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LA LEZIONE SU "VERDI PANNI, SANGUIGNI, OSCURI O PERSI" (RVF XXIX) DI BENEDETTO VARCHI ACCADEMICO INFIAMMATO

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MARIA TERESA GIRARDI

LA LEZIONE SU “VERDI PANNI, SANGUIGNI, OSCURI O PERSI” (RVF XXIX) DI BENEDETTO VARCHI ACCADEMICO INFIAMMATO

Il contributo portato dalla padovana Accademia degli Infiammati (1540-’42) all’evoluzione del petrar-chismo medio-cinquecentesco, non solo in area veneta, viene messo in luce attraverso un’indaginesul programma delle lezioni accademiche dedicate alla poesia toscana, prime attestazioni di unaricerca del linguaggio della critica letteraria. Dal canone dei testi, proposti in particolare da BenedettoVarchi, emerge la predilezione per una scrittura poetica in cui l’altezza dello stile e la densità concet-tuale trovano corrispondenza, sul piano formale, nella difficoltà tecnica e in marcate soluzionistilistiche. È il caso della canzone petrarchesca Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi, oggetto diuna lettura varchiana conservata finora manoscritta, autografa, di cui si dà l’edizione commentata.Condotta nel confronto serrato con i precedenti interpreti, l’impegnata analisi del Varchi offre qualcheapporto anche alla storia dell’esegesi petrarchesca nel Cinquecento.

Il 12 settembre 1540, nell’adunanza domenicale dell’Accademia degli Infiammatidi Padova, davanti ai soci e a un vasto pubblico di uditori, Benedetto Varchiespone il sonetto di Pietro Bembo A questa fredda tema (Rime, XXX). È la prima,se non probabilmente in assoluto, ma di cui si ha documentazione certa, di unaserie nutrita di pubbliche lezioni, in calendario la domenica e il giovedì, chetestimoniano l’impegno nell’ambito del genere lirico, sul versante dell’eserciziocritico, della giovane compagine patavina 1, il cui apporto all’evoluzione del petrar-chismo medio-cinquecentesco non solo di area veneta, nonché alla storia dell’e-segesi petrarchesca, non ha ancora ricevuto tutta l’attenzione che merita.

Giacciono ancora inedite, infatti, in biblioteche e archivi, alcune di questeletture, mentre delle poche date già allora alle stampe mancano edizioni moderne;altre, delle quali si ha notizia, ma del cui testo non è rimasta traccia, attendonoindagini che ne permettano, eventualmente, il rinvenimento e conducano a unaricostruzione il più possibile completa e particolareggiata della serie degli appunta-menti accademici 2. Allo stato attuale delle ricerche, è possibile restituire, relati-

Aevum 3/2005 - Maria Teresa Girardi

1 La lezione si legge in B. VARCHI, Opere, II, Trieste 1859, 562a-568b. Sull’Accademia degliInfiammati, fondata il 6 giugno del 1540 da Leone Orsini, vescovo del Frejus, con la collaborazionedello stesso Varchi, di Ugolino Martelli e di Daniele Barbaro, e attiva presumibilmente fino allaprimavera-estate del 1542 si vedano: V. VIANELLO, Il letterato, l’Accademia, il libro, Padova 1988e M.T. GIRARDI, Il sapere e le lettere in Bernardino Tomitano, Milano 1995. Le letture accademichedovettero avere inizio già dal primo mese di vita dell’Accademia, ma la documentazione in propositoè scarsa e non fornisce dati precisi: VIANELLO, Il letterato, 52.

2 Una ricognizione comunque ben documentata è offerta da R.S. SAMUELS, Benedetto Varchi,the ‘Accademia degli Infiammati’ and the Origins of the Italian Academic Movement, «RenaissanceQuarterly», 29 (1976), 599-634, da, pur con qualche svista, VIANELLO, Il letterato 71-91 e da S. LO

RE, Benedetto Varchi. Contributi per una biografia. Tesi di dottorato in Storia moderna, Universitàdegli Studi di Catania, 1995-’96. Di alcune delle letture accademiche di Benedetto Varchi, UgolinoMartelli, Alessandro Piccolomini, relative alla lirica contemporanea, è stata annunciata l’edizione, a

vamente alla lirica toscana, un programma approssimativo: la domenica succes-siva alla lezione del Varchi su A questa fredda tema, il 19 settembre, è il giovanefiorentino Ugolino Martelli a cimentarsi ancora con Bembo, leggendo il sonettoproemiale delle Rime, Piansi e cantai lo strazio e l’aspra guerra 3; quasi tuttevarchiane sono poi le letture che si susseguono dall’ottobre dello stesso 1540 aiprimi mesi del ’41, sul sonetto alla gelosia di Giovanni Della Casa, Cura, che ditimor ti nutri e cresci; su un sonetto d’occasione di Ludovico Dolce, tra settembree ottobre, e su uno di Daniele Barbaro; sul Petrarca di Non da l’hispano Hiberoa l’indo Ydaspe (Rvf CCX) e di Amor che ’ncende il cor d’ardente zelo (RvfCLXXXII). Nel dicembre il Varchi torna al Bembo, esponendo il sonetto Se lapiù dura quercia che l’Alpe aggia (Rime, CV), mentre il 3 febbraio 1541, digiovedì, è la volta della canzone petrarchesca Spirto gentil (Rvf LIII) 4.

Se, rispetto all’elenco ricostruito, questa è la prima lezione accademica nondedicata a un sonetto, la data del 3 febbraio è anche il terminus ante quem dell’e-sposizione, sempre varchiana, di Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi (Rvf XXIX),per la quale il terminus post quem è invece la lettura di sei sonetti di Petrarca tracui il CCX: nella lezione su Verdi panni, infatti, il Varchi motiva la sua scelta diesporre una canzone con ragioni, tra l’altro, di varietà metrica, “essendosi lettiinfin qui sempre [prima stesura: “sei de’”] sonetti”, mentre poco più avanti,trattando delle “sorti et maniere di amore”, richiama alla memoria degli uditoriquanto “si disse nella espositione del sonetto Non dall’hispano Hibero all’IndoIdaspe”. La lezione è conservata manoscritta, autografa, a Firenze, Archivio diStato, Carte Strozziane, serie III, 206, ff. 41r-48v e 68r-78v: se ne dà qui l’edizionecommentata, unitamente, in Appendice, al testo di una prima parziale stesura,anch’essa autografa e corrispondente alla zona proemiale della lezione, fino al f.44r, che si legge nelle stesse Carte Strozziane ai ff. 93rv e 96rv 5.

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cura di Franco Tomasi e Paolo Zaja, per la casa editrice Res; sono inoltre di prossima pubblicazionei contributi di di A. ANDREONI, Benedetto Varchi all’Accademia degli Infiammati. Frammenti ineditie appunti sui manoscritti, su «Studi Rinascimentali», e Questioni e indagini per l’edizione delleLezioni accademiche, in Benedetto Varchi nel quinto centenario della nascita (1503-1565). Atti delConvegno di Firenze, 16-17 dicembre 2003.

3 La lezione è conservata a Padova, Bibl. Civ. nel cod. ms B. P. 1830, ff. 2v-14r: si veda infra,p. 679. Su di essa, come documento di critica delle varianti e con ricco corredo bibliografico, G.BELLONI, Laura tra Petrarca e Bembo, Padova 1992, 307-20. Sembra che Ugolino avesse già lettopubblicamente in Accademia al tempo della sua fondazione: VIANELLO, Il letterato, 82. Il Martelli,protetto del Varchi, dotto grecista e latinista accostatosi al volgare in terra padovana, ebbe ruoli diprimo piano nell’Accademia degli Infiammati, come poi, ancora assieme al Varchi, nell’AccademiaFiorentina. Su di lui: V. BRAMANTI, Ritratto di Ugolino Martelli (1519-1592), «Schede Umanistiche»,2 (1999), 5-53.

4 La lezione sul sonetto del Della Casa è edita in VARCHI, Opere, II, 570a-578b; la lezione suRvf CCX, conservata a Firenze, Archivio di Stato, Carte Strozziane, serie III, 206, ff. 80r-81v, 92rv,94r-95v, è stata edita da S. BALLERINI, Benedetto Varchi aristotelico ficiniano, «Misure critiche», 78-79 (1991), 25-42. La lezione su Rvf CLXXXII è conservata in ASF, Carte Strozziane, serie III, 206,ff. 29r-34r; la parte iniziale della lezione sul sonetto bembiano Se la più dura quercia è conservataa Firenze, Bibl. Naz., Filze Rinuccini, 10, fasc. 30, ff. 259v-261v; un’altra stesura in ASF, CarteStrozziane, serie III, 206, ff. 107r-109r. Della lezione su Spirto gentil, per quanto mi risulta, non èrimasto il testo: ad essa, come avvenuta da pochi giorni, si riferisce esplicitamente AlessandroPiccolomini nella sua lettura su un sonetto di Laudomia Forteguerri, tenuta il 6 febbraio. Si trattadell’ultima lezione accertata del fiorentino, che nel marzo avrebbe lasciato Padova e gli Infiammati,alla volta di Bologna, alla scuola dell’aristotelico Boccadiferro.

5 Di questa lettura varchiana, insieme a quelle su Non da l’hispano Hibero a l’indo Ydaspe eAmor ch’incende il cor d’ardente zelo è stato dato il testo nella tesi di laurea di Selene Ballerini,

Tre giorni dopo la lettura di Spirto gentil, domenica 6 febbraio, sale sullacattedra di lettore il senese Alessandro Piccolomini che presenta il sonetto Orat’en va superbo, or corri altero della poetessa sua concittadina LaudomiaForteguerri 6: è l’ultima lezione accademica sulla lirica moderna di cui sono finoranoti con certezza relatore e cronologia.

Ma all’elenco sono da aggiungere almeno due altri interventi: una secondalettura di Ugolino Martelli su Chiare, fresche e dolci acque, della quale non èrimasta traccia, e una, priva di indicazioni dell’autore, su Triumphus cupidinis I,distribuita in due domeniche successive. Un’ampia porzione della parte svolta laseconda domenica, dove si disquisisce sulla natura dei sogni fino al commentodel v. 7, è leggibile, adespota e anepigrafa, nel codice di Padova, Bibl. Civica,B.P. 1830 contenente vari scritti in buona parte relativi all’attività degli Infiammati,tra cui la lezione bembiana del Martelli 7. Un accenno contenuto nel segmento dilezione sui Trionfi ne permette la collocazione in questo primo periodo di vitadegli Infiammati – fino alla reggenza del Piccolomini nella primavera-estate del’41 compresa – quando lingua latina e volgare, poesia classica e moderna, filosofia,teologia e diritto, si dividevano pacificamente gli spazi nel programma accade-mico: viene fatta menzione, infatti, di una lettura sopra la prima ode di Orazio,successiva alla prima parte della stessa lezione sui Trionfi (svoltasi, dunque, oquella stessa domenica, o nell’incontro infrasettimanale del giovedì), tenuta“dall’ardentissimo nostro Messer Conte vicentino” 8. Oltre che individuare unafigura, a quanto mi risulta, finora non annoverata tra i soci ‘infiammati’, se nelrelatore della conferenza oraziana non è errato riconoscere il vicentino Conte diMonte, medico e poeta attivo in quegli anni a Padova 9, il particolare citatoaggiunge anche un tassello alla ricognizione della serie di conferenze dedicate aiclassici greci e latini contemplate dal programma ‘infiammato’.

Anche in tale ambito si esercita – occorre almeno farne cenno – l’impegnodel Varchi, lettore di Teocrito (23 settembre 1540), di Tibullo, di Orazio delle

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La critica petrarchesca di Benedetto Varchi, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Firenze,a.a. 1985-86. Un dubbio circa la collocazione cronologica della lettura su Verdi panni proviene daun altro passaggio in essa contenuto, in cui il Varchi, ricordando che lo statuto dell’Accademiaprevedeva lezioni anche sui classici, dice di voler leggere una canzone, dopo la serie di sonetti, primache “alle cose latine e greche si trapassassi” (vedi infra, pp. 695 e 716). L’affermazione potrebbesemplicemente significare che le successive letture in calendario avrebbero riguardato i classici; mase va interpretata come annuncio di letture classiche dopo una serie esclusivamente volgare, occorre-rebbe anticipare la data della lezione, così come di quella dei sei sonetti tra cui Non da l’hispanoHibero, prima del 23 settembre, quando lo stesso Varchi lesse la Siringa di Teocrito, dunque inprossimità della sua lezione bembiana o in una data ancora precedente.

6 La lezione fu data alle stampe già nel luglio del 1541: Lettura del signor Alessandro PiccolominiInfiammato fatta nell’Accademia degli Infiammati, Bologna, per Bartolomeo Bonardo e Marc’Antonioda Carpi, 1541.

7 Il codice è stato descritto da A. DANIELE, Speroni, Tomitano e gli Infiammati, in SperoneSperoni, Padova 1989, 50-53, che però ha erroneamente segnalato la lezione come dedicata a RvfCCCLXVI. Qualche notizia sul codice, in relazione a una lezione grammaticale del Varchi, in A.ANDREONI, La lezzione seconda sulla grammatica di B. Varchi, «Nuova rivista di Lett. ital.», 6 (2003),137-68. L’ampio frammento della lezione sui Trionfi è ai ff. 128r-138r.

8 B.P. 1830, f. 128v.9 Conte da Monte (Antonio Pigatti), nato a Vicenza nel 1520 e ivi morto nel 1587, studente,

negli anni degli Infiammati, e poi docente di medicina nello Studio patavino, quindi luminare dellamedicina a Vicenza, fu anche letterato: compose una tragedia, Antigono, d’argomento biblico: T. PESENTI,Da Monte Conte, in DBI, XXXII (1986), 363-65.

Odi, dell’inno psudo-omerico A Pallade, di Aristotele: degli Analitici Primi, delleMeteore e, soprattutto, a partire dal 1° ottobre, dell’Etica Nicomachea, esposta,nelle intenzioni e nelle prime lezioni, in volgare, poi in latino a causa della fittapresenza di studenti stranieri tra il numeroso pubblico 10.

Pur certamente parziale e provvisoria, la ricostruzione del ciclo di letturepromosso dall’Accademia padovana nel primo anno della sua attività è tuttaviasufficiente per alcune, sintetiche, considerazioni.

Anzitutto, assisi sulla cattedra di lettore di poesia, sono gli ‘infiammati’toscani, che onorano la tradizione del petrarchismo bembiano nella sua terra diorigine e vi portano le voci della propria, del fiorentino Della Casa e della seneseForteguerri. L’impegno in prima linea del Varchi, del Martelli, del Piccolomini(per citare solo le figure più significative e del cui operato come lettori è rimastala testimonianza testuale) 11, toscani legati al Bembo da rapporti stretti di stima eamicizia, è uno dei fattori determinanti la specifica identità culturale del cenacolopatavino, luogo dell’incontro tra il lascito umanistico di matrice bembiana, gliorientamenti della tradizione filosofico-scientifica dell’illustre Studio cittadino,l’influsso della cultura fiorentina. Nelle lezioni petrarchesche e bembiane delVarchi e del Martelli il retaggio culturale del neoplatonismo fiorentino si incontracon l’insegnamento aristotelico e con una disposizione, seppure secondaria rispettoal preponderante interesse ‘contenutistico’ di ordine filosofico, verso il fattoformale, linguistico e retorico, di ascendenza bembiana.

