede una figura autonoma di reato30 e non una circostanza aggravante dei delitti previsti dagli artt. 318 e 319 c.p., esso presenta infatti un quid pluris in termini di disvalore rispetto alla fattispecie di cui agli artt. 318 e 319 c.p., che ne giustifica il carattere di reato autonomo ed il più rigoroso regime sanzionatorio31.

Con questa incriminazione il legislatore intende tutelare l’esigenza che l’attività giudiziaria sia svolta in modo imparziale.

Soggetti attivi del reato sono il pubblico ufficiale32 e il soggetto privato. La giurisprudenza afferma che gli intermediari, che contribuiscono a far sì che il pubblico agente riceva il denaro, vanno considerati concorrenti con quest’ultimo nella corruzione in atti giudiziari.

In forza dell’espresso richiamo normativo contenuto nella disposizione in parola, la condotta tipica consiste nel realizzare un fatto di corruzione propria o impropria.

Come è stato anticipato, Infatti il pactum sceleris in questo caso è finalizzato a favorire una parte processuale, persona fisica o giuridica che abbia proposto o nei cui confronti sia stata proposta una domanda giudiziale. La qualità di parte, nel processo penale, va riconosciuta all’imputato, alla parte civile, al responsabile civile, alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e al pubblico ministero, la Suprema Corte ha aggiunto anche l’indagato.

Bisogna analizzare la portata del reato in questione per poter verificare la possibilità della sua configurazione nella forma susseguente.

Secondo parte della dottrina il reato potrebbe esplicarsi solo nella forma antecedente, in quanto sarebbe impensabile che il privato corruttore dia o prometta denaro o altra utilità per conseguire un obiettivo(l’emissione del provvedimento in questione) già ottenuto. La remunerazione di atti già compiuti sarebbe sanzionata dalle norme che disciplinano la corruzione ordinaria.

Il campo di applicazione della norma in discorso viene ristretto alla sola corruzione propria antecedente, parte della dottrina esclude, infatti, che possa essere emessa, al fine di arrecare un vantaggio o un danno ingiusto, una decisione giudiziaria conforme alla disciplina legale33.

In giurisprudenza la configurabilità della corruzione in atti giudiziari susseguente è controversa. In argomento si registrano due contrapposti orientamenti giurisprudenziali che hanno determinato l’intervento delle Sezioni Unite con la pronuncio n. 15208, del 21 aprile 2010.

Secondo un indirizzo minoritario, la corruzione susseguente in atti giudiziari non è configurabile: la corruzione in atti giudiziari si connota per essere diretta ad un risultato e non è compatibile con la proiezione verso il passato, con una situazione di interesse già soddisfatto, su cui è invece modulato lo schema della corruzione susseguente34.

Le argomentazioni a sostegno di tale conclusione muovono dal dato normativo, dall’inciso”per favorire o danneggiare una parte”: se cioè la condotta incriminata, costituita dal ricevere denaro o accettarne la promessa, ha ragion d’essere solo in attesa di un atto funzionale ancora da compiersi, è ragionevole desumere che la mera remunerazione di atti pregressi non integra il delitto in questione.

30 Questa lettura appare più fedele alla ratio dell’innovazione apportata dal legislatore del 1990, quella cioè di sottolineare il particolare disvalore e la grave riprovevolezza dei comportamenti messi in atto nell’esercizio dell’attività giurisdizionale, in considerazione del rilievo costituzionale della funzione giudiziaria ex art. 104. Cost. 31 La previsione come figura autonoma di reato elimina la possibilità che la maggior pena sia assorbita per effetto del giudizio di prevalenza o di equivalenza di una circostanza attenuante. 32 Tale qualifica, oltre che dal giudice può essere ricoperta anche da periti e testimoni. 33 In base ad un opposto orientamento giurisprudenziale la corruzione in atti giudiziari “impropria” può integrare il delitto di cui all’art. 319 ter c.p., nel caso in cui le utilità costituiscano il prezzo della compravendita della funzione giudiziaria, considerata nel suo complessivo svolgimento. Cass. n. 23024/2004. 34 Cfr. Sent. 33435/2006 e Cass. 36323/2009.

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Se all’espressione “per favorire o danneggiare” si equiparasse infatti quella “per aver favorito o danneggiato”, associando alla valenza finale quella causale, si giungerebbe ad una interpretazione in malam partem e ad un’inevitabile violazione del principio di tassatività.

La tesi in questione si basa anche su ragioni di ordine sistematico. Nella fattispecie di corruzione in atti giudiziari sono equiparate le condotte di corruzione propria ed impropria antecedente, perché entrambe condizionano il processo e sono espressione di un medesimo disvalore. Se si ritenesse ricompresa anche la corruzione susseguente che, a differenza di quella antecedente, non influenza l’andamento dell’attività giudiziaria perché già compiuta, si avrebbe l’irragionevole risultato di assoggettare ad uno stesso trattamento sanzionatorio tipologie di corruzione oggettivamente diverse.

Per un diverso e prevalente orientamento giurisprudenziale35, la corruzione in atti giudiziari nella forma susseguente è invece configurabile.

Muovendo dall’esame del contenuto degli artt. 318 e 319 c.p. in cui è compresa sia la figura della corruzione antecedente sia quella susseguente, si nota che il dato comune è costituito dal venir meno dei doveri di imparzialità e terzietà in capo all’autore del fatto.

L’elemento di rilievo perché possa dirsi integrato il fatto-reato è che la promessa o la ricezione siano avvenute per un atto di giurisdizione da compiere o già compiuto per favorire o danneggiare una parte. E’ l’atto giudiziario che deve essere contrassegnato da una finalità non imparziale.

Riguardo all’elemento soggettivo, la giurisprudenza evidenzia che nella fattispecie di corruzione antecedente in atti giudiziari il dolo specifico si articola nella finalità di adottare un atto conforme o contrario ai doveri d’ufficio e di violare, per mezzo del compimento dell’atto, il dovere di imparzialità che connota la funzione giudiziaria; nella corruzione in atti giudiziari susseguente, invece, l’elemento soggettivo si compone del dolo generico della corruzione generica e del dolo specifico proprio della corruzione in atti giudiziari che, tuttavia, si atteggia ad elemento antecedente alla condotta tipica.

“Nella fattispecie di corruzione in atti giudiziari susseguente, si ha dunque una causalità invertita rispetto alla fattispecie di corruzione in atti giudiziari antecedente, nel senso che l’atto, conforme o contrario ai doveri d’ufficio costituisce il presupposto strutturale indispensabile della condotta, che assume rilievo penale solo in forza del contributo causale dell’atto stesso36”

Le Sezioni Unite hanno seguito l’indirizzo prevalente, concludendo per la configurabilità della corruzione in atti giudiziari anche nella forma susseguente, ritenendo possibile che il reato in questione si configuri con la ricezione di un’utilità dopo il compimento di un atto, pur conforme ai doveri d’ufficio, che sia strumento di un favore o di un danno di una delle parti del processo..

Il Supremo Collegio argomenta, in primo luogo, sulla base del dato letterale della norma di cui all’art. 319 ter c.p., che riconnette la sanzione in essa prevista “ai fatti indicati negli articoli 318 e 319 c.p.."

Applicando il primo canone interpretativo che deriva dall’art. 12 delle preleggi, quello letterale, la Corte supera l’impasse interpretativo ed elimina la possibilità di un’interpretazione riduttiva, non residuando alcun dubbio sul mero rinvio della norma alle disposizioni di cui agli artt. 318 e 319 ed essendo riconducibili a tali disposizioni tutti i tipi di corruzione: propria, impropria, antecedente e susseguente.

Secondo la Corte il fine di arrecare vantaggio o danno va riferito al pubblico ufficiale, poiché è questi che compiendo un atto del proprio ufficio, può incidere sull’esito del processo: è l’atto o il comportamento processuale che deve dunque essere contrassegnato da una finalità non imparziale.

In secondo luogo deve essere analizzata la finalità perseguita al momento del compimento dell’atto del pubblico ufficiale: se essa è diretta a favorire o danneggiare una parte del processo, è indifferente che l’utilità data o promessa sia antecedente o successiva al compimento dell’atto, come pure è irrilevante stabilire se l’atto in concreto sia o no contrario ai doveri d’ufficio.

La distinzione tra atto contrario ai doveri d’ufficio e atto d’ufficio non assume rilevanza fondamentale, dal momento che il dato importante è che l’autore del fatto sia venuto meno al

35 Cfr. Sent. 25418/2007. 36 Cfr. sent S.U. citata.

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dovere di imparzialità e terzietà (non solo soggettiva ma anche oggettiva) tutelato costituzionalmente.

Il secondo comma dell’art. 319 ter prevede due circostanze aggravanti: che dal fatto consegua un’ingiusta condanna alla reclusione non superiore ai cinque anni e all’ergastolo. Tali circostanze si riferiscono ad un evento ulteriore, l’ingiusta condanna, la cui verificazione è necessaria perché possa dirsi integrata la fattispecie circostanziata. La norma richiede che la condanna sia ingiusta, cioè emessa nei confronti di un soggetto innocente. Se dal fatto di corruzione derivi l’ingiusta assoluzione del colpevole, non si prevede, invece, l’applicazione dell’aggravante del secondo comma dell’art. 319 ter..

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L’incandidabilità Il tema dell’incandidabilità alle competizioni elettorali, a seguito di sentenze irrevocabile di

condanna, è molto attuale ed è importante analizzarlo. Storicamente alle norme sull’ineleggibilità e a quelle sull’incompatibilità, le sole presenti, si

attribuiva rilevanza da un punto di vista etico, in quanto volte a garantire il corretto sviluppo della volontà elettorale e la correttezza dell’esercizio della funzione. Si doveva impedire che il libero mercato dei voti fosse alterato e si doveva fare in modo che il soggetto eletto non svolgesse il proprio mandato in funzione del proprio interesse.

L’incandidabilità non era presente nel sistema, dal momento che si riteneva sufficiente l’istituto dell’ineleggibilità a cui si aggiungevano la disciplina civilistica sul fallimento e quella penalistica delle pene accessorie.

L’introduzione di questo istituto è avvenuto negli anni Novanta, per rispondere all’esigenza di etica sentita in quel particolare momento storico. Il legislatore si è però limitato a prevedere l’istituto dell’incandidabilità solo per le competizioni elettorali a livello locale ex art. 58 T.U.E.L.

Manca infatti una disciplina generale sull’incandidabilità e vi è un problema di coerenza del sistema che si dovrà risolvere dal momento che, allo stato attuale, i condannati per alcuni reati dolosi gravi sono incandidabili nei consigli degli enti locali ma sono candidabili al parlamento nazionale.

L’etica pubblica, in relazione all’esercizio di cariche parlamentari e di governo, è valore fondante e imprescindibile per la coesione sociale e l’affidabilità democratica delle istituzioni, anche ai sensi dell’articolo 51 della Costituzione. E’ necessario perciò un sistema che presenti principi unici che riguardino tutte le competizioni elettorali ed è dalla figura dell’incandidabilità che si deve partire se si vuole veramente riformare il sistema.

Anche sotto il profilo costituzionale risulta dunque necessario equiparare la disciplina delle cause soggettive di incandidabilità e ineleggibilità, risultando irragionevole la mancata previsione di tali cause solo per l’accesso alle cariche elettive nel Parlamento nazionale e per quelle del Governo nazionale.

