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5 di cinqueDi Gennaro | Galbusera | Jannelli | Miano | Zanini

Poesie di Claudio Zanini

Cinque storie parallele: linguaggi e traiettorie.di Luca Pietro Nicoletti

1. Antefatti

Dall’inizio degli anni Ottanta, i pittori Maria Jannelli, Antonio Miano, Renato Galbusera e Claudio Zanini, insieme allo scultore Pino Di Gennaro, costituiscono un sodalizio affiatato che non ha ceduto, nel tempo, alle minacce di un malinteso senso della competizione, né ha sofferto di scelte individualistiche generatrici di piccole rivalità: da allora questi cinque artisti compongono una compagine unita, a cui di volta in volta si sono aggregati altri artisti per periodi più o meno lunghi, in cui però il gruppo non ha annullato le specificità di ricerca individuale. Fin da subito, infatti, va chiarito che questo sodalizio, cosciente della differenza di linguaggio dei suoi componenti, ha avuto il buon senso di non costituire un movimento riunito sotto un manifesto programmatico che dettasse le linee di una dichiarazione di poetica condivisa: ad accomunarli è soprattutto una tensione etica e civile espressa attraverso le arti visive.

La loro storia, un giorno, andrà scritta con maggior dettaglio, seguendo la traccia dell’accurato lavoro di ricostruzione fatto da Francesca Pensa in Cinque artisti a Milano (Milano, Mazzotta 2003), il catalogo della loro mostra curato insieme a Rossana Bossaglia per la Galleria d’Arte Contemporanea Cascina Roma (oggi “Virgilio Guidi”) di San Donato Milanese. Nel frattempo, con uno sguardo agli esiti più recenti del loro lavoro, è particolarmente interessante seguire i percorsi di questi artisti e capire come le loro esperienze costituiscano un campione significativo della dinamica evolutiva di una generazione di artisti entro il medesimo contesto: ci si accorgerà che, al di là delle scelte di stile, i punti in comune sono più di quanti ad un primo sguardo non si sia disposti a credere.

I due caratteri più lampanti sono anagrafici e geografici: nati a cavallo fra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, tutti e cinque cominciano presto, chi al liceo chi all’Accademia, a frequentare l’ambiente di Brera. Non a caso, infatti, la monografia del 2003 specificava trattarsi di artisti non “milanesi” ma “a Milano”, puntualizzando come, ancora per questa generazione, sia un dato fondamentale, più della terra dei propri natali, il contesto in cui avviene la prima formazione e il percorso degli anni successivi.

Questi dati, se ben interpretati, permettono di capire molte cose. Significano, prima di tutti, arrivare in tempo per vivere in pieno la stagione della contestazione politica e studentesca, militando nel Collettivo degli Studenti dell’Accademia di Brera o in altre forme di mobilitazione culturale. E significa, al tempo stesso, avere come maestri gli artisti della cosiddetta terza generazione, quella uscita alla ribalta nei primissimi anni del Secondo Dopoguerra, adolescente durante la guerra e pronta a mettere in discussione la vulgata dell’Informale e

a cercare nuovi valori per le arti plastiche: è la generazione che per molto tempo, con dizione tanto impropria quanto fortunata, è stata definita del “Realismo Esistenziale”, e che cercava una via d’uscita o dal Realismo in senso stretto o dalla pittura di gesto più intimista e soggettiva. Erano quegli artisti, insomma, che cercavano di conciliare la nuova libertà ottenuta tramite l’espressione del puro segno e la possibilità di un racconto per immagini che non cadesse nell’illustrazione didascalica. Significa questo, per Maria Jannelli e Antonio Miano, l’essere stati allievi al liceo di Pietro Plescan, singolare e appartato esponente della Nuova Figurazione, allora assistente di un pittore più compassato come Francesco De Rocchi. Lo stesso può dirsi per Renato Galbusera, allievo di Giansisto Gasparini e dello scultore Floriano Bodini, a cui resterà legato da grande amicizia. A questi nomi, poi, se ne devono accostare almeno altri due, ancora tutti da studiare, a cui questi artisti resteranno sempre legati, anche senza un rapporto diretto di maestro-allievo durante gli studi: Dimitri Plescan, fratello di Pietro, e Pietro Leddi. Un ruolo non trascurabile, per un portato diverso che cala nel profondo della stagione politica, è quello con Fernando De Filippi, di cui Miano sarà assistente per alcuni anni. In una storia di lungo periodo dell’arte a Milano del secondo dopoguerra, questo intreccio andrà chiarito e puntualizzato, mostrando quegli elementi di continuità e la trasmissione di modelli, oltre che di valori, da artista ad artista secondo parlate diverse ma traiettorie affini.