D’altra parte, è noto l’influsso che l’Accademia degli Infiammati esercitòsulla vita culturale di Firenze, non solo attraverso il Varchi e i suoi concittadini‘infiammati’ che misero a frutto l’esperienza padovana una volta tornati in patria,influenzando gli orientamenti della nascente Accademia Fiorentina 12, ma grazieai contatti stretti che essi mantennero sempre, durante il soggiorno in terra veneta,con gli amici e i maestri della città natale, con Pier Vettori tra i primi. I modi ei tempi della diffusione, per la verità non solo fiorentina o toscana, di alcune delleloro lezioni padovane ne sono eloquente testimonianza: neppure due mesi dopoil suo svolgimento, la lettura bembiana del Varchi circolava riscuotendo plauso aRoma e a Firenze, dove anche era giunta, nello stesso torno di tempo, quella di

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10 VIANELLO, Il letterato, 75-76 e 86-91. Restano inoltre tracce di orazioni, latine, di argomentoteologico e notizie di lezioni su argomenti legali. Quando, nel novembre del ’41 Sperone Speroni fueletto ‘principe’ dell’Accademia, per sua volontà le lezioni furono esclusivamente in lingua volgaree il ventaglio disciplinare si limitò alle sole poesia toscana, volgare, e filosofia: il Piccolomini esposel’Etica Nicomachea, Bartolomeo Lombardi e Vincenzo Maggi la Poetica di Aristotele, UgolinoMartelli la Retorica; quanto alla poesia, in linea con l’indirizzo aristotelico impresso dallo Speroni,l’interesse si sposta dalla lirica ai generi lunghi e lo stesso Speroni legge ai sodali passi della suaCanace che andava componendo.

11 Ma attiva fu anche la partecipazione di altri giovani fiorentini al seguito del Varchi: AlbertoDel Bene, Carlo Strozzi e Lorenzo Lenzi. Sulla permanenza del Varchi e dei suoi concittadini aPadova: F. PIOVAN, Sul soggiorno padovano del Varchi. Documenti inediti, «Quaderni per la storiadell’Università di Padova», 18 (1985), 171-81.

12 M. PLAISANCE, Une première affirmation de la politique culturelle de Côme Ier: la transfor-mation de l’Académie des ‘Humidi’ en Académie Florentine (1540-1542), in Les écrivains et lepouvoir en Italie à l’époque de la Renaissance, éd. A. ROCHON, Paris 1973, 361-438; SAMUELS,Benedetto Varchi, 622-33. Il Martelli torna a Firenze nell’aprile del 1542, in maggio è nominatoAccademico fiorentino. Varchi risulta iscritto dal marzo 1543 e non tarderà, anche con la collabo-razione di Ugolino, ad egemonizzare in buona misura il complesso dell’attività accademica fino aiprimi mesi del 1546: BRAMANTI, Ritratto, 19-26.

Ugolino Martelli 13. A Roma poi, e precisamente al fondatore degli InfiammatiLeone Orsini, che vi risiedeva stabilmente dal febbraio del ’41, e su sua esplicitarichiesta, Alessandro Piccolomini inviava, in data 7 febbraio 1541, il testo dellalezione da lui tenuta il giorno precedente sul sonetto Ora t’en va superbo diLaudomia Forteguerri: là il manoscritto era venuto tra le mani del tipografoMarc’Antonio da Carpi, che, nel luglio dello stesso anno, a Bologna, lo avevadato alle stampe. Dopo solo un lustro, nel 1545, anche l’esposizione varchianasul sonetto del Della Casa era a disposizione dei lettori nella stampa mantovanadedicata a Gaspara Stampa da un altro frequentatore, se non membro a tutti glieffetti, dell’Accademia infiammata, Francesco Sansovino 14.

Un secondo ordine di osservazioni riguarda il canone degli autori e dei testioggetto delle letture sulla lirica toscana. Se l’archetipo della tradizione, il Petrarca,gode naturalmente di una posizione privilegiata, tuttavia le scelte degli accade-mici infiammati si segnalano per l’attenzione rivolta alla contemporaneità, rappre-sentata anzitutto dal Bembo. A lui il Varchi commentatore di A questa fredda temarende un omaggio a tutto campo, optando per un sonetto che mette a tema ilcontenuto del secondo libro degli Asolani (la compresenza nell’anima dell’inna-morato delle quattro passioni, desiderio, allegrezza, timore, dolore), dal quale eglitravasa, nella sua esposizione, interi segmenti testuali, e cogliendo l’occasione perelogiare le “dottissime e gravissime” Prose 15. Ancora, il canone comprende lagiovane generazione, del Dolce, del Barbaro, e un’esponente della poesiafemminile; infine, il segno più evidente di una posizione di avanguardia, un poetaquale il Della Casa, destinato ad affiancarsi o a sostituirsi al Bembo come modellolirico, ma la cui fama di poeta, a quell’altezza cronologica, era consegnata – aldi là della fuggevole esperienza dei capitoli ‘berneschi’ editi a Venezia nel 1537e ’38 – a pochi componimenti manoscritti, i sonetti in morte di MarcantonioSoranzo e questo sulla gelosia, che sarebbe stato il primo ad essere stampato,cinque anni dopo, insieme alla lezione varchiana e grazie ad essa, nonché nellaprima antologia dedicata alla lirica contemporanea, le Rime diverse di moltieccellentissimi autori, curate da Lodovico Domenichi e stampate dal Giolito nellostesso 1545. Le voci di altri contemporanei poi, quali Francesco Maria Molza e,soprattutto, Ludovico Martelli, fiorentino amicissimo del Varchi, vengono fatteascoltare agli Infiammati attraverso i richiami e le generose citazioni dei loro versinelle lezioni di quest’ultimo.

Certamente nella scelta di tali autori non dovette essere estraneo un fattoresia ‘municipale’ – nella scelta varchiana per il Della Casa e del Piccolomini perla Forteguerri –, sia di appartenenza alla stessa Accademia, per il Dolce e ilBarbaro: per statuto era infatti previsto che i soci inviassero le proprie composi-zioni al ‘censore’ in carica cui spettava la correzione e il commento 16. Ciò, tuttavia,poco o nulla toglie all’importanza dell’operazione compiuta dal cenacolo patavino,che non solo progetta un ciclo di letture pubbliche in cui ai lirici greci e latini e

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13 BELLONI, Laura, 314-15.14 Lettura di M. Benedetto Varchi, sopra un sonetto della Gelosia di mons. Dalla Casa. Fatta

nella celebratissima Accademia degl’Infiammati a Padova, Mantova, per Venturino Ruffinelli, 1545.15 VARCHI, Opere, II, 563a-b e 568b: Asolani, II, XIII e I, XIV e XVI. L’elogio delle Prose

della volgar lingua a 566b.16 Anche Varchi, come Ugolino Martelli, aveva ricoperto la carica di ‘censore’: SAMUELS,

Benedetto Varchi, 616.

al Petrarca sono accomunati i contemporanei, ma che, come è stato di recentesottolineato, applica a questi lo stesso impegno e lo stesso metodo esegeticoriservato a quelli, favorendo un processo che avrebbe portato, di lì a poco, alpieno riconoscimento della lirica contemporanea, sancito dalla citata giolitina delleRime diverse 17.

Quanto al canone dei testi, risultano particolarmente significative nella lorocoerenza e in ordine all’evoluzione del petrarchismo medio-cinquecentesco, lescelte del Varchi, orientate da un criterio e da un gusto che le sue stesse osserva-zioni relative al registro stilistico delle singole liriche aiutano a mettere in luce.Per quanto riguarda i testi bembiani, il sonetto A questa fredda tema appare a lui“grave e dottissimo” e ancora “non men dotto e grave, che leggiadro e ornato”,il cui “stile mezzano” deriva dal contemperamento tra il registro umile richiestodalla struttura dialogica (tra il poeta e Amore) e la dizione alta, conveniente alla“materia grave e filosofica” del componimento, che usa tuttavia “parole più altee gravi, che dolci e leggiadre” 18. “In istile alto e grave” è anche il sonetto Se lapiù dura quercia, che l’alpe aggia 19, espressione drammatica del tormento amorosoed esempio di uno sperimentalismo stilistico piuttosto spinto in direzione petrosa,con un impiego rimarchevole degli enjambement.

La peculiare tessitura lessicale, sintattica e fonetica del dellacasiano Cura,che di timor ti nutri e cresci, dal raro schema metrico delle quartine a rime incate-nate e invertite, è colta dal Varchi che lo definisce “altissimo sonetto, il quale èdi concetti e di parole e d’ordine di rime tutto grave”; inteso a “insegnare e dichia-rare non meno secondo il vero e da filosofo che poeticamente, che cosa è gelosia”,risulta “di materia assai ben difficile” e “pieno di dottrina”. Incentrato sullo stessotema e composto “piuttosto in stile alto e grave che in mezano” è anche il sonettoAmor che ’ncende il cor d’ardente zelo 20, con il quale veniamo ai testi petrar-cheschi. In Non da l’hispano Hibero a l’indo Ydaspe, composto, scrive il Varchi,“in istile alto e grave, et difficilissimo in ogni sua parte” 21, il motivo della peregri-nazione amorosa e della sofferenza per la durezza dell’amata si esprime in unlinguaggio poetico marcato dalla ricchezza e dall’asprezza consonantica delle rime,nonché in una conformazione rimica delle quartine (ABAB BAAB) assolutamenteinusuale, tanto da indurre il Daniello del commento al Canzoniere a modificarloinvertendo l’ordine dei primi due versi. Nella lettera dedicatoria al Varchi premessaall’esposizione dei Trionfi nella princeps del suo commento, il lucchese giustificatale scelta:

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17 F. TOMASI, Introduzione a Rime diverse di molti eccellentissimi autori (Giolito 1545), a c. diTOMASI e P. ZAJA, Torino 2001, XXXIII-XXXIV.

18 VARCHI, Opere, II, 562a-564a.19 BNF, Filze Rinuccini, 10, fasc. 30, f. 261v.20 Le citazioni relative al sonetto del Della Casa in VARCHI, Opere, II, 571a-b. Per Rvf CLXXXII:

ASF, Carte Strozziane, serie III, 206, f. 29r. La parte proemiale all’esposizione di questo sonettopetrarchesco presenta diverse coincidenze con la lezione dellacasiana, che però non mi sembra vengamai citata: ciò indurrebbe a pensare che essa sia avvenuta successivamente.

21 BALLERINI, Benedetto Varchi, 30. Il sonetto CCX è spesso citato nelle poetiche cinquecente-sche (ad esempio dal Tomitano, dal Minturno, dal Tasso della Cavaletta, dove il discorso verte inlarga parte sulla gravitas dellacasiana) come esempio di scrittura improntata alla gravità e all’aprezza:A. AFRIBO, Teoria e prassi della gravitas nel Cinquecento, Firenze 2002, 138-40. Lo stesso Varchi,nel Del verso eroico, lo porterà come esempio della pienezza e sonorità arrecata dalle consonantidal suono aspro (in Opere, II, 717b).

E perché potrebbe per aventura chi che sia di presonzione accusarmi per avere io a quelsonetto [Rvf CCX] mutato principio, tacendo le ragioni ch’a ciò fare mi mossero, dicoprima averlo così in un antichissimo testo scritto a mano (il quale appresso il MagnificoMesser Girolamo Molino) ritrovato. Secondariamente, che stando come ne gli altri [testistampati] si legge, le rime del primo quartetto non s’accordano, e non si rispondono benecon quelle del secondo: il che non si vede ch’egli abbia fatto in niuno altro sonetto [...].Finalmente dico ch’il proprio di questo Poeta è di non por mai un generale nel mezzo apiù particolari 22.

Caratterizzata da “difficultà grande” unita a “leggiadria” e “dottrina”, di stile“mezano, ma grave però et alto quanto più si possa in tale stile”, è la primacanzone petrarchesca su cui cade la scelta dell’‘infiammato’ fiorentino, Verdi panni,sanguigni, oscuri o persi, un esemplare unico nei Rerum vulgarium fragmenta,per l’adozione del modulo provenzale delle coblas unissonans, vicino alla sestina,ma ulteriormente complicato da una struttura di doppie rime interne, nonchécontraddistinto da una forte carica fonetica, specie nel trattamento particolarmenteelaborato delle rime e dalla frequenza degli enjambement. In ragione della peculia-rità metrica, di elevato tecnicismo, e della conseguente oscurità del dettato poetico,anche sulla canzone XXIX, come e più che sul sonetto CCX, si ferma l’atten-zione dei letterati cinquecenteschi, primo fra tutti il Bembo delle Prose. Nellepagine del secondo libro in cui si tratta della gravità generata dalla lontananzadelle rime, la non fuggevole menzione di Verdi panni qualifica la canzone nelsegno dell’‘eccesso’ e della ‘trasgressione dalla norma’, in quanto composta inderoga alla buona regola, sancita dall’orecchio, che consiglia una distanza massimadi tre o quattro, eccezionalmente cinque versi tra le rime, pena la perdita di ogniarmonia:

Il che si vede che osservò il Petrarca; il qual poeta, se in quella canzone che incominciaVerdi panni, trapassò questo ordine, dove ciascuna rima è dalla sua compagna rima persette versi lontana, sì l’osservò egli maravigliosamente in tutte le altre; e questa medesimaè da credere che egli componesse così, più per lasciarne una fatta alla guisa, come io vidissi, molto usata dai provenzali rimatori, che per altro.

Forse per giustificare se stesso, imitatore di Verdi panni nella canzone Sì rubellad’amor né si fugace (Asolani, II, XVI), il Bembo volge in positivo la conclu-sione, osservando che proprio “l’essere uscito di questo ordine” – da parte delPetrarca nella canzone XXIX – “giugne grazia a questo medesimo ordine diligen-tissimamente dallui osservato in tutte le altre canzoni sue” 23. Rispetto a tale ordine,

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22 Sonetti, Canzoni e Triomphi di Messer Francesco Petrarca con la spositione di BernardinoDaniello da Lucca, in Vinegia, per Giovannantonio De Niccolini da Sabio, 1541, f. 219v; = DANIELLO.L’interprete non si è accorto che anche Rvf CCXCV, Soleano i miei penser’ soavemente, presenta lostesso schema rimico; a lui si riferisce dunque Lodovico Dolce, quando, descrivendo la strutturametrica di entrambi questi sonetti, contesta chi non l’ha capita e ne ha invertito l’incipit (Osservazioninella volgar lingua di M. Lodovico Dolce divise in quattro libri, Venezia, Giolito, 1550, 98); e ancoraal Daniello rimanda quanto osservato da Girolamo Muzio delle tarde Annotazioni sopra il Petrarca(anni ’70), dove, giudicando “confuse” le rime di questo sonetto, aggiunge: “e già fu detto a me chein un testo antico scritto si ritrovava: Ricercando dal mar ogni pendice / non dall’Hispano etc. etc.”(G. MUZIO, Battaglie per la difesa dell’italica lingua, a c. di R. SODANO, Torino 1994, 203).

