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Il capitalismo molecolare Sergio Remi Trentino Sviluppo Master sviluppo territoriale, rovereto 2009

Capitalismo Molecolare

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Il capitalismo molecolare

Sergio Remi

Trentino Sviluppo

Master sviluppo territoriale, rovereto 2009

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Le discriminanti dello sviluppo italiano

Chi conosce il nostro Paese sa bene che la competitività dello sviluppo italiano è stata fino ad oggi garantita principalmente da tre fattori socio culturali, da tre discriminanti dello sviluppo:

• da una diffusissima cultura dell’autoimprenditorialità, dal coinvolgimento di milioni di piccoli e piccolissimi imprenditori (artigiani o terziari, emersi o sommersi, di nicchia avanzata o di copertura di comparti tradizionali);

• dalla forza dei localismi produttivi e dei distretti industriali il cui vero motore è stata la coesione sociale, l’ identità che queste realtà hanno saputo, magari in modo un po’ campanilistico, esprimere;

• ed infine da una fortissima capacità di fare concertazione e coalizione tra le parti (imprese, sindaci, banca locale, associazioni di categoria, camere di commercio, centri servizi).

Sono queste le risorse che ha portato a descrivere il capitalismo italiano come un capitalismo molecolare, per dirla alla De Rita, un capitalismo di piccole imprese in rete tra di loro, un capitalismo territorialmente e socialmente diffuso, un capitalismo che si è espresso nel modello distrettuale. specialmente in certe aree del Paese:

• nel nord italia lungo tutto l’asse pedemontano che passa da Biella, Varese, Como, Lecco, Bergamo, Brescia fino al Vicentino e alla Marca Trevigiana:

• lungo l’asse della via Emilia per proseguire lungo la dorsale adriatica;

• ma anche al sud con una distribuzione dei distretti produttivi a macchia di leopardo.

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All'interno dei distretti industriali si trova il 25% della popolazione italiana ed il 31% delle municipalità.

I distretti contribuiscono al 46% del totale dell'export nazionale.

In essi lavorano il 44% degli occupati nei settori manifatturieri italiani (60% nel solo Nord Est)

Il peso occupazionale dei distretti sul totale nazionale vede per il tessile abbigliamento il 63%; per il mobile il 58%; per la meccanica il 49%; e per la carta il 41%.

L'ISTAT ne riconosce 199

66% al Nord24% al Centro10% al Sud

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L'anomalia del modello italiano nello scenario internazionale

Il nostro modello di sviluppo rappresenta una anomalia anche nello stesso contesto Europeo, dove contrariamente a quanto solitamente si pensa, convivono diversi modelli di capitalismo:

✔un capitalismo anglosassone che ha il suo luogo simbolico nella City di Londra, fondamentalmente finanziario;

✔un capitalismo tedesco (renano) fatto di grandi banche, grandi imprese e grande sindacato che fanno cogestione

al vertice nei CdA delle grandi aziende tedesche;

✔un capitalismo anseatico, tra Fiandre, Svezia e Finlandia, rappresentato emblematicamente dalla Nokia: grande

innovazione tecnologica, grandi investimenti, grandi reti e anche grande qualità della vita;

✔un capitalismo francese, ancora basato sulla centralità dello Stato;

✔il nuovo capitalismo dei paesi dell' Est ex comunisti che sono entrati a far parte dell'Unione Europea.

Poi c’è il capitalismo italiano, che è un’altra cosa, è un capitalismo di territorio diffuso e molecolare, che fatica

a stare al passo con i regolamenti, i parametri, le politiche ed i modelli europei. Un modello di capitalismo che

viene accusato di nanismo, in incapacità di stare al passo con i processi di innovazione, di internazionalizzazione: non

facciamo finanza come gli inglesi, non facciamo cogestione come i socialdemocratici tedeschi, non facciamo

innovazione come gli avanzati scandinavi. E del resto è anche vero che la nostra economia nazionale non ha le

basi per riprodurre questi grandi modelli europei: non ha la grande industria, le grandi banche, i grandi apparati

militari che supportano la ricerca di base.

Nella sostanza il modello produttivo italiano deve trovare una sua specifica strada nella competizione globale,

partendo da quelle che sono le nostre specificità. Perchè di fatto questo siamo:

✔siamo un capitalismo dei piccoli, visto che il 93% delle nostre imprese hanno meno di 10 addetti;

✔siamo un capitalismo che come dice Beccattini è fatto storie di vita, l’impresa è quasi un dato antropologico. Enzo

Rullani parla addirittura di capitalismo personale, poi vedremo perché.

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Il capitalismo dei piccoli: definizione di microimprese, piccole e medie imprese

MICROIMPRESA:

Dipendenti: meno di 10Fatturato annuale: inferiore o pari a 2 milioni di EuroTotale di bilancio: inferiore o pari a 2 milioni di Euro

PICCOLA IMPRESA

Dipendenti: tra 10 e 49Fatturato annuale: minore o pari a 10 milioni di EuroTotale di bilancio: 10 milioni

MEDIA IMPRESA

Dipendenti: compresi tra 50 e 249Fatturato annuale: minore o pari a 50 milioni di EuroTotale di bilancio: max 43 milioni di Euro

Con decisione dell’8 maggio 2003, la Commissione Europea ha adottato una nuova definizione di imprese di dimensioni ridottissime (microimprese) e piccole e medie (PMI): decisione utilizzata dal 1° gennaio 2005

In Italia

MICRO + PICCOLE + MEDIE =

99,7% delle imprese

78% degli addetti

68% del valore aggiunto

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93%

6%

0,20%1%

Micro Piccole Medie Grandi

DISTRIBUZIONE DELLEDISTRIBUZIONE DELLEIMPRESE FRA CATEGORIEIMPRESE FRA CATEGORIE

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30% 39%

17%

13%

Micro Piccole Medie Grandi

OCCUPAZIONE NELLE IMPRESE OCCUPAZIONE NELLE IMPRESE FRA CATEGORIEFRA CATEGORIE

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Il peso della microimpresa

Il maggior ruolo della microimpresa nel contesto italiano è invece evidenziato dai dati ISTAT (archivio ASIA).