E su un fronte diverso, la prima stagione di Pino Di Gennaro non è rimasta impermeabile alla problematicità messa in campo da Alick Cavaliere, di cui è allievo al corso di scultura dell’accademia, prima di diventare per quasi un decennio assistente di Arnaldo Pomodoro. Più appartata, rispetto a questo discorso, la ricerca di Claudio Zanini, allievo in Accademia di Mauro Reggiani, che porterà le sue riflessioni verso altre questioni problematiche, interferenti con il lavoro degli altri quattro su un altro punto del discorso.

Merita ricordare questa situazione di contesto e il percorso dei maestri di questi artisti, comunque, perché la loro formazione avviene in un momento cruciale di questo sviluppo: quando frequentano il liceo e poi l’Accademia, nel pieno degli anni Sessanta, il tentativo di stabilire una nuova grammatica della pittura e della scultura, nuove possibilità di “relazione” fra gli oggetti portati in pittura e i loro referenti nel mondo reale, erano già compiuti. Quanto era stato oggetto di accesi dibattiti e tormentati tentativi di rinnovamento arriva a loro come un dato naturale, come se fosse sempre esistito: sono troppo giovani, per esempio, per subire l’onda d’urto, ammesso che tale sia stata, della Biennale Veneziana del 1964, con cui canonicamente certa storiografia artistica vuol far cominciare l’avvento in Europa della Pop Art. In ogni

caso, i valori “pop” hanno già, in quegli anni, una tradizione consolidata, decretata e ufficializzata, più che rivelata per la prima volta, dal padiglione americano della XXXII rassegna lagunare. Eppure, come ricorda la Pensa nel suo saggio del 2003, al liceo Liliana Balzaretti porta i propri giovanissimi alunni a vedere una mostra di Francis Bacon, che altro non può essere se non la grande antologica ordinata da Franco Russoli e presentata da Luigi Carluccio alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, sempre nel 1964: una mostra, questa, che ha cambiato per molti versi i destini della pittura “di racconto” in Italia.

2. Ripensare la tradizione moderna.

Superato questo momento di partenza, pur conoscendosi da sempre questi artisti decidono di fare gruppo soltanto nei primi anni Ottanta. Si può dare una data di inizio nella mostra Atelier, tenutasi a Palazzo Dugnani di Milano fra dicembre del 1983 e gennaio del 1984. In quel contesto, in cui comparivano anche Bruno Pellegrini, Stefano Pizzi e Rosario Ruggiero, gli otto artisti avevano reinterpretato e dipinto nel proprio stile, quasi un vero e proprio lavoro di “traduzione”, ciascuno un dettaglio del grande dipinto di Gustave Courbet del 1855. Gli intenti dichiarati dagli artisti in catalogo sono chiari: rifare e rendere omaggio a quest’opera «significa soprattutto illuminare alcuni elementi essenziali all’interno della pratica artistica». E questi elementi sono soprattutto «il rapporto con la tradizione –l’Universo esistente delle immagini- ma contemporaneamente, la prospettiva di violentarla, capovolgerla, piegarla alle cogenti esigenze di un progetto in divenire; fare i conti, quindi, con il linguaggio che l’ha prodotta e con la storia che essa riassume, misurandone lo “scarto” essenziale ed incolmabile e tuttavia tentare un arduo rispecchiamento». In questo passaggio sono riassunti tutti i nodi essenziali per capire il lavoro di questi cinque artisti nei decenni successivi e lo spirito del gruppo. Ma c’è anche un riverbero dello spirito di quel momento: non andrà trascurato che un gruppo che si costituisce all’inizio degli anni Ottanta, sotto l’egida di Courbet come omaggio alla tradizione, non è senza conseguenze. Da una parte, infatti, sta a identificare il valore della tradizione in un Ottocento caro alla generazione dei loro maestri: è il Courbet “politico” di Mario De Micheli, ma anche il simbolo di un Ottocento realista e sentimentale che i critici della terza generazione, superato il “gusto dei primitivi”, stava recuperando. Nel nome della “tradizione”, dunque, veniva a crearsi un cortocircuito virtuoso nel nome della pittura, e in un momento che è noto, per altri versi, per un certo “ritorno alla pittura”, “ritorno al mestiere” e ritorno alla “figura”. Ma quei ritorni tanto reclamizzati avevano tagliato le radici con la tradizione, trasformandola in un immenso repertorio di immagini (anche loro parlano di un «Universo esistente delle immagini») a cui attingere liberamente e indiscriminatamente con una maniera iattante e volutamente volgare.