23 Prose, II, XII. Nel successivo capitolo XIII, oggetto di analoga riprovazione è l’eccesso

Verdi panni vale dunque come eccezione alla regola, ma è nella regola, non nell’ec-cezione, che il Bembo addita l’esemplarità.

Infine, del tutto rispondente ai requisiti della gravitas è Spirto gentil, laseconda canzone proposta dal Varchi agli Infiammati, portata a modello dellaforma grave, per esempio, nella Poetica di Bernardino Daniello 24.

Gli interessi varchiani appaiono dunque decisamente rivolti a una scritturapoetica in cui l’altezza dello stile e la densità concettuale trovano corrispondenza,sul piano formale, nella difficoltà tecnica e in marcate soluzioni stilistiche. È, lasua, una propensione per la gravitas, dalla quale deriva la proposta di un petrar-chismo meno ortodosso, di un canone che si fonda sul Petrarca più in ombra,meno imitato, quello in cui si sperimentano artifici tecnici, metrici e foneticiappartenenti al territorio dell’asprezza e della gravità, idonei ad esprimere contenutidi impegno concettuale e di dottrina 25. Un tracciato, quello indicato dal Varchi‘infiammato’, che proprio uno dei poeti del suo ‘canone accademico’, da luipromosso e ‘introdotto’ in terra veneta, Giovanni Della Casa, avrebbe ben prestofatto diventare strada maestra.

Giova ancora aggiungere che, per quanto riguarda la valorizzazione del pianodei contenuti della poesia, il petrarchismo proposto dal Varchi è certamente debitoredella sua formazione fiorentina, ma, anche, è del tutto ‘padovano’ e ‘infiammato’:a Padova, alla ‘scuola’ di Trifone Gabriele si discute intorno al fine conoscitivoe morale della poesia, risolutamente affermato, ad esempio, nella Poetica deldiscepolo Bernardino Daniello, mentre è diffusa tra i sodali accademici, alcunidei quali frequentatori non occasionali del circolo di Trifone, la convinzione chealla poesia pertenga, oltre al delectare, il docere sia sul piano morale che intellet-tuale. Ancora Trifone Gabriele, giusta la testimonianza dell’infiammato Bernardino

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nell’uso della rimalmezzo, responsabile di generare versi aspri e duri e di costringere alla necessitàmetrica la scelta e la disposizione delle parole: accanto alla cavalcantiana Donna me prega, l’esempiopetrarchesco condannato dal Bembo è la canzone-frottola Mai non vo’ più cantar (Rvf CV). Da quila tendenza, negli scrittori di poetica successivi, nonché in alcuni commentatori petrarcheschi (adesempio in Fausto da Longiano), ad accomunare questo componimento a Verdi panni, sia sul pianometrico che della oscurità.

In tempi di poco successivi alla lezione varchiana, l’infiammato Bernardino Tomitano suggeriscela lettura di Verdi panni a un lettore che gradisca una “materia vaga, e quasi una artificiosa confusione”(Ragionamenti della lingua toscana, Venezia, per Giovanni Farri e fratelli, 1546, 289). Ancora, valela pena riportare il giudizio di Sebastiano Minturno, nella più tarda Arte poetica: “Quanto in quella[nella canzone Verdi panni] si tratta, tutto è in laude dell’amata donna, con belle comparazioni e conleggiadre metafore, e con vaghe figure di parlare; ma non senza ordine oscuro, né senza inviluppodi parole duramente tessute, che a tal maniera di rime si concede. E s’è virtù, che si sappia talvoltala testura del dire acconciamente oscurare, secondo che quel maestro antico a suoi discepolicomandava, skÒthson dicendo: e’ mi par che sia propria di questa canzone” (Venezia, Valvassori,1564, f. 234r).

24 B. DANIELLO, Della poetica, in Trattati di poetica e retorica del ’500, a c. di B. WEINBERG,I, Bari, Laterza, 1972, 276.

25 Richard S. Samuels ha parlato in proposito di un interesse primario per gli aspetti tecnicidella scrittura poetica, individuando nella marcata peculiarità stilistica il criterio dominante nellascelta dei testi da commentare: SAMUELS, Benedetto Varchi, 619. Più recentemente Andrea Afribo,riferendosi alla lettura varchiana del sonetto alla cura del Della Casa, ha messo l’accento sulla sceltavarchiana della gravitas, sulla separazione, da parte del letterato fiorentino, del binomio bembiano‘gravità e piacevolezza’ in favore del primo termine: A. AFRIBO, “Si compiaceva più nella gravità”.Note sulla lirica di Giovanni Della Casa, «La parola del testo», 2 (1998), 309-48, ora in Teoria eprassi della gravitas, 19-20 e 51-165.

Tomitano, era solito ripetere che nelle rime del Petrarca, oltre gli artifici e leeleganze della lingua, erano nascosti tesori di sapienza e di dottrina, ed auspicaval’avvento di qualcuno che, dotato di scienza e di facondia, si sarebbe impegnatoper scoprire “l’una e l’altra perfezione” di questo poeta 26.

La volontà di portare alla luce “l’una e l’altra perfezione” dei poeti, le coseche dicono e il modo in cui le dicono, determina la fisionomia delle lezionivarchiane, caratterizzate, innanzitutto, dalla centralità del testo, nel rispetto delquale possono sia realizzarsi l’esigenza didascalica, fortemente sentita, diagevolarne e favorirne la piena comprensione, sia esercitarsi l’impegno interpre-tativo nella spassionata ricerca della verità. Accingendosi alla lettura di unacanzone tanto difficile e oscura come Verdi panni, il Varchi promette: “la qualenoi [...] ci ingegnaremo con ogni sforzo secondo le debili forze nostre, di agevolareet far piana quanto potremo il più, non seguitando nè le spositioni, nè l’autoritàd’alcuno, se non dove et quanto ci paranno concordare col vero et colle propieparole dell’autore” 27.

Dal punto di vista della struttura le letture si articolano secondo uno schemasostanzialmente fisso, rigorosamente impostato lungo la direttrice che porta dalgenerale al particolare, dalla visione complessiva all’analisi puntuale della parte.Fatta salva la presenza di un ampio proemio di carattere filosofico, che introduceal contenuto concettuale del testo muovendo dai principi primi e da verità diordine universale, per il resto esse si strutturano secondo il modello comunementeadottato dai coevi commenti petrarcheschi; rispetto a questi, tuttavia, le lezionivarchiane si distinguono per la ricerca di una prosa nella quale si vada formulandoun’idea embrionale di critica letteraria.

Al proemio fanno seguito, ma l’ordine di successione non è rigoroso, ladichiarazione dell’intendimento del poeta e del soggetto del componimento, dunquedell’inventio; poi la definizione del registro stilistico, dunque del piano in cui siincontrano inventio ed elocutio. La lezione su Verdi panni non consiste di unproemio dalle vaste proporzioni e di ambizioni universali – forse a motivo delfatto che l’autore non revisionò la bozza della sua lettura in vista di una stampa,o di una circolazione pubblica – quanto, piuttosto, di un discorso introduttivo giàstrettamente pertinente al testo in oggetto e finalizzato a dichiararne i fondamentifilosofici; propone, però, aggiunta nella stesura seriore, la descrizione metrica delcomponimento, in ragione della assoluta peculiarità di esso da questo punto divista, nonché la sua classificazione nell’ambito dei genera elocutionis.

La divisione infine, cioè la scomposizione della lirica sulla base dei nucleitematici, in altre parole la dispositio, chiude la presentazione del testo nel suocomplesso e avvia l’analisi puntuale, il commento microtestuale. Questo prevededi nuovo la messa a fuoco tematica e del significato della porzione di testo viavia considerata: nel caso della canzone XXIX l’esposizione procede per singolestanze, delle quali, stante la complessità della costruzione sintattica e la preoccu-pazione didascalica varchiana, viene offerta la parafrasi. L’analisi è condotta poisintagma per sintagma, se non parola per parola, con osservazioni sul pianoesegetico e concettuale; sul piano dell’elocutio, di carattere retorico-stilistico elessicale, ma in direzione piuttosto semantica che grammaticale; ancora, e soprat-

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26 B. TOMITANO, Quattro libri della lingua thoscana, Padova, Pasquati, 1570, ff. 136rv. 27 Vedi infra, p. 695.

tutto, sul piano dell’intertestualità, attraverso la citazione per lo più di luoghiparalleli, talvolta di fonti vere e proprie.

È questa la zona del commento che più lascia emergere la peculiarità diciascuna delle lezioni varchiane, in ragione della specificità del testo, o dell’au-tore preso in esame. È significativo, ad esempio, che nella lettura di A questafredda tema risaltino, ‘bembianamente’, interessi di natura formale, retorica efonetica 28. Rilievi stilistici di notevole portata non mancano neppure nella lezionedellacasiana, che si dedica inoltre all’analisi etimologico-semantica, a propositodel latino cura per gelosia; ma il commento si incarica soprattutto di indagare ilfenomeno dello zelo amoroso con il metodo e gli strumenti del discorso filoso-fico, idonei all’esegesi di un testo intenzionato, secondo l’interpretazione delcommentatore già citata, a “insegnare e dichiarare non meno secondo il vero eda filosofo che poeticamente, che cosa è gelosia”.

Quanto al commento di Verdi panni, la decina di osservazioni di ordinestilistico e retorico che lo punteggiano, spesso accompagnate da giudizi estetici(“bellissima e poetica circonlocutione”, ecc.), e alcune di particolare finezza (lasegnalazione dell’antitesi, nella prima stanza, tra il “vestì” del v. 2 e il metafo-rico “mi spoglia d’arbitrio” dei vv. 4-5), risultano marginali nel complesso dell’e-sposizione: tuttavia acquistano rilievo, diventando segnali di una sensibilità e diun interesse non secondari nel Varchi padovano, se messi a confronto con l’offertapiuttosto deludente, su questo terreno e in relazione a questo stesso testo, nellatradizione esegetica petrarchesca 29.

La tendenza, poi, comune a tutte le lezioni varchiane, al generoso ricorsoall’intertestualità come supporto interpretativo assume una dimensione assaimaggiore in questa lettura petrarchesca, che si distingue per l’accumulo di citazionie di rimandi a luoghi paralleli o a possibili fonti. Mi sembra verosimile, data lasovrabbondanza di tale materiale, specie petrarchesco, a volte ulteriormenteaccresciuto da aggiunte a margine, che il Varchi lo avesse affastellato nel corsodella preparazione del suo intervento, riservandosi magari la scelta più pertinentein sede di relazione al pubblico o di una eventuale necessità di revisione del testo.

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28 Nella lezione varchiana si leggono, osservazioni retorico-stilistiche che, mentre segnalanol’impiego di una figura, ne mettono in rilievo l’efficacia in ordine all’espressione del senso. Così,nella prima quartina, dopo aver illustrato l’impiego dello zeugma (v. 2 che da te nasce, riferito aiquattro soggetti, tema, sperar, gioco, pena), il commentatore conclude: “e perciò pensatamente posenell’ultimo luogo pena, sì come aveva posto nel primo, tema, affinchè si sentissero meglio e rimanes-sero nella memoria dei leggenti queste due passioni, timore e dolore, le quali sono amendue ree edolorose; e l’altre due, speranza ed allegrezza, che sono dolci e care, quasi sotto questo si nascon-dessero”; poco dopo spiega l’effetto ottenuto dalla scelta di legare per asindeto le quattro passioni:“acciocché colla spessezza e prestezza del dimandare, quasi ferisse più volte Amore e con maggiorcolpo” (VARCHI, Opere, II, 564b-565a).

29 In proposito giova ricordare le osservazioni di Luigi Baldacci relative al “disinteresse deicommentatori della Rinascenza per l’aspetto letterario del Canzoniere”. Se esse, alla luce dei piùrecenti approfondimenti sull’esegesi petrarchesca del Cinquecento, appaiono forse un po’ perentoriee bisognose di qualche sfumatura, rimangono tuttavia sostanzialmente valide: “l’interesse critico-rettorico che sarà compiutamente espresso dalle poetiche [...], è assente quasi del tutto dai commential Canzoniere, ove non si tratta di presentare la poesia sotto un aspetto paradigmatico sul piano dellaforma, bensì su quello della vicenda biografica di un uomo esemplarmente eccezionale. Così, notazionidel tipo di queste del Vellutello: ‘artificiosissima canzone’ detto di Verdi panni, sanguigni, oscuri opersi [...] possono considerarsi rarissimi e del tutto incidentali.” (L. BALDACCI, Il Petrarchismo italianonel Cinquecento, Padova 19742, 56).

D’altra parte, egli approfitta ampiamente della possibilità di attingere a quantoofferto in questo senso dai precedenti commentatori, dai quali provengono, comesi documenta nelle note al testo qui di seguito prodotto, parte delle citazioni diautori classici e moderni.

La rosa degli auctores convocati dal Varchi è tuttavia assai più ricca: oltre aquelli presenti nella tradizione esegetica relativa a questo componimento, Virgiliodell’Eneide e Ovidio delle Heroides – sulle quali, però, occorrerà qualche osserva-zione –, Cicerone delle Tusculanae disputationes, infine Terenzio, essa comprendei lirici latini, Catullo, Tibullo, Properzio, e Cicerone del De finibus; più numerosisono i richiami virgiliani, anche alle Bucoliche, e, soprattutto, all’amato Ovidio,delle Metamorfosi, ricordate fin dalle pagine proemiali, dell’Ars Amandi, deiTristia, ancora delle Heroides. Rispetto ai moderni, mette conto solo segnalare,oltre alla doppia menzione del contemporaneo e fiorentino Lodovico Martelli edel Bembo degli Asolani e delle Rime, la presenza tutt’altro che sporadica diDante, della Commedia, del Convivio, delle Rime.

Ma l’impegno del commento a Verdi panni è precipuamente concentrato sull’e-sercizio interpretativo di un testo che occorre liberare, sia a livello della letterache del senso racchiuso, dal velo dell’oscurità. Nella parte proemiale della lezioneil Varchi avverte, lo abbiamo visto, che la “difficultà grande” della canzone èall’origine della varietà di interpretazioni da parte degli esegeti, talune fortementecritiche nei confronti della stessa qualità poetica del componimento, rispetto allequali egli avrebbe mantenuto un atteggiamento equidistante, intenzionato aricercare la verità prima di tutto nelle parole stesse dell’autore.

Analogamente per quanto avviene nella lettura dell’altro componimento petrar-chesco ‘difficile’ e ‘oscuro’, il sonetto Non da l’hispano Hibero a l’indo Ydaspe,il percorso esegetico della lezione è dunque condotto nel confronto serrato con iprecedenti commentatori, gli indefiniti ‘alcuni’ chiamati a far sentire la loro vocenel testo varchiano, che diventa, così, anche una sorta di ‘antologia della critica’della canzone in oggetto. Ne risulta che il Varchi lettore di Petrarca agli Infiammatisi era giovato di pressoché tutti i commenti estesi al Canzoniere dati alle stampefino a quell’epoca: di Alessandro Vellutello, di Giovambattista Castiglione, diSebastiano Fausto da Longiano, di Giovanni Andrea Gesualdo 30. La conoscenzadei commenti quattrocenteschi, del ‘Da Tempo’ e di Francesco Filelfo, va data perscontata, anche se non ne rimane traccia riconoscibile e specificamente indivi-duabile nella lettura.