Nel 2006 sono oltre 4,4 milioni le imprese attive nell’industria e nei servizi, che occupano complessivamente circa 17,1 milioni di addetti.

La prevalenza di micro imprese nel sistema produttivo italiano è testimoniata dalle oltre 4 milioni di imprese con meno di 10 addetti: esse rappresentano il 93% del totale e occupano il 40% per cento degli addetti.

Le imprese senza lavoratori dipendenti in Italia sono 66,3 per cento del totale delle imprese attive.

Tabella: Imprese e addetti per classi di addetti e settore di attività economica – Anno 2006 Fonte: Istat, Archivio Statistico delle Imprese Attive

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Imprese per numero di addetti (v.a.; incidenza% delle microimprese; differenze con la media nazionale) – dati regionali

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90

95

100

105

110

1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000

Micro Piccole Medie Grandi

SVILUPPO DELL’OCCUPAZIONESVILUPPO DELL’OCCUPAZIONE(EUROPA-19)(EUROPA-19)

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Piccolo è un dato di fatto

• Con questi dati non si vuole riproporre la retorica “piccolo è bello”. Come dice Profumo (l’amministratore delegato di Unicredit) “piccolo è un dato di fatto”, e con questo dato dobbiamo continuare a confrontarci, senza inseguire politiche e modelli di innovazione difficilmente applicabili nel nostro contesto socio economico.

• Questa anomalia del nostro modello di sviluppo economico, rispetto a quelli degli altri paesi industrializzati, è da sempre stata imputata ad una sorta di ritardo del nostro Paese nell’acquisire, fin dagli anni ’50, quelle che erano le moderne tecniche di produzione e organizzazione di stampo fordista provenienti dall’America, che erano adatte alla grande dimensione di impresa.

• Sino agli anni ’80, la piccola dimensione di impresa, e in particolare l’alta diffusione di imprese artigiane, sono state considerate, dagli economisti, dalle istituzioni, come residui di un economia tradizionale, destinate con il tempo a scomparire di fronte allo sviluppo della grande impresa fordista.

• Per tutti questi anni si è in sostanza pensato che la quota delle imprese artigiane sul totale delle imprese fosse un indice di ritardo dell’economia di una nazione.

• Tutte le politiche istituzionali, volte a promuovere lo sviluppo economico, erano indirizzate alla grande dimensione di impresa: lo sviluppo dei centri industriali del Nord, i tentativi della ex Cassa del Mezzogiorno di creare poli industriali al Sud, lo sviluppo delle grandi infrastrutture, tutto il sistema di welfare e di protezione sociale incentrato sul lavoro dipendente, normato e garantito (la cassa integrazione, il sistema previdenziale, ecc.).

• Ancora oggi gran parte della normativa previdenziale e di regolazione della attività di impresa è di stampo fordista, pensata cioè per la grande impresa (normative sul lavoro, sulla sicurezza, sulla fiscalità, ecc.).

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L’autoimprenditorialità come valore sociale

• In Italia la piccola dimensione di impresa non identifica una categoria particolare, ma una condizione tipica del produrre, del lavorare, del vivere. Una condizione, cioè, che riguarda la maggior parte delle persone che sono, a vario titolo, coinvolte in attività produttive.

• In Italia fanno impresa più di sei milioni di persone. La maggior parte di queste imprese, piccole o grandi che siano, hanno dietro una famiglia. Se ne deduce che circa venti milioni di persone vivono del “fare impresa”.

• Il tasso di natalità delle imprese è un record italiano, decine di migliaia ogni anno, i dati sulla diffusione a livello nazionale contano un’impresa ogni dieci abitanti.

• Questi dati ci dicono che le imprese sono un grande laboratorio di integrazione, appartenenza e mobilità sociale. A tale proposito basterebbe citare i crescenti numeri di imprese dirette da donne o avviate da immigrati extracomunitari.

• Il “fare impresa” è un bacino di importanti virtù civiche che non creano solo ricchezza, ma anche valori socialmente condivisi.

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Solo a partire dagli anni ’80, la piccola dimensione d’impresa ha cessato di rappresentare, nell’immaginario collettivo, il residuo di modi di pre-moderni di produrre e di competere.

E questo è dovuto:

da un lato alla crisi del modello fordista fondato sulla grande dimensione d’impresa;

dall’altro all’inaspettato successo competitivo della piccola dimensione di impresa che, con la crescita delle economie distrettuali, le forti percentuali di esportazione, la qualità delle produzioni del made in Italy, hanno saputo conquistarsi il ruolo di asse portante dell’economia italiana.

I fattori che hanno dato competitiva alla piccola dimensione di impresa sono stati diversi:

✔ vi è senz’altro il coraggio e l’intelligenza imprenditoriale dei soggetti

✔ vi sono i vantaggi della flessibilità consentita dalla piccola dimensione, che con la crisi del fordismo hanno assunto una nuova centralità

✔ vi è poi la capacità di avere creato appartenenze economiche, nel senso che l’artigiano, il piccolo imprenditore, da sempre, ha imparato a sentirsi parte di un sistema più vasto: passando dalle corporazioni di mestiere, alle associazioni di rappresentanza, alle filiere di subfornitura, ai distretti industriali.