Per i cinque artisti in esame, e per molti altri che gravitano nella stessa orbita, era impossibile recidere quel rapporto con il passato, che andava anzi rivisto, ripensato e reinventato, nella

fedeltà a una trasmissione di valori etici e processi operativi. Sta a marcare questa distanza in modo inequivocabile la grande dimestichezza che tutti loro mostrano, da sempre, nei confronti dell’arte del disegno e, talvolta, dell’arte a stampa. La “tradizione” milanese, poi, si stava arricchendo in quel momento di un nuovo tassello decisivo: poco più di un anno prima, fra gennaio e aprile del 1982, al Palazzo dell’Arengario di Milano si era tenuta la prima mostra dedicata agli Annitrenta. Arte e cultura in Italia, che tentava una lettura distaccata, estranea a revisionismi di parte, di quanto era avvenuto nel mondo artistico negli anni del Fascismo. Era quella infatti l’occasione che rendeva possibile, dopo un lungo oblio e una faziosa damnatio memoriae, riconoscere lo spessore di ricerca espressiva di un pittore come Mario Sironi. Era in quel punto, poi, che si riattivavano gli studi su Arturo Martini. Questo significava anche, oltre a un ritorno al museo, una nuova vitalità per alcuni temi cari al Novecento: pittura murale, spazio pubblico, ritorno all’ordine.

Questa nuova esperienza, contaminata con la lezione di Nuova Figurazione e con l’invito che questa dava di problematizzare la rappresentazione per renderla vicina ai tempi, non poteva far altro che provocare un risultato inedito.

È un tratto caratterizzante, ad esempio, della coppia Jannelli e Galbusera: per entrambi la scoperta di Sironi, accanto alla metamorfosi in chiave formalistica del lavoro di Floriano Bodini, a cui sono molto vicini, è un fatto fondamentale. Per lei, vicina ai modi di Novecento ma anche a certe suggestioni della Nuova Oggettività, tutto questo significava il recupero di un purismo grafico, di volumi pieni e ordinati, disposti secondo scansioni regolari e ritmi neorinascimentali (ma un Rinascimento quasi “preraffaellita” e visto sicuramente con gli “occhiali” degli anni Trenta). Per lui, invece, Sironi andava a collocarsi nella stessa costellazione dei muralisti messicani. Siquerios e Rivera, in particolare, erano moneta corrente, arrivata anche a livello di divulgazione almeno da quando Mario De Micheli, negli anni Sessanta, aveva scritto i due fascicoli de “I Maestri del Colore” per Fabbri Editore. Come Mario Sironi, e come i muralisti messicani, il suo lavoro avrebbe respiro monumentale anche sul piccolo formato, in virtù di una intensa vocazione formale e di un’aulica intensità drammatica. La pittura severa di Renato Galbusera, in fondo, reinventa il discorso sull’arte monumentale, che ambisce allo spazio pubblico, affollando lo spazio di oggetti e di volumi: è una pittura più cupa, fatta di solida e austera costruzione, di ombre nette che intagliano le figure con il carbone e luci piene. Non c’è posto per i mezzi toni, e non potrebbe esserci in una scelta d’immagine come la sua, votata a un impatto immediato che sovrasta lo sguardo. Qui il frammento, la citazione, si mescolano continuamente: il reperto archeologico diventa parte di un discorso sul presente, entrando nel meccanismo del bombardamento di immagini che franano sull’osservatore. C’è, in lui, una esattezza, un rigore grafico che manifesta apertamente i propri modelli di riferimento, a cui l’artista stesso ha più volte dichiarato di aver guardato con attenzione: la misura di questo nitore delle masse, di questo costruire una scultura in pittura, è figlia del