Il disegno di legge anticorruzione, in esame ora alla Camera37, non ha modificato, per ora, quanto previsto dal Senato, che attribuisce una delega al Governo per l’adozione di un testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e divieto di ricoprire cariche elettive e di governo, conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi38.

Per individuare l’ambito di applicazione si fa riferimento all’art. 51 commi 3 bis e 3 ter c.p.p.che prevede reati gravi aggiungendo quelli del Libro II titolo II capo primo del codice penale, che disciplina i delitti contro la Pubblica amministrazione.

Si prevede l’incandidabilità alla carica di deputato o senatore, se la condanna sia superiore a due anni e questo regime viene esteso anche alle cariche di Governo.

Si prevede la necessità di un coordinamento tra le disposizioni del T.U., da emanare, e le norme relative all’interdizione dai pubblici uffici e alla riabilitazione. Allo stato attuale, infatti, l’incandidabilità è prevista come sanzione accessoria alla condanna a determinati reati e l’unico modo per rimuoverla è la riabilitazione che estingue le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna.

Un altro aspetto su cui si deve riflettere è quello della temporaneità o meno della misura dell’incandidabilità, problema parzialmente risolto dal disegno di legge.

Ci si deve chiedere se questa possa rientrare nell’ineleggibilità permettendo così al legislatore di introdurre dei limiti a riguardo.

Sul punto si registrano due impostazioni. Secondo la prima il concetto di ineleggibilità viene ritenuto molto diverso da quello di

incandidabilità e diversa è considerata anche la sua ratio. Il concetto di ineleggibilità, impossibilità 37 Art. 8 ddl 4434 della Camera dei Deputati. 38 Nella scorsa legislatura c’era stato un disegno di legge che intendeva estendere l’incandidabilità anche ai candidati al parlamento nazionale, introducendo l’art. 6 bis al d.p.r. 357/1961.

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ad essere eletto, riguarda il modo in cui un soggetto usa i poteri e le funzioni che esercita, quello di incandidabilità, impossibilità ad essere candidato, si riferisce alle caratteristiche personali del soggetto.

Ratio dell’ineleggibilità è quella di impedire che il voto possa essere condizionato e che i candidati possano essere in conflitto di interessi, se eletti. Le situazioni di ineleggibilità devono poter essere rimosse dal soggetto e, se presenti, influiscono sulla validità dell’elezione.

La previsione dell’incandidabilità sarebbe volta a tutelare invece il buon andamento e la trasparenza della pubblica amministrazione e la libera determinazione degli organi elettivi. Nei casi di incandidabilità al soggetto non è possibile rimuovere la causa ostativa e l’elezione è nulla.

La Corte di Cassazione ha affermato, con riferimento agli amministratori locali, che le cause di incandidabilità riguardano uno status di “inidoneità funzionale assoluta” e non rimovibile da parte dell’interessato39.

Riguardo al regime dell’istituto a livello locale, i reati presupposto della non candidabilità ex art. 58 TUEL sono i reati contro la p.a. e di associazione di stampo mafioso e quelli in materia di stupefacenti. I soggetti condannati con sentenza definitiva si trovano quindi in una condizione diminuita in riferimento all’elettorato passivo.

Le cause di ineleggibilità ex artt. 60 e 61 d.lgs. 276/2000 mirano a garantire la libera espressione del voto che non deve poter essere controllato dal candidato.

Nonostante la presenza di queste differenze per un’altra impostazione si può ritenere che sia l’ineleggibilità che l’incandidabilità sono volte ad impedire che la competizione elettorale sia alterata, indipendentemente dal fatto che questo avvenga in un momento precedente o successivo rispetto alla competizione stessa. Questa impostazione si basa sul dettato del Giudice delle leggi che ha definito l’incandidabilità come forma particolarissima di ineleggibilità40.

Bisogna a questo punto interrogarsi sui profili di costituzionalità delle norme di legge che prevedano ipotesi di incandidabilità alla carica di deputato e senatore.

Il punto di partenza è la considerazione che il legislatore può esercitare una sfera di discrezionalità nel fissare i limiti dell’elettorato passivo, ma deve tener presente che questo è un diritto inviolabile garantito dall’art. 51 e dall’art. 2 Cost. Le restrizioni del contenuto di un diritto inviolabile sono ammissibili solo nei limiti indispensabili alla tutela di altri interessi di rango costituzionale.

Rispetto all’art. 51 co 1, l’art. 65 co 1 è una norma specifica e prevede la possibilità per la legge di determinare i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di deputato o di senatore, non prevedendo nulla riguardo all’incandidabilità. Proprio partendo da questa norma si è sostenuta l’impossibilità di introdurre ulteriori limiti all’elettorato passivo che non siano riconducibili all’ineleggibilità.

Considerato che l’art. 65 co 1 si riferisce solo alle cause di ineleggibilità, se si parte dalla tesi per cui incandidabilità ed ineleggibilità sono due istituti diversi, si arriva alla conclusione che il legislatore ordinario potrebbe fare solo quello che la costituzione gli consente di fare. La discrezionalità legislativa sarebbe, invece, più ampia per l’accesso alle cariche elettive in generale ex art. 51 co. 1 Cost.

Un altro riferimento lo si ha all’art. 66 della Costituzione, secondo cui sono le Camere a dover giudicare sulle cause sopraggiunte di ineleggibilità. Ci si chiede quindi come debba essere regolato il regime dell’incandidabilità e se questo debba essere deciso dallo stesso ufficio centrale circoscrizionale, che valuta le cause di ineleggibilità ex art 22 T.U. n. 361/1957, con una verifica preventiva rispetto al momento in cui si svolge l’elezione,

Si deve allora verificare quale sia la portata dell’art. 48 cost. e se da questo possa desumersi una causa di incandidabilità. Deve sottolinearsi che la lettera della norma stabilisce solo che sia l’elettorato attivo a poter essere limitato per effetto di una sentenza penale irrevocabile. Certo è che la perdita dell’elettorato attivo trascina con sé quella dell’elettorato passivo ma sarebbe difficile,

39 Cass. Civ sez I n. 3904 2005 40 Sent. Corte cost. n. 407/1992 e n. 141/1996 n. 132/2001

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partendo da questa norma, giustificare una legge che stabilisse una causa di incandidabilità laddove l’art. 65 cost consente al legislatore di intervenire solo per cause di ineleggibilità.

Per dimostrare che le cause di incandidabilità rientrano in quelle di ineleggibilità si dovrebbe verificare se la causa di ineleggibilità sia o meno un concetto costituzionale specifico e perciò si possa rinviare alla volontà del legislatore per riempire ex post di contenuto l’art. 65 cost.

Per ottenere un risultato conforme a Costituzione, infatti, si deve ritenere che l’istituto dell’incandidabilità debba essere compreso in quello dell’ineleggibilità.

Questo può essere fatto in considerazione del fatto che si verte, per identificare le cause ostative al mandato, comunque, sulla valutazione della personalità del soggetto e che la mancata esplicita previsione deriva dal fatto che al momento dell’introduzione del regime dell’incandidabilità il sistema elettorale era molto diverso e diverse e più sentite erano le regole morali, che dissuadevano chi non fosse eleggibile dal candidarsi.

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Il regime sanzionatorio e le nuove fattispecie penali Alla Camera dei Deputati è in esame un disegno di legge anti-corruzione, contestualmente ad altri

progetti di legge41. Si intende qui analizzare la parte relativa alle sanzioni penali, sebbene si sia consapevoli che

intervenire solo in questa direzione non possa far ottenere i risultati auspicati dal legislatore nel contrasto al fenomeno corruttivo.

In prima battuta si deve evidenziare che il ddl mira ad inasprire il regime sanzionatorio. L’intervento sui limiti massimi edittali della pena, se può essere ritenuto accettabile42, deve però

essere messo in relazione con l’attuale regime della prescrizione. In base alla l. 251/2005 i termini della prescrizione sono stati notevolmente abbassati, l’innalzamento dei massimi edittali così come previsto, non fa migliorare di molto la situazione.

Come raccomandato dal GRECO e previsto dalla Convenzione di Merida più utile sarebbe proprio prevedere tempi adeguati di prescrizione anche e soprattutto perché le indagini in questo campo sono particolarmente complesse e quindi i tempi per l’accertamento di questi reati particolarmente lunghi. Un intervento di questo tipo è avvenuto di recente riguardo ai reati tributari da parte della manovra di ferragosto 2011.

L’art. 9 del testo del disegno di legge governativo, così come approvato al Senato, prevede una circostanza aggravante disposta dal nuovo art. 335 ter che aumenta le pene per il solo pubblico ufficiale nel caso di atti particolarmente lesivi per la P.A. o commessi per conseguire erogazioni finanziarie dallo Stato, da enti pubblici o dalle comunità europee.

L’intervento sarebbe più incisivo se si prevedesse questa aggravante come ad effetto speciale, in modo da sottrarla al giudizio di comparazione ex art. 63 e ss.c.p..Nulla è stato previsto per il corruttore che continua ad essere punito con la stessa pena del corrotto.

Parte della dottrina ha sostenuto che anche in questa materia sarebbe auspicabile, come avviene nell’ambito dei reati di stampo terroristico o di matrice mafiosa, prevedere un’apposita disciplina per i collaboratori43. La tesi si basa sull’evoluzione che il reato di corruzione ha subito nel corso degli anni, trasformandosi da un rapporto tra due soggetti ad uno con una pluralità di persone coinvolte, il cui legame omertoso può essere scalfito dalla prospettazione di una riduzione di pena per chi si adopera per bloccare l’attività delittuosa o collabora con l’autorità di polizia. Una proposta prevede una causa di non punibilità per il denunciante, le altre prevedono una circostanza attenuante comune. In questa materia si dovrebbe però procedere con molta cautela.

Sicuramente una riforma dovrebbe incidere sulla sanzione dell’interdizione dai pubblici uffici, prevista come pena accessoria dall’art. 28 c.p. co. 1 n. 2, che priva il condannato “di ogni pubblico ufficio, di ogni incarico non obbligatorio di pubblico servizio e della qualità ad essi inerente di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio”44. Se si prevedesse una modifica alla natura della sanzione, trasformandola in autonoma sanzione amministrativa, che non dovrebbe tener conto dei limiti di pena, si otterrebbe un maggior effetto deterrente, anche perché potrebbe essere applicata anche nel caso di pena su richiesta delle parti ex art. 445 c.p.p. e non sarebbe vanificata nel caso di sospensione condizionale della pena.

Altro aspetto che andrebbe modificato è quello attinente alla durata massima dell’interdizione temporanea, ora fissata in anni 5, che dovrebbe essere scisso dalla durata della pena principale.

