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1 UNIVERSITÀ DI PISA Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia Tesi di laurea A.A 2015-2016 Disturbo Bipolare e BDNFRelatore: Prof.ssa Liliana Dell’Osso Candidato: Ilaria Ceccarelli

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area

Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove

Tecnologie in Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

Tesi di laurea

A.A 2015-2016

“Disturbo Bipolare e BDNF”

Relatore:

Prof.ssa Liliana Dell’Osso

Candidato:

Ilaria Ceccarelli

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Al mio Babbo, alla mia Mamma, alla mia Sorella, a Edoardo,

perché ogni cosa di me parla di voi.

“ma misi me per l'alto mare aperto

sol con un legno e con quella compagna

picciola da la qual non fui diserto.

L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,

fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,

e l'altre che quel mare intorno bagna.

Io e ' compagni eravam vecchi e tardi

quando venimmo a quella foce stretta

dov' Ercule segnò li suoi riguardi

acciò che l'uom più oltre non si metta;

da la man destra mi lasciai Sibilia,

da l'altra già m'avea lasciata Setta.

"O frati", dissi, "che per cento milia

perigli siete giunti a l'occidente,

a questa tanto picciola vigilia

d'i nostri sensi ch'è del rimanente

non vogliate negar l'esperïenza,

di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza".

Li miei compagni fec' io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino,

che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,

de' remi facemmo ali al folle volo[..]”

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INDICE

Riassunto p. 5

Capitolo 1 Disturbo Bipolare pp 6-38

1.1 Cenni Storici pp. 6-9

1.2 Epidemiologia e fattori di rischio pp. 9-12

1.3 Eziologia pp. 12-26

1.4 Quadri Clinici pp. 26-32

1.5 Sottotipi Clinici pp. 32-33

1.6 Decorso e Complicanze pp. 33-34

1.7 Disturbo Bipolare e deficit cognitivo pp. 35-38

Capitolo 2 BDNF pp. 39-59

2.1 Basi Molecolari pp. 39-43

2.2 Studi sull’animale pp. 43-47

2.3 Studi sull’uomo pp. 48

2.3.1 BDNF in condizioni fisiologiche pp. 48-49

2.3.2 BDNF e Disturbo Bipolare pp. 49-59

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Capitolo 3 Disegno dello studio pp. 60-72

3.1 Obiettivo pp. 60

3.2 Campione oggetto di studio pp. 61-63

3.3 Strumenti di valutazione pp. 64-71

3.4 Metodi di laboratorio pp. 72

3.5 Metodi statistici pp. 72

Capitolo 4 Risultati pp 73-79

Capitolo 5 Discussione e Conclusione pp. 80-85

5.1 Discussione risultati pp. 80-84

5.2 Conclusione pp. 84-85

Bibliografia pp. 86-114

Ringraziamenti p. 115

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Riassunto

Nella seguente tesi di Laurea viene descritto uno studio che ha

come obiettivo quello di valutare i livelli plasmatici del fattore

neurotrofico BDNF ( brain –derived neurotrophic factor ) in un

campione di pazienti affetti da Disturbo Bipolare, sia di tipo I

(BP-I) che di tipo due ( BP-II) nella fase eutimica della malattia e

confrontare i risultati ottenuti con quelli rilevabili in un gruppo di

controlli sani.

Lo studio vuole poi , tramite una serie di scale di valutazioni

diagnostiche strutturate come test o interviste brevi, valutare se è

presente un’ alterazione delle funzioni cognitive , delle funzioni

frontali, della memoria a breve e lungo termine , nei suddetti

pazienti e correlare i risultati che ne derivano con i livelli di

BDNF precedentemente ottenuti.

Il fine ultimo è quello di capire se c’è una correlazione tra il

Disturbo Bipolare e la neurotrofina nella fase eutimica e se questo

rapporto si rispecchia in una permanenza o meno dei deficit

cognitivi durante tale periodo.

I capitoli che precedono la descrizione dettagliata dello studio

hanno lo scopo di introdurre i due temi trattati, ovvero il Disturbo

Bipolare e il BDNF, in tutte le loro componenti.

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CAPITOLO 1

DISTURBO BIPOLARE

Il disturbo bipolare è un’alterazione del tono dell’umore, caratterizzandosi quindi

per un’oscillazione tra i due poli opposti che sono comunemente identificati nella

gioia ( polo positivo) e nella tristezza ( polo negativo).

1.1 Cenni storici

Le prime testimonianze dei disturbi dell’umore , in Occidente, ci giungono

tramite l’ “Ode del disperato”, scritta da un anonimo scriba egiziano circa

quattromila anni fa. Aggiunta a questa seguono diversi papiri e geroglifici che

testimoniano l’elevata incidenza dei suicidi nella valle del Nilo.

Nel Antico Testamento troviamo le sofferenze di Geremia , dalle quali deriva

il termine geremiade, lamentazione lunga e piagnucolosa e vi si descrive

anche la tristezza, il senso di colpa e d’incapacità del re Saul.

Nella cultura greca l’Iliade di Omero racconta il mito di Bellerofonte che

“solo e consunto dalla tristezza errava infelice pel campo Aleio e l’orme de’

viventi fuggia”.

Con Plutarco troviamo espressa la concezione di un disturbo dell’umore

tipica del suo tempo, intrisa alla magia e alla religione :“Sta seduto all’aperto,

avvolto in tela di sacco e di cenci sudici. Ogni tanto si rotola nel fango,

confessando questa o quella colpa per essere andato per una strada che

l’Essere divino non ha approvato”. Ma è proprio in Grecia che Ippocrate nel

IV secolo a.C., partendo dalle basi gettate da Pitagora ed Empedocle e

dall’osservazione empirica della nascente medicina nel mondo occidentale e

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superando la concezione magica e religiosa, tentò di dare una spiegazione

eziologica alle malattie con la “teoria degli umori” (yugròs: bagnato, umido),

secondo cui l’organismo umano sarebbe in equilibrio tra quattro fluidi:

flemma racchiusa nella testa, bile nera o melanconia nella milza, bile gialla o

collera nel fegato, sangue nel cuore. La stessa teoria avrebbe spiegato, oltre

che la depressione (eccesso di bile nera) e la mania (eccesso di bile gialla),

alterazioni di cui Ippocrate segnalò l’andamento stagionale, anche le

personalità: flemmatica, melanconica, collerica, sanguigna.

Nel I secolo d.C. Areteo di Cappadocia esaminò sistematicamente la

depressione e la mania, osservando come esse si succedessero l’una all’altra

in taluni pazienti: ipotizzò uno stretto legame tra i due disturbi,

sottolineandone il carattere ciclico e consigliando per alcune forme reattive

una “psicoterapia”, volta a chiarirne le cause.

Successivamente Galeno ( 131- 201) corroborò la teoria umorale, precisando

che la causa della melanconia è un’alterazione primaria del cervello.

Nel mondo romano troviamo un male di vivere che venne definito tedium

vitae e Seneca osservò come il disprezzo per la vita fosse causa di numerosi

suicidi, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza e giustificò

così il suicidio: “debole e pavido è colui che muore per il dolore, ma stolto

colui che vive allo scopo di soffrire”.

La cultura Medioevale si rese protagonista di un passo indietro rispetto alla

visione greco-romana e sotto l’influenza della scuola araba di Avicenna (980-

1037) tornò in auge la visione magico-religiosa dei disturbi psichici ritenuti

dipendenti da una possessione demoniaca.

La malinconia studiata precedentemente nella teoria umorale, fu di nuovo

giudicata eticamente, una colpa, un peccato e non più una malattia ,come si

può trovare rappresentata anche dallo stesso Dante Alighieri che colloca gli

accidiosi insieme agli iracondi nella palude Stigia descrivendoli così nel VII

Canto dell’Inferno :"Tristi fummo nel’aere dolce che dal sol

s’allegra,portando dentro accidioso fummo”.

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Nel XVII e XVIII secolo con l’Illuminismo si fece ritorno agli studi

naturalistici, in particolare la depressione e la mania vennero distinte

nosologicamente in base a semplici criteri clinici.

Nel 1854 Falret, con La folie circulaire, e Baillarger, con La folie a double

forme, indipendentemente l’uno dall’altro, descrissero un disturbo

caratterizzato dall’alternanza continua e regolare di depressione e mania, le

quali venivano intese come due differenti espressioni di un’unica malattia.

In epoca moderna un passo importante fu mosso da Emil Kraepelin che nel

suo Trattato di Psichiatria del 1896 individuò nell’ambito dei disturbi

mentali due entità nosologiche: la psicosi maniaco-depressiva e la demenza

precoce, distinte per età d’insorgenza, familiarità, decorso ed esito.

Considerando la familiarità comune, il decorso periodico, la prognosi

migliore rispetto alla demenza precoce, e la possibile presentazione nello

stesso paziente ma in tempi diversi, Kraepelin riunì nella diagnosi di psicosi

maniaco-depressiva la mania, la depressione e la follia circolare e periodica;

successivamente vi incluse anche gli stati misti (1904) e per ultima la

depressione involutiva (1913), in precedenza esclusa dalla psicosi maniaco-

depressiva per la sua prognosi sfavorevole.

La visione kraepeliana continuò ad influenzare gli psichiatri di tutto il mondo,

finché nel 1957 Leonhard e nel 1966 Angst e Perris proposero una distinzione

tra le forme unipolari depressive, quelle unipolari maniacali e quelle bipolari,

in cui si alternano episodi depressivi, maniacali, ipomaniacali e misti.

Nel 1980 sulla base di studi genetico-familiari, Taylor e Abrams supposero

che il disturbo unipolare e quello bipolare fossero in continuità.

Tuttavia la dicotomia tra i disturbi depressivo e bipolare venne ratificata dal

manuale diagnostico-statistico DSM-III (1980) e dallo schema di intervista

ICD-10 (1992).

Il DSM-IV-TR non si è discostato da questa visione.

Recentemente è stato proposto per i disturbi dell’umore un modello unitario,

secondo cui le diverse entità psicopatologiche sono disposte lungo un

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continuum (spettro dell’umore), che partendo dai temperamenti affettivi

(ipertimia, ciclotimia, distimia), passando per le forme lievi o sottosoglia,

arriva ai quadri più gravi e conclamati. Il modello di spettro dell’umore

consente diagnosi più precise, utili per una scelta farmacologica a misura del

singolo paziente.

1.2 Epidemiologia e fattori di rischio

Il disturbo bipolare costituisce una tra le forme più frequenti di malattia

mentale. E’ inoltre responsabile di una Disability-adjusted life year o DALY

(attesa di vita corretta per disabilità) peggiore di qualsiasi forma di cancro o

delle condizioni neurologiche più gravi quali l’epilessia o la malattia di

Alzheimer (Organization WH, 2002; Crump et al., 2013), soprattutto a causa

del suo esordio precoce e dell’andamento cronico.

Epidemiologia

Un recente studio condotto su 61392 adulti provenienti da 11 paesi di

America, Europa, Asia (Merikangas et al., 2011) ha individuato una

prevalenza lifetime dello 0,6% per il disturbo bipolare I (BP-I), dello 0,4% per

il disturbo bipolare II (BP-II) e del 1,4% per le forme sottosoglia (BPS), come

definiti nel DSM-IV.

La prevalenza totale nella popolazione generale per tutti i disturbi dello

spettro bipolare è del 2,4%.

Inoltre la prevalenza a 12 mesi risulta essere di 0,4% per BP-I, 0,3% per BP-

II e 0,8% per il BPS.

I tassi lifetime di BP-I e BPS sono risultati maggiori nei maschi rispetto alle

femmine (circa 1,1:1), mentre il rapporto si inverte per il BP-II.

Approssimamene la meta dei soggetti con BP-I e BPS presenta un esordio

prima dei 25 anni, mentre quelli con BP-II riportano un’età di insorgenza

leggermente più tardiva.

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L’età di insorgenza media del BP-I risulta 18,4 anni, del BP-II 20 anni, del

BPS di 21,9.

Comorbidità

In tutta la psichiatria è difficile trovare un disturbo che si presenti allo stato

puro; nella maggioranza dei casi infatti si hanno complessi quadri clinici al

interno dei quali si trovano elementi caratteristici di più disturbi psichiatrici

insieme: in uno studio condotto su pazienti ricoverati e affetti da DB, le

comorbidità psichiatriche erano circa al 40% mentre quelle mediche generali

al 20% con una frequenza maggiore nel sesso femminile(Strakowski et

al.,1992).

La comorbidità è elevatissima specialmente con i disturbi della sfera ansiosa

tanto da poter parlare in alcuni casi di veri e proprio cluster di comorbidità

particolarmente frequenti.

Il disturbo di panico è presente in comorbidità nel 50% , i disturbi della

condotta nel 44,8%, quelli da abuso di sostanze nel 36,6%, e i fobici nel

30%.

I soggetti affetti da disturbo bipolare sono affetti spesso da disturbi

metabolici: a tal proposito McElroy ha osservato una prevalenza di obesità

del 25%, mentre Fagiolini et Al. del 35% e, in uno studio successivo, del

45% . Gli stessi autori hanno anche evidenziato l’allarmante prevalenza della

sindrome metabolica (SM) (30-40%). Recentemente dati epidemiologici e

clinici hanno sottolineato la correlazione tra il disturbo bipolare e le malattie

cardiovascolari, collegate senza dubbio alla sindrome metabolica.

La presenza di disturbi in comorbidità è maggiore nei pazienti con BP-I

(88,2%) e BP-II (83,1%) rispetto ai soggetti con BPS ( 69,1%).

Possiamo aggiungere poi a conclusione delle comorbidità , delle patologie

associate e delle conseguenze funzionali di un paziente con disturbo bipolare

che i soggetti affetti da depressione mostrano impairment funzionale

maggiore (70,4%) rispetto a quelli in fase maniacale (50,9%).

Tentativi di suicidio.

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Il rischio suicidario nell’arco della vita è 15 volte maggiore nei soggetti affetti

da disturbo bipolare rispetto alla popolazione generale (DSM-V).

E’ stato stimato che dal 25 al 50% dei soggetti con disturbo bipolare tenterà il

suicidio almeno una volta nella vita, e che dall’8 al 19% porterà a termine il

tentativo (Marangell et al., 2006; Latalova et al., 2014). All’aumentare della

gravità del disturbo bipolare, aumenta anche il rischio suicidario. I tentativi

anticonservativi riguardano circa ¼ dei soggetti affetti da BP-I, 1/5 di quelli

con BP-II e 1/10 di quelli con BPS.

Fattori di rischio

- Familiarità: Nonostante non si conosca ancora l’esatta modalità di

trasmissione genetica, diversi studi hanno dimostrato una chiara evidenza

di familiarità per i disturbi dell’umore. Nel DSM-V si ritrova come i

familiari dei soggetti affetti da disturbo dell’umore abbiano un rischio di

ammalarsi 10 volte maggiore rispetto alla popolazione generale e nel

ambito della stessa famiglia spesso le forme unipolari coesistono con le

forme bipolari, confermando il continuum già sottolineato tra queste

patologie.

- Genere : Il BP-I è leggermente più rappresentato nel sesso maschile

mentre molti studi hanno mostrato una prevalenza maggiore del BP-II

nelle donne (Cvetković-Bosnjak, 1998; Hendrick et al., 2000).

Una recente review ha posto in evidenza le differenze di genere

nell’ambito del disturbo bipolare (Miller et al., 2014). Il genere

femminile è correlato con maggiori sintomi depressivi e diverse

comorbidità rispetto a quello maschile e le donne affette dal disturbo

hanno un rischio elevato di ricadute nel peripartum e durante la

menopausa. La sindrome metabolica, un incremento ponderale, il rischio

cardiovascolare sono più presenti nel sesso femminile e sono attribuibili

a fattori ormonali cosi come un elevato rischio di malattie sessualmente

trasmissibili e gravidanze non programmate.

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Nell’uomo invece sono più frequenti gli episodi maniacali e la

comorbidità con disturbi correlati a sostanze e disturbi della condotta

(Miguel et al., 2011; Nivoli et al., 2011).

- Età : la depressione maggiore compare più frequentemente tra i 20 e i 50

anni (età media intorno ai 40 anni), con un picco nel 10% dei casi dopo i

60 anni. Nelle ultime generazioni è stato riscontrato un abbassamento

dell’età d’insorgenza (al di sotto dei 20 anni), probabilmente per il

sempre più dilagante abuso di sostanze tra i giovani. I disturbi bipolari

esordiscono più frequentemente tra i 15 e i 50 anni (età media intorno ai

30 anni). La ciclotimia e la distimia compaiono più precocemente degli

altri disturbi: in infanzia e adolescenza, o al più nella primissima età

adulta (tra i 15 e i 30 anni).

- Stato civile : i disturbi bipolari si riscontrano più frequentemente tra i

celibi, i nubili e i separati. Le cause potrebbero essere l’età così giovane

di insorgenza, oppure l’influenza negativa che la sintomatologia di questi

disturbi esercita sul rapporto di coppia, o al contrario il forte stress che la

separazione dal partner causa nei soggetti predisposti.

- Classe sociale: i soggetti con disturbi dell’umore appartengono più

frequentemente, ma non solo, ai ceti più elevati; sono più frequenti nei

paesi ad alto reddito rispetto a quelli a basso reddito (1,4 versus 0,7%).

Secondo alcuni Autori l’ascesa sociale sarebbe favorita da periodi

ipomaniacali protratti ma lievi, o da tratti temperamentali ipertimici che

aumentano le capacità lavorative. Secondo altri è proprio lo stress

sopportato per conquistare e mantenere condizioni più agiate a scatenare

i disturbi dell’umore.

1.3 Eziologia

Dalla teoria di Ippocrate, nel IV secolo a.C. in poi i disturbi dell’umore sono

stati considerati in tutto e per tutto una patologia organica, in quanto

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presentano caratteristiche quali la familiarità, la ciclicità, le remissioni e le

ricadute, in linea con il concetto classico di malattia. Nel corso del Novecento

sono state formulate diverse ipotesi eziopatogenetiche, alcune di carattere

biologico, altre cognitive e psicodinamiche.

Genetica.

Numerosi studi su famiglie, bambini adottivi e gemelli hanno sottolineato

l’influenza dell’ereditarietà sul disturbo bipolare: la concordanza tra gemelli

omozigoti varia dal 40 al 70%, con una ereditarietà stimata fino al 90% nel

lavori più recenti (Craddock & Sklar, 2013).

E’ emerso da numerosi studi che il rischio di ammalarsi per un familiare di 1°

grado di un paziente con depressione maggiore è del 2-10%, e per un

familiare di 1° di un paziente con disturbo bipolare è del 8-18%. Inoltre il

rischio di ammalarsi per un gemello di un paziente con depressione maggiore

è del 50% se monozigote, e del 10-25% se dizigote. Tali percentuali salgono

rispettivamente al 33- 90% e al 10-25% nel caso di un gemello di un paziente

con disturbo bipolare (Cassano e coll., 2006).

Si ritiene che anche il temperamento abbia una base ereditaria, poiché si

presenta già nella primissima infanzia, caratterizzando il tono di fondo

dell’umore, i livelli di energia e l’intensità con cui si esprimono le proprie

emozioni e i propri sentimenti. Sulla base di tali caratteri, Kraepelin,

Kretschmer e Akiskal hanno distinto quattro tipologie temperamentali:

ipertimica, depressiva o distimica, ciclotimica e irritabile, simili in fondo ai

quattro temperamenti descritti da Ippocrate. Essi si collocano tra il benessere

e la malattia, potendola precedere anche di diversi anni.