lavoro di Floriano Bodini, del quale è stato sodale e della cui produzione grafica deve aver risentito, e di Guerreschi. Da quel modello ha desunto una logica di montaggio del quadro per addizione di parti, per accumulo di forme assemblate in senso architettonico, ma non l’interesse, costante invece in Guerreschi, per la fotografia inserita in forma frammentaria o simulata, come effetto della pittura. Al contrario, Galbusera ha accentuato l’aspetto grafico, ha saturato la composizione di oggetti, di figure (o, più spesso, frammenti di figura) che campeggiano in uno spazio insufficiente a contenerle, eliminando quasi il rapporto soggetto-sfondo a favore del soggetto. Il passo da fare, a quel punto, una volta raggiunte le grandi dimensioni, era il salto verso l’estensione del grande racconto che si dipana per metri e metri lineari come una grande saga, in un susseguirsi di momenti salienti tenuti insieme da un concatenarsi di oggetti e figure.

Discorso concettualmente analogo va fatto anche per Claudio Zanini. Prima di arrivare a una

«concezione romantica del paesaggio», come scrisse di lui nel 1997 Marina De Stasio riferendosi ad alcuni piccoli e visionari acquerelli che sondano le possibilità di variazione sul tema dell’orizzonte marino. Allievo di Mauro Reggiani a Brera, Zanini ha un approccio più complesso alla pittura, mediato dall’esperienza della scrittura poetica e dagli studi di filosofia, convogliati nella tesi di laurea, nel 1976, su Il concetto di spazio nelle avanguardie contemporanee e in Paul Klee. Dove non era arrivato l’insegnamento accademico, e l’idea di astrazione rigorosa e geometrica proposta da Reggiani, era arrivata la speculazione intellettuale sulla ricerca delle avanguardie storiche. Dopo una fase di sperimentazioni con interventi su fotogrammi di pellicola, infatti, l’artista si era mosso in direzione dell’arte astratta, tenendo come bussola di riferimento appunto la lezione di Klee: una ricerca di composizione e di leggerezza, su cui innestare riflessioni suprematiste sulla geometria piana elementare e la sua fluttuazione nel campo. Sin da subito, come ha osservato Francesca Pensa nel 2003, la sua ricerca procede per cicli, approfondendo temi ripetuti più volte che hanno assunto «il carattere di iconografie». Passando attraverso eco costruttiviste, dunque, la sua definizione dell’immagine non poteva far a meno del ricorso alla geometria per strutturare il quadro. Allo stesso modo, quando ritorna al paesaggio, all’interno di una visione sublime e luminosa, fatta di due soli elementi (il cielo e il mare) e dei loro reciproci specchiamenti, i cieli sono solcati di raggi luminosi di natura costruttivista che inseriscono un elemento di irrealtà dentro la «nitida dorsale del campo pittorico», come l’ha definita l’artista stesso, della linea d’orizzonte. Non a caso, infatti, in questi anni l’artista realizzerà un ciclo di Variazioni sulla linea dell’orizzonte: una riflessione continuativa sull’idea di infinito. Si direbbe che Zanini lavori programmaticamente per cicli, tenendo fissi degli elementi di continuità da una serie alla successiva. Si arriva così alla recente serie delle croci, quasi una riflessione sulle strutture primarie del campo visivo e dello stesso supporto pittorico. C’è una attenzione verso il gesto e gli effetti di superficie inediti nel suo percorso fino a questo momento. Ma anche questa attenzione materiale, ottenuta

tramite la sovrapposizione e giustapposizione di bande di pittura (un procedimento da “papier collé”) è tenuta dentro una griglia esatta, come un’animazione interna per un motivo predeterminato.