Come dice Becattini, la piccola impresa ha sofferto, a lungo, del "complesso del calabrone". (un insetto che secondo le leggi della fisica non dovrebbe volare). Ossia la piccola impresa si è trovata ad avere successo, sul mercato, senza che fautori e critici disponessero di una spiegazione razionale del perchè. (G. Becattini: Il calabrone Italia, Il Mulino 2007)

I fattori di successo del modello della piccola impresa

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Fordismo - Postfordismoanni ‘70

• Capitalismo delle piramidi

• Produzione concentrata di merci standardizzate all’interno di una struttura tayolrizzata

• Produzione di massa di beni omogenei;

• Uniformità e standardizzazione;

• Garanti scorte di riserva e magazzino;

• Test della qualità eseguito ex-post;

• Produzione guidata dall’offerta;

• La conoscenza è solida e si accumula nel perimetro proprietario

• Capitalismo delle reti

• Decentramento e flessibilizzazione del processo produttivo;

• Produzione in piccola serie;

• Produzione flessibile e in piccola serie

• Just in time, nessuna scorta;

• Parte integrante del processo produttivo;

• Produzione guidata dalla domanda;

• La conoscenza è liquida e si propaga tra i nodi della rete

Con il termine postfordismo, si può denominare la transizione da un sistema socio-economico caratterizzato dal lavoro dipendente svolto in grandi strutture organizzative (industrie, banche, pubblica amministrazione), ad un sistema socio-economico segnato dal dal primato del lavoro indipendente e/o svolto in piccole strutture organizzative (nella piccola impresa come nel sommerso, nell’artigianato come nel terziario avanzato),

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La capacità di fare rete

Tre sono i modelli di impresa a rete emergenti negli anni ‘80

• la catena di subfornitura, organizzata dalla grande impresa che progetta i nuovi prodotti, li produce solo in parte (secondo logiche di just in time) e cura la commercializzazione e l’export (modello giapponese)

• il distretto industriale, che emerge attraverso l’addensarsi di molte filiere fornitore-cliente nello stesso territorio, in modo da usare le economie di prossimità e quelle della specializzazione territoriale in un certo settore (modello italiano)

• l’impresa estesa (extended enterprise), che risulta dallo “snellimento” della grande impresa attraverso operazioni di focalizzazione su un core business e di outsourcing verso fornitori esterni (modello americano)

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L’economia del distretto industriale: le molecole fanno condensa

Nel distretto industriale le imprese hanno imparato a:

• lavorare a rete, collegando fornitori e clienti di piccola scala, grazie ai legami e alle esperienze comuni. Le piccole imprese sono riuscite ad operare in modo moderno e competitivo perché hanno trovato il modo di

partecipare a reti più grandi, evitando di rimanere isolate. Nei fatti è stata l’organizzazione distrettuale, a consentire alle imprese artigiane di raggiungere gli altissimi livelli

di specializzazione su determinati segmenti di produzione. Una piccola impresa che produceva in un distretto ceramico o del mobile riusciva a specializzarsi in modo spinto

in un prodotto o in un servizio, proprio perché i volumi di produzione su cui poteva contare, erano quelli dell’intero distretto.

Se avesse operato fuori dal distretto la minore densità dei possibili clienti avrebbe ridotto di molto le sue possibilità di specializzarsi.

• utilizzare l’ambiente locale come fonte di conoscenza, di lavoro qualificato, di servizi specializzati, di cultura imprenditoriale, di capitale sociale.

L’efficienza di un territorio, delle sue infrastrutture, dei suoi servizi, delle sue stesse relazioni sociali (la fiducia tra

gli attori, le competenze disponibili a livello locale), nei sistemi distrettuali è diventato un importantissimo fattore di produzione, alla stessa stregua del capitale e del lavoro.

Il territorio è l’ambiente strategico dove l’impresa selezione le risorse che le servono per competere sia interne che esterne al ciclo produttivo.

IL DISTRETTO INDUSTRIALE UTILIZZA IL TERRITORIO CHE VIENE RISCOPERTO DOPO ESSERE STATO A LUNGO DIMENTICATO DAGLI ECONOMISTI TRADIZIONALI (Giacomo Becattini)

IL SISTEMA LOCALE NON E’ LO SCENARIO DELL’AZIONE, MA L’AZIONE STESSA : IL TERRITORIO E’ LA IL TERRITORIO E’ LA FABBRICA FABBRICA

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Al di fuori dei cancelli delle imprese entrano in gioco i fattori territoriali della competitività:

La coesione dell’ambiente sociale: condivisione di valori (lavoro, famiglia,risparmio), scarsa conflittualità sociale, professionalità lavoratori diffusa nel sistema locale, mobilità sociale, attitudine al rischio, ecc.

l’efficienza delle reti infrastrutturali locali che collegano i diversi segmenti di quella che è una filiera produttiva territorializzata in cui si produce just in time e dove spesso le infrastrutture stradali possono essere considerate le linee di montaggio dei prodotti.

l’efficienza della logistica (porti, interporti, aeroporti, fiere) tutti quegli snodi che collegano il territorio locale alle reti internazionali ormai globalizzate. Tema questo caldissimo dove ogni territorio vuole la propria fiera ed il proprio aeroporto, quelle autonomie funzionali che servono per collegare il locale con il globale.

l’efficienza del sistema finanziario, che deve essere capace di accompagnare il processo di finanziarizzazione delle imprese: dalle nuove forme del credito, all’accompagnamento sui mercati borsistici: da Basilea 2 al project financing per realizzare le infrastrutture necessarie al territorio.

l’efficienza dei sistemi che producono i saperi. Scuole professionali, università, laboratori di prove e certificazione, terziario locale in grado di fornire tutte quelle funzioni (ricerca, design,marketing, ecc.) che le aziende di piccole dimensioni devono necessariamente, acquisire all’esterno.

Infine, l’efficienza della pubblica amministrazione, sia intesa come macchina amministrativo burocratica, per tutto ciò che concerne i permessi, le autorizzazioni, le normative, i vincoli ambientali, gli incentivi, le aree attrezzate, ma anche per ciò che concerne strategie di accompagnamento dei sistemi produttivi locali sui mercati internazionali.

I fattori territoriali della competitività

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Gli attori del distretto : Gli imprenditori “mediocri”

Solitamente quando si parla dello sviluppo di microimpresa, dei distretti, si parla sempre di uno sviluppo spontaneo, non governato, perfino caotico e disordinato. In parte è vero, in particolare se pensiamo alla distesa di capannoni nel nord est.

Ma se ben guardiamo, è anche vero lo sviluppo dei nostri sistemi produttivi locali è stato supportato, e per certi versi governato, da una sorta di patto informale che vedeva il ruolo fondamentale di 4 o 5 attori del territorio:

Il primo attore sono, chiaramente, imprenditori che si impegnano a fare degli investimenti produttivi.

