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TECNOLOGIE: DALLA PROTESI AL MONDO Antonio Caronia [Tutto da capo n. 1, novembre 2003, Lupetti editore] Siamo abituati ormai a considerare le tecniche come “protesi” del corpo (se intendiamo il corpo in tutta la sua complessità, e quindi vi comprendiamo il sistema nervoso e tutte le sue secrezioni, fra cui anche il pensiero e l’immaginario). Non c’è dubbio che McLuhan sia stato, se non il primo, colui che ha espresso questa concezione con maggior determinazione e articolazione (e a volte, non sempre, anche con maggiore lucidità). Il termine chiave nel suo pensiero, fin dal sottotitolo del suo libro più famoso, è quello di “estensione” (“Con l’avvento della tecnologia elettrica l’uomo estese, creò cioè al di fuori di se stesso, un modello vivente del sistema nervoso centrale.” 1 “Inserendo con i media elettrici i nostri corpi fisici nei nostri sistemi nervosi estesi, istituiamo una dinamica mediante la quale tutte le tecnologie precedenti, che sono soltanto estensioni delle mani, dei piedi, dei denti e dei controlli termici del corpo – tutte queste estensioni, comprese le città – saranno tradotte in sistemi d’informazione.” 2 E le citazioni potrebbero moltiplicarsi). Il discorso di McLuhan sembra privilegiare costantemente un punto di vista interno all’uomo, vedendo nella tecnica una proiezione o estensione delle facoltà umane anche quando analizza il movimento inverso, cioè gli effetti di ritorno della tecnica sulla psiche individuale e sociale. Il discorso della “narcotizzazione” o torpore, indotto nell’uomo da ogni progressiva estensione dei sensi e delle funzioni cognitive (e della corrispondente “autoamputazione” di quei sensi e di quelle funzioni) sembra funzionare proprio in questo senso. La concezione del corpo in McLuhan appare irrimediabilmente antropocentrica: “La funzione del corpo, considerato come insieme di organi intesi a rafforzare e a proteggere il sistema nervoso centrale, è di fare da cuscinetto contro le improvvise variazioni degli stimoli dell’ambiente fisico e sociale.” 3 Altre concezioni della tecnica, pur riconoscendo l’importanza del cammino che parte dall’uomo e porta al mondo, sembrano sfuggire a un antropocentrismo così insidioso. Lewis Mumford, per esempio, riconosce “gli strumenti e gli utensili adoperati durante tutta la storia dell’uomo” come “un potenziamento del suo stesso organismo” 4 , ma tenta un’indagine più articolata degli effetti di ritorno che la macchina (certamente la macchina, e non l’utensile) hanno sull’uomo. “In effetti le conquiste più durevoli della macchina non furono mai gli strumenti in se stessi, che erano subito sorpassati, né i beni prodotti, che si consumavano in breve tempo, ma i nuovi modi di vita che essa rendeva possibile (…) Proiettando un lato della personalità umana nelle concrete forme della macchina noi abbiamo creato un ambiente autonomo che ha reagito su 1 Marshall McLuhan, Gli stumenti del comunicare, trad. di E. Capriolo, Garzanti, Milano 1986, p. 63 (ed. or. Understanding Media. The Extensions of Man [1964], Abacus, Falmouth, Cornwall, 1974, p. 53) 2 Marshall McLuhan, op. cit., p. 77 (ed. or., p. 68) 3 Marshall McLuhan, op. cit., p. 63 (ed. or., p. 53) 4 Lewis Mumford, Tecnica e cultura, trad. di E. Gentilli, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 331 (ed. or. Technics and Civilization, Harcourt, Brace and Co, New York 1934).