3. Esiti recenti.

Su queste direttrici, il lavoro dei cinque artisti ha percorso i decenni successivi, in un progressivo approfondimento linguistico e iconografico che supera la svolta del millennio. Si potrebbe anzi fare una vera e propria riflessione sui generi della pittura. Nel caso di Maria Jannelli e Antonio Miano, è giocoforza interrogarsi sul significato del tema del ritratto. Per la Jannelli, gli anni Duemila si aprono nel segno del ritratto. Nel 2001, infatti, realizza serie de Figure/città del 2001, giocate esclusivamente sui toni del grigio, caratterizzate da formati rettangolari oblunghi che coglievano la figura insieme a brani di natura morta o a oggetti ad essa relazionati: erano dei racconti serrati, talvolta un po’ claustrofobici forse, di una “mitologia domestica” di cui non restavano fuori le inquietudini esistenziali. Con questa, oltretutto, aveva monumentalizzato i modi del ritratto, compiendo un forte salto dimensionale, di indubbio impatto visivo, rispetto al consueto formato della ritrattistica di uso privato. Subito dopo, nel 2003, inaugurava il ciclo intitolato Le visite: su una serie di fogli di grande formato campeggiano i volti di amiche ritagliati su un caldo fondo arancione. Presentando inquadrature decentrate, talvolta la figura è lasciata parzialmente fuori dalla composizione, come se il dipinto fosse un primo piano fotografico ravvicinato, creando un rapporto dialettico fra il robusto volume del volto e lo sfondo compatto ma non inerte. In entrambi i casi, però, il lavoro prende forma tramite un lento e meticoloso esercizio di pazienza, a pastello e matita su formati considerevoli, raggiungendo un risultato di forte impatto plastico attraverso un lento e progressivo lavorio di tornitura chiaroscurale della forma. Come ha scritto Francesca Pensa nel 2003, Jannelli persegue una «ricercata e a tratti sottilmente inquietante solennità dell’immagine, la robustezza comunque insistita dei corpi e degli oggetti e dell’atmosfera, fantastica certo, ma anche intrisa di domande sospese». Su questa linea, era arrivata a congelare un istante psicologico in una forma esatta, solida di chiaroscuro ma sensibile di tono. Sono giovani volti, quelli dei suoi quadri recenti, di depurata bellezza, algidi talvolta, su cui si è impressa un’emozione, anzi un fremito di vita che interroga lo spettatore: lo sguardo si appunta su di lui e lo inchioda senza vie di fuga. I suoi ritratti operano infatti una radicale operazione di frammentazione: non c’è spazio per la figura intera, perché il volto buca la “soggettiva” della pittura, e non può che giganteggiare, nel suo essere dettaglio ingrandito di un tutto, sul foglio intelato.

Su questi fogli, però, sono comparsi anche volti su cui è necessario fare un discorso diverso. Accanto al lessico familiare di amiche e sodali, infatti, fanno la loro comparsa le icone della letteratura e dello spettacolo, che introducono un discorso diverso, esemplificato con grande chiarezza dal lavoro di Antonio Miano. Per lui erano stati decisivi, come si è detto, i trascorsi con il Collettivo degli Studenti di Brera, negli anni