Si trattava di imprenditori “mediocri” nel senso che le imprese dei nostri distretti sono nate spesso nei sottoscala, da soggetti che fanno impresa unicamente sulla base di due risorse:

• le proprie competenze, la conoscenza di un mestiere quasi sempre acquisita in una precedente esperienza di lavoro dipendente

• la propria rete di relazioni, in primo luogo le relazioni di tipo familiare, la moglie, i fratelli e se andava bene i figli.

Tutte le altre competenze imprenditoriali un po’ più complesse, la contabilità e la fiscalità venivano delegate al commercialista o all’associazione di categoria.

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Gli attori del distretto : Il sindaco “imprenditore”

• Il secondo attore erano gli amministratori locali che si impegnano a velocizzare le procedure autorizzative.

• Qui era emblematica la figura del “Sindaco imprenditore”, (imprenditore della crescita economica del proprio territorio) che forniva gli spazi e le reti necessarie allo sviluppo della piccola e media impresa.

• Ogni comune, anche il più piccolo, pretendeva e otteneva la propria area artigianale, che doveva essere corredata dalle strade di accesso, il depuratore, il polo intermodale, la palazzina direzionale, ecc.

• Il continuum abitativo e produttivo che caratterizza i nostri distretti nasce dall’attivismo di questi amministratori locali che hanno saputo interpretare le esigenze delle piccole imprese di allargamento degli spazi.

• E’ una tipologia urbanistica molto diffusa, il capannone con davanti la villetta dove abita l’artigiano e i nanetti in giardino

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Gli attori del distretto : La banca locale

Terzo attore era la banca locale, che si impegna a finanziare lo sviluppo locale. La banca locale era il soggetto che forniva risorse finanziarie allo sviluppo del distretto in termini di anticipazione dei capitali, di sconto fatture, ma costituiva anche un’ importante riferimento identitario per il distretto e gli abitanti del territorio.

Ogni distretto e ogni territorio avevano la propria banca locale, la banca di credito cooperativo, la popolare, la cassa di risparmio, la cassa rurale. In questo sistema finanziario locale il dato fondamentale era la conoscenza diretta tra il direttore della banca e gli imprenditori del luogo.

Il direttore della banca locale conosceva la storia dell’imprenditore della sua famiglia, un rapporto di conoscenza e fiducia che magari consentiva il finanziamento delle imprese attraverso i fidi in conto corrente.

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Gli attori del distretto: le Associazioni di categoria

Il quarto attore erano le Associazioni di rappresentanza che si impegnavano ad accompagnare gli imprenditori “mediocri” rispetto alle forme elementari della gestione di impresa, dalla tenuta dei libri contabili (magari insegnando come pagare meno tasse) fino alla promozione delle relazioni di scambio tra le imprese, come i consorzi.

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Gli attori del distretto: Il “metaorganizzatore”

Nelle situazioni più evolute c’era poi un quinto attore, che svolgeva un ruolo da metaorganizzatore, solitamente la Camera di Commercio, l’Agenzia di sviluppo o il Centro servizi del distretto, che si ponevano come soggetti organizzatori dell’economia distrettuale, assolvendo ad alcune funzioni di modernizzazione, che potevano essere la mediazione con il sistema della formazione, l’esplorazione dei mercati esteri, l’organizzazione delle fiere, alcune funzioni di servizio o di promozione particolarmente pregiate legate all'innovazione alla certificazione, ai laboratori di prova, ai marchi di distretto,ecc.

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La globalizzazione è la fine del modello distrettuale?

Questa la situazione fino a poco tempo fa, fino a quando si è cominciato a parlare di globalizzazione.

Globalizzazione che nei fatti ha evidenziato tutti i limiti delle varie forme di capitalismo che il nostro Paese ha saputo esprimere (o non ha saputo esprimere compiutamente):

✔ da una parte, la crisi della grande impresa, che non ha saputo affrontare la lunga deriva del modello fordista strutturandosi in modo da competere sul piano multinazionale.

✔ dall’altra, la crisi del nostro “capitalismo molecolare”, che oggi è terrorizzato dai “cinesi”, ma anche dalle regole che arrivano dalla globalizzazione come “Basilea 2” e che oggi è accusato di “nanismo” e di incapacità di affrontare l’innovazione e l’apertura dei mercati.

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La crisi del modello del capitalismo molecolare

Nel dibattito sulle prospettive del sistema economico italiano prevale oggi una visione “declinista” che sottolinea le debolezze strutturali del nostro capitalismo di territorio, fondato sui distretti industriali e la piccola dimensione di impresa. Tra i principali fattori di debolezza del nostro sistema produttivo, sono citati:

il nanismo imprenditoriale e la mancanza grandi gruppi industriali capaci di competere a livello internazionale;

la specializzazione manifatturiera nei settori tradizionali tipici del made in italy, che sono ad alta intensità di manodopera e quindi vulnerabili rispetto alla concorrenza asiatica;

la mancanza di innovazione dovuta alla carenza di investimenti in ricerca e sviluppo nelle imprese;

i ritardi nel processo di internazionalizzazione delle imprese;

l’inefficienza del sistema Paese (burocrazia, carenze infrastrutturali, alti costi energetici, livelli di tassazione, super Euro, ecc.)

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Dal locale al globale

Nell’evoluzione delle analisi degli ultimi anni si sono introdotte alcune sensibili modificazioni nell’apparato concettuale tipico dei distretti e dei sistemi locali:

• · la categoria della gerarchizzazione con la nascita ed il consolidamento delle imprese leaders

• · la categoria delle “reti lunghe”, la cosiddetta deterritorializzazione del distretto

• · la definizione e individuazione dei “metadistretti”, nei quali si inserisce come fattore distintivo non solo la produzione manifatturiera, ma soprattutto la produzione di conoscenza.