La genetica influenza anche il sesso, e quello femminile presenta un rischio

maggiore rispetto al maschile per quasi tutti i disturbi dell’umore. Tale

predisposizione può essere spiegata sia con le alterazioni ormonali a cui la

donna va incontro durante le fasi premestruale e post partum, sia con i livelli

di MAO (monoaminoossidasi, enzimi controllati dal cromosoma X e

coinvolti nei disturbi dell’umore) che influenzerebbero il quadro clinico di

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alcune forme atipiche di depressione (determinando iperfagia e ipersonnia).

Inoltre la risposta agli inibitori delle MAO (farmaci antidepressivi) si è

dimostrata migliore nelle donne. Per di più il sesso femminile è il più esposto

a disfunzioni tiroidee, le quali a seconda dei casi possono determinare sia

quadri depressivi che maniacali.

Grazie agli studi di associazione genome-wide (GWAS) è iniziata

un’indagine sulle sequenze geniche legate al disturbo bipolare anche se

l’identificazione univoca di polimorfismi a singolo nucleotide (SNP) alla base

della malattia risulta ancora difficoltosa. Queste ricerche hanno permesso di

riscontrare una sovrapposizione tra i disturbi dell’umore e altre patologie

psichiatriche , in particolare schizofrenia e depressione maggiore (Cross-

Disorder Group of the Psychiatric Genomics Consortium, 2013).

In disaccordo con i tradizionali schemi diagnostici, un recente GWAS

suggerisce che il disturbo bipolare sia geneticamente più vicino alla

schizofrenia (Lee et al., 2013): le due patologie sembrerebbero caratterizzate

da una eredità poligenica per cui molte varianti insieme contribuirebbero a

determinarli (Purcell et al., 2009; Purcell et al., 2014).

I geni coinvolti sono stati individuati in: sequenze geniche funzionali

correlate a vie di trasduzione del segnale per l’ormone di rilascio della

corticotropina, fosfolipasi C, il recettore cardiaco β adrenergico, il recettore

per il glutammato, l’endotelina 1, l’ipertrofia cardiaca (Nurnberger et al,

2014); da aggiungere però che altri GWAS indicano la presenza di sequenze

poligeniche non condivise tra schizofrenia e disturbo bipolare (Ruderfer et al.,

2011; Ruderfer et al., 2013).

Prendendo in considerazione il solo disturbo bipolare, molto studi genetici

hanno confermato la sua eterogeneità (McMahon et al., 2010; Craddock &

Sklar, 2013) che riflette almeno in parte il fatto che alla base ci sono diversi

meccanismi di ereditarietà.

A parte le complesse interazioni tra una moltitudine di sequenze contenenti

polimorfismi a singolo nucleotide (epistasi), le mutazioni geniche strutturali

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sembrano giocare un ruolo nella trasmissione del disturbo bipolare

(McMahon et al., 2010; Lee et al., 2011; Craddock & Sklar, 2013).

GWAS su larga scala hanno indagato centinaia di geni candidati con risultati

variabili. Tuttavia non sono stati identificati i geni responsabili del disturbo

bipolare a causa di un numero relativamente piccolo di pazienti coinvolti,

dell’inadeguatezza dei campioni, o dell’eterogeneità del disturbo stesso

(McMahon et al., 2010; Cross-Disorder Group of the Psychiatric Genomics

Consortium, 2013); nonostante questo i geni individuati sembrano essere :

- geni implicati in specifiche funzioni cerebrali quali la trasmissione dei

segnali, la differenziazione cellulare, la formazione del citoscheletro, la

risposta allo stress (Lee et al., 2011)

- mutazioni del CACNA1 un gene che codifica per la subunità alpha di un

canale voltaggio dipendente legato al Ca++,(Psychiatric GWAS

Consortium Bipolar Disorder Working Group, 2011; Offord, 2012;

Craddock & Sklar, 2013); il cattivo funzionamento di CACNA1C è stato

associato a deficit cognitivi e di attenzione, due punti di rilievo nella

psicopatologia del disturbo bipolare (Bhat et al., 2012; Soeiro-de-Souza

et al., 2013).

- clock genes , coinvolti nel controllo del ritmo circadiano , la cui

alterazione è tipica nei disturbi dell’umore ad andamento stagionale(Shi

et al., 2008).

- Geni che codificano per i recettori come catechol-O-metiltransferasi

(COMT), la MAO-A, il trasportatore della dopamina (DAT), il

trasportatore della serotonina (5HTT), la triptofano idrossilasi (TPH2), i

recettori D2, D4, 5HT4 e 5HT2A (Rotondo et al., 2002; Benedetti et al.,

2008; Serretti & Mandelli, 2008; Barnett et al., 2009). Un polimorfismo

del promotore del 5HTT è stato associato alla mania indotta da

antidepressivi, all’efficacia profilattica del litio, all’età di esordio, alla

suicidalità nel disturbo bipolare (Bellivier et al., 2002; Rybakowski et al.,

2005; Neves et al., 2008; Ferreira et al., 2009).

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- la neuregulina-1 (NRG-1), le cui alterazioni sembrano fattori di rischio

per lo sviluppo del disturbo bipolare, della schizofrenia e del disturbo

depressivo maggiore (Tiwary, 2012).

- il brain-derived neurotrophic factor (BDNF); Vari studi hanno

riscontrato che il polimorfismo 66Val/Met del gene per il BDNF,

associato alla regolazione di resilienza, plasticità e proliferazione

neurale, potrebbe essere un fattore di rischio per lo sviluppo del disturbo

bipolare. Alcuni di questi studi hanno rintracciato una relazione tra il

polimorfismo del BDNF e la morfologia cerebrale, ma non per le varie

fasi del disturbo, mentre altri lo hanno associato con l’eziologia bipolare

solo in relazione all’interazione con eventi stressanti (Chepenik et al.,

2008; Hosang et al., 2010; Le-Niculescu et al., 2009). Inoltre, il

polimorfismo del BDNF è stato correlato alla gravità di malattia, esordio

precoce, predisposizione ai cicli rapidi, maggiore impairment cognitivo e

delle funzioni esecutive nel disturbo bipolare (Geller et al., 2004; Green

et al., 2006; Rybakowski et al., 2006; Vincze et al., 2008).

- I geni che regolano la glycogen synthase kinase-3 (GSK-3), un peptide

pro-apoptotico che si contrappone alla funzione delle proteine coinvolte

nello sviluppo, nella differenziazione e nella plasticità neuronale, e

nell’assemblaggio del citoscheletro, sembrano essere implicati

nell’eziologia del disturbo bipolare. E’ stata riportata un’associazione tra

un polimorfismo di GSK-3 e i sintomi psicotici, la regolazione

dell’espressione genica, la risposta al litio, le alterazioni microstrutturali

della materia bianca nel disturbo bipolare (Serretti et al, 2008: Benedetti

et al., 2013).

- i geni che regolano la trasmissione del glutammato (GRIN1, GRIN2A,

GRIN2B, GRM3, and GRM4), la risposta allo stress (ND4, NDUFV2,

XBP1, and MTHFR), l’infiammazione (PDE4B, IL1B, IL6, and TNF),

l’apoptosi (BCL2A1 and EMP1), e la mielinizzazione mediata dagli

oligodendrociti di tratti di sostanza bianca (eIF2B) (Benes et al., 2006;

Carter, 2007; Padmos et al., 2008; Barnett & Smoller, 2009).

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Non meno importanti sembrano le modificazioni epigenetiche che riflettono

un’alterazione dell’espressione genica influenzata dagli eventi di vita e che

quindi potrebbero avere un ruolo significativo belle diverse fasi del disturbo

bipolare ( Machado – Vieira et al., 2011). In realtà alcuni studi hanno

rilevato differenti pattern di espressione genica tra la fase depressiva da una

parte e l’eutimia o la mania dall’altra (Hobara et al., 2010; Munkholm et al.,

2012). Inoltre, ripetuti episodi maniacali possono causare un danno

ossidativo al DNA, interferente con la futura metilazione dello codice

genetico, tanto da limitare persino la possibilità di disattivare taluni geni

(Soeiro-de-Souza et al., 2013). Per esempio, l’ipometilazione del gene per le

COMT è stata associata con il disturbo bipolare e la schizofrenia

(Abdolmaleky et al., 2006).

In definitiva, gli studi genetici sul disturbo bipolare hanno incontrato

numerosi ostacoli, in larga parte dovuti alla necessità di associare le

eterogeneità eziologiche a quelle fenotipiche.

Sembra evidente l’esistenza di un complesso pattern poligenetico di

ereditarietà, coinvolgente un gran numero di geni con effetti specifici

modesti, modificati dall’epistasi, dalle variazioni epigenetiche,

dall’interazione con l’ambiente. I risultati di tali studi sono al momento

discordanti, anche se molti di essi hanno individuato il ruolo di geni

coinvolti nell’attività metabolica cellulare, nello scambio ionico, nello

sviluppo e nella differenziazione sinaptica, nella regolazione della

mielinizzazione, nella neurotrasmissione, nella plasticità neuronale, nella

resilienza e nell’apoptosi. E’ probabile che le influenze geniche possano

riflettersi in un endofenotipo (“fenotipo nascosto”) del disturbo bipolare

caratterizzato da un’alterazione dei ritmi circadiani e ormonali, della risposta

ai trattamenti, dei cambiamenti della materia bianca e grigia (Lenox et al.,

2002; Faraone & Tsuang, 2003; McDonald et al., 2004; Barnett & Smoller,

2009).

Ambiente

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Come per molte altre patologie, nei disturbi dell’umore i fattori genetici si

intersecano con l’ambiente. Già agli inizi del Novecento Meyer (a cui

peraltro si attribuisce l’origine del termine depressione) sostenne che i

disturbi dell’umore nascessero dall’interazione tra la genetica ed eventi

ambientali stressanti. Kraepelin notò che in molti suoi pazienti il primo

episodio maniacale o depressivo era spesso correlato a un evento esterno

stressante, mentre poi il decorso successivo sembrava indipendente

dall’ambiente.

Eventi di perdita reale (lutto, separazione dal partner o dai figli), simbolica

(cambiamenti di città, lavoro, abitazione), eventi aspecifici (incidenti,

disastri naturali) o addirittura eventi positivi (nascita di un figlio,

promozione lavorativa, vincita di denaro) sono stati osservati in diversi studi

nei mesi precedenti l’esordio della patologia.

Ciò che invece non è stato dimostrato, di contro a molte teorie

psicoanalitiche e cognitive, è una correlazione statistica tra la patogenesi del

disturbo e eventi di perdita avvenuti nel periodo dell’infanzia.

Ha un ruolo sicuramente importante invece il fattore stress che, in soggetti

geneticamente predisposti, farebbe emergere la patologia, più precocemente

e con un decorso più grave, tanto è maggiore la predisposizione genetica.

Ecco quindi che la componente ambientale e la componente genetica

appaiono strettamente correlata e stimoli ambientali anche lievi possono

scatenare gravi episodi depressivi o maniacali in coloro i quali la

componente biologica è importante.

Neurochimica

Un passo importante per avvicinarsi a comprendere le ipotesi neurochimiche

alla base dei disturbi dell’umore , fu fatto studiando, in maniera indipendente

da una ricerca di carattere neuro-psichiatrico, l’iproniazide ( farmaco

antitubercolare) e l’impramina ( antistaminico a struttura triciclica) agli inizi

degli anni cinquanta: i due farmaci elevavano il tono dell’umore nei paziente

che ne facevano uso.

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Seguirono gli studi per comprendere la farmacodinamica dei due principi

attivi e venne cosi chiarito che entrambi determinavano un aumento delle

concentrazioni extracellulari di due neurotrasmettitori monoaminici : la 5-

HT (serotonina) e la NA ( noradrenalina) . L’iproniazide è in grado di inibire

irreversibilmente le MAO che hanno il compito di riassorbire i

neurotrasmettitori, serotonina e catecolamine, dalla terminazione

presinaptica e metabolizzarli; l'imipramina invece determina un blocco del

reuptake di NA e in misura minore 5-HT a livello della terminazione

nervosa presinaptica, ostacolando il legame tra i neurotrasmettitori stessi e i

loro trasportatori , NET per la noradrenalina e SERT per la serotonina.

Coerentemente con questi risultati, si scoprì anche come invece la reserpina

( farmaco antipertensivo) avesse invece un effetto depressogeno poiché

causava una riduzione delle scorte monoaminergiche a livello sinaptico

andando a bloccare il trasportatore vescicolare VMAT, il quale trasporta

noradrenalina serotonina e dopamina dal citoplasma dei nervi presinaptici

all'interno delle vescicole destinate al rilascio nella fessura sinpatica .

Sulla scia di tali scoperte negli anni sessanta si formulò l’ipotesi

monoaminica (Burney e coll., 1965; Wong e coll., 2004) secondo cui la

depressione sarebbe dovuta ad una riduzione, mentre la mania ad un

aumento, della concentrazione di 5-HT e NA a livello dei valli sinaptici del

SNC.

Secondo uno sviluppo successivo della medesima teoria le scarse quantità di

5-HT nello spazio intersinaptico predisporrebbero, in generale, ai disturbi

dell’umore, mentre i livelli di NA, bassi nella depressione e alti nella mania,

determinerebbero la polarità del disturbo (Cassano e coll., 2006).

Anche la dopamina (DA) svolgerebbe un ruolo importante per i disturbi

dell’umore: è stata ipotizzata una riduzione dell’attività dei recettori D1

nella depressione ovvero i ricettori postsinaptici che attivano la adenilato-

ciclasi e anche un aumento della trasmissione dopaminergica nella via

mesolimbica nella fase maniacale e una sua riduzione nella fase depressiva

(De Montis e coll., 1990; Serra e coll., 1990; D’Aquila e coll., 1994).

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Se è vero che i farmaci che esauriscono le monoamine come la reserpina

inducono degli stati depressivi e che i farmaci antidepressivi inducono un

immediato aumento delle concentrazioni dei neurotrasmettitori a livello

centrale , la teoria delle monoamine viene in parte confutata dal fatto che gli

effetti clinici dei farmaci antidepressivi non compaiono immediatamente ma

solamente a distanza di circa due settimane dalla somministrazione ( Nestler,

1998). Ciò ha portato a studiare maggiormente l’effetto cronico di tali

farmaci arrivando a una nuova ipotesi, ovvero quella molecolare: è stato

dimostrato che l’aumento di disponibilità dei neurotrasmettitori dovuta alla

somministrazione del farmaco determina un aumento dei fenomeni di

signaling post sinaptici e di conseguenza un aumento dei livelli di

concentrazione di AMP ciclico a cui consegue l’attivazione di fattori di

trascrizione come CREB (cAMP Response Element Binding protein), una

proteina capace di modulare l’espressione di vari geni tra cui il BDNF e la

NEUROTROFINA3, ridotti nel paziente depresso. L’aumento del numero di

arborizzazioni dendritiche nonché di spine dendritiche conseguentemente

alla secrezione di questi fattori è alla base dell’effetto a lungo termine del

antidepressivo (Duman e coll., 1997; Manji e coll., 2001; Coyle e coll.,

2003).

Neurofisiologia

Nel 1969 Goddard, attraverso i suoi studi su animali di laboratorio, dimostrò

la possibilità di indurre crisi epilettiche mediante l’applicazione consecutiva

sull’amigdala (area del sistema limbico, implicata nella genesi dell’umore e

delle emozioni) di stimoli chimici o fisici subliminali e pertanto innocui se

presi singolarmente. Il fenomeno è oggi noto con il termine kindling e, una

volta indotto, si mantiene costante nel tempo; inoltre, poiché si verifica un

abbassamento permanente della soglia di eccitabilità neuronale, le crisi

epilettiche si possono alla lunga manifestare indipendentemente

dall’applicazione dello stimolo. Il kindling presenta molte analogie con ciò

che avviene durante la storia naturale dei disturbi dell’umore: alla base del

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primo episodio è frequente la presenza di un evento di vita stressante, mentre

gli episodi successivi possono scatenarsi spontaneamente , con un aumento

della loro frequenza nel tempo.

Nell’ultimo decennio l’evoluzione delle tecniche di neuroimaging ha

permesso di correlare i disturbi dell’umore ad alterazioni morfologiche e

funzionali del SNC. E’ stato rilevato che nel 26% dei soggetti soprattutto di

sesso maschile, con disturbo bipolare I o con depressione psicotica la TC e

la RMN hanno mostrato un aumento del rapporto ventricoli/encefalo, in

aggiunta ad una riduzione volumetrica del verme cerebellare. A loro volta,

le tecniche PET hanno evidenziato una riduzione del flusso ematico

cerebrale, soprattutto nelle aree frontali, nei pazienti in fase depressiva; tale

reperto si normalizza con la risoluzione dell’episodio.

Un capitolo di fondamentale importanza nel ambito della neurofisiologia

spetta poi alla neuroplasticità, ovvero la capacità del sistema nervoso di

modificare la sua struttura, adattandosi a stimoli di varia natura intrinseci o

estrinseci. Il termine-concetto di neuroplasticità iniziò ad imporsi nel

dibattito scientifico tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 e nel 1948 lo

psicologo polacco Konorski scriveva: “chiameremo plasticità la …

proprietà in virtù della quale, in determinati sistemi neuronali, si

stabiliscono talune modificazioni funzionali permanenti a seguito di

particolari stimoli o di particolari loro combinazioni”.

Siamo negli anni Quaranta quando prendono spazio gli studi di Rita Levi-

Montalcini e Viktor Hamburger. Durante la vita embrionale la morte dei

neuroni è un fenomeno abituale e irreversibile, sia a livello centrale che

periferico causando una depauperazione del numero di neuroni dell’età

prenatale. Oggi sappiamo che l’iperproduzione embrionale di neuroni

avviene in quasi tutte le regioni del sistema nervoso centrale e periferico,

seguendo i segnali che arrivano dallo stesso tessuto che è bersaglio

dell’innervazione.

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L’ipotesi neurotrofica di Levi-Montalcini e Hamburger pone l’accento sui

fattori trofici che vengono rilasciati in quantità limitate dalle cellule

bersaglio dei neuroni , i quali poi vengono assorbiti dalle terminazioni

nervose: i neuroni meglio connessi al bersaglio assumono un quantitativo

maggiore di fattori trofici rispetto agli altri che quindi , non avendo un

trofismo sufficiente, vanno incontro ad apoptosi(figura1.1)(Levi

Montalcini,1978).

Il meccanismo è tra l’altro un circuito cellula-neurone poiché più è efficiente

l’innervazione del neurone sulla cellula bersaglio, più questa cellula

produrrà fattori trofici necessari al neurone ( Thoenen, 1995; Poo 2001) e

non solo, poiché se l’innervazione su tale cellula avviene simultaneamente

da più neuroni, anche un grado di attività innervante minore sarà sufficiente

alla secrezione di neurotrofine, sfruttando un effetto sinergico ( Poo 2001).

Tali meccanismi si esplicano a più livelli: tra i neuroni, tra le branche

assoniche e tra i contatti sinaptici (Cohen-Cory, 2002).