41 Oltre al ddl governativo C4434 recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” (approvato dal Senato il 15 giugno 2011); pdl C 3380, d’iniziativa dei deputati Di Pietro e altri; pdl 3850, d’iniziativa dei deputati Ferranti e altri, pdl C4382, d’iniziativa dei deputati Giovannelli e altri; pdl C 4501 d’iniziativa dei deputati Torrisi e altri; pdl C 4516, d’iniziativa del deputato Garavini. 42 Di questo avviso anche F. Palazzo in Corruzione: per una disciplina “integrata” ed efficace, in Dir. pen. e proc. 2011/10 43 Vedi il progetto di legge C 3380. 44 Le pene accessorie sono sanzioni penali interdittive, che comportano la perdita o la limitazione della capacità giuridica, o di un potere, o dell’attività del soggetto che le subisce. Possono essere perpetue o temporanee. L’interdizione perpetua si estingue oltre che per morte del reo, per effetto della riabilitazione, dell’amnistia, dell’indulto o grazia, presupposto per l’applicazione è la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni, la dichiarazione di abitualità o professionalità nel delitto. L’interdizione per una durata fissa di cinque anni consegue alla condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni.

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Se lo scopo della norma penale deve essere quello di un recupero dell’efficienza e della legalità nella P.A. è necessario agire sulla posizione del corrotto all’interno dell’amministrazione in modo da spezzare o attenuare il suo legame con la P.A. C’è chi ha ipotizzato di generalizzare la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici per tutte le forme di corruzione45.

Il possibile ricorso a sanzioni penali accessorie interdittive costituisce una delle poche possibilità per il legislatore di introdurre nell'ordinamento sanzioni disciplinari caratterizzate dal carattere espulsivo automatico46 e tali da integrare una forte risposta a comportamenti devianti che non possono essere tollerati nell'organizzazione amministrativa e che, per effetto del ricorso ai principi della proporzionalità sanzionatoria e della necessità del procedimento disciplinare (che è soggetto ad un meccanismo intricato di termini, adempimenti) finiscono con l'essere costretti in un procedimento che, molto spesso, non fornisce la risposta auspicata dal legislatore e dalla società47 48 49.

La l. 27 marzo 2001, n. 97 ha introdotto nel codice penale il nuovo art. 32 quinques dedicato alla disciplina della nuova sanzione penale accessoria dell'"estinzione del rapporto di lavoro o di impiego"; in particolare, dopo la modifica legislativa, la "condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni" per i delitti di cui agli articoli 314, comma 1 (peculato), 317 (concussione), 318 (corruzione per un atto d'ufficio; c.d. corruzione impropria), 319 (corruzione per un atto contratto ai doveri d'ufficio; c.d. corruzione propria), 319 ter (corruzione in atti giudiziari) e 320 (corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio) del codice penale importa anche l'applicazione della nuova sanzione penale accessoria dell'"estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od Enti pubblici ovvero di Enti a prevalente partecipazione pubblica" (analoga previsione sanzionatoria è stata poi introdotta, dalla previsione dell'art. 5, comma 3 della L. n. 97/2001, all'interno dell'art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383, con riferimento ai reati specifici dei militari della Guardia di Finanza). L'idea alla base della previsione dell'art. 5, comma 2 della L. n. 97/200150 è ritenuta dalla dottrina molto positiva ed ha anche il fine di esonerare sostanzialmente la pubblica amministrazione dalle incertezze del procedimento disciplinare (che diviene puramente dichiarativo e, per una parte della

45 Secondo Vito D’ambrosio, in La corruzione amministrativa, Astrid, 2010, p. 152 e ss. bisogna individuare gli interessi principali del soggetto responsabile del reato ed incidere su questi. 46 Per effetto del movimento congiunto della giurisprudenza della Corte Costituzionale, del legislatore (particolarmente importanti sono le previsioni dell'art. 9 della L. 7 febbraio 1990, n. 19 e dell'art. 5, comma 4, L. 27 marzo 2001, n. 97, che hanno affermato che le sanzioni disciplinari espulsive non possono essere automatiche e sono inflitte solo all'esito del giudizio disciplinare) e della nuova contrattazione collettiva, si è pertanto affermata, nel corso degli anni, una nuova sistematica che ruota intorno ad un principio generale di "divieto degli automatismi punitivi... e di gradualità sanzionatoria" che recepisce espressamente, anche nel lavoro pubblico, il principio di proporzionalità delle sanzioni disciplinari previsto dall'art. 2106 c.c. (richiamato dall'art. 55, comma 2 del D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165) 47 Negli ultimi anni, il ricorso alle sanzioni penali accessorie interdittive è stato pertanto utilizzato due volte dal legislatore, con le leggi 27 marzo 2001, n. 97 e 6 febbraio 2006, n. 38 (disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo internet); in particolare, gli artt. 5 e 8 della L. 6 febbraio 2006, n. 38 hanno introdotto nell'ordinamento, attraverso le nuove previsioni degli artt. 600 septies e 609 nonies c.p., la sanzione penale accessoria dell'"interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori" 48Un intervento della Corte Costituzionale (Corte Cost. 09.07.1999, n. 286) ha rilevato come "il principio di necessità del procedimento disciplinare in luogo della destituzione di diritto dei pubblici dipendenti non (trovi applicazione) per le pene accessorie di carattere interdittivo, in generale, e per l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, in particolare, trattandosi in tal caso di ragionevole effetto indiretto della pena accessoria, che spetta alla discrezionalità del legislatore stabilire, per realizzare le finalità di difesa sociale e di prevenzione speciale proprie di dette pene"; nell'ipotesi in cui la condanna penale importi l'applicazione della sanzione penale accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici prevista dall'art. 29 c.p., "la risoluzione del rapporto d'impiego costituisce... (pertanto) soltanto un effetto indiretto della pena accessoria comminata in perpetuo" e non è soggetta ai principi di proporzionalità e necessità del procedimento disciplinare, riservati alla diversa ipotesi del "normale" esercizio della potestà disciplinare. 49 La giurisprudenza successiva a questa sentenza ha affermato la natura dichiarativa del procedimento disciplinare successivo all'applicazione della sanzione penale accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici. 50 Nei disegni di legge anticorruzione, ora al vaglio della Camera dei Deputati, viene prevista una modifica all’art. 32 quinques c.p. in modo da rendere l’applicazione più facile.

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giurisprudenza, non sarebbe neanche necessario) in modo da potenziare l'efficacia della risposta sanzionatoria della pubblica amministrazione a certi comportamenti di indubbia gravità51.

In questa prospettiva, si presenta della massima urgenza l'intervento di una nuova legge che miri alla "tutela effettiva della immagine della pubblica amministrazione”, compromessa dalla constatazione che più volte si è riprodotta della permanenza, nello stesso posto, nella stessa mansione o funzione, di persone che hanno riportato condanne. . Dalla relazione della Corte dei Conti sulla gestione dei procedimenti disciplinari da parte delle amministrazioni dello Stato emerge però la mancata applicazione di questa norma52, la dottrina ha ritenuto che ciò sia dovuto alla riduzioni nella commisurazione della sanzione derivanti dal ricorso al giudizio abbreviato53 o all'applicazione della pena a richiesta dell'imputato.54 55

Il legislatore non sembra, in questo caso, aver compiutamente valutato gli effetti reali della norma, dal momento che solo una minima percentuale di condanne supera la soglia dei tre anni, consentendo l’applicazione della pena accessoria. Quindi nonostante le buone intenzioni si deve registrare che il risultato è stato ottenuto solo in minia parte.

Un altro fronte è quello volto ad eliminare i vantaggi che dalla condotta corruttiva derivano per gli autori dei reati. L’art. 12 sexies d.l. n. 306/1992 convertito con l. 356/1992, prevede la possibilità di confiscare il denaro, i beni o le altre utilità, il cui valore sia sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444 c.p.p., anche per i delitti previsti dagli artt. 314, 316, 316 bis, 316 ter, 317, 318, 319, 319 ter, 320, 322, 322bis e 325 c.p., ipotesi inserite dalla l. 296 del 2006. La stessa legge ha esteso anche alle suddette ipotesi di reato la possibilità di confisca per equivalente.

Qualora si proceda per un delitto contro la P.A. tra le misure applicabili vi è quella cautelare interdittiva prevista dall’art. 289 c.p.p. che vieta lo svolgimento di un’attività e l’esercizio di un potere. Questa non è applicabile agli uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare ed ha una durata limitata che l’art. 308 co 2 fissa in 2 mesi, a meno che esigenze probatorie previste dall’art. 274 lett. a) non richiedano una rinnovazione. Il termine previsto per questa misura dovrebbe essere aumentato se si vuole effettivamente sospendere il rapporto del reo con la P.A..

L’analisi degli altri progetti di legge fa emergere l’esigenza, già avvertita in giurisprudenza, di introdurre delle fattispecie di reato ulteriori.

La prima è quella del traffico di influenze che dovrebbe essere previsto nel novellato art. 346 c.p. che dovrebbe sanzionare il fatto di chi, privato o pubblico funzionario, riceve il vantaggio o la promessa per influire sul comportamento di un altro pubblico ufficiale che rimane estraneo al pactum sceleris. Si vuole punire i soggetti che si propongono come intermediari nonché quelli che ne ricercano la collaborazione. In questo modo si colmerebbe una lacuna e ci si adeguerebbe alla Convenzione ONU di Merida e a quella di Strasburgo.

L’altra fattispecie che si vorrebbe introdurre è quella della corruzione per la funzione, che è già presente in altri ordinamenti come quello spagnolo o tedesco, che punisce le dazioni di denaro o altra utilità fatte al p.u. in ragione della funzione esercitata. In questo modo si punisce la condotta di

51 Secondo Viola, in Lotta alla corruzione amministrativa e gigantismo delle fattispecie disciplinari, in Riv. impiego dirigenza pubblica, 2008, 3, la dottrina che ha commentato la legge n. 97/2001 sulla base dei lavori preparatori ha immediatamente rilevato "la evidente preoccupazione dei parlamentari per una amministrazione pubblica che appare gravemente vulnerata dai processi penali che hanno coinvolto suoi dipendenti, anche di grado elevato e che risulta incapace, tuttavia, di attivare gli anticorpi necessari per espungere dal suo interno i funzionari macchiatisi di gravi illeciti penali specificamente contro la stessa amministrazione di appartenenza 52 Secondo la dottrina la responsabilità di ciò è legata sia a problematiche di diritto transitorio, sia alla "lentezza della giustizia penale, essendo per questo motivo quasi tutte le fattispecie criminose, nate dopo tale data, non ancora definite". 53In questo caso, la pena è soggetta alla riduzione di un terzo; art. 442, comma 2 c.p.p. 54 In questo caso, la pena è diminuita fino ad un terzo; art. 444, comma 1 c.p.p 55 Il disegno di legge Nicolais prevedeva perciò di conseguenza, agli artt. 1 e 2 l'abbassamento della soglia di applicabilità della sanzione penale accessoria del rapporto di lavoro con la P.A. dall'ipotesi-base dei tre anni ai due anni previsti nelle ipotesi di ricorso agli istituti previsti dall'art. 438 (giudizio abbreviato) e 444 (applicazione della pena a richiesta dell'imputato) del codice di procedura penale; in questo modo, si cercava, quindi, di raggiungere il risultato di sterilizzare e rendere ininfluente, agli effetti dell'applicazione della nuova sanzione accessoria dell'estinzione del rapporto di impiego con la P.A., il possibile ricorso agli istituti processuali deflattivi (giudizio abbreviato e patteggiamento).

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chi, in cambio di denaro versato periodicamente, si mette al servizio per compiere, al momento richiesto, l’atto voluto dal corruttore.