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Le tre sfide

La sfida delle reti: la piccola dimensione non è necessariamente in limite, anzi può essere un vantaggio (flessibilità). Alla piccola dimensione si può far fronte lavorando in filiera (anche in reti di livello sovranazionale)

La sfida della materializzazione: anche la natura tradizionale dei settori tipici delle produzioni distrettuali non è necessariamente un limite, si può rimediare con la creazione di significati, esperienze, identità e attenzione che valorizzano e innovano il prodotto (moda, design, stili di vita, servizi al cliente, flessibilità). La manifattura standard ha margini decrescenti (la fanno già i cinesi). Oggi bisogna vendere idee e mettere le produzioni al loro seguito.

L’esaurimento delle risorse locali (gratuite): il vero limite dei nostri sistemi di piccola impresa è che sono cresciuti per propagazione utilizzando (gratuitamente) il capitale sociale (intellettuale relazionale) dei territori (oggi questo non basta più)

IL VERO LIMITE E’ LA PROPAGAZIONE SENZA INVESTIMENTO • scarso investimento in capitale intellettuale• scarso investimento in capitale relazionale

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Come stanno reagendo i distretti alla globalizzazione?

• Qualche distretto “collassa”

• Qualcuno cerca di replicare le relazioni in altre aree geografiche (Veneto e Romania)

• Le imprese leader investono fortemente in altri paesi o si concentrano sull’outsourcing.

• Qualche distretto può trarre vantaggi dalla apertura di nuovi mercati.

• Nei fatti non esiste una crisi del modello distrettuale in quanto tale. Esiste una situazione di obbiettiva difficoltà di alcuni settori tradizionali e ad alta densità di manodopera (come può essere il tessile calzaturiero) che sono particolarmente esposti alla concorrenza asimmetrica asiatica.

• Il modello distrettuale in tanti altri settori continua a funzionare discretamente, non solo per le sinergie tra le imprese delle filiere ma anche, come “incubatore” di aziende leader capaci di conquistare un ruolo di leadership sui mercati internazionali.

• I dati della fondazione Edison sui distretti industriali segnalavano una alta tenuta nell'internazionalizzazione a prescindere dalla specializzazioni produttive. Se guardiamo al territorio ci accorgiamo che le crisi e le eccellenze tagliano in orizzontale il tessuto produttivo.

• Ci sono imprese nei settori del calzaturiero, del mobile, del tessile che l'hanno fatta che competono brillantemente sui mercati internazionali e altre che sono lì ferme e immobili sul territorio alla ricerca di un mercato domestico che non c'è più.

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Lo Scenario: l’evoluzione dei sistemi produttivi locali

A ben guardare, in questi ultimi anni le economie locali di piccola e media impresa,hanno subito parecchie trasformazioni e anche parecchi traumi. Banalizzando, si può dire che, all’interno dei sistemi produttivi locali, è avvenuto un processo di esplosione e selezione, che si è manifestato in diversi modi:

✔ c’è stata un’emersione di molte medie imprese che partendo dai distretti e dai sistemi produttivi locali si sono internazionalizzate, globalizzate, sono diventate le cosiddette “multinazionali tascabili”, che vanno per il mondo, pur mantenendo un radicamento locale (la tana del lupo);

✔ c’è stata una fortissima selezione delle imprese di subfornitura su criteri di qualità (selezione che ha colpito, in particolare, le imprese artigiane); le piccole imprese di subfornitura si sono dovute adeguare ad una domanda dei loro committenti che si è fatta sempre più complessa:

✔ c’è stata la creazione di relazioni produttive che non sono più circoscritte nell’ambito territoriale locale o di distretto, ma ormai sono distribuite a livello planetario;

✔ c’è stata una differenziazione dei prodotti e dei servizi offerti in funzione delle nuove domande di mercato (sempre meno i distretti si identificano con un singolo prodotto, c’è stato un duplice processo di differenziazione e specializzazione delle produzioni su nicchie ad elevata sostenibilità economica);

✔ c’è stata poi un’apertura in entrata attraverso gli investimenti realizzati da imprese esterne e gruppi multinazionali. Spesso i distretti sono diventati territori dove le multinazionali vengono a fare shopping di imprese.

Nei nostri sistemi locali si è venuta a disegnare una nuova e più complessa divisione del lavoro e del rischio tra l’impresa ed il territorio.

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La globalizzazione e l’economia dei flussi hanno ridisegnato la stessa struttura dei sistemi produttivi, che non è più interpretabile attraverso le categorie della committenza e della subfornitura.

Nei nostri distretti oggi troviamo una maggiore complessità di attori economici:

✔poche grandi imprese globali, le transnazionali;

✔tante medie imprese che fanno investimenti diretti all’estero;

✔una moltitudine di medie e piccole imprese che fanno export;

✔imprese virtuali, anche artigiane, che fanno il general contractor;

✔microimprese subfornitrici che operano anche su reti internazionali

✔microimprese e le tante forme lavoro autonomo che operano nel ciclo dei servizi e della

consulenza.

La catena di produzione del valore è diventata quindi più complessa e si è allargata sul territorio. E’ diventata una ragnatela di produzione del valore, che in ogni contesto va analizzata ed interpretata perchè ogni contesto locale ha le sue specificità.

Ma vediamo l’aspetto che più ci interessa, i processi evolutivi del capitalismo molecolare, cosa avviene nelle nostre economie locali.

La globalizzazione, ha modificato il ruolo degli attori che fino ad oggi sono stati i protagonisti dello sviluppo distrettuale.

La ragnatela di produzione del valore

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1. L’emersione delle imprese leader ed il “capitalismo a grappolo”

Gli imprenditori mediocri non sono più tali, chi ce l’ha fatta è cresciuto ed ora è una media impresa aperta alla competizione sui mercati internazionali, ben oltre quindi lo spazio del distretto o del mercato locale.

Sono questi imprenditori che hanno fatto esplodere il distretto verso l’alto, facendo globalizzazione a

medio e lungo raggio, ampliando la rete delle relazioni produttive al di fuori del contesto locale.