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30 Le volgari opere del Petrarca con la espositione di Alessandro Vellutello da Lucca, Venezia,Giovannantonio e fratelli da Sabbio, 1525 (= VELLUTELLO); I luoghi difficili del Petrarcha nuovamentedichiarati da M. Giovambattista da Chastiglione, Gentil’huomo fiorentino, Venezia, Giovan Antoniodi Nicolini e fratelli da Sabbio, 1532 (= CASTIGLIONE); Il Petrarcha col commento di M. SebastianoFausto da Longiano, con rimario et epiteti in ordine d’alphabeto, Venezia, Francesco di AlessandroBindoni e Mapheo Pasini, 1533 (= FAUSTO); Il Petrarca colla spositione di Misser Giovanni AndreaGesualdo, Venezia, Giovanni Antonio di Nicolini e fratelli da Sabbio, 1533 (= GESUALDO). Per quantoriguarda il commento del Filelfo, si citerà, per comodità, da Petrarcha coi doi commenti […]. Elprimo del ingeniosissimo miser Francesco Philelpho. L’altro del sapientissimo miser Antonio daTempo, Milano, per Ioanne Angelo Scinzenzeler, 1507 (= FILELFO). Su di essi, riferimenti imprescin-dibili, anche dal punto di vista bibliografico e ai quali dunque si rimanda per ciascuno dei commen-tatori di cui si farà cenno, se non nel caso di contributi posteriori, sono i lavori di G. BELLONI,Commenti petrarcheschi, in Diz. critico della lett. Ital., I (19943), 22-39 e il già citato Laura traPetrarca e Bembo.

Qualche ipotesi può essere avanzata, invece, per quanto riguarda il napole-tano Marco Silvano da Venafro e Bernardino Daniello.

Il commento petrarchesco del primo dei due, composto, a detta dell’autore,entro il 1523, dotato del privilegio di stampa nel 1526 ma edito solo nel ’33 aNapoli, non più ristampato e assai scarsamente diffuso, si distingue fra tutti gli altri,per quanto riguarda l’esposizione di Rvf XXIX, per una valutazione decisamentenegativa nei confronti dell’intera canzone, “men leggiadra e vaga ch’oscura, senzadolcezza, sforzata, faticosa in ogni modo”, di cui, in particolar modo, la quartastanza (vv. 22-28 Ma l’hora e ’l giorno ch’io le luci apersi...) sarebbe introdotta asproposito, priva di qualunque rapporto di consequenzialità con le precedenti:

La presente stanza non depende da alcuna delle stanze di sopra, anzi senza propositoalcuno, di quanto ha parlato sub’intra a dire che l’hora e il giorno ch’egli aprio le luci,ecc. ecc.

Il prosieguo della citazione completa la parafrasi della stanza, che risulta cosìletta come il semplice racconto, da parte del poeta, dei tempi e dei modi del suoinnamoramento 31. La lezione varchiana offre elementi che permettono di ritenereprobabile una conoscenza diretta dell’esegesi del napoletano: nella paginaproemiale il lettore accademico registra infatti, per liquidarla senza complimenticome follia, l’opinione di ‘alcuni’ che hanno accusato il Petrarca di contraddirsipiù volte nella canzone e, ancora, che questa sarebbe stata composta “senza ordine,senza leggiadria, et senza continovatione alcuna”; in corrispondenza della quartastanza, poi, la relativa condanna del Silvano si lascia precisamente riconoscere:

Questa quarta stanza secondo alcuni non dipende di sopra nè ha continovatione con alcunadelle altre, ma entra il Poeta di subito et fuori di proposito come dicono essi, a raccon-tarne, come fanno spesse volte gli amanti, il tempo quando egli s’innamorò et chi ne fucagione 32.

C’è un ultimo elemento. Esponendo la propria idea di partizione tematica dellacanzone, il Varchi fa un rapido cenno ad altre due diverse proposte: l’una di chivuole che il poeta canti la lode della bellezza di Laura e gli effetti che tale bellezzaopera in lui (sono il Vellutello e il Gesualdo); l’altra di chi disegna un percorsodalla lode, all’espressione della pena amorosa, (“nel mezo della canzone – scriveVarchi – [il poeta] si duole”), al finale ritorno alla lode. “Dire della bellezza eornamento di Laura con la pena, che per amarla sentiva” è l’intenzione del poetasecondo Silvano da Venafro, che, poi, commentando la sesta stanza, riporta l’inter-pretazione di ‘alcuni’, per i quali il poeta avrebbe cominciato la canzone con le

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31 Il Petrarca col commento di M. Sylvano da Venaphro, Napoli, Antonio Yovino et MatthioCanzer, 1533 (= SILVANO), f. XXXIIv. Bersaglio dell’ironia a volte pungente di Silvano è anche lasesta stanza (vv. 36-42): “Questa è quella stanza, qual, se gli huomini non aran grazia della resurre-zione del Petrarca, mai non crederanno che non sia posta, se non per contrario. Et è dubbio ancorche poi che fusse risuscitato, non se li crederebbe” (f. XXXIIIv). Sui due commentatori napoletani,il Silvano e il Gesualdo: W.J. KENNEDY, Authorizing Petrarch, Ithaca and London 1994, 55-62.

32 Vedi infra, pp. 702-03. Tutti i commenti petrarcheschi, compreso il Silvano, compaiono inuno dei due inventari manoscritti dei libri del Varchi (BNF, II, VIII, 142, ff. 43v-44r); tuttavia ciònon certifica, per quanto riguarda il commento del napoletano, che il Varchi lo possedesse già neglianni padovani.

lodi di Laura, per poi via via lasciarsi andare all’espressione del dolore, fino alravvedimento, il ‘mutamento di pensiero’ e la ripresa del primitivo intendimentocelebrativo 33.

Un’analoga lettura del percorso tematico di Verdi panni si trova, tra i commentia stampa a quell’altezza cronologica, nell’esegesi del Daniello, che, presentandoil soggetto della canzone, la definisce come una struttura circolare “perciochè dale laudi comincia [dei beni del corpo, dell’animo e della fortuna] e in quellefinisce, l’amorose passioni, e le dolorose querele [...] nel mezzo ponendo”.Diversamente dagli ‘alcuni’ del testo di Silvano – probabilmente ‘compagni’ dellascuola napoletana sui quali, forse, sapremmo qualcosa di più se l’Accademia diSebastiano Minturno, l’opera che doveva raccoglierne il dibattito, non fosse andataperduta –, per Daniello il ‘ravvedimento’ avviene nella settima stanza, in coinci-denza con l’exclamatio alle benigne stelle che hanno presieduto alla nascita diLaura (vv. 43-49). Nel commento a tale stanza, il lucchese ribadisce infatti il suopercorso interpretativo annunciato in apertura 34.

Pur non escludendo, come si è detto, che il commento di Silvano fosse arrivatoa Padova, soprattutto in considerazione del fatto che lì, alla scuola di Trifone, ilDaniello stava allestendo il suo, tuttavia la coincidenza citata è certamente uncaso di interpretazione poligenetica, tanto più che essa non solo non è peregrina,ma forse la più lineare e descrittiva della canzone XXIX.

Il rilievo interessa piuttosto i rapporti tra il Varchi, dedito a illustrare Petrarcaagli Infiammati, e il discepolo di Trifone Grabriele, il cui commento vide la lucela prima volta nel marzo 1541, nelle adiacenze cronologiche della partenza diBenedetto per Bologna, ma anche non troppo lontano dalle sue lezioni accade-miche. Di certo i due si confrontarono e ebbero modo di discutere sull’impresache il lucchese andava compiendo, specie in relazione al testo dei Trionfi: lodocumenta la già menzionata dedicatoria al Varchi, inserita, solo nell’editioprinceps, prima del commento ai Trionfi, in cui il Daniello non solo assegnaall’amico la responsabilità di averlo indotto a dedicarvisi, ma ricorda di averragionato e conferito a lungo con lui, a Padova, di varianti petrarchesche 35. Èquanto mai verosimile, dunque, che anche il commento al Canzoniere fosse inqualche modo familiare all’accademico infiammato, che poteva averne visto ilmanoscritto; certamente gli era familiare il ‘petrarchismo’ di Trifone di cui quelcommento era portavoce.

In coloro ai quali si attribuisce, nella lezione su Verdi panni, l’interpretazionedelle stanze centrali della canzone come ‘intermezzo’ doloroso tra il canto di lode,è da identificare dunque, magari insieme al Venafro, il ben più rappresentativo eautorevole Daniello. Tre soli luoghi, nella lezione, stabiliscono una connessione

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33 SILVANO, ff. XXXIIr e XXXIIIv. 34 DANIELLO, f. 24r. Sulla cerchia del Minturno, sulle vicende dell’Accademia, perduta tra il

1527 e il ’29 e il rapporto con il commento del Gesualdo ha fermato l’attenzione il Ferroni: G.FERRONI - A. QUONDAM, La “locuzione artificiosa”. Teoria ed esperienza lirica a Napoli nell’età delmanierismo, Roma 1973, 24, 42-43, 48-51; si vedano inoltre le pagine di BELLONI, Laura, 189-99 eF. D’ALESSANDRO, Il Petrarca di Minturno e Gesualdo, in questo stesso volume.

35 DANIELLO, f. 219r. La lettera non compare più nell’editio maior del Daniello, del 1549. Perquanto riguarda l’esegesi della canzone XXIX, le due edizioni non divergono in nulla, se non in unabreve aggiunta ‘de anima’, sulla scorta del Fausto, in corrispondenza dell’ottava e ultima stanza, perglossare “qual cella è di memoria” del v. 53.

esclusiva con il commento di quest’ultimo e tutti sono relativi a segnalazioni di‘fonti’ classiche. Il primo riguarda il comune riconoscimento della fonte dell’in-cipit della canzone nel virgiliano “Et iuxta comes Eurialus, qui pulchrior alter /non fuit Aeneadum Troiana nec induit arma” (Aen. IX 179-80); il secondo è ilrinvio, di natura puramente lessicale, a un passaggio delle Tusculanae (I 29, 71)relativo all’uso dell’espressione ‘essere di piombo’, in corrispondenza dei vv. 27-28 che dichiarano essere di “piombo o legno” chi non è preso da timore alla vistadella bellezza di Laura. La possibilità che si tratti, per il primo caso, di intuizioniautonome e la probabilità, per il secondo, della provenienza da repertori e lessicidel suggerimento ciceroniano – tenuto anche conto che gli altri commentatoririnviano all’occorrenza del lemma plumbeus in un verso di Terenzio e il soloVarchi aggiunge anche un richiamo analogo al De finibus – rendono scarsamentesignificativi i due riscontri.

Di portata ben più ampia è il terzo, che coinvolge l’interpretazione dell’in-tera, cruciale e dibattutissima sesta stanza, specie dei vv. 36-39 che qui convienecitare:

Da me son fatti i miei pensier diversi:tal già, qual io mi stanco,l’amata spada in se stessa contorse;né quella prego che però mi scioglia.

Sia il Varchi che il Daniello, dopo aver illustrato il richiamo a Didone, allo stessomodo della maggioranza dei commentatori, non allegano il riferimento al piùscontato lamento di lei nel quarto libro dell’Eneide, come fa ad esempio ilGesualdo, ma segnalano come fonte della stanza petrarchesca e valevole a penetrarecorrettamente l’ambiguo significato del v. 36, l’ovidiana Epistula VII Dido Aeneaedelle Heroides, di cui riportano i vv. 29-32 e 61-66, dove l’eroina proclama, nelsuo strazio, la perseveranza dell’amore per Enea e prega per la sua salvezza. LaDidone alla cui stanchezza il poeta paragona la sua non è la Didone virgilianache impreca contro Enea e lo maledice, ma la Didone di Ovidio, oppressa dapensieri – la persistenza del sentimento d’amore – che le arrecano pena.

Pensare a un caso di interpretazione poligenetica è difficile; né appaionorilevanti o proponibili questioni di precedenza. Piuttosto sarà da pensare ancoraalla ‘scuola’ di Trifone Gabriele e ai suggerimenti esegetici che potevanoprovenirne, o dei quali, tra sodali, si discorreva. Nel caso particolare, l’attenzionedel Gabriele nei confronti di Verdi panni, e in specie proprio della sesta stanza,è documentata dalla paternità a lui attribuita – per merito di Gino Belloni e diuna postilla depositata su un Petrarca aldino del 1533 – del riconoscimento dell’al-lusione a Didone nei vv. 37-38, nei quali né il cosiddetto Da Tempo né il Filelfoavevano intravisto l’eroina classica, né l’aveva voluta intravedere il Vellutello,che polemizza con chi, evidentemente, l’aveva invece chiamata in causa 36. Unaltro appunto, non di un discepolo, come nel caso precedente, ma di Trifone stessonelle Annotationi nel Dante, conduce ancora il maestro padovano alla canzoneXXIX: glossando l’“aere perso” di Inf. V 89, egli rimanda a “quello ch’è notatonella canzon del Petrarca Verdi panni”. Il rinvio non riguarda, ancora una volta,

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36 BELLONI, Laura, 181-82.

i due commenti quattrocenteschi a stampa, che non dicono nulla in proposito;potrebbe forse riguardare – la cronologia sembrerebbe permetterlo – il per altropoco simato Vellutello. Ma potrebbe anche indirizzare, come suggerisce l’editoredelle chiose dantesche di Trifone, “a un suo commento, o per lo meno note alPetrarca, di cui non rimane traccia”, forse al ms. contenente note di TriphonGabriele sopra alcune canzoni di Petrarca, ora irreperibile, ma di cui si ha notiziache circolasse nel XVII secolo. Se così fosse, esso doveva contenere anche notealla canzone XXIX 37.

Degli altri commenti aperti sullo scrittoio del Varchi impegnato nella prepara-zione della lezione accademica, egli si serve meno del Vellutello, soprattutto inrelazione alla proposta esegetica, tendenzialmente metaforica e facilmente distantedal testo; assai più generosamente di Andrea Gesualdo e di Sebastiano Fausto.Dal primo provengono le scarse notazioni grammaticali, nonché la menzione diOmero (in corrispondenza dell’immagine della bilancia della giustizia al v. 33)unica di un auctor greco; da entrambi buona parte delle citazioni di luoghi parallelipetrarcheschi, e qualcuna delle citazioni di classici. Non stupisce invece che i duerichiami al Dante delle Rime siano stati rintracciati dal Varchi nel commento delFausto, del quale gli studiosi hanno registrato come fattore di novità e di interessel’utilizzo della letteratura delle origini, non solo toscana e fino a Dante non solodella Commedia 38. Nella sua esegesi equilibrata e sobria, non priva di spunti criticidi un certo valore, l’estensore della lezione accademica su Verdi panni trova spessopunti di contatto con la propria ipotesi interpretativa. Dall’intensificarsi dei prelievidal commento del modenese piuttosto nella parte finale della lezione e dallaprovenienza frequente da quello stesso commento dei luoghi paralleli, per lo piùpetrarcheschi, aggiunti a margine, sembrerebbe potersi evincere che il Varchiavesse gradatamente osservato con più attenzione l’opera del Fausto nel corso dellastesura del suo intervento.