In questo caso la prestazione pattuita con il p.u. è indeterminata e sul versante probatorio renderebbe più agevole il compito del P.M., in quanto non sarebbe più necessario individuare l’atto d’ufficio. Il disvalore di questa fattispecie sarebbe minore di quello della corruzione c.d. per l’atto e si dovrebbe perciò adeguare anche il regime sanzionatorio.

Per quanto riguarda il reato di corruzione per l’atto si propone di raggruppare in un’unica fattispecie tutti i delitti di corruzione che sono ora previsti56. Un vantaggio si avrebbe in campo probatorio, sul piano della tipicità si farebbe invece un passo indietro. Il disvalore del reato si sposterebbe dal buon andamento e imparzialità dell’amministrazione a quello della “disciplina ed onore” della funzione. L’offesa si concentrerebbe tutta nel pactum sceleris con cui l’interesse privato viene a contatto con la funzione pubblica.

La corruzione tra privati in Europa e in Italia La necessità di reprimere la c.d. “private commercial bribery” ha portato l’Europa ad adottare

strumenti sopranazionali al fine di rafforzare la cooperazione in materia. Dopo la Convenzione del 26 maggio 1997 relativa alla lotta contro la corruzione, nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell'Unione europea, (ratificata dall’Italia con la legge n. 300 del 2000), la Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d'Europa del 27 gennaio 1999 sottolineava che la corruzione fosse “una minaccia per lo Stato di diritto, la democrazia e i diritti dell'uomo”, che minasse “i principi di buon governo, di equità e di giustizia sociale, che falsasse la concorrenza”, che “ostacolasse lo sviluppo economico” e mettesse “in pericolo la stabilità delle istituzioni democratiche e i fondamenti morali della società”.

La Convenzione incentivava perciò gli Stati firmatari ad adottare le necessarie misure legislative interne affinché fosse punito il fatto di “promettere, di offrire o di procurare, direttamente o indirettamente, qualsiasi vantaggio indebito, per sé o per terzi, a una qualsiasi persona che dirige un ente privato o che vi lavora, al fine di compiere o omettere un atto in violazione dei suoi doveri, nell'ambito di un'attività commerciale” (art. 7). La Convenzione poneva, altresì, a carico degli Stati membri il compito di prevedere la punibilità di qualsiasi persona che, “dirigendo o comunque lavorando presso un ente privato, solleciti o riceva, direttamente o per il tramite di terzi, un vantaggio indebito, per sé o per terzi, o ne accetti l'offerta o la promessa, affinché compia o si astenga dal compiere un atto in violazione dei propri doveri” (art. 8).

L’ultimo intervento europeo è la decisione-quadro del Consiglio europeo 2003/568/GAI, del 22 luglio 2003. Essa costituisce il contributo più dettagliato in materia, e potrà essere quindi un importante punto di riferimento per i vari Stati membri al fine dell'adeguamento legislativo interno. Viene riaffermata la portata "transnazionale" del fenomeno della corruzione tra privati, che impedisce di considerare i singoli episodi corruttivi come affari di mero diritto interno. L’obiettivo del Consiglio europeo è quello di garantire la punibilità della corruzione nel settore privato, sia attiva che passiva (art. 2), attraverso la previsione di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, privative della libertà personale per un massimo compreso tra uno e tre anni (art. 4, comma 2). Il legislatore europeo, ritenendo insufficienti gli strumenti sanzionatori civili o amministrativi, sceglie la sanzione penale.

La disposizione comunitaria prevede solo la punizione della corruzione propria antecedente, essendo richiesto che il compimento o l’omissione di un atto sia posto in essere in violazione di un dovere. La condotta deve essere svolta nell’ambito di “un’attività professionale” (art. 2 par 1) non sono incluse quindi le attività meramente occasionali, il soggetto attivo non deve avere particolari qualifiche è sufficiente che svolga «funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo per conto di un'entità del settore privato» (art. 2, par. 1).

56 Soluzione adottata in Francia

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L'interesse alla base dell'incriminazione non è la tutela del patrimonio privato delle singole società ma la protezione del libero mercato. Si afferma infatti che gli Stati membri devono limitare l'applicazione della normativa alle condotte che comportino (o possano comportare) distorsioni di concorrenza riguardo all'acquisizione di beni o servizi commerciali (art. 2, par. 3). Tale scelta tiene conto degli effetti economici della corruzione, già considerati in alcune convenzioni stipulate dal Consiglio dell'Unione Europea, dall'OCSE e dalle Nazioni Unite, in cui si è sottolineato come la corruzione presenti legami con la criminalità economica, minacci lo «sviluppo sostenibile», «colpisca tutte le società e tutte le economie», possa «essere pregiudizievole per le istituzioni democratiche, le economie nazionali e lo stato di diritto», e «alteri le condizioni internazionali in materia di concorrenza».

Tra i progetti di legge in materia di corruzione ora all’esame delle commissioni riunite Giustizia e

Affari costituzionali della Camera dei deputati vi è anche quello n. 3850 analizzato con il 4434 che nel nuovo art. 513bis c.p. prevede l’introduzione del delitto di corruzione nel settore privato (estensibile agli enti in virtù del decreto legislativo 8 giugno 2001,n. 231), consistente nella condotta di induzione, sollecitazione o ricezione di denaro o di altra utilità, o nell’accettazione della relativa promessa, per compiere od omettere un atto in violazione di un dovere, qualora ne derivino o possano derivarne distorsioni della concorrenza nel mercato ovvero danni economici all’ente o a terzi, anche attraverso una non corretta aggiudicazione o una scorretta esecuzione di un contratto57.

Nell’ordinamento italiano l'art. 29, l. 25 febbraio 2008, n. 34, (legge comunitaria del 2007) già aveva delegato il Governo ad introdurre nel libro II, titolo VIII, capo II, del codice penale, una fattispecie criminosa che punisse la corruzione inter privatos58.

Nella disposizione, che si spera verrà approvata tra breve, si prevede la stessa pena della reclusione da uno a cinque anni anche per l'extraneus, cioè colui che intenzionalmente, nell'ambito di attività professionali, direttamente o tramite intermediario, dia, offra o prometta un indebito vantaggio di qualsiasi natura.

Viene prevista la punizione della sola corruzione propria, si esclude inoltre la rilevanza della corruzione susseguente, cioè quando la dazione del vantaggio indebito sia comunque successiva al compimento dell'atto, distinguendo così la corruzione privata da quella c.d. pubblica prevista dagli artt. 318 e ss. c.p., in base ai quali viene punita la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che riceva una retribuzione per un atto già compiuto. Il motivo è che in questo caso il bene interesse tutelato è il buon funzionamento e l’imparzialità della p.a. ed il reato si integra sulla base del mero accordo corruttivo.

Nel caso della corruzione privata si tratterebbe di un reato comune, essendo richiesto che l’agente svolga « un’attività professionale ovvero di direzione di un ente di diritto privato, di lavoro alle dipendenze dello stesso o comunque di prestazione della sua opera in favore del medesimo», in aderenza alla decisione quadro che lo prevedeva come reato comune. 57 ART. 513-ter. Da introdurre nel codice penale – (Corruzione nel settore privato). – È punito con la reclusione da uno a cinque anni chiunque, nell’esercizio di un’attività professionale ovvero di direzione di un ente di diritto privato, di lavoro alle dipendenze dello stesso o comunque di prestazione della sua opera in favore del medesimo, indebitamente induce, sollecita o riceve, per sé o per un terzo, direttamente o tramite un intermediario, denaro o altra utilità, ovvero ne accetta la promessa, per compiere od omettere un atto, in violazione di un dovere, qualora dal fatto derivino o possano derivare distorsioni della concorrenza nel mercato ovvero danni economici all’ente o a terzi, anche attraverso la scorretta aggiudicazione o la scorretta esecuzione di un contratto. Per violazione di un dovere ai sensi del primo comma si intende qualsiasi comportamento sleale che costituisca una violazione di un obbligo legale, di normative professionali o di istruzioni professionali ricevute o applicabili nell’ambito dell’attività dell’ente. La pena di cui al primo comma si applica anche a chi, nell’esercizio di un’attività professionale ovvero di direzione di un ente di diritto privato, di lavoro alle dipendenze dello stesso o comunque di prestazione della sua opera in favore del medesimo, dà, offre o promette il denaro o altra utilità di cui al primo comma. Per i delitti di cui al presente articolo, nei confronti dell’imputato che si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti ovvero per il sequestro delle somme o delle altre utilità trasferite, la pena è diminuita fino alla metà. 58 E’ punito chi, nell'ambito di attività professionali, intenzionalmente solleciti o riceva, per sé o per un terzo, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura, oppure accetti la promessa di tale vantaggio, nello svolgimento di funzioni direttive o lavorative non meramente esecutive per conto di una entità del settore privato, per compiere o omettere un atto, in violazione di un dovere, purché tale condotta comporti o possa comportare distorsioni di concorrenza riguardo all'acquisizione di beni o servizi commerciali (art. 29, lett. a).

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L'oggetto giuridico del reato di corruzione privata è la tutela della libera concorrenza di mercato (non è un reato d’evento in quanto la distorsione della concorrenza è posta come eventuale)ma a questa viene affiancata anche la tutela dell’ente, discostandosi in questo modo dalla formulazione comunitaria che invece ha tralasciato la tutela dell’assetto societario per concentrarsi solo su quello del mercato.

Il legislatore comunitario ha sottolineato che gli effetti in ambito economico della corruzione tra privati sono molteplici: da un punto di vista microeconomico vi è l’impossibilità per gli imprenditori di inserirsi liberamente nel mercato e per i consumatori di scegliere liberamente tra una varietà di offerte diversificate, in generale si può affermare che l’attività corruttiva tra privati nell'ambito economico sfocia in una vera e propria condotta di "concorrenza sleale", provocando alterazioni del sistema economico.

Come anticipato, nel nostro ordinamento, il concetto di corruzione è riconducibile a diverse

fattispecie criminose, disciplinate agli articoli da 318 a 322 ter , c.p., all’interno del titolo dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione. Nelle fattispecie previste, l’accordo, quale elemento essenziale del reato, interviene necessariamente tra un privato ed un pubblico ufficiale (o, al più, un incaricato di pubblico servizio).

Nell’ordinamento italiano manca una disposizione di carattere generale che incrimini la corruzione tra privati, vi sono però figure particolari che possono essere ricondotte a questa.

Un caso tipico è quello previsto dall’art. 353 c.p. che ha ad oggetto la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private in cui si può realizzare una vera e propria corruzione tra privati. Essendo un reato di pericolo per il suo perfezionamento è sufficiente che la gara sia viziata, impedendo il regolare confronto delle offerte, mediante l’uso della violenza o della minaccia, con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti. La norma tutela oltre alla libertà di partecipazione alle gare nei pubblici incanti o nelle licitazioni private, anche la libertà di chi vi partecipa di influenzare l’esito attraverso la maggiorazione delle offerte, secondo il principio della libera concorrenza, che tutela sia i privati che la pubblica amministrazione.

Un’altra ipotesi è prevista dall’art. 1 della l. 401 del 1989 che prevede il delitto di frode sportiva. Tale articolo punisce il fatto di chiunque offre o promette denaro o altra utilità o vantaggio a qualcuno dei partecipanti ad una competizione sportiva, al fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione. Oggetto giuridico della tutela penale è la regolarità della competizione sportiva, organizzata da una delle organizzazioni o degli enti riconosciuti dallo Stato, e il risultato della competizione stessa, che non può essere fraudolentemente alterato.