In definitiva il concetto di neuroplasticità non risiede tanto nella formazione

di nuove sinapsi ma nella selezione di quelle che mediano meglio il segnale

nervoso ricevendo cosi un trofismo maggiore e soprattutto nel fatto che

questo fenomeno non è proprio solo dell’età embrionale ma perdura per tutta

la vita permettendo cosi al sistema nervoso di adattarsi a stimoli di ogni

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natura, comportamentali, elettrofisiologici, farmacologici anche di tipo

patogeno o lesionale.

Infatti le sinapsi chimiche possono andare incontro sia a modificazioni di

carattere funzionale (aumento o diminuzione, anche notevoli, della loro

efficacia funzionale) a breve termine, sia a modificazioni morfologiche a

lungo termine, le quali comportano cambiamenti come l’eliminazione di

connessioni preesistenti o la formazione di nuove spine dendritiche e

varicosità assonali, fenomeno conosciuto come sprouting , ovvero la

gemmazione della terminazione nervosa. Inoltre nel 1997 Gould e

collaboratori, confutando il principio secondo cui i neuroni del SNC

dell’adulto non possano replicarsi, hanno dimostrato l’esistenza di

neurogenesi di alcune aree del SNC dei primati adulti, in particolare il giro

dentato dell’ippocampo (sistema limbico).

Un passo importante anche nel campo della neurofisiologia è stato lo studio

mediante TC e RMN del tessuto cerebrale di soggetti depressi, che ha

permesso di identificare in una buona percentuale di questi alterazioni

atrofiche e rarefazione della densità neuronale soprattutto a livello delle aree

limbiche ( ippocampo e amigdala), della corteccia prefrontale e di alcune

aree prefrontali, suggerendo che la depressione , ma in misura minore anche

lo stress possano indurre tali alterazioni attraverso un’attivazione protratta

dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, capace di indurre l’apoptosi e inibire la

neurogenesi a livello ippocampale (Sapolski e coll., 1990, 1994, 1996;

Duman e coll., 1997). Tale asse è stato il sistema neuroendocrino più

studiato, ed è ben evidente che i pazienti depressi presentino livelli più alti di

cortisolo e dei suoi metaboliti a livello plasmatico e urinario (Holsboer e

coll., 1986). Recentemente è stata sottolineata l’importanza patogenetica di

tale alterazione: il cortisolo determina una deplezione cellulare di glucosio,

la quale aumenta la sensibilità neuronale all’incremento di neurotrasmettitori

eccitatori come il glutammato che si rende responsabile di un fenomeno di

eccitotossicità in quanto permette l'ingresso nella cellula a un elevato

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numero di ioni di calcio e ciò a sua volta attiva una serie di percorsi

distruttivi della struttura cellulare.

Ecco quindi che, come avevamo precedentemente introdotto nel capitolo

riguardante la funzionalità cronica dei farmaci antidepressivi , la depressione

sembrerebbe dipendere da un’alterazione del rilascio di fattori neurotrofici,

come ad esempio il BDNF (Manji e coll., 2001; Popoli e coll., 2002). Difatti

in condizioni di stress il gene che codifica per il BDNF verrebbe represso

tanto da determinare, in particolare, l’apoptosi dei neuroni e, in generale,

l’atrofia della regione ippocampale.

I farmaci antidepressivi sono capaci, come abbiamo visto, di aumentare il

rilascio di BDNF rafforzando nelle cellule nervose la via del cAMP, mentre

il trattamento con Sali di litio e acido valproico aumenta l’espressione di

proteine antiapoptotiche ( ad esempio Bcl-2) e del BDNF nell’ippocampo e

nella corteccia cerebrale. Un’altra categoria farmacologica, gli antipsicotici

atipici, ha dimostrato in studi in vitro un’attività neuroprotettiva simile per

meccanismi a quella degli stabilizzanti dell’umore.

In conclusione, i fenomeni legati alla neuroplasticità cerebrale sembrano alla

base sia dei disturbi dell’umore, sia dei farmaci ad essi destinati. In questo

modo, abbandonando la visione dell’azione farmacologica incentrata solo

sull’interazione farmaco-recettore, si pone l’accento anche sugli eventi

intracellulari di risposta al segnale.

Neurobiologia

Dal punto di vista neurobiologico, il disturbo bipolare si presenta come una

via finale comune di differenti condizioni patologiche. Questa eterogeneità

limita grandemente la possibilità di ottenere una prospettiva integrata del

disturbo, il quale è tutt’altro che una condizione statica. Molti disturbi

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psichiatrici oscillano tra esacerbazione dei sintomi e vari gradi di remissione.

Tuttavia il disturbo bipolare presenta ulteriori difficoltà di comprensione

poiché le esacerbazioni psicopatologiche possono avvenire sia nel senso

della mania che della depressione, oppure variare tra infinite combinazioni

di questi due poli. Ciononostante, le scoperte scientifiche degli ultimi anni

stanno iniziando a offrire una teoria unificata del disturbo. Il fatto che

nessun gene, via metabolica o anomalia cerebrale possa da solo spiegare il

disturbo è un passo iniziale ma estremamente importante per articolare

meglio una prospettiva integrata sullo stato ontologico, sulla patogenesi e sui

trattamenti della bipolarità.

E’ importante sottolineare che i risultati ottenuti oggi da parte della ricerca

psichiatrica con i mezzi di neuroimaging funzionale , fMRI in primis , sono

sì importanti ma non ancora dirimenti se si pone l’obiettivo di differenziare

tramite essi sia i pazienti bipolari dai pazienti sani o affetti da altre patologie,

sia di differenziare la mania dalla depressione. (Drevets et al., 1998; Drevets

et al., 2008; Strakowski et al., 2012).

I dati più concreti sono emersi invece a livello cellulare, poiché pare

evidente che il disturbo bipolare sia associato a una de-regolazione delle

interazioni glio-neuronali e ad anomalie più evidenti negli elementi gliali

piuttosto che nei neuroni (Hamidi et al., 2004; Carter, 2007; Sokolov, 2007;

Vostrikov et al., 2007) .

La microglia in particolare , la quale rappresenta la prima e principale

difesa immunitaria del sistema nervoso centrale, sembra essere iperattiva nel

disturbo bipolare ((Rajkowska et al., 2001).

Vari studi pongono poi l’accento sui processi infiammatori che aumentano a

livello periferico sia in fase depressiva che maniacale, con un recupero

almeno parziale in eutimia (Kim et al., 2007; Brietzke et al., 2009;

Munkholm et al., 2013). Tali dati sono in linea con le variazioni dell’asse

ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), tra cui la riduzione della sensibilità ai

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glucocorticoidi, processo responsabile della risposta infiammatoria (Tsigos

& Chrousos, 2002; Pace et al., 2007; Söderlund et al., 2011).

Come abbiamo già potuto vedere precedentemente nella trattazione recenti

studi di genetica ma anche di neuroscienze e immunologia dimostrano che il

disturbo bipolare condivide molte caratteristiche con altre condizioni

psichiatriche, quali la schizofrenia e la depressione unipolare, che sono

concettualmente disturbi distinti. Negli ultimi anni diversi Autori hanno

identificato molti loci a rischio condivisi dalle suddette condizioni

psicopatologiche. Sebbene alcuni di questi alleli a rischio presentino

primariamente dei target nel SNC, molti altri svolgono la propria funzione in

altre cellule del corpo; in tal modo il disturbo bipolare sarebbe legato ad

anomalie del metabolismo in generale e della funzione mitocondriale in

particolare (Taylor & MacQueen, 2006; De Sousa et al., 2014).

Inoltre, l’implicazione di tutti questi meccanismi nell’ambito del disturbo

bipolare potrebbe spiegare perché quest’ultimo sia associato ad anomalie

immunologiche e a un aumentato rischio per lo sviluppo di condizioni

mediche multiple che giustificano l’incremento della mortalità associata al

disturbo stesso.

1.4 Quadri clinici

La clinica del disturbo bipolare si divide in due quadri principali: la

depressione e la mania, a cui si aggiungono molteplici condizioni intermedie

(stati misti) che comprendono caratteristiche dell’uno o dell’altro quadro. I

sintomi di ogni forma clinica si assortiscono variamente, ma in ogni caso

riguardano il tono dell’umore, la psicomotricità, i pensieri, e il sistema

neurovegetativo (sonno, appetito, libido e ritmi biologici); ognuno di essi

esprime un’alterazione del sistema limbico-diencefalico

Depressione

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Nonostante la tristezza possa rappresentare la manifestazione centrale della

malattia, il DSM-IV-TR e il successivo DSM-V, inquadra i criteri diagnostici

necessari per differenziarla dalla depressione primaria: è un moto comune

dell’animo, una reazione agli eventi di vita spiacevoli e allo stress ed ha un

carattere perciò fisiologico differentemente dalla depressione.

Esordio. L’episodio depressivo può insorgere improvvisamene o a seguito di

una fase prodromica. Il primo caso è più tipico nelle forme a decorso

bipolare, il secondo si può manifestare invece con sintomi quale l’instabilità

emotiva, l’astenia, la riduzione degli interessi, la difficoltà di concentrazione,

l’inappetenza, la cefalea, l’insonnia, la riduzione del desiderio sessuale, senza

tuttavia un’effettiva compromissione dell’ambito socio- lavorativo. Qualora il

quadro prodromico sia presente, tende a ripetersi nel singolo paziente con le

stesse caratteristiche prima di ogni episodio depressivo; ciò permette al

soggetto di riconoscere la sua condizione per tempo e di richiedere un

tempestivo intervento medico.

Periodo di stato. Rappresenta la piena espressione del disturbo e invalida

completamente il paziente per un periodo di 6/12 mesi, anche se talvolta può

essere più breve o, al contrario, superare la durata di due anni.

L’umore è stabilmente flesso e il paziente si sente triste, cupo, sfiduciato,

abbattuto, pessimista, svuotato; altre volte gli capita di provare un senso di

agitazione, di irrequietezza, di tensione interna, di ansia e angoscia,

accompagnate da un senso di attesa dolorosa.

Il forte dolore psichico si accompagna a disturbi fisici come un senso di peso

o di oppressione all’addome o al torace e tutto ciò porta sovente ad un senso

di disgusto per la vita (tedium vitae). L’umore depresso non varia con gli

eventi esterni e la capacità di provare emozioni e sentimenti è persa, in

particolare il soggetto non è in grado di provare sensazioni piacevoli

(anedonia), si sente solo, indifferente a tutto e a tutti, persino verso i suoi più

forti interessi e gli affetti più cari (depersonalizzazione affettiva). La

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mancanza di preoccupazione per cosa accade ai propri familiari e la

sensazione di non provare più alcun sentimento nei loro confronti gli suscita

sentimenti penosi di colpa, fino a farlo sentire un partner, un genitore, un

figlio indegno.

La psicomotricità del paziente può modificarsi ed esso può presentarsi

agitato, irrequieto, angosciato, nervoso, tanto da non riuscire a star fermo o a

rilassarsi. Soprattutto nelle forme gravi però vi è un evidente rallentamento

psicomotorio, subito manifesto perché il depresso si presenta trasandato,

stanco, invecchiato. Inoltre la gestualità è ridotta, la mimica è fissa in

un’espressione dolorosa con sguardo spento e rima buccale curva verso il

basso. I movimenti sono lenti e incerti, il linguaggio è povero, monotono,

privo d’intonazione, il tono di voce è sommesso; quando è possibile il

depresso preferisce restare a lungo in silenzio o, se necessario, dà risposte

scarne e sintetiche. A causa della grande astenia e apatia che lo pervadono,

egli riduce al minimo le attività lavorative, domestiche, ricreative e la cura

della propria persona; inoltre evita il più possibile i contatti sociali.

Dal punto di vista delle funzioni cognitive abbiamo comunemente un

rallentamento dell’ideazione cristallizzandola su pochi argomenti, tutti a

contenuto depressivo (ruminazioni mentali o idee coatte). Manca la capacità

di concentrazione e di comprensione, tanto che anche leggere il giornale,

guardare la televisione, seguire una discussione diventa difficile.

In altri casi il flusso delle idee è accelerato, ma si muove vorticosamente

sempre intorno a temi depressivi. Difatti i contenuti del pensiero sono

dominati da una visione negativa di sé, del mondo circostante; prevalgono i

rimorsi per il passato e manca un’attesa fiduciosa per il futuro.

La dimensione temporale risulta compromessa e il tempo al paziente sembra

non scorrere mai. Ogni risveglio è drammatico, perché prevale la sensazione

di non poter giungere mai a sera; il depresso è catturato dal presente e per

questo non riesce a progettare il proprio futuro, che diventa solo un evento

ineluttabile, quasi una condanna.

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Nel 40% dei casi (Cassano e coll., 2006) queste idee prevalenti diventano veri

e propri deliri. Solitamente si tratta di deliri congrui all’umore depresso, in

cui prevalgono i sentimenti di colpa, di indegnità, di dannazione, di povertà e

di rovina; ad essi spesso si aggiunge il delirio ipocondriaco (il paziente è

convinto di avere una malattia fisica grave ed incurabile). Esistono poi i deliri

incongrui all’umore, cioè da esso non derivabili, come il delirio di

persecuzione, di riferimento, di influenzamento, di veneficio, di trasmissione

o inserzione del pensiero. Raramente e solo nelle forme più gravi si

riscontrano dispercezioni sensoriali, soprattutto uditive e a carattere

denigratorio.

Da questi sentimenti nefasti e dalla convinzione che dureranno in eterno,

nasce nel 60% dei casi l’ideazione suicidaria, che spesso viene comunicata al

medico e ai familiari, e che non deve mai essere sottovalutata perché in

almeno il 15% dei casi è seguita dall’attuazione del suicidio proprio con le

modalità anticipate dal paziente.

Sono presenti infine nella depressione durante il periodo di stato anche

sintomi neurovegetativi, il primo dei quali è sovente l’insonnia che può essere

intermedia con risvegli frequenti o terminale con un risveglio precoce,

associata alla sensazione di un sonno non ristoratore, disturbato da frequenti

incubi. Nelle forme atipiche è possibile riscontrare un’ipersonnia, fino alla

letargia.

Al quadro clinico si accompagnano riduzione dell’appetito e sintomi

gastrointestinali come xerostomia, dispepsia e stitichezza; soprattutto negli

anziani il calo ponderale può essere drastico e determinare un grave squilibrio

idro-elettrolitico.

Al contrario, nella depressione atipica è presente un aumento dell’appetito,

fino all’iperfagia. Frequente è inoltre la riduzione del desiderio sessuale,

l’anorgasmia nelle donne e l’impotenza negli uomini.

Risoluzione. In rari casi il quadro clinico si risolve in poche ore (soprattutto se

l’episodio depressivo rientra nell’ambito del disturbo bipolare); più

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frequentemente ciò avviene in maniera graduale (giorni o settimane), con

l’allontanamento progressivo del periodo di stato attraverso l’alternanza di

fasi di miglioramento e di peggioramento.

Nel 30-40% dei casi la risoluzione non è completa e permangono sintomi

residui come la labilità emotiva, il pessimismo, la ridotta fiducia in sé,

l’affaticabilità, tanto che le attività socio-lavorative possono venirne

compromesse.

In tutte le fasi dell’episodio depressivo il paziente conserva la consapevolezza

di malattia, che cresce con il susseguirsi degli episodi, essendo all’inizio solo

parziale, a volte con attribuzione dei sintomi ad una patologia organica, ad

una risposta agli eventi avversi, o alla mancanza di buona volontà.

Tuttavia, nelle forme più gravi con alterazioni percettive e cognitive la

consapevolezza di malattia può mancare del tutto.

Mania.

Durante l’episodio maniacale i sentimenti di forza, benessere, gioia e potenza

vengono esaltati e il tono dell’umore è eccessivamente elevato.

Esordio. Molto spesso la mania insorge più repentinamente rispetto alla

depressione ed i prodromi sono meglio individuabili nei soggetti con

temperamento depressivo, nei quali i familiari notano cambiamenti importanti

come un’iperattività, un’espansività e una loquacità non presenti

abitualmente. A questi caratteri si aggiungono un ridotto bisogno di dormire,

un aumento delle energie, dell’appetito e del desiderio sessuale.

Inizialmente il periodo prodromico dura qualche giorno, ma nella storia

naturale della malattia esso può ridursi persino a qualche ora.

Periodo di stato. Al contrario della depressione la consapevolezza di malattia

nel paziente in fase maniacale è quasi completamente assente e si associa a

una compromissione socio-lavorativa estremamente rilevante.

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Il paziente maniaco si sente bene, ha un umore elevato che lo rende euforico,

gioioso, felice; in tali momenti scherza, ride, è comunicativo e vivace ma allo

stesso modo, improvvisamente, possono comparire rabbia, risentimento,

aggressività, ma anche tristezza, pianto e idee di suicidio, perché, come

scriveva Schule: “nulla è durevole in mania se non la perpetua

trasformazione”. L’attività motoria aumenta notevolmente, tanto che il

paziente non riesce a stare fermo; la mimica è esagerata, mutevole, lo sguardo

è estremamente comunicativo.

Spesso il maniaco è logorroico, ha un eloquio fluido, un tono di voce elevato;

il suo linguaggio è a volte divertente e scherzoso, altre volte offensivo e

aggressivo. Tutto ciò riflette un affollamento di idee ed un pensiero accelerato

e frammentato.

Il paziente in questa fase tipicamente crede di avere delle facoltà intellettive

eccezionali, ma sono in realtà assenti o compromesse le capacità di

attenzione, di concentrazione e di memoria. Il contenuto del pensiero è

dominato dalla valutazione estremamente positiva della propria persona, sia

in ambito fisico che intellettuale ed è infatti caratteristico che il paziente

aumenti la cura della propria persona e l’abbigliamento, scegliendo spesso di

indossare abiti vistosi e colorati; se di sesso femminile, spesso assume

atteggiamenti seduttivi e provocanti. Al contrario, nelle forme più gravi il

paziente si trascura, pur continuando a scegliere abiti eccentrici e stravaganti.

Nel 45-75% dei casi si riscontrano veri e propri deliri, alcuni congrui

all’umore (deliri megalomanici o di grandezza), altri incongrui (deliri di

persecuzione e di nocumento). Non sono rare le dispercezioni sensoriali, sia

visive che uditive.

Il sistema neurovegetativo può presentare alterazioni quali il ridotto bisogno

di sonno, l’aumento dell’appetito associato a dimagramento a causa

dell’iperattività fisica, l’incremento dell’attività sessuale.

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Risoluzione. L’episodio maniacale ha una durata spontanea di 4-6 mesi, poi si

risolve bruscamente o nell’arco di alcuni giorni, con ritorno all’eutimia

oppure con passaggio ad una fase depressiva o ad uno stato misto.

Ipomania. Il quadro clinico è sovrapponibile a quello della mania, ma la

durata è inferiore (quattro giorni), la sintomatologia è meno grave e non ci

sono caratteristiche psicotiche. Inoltre l’ospedalizzazione non è necessaria, né

esiste una marcata riduzione delle attività socio-lavorative.