Ma le orme sulle quali cammina il Varchi esegeta petrarchesco in terra venetasono quelle familiari della sua terra natale, tracciate dal commento del fiorentinoGiovambattista Castiglione, stampato sì a Venezia, nel 1532, ma rimasto in ombra,ieri come oggi, assieme e forse più ancora di quello del napoletano Venafro 39. APadova dunque il fiorentino Varchi legge il Petrarca con l’aiuto di un altro fioren-tino. Dal Castiglione egli non trae suggerimenti di fonti classiche o luoghi paralleli,ché il commentatore non aveva molto da offrire in proposito, fatto salvo per

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37 Annotationi nel Dante fatte da M. Trifon Gabriele, a c. di L. PERTILE, Bologna 1993, 30-33.Il Pertile assegna le Annotationi trifoniane all’arco cronologico 1525-’27. Quanto alla chiosa relativaal lemma ‘persi’ in Rvf XXIX del Vellutello, vedi infra, p. 700 alla nota 20. Per il manoscrittotrifoniano con note ad alcune canzoni petrarchesche: BELLONI, Laura, 227.

38 Con Fausto “per la prima volta la letteratura italiana antica e non solo toscana entra in forzanel commento al Canzoniere”: BELLONI, Laura, 137-38.

39 Assai scarse le notizie su di lui: G. PATRIZI, Castiglione Giovan Battista, DBI, XXII (1979),81-82. Vi si indica il 1512 come data di edizione de I luoghi difficili del Petrarcha; nel catalogo inrete SBN (Edit 16) è segnalata un’edizione, sempre veneziana, per Giovanni Nicolini da Sabbio,datata 1522 e conservata a Rovereto, Biblioteca Rosminiana: non ho avuto modo di effettuare inecessari controlli e ricerche, ma tenderei a pensare che si tratti, in entrambi i casi, di errore. Qualcheutile notizia in più sul Castiglione interprete di Petrarca, ad esempio sulla familiarità con ClaudioTolomei, delle cui postille petrarchesche, a detta di Lodovico Castelvetro, egli si sarebbe appropriatonel suo commento, è portata da P. ZAJA, La regola e l’errore. Sulla tradizione cinquecentesca di unverso di Petrarca (Rvf 30, 14), «Studi petrarcheschi», 14 (2001), 223-43: 227-30.

l’unico richiamo al Boccaccio del Decameron, né qualche spunto erudito al qualeil suo concittadino talvolta indulge; in lui trova, invece, più scoperta che, adesempio, nel Gesualdo, la matrice evidentemente neoplatonica dell’interpretazionedel componimento petrarchesco, nella quale egli si riconosce e che è la sua. Aonor del vero, il Varchi mantiene quella posizione di indipendenza critica e diincondizionata tensione alla verità, promesse all’inizio della sua lezione, e non siesime dal prendere le distanze, e in più di un’occasione, dal suo ‘compagno’ dilettura petrarchesca. Di tale lettura i due fiorentini hanno in comune la chiave, ela linea interpretativa del Varchi, pur percorsa con un respiro e un’intelligenzaesegetica di ben altro spessore, è di fatto una variante, una rettifica della propostadel Castiglione. Ma lo è nel senso di una più radicale e, soprattutto rigorosatensione a valorizzare l’oscura canzone petrarchesca, illuminandola come percorsotutto platonico e ficiniano dall’amore attivo al contemplativo e spirituale, comevera e propria ‘traduzione poetica’ dei presupposti filosofici dichiarati in aperturadi lezione.

Qui, nelle pagine proemiali della lettura di Verdi panni, campeggia il Ficinodel Commentarium in Convivium Platonis, come già nell’esordio della precedentee vicina esposizione di Non da l’hispano Hibero 40, proposte ai padovani dal ‘fuoriu-scito’ toscano, cresciuto, a Firenze, alla scuola del Verino: vale anche per le suelezioni, allora, quanto è stato osservato a proposito dell’obliato commento delCastiglione al quale egli dà un filo di voce: “un certo interesse il suo testo puòpossedere per la tradizione, nel Cinquecento avanzato, della cultura neoplatonicadel tardo umanesimo fiorentino” 41.

Se non che, la lezione varchiana sulla canzone XXIX si apre nel segno diAristotele, che si accomoda accanto al Ficino per creare l’orizzonte di pensieroentro cui illustrare la parola del poeta; accanto al Petrarca – e, lo abbiamo visto,a un Petrarca ‘da scoprire’ –, si affianca, nell’impegno del Varchi lettore accade-mico, un moderno come il Della Casa, che segnerà ben presto il tracciato delnuovo linguaggio lirico; ancora, le sue lezioni sulla poesia toscana appaiono comeprecoce testimonianza del genere della critica letteraria, accompagnandosi allariflessione sulla specificità della scrittura poetica condotta da quella stessaAccademia degli Infiammati. In terra veneta, egli porta con sé Firenze, ma tornandoin patria vi getterà i semi dell’esperienza là vissuta. Piuttosto che attardatotestimone, il Varchi ‘padovano’ appare tramite e promotore di rinnovamento.

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40 La componente ficiniana nella lezione del Varchi sul sonetto CCX è stata messa in luce daBALLERINI, Benedetto Varchi.

41 BELLONI, Laura, 143.

B. VARCHI, LEZIONE SU VERDI PANNI, SANGUIGNI, OSCURI O PERSI (RVF XXIX)

(Archivio di Sato di Firenze, Carte strozziane, serie III, 206, ff. 41r-48v e 68r-78v)

Carte Strozziane, serie III, 206, è una raccolta di ff. 237 numerati che contiene, dai ff. 29a 111, un corpus di scritti varchiani, per lo più lezioni tenute all’Accademia degli Infiammatidi Padova e all’Accademia Fiorentina, in parte autografi e in parte copie. La lezione suRvf XXIX occupa i ff. 41r-48v e 68r-78v (i fogli 68r-78v di minori dimensioni). La disposi-zione dei fogli non rispetta le successioni originali: il bifoglio 46-47 doveva all’origineessere collocato dopo il f. 52. I fogli vanno infatti letti nella successione: ff. 41r-45v, ff.48rv, f. 46r (ff. 46v-47 e ff. 49-52 bianchi). I ff. 53-67 contengono scritti diversi, alcunirelativi all’Accademia Fiorentina; il commento a Rvf XXIX riprende e si conclude ai ff.68r- 78v. La ricostruzione dell’aspetto originario del manoscritto lascerebbe supporre cheil Varchi abbia interrotto l’esposizione della terza stanza (f. 46r) e della seconda (f. 48v)lasciando fogli bianchi per eventualmente completarle; ma lo stato del testo alla fine di f.48v potrebbe consentire anche l’ipotesi della perdita di almeno un foglio.

Una prima stesura della lezione, anch’essa autografa, che si interrompe al terminedella parte proemiale, corrispondente, nella redazione definitiva, ai ff. 41r-44r (vedi quialle pp. 693-97), è contenuta nelle stesse Carte Strozziane ai ff. 93rv e 96rv, tra i quali,inserita ai ff. 94r-95v, è la parte conclusiva di una lezione su Rvf CCX.

Si sono conservate tutte le caratteristiche grafiche dell’autografo, eccetto i casi di uscita-ij che si è resa -ii. Si sono sciolte le abbreviazioni, anche nel caso dei versi citati con lasola lettera iniziale di parola secondo l’uso tradizionale delle lezioni universitarie. È statoconformato alle norme grafiche moderne l’uso degli accenti (ma con l’accento grave nellacongiunzione negativa nè: B. VARCHI, L’Hercolano, ed. A. SORELLA, II, Pescara 1995, 745;ANDREONI, La lezzione seconda, 151), degli apostrofi e delle maiuscole, eccetto in Poeta,quando indichi Petrarca, e nei titoli onorifici. Per garantire la comprensibilità di un testoscritto per una lettura orale, si è reso necessario intervenire sulla punteggiatura, anche inconsiderazione della scarsità di segni interpuntivi nell’autografo; per lo stesso motivo siè intervenuti sulla divisione nei capoversi.

In corsivo si stampano: i versi o i segmenti di verso della canzone commentata e gliincipit di componimenti petrarcheschi quando citati in funzione di titolo (entrambi i casicontrassegnati nel manoscritto, ma non sempre, da sottolineature), inoltre i titoli di operecitate. Tra virgolette si sono contrassegnate le citazioni di testi diversi da quello commen-tato; nel caso di citazioni dai Rerum vulgarium fragmenta se ne è indicato di seguito, traparentesi tonde, il numero del componimento e del verso.

Non si è ritenuto opportuno segnalare le poche e non significative cancellature, perlo più consistenti in spostamenti sulla linea sintagmatica, tranne un caso (p. 694) in cuila cancellatura riguarda un lemma a testo nella prima redazione. Le aggiunte, nei marginie in interlinea, consistenti in integrazioni all’elenco di luoghi paralleli sono state inseritenel testo tra parentesi tonde.

In Appendice si dà il testo della prima stesura parziale della lezione. In questo casosi sono segnalate in apparato integrazioni e cancellature, utili per il confronto con la lezioneadottata nella redazione seriore. Le lezioni tra /.../ indicano varianti interlineari conside-rate dall’autore per il momento equivalenti a quelle sulla linea del testo.

[Pr.1] Verdi panni, sanguigni etc.Bellissima certamente et non meno difficile che utile canzone è questa la

quale io per osservare il lodevole costume dell’ardentissima Accademia nostra, et

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obbedire a comandamenti tuoi, Autore et primo principe nostro meritissimo 1, hoscelta hoggi et eletta fra tutte l’altre a dovere leggere et dichiarare in così dottaet honorata compagnia. Del che, oltra molti altri argomenti, fanno fede manife-stissima le molte et diverse spositioni, che da molti et diversi spositori sopra essain varii tempi date si sono, con ciò sia cosa che alcuni credettero, et quello ch’èpiù, s’ingegnarono di fare credere ad altri, che così scientiato, così giuditioso,così accorto et scaltro poeta quanto fu il leggiadro nostro et veramente divinomesser Francesco Petrarca, contradicesse a se stesso et più volte in una canzonemedesima. Alcuni, et non punto meno follemente, ardirono dire questa canzone,per la molta difficultà della misura et maleagevoleza delle rime sue essere statacomposta dal poeta senza ordine, senza leggiadria, et senza continovatione alcuna,come sogliono fare bene spesso (tal volta canc.) gli afflitti et miseri innamorati,quando spinti dalle passioni et dolori dell’animo cercano /f. 41v/ di sfogare ilcore in qualunche modo cantando 2. Altri, per il contrario, maturamente giudicando,dissero questa canzone essere stata fatta con tanto artifitio et sì bene et maestre-volmente intessuta et continovata l’una stanza coll’altra, che essi la chiamaronola canzone incatenata 3. Forse s’è lecito agguagliare le cose picciole a le grandi,

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1 Si tratta di Leone Orsini (1512-1564), vescovo del Frejus, fondatore dell’Accademia degliInfiammati e primo ‘principe’ di essa, dal giugno a tutto luglio 1540.

2 Il passo segue da vicino CASTIGLIONE, f. 16v: “Alcuni fanno in questa nostra canzone ch’ilpoeta non una volta sola, ma due si contrari: una nella stanza Ma l’hora et il giorno [la IV], la cuistanza alla superiore contrariarsi espressamente affermano. Similmente vogliono si contrari nellastanza Da me son fatti [la VI], affermando il Petrarca in questa canzone non tenere alcun ordine didire, ma come fanno gli innamorati varie cose confusamente et disordinatamente contare. La cuifantasia quanto sia dal vero discosta, non giudico esser troppo bisogno di dimostrare”. Il parallelotra il modo di parlare del poeta e dell’innamorato si legge nel commento del Filelfo relativo allasesta stanza: “dice i soi pensieri esser già fatti diversi di se stesso in quanto prima sperando ottenerela cosa amata era con alegreza: hora temendo affatigarsi in vano solo con malenconia e dispiacere[...] e costì parlando come sogliono gli innamorati quando cruciati sono a danno di sé medesimi”(FILELFO, f. 23r). Tuttavia occorre precisare che anche se l’esegesi del Filelfo non mette mai in luce,come faranno invece i successivi commentatori, la consequenzialità tra una stanza e l’altra dellacanzone e ne restituisce effettivamente un’impressione di disordine, non esprime alcun giudizioesplicito in proposito, né rileva contraddizione tra la terza e la quarta stanza. Nella formulazione delVarchi, la testimonianza del Castiglione sembra interagire con il giudizio negativo su Verdi panniespresso da Silvano da Venafro (“è men leggiadra e vaga ch’oscura, senza dolcezza, sforzata, faticosa”;“[La quarta stanza] non depende da alcuna delle stanze di sopra” (ff. XXXIv e XXXIIv: vedi supra,p. 688); inoltre con un’altra testimonianza, portata dal Gesualdo, relativa all’interpretazione sempredella sesta stanza, proposta da “alcuni de’ nostri Academici [...] più che l’altre dal Minturno laudata”,che sembra estendere lo spunto esegetico del Filelfo all’intera canzone descrivendola come unasuccessione di pensieri e sentimenti discordanti e contraddittori: “dicono che ‘da lui son fatti i suoipensier diversi’, cioè che egli facea i suoi pensieri in diverse maniere e tra loro contrari, qualisogliono farsi da miserevole e afflitto amante, peroché colla sua mente d’un pensiero passava in unaltro hor lieto, hor tristo, hor con speranza, hor desperando, e già qui trovato n’habbiamo alcuni,apparecchiandosi talhora a dolersi [il riferimento è alla seconda stanza: Et se pur s’arma talor adolersi...], talhora allo ’ncontro pensando di sostener pazientemente ogni affanno per lei [il riferi-mento è alla quinta stanza: Lagrima dunque che dagli occhi versi..]” (GESUALDO, f. XLVr; corsivomio). Una linea critica cresciuta sulla base del commento filelfiano sembrerebbe provenire dallediscussioni petrarchesche del cenacolo culturale raccolto intorno al Minturno: forse qualche ecopoteva essere arrivato anche al toscano Castiglione.