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TECNOLOGIE:

DALLA PROTESI AL MONDO

Antonio Caronia

[Tutto da capo n. 1, novembre 2003, Lupetti editore]

Siamo abituati ormai a considerare le tecniche come “protesi” del corpo (se intendiamo il corpo in tutta la sua complessità, e quindi vi comprendiamo il sistema nervoso e tutte le sue secrezioni, fra cui anche il pensiero e l’immaginario). Non c’è dubbio che McLuhan sia stato, se non il primo, colui che ha espresso questa concezione con maggior determinazione e articolazione (e a volte, non sempre, anche con maggiore lucidità). Il termine chiave nel suo pensiero, fin dal sottotitolo del suo libro più famoso, è quello di “estensione” (“Con l’avvento della tecnologia elettrica l’uomo estese, creò cioè al di fuori di se stesso, un modello vivente del sistema nervoso centrale.”1 “Inserendo con i media elettrici i nostri corpi fisici nei nostri sistemi nervosi estesi, istituiamo una dinamica mediante la quale tutte le tecnologie precedenti, che sono soltanto estensioni delle mani, dei piedi, dei denti e dei controlli termici del corpo – tutte queste estensioni, comprese le città – saranno tradotte in sistemi d’informazione.”2 E le citazioni potrebbero moltiplicarsi). Il discorso di McLuhan sembra privilegiare costantemente un punto di vista interno all’uomo, vedendo nella tecnica una proiezione o estensione delle facoltà umane anche quando analizza il movimento inverso, cioè gli effetti di ritorno della tecnica sulla psiche individuale e sociale. Il discorso della “narcotizzazione” o torpore, indotto nell’uomo da ogni progressiva estensione dei sensi e delle funzioni cognitive (e della corrispondente “autoamputazione” di quei sensi e di quelle funzioni) sembra funzionare proprio in questo senso. La concezione del corpo in McLuhan appare irrimediabilmente antropocentrica: “La funzione del corpo, considerato come insieme di organi intesi a rafforzare e a proteggere il sistema nervoso centrale, è di fare da cuscinetto contro le improvvise variazioni degli stimoli dell’ambiente fisico e sociale.”3

Altre concezioni della tecnica, pur riconoscendo l’importanza del cammino che parte dall’uomo e porta al mondo, sembrano sfuggire a un antropocentrismo così insidioso. Lewis Mumford, per esempio, riconosce “gli strumenti e gli utensili adoperati durante tutta la storia dell’uomo” come “un potenziamento del suo stesso organismo”4, ma tenta un’indagine più articolata degli effetti di ritorno che la macchina (certamente la macchina, e non l’utensile) hanno sull’uomo. “In effetti le conquiste più durevoli della macchina non furono mai gli strumenti in se stessi, che erano subito sorpassati, né i beni prodotti, che si consumavano in breve tempo, ma i nuovi modi di vita che essa rendeva possibile (…) Proiettando un lato della personalità umana nelle concrete forme della macchina noi abbiamo creato un ambiente autonomo che ha reagito su 1 Marshall McLuhan, Gli stumenti del comunicare, trad. di E. Capriolo, Garzanti, Milano 1986, p. 63 (ed. or. Understanding Media. The Extensions of Man [1964], Abacus, Falmouth, Cornwall, 1974, p. 53)2 Marshall McLuhan, op. cit., p. 77 (ed. or., p. 68)3 Marshall McLuhan, op. cit., p. 63 (ed. or., p. 53)4 Lewis Mumford, Tecnica e cultura, trad. di E. Gentilli, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 331 (ed. or. Technics and Civilization, Harcourt, Brace and Co, New York 1934).

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tutti gli altri aspetti della personalità.”5 All’idea della tecnica come ambiente arriva anche, per un cammino che parte molto più precisamente dai dati della paleoantropologia, Leroi-Gourhan. Anche in questo autore troviamo una concezione proiettiva dell’intenzione tecnica: “Se si cerca di definire la creazione tecnica, si è tentati di vedervi un movimento paragonabile a quello attraverso il quale l’ameba spinge fuori dalla sua massa un’espansione che avvolge progressivamente l’oggetto della sua brama.”6 Ma proprio l’avvicinamento fra biologia e tecnica che costituisce uno dei contributi più originali e illuminanti di Leroi-Gourhan all’antropologia della tecnica, porta il nostro autore a formulare la nozione di “ambiente tecnico” come articolazione di ciò che egli chiama l’“ambiente interno,” “ciò che costituisce il capitale intellettuale di una massa umana circoscritta (spesso in modo incompleto), ovvero un insieme estremamente complesso di tradizioni mentali.”7