1.5 Sottotipi clinici

Il decorso del disturbo bipolare è caratterizzato dall’alternanza di fasi

maniacali, ipomaniacali, depressive e miste. A seconda della storia clinica

possiamo individuare diversi sottotipi che rientrano nello spettro di disturbo

bipolare :

Disturbo bipolare I: rappresenta la visione moderna del disturbo maniaco-

depressivo classico o della psicosi affettiva. Si pone la diagnosi quando

sono presenti i criteri per un episodio maniacale. Sebbene non sia

necessaria la presenza lifetime di sintomi psicotici, né di un episodio

depressivo maggiore, la maggior parte degli individui li esperisce nel corso

della vita. L’esordio può avvenire in qualsiasi età della vita; è mediamente

intorno ai 18 anni, ma può verificarsi anche a 60/70 anni. Tuttavia la

primaria insorgenza di sintomi maniacali in tarda età può essere associata a

condizioni mediche come la demenza fronto-temporale, o può essere

correlata all’abuso o all’astinenza da sostanze . Più del 90% dei soggetti

che sviluppano un episodio maniacale continuerà ad avere fasi di

alterazione dell’umore. Inoltre se l’episodio maniacale è contraddistinto da

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sintomi psicotici, la probabilità che questi ultimi siano presenti negli

episodi successivi aumenta.

Disturbo bipolare II: era precedentemente considerato meno grave del tipo

I, visione che è stata abbandonata considerando il tempo occupato nel

corso della vita dalla fase depressiva e la spiccata instabilità dell’umore,

caratteristiche che compromettono pesantemente il funzionamento socio

lavorativo del soggetto.

Si pone diagnosi quando il soggetto soddisfa i criteri per almeno un

episodio ipomaniacale e per uno o più episodi depressivi maggiori attuali o

pregressi.

Esordisce mediamente tra i 20 e i 30 anni, quindi generalmente dopo

rispetto al disturbo bipolare I e più precocemente del disturbo depressivo

maggiore.

Il primo episodio è spesso a polarità depressiva e quindi non può essere

diagnosticato il disturbo bipolare II finché non compare un episodio

ipomaniacale. In generale gli episodi depressivi risultano molto più

frequenti degli episodi ipomaniacali.

Disturbo ciclotimico: la caratteristica principale è la fluttuazione cronica

dell’umore sia in senso ipomaniacale che depressivo.

Tuttavia la sintomatologia non è mai tale per gravità, pervasività e durata

da soddisfare pienamente i criteri per un episodio ipomaniacale o

depressivo maggiore.

L’esordio, perlopiù insidioso, avviene solitamente in adolescenza o nella

prima età adulta. Il decorso è persistente.

1.6 Decorso e complicanze

Il decorso dei disturbi dell’umore è spesso gravemente complicato e

dipendente da più fattori concomitanti e ciò rende più difficile il trattamento

medico.

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Una complicanza comune e importante è l’influenza che queste patologie

psichiche hanno, non solo sullo stato generale di salute del soggetto, ma

soprattutto come possono modificare il decorso di patologie internistiche

dalle quali il paziente può essere già affetto. Infatti soggetti con diabete

mellito, malattie respiratorie croniche, epilessia o cardiopatia ischemica,

affetti contestualmente da depressione maggiore, ottengono risultati

terapeutici inferiori rispetto a soggetti con le stesse patologie organiche, ma

non depressi (Ciechanowski e coll., 2000; Jiang e coll., 2002); inoltre

presentano una più elevata mortalità (Angst e coll., 2002). Tuttavia molti

studi hanno dimostrato l’efficacia del trattamento antidepressivo nel ridurre la

mortalità e la morbidità dopo infarto acuto del miocardio (Taylor e coll.,

2005) o ictus (Jorge e coll., 2003), e nell’abbassare il rischio di suicidio

(Gibbons e coll., 2005).

Il decorso della patologia psichica può essere aggravato e talvolta anche

cronicizzato quando questo si complica con l’abuso di sostanze stupefacenti

o di alcool, rendendo più difficoltoso anche il piano terapeutico

Come abbiamo già precedententemente riportato, il rischio di suicidio è molto

elevato nei pazienti con disturbo bipolare (15-19% dei casi), molto più di

quanto non lo sia per qualsiasi altro disturbo psichiatrico, e circa 30 volte

superiore a quello della popolazione generale.

Nel decorso della malattia vanno considerati anche i periodi inter episodici

poiché , per quanto nella maggioranza dei casi si assista a una remissione

completa, in alcuni pazienti ( 30% ) permane una grave compromissione del

funzionamento lavorativo. L’ambito professionale è proprio quello che risulta

più difficile recuperare rispetto anche alla sola componente sintomatologica ,

in quanto è influenzato non solo dal paziente ma anche dalle situazioni

circostanziali: ne conseguono uno status socio-economico inferiore e

difficoltà interpersonali.

Tutte le complicanze che possono presentarsi lungo il decorso del disturbo

sono però ridotte quanto più tempestivo è l’intervento terapeutico.

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1.7. Disturbo bipolare e deficit cognitivo

Negli ultimi anni vari Autori hanno studiato l‘impairment cognitivo nei

pazienti con disturbo bipolare, seguendo ciò che era già stato fatto in

precedenza per la schizofrenia. Tale ritardo è risultato minore rispetto ai

risultati ottenuti sulla schizofrenia e ciò è probabilmente dovuto a un’inferiore

gravità del deficit nei pazienti bipolari eutimici rispetto agli schizofrenici

(Harvey et al., 2010). Tuttavia il deficit cognitivo potrebbe rappresentare un

endofenotipo del disturbo bipolare (Gottesman & Gould, 2009; Kendler &

Neale, 2010), cioè una caratteristica ereditabile, associata al disturbo nella

popolazione generale, indipendente dalla fase di malattia, co-segregato

all’interno delle famiglie affette. I dati disponibili in Letteratura suggeriscono

la presenza del deficit cognitivo in tutto lo spettro bipolare (BP-I e BP-II), ma

sembrerebbe maggiore nel BP-I, nei pazienti più anziani e nei casi in cui

l’esordio è precoce e il decorso è più grave. Infatti è presente una correlazione

tra il numero di episodi di malattia (soprattutto di polarità depressiva) e la

gravità del deficit cognitivo (Osuji & Cullum, 2005).

Non è ancora nota l’esistenza di differenze o analogie del deficit nei due

sottotipi di disturbo bipolare (Sole et al., 2012).

Le alterazioni cognitive influenzano negativamente il funzionamento globale

dell'individuo (Green, 2006) anche quando la sintomatologia psicoaffettiva è

in remissione. Tali evidenze rendono il cognitivo dei pazienti bipolari un

target di intervento.

Domini cognitivi studiati nei pazienti bipolari. La cognitività è intesa come

l’effettivo agire dell’organismo, che interagisce con l’ambiente e guida

l’azione del soggetto in specifiche situazioni tramite dei domini cognitivi e

possono essere domini che coordinano la senso-motricità permettendo di

muoversi nell’ambiente, vestirsi ecc., o domini cognitivi per le abilità più

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astratte come per la risoluzione di problemi complessi, previsione delle

conseguenze alle azioni svolte ecc. ( Marturana & Varela, 1992).

I domini cognitivi che risultano alterati nel disturbo bipolare comprendono le

funzioni esecutive, la memoria (Saykin et al., 1991; Tamminga et al., 2010),

l’attenzione (Francey et al., 2005), la velocità psicomotoria e le capacità di

interazione sociale.

In particolare sono alterate quelle funzioni esecutive che normalmente

provvedono alla capacità di programmare ed eseguire compiti volti al

raggiungimento di specifici obiettivi, il riconoscimento delle priorità,

l’attivazione di strategie appropriate, l’inibizione di risposte inadeguate

(Greenwood et al., 2008; Basso et al., 2009).

E’ presente una compromissione della memoria sia nella componente a breve

termine, sia in quella di lavoro ovvero nella working memory che rappresenta

uno specifico aspetto della memoria a breve termine, riguardante la capacità

di correlare funzionalmente la percezione sensoriale all’azione controllata

(Baddeley & Hitch, 1996; Baddeley & Della Sala, 1996).

I pazienti bipolari presentano inoltre una diminuita fluenza verbale (Becker et

al., 2010) e una ridotta velocità di processazione delle informazioni (Bonner-

Jackson et al., 2010; Gonzàlez-Blanch et al., 2010).

I deficit cognitivi legati al disturbo bipolare hanno spesso un’influenza

negativa sul funzionamento sociale, con un impatto sulle capacità

occupazionali e di integrazione (Sachs et al., 2007).

Le alterazioni legate alla teoria della mente, la quale definisce la capacità

dell’individuo di rappresentazione gli stati mentali propri ma anche degli altri,

i pensieri, i desideri i sentimenti e le richieste, in modo tale da poter spiegare

e prevedere il comportamento(Kerr et al., 2003),sembrano essere proprio

legate al deficit cognitivo generalizzato (Thaler et al., 2014) e associandosi

alle difficoltà di interazione sociale tipica del disturbo, ne accentuano il

quadro.

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Caratteristiche del deficit cognitivo in pazienti bipolari eutimici ( in in

remissione). Nel corso degli ultimi anni è stata avanzata più volte l’ipotesi

secondo cui nel decorso del disturbo bipolare, l’assenza di sintomi non

equivale necessariamente a un recupero delle funzioni neurocognitive (Malhi

et al., 2007).

Sono stati infatti messi a confronto i pazienti bipolari nelle diverse fasi del

disturbo; ad esempio, Martinez-Aran e colleghi (2004) hanno messo a

confronto quattro diversi gruppi: pazienti maniaci o ipomaniaci, pazienti

depressi, pazienti eutimici e controlli sani, utilizzando una batteria di test

neuropsicologici. Ognuno dei tre gruppi di pazienti ha mostrato un

impairment significativo nella memoria verbale e delle funzioni esecutive

rispetto ai controlli.

Una più recente metanalisi ha indagato 45 diversi studi, confrontando 1423

pazienti bipolari eutimici con 1524 controlli sani (Bora et al., 2009). Sono

stati considerati anche gli effetti delle variabili demografiche e di fattori di

confondimento quali l’età di insorgenza del disturbo, la durata di malattia, i

trattamenti pregressi e in atto, attraverso una meta-regressione.

I risultati hanno mostrato nei pazienti un’alterazione di funzione esecutiva,

inibizione della risposta, riduzione della capacità di set shifting, diminuzione

della memoria visiva e verbale, dell’ attenzione, della fluenza verbale e

velocità di processazione.

I farmaci, in generale, contribuivano a un rallentamento psicomotorio nei

pazienti.

La più precoce età d’insorgenza era legata a un deficit della memoria verbale

e a un rallentamento psicomotorio.

Sebbene ci siano dati discordanti sui pazienti in remissione (Kerr et al., 2003;

Malhi et al., 2008), uno studio meta-analitico ha individuato uno specifico

deficit neuropsicologico coinvolgente la velocità di processazone dei dati,

l’attenzione, la memoria e la funzione esecutiva (Torres et al., 2007).

Analogamente Samamè e colleghi (2012) hanno evidenziato in un’altra

metanalisi la presenza di un moderato deficit nell’attribuzione dello stato

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mentale nei soggetti eutimici. Un ulteriore studio metanalitico (Mann-Wrobel

et al., 2011), condotto su 28 lavori scientifici, ha evidenziato come i pazienti

eutimici rispetto ai controlli sani mostrino un alterato funzionamento

neuropsicologico in quasi tutti i domini esaminati (eccetto che la fluidità

verbale e la comprensione del testo).

Il sesso sembra non avere un impatto sulle funzioni neuropsicologiche.

Sembra esistere una relazione inversa tra deficit cognitivo e livello di

istruzione.

Uno studio effettuato su 343 pazienti bipolari eutimici (Olié et al., 2014) ha

suddiviso il campione in base alla presenza e alla gravità dei tentativi di

suicidio presenti in anamnesi, valutando la funzione cognitiva, la velocità di

processare le informazioni, la memoria, la fluenza verbale e la funzione

esecutiva. I pazienti che avevano effettuato in passato gravi tentativi

anticonservativi hanno ottenuto punteggi migliori nelle aree del linguaggio

rispetto a coloro che avevano messo in atto tentativi meno gravi o a coloro

che non avevano mai tentato il suicido. Secondo gli Autori i profili clinici e

neuropsicopatologici di tali pazienti dovrebbero essere considerati

contestualmente per definire meglio il rischio suicidario.

Deficit cognitivo nei pazienti bipolari eutimici e BDNF. Ancora poco si

conosce sulla relazione tra i livelli di BDNF e la compromissione delle

funzioni cognitive in fase eutimica (Bauer at al., 2014). Uno studio (Barbosa

et al, 2012), che confrontava bipolari eutimici e controlli sani, ha confermato

nel primo gruppo un impairment nella funzione esecutiva e un incremento dei

valori plasmatici di BDNF rispetto al secondo gruppo. Pare quindi che la

funzione esecutiva non sia correlata con i valori di BDNF. Il dato è stato

confermato anche in altri studi analoghi (Dias et al., 2009; Chou et al., 2012).

Tuttavia è stata individuata una significativa associazione positiva tra livelli

serici di BDNF e il test di fluenza verbale (Dias et al., 2009). Probabilmente è

da tenere in conto l’effetto dei trattamenti farmacologici sulla funzione

cognitiva, sul BDNF e sulla relazione tra loro.

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CAPITOLO 2

BDNF

Negli ultimi decenni l’ipotesi monoaminergica dei disturbi dell’umore si è

integrata con quella della neuroplasticità sulla base dei risultati di studi di

neuroanatomia, autoptici (Drevets et al., 2008; Macqueen et al., 2008) e di

neuroimaging(Benson et al., 2014).

In accordo con queste evidenze, il disturbo bipolare non sarebbe

semplicemente dovuto a un’alterata produzione di neurotrasmettitori

monoaminici, ma potrebbe essere inteso come il correlato clinico delle

alterazioni strutturali presenti in alcune aree cerebrali causate da una

diminuzione dei livelli dei fattori neurotrofici stessi.

2.1 Basi Molecolari

La prima conferma diretta dell’ipotesi neurotrofica fu l’identificazione del

fattore di crescita nervoso (nerve growth factor o NGF) a opera di Levi-

Montalcini e Coehn (Cohen et al., 1954). Tale scoperta ha aperto la via verso

la ricerca di nuovi fattori neurotrofici di cui, come oggi sappiamo, l’NGF è

solo un membro.

Le neurotrofine costituiscono una famiglia di fattori trofici che vengono

secreti dal tessuto bersaglio e agiscono sui neuroni associati alla

sopravvivenza e alla differenziazione, nonchè al la trasmissione dei segnali

e la plasticità delle sinapsi (Patapoutian & Reichardt, 2001; Poo, 2001).

Nei mammiferi sono state isolate quattro neurotrofine: l’NGF, il fattore

neurotrofico di origine cerebrale (brain derived growth factor o BDNF), la

neurotrofina 3 (NT3), la neurotrofina 4/5 (NT4,5) e la neurotrofina 6 (NT6)

(Patapoutian & Reichardt, 2001).

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Ognuna di queste ha proprietà leggermente diverse e agisce con un

meccanismo proprio su particolari cellule nervose, ma sono caratterizzate

tutte da una struttura simile, omologa a quella del TGFβ (transforming

growth factor β).

Le neurotrofine si possono poi legare a due differenti tipi di ricettori

espressi sulla superficie delle cellule nervose: i ricettori tirosina-chinasi

appartenenti alla famiglia del Trk ( TrkA, TrkB, TrkC) che mediano un

segnale positivo alla cellula stimolandone la sopravvivenza o la crescita; il

ricettore p75NTR che agisce in differenti modi : porge l’NGF al recettore

TrkA; attiva direttamente delle vie intracellulari di trasmissione del segnale;

in cellule prive di recettori Trk promuove la morte neuronale mediante un

meccanismo di apoptosi.

BDNF. Il BDNF è la neurotrofina maggiormente espressa nel cervello dei

mammiferi (Murer et al., 1999 and Pruunsild et al., 2007) ed è la seconda

neurotrofina storicamente scoperta.

E’ rilasciato da neuroni pre- e postsinaptici, sia basalmente che in

conseguenza a stimoli (Lessmann and Brigadski, 2009).

Il BDNF secreto può interagire con due recettori: p75 neurotrophin receptor

(p75NTR) e tropomyosin-related kinase receptor B (TrkB).

La trasmissione del segnale legata al BDNF dipende dal clivaggio

proteolitico da una pro-forma della neurotrofina a una forma matura. Mentre

il proBDNF si lega preferibilmente al p75NTR, mediando l’apoptosi e la

depressione, la forma matura si lega al TrkB che, attraverso passaggi

intermedi, innesca la cascata delle MAP chinasi (Mitogen Activating

Protein) (Russel, 1995) e attiva CREB (cAMP Response Element Binding

protein), un fattore di trascrizione che regola l’espressione di molteplici

geni, tra cui alcuni che codificano per il BDNF e per proteine

antiapoptotiche come Bcl-2.

In tal modo si determinano vari effetti: differenziazione e incremento della

sopravvivenza neuronale, crescita dei neuriti, potenziamento delle sinapsi

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(Lu et al., 2005; Barker, 2009). In virtù del ruolo svolto nella neurogenesi e

nella plasticità neuronale, i segnali trasmessi dal BDNF nelle aree limbiche e

nella corteccia cerebrale sono centrali nell’apprendimento e nella memoria

(Cunha et al., 2010).

I livelli di BDNF sono alterati in vari disturbi neurodegenerativi come la

malattia di Parkinson (Lee & Song, 2014), la demenza di Alzheimer (Song

et al., 2014), la corea di Huntigton (Lu et al., 2013).

Inoltre è stato individuato un possibile ruolo della neurotrofina nella

neuropatia diabetica (Bikbova et al., 2014) e nel dolore cronico (Merighi et

al., 2008; Latremoliere & Woolf, 2009).

Il BDNF è poi implicato sia nella protezione che nel recupero delle funzioni

neurologiche in seguito a stroke (Berretta et al., 2014).

Una sua disregolazione è stata rintracciata anche nell’ADHD (Caylak, 2012;

Liu et al., 2014).

Poichè il BDNF ha un azione anoressizzante e di controllo sull’introito di

cibo, potrebbe essere coinvolto nei disturbi dell’alimentazione

(Pelleymounter et al., 1995; Nobuyuki et al., 2014).

Infine un filone di ricerca ha studiato i rapporti tra il BDNF e i disturbi

dell’umore (Salehi e coll., 1998; Malberg e coll., 2000; Nagatsu e coll.,

2000; Pierce & Bari, 2001; Castrén, 2014). A livello della corteccia

temporale di pazienti depressi sono state osservate concentrazioni di CREB

ridotte; i livelli di questa proteina erano invece aumentate nei pazienti

sottoposti a terapia antidepressiva (Dowlatshahi e coll., 1998). Studi

analoghi hanno evidenziato un incremento dei livelli di BDNF

nell’ippocampo di soggetti trattati con antidepressivi (Nibuya e coll., 1995;

Chen e coll., 2001); tale aumento è mediato almeno in parte da CREB e

potrebbe essere implicato anche nei meccanismi di recupero dal danno

indotto dallo stress a livello ippocampale.