3 Così la definisce CASTIGLIONE, f. 16v, riferendosi alla struttura metrica e usando quindi iltermine tecnico esatto. Tutti gli altri commentatori, eccetto il Da Tempo e il Filelfo che non esprimonoalcun giudizio, ne sottolineano l’artificiosità, mentre “maestrevolissima” è l’aggettivo usato daGESUALDO, f. XLIIv.

a similitudine delle Trasformationi d’Ovidio, il qual libro per le maravigliosegiunture et ingegnosissime appiccature delle favole precedenti colle seguenti, aguisa che nelli anelli delle catene si vede, è chiamato da alcuni l’opera concate-nata 4. Et così quello che per avventura doveva essere cagione di sbigottirmi, ciòè la difficultà della canzone, et le varie e et fra sé contrarie interpretationi d’essa,è stato cagione di confortarmi et animarmi a pigliare più tosto questa che alcunedell’altre, non disiderando nè cercando altro gli Infiammati et io massimamente,che d’imparare da ciascuno et trovare la verità delle cose. Oltra che dovendosi inquesta accademia, secondo gli ordini et statuti nostri, leggere non meno greco etlatino che toscano, mi è paruto /f. 42r/ cosa convenevole, essendosi letti infinoqui sempre sonetti, si devessi leggere ancora, innanzi che a le cose latine et grechesi trapassassi, almeno una delle canzoni, le quali, come che tutte leggiadrissime,dottissime et utilissime siano, a questa s’aggiunge ancora, oltra la leggiadria, utilitàet dottrina, la difficultà grande et varietà delle oppenioni, la quale noi però ciingegnaremo con ogni sforzo secondo le debili forze nostre, di agevolare et farpiana quanto potremo il più, non seguitando nè le spositioni, nè l’autorità d’alcuno,se non dove et quanto ci paranno concordare col vero et colle propie paroledell’autore 5.

Dico dunque che per più agevole intelligenza et maggiore chiareza dellapresente canzone sono da notare tre cose principalmente. La prima è che Aristoteledividendo nel 1° libro dell’Etica le sorti et ragioni de’ beni, dice le maniere de’beni essere tre, nè più nè meno, ciò è beni esterni o vero di fortuna, come essempigratia le riccheze et gli honori; beni del corpo overo naturali come le belleze etle forze, beni dell’animo come le virtù et scienze, et questi sono quelli i qualisoli propiamente si possono /f. 42v/ et meritamente si debbeno chiamare veri benidell’huomo, perciò che il vero et propio bene dell’huomo deve essere a luiappropiato et in sua potestà, et tali sono le scienze et vertù solamente, perciò chegli honori et le riccheze non sono in nostra potestà, ma della fortuna di cui sonoet da cui si chiamano, la quale il più delle volte abbassando i buoni sollevaindegnamente et inalza i rei, come si vede tutto il giorno. Similemente i beninaturali et del corpo non sono in potere nostro, nè proprii dell’huomo ritrovan-dosi et essendo comuni a molti altri animali et questo è quello che intendevaSeneca quando, scrivendo a Lucillo, lo confortava a gli honorati studi della santis-sima filosofia: se tu sei grande, anco gli arbori et gli elefanti sono grandi, se forteet gagliardo, anco i leoni et i tori, se bello, anco i pagoni, se veloce, anco le lepri.

LA LEZIONE SU “VERDI PANNI, SANGUIGNI, OSCURI O PERSI” 695

4 L’immagine degli anelli della catena è impiegata dal Bembo per descrivere la terza rima(Prose, II, XI). Non ho invece individuato la paternità della definizione delle Metamorfosi comepoema ‘concatenato’, che potrebbe essere traduzione del perpetuum carmen; forse il Varchi avevapotuto sentirla usare dal Dolce o da Andrea Dell’Anguillara, ‘infiammati’, volgarizzatori di Ovidio,con i quali, soprattutto con il primo, era in stretto contatto anche in ragione dell’impegno sul testoovidiano. Tuttavia un giudizio sulla coesione della struttura narrativa delle Metamorfosi, in termininon lontani da questi usati dal Varchi, si legge nel commento al poema, opera di Raffaele Regio,che, stampata alla fine del Quattrocento, godette di una straordinaria fortuna editoriale: “Perpetuum.Continuum, sic ut nulla transmutatio praetermittatur, alteraque alteri concinne, apteque connectatur.Id quod facile a diis impetrarat poeta. Ita namque fabulam fabulae annectit, ut una ex alia nascivideatur” (cito per comodità da: P. Ovidii Nasonis Metamorphoseon libri XV. Raphaelis RegiiVolaterrani luculentissima explanatio [...], Venetiis, ap. Nicolaum Moretum, 1586, 1).

5 Si sono soffermati su questo passo: PLAISANCE, Une première, 379-80 e VIANELLO, Il letterato,83-84.

Et altrove: se tu sei ricco loda et ringratiane la fortuna, se bello la natura, ma sesei saggio loda et ringratiane te stesso 6.

La 2a cosa che si deve notare è che nell’anima nostra, come si disse nellaspositione del sonetto Non dall’hispano Ibero a l’Indo Idaspe etc., sono tre sortiet maniere di amore oltre quei duoi che si chiamano demoni et che si /f. 43r/ritruovano di continovo in ciascuna anima generalmente. Il primo si chiamacontemplativo o vero speculativo, il secondo attivo o vero morale, il terzo lascivoovero disonesto. Quelli che ardono dell’amore primo et contemplativo divengonopiù che huomini et fatti quasi dii considerano solo et contemplano colla mente labelleza spiritale et divina; i lascivi per il contrario fatti meno che huominidivengono bestie et seguitano solamente col tatto la corporale et terrena. Gli attivipoi, sì come sono tra l’uno et l’altro così in quel mezo tra amendue rimanendosi,non si inalzando quanto i contemplativi, nè abbassandosi quanto i lascivi, s’acque-tano et contentano nel piacere et diletto che con gli occhi pigliano di vedere etconversare colla cosa da loro amata 7.

La terza cosa che si deve sapere è che l’amore, secondo Platone, non è altroche disiderio di belleza, et la belleza è un certo splendore et gratia che nascedall’unione et temperanza di più cose, et è la belleza di tre maniere, perciò chesi ritruova in tre cose solamente, nell’animo, ne i corpi, et ne i suoni; ne gli animinasce dalla temperanza di più virtù, ne i corpi dalla concordia di più colori etlinee, ne i suoni dalla consonanza di più voci. La belleza dell’animo si conosceet gode colla mente, quella del corpo con gli occhi, quella de le /f. 43v/ voci etsuoni colle orecchie. Essendo dunque l’amore disiderio di godere la belleza, etessendo ciascuna belleza incorporale, solo la mente, et de i cinque sensi duoi, ciòè il vedere et l’udire, possono conoscere et godere la belleza 8.

[Pr.2] Fornite queste tre cose non solamente utili ma etiamdio necessarissime abene intendere la presente canzone, inanzi che venghiamo a la particolarespositione d’essa, non sarà se non buono favellare d’alcune altre brevemente.

1 Et prima, quanto a la misura et rime di questa canzone è da sapere che

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6 Aristot. Eth. Nic. I 1098b. Sen. Epist. LXXVI 9 (ma citato a memoria). Tutto il passo si ispiraal grande tema di fondo delle Ad Lucilium, come all’investigazione boeziana sulla fortuna nel IIlibro della Consolatio ad philosophiam. Insieme con Cicerone, Seneca e Boezio godevano dellapredilezione del Varchi tra i filosofi latini anche per la loro eloquenza (VARCHI, Opere, II, 489-90);della Consolatio egli approntò un volgarizzamento, edito a Firenze nel 1551.

7 Marsili Ficini In Convivium Platonis de amore Commentarium, Oratio VI 8, in Marsili Ficini,Philosophi, platonici [...] omnium praestantissimi Operum, Basileae, ex Off. Henricpetrina, 1576,1343 (anast. Torino, Bottega d’Erasmo, 1959: cito d’ora in poi, per comodità, il Commentarium inConvivium da questa edizione = FICINO). Come qui il passo è ripreso dal Varchi pressoché ad litteramanche nel proemio della lezione su Non dall’hispano Hibero all’indo Ydaspe: ASF, Carte Strozziane,serie III, 206, ff. 80r-81v; BALLERINI, Benedetto Varchi, 28-29 e 32-33, e in più di una lezione fioren-tina (VARCHI, Opere, II, 487-88 e 496-97).

8 FICINO, Oratio I 4, 1322-23: “Cum amorem dicimus, pulchritudinis desiderio intelligite [...].Pulchritudo vero gratia quaedam est, quae ut plurimum in concinnitate plurium maxime nascitur. Eatriplex est: siquidem ex plurium virtutum concinnitate in animis gratia est. Ex plurium colorumlinearumque concordia in corporibus gratia nascitur. Gratia item in sonis maxima ex vocum pluriumconsonantia. Triplex igitur pulchritudo, animorum, corporum atque vocum. Animorum mentecognoscitur; corporum oculis; vocum auribus solis percipitur. Cum ergo mens, visus, auditus, quibussolis frui pulchritudine possumus, amor vero sit fruendi pulchritudinis desiderium, amor sempermente, oculis, auribus est contentus”.

questa sola senza più si truova in tutto il Canzoniere del Petrarca, la quale pigliandonella prima stanza sette diverse voci et parole, vada poi rispondendo a quelle etrimando in tutte l’altre stanze per ordine, et, di più, ogni seconda et terza sillabadi ciascuno quarto verso di tutte le stanze risponde a la rima della seconda etterza sillaba del quarto verso della prima stanza, come bella, rappella, rubella,novella et le altre. Similemente, non contento, a queste due difficultà n’aggiunseanco la terza, ciò è un’altra rima in corpo, perché ogni quarta et 5a sillaba diciascuno sesto verso di tutte le stanze rima colla quarta e 5a sillaba del sesto versodella prima stanza, come tira, delira, ira et le altre, le quali sono diverse da lesette rime che sono nel fine. La prima è chiamata da alcuni ternaria. La secondaquinaria 9. Et questo basta circa la misura et le rime. /f. 44r/

Leggesene in questa stessa misura una del divino Bembo la quale a me paremiracolosa. Leggesene ancora un’altra del nobile fiorentino et amicissimo LodovicoMartelli, che sono 8 versi per istanza et comincia: “Dimmi laccio d’amore, che ’nsì bel nodo / mi ti avvolgesti al core” 10.

2 È questa canzone, per quanto a me ne paia, in istile mezano, ma grave peròet alto quanto più si possa in tale stile, perciò che tutti tre gli stili, alto, mezanoet humile si dividono et hanno in un certo modo anco essi lo stile alto, mezanoet humile.

3 Il genere, come può vedere ciascuno, è dimostrativo. Et la causa è honesta,perciò che l’intendimento del poeta in tutta questa canzone è, come in mille altriluoghi, di volere lodare et celebrare la sua bellissima et castissima Madonna Lauraet la loda da i beni del corpo, ciò è dalla belleza, et da quelli dell’anima, ciò èdall’honestà et virtù sue. Lascia i beni della fortuna come men degni, et che piùtosto utilità et commodo arrecano a posseditori loro, che lode et gloria. Et qui èda notare che rade volte loda il Poeta Madonna Laura da beni della fortuna, spessoda i beni del corpo, spessissimo da quelli dell’anima, i quali soli, come si deve,erano da lei pregiati et tenuti cari, come si mostra, oltre mille altri luogi, in quelsonetto, parlando a lei:

LA LEZIONE SU “VERDI PANNI, SANGUIGNI, OSCURI O PERSI” 697

9 Il riferimento è al commento del Fausto, dal quale però il Varchi non accoglie l’avvicina-mento della forma metrica di Verdi panni a quella altrettanto artificiosa e oscura della canzone-frottola Mai non vo più cantar (Rvf CV). Sullo sfondo dell’annotazione del modenese ci sono lepagine delle Prose, II, XIII e XIV: “Questa canzone è artificiosissima, ma non troppo lodata, perciochèper commodarsi nella copula delle rime ci rende difficile la costruttione, né in tutto il canzoniere sene trova più che un’altra consimile, che è Mai non vo più cantar [...]. Tal fu quella di GuidoCavalcanti, Donna mi prega [...]. Oltre le desinenze nel fine di versi che sette sono, si notano ancoradue rime nel mezzo diverse da quelle che è la seconda e terza sillaba del quarto verso e la quartae quinta del sesto di ciascuna stanza. L’una si noma ternaria, quinaria l’altra” (FAUSTO, f. 147v).Oltre al Fausto, si soffermano a descrivere il modello metrico della canzone SILVANO, f. XXXIv eDANIELLO, f. 24r, entrambi, come nella lezione varchiana, elencando le parole in rima dei versi ternarie quinari.

10 La canzone bembiana è Sì rubella d’Amor né sì fugace (Asolani, II, XVI), variante, notaDionisotti, di Verdi panni “di cui ripete lo schema metrico e in parte anche il tema e più particolaridi lingua e stile” (P. BEMBO, Prose e Rime, a c. di C. DIONISOTTI, Torino 19662, 411-13). SILVANO:“[Verdi panni] artificiosa è et molto, et ben che le rime, che sono in mezo de versi, siano statecagione che sia tale, abbiam non di meno vedute dell’altre de’ nostri moderni, molto di questa piùbelle. Et fra l’altre, una che si può legger da chi vuole, del Bembo” (f. XXXIv). La princeps delleStanze e canzoni del Martelli è Venezia, A. Pinzi, 1531; nella stampa delle Opere di M. LodovicoMartelli [...], Firenze, B. Giunti, 1548, la canzone citata è ai ff. 18v-20r.

Gentileza di sangue et l’altre carecose tra noi, perle rubini et oro,quasi vil soma egualmente dispregi.

L’alta beltà, ch’al mondo non ha parenoia t’è, se non quanto il bel tesorodi castità par che l’adorne et fregi (CCLXIII 9-14) 11.

/f. 44v/ 4 Dividesi in due parti principali, nella prima, che finisce nella sestastanza, il poeta loda Madonna Laura da i secondi beni, ciò è da quelli del corpo,lodando lei da le singulari et uniche belleze sue. Et egli in tutta la prima parte sitruova nel secondo amore, ciò è nell’attivo et morale. Nella seconda parte et ultimala loda da i veri beni dell’anima, ciò è dall’honestà et dalla virtù mescolandoviancora i beni del corpo per la ragione che altrove si dirà 12. Et egli in tal parte èamatore speculativo et platonico, contemplando colla mente la belleza dell’anima.Nel mezo della canzone secondo alcuni racconta gli effetti che fanno in lui lebelleze di Madonna Laura; et secondo alcuni altri si duole; a noi pare, comediremo, che risponda a due tacite obbiettioni 13. /45r/

[I] Verdi panni sanguigni. In questa prima stanza il Poeta propone, et volendolodare Madonna Laura da beni del corpo, ciò è dalla belleza, et dire che ella èunica e singulare di beltade, usa poeticamente un bellissimo giro di parole

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11 La lezione corretta, aldina e moderna, è par ch’ella adorni et fregi. Il Varchi varia qui lapagina in cui il Daniello della Poetica cita Verdi panni come esempio di canzone nel genere dimostra-tivo, in quanto dedicata alla lode di Laura, e specifica che tale lode muove prima dai beni dellafortuna, come mostra la settima stanza ai vv. 43-45 (Benigne stelle, etc.), poi dai beni del corpo, alv. 47 (ch’è stella in terra), infine dai beni dell’animo, ai vv. 47-49 (e come in lauro foglia / conservaverde il pregio d’onestate), per concludere che la lode dell’animo è più ancora celebrata nelle terzine,che cita, del sonetto CCLXIII (DANIELLO, Della poetica, 257-58). Daniello riproporrà esattamentetale percorso esegetico – dal quale il Varchi si discosta per quanto attiene ai beni della fortuna – nelsuo commento petrarchesco (f. 25r), in corrispondenza di questa settima stanza, che infatti il fioren-tino interpreta diversamente (si veda infra, pp. 712-13). Comune al Daniello e al Varchi è comunquela sottesa tripartizione aristotelica dei beni, secondo l’Etica a Nicomaco. La canzone Verdi pannisarà ancora citata come esempio di genere dimostrativo, probabilmente sulla scorta del Daniello,dall’‘infiammato’ Bernardino Tomitano, nei Ragionamenti, 167.