Qui troviamo le tante imprese leader emerse dai nostri distretti che oggi vanno per il mondo, (multinazionali

tascabili come le chiama Merloni) pur mantenendo un radicamento locale: Luxottica, Della Valle, Brembo,

Geox, ecc.

L’elenco è fortunatamente lungo, nel rapporto annuale di Mediobanca- Unioncamere si contano 3.925 medie imprese italiane che vanno per il Mondo pur mantenendo un forte radicamento nei distretti e nei settori storici del capitalismo manifatturiero italiano

Una recente ricerca della fondazione Edison descrive il capitalismo italiano come un “capitalismo a grappolo” 3.925 medie imprese globalizzate che attraverso le reti di subfornitura aggregano 140.000 piccole imprese.

Medie imprese che acquistano fuori dalle mura, (cioè dai piccoli), l'81% dei prodotti e dei servizi di cui ha bisogno.

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Le medie imprese che si globalizzano

Duemila di queste imprese si concentrano in 11 province da Torino a Vicenza, passando per Milano, Brescia, Bergamo, lungo la Via Emilia arrivando sino alla dorsale adriatica.

Secondo i dati Mediobanca, ogni media impresa è servita mediamente da 244 fornitori che altro non sono che quelle piccole imprese e quel pulviscolo di artigianato che agganciandosi alle filiere produttive alimentano i distretti e le piattaforme produttive del made in Italy.

Se per produrre è centrale il radicamento territoriale, (tenendo insieme sul territorio la subfornitura di qualità e l’economia dei servizi), per commercializzare si va nel mondo: l’87% delle medie imprese ha clienti nei mercati esteri. I mercati di sbocco sono principalmente quelli dell’Unione Europea a 25 con particolare primazia del mercato tedesco e della nuova Europa ad Est.

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Il riposizionamento competitivo della media impresa

Schematizzando, si può dire che queste medie imprese leader hanno adottato, in materia di subfornitura, una strategia selettiva che opera a tre livelli (non necessariamente alternativi):

• il primo corrisponde all’orientamento a de-localizzare alcune fasi della filiera produttiva, (hanno trovato i subfornitori in Cina o in Romania) a dimostrare che sono aumentati i gradi di libertà dei committenti nella scelta della localizzazione dei subfornitori;

• il secondo livello si riferisce alla re-internalizzazione di alcune fasi del ciclo produttivo, come emerge dalle strategie di integrazione verticale messe in atto da alcune imprese-leader, in particolare attraverso la creazione di gruppi di impresa (comprano i loro subfornitori)

• il terzo livello investe la qualità delle relazioni con i subfornitori: l'impresa che presidia il mercato finale è portata a selezionare e riqualificare la rete dei subfornitori cui fa ricorso, a promuoverne le competenze e la capacità di partecipare attivamente ai progetti innovativi, a sviluppare rapporti collaborativi stabili e di qualità. Oggi la subfornitura non è più “mordi e fuggi” (gratuita) si investe in capitale intellettuale e relazionale.

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Il riposizionamento competitivo dell’impresa di subfornitura

Se i committenti si muovono, i subfornitori non stanno fermi: investono sulle reti di impresa e/o sul confronto diretto con il mercato finale

Il vincolo della piccola dimensione viene superato con strategie di aggregazione , investono su: rapporti stabili di subfornitura qualificata; la partecipazioni a consorzi; la partecipazione a gruppi formalizzati di impresa; la definizione di accordi di collaborazione con altre imprese.

Una ricerca del 2007 condotta da Unioncamere – Ist. Tagliacarne ha quantificato che le piccole imprese che operano con strategie di aggregazione sono circa il 43% delle piccole imprese industriali italiane (campione di 3500 imprese 83% con meno di 9 addetti – microimprese) La stessa ricerca definisce anche degli indicatori di performance.

Tabella: indicatori di performance (fonte: Unioncamere Tagliacarne 2007)

Imprese che hanno relazioni

Imprese

isolate

Totale

Fatturato 2006 aumentato 23,0 17,7 20,0

Previsione fatturato 2007 in aumento 13,6 10,4 11,8

Prevalenza di lavorazione per il mercato finale 14,2 8,0 10,6

Opera all’estero 13,4 12,5 12,9

Incidenza (%) fatturato estero 2006 47,2 34,2 39,9

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Le strategie di riposizionamento competitivo delle imprese di subfornitura

L’alleanza tra imprese consente alle imprese di subfornitura di adottare strategie di riposizionamento competitivo (non necessariamente alternative):

• Condividere la strategia del committente che sta costruendo la propria catena transnazionale del valore e che ha bisogno di alleati, proprio per superare lo start-up iniziale.

• Ridefinire il proprio ruolo all’interno del sistema di subfornitura:

– La specializzazione/internazionalizzazione della subfornitura (il subfornitore globale)

– L’assunzione del ruolo di subfornitore-guida (il piccolo leader di filiera)

• Integrarsi a valle, magari avvalendosi per le forniture degli altri terzisti locali, e interfacciarsi direttamente con il mercato:

– Strategie su mercati di nicchia

– Terziarizzazione commerciale (converter – impresa virtuale)

– Cooperazione orizzontale (consorzi di vendita, commercializzazione, innovazione ecc.)

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L’innovazione nella piccola impresa

Non è del tutto vero che nella piccola impresa non c’è innovazione. Oggi gran parte del tempo di lavoro di un piccolo imprenditore (anche artigiano) è dedicato a gestire e rafforzare quelli che sono i fattori immateriali di produzione: l’organizzazione, la finanza, la commercializzazione, la logistica, la sicurezza, l’ambiente, la progettazione, i marchi, la certificazione, l’immagine,la comunicazione.

Sempre più la microimpresa è impegnata ad acquisire e produrre linguaggi complessi e sempre più tali linguaggi rappresentano le discriminanti per il successo della sua attività.

Le piccole imprese di oggi fanno già integralmente parte dell’economia moderna e globalizzata. E questa modernità nel tessuto delle nostre microimprese la troviamo:

• nel riferimento a mercati e a reti di produzione sempre più ampi, non più solo di dimensione locale;

• nell’uso di risorse tecnologiche, organizzative, gestionali sempre più complesse;• nella crescente formalizzazione delle relazioni produttive e dei relativi codici di

scambio; • nella progressiva smaterializzazione delle produzioni e nell’integrazione con i sevizi.