Anche la legge fallimentare prevede un’ipotesi di corruzione privata nell'ambito del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, il cui art. 233 punisce il c.d. "mercato di voto", ossia l'accordo tra il creditore ed il fallito o altri nel suo interesse, volto a procurare vantaggi al creditore in vista dell'espressione del voto nel concordato o nel comitato dei creditori (la punizione è estesa al fallito e a chi ha contrattato col creditore nell'interesse del fallito). Anche in questo caso, perché si attivi la reazione penale è sufficiente il semplice pericolo che la percezione del denaro possa essere all'origine dell'attività viziata (ossia una condotta lesiva della par condicio creditorum).

Altro caso è quello del c.d. comparaggio farmaceutico, previsto agli artt. 170 e 171 r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, che punisce medici, veterinari e farmacisti che ricevano, per sé o per altri, denaro o altra utilità ovvero ne accettino la promessa, allo scopo di agevolare, con prescrizioni mediche o in qualsiasi altro modo, la diffusione di specialità medicinali o di ogni altro prodotto a uso farmaceutico. Il reato in esame presenta diverse affinità rispetto alla corruzione pubblica, dal momento che viene punito di per sé il semplice accordo corruttivo e l'oggetto giuridico della tutela è un interesse di tipo istituzionale. Si tratta anche in questo caso di un reato di pericolo, in cui l'offesa è rappresentata dalla mera probabilità del danno, piuttosto che dall'effettiva lesione dell'interesse protetto.

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La riflessione in tema di corruzione privata non ha suscitato la stessa attenzione nella letteratura penalistica dell’infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità, prevista dall’art. 2635 c.c., così come modificata prima dal d.lgs. n. 61/2002 e poi dalla l. 262/2005. Questo è un reato a concorso necessario: il comportamento di colui che esegue la dazione o effettua la promessa di utilità contribuisce ad integrare la struttura del fatto tipico e non costituisce una autonoma fattispecie di reato, cosa che avviene anche per i casi di corruzione pubblica. E’ un reato proprio essendo previsto che possa essere compiuto dagli”amministratori, direttori generali, dirigenti,(…)” L’unica forma punita è quella antecedente, nella quale l’offerta di utilità precede il compimento dell’atto. A differenza di quanto previsto dall’art. 319 c.p. si richiede che l’atto di mercimonio sia stato effettivamente compiuto o omesso, cagionando così un danno alla società, ma si prevede che la condotta deve tradursi nella violazione o omissione di obblighi d’ufficio, ricalcando la struttura del delitto di corruzione propria antecedente.

Questa forma di infedeltà è orientata in chiave di protezione del patrimonio sociale e la ratio dell’incriminazione è nell’esigenza di reprimere quelle forme di mala gestio societaria che possono danneggiare la società, non si intende punire “l’accordo corruttivo” per il suo disvalore etico. Si è lontani, quindi, dai valori pubblicistici propri dei reati contro la P.A., che proprio per questa ragione rendono indisponibile la tutela, nella fattispecie in esame la procedibilità è invece a querela della società.

L’art. 2635 c.c. si caratterizza per un duplice nesso di causalità: la dazione o promessa deve aver causato il compimento o l’omissione di un atto e da questo deve essere derivato un nocumento alla società.

Per quanto riguarda la definizione della”violazione degli obblighi inerenti” l’ufficio si può sostenere che l’oggetto di questi obblighi si debba ricavare nelle disposizioni civilistiche che disciplinano i singoli doveri dei soggetti qualificati. Con riguardo, poi, all’utilità data o promessa in cambio dell’atto contrario agli obblighi d’ufficio, non vi è dubbio che nonostante non compaia l’usuale riferimento al denaro, quest’ultimo debba essere compreso ed insieme ad esso qualunque prestazione o vantaggio suscettibile di valutazione patrimoniale. Il delitto è punibile anche nella forma del dolo eventuale, essendo sufficiente che il nocumento alla società sia rappresentato e accettato dall’agente come mero rischio di verificazione in conseguenza della condotta illecita.

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La giurisdizione della Corte dei Conti e le consulenze esterne Nella lotta alla corruzione la Corte dei Conti sicuramente riveste un ruolo di primo piano. Essa è

chiamata oggi a un compito non facile alla luce delle scelte che la recente situazione economico-finaziaria impone al Paese a tutela delle risorse pubbliche che sono sempre più ridotte.

La lotta alla corruzione, specie se questa viene intesa nel senso di “mal amministrazione”, svolge un ruolo chiave, in quanto consente di liberare energie che possono aiutare lo sviluppo dei mercati, e favorisce situazioni di emersione delle attività economiche che giovano al sistema generale della fiscalità.

Rilevante, ai fini del contrasto dei fenomeni corruttivi, è l’azione del pubblico ministero contabile (la Procura generale e le Procure regionali presso la Corte dei conti) e del giudice contabile (le Sezioni giurisdizionali centrali e regionali), azione volta ad accertare la responsabilità per danno tutte le volte che, al reato corruttivo, si associa una condotta causativa di un danno al sistema di finanza pubblica (danno erariale)59.

Bisogna però tenere presente che scopo dell’azione del giudice contabile deve essere non solo quello di reintegrare il patrimonio leso o di sanzionare il responsabile del danno, ma anche quello di guidare per il futuro l’operato del pubblico dipendente, o comunque del soggetto incaricato dell’attuazione dell’attività amministrativa, indirizzandolo al corretto perseguimento di quegli interessi pubblici stabiliti dalle leggi e rispetto ai quali vi è stata la funzionalizzazione di risorse pubbliche.

Nella prevenzione dei fenomeni corruttivi è importante quindi porre l’attenzione oltre che alla trasparenza e alla responsabilità anche alla c.d. efficienza amministrativa.

Al principio del buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97 della Costituzione, si sono ispirate le norme che hanno, in vario modo, costituito un argine al dilagante fenomeno di assunzioni effettuate al di fuori del rigido schema concorsuale o a quello dell’aggiramento del “blocco delle assunzioni” nella P.A. attraverso il ricorso a forme surrettizie di collaborazione.60

Deve sottolinearsi che il principio in virtù del quale ogni ente pubblico, dallo Stato all'ente locale, deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione ed il proprio personale trova in realtà il suo fondamento non solo nel canone costituzionale di buona amministrazione (art. 97 Cost.)ma anche nei principi di efficienza ed economicità dell'azione amministrativa (art.1 l. 241/90 e ss. modif.) che costituiscono una sua fondamentale emanazione (da ultimo Cass. S.U. 7024/06; nonché Cass. S.U. 14488/03)61 62.

Una voce importante del danno erariale63 è infatti quella connessa al conferimento di incarichi e consulenze esterne da parte delle pubbliche amministrazioni.

59 Si deve segnalare il Rapporto di valutazione 2008 del Gruppo europeo di Stati contro la corruzione (GRECO) del Consiglio d'Europa, che indica come la Corte dei conti italiana, nelle sue funzioni di controllo e giurisdizionali, rientri nel contesto di strumenti giuridici ed organizzativi di contrasto al fenomeno della corruzione nelle pubbliche amministrazioni. 60 La circolare n. 4/2004 del Dipartimento della Funzione Pubblica, richiamava le restrizioni alle forme di collaborazione estemporanea poste dall’art. 7, comma 6 del D. Lgs. n. 165/2001 e dal’art. 110, comma 6 del D. Lgs. n. 267/2000 (per gli enti locali). 61Il Dipartimento della Funzione Pubblica, nell’intento di razionalizzare e ricondurre nei limiti della ratio legislatoris numerose distorsioni applicative della disposizione di cui all’art. 110, comma 6 del D. Lgs. n. 267, ha emanato la circolare n. 5/2006 ove, richiamando la Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 6 giugno 2006, ha ribadito, in primo luogo, (punto 2) l’inapplicabilità – nell’ambito della pubblica amministrazione – delle collaborazioni coordinate e continuative a progetto di cui all’art. 61 e ss del D. Lgs. n. 276/2003 ed ha sottolineato che le collaborazioni (comunque rientranti nell’alveo disciplinare dell’art. 7, comma 6 del D. Lgs. n. 165/2001, come modificato dall’art. 32 del D.L. n. 223/2006 debbono, tra l’altro, richiedere prestazioni altamente qualificate. 62 l D.L. n. 112 del 25.06.2008, come modificato dalla legge di conversione n. 133 del 06.08.2008, con l’art. 46, comma 2, ha individuato causa di responsabilità amministrativa per il dirigente che è ricorso a contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento di funzioni ordinarie. Da ultimo la Legge Delega n.15 del 04.03.2009, art 3, comma 2, lett. n), che pone quale criterio direttivo quello di prevedere, al fine di ridurre il ricorso a consulenze e a collaborazioni, disposizioni dirette ad agevolare i processi di mobilità, anche volontaria, finalizzati a garantire lo svolgimento delle funzioni pubbliche da parte delle amministrazioni che presentino carenza di organico. 63 La responsabilità amministrativa del pubblico dipendente è anche nota come responsabilità per “danno erariale” in quanto presuppone un pregiudizio alle finanze pubbliche.

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Questo fenomeno che interessa l’Italia intera dal Friuli alla Sicilia ha continuato senza soluzione di continuità dagli anni ’90 ad oggi, nonostante la normativa al riguardo sia particolarmente precisa e stringente64.

La possibilità di ricorrere alla c.d. “esternalizzazione” è fissata da norme di legge che ne stabiliscono limiti e condizioni e che sono diventate sempre più dettagliate al fine di ridurre il fenomeno65.

La Corte dei conti si è più volte espressa ritenendo caratterizzato da assoluta eccezionalità il conferimento di incarichi esterni e sanzionandone il ricorso in presenza di idonee risorse umane all’interno dell’apparato amministrativo.

In questo senso sono stati enucleati alcuni parametri utili alla valutazione di simili contratti di collaborazione: a) deve trattarsi di esperti di particolare e comprovata specializzazione; b) debbono riguardare il raggiungimento di obiettivi istituzionali, in coerenza con la funzionalità dell’amministrazione conferente, la cui concretizzazione è impossibile o, almeno, gravemente compromessa a causa della mancanza di personale in organico dotato di professionalità adeguata; c) le prestazioni debbono essere temporanee e altamente qualificate; d) di ogni prestazione deve essere puntualmente indicato l’oggetto, la durata, il luogo e il relativo compenso.

Questo è il chiaro, imprescindibile paradigma cui tutte le Amministrazioni Pubbliche si debbono attenere66.

Non corrette applicazioni di un simile quadro normativo, sanzionate dalla giurisprudenza della Corte dei conti, hanno costretto il Legislatore a intervenire nuovamente per arginare un fenomeno dai sempre maggiori, significativi riflessi sui bilanci pubblici: è sufficiente ricordare, in modo esemplificativo, l’art. 3, commi 55 e 56, della legge n. 244/2007, l’art. 18 del D.L. n. 112/2008, convertito in legge n. 133/2008 e l’art. 3,comma 7 lett. n) della legge n. 15/2009.