CASTIGLIONE: “Alla intelligentia della presente canzone bisogna ricordare che in Laura eran duecose congiunte, gran bellezza e grand’onestà, sopra le cui cose è fondata tutta la nostra canzone” (f.16v); GESUALDO: “[Il Poeta] loda le celesti bellezze e le divine virtuti di lei” (f. XLIIv); FAUSTO:“Di due bellezze pò gir altiera una donna, dell’animo e del corpo, e di tutt’a due commenda l’amatadonna” (f. 147v).

12 FAUSTO: “Insino a qui [alla sesta stanza] della bellezza del corpo, ora [dalla settima]condiscende alle qualitadi dell’anima” (f. 148v). La stessa bipartizione tematica è proposta daCASTIGLIONE, f. 17r, che però fa cominciare la seconda parte dalla sesta stanza.

13 Il primo è VELLUTELLO: “Nella presente artificiosissima canzone il Poeta parte le virtù ebellezze di Madonna Laura mirabilmente loda, e parte narra gli effetti che quelle operano e sperache debbano avere forza d’operare in lui” (f. 15v), sulla cui scorta, GESUALDO, f. XLIIv. Il secondoè SILVANO: “L’intenzione sua in essa è dire della bellezza et ornamento di Laura con la pena, cheper amarla sentiva” (f. XXXIIr): ma si veda in proposito quanto osservato supra, pp. 688-89. Il Varchifa propria invece, con qualche rettifica, l’ipotesi esegetica di CASTIGLIONE, ff. 18v e 19r, per il qualele stanze centrali risponderebbero a due “tacite obietioni”. È un’interpretazione che conferisce alcomponimento un andamento argomentativo.

dicendo 14: niuna donna vestì mai infino qui panni verdi sanguigni etc. ciò èd’alcuno colore, (add. marg. nè attorse et avvolse alcuna sì biondi capelli in sìmaestrevoli nodi: loda in un medesimo tempo i capelli dal colore et il mododell’acconciargli) sì bella, la quale fusse tanto bella, come questa ciò è quantoMadonna Laura, la quale mi spoglia d’arbitrio, ciò è mi priva di libertà. Et dalcammino di libertà mi tira seco, mi fa soggetto, et è il medesimo senso con queldi sopra, mutate le parole, il che usano molte volte li poeti come Vergilio: “Necdum etiam irarum causae saevique dolores, etc.” 15; sì, in guisa, in tal modo, sìdolcemente, ch’io non sostegno alcun giogo, non soffro alcun peso, traslatione dabuoi, men grave, meno molesto et forte, per quella figura che i latini chiamanolittote, leggerissimo (in interl. et è cavato di là: “iugum meum suave et onusmeum leve”) 16.

Verdi panni sanguigni oscuri o persi. Credono alcuni che il Poeta intenda perquesti quattro colori le quattro età della vita nostra. Altri, che per verdi intendala speranza che mostra havere nella 2a stanza, sanguigni per la vendetta, oscuriper il dolore, persi per la fermeza sua. Alcuni vogliono che il Poeta lode MadonnaLaura anco da beni della fortuna, come quella ch’abbondasse di veste di più varicolori 17. Altri che questo luogo sia cavato dal 3° libro d’Ovidio dell’arte amandidove insegna che colori si debbino eleggere dicendo: “quid de veste loquar? etc.”;et poco di sotto: “Pulla decent niveas, etc.”; “alba decent fuscas, etc.”. Il qualeconcetto dicono altrove e similmente Tibullo et Properzio volendo significare chel’altre stanno bene et paiono belle con un colore solo, ma Madonna Laura contutti 18. /f. 45v/ A me pare che questo luogo si debba intendere semplicementecome io ho detto et è per ventura cavato questo modo da Vergilio che nel 9°dell’Aeneide disse: “Et iuxta comes Eurialus, quo pulchrior alter / non fuitAeneadum Troiana nec induit arma” 19. Sanguigni: ciò è rossi del colore del sanguecome altrove parlando del mare rosso disse: “Di là dal mar che fa l’ondesanguigne” (XXVIII 56); et nella canzone Italia mia benché il parlar sia indarnodisse: “Cesare taccio, che per ogni piaggia / fece l’erbe sanguigne di lor vene, /ove il nostro ferro mise” (CXXVIII 49-51). (add. marg. Il che altramente si dicevermiglia. Petrarca: “a farla del civil sangue vermiglia” XLIV 2). Persi: il coloreperso, dice Dante nel suo Convivio nella 3a canzone parlando della nobiltà, “ondeverrà come dal nero il perso”, è misto di purpureo et di nero. Et hoggi tutto il dì

LA LEZIONE SU “VERDI PANNI, SANGUIGNI, OSCURI O PERSI” 699

14 Lo stesso apprezzamento, espresso nella formula “usa una bellissima circonlocuzione” silegge in CASTIGLIONE, f. 17r e in FAUSTO, f. 147v.

15 Verg. Aen. I 25 (ma la lezione corretta è: “Necdum etiam causae irarum saevique dolores”).Il Varchi sottolinea qui l’uso poetico dell’iteratio synonymica.

16 Mt 11, 30. Il passo evangelico è richiamato da CASTIGLIONE, f. 18v, da FAUSTO, f. 147v e daGESUALDO, f. XLIIv.

17 Né della prima interpretazione, né della terza ho trovato traccia. La seconda è invece riportatada GESUALDO: “e benchè per tai colori intenda qualunque altro portamento di donna, pur questi comequelli [...], sono alcuni i quali vogliono esser tai colori qui posti non senza cagione e che ciascunoper quello che significa, abbia poi la sua stanza: ciò è il verde significa la speranza che gli veniada la dolce vista di lei, etc. etc.” (f. XLIIv). Essendo testimoniata solo dal commentatore napole-tano, si può presumerne la provenienza dalle discussione petrarchesche del cenacolo raccolto intornoal Minturno.

18 Ov. Ars am. III 169, 189, 191; Tib. II 3, 53-58; Prop. II 25, 45-48. L’interpretazione riportatadal Varchi si legge in FILELFO, f. 22v, che però non cita alcuna fonte ovidiana.

19 Verg. Aen. IX 179-80; cita in proposito questi stessi versi virgiliani DANIELLO, f. 24r.

si chiama in Firenze un panno perso quando fu prima tinto in azurro buio et poiin nero, perché piglia meglio il colore 20. Usa questa voce Dante più volte, nel 7°cap. dell’Inferno: “L’acqua era bigia, molto più che persa”; et nel 5°: “o animalgratioso et benigno / che visitando vai per l’aere perso / noi che tignemmo ilmondo di sanguigno” 21.

Vestì: vestir panni è parola usitatissima. Dante nell’Inferno: “O, dissi, credolui che tu m’inganni, / ché Branca d’Oria non morì unquanco, / et mangia et beeet dorme et veste panni” 22 /f. 48r/ Unquanco: parola composta da unqua o verounque et anco, ciò è mai infino a hora. “Io non fui d’amar voi lassato unquanco”(LXXXII 1), et altrove: “Quanta dolceza unquanco / fu in cor d’aventurosi amantiaccolta / tutta in un loco, a quel ch’i’ sento è nulla” (LXXII 46-48) 23.

Nè d’or capelli (add. marg. “Erano i capei d’oro”, XC 1): che Madonna Laurahavesse i capei biondi come oro dimostra il Poeta in mille luoghi: “Le treccied’or che devrien fare il sole etc.” (XXXVII 81); “Tolta m’è poi di quei biondicapelli etc.” (LIX 11); “Tra le chiome dell’or nascose il laccio” (LIX 4); “qualninfa in fonte, in selve mai qual dea / chiome d’oro sì fino a l’aura sciolse” (CLIX5-6); “E i capei d’oro fin farsi d’argento” (XII 5); “Et se non hai l’amate chiomebionde” (XXXIV 3); “Sotto biondi capei canuta mente” (CCXIII 3); “Quella c’haneve il volto, oro i capelli” (CCXIX 5); “Muri eran d’alabastro et tetti d’oro etc.”(CCCXXV 16) 24. Bionda: biondo è propio il colore giallo dell’oro, che i Latinichiamano flavus. Petrarca: “Et le chiome hor avolte in perle et gemme, / alhorasciolte et sovra or terso bionde” (CXCVI 7-8); “per rimembranza delle trecciebionde” (LXVII 6). Et il Boccaccio disse: “due fanciulle bionde come oro”intendendo dei capelli, et altrove: “Un neo ben grandicello d’intorno al quale sonoforse sei peluzi biondi come oro” nella novella di Bernabò da Genova che (...) la(...) voce il chiaro (?) 25.

Mi spoglia d’arbitrio: bella traslatione et bellissima oppositione, havendo

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20 Dante, Conv. IV, canz. III 109 (ma la lezione corretta è dunque verrà) e XX 2. AnalogamenteCASTIGLIONE, ff. 17r-v, che si diffonde in una vera e propria disquisizione tecnica sui colori. Vale lapena notare che il fiorentino Gelli, commentando nelle lezioni dantesche “l’aere perso” di Inf. V 89,segnala l’errore in cui sono caduti alcuni “forestieri che ne hanno voluto parlare e sopra quel versodel Petrarca, Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi [...] non sapendo la distinzione ch’è tra il nero,o vero scuro, e il perso, hanno detto molte cose fuor di proposito” (G.B. GELLI, Commento edito einedito sopra la Divina Commedia, II, a c. di C. NEGRONI, Firenze 1887, 347). L’allusione del Gelliè probabilmente diretta al napoletano Gesualdo, che glossa ‘panni persi’ con “o neri non già deltutto, ma simil al color de la persa erba. Ma i poeti pongono il perso in vece di nero, sì come leggersi può non una volta apo Dante” (GESUALDO, f. XLIIv). Particolare la glossa del lucchese Vellutello:“intendendo il color perso per quello che celestro molti l’usano domandare, perché in Avignone, eancora in più luoghi d’Italia così s’usa di nomarlo” (VELLUTELLO, f. 15v).

21 Dante, Inf. VII 103 e Inf. V 88-90. Il primo dei due scontati richiami danteschi è citato comequi, nella variante tarda bigia per buia, in CASTIGLIONE, ff. 17v-18r. È variante presente nel testodantesco del Landino, usato, ad esempio, sia da Trifone Gabriele che da Daniello, come segnala LinoPertile: Annotationi nel Dante, 40-41.

22 Dante, Inf. XXXIII 139-41. Ma la lezione corretta è Io credo, diss’io lui: Varchi cita eviden-temente a memoria.

23 Il commento linguistico, sulla base delle Prose bembiane (III, LXI), nonché l’esempiopetrachesco di Rvf LXXII 46-48, provengono da GESUALDO, f. XLIIv.

24 La lezione corretta è e ’l tetto d’oro.25 G. BOCCACCIO, Decameron, X 6, 11 e II 9, 32. Tutto il passo, con le citazioni decamero-

niane, proviene da CASTIGLIONE, f. 18r, che però cita correttamente il primo dei due rimandi: biondecome fila d’oro.

detto di sopra vestì. Sostegno et sostengo come giunge et giugne, dipigne et dipingeet molti altri 26. /48v/ Alcun giogo men grave: (add. marg. “et a me pose un dolcegiogo al collo” CXCVII 3). Contrario a questo dice: “Hor volge Signor mio l’unde-cimo anno, / ch’io fui sommesso al dispietato giogo, / che sovra i più soggetti èpiù feroce” (LXII 9-11); et altrove: “sotto il cui giogo già mai non respiro” (LXXIX6) 27; “mille piacer non vagliono un tormento” (CCXXXI 4); “togliendo anzi perlei etc.” (CCXCVI 12); “et tu me ’l giuri” (CLXXIV 13); “et sarei fuor del gravegiogo et aspro, etc.” (LI 12). Et nella canzone Nella stagion ch’il ciel rapido:

Et perché un poco nel parlar mi sfogoveggio la sera i buoi tornare scioltida le campagne et da solcati colli:i miei sospiri a me perché non toltiquando che sia? Perché no ’l grave giogo?Perché dì et notte gli occhi miei son molli? etc. (L 57-62)

[2] Et se pur s’armaLa comune oppenione è che egli confermi qui quello che egli ha detto di

sopra mostrando che la beltà di Madonna Laura sia tale che se bene egli si vuoledolere delle sue passioni, che non possa. Alcuni continovano questa stanza conquella di sopra perché havendo detto qui che Madonna Laura lo spoglia d’arbi-trio et di libertade, vuole mostrare che sia vero, et che volendo, non può dolersi 28.A me pare ch’avendo detto di sopra che Madonna Laura è la più bella donna chemai fusse, et che per questo il giogo e la servitù sua non gli era grave, nè molesta,risponde hora a una obbiettione che gli poteva essere fatta, con ciò sia che eglisi dolesse et d’amore et della sorte et di Madonna Laura in mille luoghi come là:“Fera stella, s’il cielo ha forza in noi etc.” (CLXXIV 1); et là: “Lasso me, ch’ionon so in qual parte pieghi” (LXX 1) (add. marg. “quando il sol bagna in marl’aurato carro” CCXXIII 1). Rispondendo che s’egli s’arma, ciò è si prepara, pertraslatione, et apparecchia a dolersi, lo fa perché la doglia alcuna volta vince laragione, ma che tosto ch’egli vede Madonna Laura non solamente non si duolepiù, ma rivolge ogni sdegno in dolceza 29. Chè: alcuni: perché il veder lei mi radeetc.: meglio che: la quale. /f. 46r/

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26 Anche in questo caso l’osservazione linguistica proviene da GESUALDO, f. XLIIv, su basebembiana (Prose, III, XXVIII).

27 FAUSTO: “Contrario altrove: sotto ’l cui giogo giammai non respiro, hor volge signor miol’undecimo anno, etc.: facile sciorre la contrarietade” (f. 147v): spesso, come è particolarmenteevidente in questo caso, il Varchi accoglie dai precedenti commentatori un suggerimento, comple-tandolo con esempi ulteriori.

28 La prima è l’interpretazione del Gesualdo che sottolinea come sia la bellezza di Laura adimpedire all’anima del poeta di cedere al dolore (GESUALDO, f. XLIIIr); la seconda del Vellutello cheillustra questa seconda stanza come prosecuzione del “proposito de la precedente lassato”, cioè comedimostrazione del dominio di Laura sul libero arbitrio del poeta (VELLUTELLO, ff. 15v-16r).

29 CASTIGLIONE: “Seguita la seconda stanza rispondendo a una tacita obietione ch’uno gli potrìafare. Perché disse di sopra alcun giogo non gli pare men grave di questo amore di Laura, perchéadunque ti lamenti M. Francesco? [...] Risponde far questo costretto dal dolore, e quando la mentesua manca di consiglio. Ma quando poi vede Laura, ogni suo lamento, ogni passione passa e divienogni tristo suo pensiero soave e dilettevole” (f. 18v). Ripropongono in questo punto il percorsoesegetico del Castiglione anche FAUSTO, ff. 147v-148r, e DANIELLO f. 24r.