Quando la rete produttiva comincia ad essere una rete di processo estesa, magari a livello internazionale, c’è bisogno di sviluppare connettori artificiali che rendano efficace la comunicazione tra imprese, tra i diversi segmenti della produzione, e questo ha costretto molte imprese artigiane a sviluppare linguaggi, codici, competenze, che diventano parte preponderante della produzione.

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Faccio degli esempi su cosa si intende per connettori artificiali:✔ i sistemi di qualità che specificano le caratteristiche dei prodotti e dei processi e ne garantiscano il rispetto;✔ i linguaggi scientifici, tecnici, manageriali condivisi, che riducono l’ambiguità della comunicazione;✔ gli standard e norme che rendono facile e affidabile lo scambio tra i diversi operatori di rete;✔ i laboratori di prova e misura, che rendono oggettive le caratteristiche tecniche dei prodotti e dei processi;✔ i codici CAD e oggetti virtuali costruiti secondo metodologie condivise a livello internazionale;✔ i servizi e i canali logistici che spostano merci e persone da un punto all’altro della rete ✔ i sistemi di assicurazione, assistenza tecnica, garanzia e pagamento;✔ i media della comunicazione a distanza (internet ecc);✔ i canali di accreditamento presso i clienti e gli altri operatori della rete (le catene di franchising, le griffes, i marchi ecc.).

Questi sono tutti fattori produttivi che ormai sono entrati con forza nella quotidianità delle piccole imprese. O perlomeno, di certo, sono entrati nella produzione delle imprese che operano nei cicli della subfornitura , che proprio sulla capacità di internalizzare o meno questi linguaggi hanno dovuto subire una feroce selezione attuata dai loro committenti.

Per cui è anche sempre più difficile distinguere l’artigianato dall’industria e dal terziario, perché oggi artigianato, industria e terziario, parlano sostanzialmente gli stessi linguaggi complessi di una produzione che si fa sempre più immateriale il cui valore aggiunto è dato da conoscenze, qualità, simboli, servizi.

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La capacità di fare produzioni complesse

Il potenziale innovativo del sistema produttivo italiano di piccola impresa non è nell’innovazione tecnologica in senso stretto, ma piuttosto nelle capacità di fare produzioni complesse che hanno un elevato grado di originalità perché si sviluppano in modo differente, in funzione del contesto sociale, culturale, territoriale.

Produzioni complesse che si fondano sull’utilizzo:

• di conoscenze applicative, cioè la capacità di interpretare I bisogni del mercato e proporre soluzioni origianali;

• di conoscenze organizzative, cioè la capacità flessibilità e adattabilità ai mercati

• di conoscenze connettive, cioè la capacità di muoversi in filiere, distretti, reti di cooperazione, di pescare le competenze dove ci sono, quando servono, di sviluppare reti di collaborazione a “geometria variabile” che si creano e si disfano in funzione delle domande e degli andamenti dei mercati.

Non è la tecnologia che disegna la scena in cui si sviluppano le conoscenze applicative, organizzative, connettive, ma è vero, semmai, il contrario: sono queste ultime a dare forma alle strategie aziendali e a chiamare in causa l’innovazione tecnologica ogni volta che serve e nella misura in cui serve.

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Internazionalizzazione

• Lo stesso tema dell’internazionalizzazione, non è più solo un problema di accompagnare le imprese all’estero, un problema di esportazione, o di IDE; è un problema di territorio.

• Anche l’artigiano che non esporta o che non fa investimenti all’estero, viene condizionato nei suoi prodotti, nei suoi metodi di produzione, nei suoi prezzi, dai competitori internazionali.

• Quelle che una volta erano le politiche a sostegno dell’internazionalizzazione, devono oggi diventare politiche a sostegno della competitività transnazionale di un intero territorio: questo perché ormai non è più possibile fare una distinzione tra mercato esterno e mercato domestico.

• L'economia dei flussi ha senso in quanto connette le economie dei luoghi. A mutare è il ruolo economico del territorio e la sua capacità attrattiva nel senso che l ’economia dei flussi premia le differenze, e dunque le varietà locali, che sono in grado di portare un valore aggiunto alle reti globali. Quello che conta nella nuova economia è l’offerta che il territorio è in grado di proporre in termini di conoscenze, reti, e qualità ambientale.

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LA GLOBALIZZAZIONE NON RAPPRESENTA LA FINE DELLO SVILUPPO LOCALE

Per stare nella globalizzazione è vero che le imprese devono imparare ad usare i nuovi codici di comunicazione, devono certificarsi, collegarsi ad internet, sapere l’inglese, ma è altrettanto vero che i territori:✔devono avere la capacità di dotarsi di competenze distintive difficilmente banalizzabili e riproducibili capaci di produrre valore aggiunto nelle reti globali;✔devono avere la capacità di dotarsi di tutti quei nodi che oggi sono necessari per connettere il locale con il globale.

In sostanza, se nei distretti il rapporto tra imprese e territorio è stato in passato un rapporto di identificazione (il territorio, veniva identificato sulla base del tipo di produzione: il distretto delle scarpe, il distretto delle cucine, ecc) oggi il rapporto tra imprese e territorio è sempre più un rapporto di scambio.

Le imprese rimangono insediate su un territorio, o fanno nuovi investimenti su un territorio, se trovano convenienti i servizi offerti e le conoscenze accessibili attraverso il contesto locale, chiaramente:

✔i servizi e le competenze devono avere un carattere distintivo, se i servizi sono standardizzati e le conoscenze codificate tutti i nodi della rete globale sono potenzialmente equivalenti, per cui si previlegiano i nodi a minor costo del lavoro;

✔servizi e competenze significa anche qualità della vita e clima culturale quindi infrastrutture, istruzione, ricerca, tranquillità sociale, qualità ambientale, adeguati servizi di carattere metropolitano;

✔fondamentale è poi la dotazione di autonomie funzionali in grado di connettere il locale con il globale: aereoporti, poli fieristici, interporti, autostrade, i nodi della logistica, Università e istituzioni sovralocali in grado di dialogare con l’Europa e il mondo,

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Chiaramente se l’analisi della catena del valore disegna una realtà ormai in buona parte deterritorializzata, ciò che rimane a dare identità territoriale al sistema è ancora una volta il ruolo strategico assunto dal soggetto pubblico, dal sistema delle rappresentanze, dalle autonomie funzionali..