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Alcuni studi condotti su animali adulti hanno documentato come lo stress

possa determinare atrofia, morte cellulare (Sapolsky, 1996; McEwen, 1999)

e ridotta neurogenesi a livello ippocampale. Sull’uomo numerosi studi post-

mortem hanno messo in evidenza una riduzione significativa del volume

(Rajkowska, 2000; Manji e coll., 2001) e del numero di neuroni e cellule

gliali (Ongur e coll., 1998; Rajkowska e coll., 1999) nell’ippocampo e in

alcune regioni della corteccia cerebrale di pazienti depressi. Un aspetto

importante è che il numero delle cellule gliali risultava ridotto e non

aumentato, come ci si aspetterebbe in caso di morte cellulare di tipo

necrotico, la quale è associata a flogosi e attiva solitamente un aumento della

glia con il fenomeno della gliosi, ovvero una proliferazione astrocitaria nelle

aree danneggiate. Pertanto si può ragionevolmente ritenere che la morte

neuronale da stress sia avvenuta per apoptosi e quindi potrebbe essere

dipendente da un’alterazione dei segnali indotti dalle neurotrofine.

Altri studi biomolecolari hanno dimostrato che lo stress riduce la sintesi di

BDNF a livello delle cellule del giro dentato e delle cellule piramidali

dell’ippocampo (Smith e coll., 1995). Infatti lo stress aumenta i livelli di

glucocorticoidi che interferiscono coi i processi di trascrizione del BDNF

stesso (Smith e coll., 1995; Vaidya e coll., 1997); da ciò ne deriva una

ridotta protezione contro i processi apoptotici che il BDNF controlla in

quanto è capace di attivare Bcl-2 (gene anti-apoptotico) e inibire Bad (gene

pro-apoptotico) (Finkbeiner, 2000).

Gli antidepressivi, invece, aumentano le concentrazioni di serotonina (5-

HT) e noradrenalina (NA) che, legandosi ai loro rispettivi recettori,

determinano un incremento citoplasmatico di cAMP che induce l’attivazione

della PKA (Protein-chinasi A); questa proteina fosforila, attivandolo, CREB

che, da ultimo, promuove la trascrizione del gene del BDNF (D’Sa &

Duman, 2002).

Per di più, l’aumento delle concentrazioni del BDNF favoriscono i

meccanismi della long term potentiation (potenziamento dell’attività

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sinaptica in seguito a stimolazione elettrica ripetuta ad alta frequenza, la

quale determina un aumento duraturo del potenziale eccitatorio

postsinaptico) e della plasticità sinaptica (Korte e coll., 1996; Patterson e

coll., 1996; Kang e coll., 1997). Tutto ciò avvalora l’ipotesi neurotrofica,

secondo cui la patologia depressiva è legata ad un deficit di fattori

neurotrofici, il quale si può risolvere con la terapia antidepressiva (Duman e

coll., 1997; Altar, 1999).

In definitiva, le neurotrofine sembrano profondamente coinvolte nei

meccanismi patogenetici di vari disturbi, tra cui quello bipolare. Tuttavia,

saranno necessari ulteriori studi su campioni più estesi e sulle diverse etnie

per comprendere meglio il ruolo svolto da questi fattori, l’eziologia dei

disturbi psichiatrici e per identificare nuovi bersagli farmacologici.

2.2 Studi sull’animale

Lo scopo principale dei test sugli animali è quello di individuare i

meccanismi responsabili dell’eziologia e del decorso di una determinata

patologia prima sul animale, cosi poi da poter estendere il risultato, per

analogia ed in via induttiva, all’uomo. La generalizzazione del modello

nosologico dall’animale all’uomo è basata sulla vicinanza filogenetica tra i

soggetti, presupponendo che questa vicinanza evolutiva implichi altresì una

vicinanza tra i meccanismi fisiologici, patologici e molecolari studiati.

Negli studi per la depressione gli animali rispondono a fattori di stress con

modalità simili a quelle osservate nell’uomo, come il rallentamento

psicomotorio, l’inibizione comportamentale, l’iporessia e l’anedonia.

Uno dei modelli animali più utilizzati per valutare l’efficacia degli

antidepressivi è il forced swim test (FST), secondo cui un topo viene

immerso in un recipiente colmo d’acqua e si valuta poi il periodo di tempo

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in cui l’animale resta immobile; infatti l’immobilità è considerata in questo

caso come un’inibizione comportamentale e quindi come un segno di

depressione (Porsolt e coll., 1977).

L’altro modello utilizzato è il learned helplessness (LH) , in cui gli animali

sono sottoposti a shock elettrici ad intervalli di tempo non prevedibili, tanto

da esser resi incapaci di mettere in atto una risposta attiva di evitamento o

fuga. Questa condizione fa sì che aumenti progressivamente il tempo di

reazione e diminuiscano i tentativi di fuga (Sherman e coll., 1979).

Le risposte comportamentali dei topi utilizzati in entrambi i modelli (FST ed

LH) migliorano con l’infusione di BDNF nel mesencefalo, con il risultato di

un effetto antidepressivo-simile (Siuciack e coll., 1997). Infatti, in alcune

zone dell’ippocampo (CA1, CA3 e giro dentato) in seguito all’FST è stata

evidenziata una riduzione, rispetto ai valori basali, dell’mRNA del BDNF;

quest’alterazione si risolve con l’attività fisica e la terapia antidepressiva, le

quali incrementano anche la durata del tempo di moto in acqua (Russo &

Neustadt, 2001).

Nello studio condotto da Shirayama e collaboratori (2002) e applicato ai

modelli FST ed LH, la somministrazione di BDNF o della neurotrofina NT3

nel giro dentato o nella regione CA3 ha dimostrato avere effetti

antidepressivi a partire dal terzo giorno dopo la prima infusione e fino al

decimo dopo l’ultima. Altri studi hanno rimarcato l’effetto antidepressivo

del BDNF anche dopo la sua infusione a livello dei ventricoli laterali

(Hoshaw e coll., 2005).

E’ interessante però che l’azione antidepressiva del BDNF può essere

ostacolata dalla somministrazione del K252a, inibitore ad ampio spettro del

recettore tirosina-chinasi TrkB, o dell’U0126, inibitore selettivo della

chinasi extracellulare ERK (Shirayama e coll., 2002; Duman e coll., 2002).

Questi ultimi dati suggeriscono un ruolo chiave della cascata TrkB/MAP-

chinasi nel meccanismo d’azione del BDNF. Tutto ciò è confermato dallo

studio, secondo il modello FST, di Saarelainen (2003), il quale ha osservato

che i ratti transgenici TrkB T1, in cui la funzione del TrkB è ridotta, sono

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resistenti al trattamento antidepressivo: se n’è dedotto che per il

funzionamento di tale terapia è necessario mantenere integra l’attività del

TrkB.

Un altro oggetto di studio è stato l’effetto esercitato dal BDNF anche lungo

la via dopaminergica che si estende dall’Area Ventrale-Tegmentale (VTA)

al Nucleo Accumbens (NAc) e che è implicata nella gratificazione e nella

dipendenza da alcool e oppiacei; in queste regioni il BDNF viene liberato da

afferenze glutamatergiche provenienti dalla corteccia frontale,

dall’ippocampo e dall’amigdala. Ebbene, la somministrazione diretta di

BDNF a livello della VTA e del NAc determina un aumento dell’attività

motoria indotta dalla cocaina e rafforza il senso di gratificazione dopo la

somministrazione di questa droga, rafforzando così i meccanismi di

dipendenza (Hall e coll., 2003; Lu e coll., 2004).

In relazione a queste osservazioni ci si potrebbe ragionevolmente aspettare

che il BDNF eserciti un’azione antidepressiva anche a livello della via VTA-

NAc: il ruolo della neurotrofina in questa via ha invece caratteristicamente

un effetto opposto.

Nel 2003 Eisch e collaboratori hanno osservato che l’infusione del BDNF

nella VTA ha un effetto simil-depressivo sui topi, poiché induce una

riduzione del tempo di latenza all’immobilità in seguito all’applicazione di

stimoli sgradevoli. Viceversa, somministrando nel NAc virus che producono

una forma alterata di TrkB, con conseguente blocco dell’azione del BDNF,

si osserva un effetto antidepressivo-simile, cioè un aumento del tempo di

latenza all’immobilità (Eisch e coll., 2003). Inoltre, l’infusione del BDNF a

livello della via VTA-NAc induce una perdita di peso (Berhow e coll.,

1995): tale effetto potrebbe essere spiegato con l’incremento del tono

dopaminergico (effetto anfetamino-simile), oppure potrebbe rappresentare

una riduzione del senso di gratificazione che deriva dal cibo (meccanismo

del rinforzo) e quindi rappresentare un sintomo di anedonia.

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L’attività del BDNF sulla via VTA-NAc può essere meglio spiegata alla luce

dei lavori condotti su un modello di stress sociale, in cui gli animali

ripetutamente aggrediti dai compagni sviluppano una condizione simile

al’anedonia umana, per cui hanno una riduzione del gradimento al

saccarosio, della spinta sessuale, delle interazioni sociali e dell’attività

motoria (Berton e coll., 2006; Buwalda e coll., 2005). Questa sintomatologia

depressiva non si manifesta invece in quegli animali, sottoposti comunque a

stress sociali, ma in cui il BDNF è stato eliminato dalla VTA (Monteggia e

coll., 2004). Sulla base di tali dati, Nestler e Carlezon (2006) hanno

ipotizzato che nella via VTA-NAc il BDNF sia coinvolto nella regolazione

dell’umore in risposta agli stimoli socio-comportamentali. In particolare, il

BDNF in condizioni normali sarebbe implicato nella fissazione degli stimoli

ambientali positivi e negativi, mentre in condizioni patologiche potrebbe

favorire la comparsa di associazioni anomale per cui si sviluppa un umore

depresso anche in assenza di reali minacce esterne. Tuttavia, le risposte

depressive allo stress e alla sconfitta sociale possono essere evitate inibendo

la sintesi del BDNF nella VTA, oppure attraverso il trattamento con

antidepressivi (Berton e coll., 2006).

Dagli studi descritti si evince che il BDNF può esercitare un’azione

antidepressiva o depressogena a seconda delle aree cerebrali interessate e

che quindi la relazione tra i valori del BDNF e la depressione non è univoca

(Berton e coll., 2006).

Un altro studio che rende incerto il ruolo dei livelli del BDNF nella

depressione è quello svolto da Angelucci e collaboratori (2000) su ratti

Flinders Sensitive Line (FSL: animali con una risposta aumentata ad

un’anticolinesterasi) e controlli (Flinders Resistent Line o FRL): nella

corteccia frontale e occipitale degli FSL, considerati come depressi, c’è un

incremento dei valori di BDNF rispetto ai controlli. In realtà sono necessari

ulteriori studi su questo tipo di animale transgenico.

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In ogni caso, considerato l’importante ruolo svolto dal BDNF nella

depressione, sono stati svolti vari esperimenti su topi con delezione del gene

per il BDNF. In primo luogo è stato osservato che il BDNF è implicato nella

differenziazione e nella sopravvivenza neuronale, poiché i topi omozigoti

per la mutazione, BDNF (-/-), hanno un aumento di mortalità dopo le prime

settimane di vita (Enfors e coll., 1994; Jones e coll., 1994). Molta attenzione

è stata rivolta dai ricercatori sui topi eterozigoti, BDNF (+/-), i quali

presentano una riduzione del 50% del BDNF e del suo mRNA nel

proencefalo (Korte e coll., 1995; Kolbeck e coll., 1999; Altar e coll., 2003).

Questi animali presentano un’alterazione dei circuiti serotoninergici e

sviluppano precocemente una riduzione proporzionale all’età dei livelli di

serotonina e della densità delle fibre nervose; per di più, hanno una maggiore

aggressività rispetto ai controlli e presentano anomalie della condotta

alimentare (Lyons e coll., 1999; Kernie e coll., 2000; Rios e coll., 2001).

Viceversa, non si evidenziano anomalie del livello di attività, esplorazione,

sensibilità al piacere e nuoto forzato; tuttavia nel modello LH gli eterozigoti

manifestano una sintomatologia simil-depressiva, forse secondaria alla

ridotta sensibilità al dolore che è propria di questi topi (MacQueen e coll.,

2001). Nel modello FST, i ratti BDNF (+/-) trattati con imipramina non

mostrano differenze significative nel tempo di immobilità rispetti ai

compagni non trattati (Saarelainen e coll., 2003). Si può ipotizzare che

l’attivazione del TkrB sia necessaria per ottenere con i farmaci un’azione

antidepressiva nel modello FST, poiché in esso il comportamento di nuoto

dei ratti BDNF (+/-) è simile a quello dei ratti TrkB T1 (Saarelainen e coll.,

2003).

Alla luce degli studi condotti finora e fino a prova contraria, è poco

probabile che i ratti o topi BDNF (+/-) possano rappresentare un modello

animale utile per la comprensione della vulnerabilità genetica alla

depressione.

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2.3 Studi sull’uomo

2.3.1 BDNF in condizioni fisiologiche

Dopo l’NGF il BDNF è stata la seconda neurotrofina a essere stata

individuata nell’uomo e il suo mRNA è prodotto sia dalle cellule neuronali,

sia in tessuti e organi periferici non di origine nervosa. Inoltre, il BDNF si

ritrova nel sangue periferico (Rosenfeld e coll., 1995; Radka e coll., 1996;

Fujimura e coll., 2002) e nel siero è circa 200 volte più concentrato rispetto

al plasma (Rosenfeld e coll., 1995), poiché tende a raccogliersi nelle

piastrine, le quali contengono la maggior parte del BDNF ematico (Pliego-

Rivero e coll., 1997; Fujimura e coll., 2002). Esse non sono in grado di

produrre la neurotrofina, ma la acquisiscono dal plasma, la trasportano al

loro interno e la rilasciano nuovamente quando vengono attivate (Fujimura e

coll., 2002). Al contrario, l’endotelio vascolare, la muscolatura liscia, i

macrofagi e i linfociti attivati producono il BDNF e lo riversano in circolo.

Esistono evidenze contrastanti per quel che concerne il passaggio del BDNF

attraverso la barriera emato-encefalica (Poduslo & Curran, 1996; Pan e coll.,

1998; Pardridge, 2002), ma se si considera che la neutrofina la possa

attraversare in entrambe le direzioni, si può anche dire che le concentrazioni

di BDNF nel liquor sono in equilibrio con le sue concentrazioni nel plasma,

più che nel siero dove i livelli della neurotrofina sono più strettamente legati

al rilascio piastrinico.

Partendo da questo presupposto, sono stati eseguiti diversi studi che

correlano i livelli ematici, e in particolar modo plasmatici, del BDNF nei

soggetti sani. Ad esempio, Lommatzsch e collaboratori (2005) hanno

osservato che solo nel plasma le concentrazioni della neurotrofina sono

inversamente proporzionali all’età e al peso corporeo. Invece Ziegenhorn e

collaboratori (2007) hanno dosato le neurotrofine in un esteso campione di

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soggetti anziani per lungo tempo, osservando una correlazione tra

l’incremento dell’età e le concentrazioni seriche del BDNF. Per quel che

concerne le differenze di genere, unicamente nel sesso maschile Piccinni e

collaboratori (2006) hanno osservato una fluttuazione dei livelli circadiani

del BDNF, con una riduzione rilevante alle ore 20. Di contro, nel sesso

femminile e solo a livello piastrinico, è stato osservato un contenuto minore

di BDNF (Lommatzsch e coll., 2005). In particolare, nelle donne il

contenuto piastrinico di BDNF varia con il variare delle fasi del ciclo

mestruale: nella fase pre-ovulatoria e durante la menopausa i livelli

piastrinici di BDNF sono più bassi rispetto alla seconda metà del ciclo

(Begliuomini et al., 2007). Tali dati potrebbero suggerire un ruolo degli

estrogeni e del progesterone nel regolare la produzione di neurotrofine. A

conferma di ciò un ulteriore studio ha dimostrato che il BDNF plasmatico è

sotto l’influenza degli ormoni sessuali endogeni ed esogeni (Genazzani, e

coll., 2006).

Un più recente lavoro ha ricercato una correlazione tra lo stress dovuto al

contesto lavorativo e i livelli serici di BDNF in un campione di volontari

sani. Ebbene, somministrando ai soggetti la Stress and Arousal Check List

(s-SACL) si è riscontrata una correlazione statisticamente significativa

negativa tra stress e concentrazioni seriche del BDNF, e una correlazione

positiva tra stress e concentrazioni plasmatiche di IL-6 e 3-metossi,4-

idrossifenilglicole (MHPG) (Mitoma e coll., 2008).

2.3.2 BDNF e Disturbo bipolare

Alcuni Autori hanno ricercato una correlazione tra i livelli del BDNF nel

sangue periferico e il quadro clinico dei soggetti affetti da disturbo bipolare.

Tra questi studi quello di Machado-Vieira e collaboratori (2006) ha valutato

i livelli del BDNF nel plasma di trenta pazienti bipolari in fase maniacale,

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osservando che le concentrazioni della neurotrofina erano più basse in

questo gruppo di soggetti rispetto ai controlli e che la riduzione del BDNF

era proporzionale alla gravità della sintomatologia maniacale.

Nello studio di Cunha e collaboratori (2006) è stato dosato il BDNF serico

in un campione di pazienti bipolari, alcuni in fase maniacale, altri in fase

depressiva, altri ancora in fase di eutimia, e in campione di controllo.

Confrontando i valori ottenuti, si è osservato che le concentrazioni della

neurotrofina erano ridotte nei soggetti in fase maniacale o depressiva, mentre

i soggetti in fase di eutimia e i controlli avevano valori pressoché equivalenti

fra loro. Inoltre i livelli del BDNF erano inversamente proporzionali alla

gravità della sintomatologia.

Sulla base di queste osservazioni, gli Autori hanno ipotizzato che la

riduzione del BDNF serico possa essere utilizzata come indice di stato del

disturbo bipolare, sia in fase maniacale che depressiva.

Uno studio analogo è stato condotto da Yoshimura e collaboratori (2006), i

quali hanno dosato il BDNF in un campione di pazienti con disturbo

bipolare I, sia in fase depressiva che maniacale. Ciò che è emerso è stata una

riduzione del BDNF nei soggetti depressi, rispetto a quelli in fase espansiva

e ai controlli sani.

Palomino e collaboratori (2006) hanno realizzato uno studio di follow-up su

pazienti bipolari, riscontrando dei bassi livelli plasmatici di BDNF

all’esordio del disturbo e dei valori progressivamente più alti nei dodici mesi

successivi.

Un recente studio ha inoltre rilevato una riduzione dei livelli plasmatici della

neurotrofina anche in pazienti in corso di episodio misto (Piccinni et al.,

2014).

Trattamento con antidepressivi. Molti Autori hanno valutato le variazioni dei

livelli del BDNF in base alla somministrazione di farmaci antidepressivi.

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Chen e collaboratori (2001) hanno evidenziato un aumento della

neurotrofina nell’ippocampo dei pazienti depressi, in trattamento con

antidepressivi.

Karege e collaboratori (2002) hanno osservato che in pazienti depressi non

in trattamento la riduzione del BDNF serico è significativa e proporzionale

alla gravità del quadro clinico.