Giova, innanzitutto, rammentare che, secondo la consolidata giurisprudenza in materia, il conferimento degli incarichi esterni è lecito quando: vi sia corrispondenza tra incarico e obiettivi dell’ente conferente; non esistano, all’interno della struttura, professionalità idonee allo svolgimento dell’incarico; siano stati precisati contenuti, durata e criteri per lo svolgimento dell’incarico stesso;

64 Appare opportuno sottolineare che costituisce ius receptum il principio secondo cui la pubblica amministrazione deve provvedere ai suoi compiti con la propria organizzazione ed il proprio personale e che il ricorso a soggetti esterni è consentito solo nei casi previsti dalla legge o in relazione ad eventi straordinari non sopperibili con la struttura burocratica esistente. Tale principio, inizialmente elaborato dalla giurisprudenza contabile, ha trovato, in seguito, un espresso riconoscimento legislativo. In particolare, l’art. 51, comma 7 della legge n. 142/1990, disponeva che “…per obiettivi determinati e con convenzioni a termine il regolamento può prevedere collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità”. A sua volta, l’art. 7, comma 6, del decreto legislativo n. 29/1993, prevedeva che: “..ove non siano disponibili figure professionali equivalenti, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali ad esperti di provata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione”. Tali principi sono stati confermati dalle varie modifiche introdotte ai richiamati testi legislativi e, quindi, recepiti dall’art. 7, ultimo comma del decreto legislativo n. 165/2001, che ha sostituito il decreto legislativo n. 29/1993. Il recente art. 1, comma 9 del decreto legge n. 168/2004 (c.d. decreto taglia spese), convertito in legge n. 191/2004, ha ribadito, tra l’altro, che: ”l’affidamento di incarichi di studio o di ricerca ovvero di consulenza a soggetti estranei all’amministrazione in materia e per oggetti rientranti nelle competenze della struttura burocratica dell’Ente, deve essere adeguatamente motivata ed è possibile soltanto nei casi previsti dalla legge ovvero nell’ipotesi di eventi straordinari”, “L’affidamento di incarichi in assenza dei presupposti di cui al presente comma costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale”. 65 Con la l. 102 del 2009 si è previsto che alla Corte dei Conti spetti il controllo preventivo di legittimità anche degli atti e contratti di conferimento di incarichi individuali, mediante contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa ad esperti di particolare e comprovata specializzazione posti in essere da pubbliche amministrazioni, ed atti e contratti concernenti incarichi di studio, consulenza e ricerca conferiti a soggetti estranei alle pubbliche amministrazioni. Da ultimo il d.l. 78/2010 convertito in legge122 del 2010 fissa la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza, inclusa quella relativa a studi ed incarichi di consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenuta dalle pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell'articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (escluse le università, gli enti e le fondazioni di ricerca e gli organismi equiparati), al 20 per cento di quella sostenuta nell'anno 2009. 66 Questo principio ha trovato, per l’appunto disciplina normativa nella disposizione di cui all’art. 110, comma 6, del D. Lgs. n.267/2000 ( e ancor prima nell’art. 51.co.7 della legge n. 142/90) “Per obiettivi determinati e con convenzioni a termine, il regolamento può prevedere collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità”. Proprio quest’ultima norma, inserita nel Testo Unico delle Amministrazioni locali, prevede che il ricorso deve scontare l’imprescindibile presupposto che la prestazione convenzionata sia relativa ad obiettivi determinati e ad alto contenuto di professionalità, in questo richiamando la norma già inserita nel D.Lgs. n. 29/93 e riprodotta, da ultimo, nel D. Lgs. n. 165/2001 (art. 7, comma 6).

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vi sia proporzione tra il compenso corrisposto al consulente esterno e l’utilità che sia stata conseguita dall’amministrazione.

La giurisprudenza della Corte dei Conti, inoltre, ha precisato che non sono ammissibili le c.d. consulenze globali, e cioè quelle che hanno ad oggetto la generalità delle problematiche che possano interessare tutta l’attività istituzionale di un ente pubblico.

Naturalmente si deve sottolineare che la Corte dei Conti non può sostituirsi all’operatore pubblico per individuare altre possibili scelte alternative, diverse da quella in concreto adottata, ma deve limitarsi ad accertare se quest’ultima, in sé considerata, risponda a criteri di razionalità, individuati secondo i parametri di economicità ed efficacia cui è soggetta l’azione amministrativa, e di rispondenza agli obblighi di legge pure rinvenibili nella attuazione di scelte (quali certamente quelli riferiti al ricorso a consulenze e/o collaborazioni esterne all’amministrazione).

Attesa l’importanza che il tema del conferimento di incarichi/consulenze esterne riveste si è proceduto ad analizzare le pronunce delle sezioni regionali della Corte dei conti del biennio 2010-201167.

Sono emersi una trentina di procedimenti di cui solamente due conclusi con l’assoluzione. Il maggior numero di casi si riscontra in Lazio (14 pronunce su 30, ciò dovuto alla presenza di

diversi enti coinvolti come l’Unire, l’Anas, l’Enit, il Ministero della Pubblica istruzione, la Rai), ma il fenomeno riguarda anche altre regioni come Abruzzo, Calabria, Molise, Sicilia, Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Trentino. Ad essere coinvolte sono state sia amministrazioni locali che aziende sanitarie, enti e società di rilevanza nazionale.

I profili che emergono analizzando la modalità del conferimento dell’incarico o della consulenza sono molteplici: da una parte non viene garantita la meritocrazia e l’effettiva idoneità professionale del soggetto a cui viene affidato l’incarico (in un caso era stato affidato ad un soggetto privo di qualsiasi titolo di studio) la maggior parte delle volte l’individuazione del “consulente” avviene infatti su segnalazione del soggetto conferente (Sindaco, Assessore comunale) a prescindere dalle regole che prevedono ad esempio la pubblicazione di un bando di concorso o in generale un procedimento selettivo.

Dall’altra si registra una sconcertante leggerezza con cui questi incarichi vengono affidati, senza una preventiva indagine sulle competenze e qualifiche del personale interno all’amministrazione. (In un caso, riguardante il comune di Venezia, era stato addirittura bandito un concorso qualche anno prima avente ad oggetto proprio la riqualificazione dell’area che veniva affidata poi ad un architetto esterno).

In tutti i casi di condanna (98% del totale) l’amministrazione o l’ente ha al suo interno personale qualificato a svolgere quelle mansioni che sono invece affidate all’esterno, anche perché sovente si tratta di materie fiscali o giuridiche che sono previste quale specializzazione dell’ufficio legale presente all’interno dell’ente (in un caso era necessario effettuare solamente la schedatura di dati e si faceva ricorso ad un importante studio legale).

Riguardo ai compiti affidati, nella maggior parte dei casi, sono generici, alcuni addirittura meramente esecutivi e senza bisogno di specializzazione.(es.attività di verifica e predisposizione di documentazioni, di elenchi e di schede di fornitori). Altre volte invece si attribuiscono mansioni prive di rilevanza (es. Ente parco nazionale del Pollino che attribuiva ad un soggetto esterno il compito di organizzare conferenze e di riferire le decisioni del presidente, che potevano essere svolte dal personale già assunto).

Il fine della norma, che restringe la legittimità del ricorso alle consulenze esterne, è proprio quello

di escludere che ordinarie attività, che potrebbero essere svolte da personale interno, siano affidate all’esterno con incarichi di consulenza e, se da un lato non vieta i “veri” incarichi di consulenza, disciplina, comunque, il ricorso a tale strumento limitandolo solo ai casi di necessità di esperti di provata competenza e di affidamento di attività aventi durata e oggetto determinato.

67 Filomena Terzini, ha analizzato i casi di responsabilità amministrativa di Lombardia, Calabria ed Emilia Romagna degli ultimi 14 anni fino al 2009, in La responsabilità amministrativa e contabile e la giurisdizione della corte dei conti, Astrid 2010.

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La disposizione, in sostanza, vuole contrastare il verificarsi di situazioni come quelle in cui, mascherando per consulenza una attività ordinaria, che può essere svolta da personale interno della amministrazione e già retribuita, si possa perpetrare un inutile spreco di risorse dell’Ente.

In tutti i casi si registra, poi, una carenza di motivazione adeguata a giustificare l’incarico esterno, che risulta quindi generico ed indeterminato.

In ogni caso l’incarico affidato non è determinato nel tempo o viene reiterato. Un altro profilo di violazione è quello della mancanza di una particolare problematica da risolvere

che farebbe nascere la necessità dell’incarico, manca infatti la presenza di problematiche di carattere straordinario eccezionale o particolarmente tecnico.

Un caso di assoluzione(l’altro intervenuto per prescrizione) ha riguardato infatti un problema particolarmente complesso che ha reso il ricorso ad esperti esterni, da parte del commissario del Consorzio Acquedotto Doganelle, legittimo.

Riguardo invece all’avvio delle indagini deve dirsi che questo nella maggioranza dei casi è avvenuto da parte delle stesse procure, solo in un caso è stato determinato dalle notizie di un organo di stampa e in altri cinque da segnalazioni anonime o di rappresentanti delle forze dell’ordine.

Considerato l’elevato numero di condanne per responsabilità amministrativa, ci si deve chiedere se questo strumento sia efficace per il fine proposto, che è quello del contrasto alla malamministrazione. Si ritiene che da solo non sia sufficiente attesa la diffusione del fenomeno che riguarda l’intera penisola e che, se può almeno costituire un deterrente, deve però essere scongiurato il pericolo che la giurisdizione di responsabilità venga ad assumere funzione suppletiva, nei confronti di due forme di responsabilità molto spesso neglette: la responsabilità disciplinare e quella dirigenziale.

Ulteriori e positivi sviluppi potranno apprezzarsi nel corso dei prossimi anni, quando il concreto esercizio delle ispezioni finalizzate all’individuazione delle patologie nel conferimento degli incarichi e dei rapporti di collaborazione farà emergere situazioni d’irregolarità, discendenti dagli esiti delle verifiche svolte dall'Ispettorato Generale di Finanza – Servizi ispettivi di finanza pubblica - della Ragioneria Generale dello Stato (esiti che, peraltro, costituiscono obbligo di valutazione, ai fini dell'individuazione delle responsabilità e delle eventuali sanzioni disciplinari amministrative).

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Il danno all’immagine della P.A. Le pubbliche amministrazioni, oltre ad assicurare il perseguimento del proprio fine istituzionale,

sono anche tenute a mantenere un'immagine positiva della propria organizzazione. L'immagine dell'amministrazione è oramai entrata tra i valori immateriali di ogni apparato pubblico.

La Corte dei Conti ha ricondotto fra i valori degli apparati pubblici, l'immagine delle pubbliche amministrazioni, ossia «la tutela della propria identità, del buon nome, della reputazione e credibilità, nonché l'interesse che le competenze individuate siano rispettate, le funzioni assegnate siano esercitate, le responsabilità dei funzionari attivate».68

Il danno da lesione all’immagine della P.A. consiste nella perdita di prestigio e nel detrimento dell’immagine e della personalità pubblica ed incide direttamente sul rapporto di affectio societatis, ovvero sulla fiducia che lega la cittadinanza agli amministratori ed indirettamente sulla capacità di realizzare i fini istituzionali, andando a compromettere il buon funzionamento dell’istituzione.