Sessanta, e gli anni da assistente a Fernando De Filippi. Da questi presupposti era partita la sua riflessione sul linguaggio dei media, servendosi di fotogrammi di film come spunto per la pittura e per una riflessione iconica sull’immagine: erano nati così i primi dipinti bipartiti fra il volto da un lato e un elemento animale o vegetale dall’altra, da cui poi sarebbe approdato, superata una parentesi di ricerca sulla tecnica del mosaico, al ritratto vero e proprio. Un quadro dopo l’altro, Miano, seguendo quell’idea di definizione di iconografie di eroi della modernità cara anche a De Filippi, ha costruito una vera e propria galleria di personaggi del Novecento, che accosta in un pantheon ideale Rilke con artisti come Tatlin e Bracque, letterati come Brecht e Camus, Conrad e Dylan Thomas, Rimbaud e Mallarmé, Borroughs e Samuel Beckett: a prescindere da una valutazione qualitativa, si può dire che queste sono le coordinate di una vera e propria mitologia contemporanea. La sua galleria di ritratti, infatti, assume uno statuto particolare: quello, cioè, delle antiche gallerie di “Uomini Illustri”, collezioni iconografiche di “vere effigi” che dovevano richiamare, in origine, fulgidi esempi di virtù. Traslata ai tempi moderni, invece, una tale galleria non aveva più funzione moraleggiante, ma rispondeva a un’intenzione da parte dell’artista: un ritratto, anzi una serie di ritratti, realizzati come riflessione sul proprio tempo, che non implica le dinamiche fra pittore e modello in posa, bensì sostituisce quest’ultimo con una sua effige bidimensionale. Tramite questi volti, cui il ricorso alla fotografia garantisce la fedeltà fisionomica, Miano non descrive però la psicologia ma, come ha osservato la Pensa, «sembra descrivere la condizione esistenziale del presente, privato di norme e di certezze tranquillizzanti». Al tempo stesso, Miano ha messo a punto uno stile di natura espressionista, in cui il bianco e nero delle fotografie originali viene tradotto su tela su fondo brillante, di tono caldo e campitura compatta, ma tramite «vive cromie non naturali, rese con oli stesi in una studiata sintesi della forma che appare come una traccia di un’urgenza espressiva sedata solo dall’azione pittorica» (Pensa, 2003).Declinate nella grammatica dell’arte astratta, le tensioni che si sono analizzate nei tre artisti figurativi assumono uno statuto diverso. Nel caso di Pino Di Gennaro, per esempio, la questione del confronto con i maestri si muoveva su un duplice piano: da una parte una riflessione sul dinamismo futurista, nella versione scultore boccioniana; al contempo parte della sua ricerca nasceva, come molta scultura fatta a Milano nel secondo dopoguerra, da una costola di Lucio Fontana. Da una parte, le saette indicano una riflessione sulla scultura come indicatore di una traiettoria, di un movimento che si tende in una direzione. Dall’altra, invece, quasi tutte le riflessioni su un intervento nella materia che “ferisce” il volume trova le sue radici nel maestro italo-argentino. Le due lezioni, però, non entravano in contrasto, perché potevano convivere in una ricerca intorno alla materia come dispiegamento di energia in movimento. Al contempo, Di Gennaro non dimenticava le proprie origini pugliesi, come ricorda la costante applicazione, da parte sua, ad un materiale come la cartapesta. Il problema dell’arte pubblica, inoltre, implicava quello dei volumi tridimensionali nello spazio, e di come questi potessero entrare in dialogo con

esso. Se il lungo telero di Galbusera, pur esteso oltre misura a imitazione dei fregi antichi, rimaneva comunque negli spazi dell’opera dipinta, i boschi di steli decorate di cartapesta di Di Gennaro devono costruire una nuova percezione dello spazio in cui andranno a collocarsi. Sul piano invece puramente astratto, si poneva il problema del segno e della sua codificazione. Complice la lunga frequentazione dello studio di Arnaldo Pomodoro, egli era arrivato a una forma di astrazione incentrata sulla commistione di segno e materia, sovente tradotti in motivi grafico-decorativi. Sin da subito, come aveva annotato Roberto Sanesi, la sua opera sembra «stabilire […] il paradosso di una scultura “disegnata”. Avendo a materia, strumento e “soggetto”, in un solo atto, l’aria, o lo spazio che il gesto dell’artista attraversa».

Su questo punto si gioca lo scarto, come per gli altri artisti, fra il lavoro di Di Gennaro e la lezione trasmessa dalla tradizione: il suo segno non è una traccia emotivamente impressa sulla materia, sia essa bronzo, pietra o cartapesta, ma un alfabeto di segni che rimanda a un immaginario cosmico.