Dell’ambiente tecnico Leroi-Gourhan sottolinea la permeabilità e la continuità, concetti attraverso i quali egli tenta di formulare una teoria dell’evoluzione delle tecniche costruita su una analogia fra gruppi umani e individui, ma fondata su basi meno friabili di quelle consentite dalla documentazione materiale disponibile8; compito che egli stesso dichiara di non avere assolto9, ma che lo porta a definire una interessante categoria, quella di “divenire etnico”10, che è avvicinabile, pur con qualche cautela, all’accezione che il termine “divenire” ha in Deleuze.

Tuttavia, se depuriamo il concetto dalle sue concrezioni più insidiosamente antropocentriche e prometeiche, i punti di vista di tutti e tre questi autori possono essere ricondotti a una concezione della tecnica come protesi, cioè come emanazione e proiezione dell’uomo che estende nell’ambiente, potenziandoli, i propri organi e le proprie funzioni, e, così facendo, “antropizza” la natura. Questa, peraltro, non solo è la concezione della tecnica che è sembrata esplicitamente prevalere nella seconda metà del secolo XX, ma è anche quella che corrisponde, sia pure in modo più raffinato, al senso comune. Ora, non sembra possibile mettere in dubbio la grande produttività teorica della visione della tecnica come protesi. Questa concezione, in fondo, è stata quella che ci ha consentito di tracciare, al di là delle discontinuità delle grandi rivoluzioni tecniche (agricoltura, scrittura, industria, stampa, computer), una linea di continuità nel rapporto dell’uomo col mondo mediato dalla tecnica; ci ha permesso di riportare a una dinamica sociale un’attività che altrimenti avrebbe potuto apparire come una bizzarra sequenza di geniali invenzioni, alcune anonime, altre firmate, alcune individuali, altre collettive; ci ha fatto capire meglio i processi di adattamento individuali e sociali, psicologici e antropologici, che altrimenti avremmo attribuito a virtù taumaturgiche delle tecniche stesse. È stato grazie a quella concezione che abbiamo potuto leggere la tecnica utilizzando Spinoza e Nietzsche, e abbiamo potuto accogliere il prepotente ritorno del corpo nella filosofia del Novecento, da Merleau-Ponty a Jean-Luc Nancy. Ma soprattutto, la tecnica come protesi è stata un punto di vista che ha avuto il merito di essere sensato e aderente alle nostre conoscenze sulle origini della specie e sullo sviluppo storico delle tecniche stesse. Esso rendeva conto benissimo di come funzionano (anche socialmente) le tecniche che servono a trasformare materia in altra materia (quelle classicamente “produttive”), e anche di come funzionano le tecniche di comunicazione (prima fra tutte la scrittura) che servono a trasferire su supporti fisici i prodotti dei processi cognitivi (le narrazioni, le riflessioni, le espressioni dei sentimenti), ma non i processi cognitivi stessi.

L’interrogativo che intendo sollevare adesso è il seguente: questa concezione è ancora aderente ai dati in nostro possesso sullo sviluppo e le caratteristiche delle tecnologie nate nella 5 Lewis Mumford, op. cit., p. 333 (corsivo dell’autore).6 André Leroi-Gourhan, Evoluzione e tecniche, vol. II: Ambiente e tecniche, a cura di M. Fiorini, trad. di L. Girola, Jaka Book, Milano 1994, p. 261 (ed. or. Evolutione et techniques, II. Milieu et techniques, Albin Michel, Paris 1945).7 André Leroi-Gourhan, op. cit., p. 2318 Cfr. il cap. nono, “Evoluzione e tecniche”, di Ambiente e tecniche, cit.9 “Sarebbe stato necessario, per una completa dimostrazione, condurre il lavoro su una serie di documenti sociologici, religiosi o estetici paragonabili a quelli mobilitati nel campo delle tecniche più materiali; ciò oltrepassava il nostro ambito.” Ambiente e tecniche, cit., p. 272.10 André Leroi-Gourhan, Ambiente e tecniche, cit., cap. ottavo (“I problemi di origine e di diffusione”), e più distesamente, Il gesto e la parola, vol. II: La memoria e i ritmi, trad. di F. Zannino, Einaudi, Torino 1977, Parte terza, “I simboli etnici” (ed. or. Le geste et la parole, II. La mémoire et le rythmes, Albin Michel, Paris 1965).