Il problema della risarcibilità del danno all’immagine della P.A. si pone in giurisprudenza all’inizio degli anni 1990, come effetto diretto degli scandali di “tangentopoli” che avevano minato il prestigio, il decoro e l’immagine delle amministrazioni statali e degli enti pubblici in generale.

Inizialmente tale danno è stato ricondotto nella categoria del danno morale, inteso in senso ampio, come comprensivo anche delle lesioni di interessi pubblici a carattere non strettamente patrimoniale e non suscettibili direttamente di valutazione economica. La conseguenza era la necessaria rilevanza penale del fatto causativo del danno all’immagine, in ossequio al combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.; nonché, secondo parte della dottrina, l’attrazione della giurisdizione in capo al giudice ordinario.

Successivamente, interviene un’importante pronuncia delle Sezioni Unite69 che precisa che questo danno non ha nulla a che vedere con il “danno morale” in senso stretto, non riguardando le sofferenze fisiche o morali, di cui le persone giuridiche non sono neanche capaci, “ma la grave perdita di prestigio ed il grave detrimento dell’immagine e della personalità pubblica, che, anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta è, tuttavia, suscettibile di una valutazione patrimoniale, sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene leso”. Da ciò le S.U. fanno discendere la giurisdizione della Corte dei Conti.

Nella giurisprudenza contabile questa tipologia di danno viene ricostruita come una species di danno erariale, non patrimoniale in senso stretto, ma suscettibile di una valutazione economica, quanto meno in termini di spesa necessaria al ripristino dell’immagine stessa.70

Il danno all’immagine è una figura particolare di pregiudizio contabile e «si realizza in presenza di illeciti che hanno una tale rilevanza e capacità lesiva, per la loro intrinseca gravità e per il settore pubblico nel quale intervengono, da ingenerare una disapprovazione sociale ed un diffuso e persistente senso di sfiducia della collettività nell'Amministrazione, data la manifesta ed abnorme contrarietà del suo operato ai fondamentali canoni della legalità, del buon andamento, e dell'imparzialità, ex art. 97 Cost.»

Il danno all'immagine è suscettibile di valutazione anche se non comporta diminuzione patrimoniale diretta, in quanto esso attiene alla sfera degli interessi pubblici giuridicamente protetti e dei beni meritevoli di tutela la cui lesione sia suscettibile di arrecare un pregiudizio economicamente valutabile, a prescindere, quindi, dalla materialità o meno, dalla patrimonialità o meno, del bene o dell'interesse protetto71.

68 Sezioni riunite, Sentenza del 23 aprile 2003, n. 10. 69 Cass. civ, S.U., 25 giugno 1997, n. 501. 70 Ad esempio rientrano in tale spesa i costi relativi ad attività idonee al recupero di credibilità dell’ente, alla riorganizzazione dei servizi, alla sostituzione del vertice politico o amministrativo dello stesso. 71 La lesione all’immagine della P.A., così come sopra analizzata, è stata ricondotta, dalle Sezioni Riunite della Corte dei Conti nella sentenza n. 10/QM/2003 (con giurisprudenza poi adesiva delle Sezioni Regionali), alla categoria del danno esistenziale tout court. Secondo questa impostazione ogni danno all’immagine della P.A., che sia autenticamente tale per gravità e diffusione del discredito, reca in sé una minaccia all’esistenza stessa dello Stato (inteso come Stato Comunità) ed impone un “agire diversamente”, un “riorganizzarsi”, con conseguenti costi per la collettività.

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La lesione dell'immagine, quindi, deve rilevare come negativo riflesso del comportamento antidoveroso (e doloso) del soggetto incardinato nella struttura della P.A. che deteriora ed offusca l'immagine dell'Amministrazione Pubblica la quale, per definizione, deve possedere, diffondere e difendere valori di onestà, correttezza, trasparenza, legalità ed affidabilità; la condotta deve generare una corale disapprovazione ed un diffuso e persistente sentimento di sfiducia della collettività nell'Amministrazione tale da realizzare un vero e proprio «danno sociale»72.

Per aversi danno risarcibile, il comportamento illegittimo deve, comunque, realizzare una aggressione tale da superare la c.d. «soglia minima» della lesione del bene tutelato; in caso contrario si rischierebbe di risarcire la mera violazione dei soli doveri di servizio, non assistita da alcuna deminutio patrimonii. Occorre, peraltro, precisare che esulano dalla tutela risarcitoria quelle fattispecie in cui il danno conseguenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è, tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.

Per quanto concerne l'elemento psicologico soggettivo, va affermato che, ai fini della produzione di siffatto danno, si richiede il dolo, se non penale, quantomeno contrattuale. Quest'ultimo sussiste ogni qualvolta il dipendente pubblico lede in maniera cosciente e volontaria un suo dovere di servizio. Per tale motivo il dolo contrattuale si differenzia, quindi, dal dolo penale, che rappresenta la coscienza e la volontà non solo della violazione del dovere, ma anche della condotta antidoverosa e del successivo evento conseguente alla condotta stessa. Secondo comune esperienza, la diffusione a mezzo stampa della notizia del comportamento illecito cagiona un deterioramento del rapporto di fiducia tra cittadini e istituzione pubblica, con ciò cagionando, quale conseguenza immediata e diretta, la lesione dell'immagine e del prestigio dell'ente pubblico

Ai fini della prova del danno all'immagine occorre la dimostrazione di circostanze precise tali da determinare il concreto detrimento del prestigio dell'ufficio cui il dipendente appartiene, con la conseguenza che la domanda giudiziale formulata dalla Procura richiede l'indicazione di dati fattuali specifici, quali: il rapporto tra l'attività funzionale attribuita all'ente in relazione all'interesse della collettività e la posizione funzionale dell'autore dell'illecito, la sporadicità o la continuità dei comportamenti illeciti, la necessità o meno di interventi modificativi dell'organizzazione, o comunque riparativi delle negative conseguenze sociali connesse alla commissione dell'illecito, anche in relazione all'amplificazione della notizia da parte degli organi della stampa.

La lesione all’immagine va liquidata in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c, i parametri di riferimento della valutazione vanno individuati nei profili: “oggettivo” ovvero nella gravità dell'illecito commesso; “soggettivo” individuabile nella posizione dei convenuti nell'ambito dell'Amministrazione; “sociale” dato dalla rilevanza dell'ente cui i responsabili appartengono.

Ai fini della quantificazione73 del danno l'indirizzo più restrittivo adotta una concezione prevalentemente riparatoria del giudizio contabile tendendo ad ammetterne la sussistenza solo ove si dimostri l'erogazione di spese, da parte della P.A., per la riparazione dei beni immateriali della stima e reputazione dell'Amministrazione.74

L'indirizzo prevalente è fondato invece sulla natura sanzionatoria del giudizio contabile, che richiede un mero accertamento della lesione dell'immagine dell'ente inteso come valore in sé, il quale può subire un offuscamento nella collettività, nazionale o internazionale, a seguito di condotte illecite di suoi dipendenti e, come tale, richiede un ripristino e non una riparazione.

Fino a prima del Lodo Bernardo il danno all'immagine ben poteva configurarsi anche in caso di percezione di somme da parte di un pubblico dipendente non necessariamente in correlazione con fenomeni più gravi (corruzione o concussione), essendo comunque considerato socialmente

72 Si pensi ad esempio alla vicenda della c,d, “clinica degli orrori” di Milano, che ha screditato l’immagine del sistema sanitario nazionale. 73Il disegno di legge anti-corruzione, come approvato al Senato, prevede l’introduzione all'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, dopo il comma 1-quinquies, del comma «1-sexies. Nel giudizio di responsabilità, l'entità del danno all'immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salvo prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”. 74 Non rilevano, quindi, in forza di tale orientamento, gli eventuali costi di ripristino dell'immagine sopportati dalla P.A. né eventuali lesioni da perdita di chance (sviamento di clientela, allontanamento di investitori dalla P.A., etc.).

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disdicevole e giuridicamente illecito che un pubblico dipendente percepisca denaro o donativi da privati nell'esercizio di compiti istituzionali75.

Il lievitare di pronunce di condanna al risarcimento del danno all'immagine della P.A. ha spinto il legislatore ad intervenire con una disposizione di carattere limitativo76, il cui testo finale recita: « Le procure della Corte dei conti possono iniziare l'attività istruttoria ai fini dell'esercizio dell'azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno77, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge78. Le procure della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7 dalla legge 27 marzo 2001, n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale»79.

La norma attraverso il richiamo all'art. 7 della l. n. 97/2001 limita la tutela risarcitoria alla cerchia dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, previsti dal capo I del titolo II del libro II del codice penale80.

L`azione per il risarcimento di un danno all`immagine della Pubblica Amministrazione, da parte del Pubblico Ministero contabile, deve quindi necessariamente presupporre che sia intervenuta una sentenza irrevocabile “di condanna” 81del pubblico funzionario.

Se consideriamo il fatto che sino all’entrata in vigore della nuova disposizione si era ormai consolidata una prassi giurisprudenziale che riteneva ammissibile la contestazione del danno all’immagine anche in caso di commissione di semplici illeciti amministrativi o disciplinari, appare subito chiaro l’effetto dirompente che tale norma ha avuto su un gran numero di processi in corso. 75 Spesso peraltro le Procure della Corte dei Conti effettuano contestazioni cumulative, ossia, danno da tangenti e lesione di immagine ciò al fine di tentare una riparazione del danno complessiva e rafforzare la funzione di deterrenza assegnata in parte alla responsabilità amministrativa. La tangente rileva, ai fini del danno da risarcire, sia come guadagno illecito dell’agente; sia come maggior onere sostenuto dall’amministrazione, a suo danno, per acquisti di beni o servizi, oppure come minor entrata, sempre a suo danno, per la vendita di beni o servizi. In materia è stato evidenziato il fenomeno della “traslazione dei maggiori costi”, in virtù del quale è principio notorio e comunque comune che l’imprenditore che paga al funzionario infedele la tangente, ne riversa (trasla) il peso economico sulla stessa P.A., aumentando il prezzo delle sue prestazioni oppure diminuendolo nei contratti attivi. Ciò legittima, per la Corte dei Conti, la presunzione che il danno da tangente sia rappresentato dalla tangente stessa, presupponendosi che comunque il danno patrimoniale inferto alla P.A. non sia comunque inferiore all’ammontare della tangente stessa. Naturalmente la presunzione fa salva ogni altra quantificazione che venga dimostrata. Il danno da tangente è stato qualificato un “danno erariale in re ipsa”. 76l’articolo 17, comma 30-ter, periodi secondo, terzo e quarto, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall’articolo 1, comma 1, lettera c), numero 1, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141 77 Questa costituisce una reazione dell’ordinamento ad attività di indagine giudicate troppo invasive e potenzialmente foriere di rallentamenti ed ostacoli al normale esplicarsi dell’attività amministrativa. In altre parole, ciò che il Legislatore ha voluto interdire per il futuro è l’avvio di indagini esplorative rivolte ad interi settori della pubblica amministrazione al solo fine di individuare possibili illeciti contabili da perseguire. 78 La giurisprudenza della Corte dei Conti ha chiarito che i requisiti della specificità e della concretezza della notizia di danno devono essere intesi nei limiti necessari a ritenere plausibile, con giudizio ex ante, l’avvio di una attività istruttoria da parte dell’organo requirente, ma non implicano che la notizia sia esaustiva al punto da far risultare superflua la funzione della Procura contabile, cui compete in ogni caso l’attività istruttoria volta alla verifica della fondatezza della notizia stessa e all’acquisizione degli ulteriori elementi necessari per la sussistenza della responsabilità amministrativa 79 Procedendo in forma estremamente sintetica, il contenuto dell’art. 30, comma 17-ter, può essere scomposto in tre norme fondamentali:(a) la Procura contabile può iniziare l’attività istruttoria solo sulla base di una notizia di danno “specifica e concreta”;(b) l’azione di responsabilità per danno all’immagine può essere esercitata “nei soli casi e nei modi” previsti dall'articolo 7 dalla legge 27 marzo 2001, n. 97;(c) gli atti istruttori e processuali posti in essere in violazione delle norme che precedono sono nulli e “la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta”. 80 Questa norma mal si concilia con la legge 4 marzo 2009, n. 15 contenente la delega al Governo finalizzata all'ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e all’efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro e alla Corte dei conti, che all’art.7(Principi e criteri in materia di sanzioni disciplinari) stabiliva alla lettera e) per contrastare i fenomeni di assenteismo nel pubblico impiego «di prevedere, a carico del dipendente responsabile, l’obbligo del risarcimento del danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché del danno all’immagine subìto dall’amministrazione». Deve ritenersi abrogata. 81 Non si potrà quindi procedere per danno all’immagine se il procedimento non si è concluso con una “sentenza irrevocabile di condanna”, ma con una sentenza irrevocabile dichiarativa di non doversi procedere per essere il contestato reato estinto per intercorsa prescrizione. Sent. Corte dei Conti, Friuli Venezia Giulia, 17/02/2011 n. 19