Allo stesso tempo, sono evidenti le matrici surrealiste a monte della sua foresta: «non c’è oggetto di materia minerale» scriveva Rossana Bossaglia, «il quale non sia anche corolla di fiore; anzi, Di Gennaro raffigura persino boschi minerali, nell’intenzione di sottolineare l’identificarsi tra loro e il combaciare degli stati di natura». Infatti, prosegue la studiosa, «dietro ogni elemento naturale o evento storico egli vede concatenarsi e slittare un avvicendamento di situazioni. Non tanto dunque, il suo linguaggio appare come una sublimazione del reale, quanto una formula espressiva che traduce affinità e confluenze: e, si badi, quando egli interpreta le profonde trasformazioni nei paesaggi da un’immagine all’altra, non intende, nella più parte dei casi, sottolineare il nascere di forme leggibili da un magma inintelligibile, bensì il legame tra le forme e il loro corrispondersi». È un’invenzione da vera e propria arte fantastica: con questo termine, negli anni Sessanta, nei già ricordati “Maestri del Colore”, Emilio Tadini interpretava il lavoro di Max Ernst, pronto a tornare in circolazione come elemento rivitalizzante per nuove invenzioni creative. Trasportato agli anni Duemila, però, quel repertorio surreale, che siano sfere trapunte di segni di un alfabeto arcaico e misterioso, o che siano steli cilindriche allungate come cortecce riccamente decorate -pietrificate in un gioco di simulazione della materia grazie a un uso antinaturalistico del colore o, nel caso del bronzo, della patina- rievoca certi motivi dell’immaginario fantascientifico, che vanno a sovrapporsi a una programmatica dichiarazione di poetica sensibile al mondo astrale e soprannaturale.

In questa stagione della vita, per i cinque artisti di cui si è fin qui parlato è giunto dunque un momento di maggiore compiutezza formale: il momento in cui i contenuti visivi e semantici, stabilizzati e definiti, trovano la loro univoca identità di stile. Il momento in cui ci si promette, a propria volta, di trasmettere i propri valori a chi verrà dopo.

Biografie?

Pino Di gennaro

Prima, incisa era l’argilla

dallo scriba con acuminato stilonel pianoro torrido di Uruk

Poi, il vento aspro di millenni,vortici di sabbia, mari e stellevertiginoso abisso temporale.

Ora, altri segni sussurrano enigmi,sognate tracce d’alfabeti ignoticostellazioni d’astri e flottiglia argentata di delfini e fogliami,

in lampeggiante ragnatela d’indizi.

Sontuosa, nei metalli fusi oumile nell’argilla dei deserti,

eterna memoria ha la scrittura in sé custodisce il Verbo.

Paiono steli ritti di selva strana,figlio ciascuno di metamorfosi, (1)

anelanti antica spoglia umana. Ma ora, alti svettano nel cielo,

pilastri esili in sontuosa fioritura.Giù, odono il respiro tellurico

vibrare in fibre di ricca materia.

Non più volubile umana natura,ma pilastri tesi all’infinito cielo,

sagitte fisse su pianeti e stelle.

(1) Sono le Metamorfosi di Ovidio

renato galBusera

Umili oggetti, la casa, la città,

membra disperse: la carne dell’uomo,la sua dimora e la sua storia.

Ininterrotto agone di luce e d’ombra, mai disgiunte nell’eternità,l’una generatrice dell’altra eppure in conflitto perenne.

La luce lampeggia, taglia orizzontisottrae all’ombra i corpi, ma l’ombra

ne sbalza i volumi accrescendo il vigore dei corpi assetati di luce

che nel tumulto scavano ombrepiù vaste e profonde, sempre anelanti

indelebili barbagli di tremula luce.

Non c’è quiete nel cuore della storia,tenebre abissale o accecante chiarore.

I rossi sono stendardi di fiamma,ardono d’insanguinati incendi

e nelle carni d’animali smembrati.

I rossi abbagliano nei panni lussuosi;feriscono, sulle membra straziateinebriano nelle coccarde sul pettoesultano nella passione dei corpi.

I rossi fremono su labbra dischiusenella parola dell’indomabile rivolta.

Maria Jannelli

Lasciano scie luminose gli sguardi,

qualcuna velata d’ombra leggeraaltra vivida, cela lieve sorrisoaltre ancora, tracce palpitanti

d’ansia perduta in vaghi orizzonti.

Incrociano i nostri occhi indifesisguardi colmi di trepida luce;

come crepitanti nastri nel vento porgono muta un’interrogazione,trepida, una richiesta d’ascolto.