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seconda metà del secolo XX e destinate a dominare il XXI? È adeguato, nell’era del digitale, continuare a considerare la tecnologia una protesi del corpo dell’uomo? O non è proprio questa concezione che ci inibisce oggi una comprensione più piena delle articolazioni e delle innervature della tecnologia nella società? Non sarà che la prossimità della tecnologia al corpo, che è stata intuita ed elaborata nell’esperienza cyberpunk (ed esplicitata con grande chiarezza nell’introduzione di Bruce Sterling a Mirrorshades), abbia fatto di più che riportare l’esterno nell’interno, che abbia realizzato anche un movimento inverso, rovesciando l’interno sull’esterno in modo radicale e catastrofico, sino a rendere fluidi e instabili i confini tra corpo e ambiente?

Dobbiamo ammettere che la visione della tecnica come protesi permette di descrivere e di spiegare in modo abbastanza adeguato le attività di trasformazione della materia che hanno costituito, sino a pochi anni fa, la totalità delle tecniche sviluppate dall’uomo nel corso della sua evoluzione. Anche se teniamo conto del salto di qualità (su cui soprattutto Mumford si è soffermato) che si realizza nel passaggio dall’utensile alla macchina, e poi da quest’ultima come manufatto isolato e ancora più o meno direttamente controllato dall’uomo a un sistema di macchine capace in qualche misura di autoregolarsi, è pur sempre possibile concepire anche la fabbrica più sofisticata in un sistema produttivo industriale come un dispositivo capace di trasformare la materia (o di produrre energia), che proietti – o mimi, o replichi – l’azione dell’uomo sul mondo. Certo, questi dispositivi agiscono sul mondo in modo incomparabilmente più complesso. Una centrale idroelettrica o nucleare, una fabbrica di automobili, un’industria chimica realizzano certamente performance che nessun aggregato di corpi umani, con la sola loro forza muscolare o il loro movimento, sarebbe in grado di eseguire. Ma la qualità dell’azione compiuta è dello stesso ordine di quella dello sforzo umano. Trasformare un ciottolo di selce in uno strumento con un bordo tagliente, e trasformare una certa quantità di metallo e di materia plastica in un’automobile, realizzano al fondo un’operazione dello stesso tipo: immettono nell’ambiente un oggetto che prima non c’era, rendono possibili all’uomo azioni che prima non erano consentite, quindi trasformano l’ambiente, ma all’interno di qualcosa (il mondo) che conserva comunque delle caratteristiche di opacità, di resistenza, di indipendenza rispetto all’uomo. Si potrebbe pensare, a prima vista, che l’apparizione di tecnologie per il trattamento automatico dell’informazione, in fin dei conti, non cambi in modo radicale questa situazione. Che il trattamento artificiale dell’informazione possa essere letto, descritto e spiegato, con le stesse categorie che ci permettono di leggere, descrivere e spiegare il trattamento artificiale della materia.