Similmente, Shimizu e collaboratori (2003) hanno riscontrato valori serici di

BDNF più bassi nei soggetti depressi non trattati, rispetto a quelli in terapia

con antidepressivi; inoltre anche questa equipe ha notato una correlazione tra

il decremento dei livelli serici della neurotrofina e la serietà del disturbo. Per

di più, se anche il gruppo di depressi non trattati iniziava ad assumere la

terapia antidepressiva, in essi i valori del BDNF aumentavano.

Anche altri Autori (Gonul e coll., 2005) hanno ottenuto risultati simili

somministrando ad un gruppo di soggetti depressi venlafaxina o un SSRI

(inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina): dopo otto settimane

di trattamento, nei soggetti con miglioramento clinico anche i livelli serici

del BDNF risultavano aumentati, fino a valori normali.

Aydemir e collaboratori (2005) hanno riscontrato livelli serici più bassi di

neurotrofina nei dieci pazienti depressi esaminati, se confrontati con i

controlli. Iniziando poi un trattamento con venlafaxina e protraendolo per

dodici settimane, i valori del BDNF nei depressi divenivano sovrapponibili a

quelli dei controlli.

A conferma di questi studi, esaminando settantasette pazienti depressi e

novantacinque soggetti sani, Lee e collaboratori (2006) hanno rimarcato che

i livelli medi di BDNF plasmatico nei pazienti depressi sono

significativamente ridotti rispetto ai controlli.

Inoltre i livelli di BDNF in assoluto più bassi si sono ritrovati nei depressi

con episodi ricorrenti, senza sintomi psicotici, con anamnesi positiva per

tentativi di suicidio, e con quadro clinico più grave.

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Gli Autori hanno pertanto concluso che le concentrazioni di BDNF vengono

ridotte dall’umore depresso, dalla ricorrenza degli episodi, dai tentativi di

suicidio, ma non dai sintomi psicotici.

Huang e collaboratori (2007) hanno confrontato i livelli serici del BDNF di

donne e uomini depressi, valutando anche gli effetti della terapia

antidepressiva. I dati ottenuti hanno suggerito che un livello ridotto del

BDNF potrebbe incidere sull’andamento della depressione nelle donne, e

che esso possa aumentare con il trattamento antidepressivo.

Analogamente Piccinni e collaboratori (2008) hanno dosato per un anno il

BDNF serico e plasmatico di pazienti depressi durante un trattamento con

antidepressivi SSRI e triciclici, notando che i livelli serici rimanevano

costantemente inferiori nei depressi rispetto ai controlli. Questo dato farebbe

pensare che il livello serico ridotto del BDNF potrebbe essere un marker

dello stato depressivo, forse collegato a specifici cluster sintomatologici. Al

contrario, già dopo un mese di trattamento le concentrazioni plasmatiche

della neurotrofina tendevano a normalizzarsi nei depressi, suggerendo un

ruolo del BDNF plasmatico come indice dello stato di malattia.

Monteleone e collaboratori (2008) hanno confermato la riduzione dei livelli

serici del BDNF nei pazienti affetti da episodio depressivo maggiore; inoltre

hanno studiato le concentrazioni seriche della neurotrofina anche in pazienti

in stato di eutimia, ma con storia di depressione unipolare, disturbo bipolare

tipo I, disturbo bipolare tipo II, riscontrando anche in questi soggetti una

riduzione del BDNF serico.

Trattamento con stabilizzanti del tono dell’umore. Vari studi hanno

dimostrato che litio e valproato aumentano l’mRNA e i livelli proteici delle

neurotrofine, tra cui il BDNF ,sia in colture cellulare che in alcune aree

cerebrali (Fukumoto et al., 2001; Einat et al., 2003; Angelucci et al., 2003;

Jacobsen et al., 2004; Castro et al., 2005; Chen et al., 2006; Yasuda et al.,

2009; Wu et al., 2008).

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Inoltre, il litio incrementa i livelli serici di BDNF nei pazienti con malattia di

Alzheimer (Lehye et al., 2009). Si pensa che gli effetti degli stabilizzanti del

tono dell’umore sui livelli del BDNF siano mediati da diversi meccanismi.

Litio e valproato, ad esempio, potrebbero incrementare l’attivazione del

promotore del BDNF attraverso la stimolazione delle vie mediate da ERK e

PI3K, che condurrebbe all’attivazione di CREB e alla trascrizione del BDNF

CREB-mediata (Chen et al., 2006; Wu et al., 2008; Yasuda et al., 2009).

L’inibizione del valproato sulla via dell’istone deacetilasi (HDAC) potrebbe

essere un ulteriore meccanismo che porta all’attivazione e alla disattivazione

genica (Hunsberger et al., 2009).

Trattamento con antipsicotici. Molti studi hanno valutato gli effetti degli

antipsicotici sui fattori neurotrofici, rilevando differenze significative tra i

tipici e gli atipici.

Gli antipsicotici tipici come l’aloperidolo tendono a ridurre la produzione di

BDNF nelle regioni dell’ippocampo (Lipska et al., 2001; Chlan-Fourney et

al., 2002; Bai et al., 2003) e dello striato (Pillai et al., 2006). Gli

antipsicotici atipici generalmente non determinano una downregulation del

BDNF (Dean, 2006). Alcuni Autori hanno riscontrato che, dopo

un’assunzione cronica di aloperidolo (90 giorni), il passaggio al trattamento

con gli antipsicotici atipici olanzapina e risperidone sembrerebbe riportare la

produzione di BDNF ai livelli basali (Parikh et al., 2004; Pillai et al., 2006).

Tentativi di suicidio. Alcuni Autori hanno cercato di comprendere se i livelli

del BDNF potessero influire su una delle peggiori complicanze del disturbo

bipolare, quale il suicidio.

Tra gli altri, l’equipe di Dwivedi (2003) e quella di Karege (2005) hanno

rilevato una riduzione non solo del BDNF, ma anche del suo recettore TrkB,

nell’ippocampo e nella corteccia prefrontale di pazienti deceduti per suicidio

non trattati con antidepressivi. Lo stesso gruppo di Karege (2005) ha però

notato che i pazienti depressi in trattamento con antidepressivi al momento

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del suicidio, presentavano livelli di BDNF nella norma. Tuttavia è evidente

che in questo caso la normalizzazione delle concentrazioni della neurotrofina

non ha avuto un’azione preventiva sulla messa in atto del gesto autolesivo.

Per tale ragione gli Autori hanno concluso che le variazioni dei valori del

BDNF precedono i cambiamenti del quadro clinico, in quanto questi ultimi

si manifestano lentamente dopo l’instaurarsi dell’effetto neurotrofico.

Un più recente studio (Kim e coll., 2007) ha messo a confronto i livelli di

BDNF di un gruppo di pazienti depressi con all’anamnesi un tentativo di

suicidio, pazienti depressi senza tentativi di suicidio e controlli sani. I primi

avevano valori di BDNF più bassi rispetto agli altri due gruppi, tra i quali

invece non si osservavano differenze significative. Neanche tra uomini e

donne si osservava alcuna discrepanza.

Inoltre, i livelli di BDNF non sembravano correlati con i punteggi della scala

di Hamilton per la depressione (HAM- D), né con la pericolosità del

tentativo di suicidio. L’ipotesi formulata dagli Autori di tale studio prevede

come causa dei ridotti livelli di BDNF nei pazienti con storia di tentativo di

suicidio una down-regulation dovuta alla ridotta funzione del sistema

serotoninergico. Tutto ciò è in accordo con la dimostrazione che i pazienti

depressi che hanno tentato il suicidio, hanno ridotti livelli di 5-HIAA (acido

5-idrossi,3- indolacetico), il principale metabolita della serotonina, nel liquor

(Asberg, 1997); viceversa, bassi livelli di 5-HIAA aumentano il rischio di

suicidio secondo uno studio condotto da Mann e collaboratori (1992). Gli

stessi Autori hanno riscontrato un’alterazione della funzione serotoninergica

a livello piastrinico nei soggetti depressi con storia di gesti autolesivi,

ipotizzando quindi che una disfunzione serotoninergica possa ridurre

l’espressione del BDNF ed aumentare così il rischio di suicidio nei pazienti

depressi.

Analisi genetiche. Negli ultimi anni diversi ricercatori hanno tentato di

individuare possibili polimorfismi del gene per il BDNF associati ai disturbi

dell’umore.

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La mutazione più studiata e che è sembrata implicata nell’eziopatogenesi del

disturbo bipolare è quella puntiforme in posizione 66 nella sequenza

promoter dell’allele del pro-BDNF, che determina la sostituzione

dell’aminoacido metionina con valina (val66met)(Sklar e coll., 2002; Geller

e coll., 2004; Craddok e coll., 2005).

Al contrario però, altri Autori (Hong e coll., 2003; Nakata e coll., 2003;

Kunugi e coll., 2004; Skibinska e coll., 2004) non hanno osservato alcuna

correlazione tra l’allele val66met ed un aumentato rischio di sviluppare il

disturbo bipolare. Tale correlazione non si evidenzia neanche tra il

medesimo polimorfismo e la patogenesi della depressione maggiore (Tsai e

coll., 2003).

Gli studi mirati a chiarire il ruolo della sostituzione val66met sono stati vari

e con risultati differenti.

Tramontina e collaboratori (2007) hanno ricercato un’associazione tra il

polimorfismo val66met ed i livelli di BDNF nel siero di pazienti bipolari e

di controlli sani. I risultati ottenuti non hanno mostrato alcuna differenza per

la frequenza del genotipo val66met tra bipolari I in fase di eutimia e soggetti

sani, né hanno evidenziato una correlazione tra il polimorfismo ed i livelli

del BDNF in nessuno dei due gruppi.

Anche una metanalisi di tredici studi su pazienti schizofrenici e di undici

studi su pazienti bipolari (Kanazawa e coll., 2007) non ha riscontrato una

correlazione statisticamente significativa tra il polimorfismo val66met del

BDNF ed alcuno dei due disturbi sopracitati.

Secondo altre ricerche, tuttavia, il polimorfismo val66met determina una

ridotta secrezione del BDNF a livello ippocampale (Chen e coll., 2004) e

sembra associarsi ad una predisposizione al decorso a cicli rapidi del

disturbo bipolare (Green e coll., 2006) e ad alterate performance cognitive

dei soggetti bipolari (Rybakowski e coll., 2006).

Inoltre Szeszko e collaboratori (2005), confrontando il volume

dell’ippocampo e la presenza del polimorfismo Val66Met, hanno ipotizzato

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un possibile ruolo del BDNF nel determinare le dimensioni ippocampali, in

misura maggiore nei pazienti bipolari rispetto ai soggetti sani.

Invece Bueller e collaboratori (2006), pur esaminando un campione esiguo

di volontari sani, hanno individuato un’associazione tra la presenza della

metionina in posizione 66 del BDNF (allele Met66Val) e un ridotto volume

dell’ippocampo. Tale dato, secondo questi Autori, potrebbe determinare una

maggiore suscettibilità per lo sviluppo di patologie causate da una

disfunzione ippocampale. Analogamente Frodl e collaboratori (2007),

studiando l’associazione tra i polimorfismi del gene del BDNF e il volume

dell’ippocampo, hanno concluso che i soggetti con l’allele Met66Val

potrebbero essere più predisposti alla depressione, in quanto subiscono più

frequentemente riduzioni del volume ippocampale. Altri Autori (Egan e

coll., 2003; Chen e coll., 2004) hanno correlato l’allele Met66Val con una

ridotta attività del BDNF, ipotizzando che tale polimorfismo possa

influenzare i livelli serici della neurotrofina durante le fasi acute del disturbo

bipolare. Un ulteriore studio (Neves-Pereira e coll., 2002) ha individuato un

linkage disequilibrium tra i polimorfismi del gene del BDNF e il disturbo

bipolare, esaminando 283 famiglie. Esistono ancora altri studi che

suggeriscono la presenza di altri polimorfismi, oltre a Val66Met e Met66Val

(Green & Craddock, 2003; Strauss e coll., 2004), i quali costituiscono

probabilmente solo una parte dei fattori eziopatologici alla base del disturbo

bipolare (Mathews & Reus, 2003).

Nello studio di Kaija e collaboratori (2006) non è stata rilevata nessuna

associazione tra i polimorfismi del gene del BDNF (G196A e C270T) e la

risposta alla terapia elettroconvulsivante (TEC) nella depressione; inoltre

non si sono evidenziate differenze tra i due generi. Ciò nonostante,

nell’ambito di alcuni sottogruppi, come gli psicotici e i soggetti con

depressione ad esordio tardivo, il genotipo C270T sembrerebbe associato ad

una risposta migliore alla TEC.

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Terapia elettroconvulsivante. Come abbiamo appena introdotto, esistono

numerose studi che indagano come la TEC abbia un ruolo

nell’incrementare i livelli del BDNF nei soggetti con depressione resistente

alla terapia farmacologica.

I primi Autori a valutare le variazioni del BDNF in seguito a TEC sono stati

Bocchio-Chiavetto e collaboratori (2006), i quali hanno sottoposto a TEC un

campione di 23 pazienti affetti da depressione unipolare resistente ai

farmaci.

In questi il BDNF è stato dosato a T0 (il giorno precedente alla prima

applicazione di TEC), a T1 (il giorno seguente all’ultima applicazione) ed a

T2 (un mese dopo la fine del ciclo di TEC).

Mentre differenze significative sono emerse tra i dosaggi della neurotrofina

nei tre momenti e stratificando i pazienti per sesso, presenza di sintomi

psicotici, trattamento antidepressivo (SSRI vs altri trattamenti in

monoterapia o in associazione con SSRI), non è stata evidenziata nessuna

correlazione con l’età e con il punteggio al Mini Mental Test (scala per la

valutazione dei sintomi cognitivi). Non è stata neanche trovata alcuna

correlazione tra i livelli del BDNF e il punteggio MADRS (scala per

valutare la gravità della depressione) esaminati a T0.

Caratteristicamente fu in oltre notato che le concentrazioni della neurotrofina

non si modificavano significativamente tra T0 eT1, ma mostravano un

incremento tra T1 e T2. In particolare, suddividendo i 23 pazienti in due

gruppi in base al valore (alto o basso) del BDNF a T0, è stato evidenziato un

aumento lineare della neurotrofina tra T0 e T1 nel gruppo con valori più

bassi. Specularmente, nel gruppo con valori più alti si è notato un aumento

analogo tra T1 e T2.

In ogni caso, non è stata evidenziata alcuna correlazione tra gli aumenti dei

livelli del BDNF e l’efficacia della TEC, misurata come differenze nel

punteggio MADRS.

Gli Autori hanno concluso lo studio dimostrando che le concentrazioni del

BDNF risultano significativamente più alte dopo un ciclo di TEC. Pertanto è

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stata ipotizzata una correlazione tra il BDNF e l’effetto antidepressivo di

terapie non solo farmacologiche.

Analogamente a Bocchio-Chiavetto e collaboratori, Marano e collaboratori

(2007) hanno riscontrato un aumento dei livelli del BDNF in pazienti con

depressione maggiore trattati con TEC. Al contrario, Gronli e collaboratori

(2007) non hanno rilevato variazioni significative del BDNF nel siero di

pazienti sottoposti al trattamento. Tuttavia, un altro recente studio (Okamoto

e coll., 2008) ha nuovamente evidenziato un incremento della neurotrofina

nel siero di pazienti sottoposti a 12 sedute di TEC (tre applicazioni alla

settimana); ciò nonostante, nei soggetti non- responders i livelli serici del

BDNF a cinque settimane dall’inizio del trattamento risultavano invariati.

Anche in questo caso si può concludere affermando che il BDNF svolge un

ruolo chiave nell’azione antidepressiva operata dalla TEC.

Stimolazione Magnetica Transcranica. Analogamente al trattamento

farmacologico con antidepressivi o la TEC, anche la Stimolazione

Magnetica Transcranica (SMT) è in grado di modificare i livelli del BDNF.

Può confermare questa tesi lo studio di Zanardini e collaboratori (2006), in

cui sono state esaminate le concentrazioni seriche del BDNF in 16 pazienti

affetti da depressione maggiore resistente ai trattamenti farmacologici e

quindi trattata con un ciclo di SMT. Ogni paziente è stato sottoposto per

cinque giorni consecutivi a sedute mattutine, prima e dopo ognuna delle

quali è stata dosata la neurotrofina ed è stata valutata la gravità della

sintomatologia depressiva con la scala HAM-D. Ebbene, il quadro clinico è

migliorato significativamente dopo SMT; inoltre gli Autori hanno

riscontrato una correlazione negativa tra i livelli iniziali del BDNF e il

punteggio del HAM-D a T0 (cioè prima della SMT), ma nessuna

correlazione a T1 (cioè dopo SMT). Infatti dopo il ciclo di SMT è stato

rilevato un aumento significativo delle concentrazioni seriche del BDNF, ma

non è stata evidenziata alcuna correlazione statistica tra i valori del BDNF a

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T0 (oppure tra la percentuale di incremento del BDNF da T0 a T1) e

l’efficacia della SMT in termini di miglioramento clinico.

Le conclusioni tratte sono state le seguenti: i pazienti con depressione

resistente ai farmaci hanno livelli più alti di BDNF dopo SMT; inoltre, in

relazione alla proporzionalità indiretta tra i valori iniziali di BDNF e la

gravità della malattia, la neurotrofina sembra essere implicata nella

patogenesi ma anche nella risoluzione della depressione. Tali dati sono in

accordo con quegli studi in cui si evidenziano livelli più bassi di BDNF nei

depressi non trattati, insieme a una correlazione negativa tra le

concentrazioni del BDNF e la gravità della sintomatologia (Karege e coll.,

2002; Shimizu e coll., 2003; Gonul e coll., 2005). Inoltre Zanardini e

collaboratori (2006), osservando che il periodo necessario affinché i livelli

del BDNF aumentino dopo SMT è di circa 5 giorni, hanno ipotizzato una

possibile modulazione da parte dell’SMT dell’attività di sistemi come l’asse

ipotalamo- ipofisi-surrene o delle vie serotoninergiche.

Uno studio analogo (Yukimasa e coll., 2006) ha confermato l’aumento dei

livelli del BDNF dopo SMT in pazienti con depressione resistente ai

farmaci; in particolare questo incremento è stato riscontrato nei pazienti

responders completi (con miglioramento clinico evidente) e responders

parziali (con miglioramento clinico lieve), ma non nei non-responders (senza

alcun miglioramento clinico). Contrariamente ai due studi appena descritti,

quello di Lang e collaboratori (2008), condotto su 42 volontari sani, ha

dimostrato che la SMT, applicata in acuto sulla corteccia prefrontale

dorsolaterale, non modifica i livelli del BDNF. Bocchio-Chiavetto e

collaboratori (2008) hanno esaminato la risposta alla r-TSM (TSM ripetuta)

di 36 pazienti affetti da depressione resistente, in rapporto al polimorfismo

Val66Met del gene per il BDNF. Dai risultati raccolti, gli Autori hanno

concluso che nei pazienti omozigoti per l’allele Val66Met la risposta alla r-

SMT è maggiore rispetto ai pazienti con l’allele Met66Val.

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CAPITOLO 3

DISEGNO DELLO STUDIO

3.1. Obiettivo

Le finalità del nostro studio sono le seguenti:

a. Valutare i livelli plasmatici di BDNF in un campione di pazienti bipolari

eutimici e confrontarli con quelli di controlli sani.

b. Correlare il profilo psicopatologico dei pazienti, la cognitività, le funzioni

frontali e la memoria a breve e lungo termine con i livelli di BDNF.

c. Indagare circa la relazione tra le caratteristiche socio-demografiche dei

pazienti, gli specificatori del decorso, l’età di esordio del disturbo e i

parametri biologici misurati.