Alice

Pensa: la luce mi stupiscequasi fosse mia stessa materiaalito lieve d’inebriati fantasmi

che mi rapirebbero altrove,lungi volando sull’ala dei sogni.

Dice: mi trattengono azzurre scarpette

elegante la fibula d’oroe, non ditelo, l’ombra celeste

d’un latteo coniglio impaziente.

antonio Miano

Volti, che ci fissano dalla scabra

sponda del secolo trascorso,- fetida marea di putrefazioni e

scoria d’innominabili relitti -

volti, sfatta materia devastatain fioritura d’ulcere e tumori

ma lo sguardo trapassa, squarcia sgomento, la falsa coscienza

dell’occidente immemore dei pogrom e dei roghi ardenti nelle piazze, ne

trafigge il cuore di luttuosa tenebra.

Loro sanno, in silenzioBeckett, Burroughs, Bukowsky,

lo sa Dylan Thomas, soprattutto,che la morte non ha dominio.Ci guardano, muti e irridenti,- Beckett, occhi di gelo rapace

Bukowsky, desolato e mite sorriso Burroughs, labbra lame sottili

svelanti irrefrenabile riso interno -. Tuttavia tacciono, sebbene

un mormorio flebile sembri ronzarenel silenzio, quasi dicesse qualcosa.

Dylan Thomas lo sa, matto qual era,che dopo la morte, la mortenon ha più dominio alcuno.

ClauDio Zanini

Il quadrato nero respinge

ogni metafisica intenzione;ha, raggelata, l’emotività d’una banchisa boreale,

vano è indurlo all’allusione d’un qualsivoglia altrove.

Tacito, ci avverte:sono uno specchio oscuro

ma nulla rifletto (1)

(1) Jean Cocteau sosteneva che “gli specchi dovrebbero riflettere un momento

prima di riflettere le immagini”:in questo caso, lo specchio nero

ha riflettuto, quindi nulla riflette

Il nero è avido, pare indifferentementre aspira, succhiando luce,la inghiotte nell’inabissarsinel sé più oscuro della notte.Freme la luce nelle strette feritoiesi scrolla, vorrebbe svincolarsima, sontuoso, il nero l’avvolge.

Il bianco è anemico e glaciale,affusolate dita, unghie esanguiarrotondate, si lascia suggere,si vela di penombra, smuore.

Il nero ha l’attitudine perversa d’allargarsi debordando impavidooppure di ritrarsi concentratoentro confini esigui e inespugnabili.Non è il velo luttuoso della nottené ala d’ombra incupita e minacciosa negli spauriti sussurri di catacomba.È pozzo angusto, capocchia di spillod’oscura luce, densa oltremisura

Ci si danza intorno, al nero,s’intreccia lugubre la danzadel dolore, oppure il girotondoebbro delle passioni, tuttaviaoltre i bordi freddi nulla trapela.È come stella polare inabissata nelle latebre oscure degli spazilaggiù, da sempre tace mada remote voragini c’interroga.

Il bianco è d’accecante insistenzae ti sfinisce con falsa benevolenza.Il nero si contrae anche se immenso.Sembra ritrarsi in irrisoria macchiolinache rapida zampetta via, inquietante;sembra dileguata nella fessura,ma, in guardia! è pronto a dilagarein nereggiante frotta alla riscossa.

Respinge l’invasione del sensoe l’ansia d’ogni minima emozioneil quadrato nero suprematista.Se lo guardi, pare fissarti alterocon la quadra pupilla di Gorgone,come volesse dirti sottovoce:perché tremi e t’interroghiperduto entro enigmi vani?Il quadrato nero È, nulla significa.

È un’oscura macchina, il nerodi smisurati e occulti meccanismi,trascorre in raddensata ombrarapida s’incurva in possenti arcated’onde immense e filiformi tracce:qualcosa entro l’abissale ventrenasce e, smisurato, cresce.

Tutto è fiammeggiante ma molto fragile,la bandierina arancione ci mette in allarme:un sole nero domina lo spaziocome l’oscura pupilla di Gorgone


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