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La costituzionalità di una simile restrizione è stata messa in dubbio da numerose Sezioni territoriali della Corte dei conti. Le istanze sono state respinte dai giudici della Consulta82, i quali hanno confermato la piena legittimità della restrizione prevista dal legislatore.

A fondamento della restrizione risarcitoria osserva la Corte costituzionale si pone « l'esigenza di limitare ambiti, ritenuti dal legislatore troppo ampi (come, d'altronde, dimostrano il numero delle ordinanze di remissione e soprattutto la tipologia delle contestazioni), di responsabilità dei pubblici dipendenti cui sia imputabile la lesione del diritto all'immagine delle amministrazioni di rispettiva appartenenza », alla luce del fatto che “l'ampliamento dei casi di responsabilità di tali soggetti, se non ragionevolmente limitata in senso oggettivo, è suscettibile di determinare un rallentamento nell'efficacia e tempestività dell'azione amministrativa dei pubblici poteri, per effetto dello stato diffuso di preoccupazione che potrebbe ingenerare in coloro ai quali, in definitiva, è demandato l'esercizio dell'attività amministrativa”.

I giudici della Consulta riconoscono che le modalità attraverso le quali appare applicata la restrizione risarcitoria non appaiono irragionevoli, avendo il legislatore ritenuto che « soltanto in presenza di condotte illecite, che integrino gli estremi di specifiche fattispecie delittuose, volte a tutelare, tra l'altro, proprio il buon andamento, l'imparzialità e lo stesso prestigio dell'amministrazione, possa essere proposta l'azione di risarcimento del danno per lesione dell'immagine dell'ente pubblico ». Si tratta, in buona sostanza, di fare riferimento esclusivamente a quei reati che contemplano la Pubblica Amministrazione quale soggetto passivo, limitando a questi casi la sussistenza di una responsabilità che secondo quanto affermano i giudici costituzionali presenta un'« accentuazione dei profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori »83.

La Corte Costituzionale poi sottolinea che l’interesse particolare all’immagine trova fondamento normativo nell'art. 97 Cost.: sicché «la peculiarità del diritto all'immagine della Pubblica Amministrazione, unitamente all'esigenza di costruire un sistema di responsabilità amministrativa in grado di coniugare le diverse finalità prima richiamate, può giustificare una altrettanto particolare modulazione delle rispettive forme di tutela ».

Dato atto delle modifiche legislative ci sono state diverse interpretazioni della norma. Riguardo all’estensione del danno all’immagine anche ai reati comuni, ad esempio si è sostenuto

che l’art. 17, comma 30 ter, vada interpretato nel senso che, per effetto di esso, la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione per fatto dei suoi dipendenti continua a sussistere non solo nei casi direttamente previsti dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001, ma anche nel casi che lo stesso art. 7 della legge n. 97 indirettamente prevede allorquando fa salvo il disposto dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p.: continua a sussistere, quindi, anche nel caso di danno all’immagine derivante da ogni altro reato, dovendosi ritenere esclusa ogni ulteriore tutela soltanto nel caso di danno all’immagine derivante da fatto illecito non costituente reato84.

L’art. 17, comma 30-ter, dopo avere disciplinato le condizioni per l’avvio delle indagini da parte della Procura contabile e circoscritto le ipotesi di danno all’immagine, ha introdotto nell’ordinamento un procedimento sui generis, volto ad accertare l’eventuale nullità degli atti istruttori e processuali posti in violazione dei nuovi limiti imposti ai poteri delle Procure contabili. Le Sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei Conti hanno interpretato in modo alquanto uniforme tale norma, riservando ad un apposito procedimento in camera di consiglio la trattazione

82 Sent. Corte Cost. 355 2010 Peraltro, la sentenza della Corte Costituzionale n. 355 del 2010 è una sentenza di rigetto e, come tale, non ha, a differenza di quelle dichiarative di illegittimità costituzionale, efficacia erga omnes e, pertanto, determina un vincolo (nemmeno assoluto) solo per il giudice del procedimento nel quale la relativa questione è stata sollevata. Vedi ora anche le ordinanze n. 219, 220 e 221 del 2011. 83 La Corte si sofferma poi sui rapporti tra danno all'immagine della P.A. e sistema risarcitorio civilistico. Sotto questo aspetto, i giudici costituzionali pervengono innanzi tutto a ricondurre tale pregiudizio nell'area non economica, affermando che “il relativo danno, in ragione della natura della situazione giuridica lesa, ha valenza non patrimoniale e trova la sua fonte di disciplina nell'art. 2059 c.c 84 Sezione giurisdizionale Toscana della Corte dei Conti, sent. 8 aprile 2011

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delle questioni di nullità e ad una ordinanza, eventualmente pronunciata nel corso dell’ordinario giudizio di responsabilità, la decisione sulle stesse85.

Bisogna prendere atto che nel prossimo futuro si potrà prevedere non solo un forte rallentamento delle indagini, ma anche una loro rilevante riduzione, perché nel dubbio sarà sempre più semplice archiviare le notizie pervenute che avviare indagini a rischio azione di nullità e si presenterà, nelle aule della giustizia contabile, una lunga stagione di giurisprudenza confusa e caotica a vantaggio dei malamministratori professionali.

85Il vero punctum dolens della vicenda attiene tuttavia alla problematica dei rimedi esperibili avverso le pronunce sulle nullità, posto che non si registra unità di vedute presso le sezioni centrali di appello.

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Conclusioni Nel sistema di organizzazione amministrativa attuale, nonostante siano presenti strumenti che possono contribuire, anche se indirettamente, alla prevenzione di comportamenti illeciti, come i controlli amministrativi, spesso questi sono privi di una reale efficacia in quanto non capaci di sanzionare adeguatamente i colpevoli. Se infatti si cerca di incentivare il profilo dell’accertamento delle responsabilità, in cui un ruolo chiave gioca la trasparenza, è necessario che a questo momento segua quello della sanzione. E’ proprio in questo senso che ci si deve muovere, in modo da rendere operativa l’attribuzione delle responsabilità, anche rendendo più efficace l’uso dello strumento disciplinare. Infatti se è necessario aumentare la probabilità di essere individuati è anche necessario aumentare quella di essere sanzionati. Il ruolo svolto dai codici etici o di condotta, rivolti a presidiare le “zone grigie” non adeguatamente normate dai contratti, se in astratto può essere utile, in quanto cerca di creare una “discrezionalità responsabile” dipende sia dalla loro corretta implementazione che da un’equa applicazione sostenuta da organismi indipendenti. Si deve dare atto che in questo periodo l’etica stenta non poco ad essere considerata dal senso comune dei dipendenti pubblici come un deterrente incisivo per le tentazioni opportunistiche, è necessario perciò rinsaldare il legame dei pubblici dipendenti con l’amministrazione, mantenendo alti i costi morali della disonestà e della frode ed incentivando i comportamenti virtuosi, l’onestà, la lealtà, lo spirito di servizio, l’imparzialità e il disinteresse dei funzionari pubblici. Poiché la corruzione erode i livelli di fiducia dei cittadini verso la P.A. e più in generale verso le istituzioni non si comprende perché il legislatore abbia ridotto la possibilità del ricorso al danno all’immagine della P.A., che consentiva alla Corte dei Conti di agire ogni volta che il comportamento del dipendente avesse offuscato l’immagine dell’amministrazione. In generale la soluzione cercata, anche nel disegno di legge anticorruzione, di introdurre nuove norme piuttosto che nel tentativo di far funzionare quelle esistenti, diventa, un facile alibi legislativo dietro il quale mimetizzare l’irresponsabilità gestionale e lasciare, di fatto, la situazione a tutti gli effetti, immutata. Per quanto riguarda l’intervento riformatore sul versante repressivo penale si deve dar conto del fatto che il disegno di legge anticorruzione cerca di colmare le lacune normative messe in evidenza dall’esperienza giurisprudenziale, rimane però ancora molto da fare per adeguare la nostra disciplina penale alle numerose convenzioni internazionali in materia di corruzione. Inoltre quello che importa è, più della durezza, la certezza della pena. Spesso il legislatore, animato da spinte propagandistiche, non è attento alle reali conseguenze applicative delle norme, ebbene, anche per quanto riguarda il fenomeno corruttivo, ben venute sono le fattispecie di corruzione tra privati o corruzione per la funzione, ma è necessario anche rendere operanti le norme che già ci sono, ad esempio prevedendo adeguati termini di prescrizione. Per quanto riguarda la corruzione politica, deve affermarsi che, anche in questa situazione, il legislatore non ha voluto affrontare il problema, concentrandosi solo sulla corruzione amministrativa, prevedendo solo una delega al governo sulla materia dell’incandidabilità, che sempre rinviata, molto probabilmente non riuscirà nemmeno questa volta a trovare attuazione. Quanto all’istituenda Autorità nazionale anticorruzione, si spera che oltre all’indipendenza abbia anche poteri idonei per poter non solo controllare, ma anche dare il suo contributo alla repressione della corruzione, anche se solo da un punto di vista amministrativo, in modo da scongiurare il pericolo che si riproduca un secondo Alto commissariato anti corruzione, con il mero scopo di raccogliere informazioni. Si auspica poi che il “piano annuale anticorruzione”, previsto dal disegno di legge anticorruzione, non si trasformi in un nuovo adempimento meramente formale, lontano dalla realtà e dalla vita dell’ente, e che aggiungendosi ai già introdotti “piano triennale per la trasparenza”, “piano triennale per la performance”, “relazione annuale sulla performance “ non generi un sovraccarico procedurale, che rende in molti casi necessarie quelle deroghe e quelle eccezioni che sono una merce preziosa del mercato della corruzione.

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