Sono ancora questi i soggetti che hanno il compito di ricostruire dal basso i fattori contestuali del vantaggio competitivo. La definizione delle nuove strategie distrettuali si gioca sul ruolo di questi attori, un ruolo che come abbiamo visto nei nostri distretti già esiste, ma che va modernizzato e che si basa:✔sulla loro capacità di interpretare le trasformazioni nel tessuto produttivo, non tutti i territori hanno lo stesso posizionamento rispetto all’economia dei flussi. ✔sulla loro capacità di porsi in un rinnovato quadro negoziale, imparando a negoziare ad esempio con i big players (la grande banca, la grande fiera, la grande multiutilies dei servizi, i grandi progetti di infrastrutture, l'università, le agenzie di brevetto, ecc.)✔sulla loro capacità di creare connessioni che oggi sono principalmente di carattere extralocale.

Il territorio non è più solo un luogo ove si fa società locale, ma anche uno spazio ove la nuova economia compete per controllare l’ultimo chilometro tra il locale e il globale offrendo merci e servizi sempre più personalizzati.

Abbiamo appena imparato a fare rete corta di territorio (patto di distretto, patto territoriale) ora dobbiamo imparare ad accompagnare il territorio nel suo fare lunga di globalizzazione.

COME CAMBIA IL RUOLO DEI DIVERSI SOGGETTI ?

Chi è che garantisce le dotazioni ambientali che rendono competitivo il territorio?

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Le politiche delle amministrazioni locali

Il “Sindaco imprenditore” ha dovuto fare i conti con la saturazione dello spazio disponibile sul proprio territorio, il suo ruolo di fornitore di aree per lo sviluppo delle imprese è venuto meno.

Oggi ha semmai il problema contrario: come razionalizzare e decongestiare il territorio, come

conciliare luoghi della produzione e luoghi dell’abitare, come garantire la qualità dell’ambiente e

dei servizi a rete (l’acqua, l’energia, il depuratore, i rifiuti, le strade) tutti fattori strettamente

connessi per il successo di un modello di sviluppo molecolare che oggi cerca di fare un salto

verso l’innovazione e verso la qualità.

Oggi il problema dei sindaci e degli amministratori locali è come mantenere, o attrarre, imprese

innovative, a basso impatto ambientale e come fornire loro qualità dei servizi, qualità

dell’ambiente, tranquillità sociale.

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Il processo di aggregazione delle banche

La banca locale è stata comprata da qualche grande Gruppo e questo per molti territori è stato un vero e proprio dramma. Basta pensare a cosa è successo qui in Trentino quanto CARITRO e stata comprata da Unicredit.

E’ venuta meno quella figura di intermediazione fiduciaria fondamentale che era

rappresentata dal Direttore della banca locale.

Oggi l’artigiano o il piccolo imprenditore hanno dovuto imparare a relazionarsi, (in modo

molto più complicato e meno diretto) con il responsabile del Corporate o del Retail della

grande banca che sta sulla piazza finanzia milanese.

Le banche (non tutte) si sono sollevate dal territorio è hanno attivato processi di

aggregazione che gli consentissero di competere nell’economia dei flussi.

E’ comunque sul territorio che le banche attingono alle risorse che gli servono per

competere. Anche grandi gruppi hanno adottato strategie di sviluppo locale. (MA QUESTO

SARA’ OGGETTO DI UNA SPECIFICA LEZIONE)

Page 47: Capitalismo Molecolare

La crisi delle strutture di rappresentanza

Le associazioni di rappresentanza hanno dovuto fare i conti con la crescita di altri soggetti professionalmente dedicati alla fornitura di servizi sempre più complessi, ma non solo, anche con soggetti che si pongono come organizzatori delle relazioni tra imprese. I nuovi protagonisti del mercato della rappresentanza (ma meglio sarebbe dire dell’organizzazione di reti) possono assumere vesti inaspettate, ad esempio:

✔ quelle della grande banca che "associa" piccoli imprenditori offrendo loro i servizi innovativi di cui hanno bisogno.

Oggi sempre più le banche cercano di vendere servizi per l’innovazione, l’internazionalizzione, la crescita delle

imprese su cui impostare linee di credito sempre più sofisticate.

✔ possono essere Enti pubblici o altri soggetti forti del territorio che, costruendo reti efficienti per microaziende

diminuiscono il loro interesse ad aderire alle Associazioni tradizionali, (basti pensare ad alcune esperienze di agenzie

di sviluppo, centri servizi o iniziative di marketing territoriale)

✔ possono essere imprese leader di filiera che praticano il franchising e vendono licenze su catene di vario genere,

che organizzano il sistema produttivo in rete spesso svolgendo il ruolo di modernizzatori del sistema locale. Si tratta di

imprese che spesso svolgono un ruolo da “autonomia funzionale”, di porta di sistema, da un lato proiettando le

produzioni locali sui mercati globali e dall’altro trasferiscono l’innovazione a livello locale.

✔ possono essere imprese della net economy che creano portali di filiera o di territorio ed attorno a questi portali

aggregano funzioni e servizi innovativi. O anche altre strutture imprenditoriali di servizio (es. Compagnia delle Opere

che oggi siede, assieme alle rappresentanze in diversi consigli delle CCIAA)

Quindi oggi emergono nuovi soggetti che si propongono come organizzatori di reti di imprese e sono tutti

concorrenti delle strutture associative che a loro volta devono imparare a rapportarsi con questi soggetti con logiche di

competizione/collaborazione.