Il protocollo di studio è stato condotto in accordo con le linee guida del

Servizio Sanitario Nazionale Italiano per una buona pratica clinica e con la

Dichiarazione di Helsinki. È stata ottenuta l’approvazione dal Comitato

Etico dell’Università di Pisa. Le interviste, effettuate dopo aver ottenuto il

consenso informato scritto dai pazienti a cui si assicurava il completo

anonimato dei dati clinici ottenuti, sono state condotte da un’equipe di

valutatori che ha seguito un training di preparazione per la conoscenza degli

strumenti da impiegare, al fine di ottenere la massima attendibilità e

omogeneità delle valutazioni.

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3.2 Campione oggetto di studio

Il campione oggetto di studio è costituito da 20 pazienti e 20 soggetti sani,

confrontabili per età e sesso.

Pazienti. Presso la Clinica Psichiatrica della AOUP sono stati reclutati

consecutivamente 20 pazienti affetti da Disturbo Bipolare I o II in accordo

con i criteri diagnostici del DSM-IV-TR (2000). La diagnosi è stata

confermata con la Mini International Neuropsychiatric Interview (MINI)

(Sheehan e coll., 1998). I criteri di inclusione sono stati i seguenti:

Pazienti di età superiore o uguale a 18 anni.

Pazienti in fase eutimica da almeno 3 mesi. L’eutimia è stata definita

considerando un punteggio totale inferiore a 8 sia alla Hamilton Depression

Rating Scale, che alla Young Mania Rating Scale .

Pazienti con o senza comorbidità lifetime per Disturbi d’Ansia (Disturbo di

Panico, Fobia sociale, Disturbo d’ansia generalizzata, Disturbo Ossessivo

Compulsivo) con diagnosi formulata in accordo ai criteri diagnostici del

DSM-IV-TR.

Pazienti in grado di comprendere le finalità e le procedure dello studio e di

dare il proprio assenso alla partecipazione, firmando il consenso informato

scritto.

I criteri di esclusione hanno estromesso dallo studio:

Pazienti di età al di fuori del range previsto dai criteri di inclusione.

Pazienti sottoposti a terapia elettroconvulsivante nell’ultimo anno.

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Pazienti con diagnosi di abuso o dipendenza da sostanze negli ultimi sei

mesi.

Pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche o in trattamento cronico

con glucocorticoidi.

Pazienti con disturbi neurologici.

Pazienti con malattie somatiche gravi o in fase acuta.

Pazienti in stato di gravidanza.

Pazienti non in grado di sottoscrivere un consenso informato scritto.

Caratteristiche socio-demografiche e cliniche. Il campione dei pazienti

oggetto dello studio presenta le seguenti caratteristiche:

Sesso: 7 (35%) uomini e 13 (65%) donne.

Età: età media di 52.4 ± 14.4 anni.

Stato civile: 8 pazienti (40%) coniugati, 9 (45%) celibi/nubili, 1 vedovo

(5%) e 2 divorziati (10%).

Attività lavorativa: 1 paziente (5%) studente, 4 (20%) disoccupati, 1 (5%)

casalinga, 4 (20%) operai, 2 (10%) commercianti, 3 (15%) impiegati, 5

(25%) pensionati.

Istruzione: 9 (45%) pazienti con diploma di scuola media superiore, 6 (30%)

con licenza media, 5 (25%) con licenza elementare.

Tipo di famiglia: 9 (45%) pazienti vivevano nella famiglia di origine, 8

(40%) con il coniuge ed eventuali figli, 3 (15%) da soli.

Diagnosi: 11 (55%) pazienti erano affetti da disturbo bipolare I, 9 (45%) da

disturbo bipolare II.

Comorbidità: nessuna

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Durata media di malattia: 23,9 anni ± 12,07 anni.

Controlli. Sono stati inoltre reclutati 20 soggetti di controllo sani con:

anamnesi negativa per disturbi somatici;

anamnesi e famigliarità negativa per disturbi psichiatrici, malattie

neurologiche e abuso di sostanze;

assenza di disturbi psichiatrici in atto accertata mediante intervista da parte

di un clinico esperto.

Caratteristiche socio-demografiche. Il campione dei soggetti di controllo

oggetto dello studio presenta le seguenti caratteristiche:

Sesso: 10 (50%) uomini e 10 (50%) donne.

Età: età media di 49,15 ± 8,95 anni.

Stato civile: 15 (75%) pazienti coniugati, 2 (10%) celibi/nubili, 2 (10%)

divorziati, 1 (5%) vedovo.

Attività lavorativa: 15 (75%) impiegati, 2 (10%) pensionati, 2 (10%)

dirigenti, 1 (5%) disoccupato.

Istruzione: 8 (40%) soggetti con diploma di laurea, 8 (40%) con diploma di

scuola media superiore, 3 (15%) con specializzazione post-laurea, 1 (5%)

con licenza media.

Tipo di famiglia: 16 (80%) soggetti vivevano con il coniuge ed eventuali

figli, 2 (10%) nella famiglia di origine, 2 (10%) da soli

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3.3 Strumenti di valutazione.

I pazienti arruolati sono stati intervistati con la Mini International

Neuropsychiatric Interview (Sheehan e Lecrubier, 1994) per confermare le

diagnosi psichiatriche di Asse I.

I partecipanti (casi e controlli) sono stati intervistati con i seguenti strumenti

di valutazione:

Scheda anagrafica, scheda per il decorso del disturbo, le

comorbidità lifetime e i trattamenti psicofarmacologici, tratte dalla

Structured Interview for Mood Disorders (SIMD) (Cassano e coll.,

1989).

M.I.N.I. (Mini International Neuropsychiatric Interview). Si tratta

di una scala di valutazione diagnostica strutturata come

un’intervista breve e semplice, altamente sensibile e compatibile

sia con il DSM-IV che con l’ICD-10.

Nel M.I.N.I ogni disturbo viene indagato come modulo singolo ,

con due domande screening, preliminari, prima di ogni modulo e la

cui negatività fa passare direttamente al modulo e quindi al disturbo

successivo. Se il paziente dovesse invece rispondere positivamente

si conclude l’intervista su quel modulo, che ha una durata media

non superiore ai 15 minuti, con una caratteristica focalizzazione

solo sulla sintomatologia attuale ad eccezione del disturbo bipolare

per il quale è rilevante sapere se un soggetto con un episodio

depressivo in corso ha nell’anamnesi un episodio maniacale o

ipomaniacale. Sono escluse quindi domande relative alla disabilità,

ai rapporti con la patologia somatica e con l’uso di sostanze: ciò

consente l’uso di questo strumento diagnostico anche a un medico

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di base che abbia fatto un breve training per il test stesso, lasciando

allo specialista in un secondo momento il compito di fare una

diagnosi differenziale.

CGI (Clinical Global Impressions) (Psychopharmacology Research

Branch (PRB) del NIMH – USA) (Guy, 1976). La CGI è stata

sviluppata per uno studio di vaste dimensioni sulla schizofrenia

(PRB Collaborative Schizophrenia Studies).

Questa scala ha lo scopo di valutare le condizioni psichiche globali

considerando tre aree: gravità della malattia, miglioramento globale

dei sintomi e l’efficacia dei farmaci rapportata ai loro effetti

collaterali. Il medico valuta ripetitivamente questi parametri

durante il trattamento allo scopo di inquadrare il rapporto rischi/

benefici del trattamento e quindi l’efficacia dello stesso.

La CGI è strutturata in tre items che corrispondono alle tre aree

sopra citate e sono così organizzati: i primi due sono valutati su una

scala a 7 punti, oltre alla risposta “Non è stato valutato”; il terzo,

l’Indice di Efficacia, è una matrice simmetrica (4x4), che prevede

16 possibili risposte in rapporto alla diversa combinazione dell’ET

e degli EC (più la risposta “Non valutato”).

Ciascun item è valutato separatamente e non esiste un punteggio

totale.

HAM-D (Hamilton Depression Rating Scale) (Hamilton, 1960). E’

la scala di valutazione per la patologia depressiva maggiormente

usata in tutto il mondo.

E’ costituita da 21 item che valutano umore depresso, sentimento di

colpa o idea suicidaria, insonnia e disturbi della sfera ansiosa

(almeno 3 item specifici), una valutazione del rallentamento , di

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sintomi somatici o dell’insight. Di questi, il nº 16, Perdita di peso,

è suddiviso in due sub-items mutuamente esclusivi che esplorano il

primo la perdita di peso riferita, l’altro quella misurata con la

bilancia; anche l’item nº 18, Variazioni diurne, è suddiviso in due

sub-items, il primo che esplora la presenza di variazioni diurne

della sintomatologia ed il senso verso il quale vanno le eventuali

variazioni (peggioramento mattutino o serale), l’altro la gravità

delle eventuali variazioni.

Generalmente i primi 17 items (umore depresso, sentimenti di

colpa, suicidio, insonnia, lavoro ed interessi, rallentamento,

agitazione, ansia psichica e somatica, sintomi somatici, ipocondria,

perdita di peso, insight, sono considerati quelli nucleari della

depressione ed è su questi che di solito viene definito il cut-off di

gravità che può essere così schematizzato:

≥25 depressione grave;

18-24 depressione moderata;

8-17depressione lieve;

≤7 assenza di depressione.

La HAM-D è adatta per pazienti adulti con sintomatologia

depressiva di qualsiasi tipo. La scala è utilizzabile nella

valutazione delle variazioni della sintomatologia sotto trattamento

e può essere impiegata, perciò, nella fase precedente e successiva

al trattamento.

HAM-A (Hamilton Anxiety Scale) (Hamilton M, 1959). Questa

seconda scala create da Hamilton è la più utilizzata per la

valutazione dell’ansia e della modifica della patologia a seguito

del trattamento e fu creata per la valutazione dei pazienti per i

quali era già stata formulata una diagnosi di disturbo ansioso (o,

con la terminologia di allora, di nevrosi ansiosa) e non per

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valutare l’ansia di pazienti affetti da altri disturbi psichiatrici.

Questo limita le possibilità di impiego della scala, ma la rende

particolarmente valida quando si vogliano confrontare tra loro i

pazienti con disturbi d’ansia e soprattutto è utile per valutare

l’efficacia del trattamento.

Si tratta di un’intervista condotta dal medico che esplora la

sintomatologia del paziente nella settimana precedente a cui si

aggiunge la valutazione degli aspetti comportamentali nel

momento stesso del colloquio.

YMRS (Young Mania Rating Scale) (Young e coll., 1978). E’ una

scala di 11 item che esplorano i sintomi chiave della mania:

espansione dell’umore, motricità, interesse sessuale, sonno,

irritabilità, eloquio, forma e contenuto del pensiero, aggressività,

aspetto, consapevolezza di malattia. Gli item della scala sono

valutati in parte (item 1,2,3,4,7,8,10 e 11) in base a una scala a 5

punti (da 0 a 4) e in parte (item 5,6,8,9) in base a una scala a

punteggio doppio (0-2-4-6-8) perchè i sintomi interessati sono di

più difficile valutazione per la scarsa coperazone dei pazienti in

grave stato maniacale. La valutazione della gravità è fatta sulla

base di ciò che il paziente riferisce circa le proprie condizioni nelle

ultime 48 ore e dall’osservazione del comportamento fatta dal

clinico durante l’intervista (con relativa priorità per quest’ultima).

La scala deve essere usata solo come uno strumento di valutazione

quantitativa della mania e non come uno strumento diagnostico.

MMSE (Mini-Mental State Examination) (Folstein e coll., 1975).

E’ un test ampiamente utilizzato per la sua facile e rapida

applicazione per valutare le funzioni cognitive del paziente e

monitorare la progressione dl deficit in caso di demenza.

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E’ composto da 11 item suddivisi in due sezioni, una verbale e una

prestazionale. La prima sezione esplora l’orientamento (2 item), la

memoria a breve termine (2 item), l’attenzione (1 item) e la

memoria di fissazione (1 item); la seconda esplora, con un item

ciascuna, la capacità di denominare gli oggetti, la ripetizione di

frasi, l’esecuzione di comandi scritti e verbali, la scrittura

spontanea di frasi di senso compiuto e la copiatura di una figura

geometrica complessa.

Il punteggio totale, dato dalla somma dei punteggi che il paziente

ha ottenuto a ciascun item, può andare da un minimo di 0 (massimo

deficit cognitivo) ad un massimo di 30 (nessun deficit cognitivo).

E’ stato individuato un punteggio soglia di 23-24 ma è stato chiaro

che questo valore necessita di una “ correzione” a seconda di fattori

come l’età o la scolarità che modificano ampiamente i valori dei

punteggi cut-off; per cui il punteggio grezzo viene successivamente

aggiustato con il coefficiente calcolato per età e anni di

scolarizzazione , rilevabile da una tabella prodotta da Magni et Al.,

prodotta dallo studio del 1996.

Test di Memoria di Brano “Anna Pesenti” (Novelli e coll., 1986).

Testo volto a indagare la memoria a lungo termine (MLT) uditivo-

verbale in condizioni di apprendimento volontario strutturato. Si

compone di due parti. Inizialmente viene presentato verbalmente

un racconto e si chiede al soggetto di ripeterlo senza fornire alcun

suggerimento (rievocazione immediata). Dopo la rievocazione,

l’esaminatore legge il racconto per una seconda volta e avverte il

paziente che dovrà rievocarlo solo successivamente. A questo

punto il soggetto viene occupato per 10 minuti con attività

interferente non verbale, poi ha luogo la seconda rievocazione. Il

punteggio totale è costituito dalla media degli elementi

correttamente rievocati nelle 2 ripetizioni. Il soggetto presenta un

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declino età-dipendente della memoria se il punteggio dopo

correzione per età, scolarità e sesso e quindi trasformato in

punteggio equivalente, cade nel range 0-3. La somministrazione

individuale richiede circa 15 minuti.

Test di Memoria in cifre. In questo test l’esaminatore testa la

memoria leggendo sequenze numeriche che il paziente deve

ripetere perché si possa passare alla sequenza successiva più lunga

di quella precedente continuando così fino a che il soggetto fallisce

una coppia di sequenze o ripete correttamente l'ultima sequenza

composta da nove numeri. Si può andare da un punteggio di 3 che

indica il deficit a un punteggio superiore o uguale a 6 che rientra

nella normalità.

Test di Fluenza Verbale per Lettere e per Categorie (Novelli e coll.,

1986). Il test di fluenza (o fluidità) verbale permette una rapida ed

efficiente valutazione della capacità di recupero lessicale e spesso

questa prova è parte integrante del test per l’afasia; viene anche

usato come test frontale per valutare la capacità del paziente di

generare una strategia di ricerca appropriata, indirizzando

adeguatamente il pensiero e la memoria. Si divide in due parti:

nella prima parte (categorie fonemiche) il soggetto deve dire in 1

minuto tutte le parole che gli vengono in mente inizianti con una

determinata lettera dell’alfabeto (F,P,L). Nella seconda parte

(categorie semantiche) il soggetto deve produrre in 1 minuto il

maggior numero di parole appartenenti a una determinata categoria

semantica. E’ ndicato per soggetti adulti e anziani, anche in

presenza di patologia organica cerebrale. La somministrazione

individuale richiede 10 minuti circa.

Trail Making Test Test A e B (Reitan, 1958). Il test valuta la

capacità di ricerca visuo-spaziale, l’attenzione selettiva e la velocità

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psicomotoria. La versione originale è composta da due parti, A e B.

Nella parte A, l’esaminatore chiede al paziente di unire con una

penna, nel più breve tempo possibile, una serie di numeri cerchiati

dall’1 al 25 disegnati a caso sul foglio (si registra il tempo

impiegato e il numero di errori commessi). Prima del test vero e

proprio, si somministra una prova preliminare per accertarsi che il

soggetto abbia compreso l’esercizio. La parte A del Trail Making

Test è utilizzata da vari Autori per misurare la velocità

psicomotoria. Nella B, si mostra al soggetto un foglio dove sono

rappresentati numeri e lettere casualmente disposti; devono essere

uniti sia in ordine progressivo che alternato i numeri (dall’1 al 13) e

le lettere (dalla A alla N): la sequenza corretta è 1, A, 2, B, ecc.

Anche in questo caso viene anticipatamente somministrata una

prova preliminare. La Parte B del Trail Making Test analizza la

capacità di set shifting, cioè lo spostamento flessibile

dell’attenzione sulle informazioni rilevate.

La sottrazione della prova A da quella B ( B-A) rileva delle

informazioni fondamentali sulla natura del deficit attentivo del

paziente: se i risultati delle due prove si avvicinano abbastanza il

deficit è visivo , se sono patologici i risultati della parte B e non

della A il soggetto è deficitario nel compito di shifting.

E’ indicato per bambini, adulti e anziani e la somministrazione

individuale richiede circa 5-10 minuti.

Global Assessment of Functioning Scale (GAF) (Endicott e coll.,

1976; Jones e coll., 1995).

Le scale di tipo globale valutano la gravità complessiva del

disturbo, indipendentemente dalla sua complessità psicopatologica;

è sufficiente individuare un criterio in base al quale formulare il

giudizio ed esprimere, quindi, la gravità globale su di una scala

predefinita. La prima scala di valutazione globale messa a punto è

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stata la Health-Sickness Rating Scale - HSRS di Luborsky (1962),

una scala a 100 punti che assume come criterio di giudizio il vario

combinarsi della capacità di autonomia, della gravità dei sintomi,

del grado di malessere e di sofferenza, delle conseguenze

sull’ambiente, della capacità di utilizzare le proprie risorse, della

qualità dei rapporti interpersonali, e dell’ampiezza e profondità

degli interessi.

Successivamente è stata modificata e denominata GAF,

Valutazione Globale del Funzionamento (VGF nella traduzione

italiana), ed è stata inserita nel DSM-III-R e nel DSM-IV come

Asse V della classificazione multiassiale.

La GAF prende in considerazione il funzionamento psicosociale e

lavorativo del soggetto, collocandolo in un ipotetico continuum che

va dalla salute mentale (100) al disturbo psichico gravissimo con

rischio di morte (1), indipendentemente dalla natura del disturbo

psichiatrico. Sono previsti 10 “anchor point”, i criteri, ognuno dei

quali è ulteriormente suddiviso in 10 punti. Per ogni livello di

gravità viene fornita una descrizione di riferimento: punteggi da 81

a 100 indicano l’assenza di psicopatologia, oltre che la presenza di

tratti positivi (ricchezza di interessi e di rapporti sociali,

atteggiamento positivo verso la vita, eccetera); l’intervallo 71-80

indica la presenza marginale di psicopatologia; l’intervallo 1-70 la

presenza di psicopatologia di varia gravità.

.

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3.4 Metodi di laboratorio.