Ho il dubbio che ciò non sia possibile. Mi sembra invece che l’esteriorizzazione – per la prima volta nella storia dell’uomo – di processi intellettuali e cognitivi, anche se in forma ancora molto embrionale, abbia delle conseguenze non solo epistemologiche, quali le tecniche hanno sinora avuto, ma per la prima volta direttamente ontologiche. Una visione della tecnica come protesi parte dall’idea che la tecnica sia uno strumento di mediazione fra l’uomo e il mondo. Ora l’uomo è una parte del mondo, quindi soggetto a tutti i mutamenti che le parti di un insieme possono patire all’interno di quell’insieme che, in quanto totalità, non ne patisce. Le conseguenze psicologiche e sociali della fase più matura della modernità e della società industriale, di per sé, non alterano ancora questo stato di cose. Il decentramento dell’uomo rispetto al cosmo, la sua detronizzazione dal vertice del regno animale, la frammentazione e la perdita di controllo dell’io sui processi mentali (che fanno della libertà umana non un punto di partenza, ma l’obiettivo di una lotta lunga e travagliata) – e cioè i tre grandi mutamenti indotti sull’uomo dalla modernità e registrati dall’antropologia filosofica – in quanto tali sono perfettamente compatibili con una visione della tecnica come protesi. Un soggetto, anche decentrato, marginalizzato, frammentato, può emettere pseudopodi fisici e mentali nell’ambiente che lo circonda e tramite questi trasformare quell’ambiente secondo un progetto (o secondo ciò che egli crede un progetto). Ma ciò presuppone che l’altro corno della relazione, l’ambiente esterno, il mondo, abbia una relativa stabilità, che sia riconoscibile, che offra all’attività dell’uomo una certa resistenza (al limite anche un’inviolabilità). Presuppone che il mondo ci sia e che sia uno, che non abbia concorrenti. Mi sembra che questo presupposto oggi vacilli. Mi sembra che l’attività preferita della tecnica, oggi, sia quella di dare vita

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a mondi, a mondi che non vivono più solo nell’immaginazione del soggetto elaboratore di immaginari, ma che tendono a esteriorizzarsi, a vivere di vita autonoma. Mondi la cui natura immateriale non impedisce che essi colpiscano i sensi (oggi solo alcuni sensi, domani chissà?) con la stessa forza di convincimento del mondo fisico, sinora unico mondo “reale”. La modernità si era aperta con la narrazione delle vicende di un hidalgo spagnolo che per la lettura di troppi romanzi cavallereschi equivocava sui segni che il mondo gli offriva, e li leggeva secondo una griglia concettuale che non coincideva con quella del resto della società. Celebrazione ironica della potenza e delle grandiosità dello spirito umano, Don Chisciotte si chiudeva però (e non poteva essere altrimenti) con l’autocritica teorica e percettiva di Alonso Chisciada e con il suo ritorno nella comunità sociale. Oggi, che ogni consumatore compie quotidianamente il suo transito in uno o più dei mondi che sono associati a ognuna delle marche e delle linee di prodotti che ritmano la nostra vita, una simile conclusione non sarebbe più necessaria. Oggi quei mondi non vivono solo (come hanno fatto sinora) nella nostra mente: riempiono gli schermi dei computer, quelli della televisione durante gli spot pubblicitari, si incarnano nelle scarpe nei vestiti nei dadi per brodo nelle merendine nei viaggi in isole lontane e in spiagge vicine. La nostra esperienza del mondo sta cambiando a ritmo impressionante. Essa è riassunta in una parola sinora vituperata dai giornalisti e dal senso comune, ma che dilaga incurante della sua cattiva fama: “virtualità”. Essa apre l’era della pluralità dei mondi, una pluralità ben più radicale e sconvolgente di quella intravista da Giordano Bruno e confermata dalla cosmologia del XIX secolo. La cosmologia della fine del XX ha già cominciato a parlarci di universi paralleli, di ponti di Einstein-Rosen, di fughe delle particelle elementari in universi adiacenti. Le biforcazioni dei giardini di Borges diventano tri-, quadri-, pentaforcazioni, proliferano nei meandri delle immagini frattali. Questo cambiamento apre problemi che solo superficialmente somigliano a quelli di ieri, ma non sono per questo meno drammatici. Sono i problemi di gestione, circolazione, redistribuzione di una ricchezza sociale che non è mai stata così abbondante e mai così iniquamente concentrata; di una nuova emarginazione della maggioranza dell’umanità che non si chiama più colonialismo ma “digital divide”; dell’apparizione di forze produttive il cui carattere distruttivo non è più solo accessorio o relativo a scelte opinabili, ma insito nel funzionamento di qualche software. Per cominciare a comprendere meglio questa situazione, sospetto che dobbiamo ringraziare McLuhan, congedarlo definitivamente, abbandonare l’ipotesi della tecnologia-protesi e cominciare seriamente a indagare quella della tecnologia-mondo.