I pazienti e i soggetti di controllo che hanno accettato di partecipare allo

studio e hanno sottoscritto il consenso informato sono stati sottoposti per il

rilievo dei livelli di BDNF a prelievo ematico di:

1 provetta 6 ml con EDTA per analisi sul plasma

1provetta 9 ml per analisi su siero

Ogni provetta è stata centrifugata a 2500 rpm x 10 minuti. Plasma e siero

sono stati poi aliquotati in Eppendorf e conservati a -20°C. L’analisi dei

livelli di BDNF è stata eseguita con apposito kit ELISA (BDNF Emax

Immunoassay – Promega, USA). I campioni ematici sono stati preparati con

diluizioni 1:2-1:70 in 50 µl di buffer e incubati overnight a 4°C con

l’anticorpo anti-neurotrofine. Dopo alcuni lavaggi e una incubazione a

temperatura ambiente, la piastra è stata incubata con un anticorpo secondario

specie specifico e HRP coniugato. Successivamente all’aggiunta del

substrato contenente H2O2 e a un cromogeno, l’assorbanza è stata letta a una

lunghezza d’onda di 450 nm.

3.5 Metodi statistici.

I dati raccolti sono stati registrati in un database costruito appositamente

quindi sono stati elaborati mediante il programma statistico MedCalc.

Il confronto tra variabili quantitative a distribuzione gaussiana é stato

condotto tramite il t-test di Student per campioni indipendenti. Per il

confronto tra le variabili categoriali (sesso) é stato utilizzato il test chi-

quadrato. Per il confronto del BDNF è stato utilizzato il test di Kolmogorov-

Smirnov per variabili non parametriche.

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CAPITOLO 4

RISULTATI

Il gruppo dei pazienti e quello dei controlli non presentavano differenze

statisticamente significative in termini di età (t=-0,834; P= 0,4093) (tabella

4.1) e di sesso (χ2= 0,409; P= 0,5224) (tabella 4.2).

Pazienti

(Media ± DS)

Controlli

(Media ± DS)

T-test

(t; P)

Età 52,40±14,80 49,15±9,18 -0,834;

0,4093

Tabella 4.1 Confronto pazienti e controlli per l’età

Sesso Pazienti

(N)

Controlli

(N)

Chi quadro

(χ2; P)

Maschi 7 10 0,409; 0,5224

Femmine 13 10

Tabella 4.2 Confronto pazienti e controlli per sesso

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BDNF

I pazienti hanno riportato valori plasmatici medi di BDNF di 2270,45 pg/ml

± 2513,78 pg/ml.

Nei soggetti di controllo i valori plasmatici medi di BDNF sono stati di

3390,20 pg/ml ± 1709,22 pg/ml. Le analisi statistiche, condotte con Test di

Mann-Whitney per campioni indipendenti, hanno mostrato una differenza

quasi statisticamente significativa tra i due gruppi esaminati per i livelli

ematici della neurotrofina (P= 0,06) (grafico 4.1). Inoltre, per lo stesso

parametro biologico, non sono state riscontrate variazioni significative

confrontando il sottogruppo con diagnosi di disturbo bipolare I e quello con

disturbo bipolare II (t=-0,262; P=0,7995). Non è stata rintracciata nessuna

correlazione tra la durata di malattia e i livelli plasmatici di BDNF (P=0,44),

nè tra i dosaggi della neurotrofina e i test psicometrici.

Grafico 4.1 Valori plasmatici di BDNF in pazienti e controlli

BD

NF

pla

smat

ico (

pg/m

l)

0

1000

2000

3000

4000

5000

6000

7000

8000

9000

Pazienti Controlli

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MINI MENTAL STATE EXAMINATION

I risultati per il Mini Mental State Examination (MMSE) presentano nel

campione una distribuzione normale. I pazienti hanno ottenuto punteggi

medi di 27,50 ± 2,70, mentre i controlli di 29,25 ± 1,16.

E’ stata riscontrata una differenza statisticamente significativa tra i punteggi

ottenuti nei due gruppi (t= 2,658; P= 0,0114). Inoltre, è stata rilevata una

correlazione inversa tra la durata di malattia nei pazienti e il punteggio al

MMSE (r=-0,5879; P=0,0081) (grafico 4.2).

Grafico 4.2 Correlazione tra durata di malattia e punteggio al MMSE

20 22 24 26 28 30

0

5

10

15

20

25

30

35

40

45

50

MMSE

Dura

ta d

i m

alat

tia

(an

ni)

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MEMORIA DI BRANO

Al test per la memoria di brano A. Pesenti i pazienti hanno totalizzato un

punteggio medio, corretto per età, anni di istruzione e sesso, di 13,70± 5,2,

mentre i controlli di 15,82± 2,67.

Non è stata riscontrata una differenza statisticamente significativa tra casi e

controlli (t=1,624; P=0,1126), né tra bipolari I e II (t= 0,482; P=0,6356).

Sebbene tra i pazienti i maschi abbiano ottenuto punteggi medi migliori

(16,14± 6,11) delle femmine (12,38± 4,35), tra i due sessi non vi era una

differenza significativa (t=-1,602; P= 0,1266).

La durata di malattia influenza la performance al test con una correlazione

inversa (r=-0,3924) che è vicina alla significatività statistica (P=0,0966)

(grafico 4.3).

Grafico 4.3 Correlazione tra durata di malattia e memoria di brano

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MEMORIA IN CIFRE

Al test di memoria in cifre i controlli hanno ottenuto punteggi medi, corretti

per età e scolarità, migliori dei pazienti (12,25± 4,07 vs 10,20±3,90), con

una differenza statisticamente significativa (t=4,147; P=0,000). Non

abbiamo rilevato differenze significative nè tra bipolari I e II (t=-0,202;

P=0,8421), nè tra maschi e femmine (t=-0,543; P= 0,5941), nè una

correlazione tra i punteggi e la durata di malattia (P=0,99).

FLUENZA VERBALE PER CATEGORIE

Al test di fluenza verbale per categorie, i controlli hanno ottenuto punteggi

medi (44,27±7,29), corretti per età e anni di istruzione, significativamente

migliori (t=2,533; P=0,0155) di quelli dei pazienti (38,01±8,31). Non

sussistono differenze tra bipolari I e II (t=0,139; P= 0,8910), nè differenze di

genere (t=-0,423; P=0,6773). Non pare esserci nessuna correlazione tra la

durata di malattia e la performance al test (P=0,19).

FLUENZA VERBALE PER LETTERE

Anche al test di fluenza verbale per lettere, i controlli hanno ottenuto

punteggi medi (39,85±9,85), corretti per età e anni di istruzione,

significativamente migliori (t=2,780; P=0,008) di quelli dei pazienti (32,07±

7,72). Non sussistono differenze significative tra bipolari I e II (P=0,5044),

né tra maschi e femmine (P= 0,1590). Nessuna correlazione è presente tra la

durata di malattia e la performance al test (P= 0,10).

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TRAIL MAKING TEST

Nella parte A del Trail Making Test i pazienti hanno ottenuto punteggi medi,

corretti per età e scolarità, peggiori di quelli dei controlli (45,05±37,56 vs

26,95±6,59) con una differenza significativa (t=-2,123; P=0,046). Non ci

sono differenze tra bipolari I e II (t=-0,356; P=0,7260), nè tra maschi e

femmine (t=1,413; P=0,1747). Inoltre non è stata riscontrata una

correlazione con la durata di malattia (P= 0,13).

I punteggi medi corretti per il test TMT B sono risultati significativamente

peggiori (t=-3,712; P=0,001) per i pazienti (164,40± 89,36) rispetto ai

controlli (86,95± 26,84). Nessuna differenza è stata riscontrata tra bipolari I

e II (t=-1,599; P=0,1273), nè tra maschi e femmine (t=-0,401; P=0,6931). E’

stata osservata una correlazione diretta (r=0,4990) tra durata di malattia e

peggiori prestazioni al test (P=0,0297) (grafico4.4)

Grafico 4.4 Correlazione tra durata di malattia e punteggi al TMT-B

50 100 150 200 250 300

0

5

10

15

20

25

30

35

40

45

50

TMT-B (corretto)

Du

rata

di

mal

atti

a

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Nella parte B-A del Trail Making Test i pazienti hanno ottenuto punteggi

corretti medi (112,35± 62,48) statisticamente (t=-3,483; P=0,002) peggiori

di quelli dei controlli (60,00± 24,78). Non ci sono differenze tra bipolari I e

II (t= -1,370; P=0,1877), nè tra i generi (t=-0,459; P= 0,6514). E’ stata

individuata una correlazione positiva (r=0,5220) tra peggiori punteggi e

durata di malattia (P= 0,6514) (grafico 4.5).

Grafico 4.5 Correlazione tra durata di malattia e punteggi al TMT B-A

0 50 100 150 200

0

5

10

15

20

25

30

35

40

45

50

TMT B-A (corretto)

Du

rata

di

mal

atti

a (a

nni)

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CAPITOLO 5

5.1 Discussione risultati

Il primo risultato che è emerso da questo studio è stato il rilievo di una

differenza quasi significativa (P= 0.06) valori plasmatici di BDNF tra

bipolari in fase eutimica e soggetti sani di controllo. L’assenza di una forte

discrepanza dei valori periferici della neurotrofina tra queste due popolazioni

è confermata dalla letteratura. Infatti Cuhna e collaboratori (2006) hanno

riscontrato dei valori pressochè sovrapponibili per i dosaggi di BDNF tra

bipolari in fase eutimica e controlli sani. Risultati simili sono riportati anche

in una più recente review che analizza 13 studi degli ultimi anni su pazienti

bipolari in remissione (Fernandes et al., 2011). Analogamente uno studio

genere-specifico (Kenna et al., 2014) ha messo a confronto donne bipolari in

fase di remissione e donne sane di controllo, non individuando tra loro

differenze significative nei valori della neurotrofina.

Dobbiamo però precisare che il riscontro di valori di BDNF simili tra

controlli e pazienti eutimici potrebbe tuttavia essere legato all’assunzione di

farmaci. Infatti sia gli antidepressivi (Chen et al., 2001; Shimizu et al., 2003;

Gonul et al., 2005; Piccinni et al., 2008; ), che gli stabilizzanti del tono

dell’umore aumentano i livelli di questa neurotrofina (Fukumoto et al., 2001;

Einat et al., 2003; Angelucci et al., 2003; Jacobsen et al., 2004; Castro et al.,

2005; Chen et al., 2006; Yasuda et al., 2009; Wu et al., 2008), come

dimostrato da diversi studi precedenti. Pertanto un limite del nostro studio è

legato al reclutamento di pazienti che assumono abitualmente una terapia

farmacologica.

Per quanto riguarda i valori plasmatici di BDNF nei paziente bipolari di tipo

I e in quelli di tipo II, non abbiamo rilevato differenze (P= 0.7995), in

accordo con quanto riscontrato da Monteleone e collaboratori (2008).

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In questo caso la letteratura non è una riferimento con cui sia facilmente

possibile raffrontarsi in quanto la maggioranza degli studi non differenzia i

due sottotipi di disturbo. Fa eccezione però uno studio genetico che ha

individuato una interazione tra il polimorfismo BDNF Val66Met e quello

per il DRD2/ANKK1 Taq1A (dopamine D2 receptor/ankyrin repeat and

kinase domain containing 1), entrambi coinvolti nella regolazione

dell’affettività, soltanto nel disturbo bipolare II, suggerendo una differenza

almeno sul piano genetico per quel che concerne l’espressione del BDNF tra

i due sottotipi di disturbo affettivo (Huang et al., 2012). Sicuramente una

maggiore numerosità del campione di soggetti bipolari avrebbe aiutato a

mettere in luce eventuali differenze nei livelli plasmatici della neurotrofina.

Ancora, le nostre analisi non hanno permesso di rilevare nessuna

correlazione tra la durata di malattia e i livelli plasmatici di BDNF (P= 0.44),

in accordo con quanto rilevato da altri studi precedenti eseguiti anche con

analisi di meta-regressione (Fernandes et al., 2011).

In questo caso ci sono però anche evidenze contrarie come lo studio di

Barbosa e collaboratori (2013), i quali hanno riscontrato livelli di BDNF

maggiori in pazienti bipolari I con una lunga durata di malattia,

indipendentemente dalla fase del disturbo.

Un altro studio condotto su 60 pazienti con disturbo bipolare I non in fase

eutimica ha individuato una correlazione inversa tra la durata di malattia e i

livelli di neurotrofina (Kauer-Sant'Anna et al., 2009). Senza dubbio sono

necessari studi ulteriori ampliando la numerosità del campione esaminato,

differenziando i sottotipi di disturbo bipolare.

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Il M.I.N.I. ha dato come risultati punteggi medi significativamente maggiori

nei controlli sani rispetto ai pazienti (P=0,0114).

Dati analoghi sono stati ritrovati in letteratura sia nei pazienti eutimici affetti

da disturbo bipolare I (Fakhry et al., 2013), sia in pazienti bipolari adulti non

ben caratterizzati (Barbosa et al., 2012; Aprahamian et al., 2014).

E’ interessante sottolineare che nel nostro campione la durata di malattia dei

pazienti presenta una correlazione inversa con il punteggio ottenuto

(r= 0.5879; P= 0,0081), ma non con i livelli di BDNF, così come sottolineato

da altri (Barbosa et al., 2012).

Nel presente studio i punteggi al test per la memoria di brano non hanno

mostrato nessuna differenza tra pazienti e controlli (P=0.1126), così come

confermato da altri gruppi di ricerca (Konstantakopoulos et al., 2011; Daniel

et al., 2013), e neppure tra bipolari I e II (P=0,6356) o pazienti dis esso

maschile o femminile (P= 0,1266).

La durata di malattia invece influenza la performance al test con una

correlazione inversa (r=-0.3924) che è vicina alla significatività statistica

(P= 0.0966). Probabilmente un campione più ampio ci avrebbe permesso di

confermare questa tendenza.

Il test memoria in cifre applicato al nostro campione ha individuato una

differenza statisticamente significativa tra pazienti e controlli (P=0,000),

analogamente a quanto riscontrato in altri recenti studi in cui sono stati posti

a confronti pazienti eutimici e controlli sani (Daniel et al., 2013; Okasha et

al., 2014): il nostro studio ha confermato la presenza di alterazioni mnesiche

anche nella fase eutimica del disturbo bipolare.

Non abbiamo riscontrato differenza tra bipolari I e II (P=0,8421), nè tra i due

sessi (P= 0,5941).

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Il test di fluenza verbale per categorie è stato svolto meglio dai controlli

rispetto ai pazienti (P= 0.0155), senza differenze significative tra bipolari I e

II (P= 0,8910), nè tra maschi e femmine (P= 0.,6773). Inoltre, non è stata

individuata nessuna correlazione con la durata di malattia.

Risultati sovrapponibili sono stati ottenuti analizzando le performance al test

di fluenza verbale per lettere: controlli migliori dei pazienti (P=0,008);

nessuna differenza né tra bipolari I e II (P= 0.5044), né tra maschi e

femmine (P=0,1590); nessuna correlazione con la durata (P= 0.10). Lo

studio di Aprahamian e collaboratori (2014) condotto su bipolari eutimici e

controlli sani ha messo in luce gli stessi risultati per la fluenza verbale.

Sottoponendo sia pazienti eutimici che controlli sani a fRMN durante il test

per fluenza verbale, sembra possibile identificare una maggiore attivazione

bilaterale del precuneo (regione del lobulo parietale superiore coinvolta nella

memoria episodica, elaborazione visuo-spaziale, riflessione su se stessi, e

aspetti della coscienza) nei bipolari (Yoshimura et al., 2014). Questi dati

confermerebbero il tentativo delle aree cerebrali deputate al recupero

lessicale di compensare il deficit presente nel disturbo bipolare.

Per quanto riguarda il test TMT, i pazienti hanno svolto la parte A in

maniera peggiore rispetto ai controlli (P= 0.0403). Non sono state

individuate differenze tra bipolari I e II (P=0,7260), nè tra i generi (t=1,413;

P=0,1747). Nessuna correlazione sembra esserci con la durata di malattia.

Anche la parte B del TMT è risultata peggiore per i pazienti (P=0,0007).

Pur non essendoci nessuna differenza tra bipolari I e II (P=0,1273), nè tra

maschi e femmine (P= 0.6931), sussiste una correlazione positiva tra durata

di malattia e peggiore performance (P= 0.0297). Dati analoghi sono stati

ottenuti esaminando la parte B-A (rispettivamente P= 0.0013; P= 0.1877; P=

0.6514; P= 0.0219).

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In effetti sia la parte B, che quella B-A, risultano più specifiche nella

misurazione della ricerca visuo-spaziale, dell’attenzione selettiva e della

velocità psicomotoria che vengono inficiate dalla durata della malattia

mentale. Questa correlazione è stata riscontrata in uno studio analogo anche

da Buoli e collaboratori (2014). Tali dati sono stati confermati anche

confrontando i pazienti eutimici e i loro familiari di primo grado non affetti

dal disturbo con controlli sani (Civil Arslan et al., 2014). Ciò potrebbe

suggerire che il deficit della velocità psico-motoria e dell’orientamento

visuo-spaziale possa essere un marker endofenotipico del disturbo bipolare.

5.2 Conclusione

Con la nostra ricerca ci siamo proposti di valutare i livelli plasmatici di

BDNF in un gruppo di pazienti affetti da DBI e II in fase eutimica e di

esplorare le eventuali correlazioni con i parametri clinici e test neuro-

cognitivi rapportandoli con gli stessi risultati ottenuti nei controlli.

I nostri risultati, pur non avendo evidenziato differenze significative nei

livelli di BDNF tra DBI e DBII, hanno dimostrato performance

significativamente inferiori dei pazienti nei test di fluenza verbale, di

memoria in cifre e nel trail making test, senza differenze sostanziali nei

sottotipi del disturbo, così come riportato in altri studi precedenti (Baddeley

& Hitch, 1996; Baddeley & Della Sala, 1996; Francey et al., 2005;

Greenwood et al., 2008; Basso et al., 2009).

E’ interessante sottolineare che le alterazioni cognitive permangono nei

pazienti anche in fase eutimica e quindi asintomatica. Questo caratteristica,

già osservata da altri (Aprahamian et al., 2014), risulta essere di estrema

importanza nella gestione di alcuni pazienti bipolari che, pur essendo

stabilizzati e nonostante l’ assenza di sintomi specifici, presentano un

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impairment cognitivo che può interferire negativamente con il

funzionamento socio-lavorativo e familiare.

Il fatto che i deficit cognitivi, in particolare le funzioni esecutive e memoria,

in alcuni pazienti siano relativamente stabili anche durante il periodo

eutimico fa sì che questa fase della malattia non possa essere considerata

come un recupero clinico totale, ma anzi rende necessario includere dei

programmi di neuro-riabilitazione per migliorare la qualità di vita e

l’outcome di questi soggetti.

Possiamo concludere quindi che le alterazioni cognitive sembrano

permanere nel paziente bipolare anche in fase eutimica, mentre in tale fase

livelli del BDNF , che sembrano diminuiti nelle fasi polari della malattia,

tenderebbero a normalizzarsi e la neurotrofina potrebbe essere quindi un

indicatore fase-dipendente.

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RINGRAZIAMENTI

Ringrazio la Professoressa Liliana Dell’Osso per avermi dato la

possibilità di lavorare e frequentare il Suo reparto, durante i miei

studi e a conclusione di essi.

Ringrazio la Professoressa Donatella Marazziti per

l’insegnamento e l’aiuto offertomi con pazienza, passione e

dedizione.