[3] Di quanto per amorLasciando le molte interpretationi et continovationi, che non mi paiono a

proposito, dicono alcuni che risponde a una altra tacita obbiettione: perché egliseguita Madonna Laura, et risponde, perché egli spera, etc. 30.

Et la comune oppenione è che vendetta fia si pigli propiamente, et vogliasignificare che Madonna Laura anco essa s’innamorerà 31. Le quali cose a me paiontutte lontane dal verosimile non che dal vero, et credo che havendo detto di soprache il veder lei fa ogni sdegno soave, che egli seguiti di mostrare che tutto il finedel disiderio suo era nel vederla, come dice altrove: “Certo il fin de’ miei piantietc.” (LXXII 72); et altrove: “Gli occhi soavi, ond’ io soglio haver vita” (CCVII14), et altrove: “chi nol sa di ch’io vivo et vissi sempre” (CCVII 53) 32, et altrove:“Come a corrier tra via s’il cibo manca” (CCCXXXI 13), et ciò mostra, comehabbiamo detto, che in questa parte egli è amante attivo et conosce et gode labelleza corporale con gli occhi. La costrutione è questa.

Fin che mi sani il cor colei che il morse: Ovidio: “Pectora legittimus castamomordit amor” (add. marg. “che ogni senso con gli denti d’amor già mimanduca”) 33.

Sani: “i begli occhi, ond’io fui percosso in guisa etc.” (LXXV 1). Allude allalancia d’Achille, onde Dante: “Così odo io, che faceano la lancia etc.” 34.

Che pur la invoglia: ciò è Madonna Laura come in morte cap. 2: “Dehmadonna diss’io, etc.” 35. Alcuni: lo invoglia quel core, che gliene fa venire (...)come quei: “et fugit ad salices etc.” 36. /f. 68r/

[4] Ma l’hora e ’l giorno etc.Questa 4a stanza, secondo alcuni, non dipende di sopra nè ha continovatione

con alcuna delle altre, ma entra il Poeta di subito et fuori di proposito, comedicono essi, a raccontarne, come fanno spesse volte gli amanti, il tempo quando

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30 È la lettura di CASTIGLIONE, ff. 19v-20r, dalla quale però Varchi in questa occasione si discosta. 31 VELLUTELLO: “farà anchor vendetta, perché spera ch’anchor lei abbia ad aver la parte sua del

fuoco” (f. 16r); CASTIGLIONE: “ne sia vendetta, cioè Madonna Laura sentirà anch’essa le fiammeamorose e di focosi desiri” (f. 19v); SILVANO: “Vendetta fia: intende che la scalderebbe dell’amorsuo” (f. XXXIIv).

32 Tutti e tre i luoghi paralleli petrarcheschi sono citati da VELLUTELLO, f. 16r, come prova delfatto che il poeta vive della vista degli occhi di Laura.

33 Lo stesso rimando ovidiano (Her. XIII 30) in VELLUTELLO, f. 16r e DANIELLO, f. 24r; mentreil richiamo dantesco aggiunto nel margine sinistro (Rime, XLVI, vv. 32-33), si legge in FAUSTO, f.148r. Il Varchi ha preso a commentare questo verso 17 senza procedere all’ annunciata costruzionedella stanza e non concludendone l’esposizione, forse con il proposito di riprenderla in seguito.

34 Il pertinente rinvio a Rvf LXXV è anche in GESUALDO, f. XLIIIr. Solo varchiano invecel’altrettanto pertinente rimando al mito della spada di Peleo come si legge in Ov. Trist. I 1, 99-100e a Dante, Inf. XXXI 4 (ma la lezione corretta è solea far).

35 Petr., Tr. mor. II 76. Il rimando al luogo dei Trionfi, dove Laura confessa al poeta di esserestata interiormente pietosa, ma aspra e fiera all’aspetto, per frenare l’ardore di lui, si legge inGESUALDO, f. XLIIIr.

36 Sono Vellutello e Daniello che pongono, correttamente, soggetto di envoglia Laura e oggettoil cuore del poeta: “che pur l’envoglia, ciò è crudele, che pur empie esso cuor di voglia” (VELLUTELLO,f. 16r); “che pur l’envoglia, ciò è fa più ognihora cupido questo suo core, come farebbe un fanciullo,chi gli mostrasse un pomo, o d’un uccelletto, e non gliel desse poi” (DANIELLO, f. 24v). Il senso elo spunto tematico del paragone fatto da Daniello è lo stesso del passo virgiliano di Ecl. III 64-65cui rimanda Varchi: “Malo me Galatea petit, lasciva puella, / et fugit ad salices et se cupit antevideri”.

egli s’innamorò et chi ne fu cagione 37. Alcuni dicono c’havendo il Poeta mostratodi sopra quando et da chi sperava il fine de i martiri et amorose passioni sue,dimostra hora il principio d’esse, et che quella particella ma non è avversativa inquesto luogo, ma continovativa, congiugnendo il parlar di sopra con quello chesegue 38. Altri dicono che in questa stanza et nella seguente si ditermina la lite tragli occhi et il core della quale parla nel sonetto Occhi piangete: accompagnateil core (LXXXIV) 39. Et altri altramente.

A noi pare che si possa continovare così et questo sia il vero intendimento.Propose il Poeta nella prima stanza, che niuna donna infino a quel dì era statabella come Madonna Laura et che egli non sofferiva alcuna servitù et peso, chegli fusse men grave et molesto, quanto essere privo d’arbitrio per sì rara, anzisingulare belleza. Nella 2a stanza rispose a una tacita obbiettione che voleva direche si doleva alcuna volta et lamentavasi d’amore, di Madonna Laura, di sé etdella fortuna sua, come fa in molti luoghi allegati da noi, et massimamente nelsonetto Fera stella (CLXXIV). /f. 68v/ Nella 3a stanza dimostrò che il vederMadonna Laura non solamente gli faceva soave ogni sdegno, ma che ancora erail fine dell’amore suo come amante attivo et morale. Hora in questa 4a stanzarisponde a un’altra tacita obb<i>ettione, la quale è: se tu non sostieni alcun giogomen grave, che amare Madonna Laura, perché piangi adunque tutti i giorni, ettutte le notti? sì come, oltra mille altri luoghi in tutto il suo canzoniere, nellasestina A qualunche animale alberga in terra (XXII), et nel sonetto Tutto il dìpiango et poi la notte quando etc. (CCXVI); et nella sestina L’aere gravato etl’importuna nebbia:

Ma, lasso, a me non val fiorir di vallianzi piango al sereno et a la pioggiaet a’ gelati et a’ soavi venti etc. (LXVI 19-21).

Et nella canzone Qual più diversa et nuova: “Così gli occhi miei piangon d’ognitempo, / ma più nel tempo, che madonna vidi” (CXXXV 89-90).

Per rispondere dunque a questa obbiettione dice che la cagione et principiodella sua trista vita che l’affligge furono due cose: gli occhi suoi quando miraronoquelli di Madonna Laura il dì sesto d’Aprile in l’hora prima, et essa MadonnaLaura nella quale, lodandola pure ancora dalle belleze del corpo, si mirava etspecchiava l’età sua. Et si poteva chiamare piombo o legno chiunche veggendocosa sì bella non havesse havuto paura et fusse tremato di meraviglia 40. /f. 69r/

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37 SILVANO: “La presente stanza non depende da alcuna delle stanze di sopra, anzi senza propositoalcuno, di quanto ha parlato sub’intra a dire che l’hora e il giorno...” (f. XXXIIv). Si rimanda aquanto osservato in proposito supra, p. 688.

38 GESUALDO: “Dinotato avendosi nelle stanze di sopra de lunghi suoi martiri e de le grandifatiche il fine, qui dimostrarne volle il principio [...], ove la particella ma non si contrapone allestanze cantate, ma continova e congiunge col dir di sopra il parlar che segue” (f. XLIIIv). La precisa-zione di Gesualdo suona come una replica a chi aveva espressamente sostenuto la contraddizione diquesta stanza con la precedente (come riportato dal Castiglione), ma anche al concittadino e coevointerprete petrarchesco Silvano da Venafro, che non vedeva, tra le due stanze, alcun legame logico:si veda supra, p. 694, nota 2.

39 VELLUTELLO, f. 16r. 40 Qui l’esegesi del Varchi si confronta con quella del Castiglione, che procede secondo un

andamento analogo, ma nello stesso tempo se ne discosta. Per Castiglione, in questa stanza e nella

La costruttione et ordine delle parole è: ma l’hora e ’l giorno, nel quale ioapersi le luci mie, et guardai nel bel nero et nel bianco, ciò è ne gli occhi diMadonna Laura, il qual nero et bianco, ciò è i quali occhi, mi s<c>acciarono dilà, ciò è di me stesso et dell’alma et petto mio, dove, nel quale luogo et petto,corse, entrò ratto, Amore, ciò è Madonna Laura o il fuoco et pensier di lei, furonoradice, ciò è principio et cagione, di questa novella vita, la quale m’addoglia etmi dà martire. Et quella ancora fu radice de i miei affanni, ciò è Madonna Lauranella quale si mira et si specchia o veramente si maraviglia la nostra etade; laqual Madonna Laura chi vedendo, ciò è quando la vede, non pave di meraviglia,è piombo o legno, ciò è senza sentimento.

Ma l’hora e ’l giorno: innamorossi Messer Francesco di Madonna Laura (add.marg. nel venerdì santo) a gli 6 d’aprile in su l’alba del 1327 come dice eglistesso nella fine del sonetto Voglia mi sprona:

Mille trecento ventisette a puntosu l’hora prima, il dì sesto d’aprilenel laberinto entrai, nè veggo ond’esca (CCXI 12-14).

La medesima sentenza dice nella canzone Si è debile il filo a cui s’attene lagravosa mia vita:

Lasso se ragionando si rinfrescaquell’ardente disioche nacque il giorno, ch’iolasciai di me la miglior parte adietro etc. (XXXVII 49-52).

(add. marg. et in altri luoghi come /f. 69v/ nel sonetto Io amai sempre et amoforte ancora: “et son fermo d’amare il tempo e l’hora etc.” LXXXV 5). Altrovedice il contrario, ciò è nel fine della canzone Lasso me, ch’io non so ’n qualparte pieghi: “Tutte le cose di che ’l mondo è adorno / uscir buone de man delmastro eterno etc.” (LXX 41-42), dove la prima volta intende dell’occhio dellamente, la seconda di quello del corpo. La contrarietà è agevole a solvere, perchéalcuna volta il Poeta attribuisce il suo amore alle stelle e al destino suo come là:“che quei dolci lumi / s’acquistan per destino et non per arte” (CCLXI 14) 41;alcuna volta a gli occhi suoi, “Occhi piangete: accompagnate ’l core” (LXXXIV1); alcuna volta al cuore o vero anima sua, come “Hora a posta d’altrui convienche vada / l’anima che peccò solo una volta” (XCVI 13-14); alcuna volta adamenduoi, ciò è al core et gli occhi, come nella stanza Nuovo piacer che neglihumani ingegni, della canzone Sì è debile il filo:

corro spesso et rientrocolà, donde più largo il duol trabocchi

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precedente il poeta risponde all’implicita obiezione: perché perseverare nell’amore per Laura se questogli impedisce di esercitare il libero arbitrio; nella terza stanza risponde ‘al futuro’, perché spera diottenere vendetta, cioè l’amore reciproco; in questa quarta risale al principio del suo amore, cioèall’innamoramento, avvenuto non per mancanza di libero arbitrio, ma per colpa di due cose: l’ora eil giorno in cui incontrò Laura e Laura stessa (CASTIGLIONE, ff. 19v-20r).

41 La lezione corretta è s’acquistan per ventura et non per arte.

et sian col cor punite ambe le luci,ch’alla strada d’amor mi furon duci (XXXVII 77-80).

Alcuna volta a se stesso, et al suo troppo disderare come nella stanza allegata:

Così l’ha fatto infermopur la sua propia colpa et non quel giornoch’io ’l volsi inver l’angelica beltadenel dolce tempo di mia verde etade (LXX 47-50) 42.

Che: ciò è nella quale hora et giorno, come: “Era il giorno, ch’al sol si scoloraro”(III 1), ciò è nel quale. /f. 70r/ Apersi le luci: vidi et mirai drizando gli occhi.Altrove nel sonetto Amor tra l’herbe una leggiadra rete: “le note non fur mai,dal dì ch’Adamo / aperse gli occhi, sì soavi et quete” (CLXXXI 7-8). Nel belnero et nel bianco: bellissima perifrasi et circollocutione de gli occhi; usolla ancoranella 2a sorella, Gentil mia donna io veggio, nella stanza Quanta dolceza unquanco:“Soavemente tra ’l bel nero, e ’l bianco / volgete il lume, in cui amor si strastulla,etc.” (LXXII 50-51) 43, et nel sonetto Non d’atra et tempestosa onda marina:

Nè mortal vista mai luce divinavinse come la mia quel raggio alterodel bel dolce soave bianco et nero,in che i suoi strali amor dora et affina (CLI 5-8).

(in interl. Non è contrario quel luogo nella canzone Tacer non posso et temo nonadopre: “d’avorio uscio et finestre di zaffiro” CCCXXV 17).

Che mi scacciar di là, dove Amor corse: non è altro l’amare perfettamente,et l’innamorarsi, che quando l’amante si trasforma nella cosa amata, et non sitrasforma l’amante nella cosa amata, se non quando, come affermano i platonici,il cuore et l’anima dell’amante passa et va nel petto della cosa amata, et alhoraè questa trasformatione perfetta, quando l’animo et il cuore dell’amato passa etva anco esso nel petto dell’amante. (add. marg. “Quando giugne per gli occhi al”XCIV 1). Onde dicono che tutti quelli che amano sono morti in se stessi, et vivonoin altrui, et questo è quando sono vivi nella cosa amata ciò è /f. 70v/ l’amore èreciproco et scambievole, perché quando non sono amati, si chiamano et sonomorti, et questo volle significare il nostro Messer Francesco in tutto quel leggiadroet dotto sonetto Mille fiate o dolce mia guerr<er>a etc. (XXI 1) (add. marg. etin quello Io mi rivolgo indietro a ciascun passo etc. XV 1) 44.

Et che il Poeta fusse trasformato in Madonna Laura si può vedere in milleluoghi et più nella canzone grande parlando d’amore et di Madonna Laura:

LA LEZIONE SU “VERDI PANNI, SANGUIGNI, OSCURI O PERSI” 705

42 La lezione corretta è ch’ i’ volsi... de la prima etade. Come nel caso precedente, Varchi citaprobabilmente a memoria.

43 Il richiamo a questi versi della seconda ‘canzone degli occhi’ è anche in VELLUTELLO, ff.16rv e GESUALDO, f. XLIIIIr. L’apprezzamento per la perifrasi del v. 23 (“nel bel nero et nel bianco”,che Gesualdo definisce più correttamente una parte per il tutto, cioè una sineddoche), è espressonegli stessi termini da FAUSTO: “bellissima discrittione de gli occhi” (f. 148r).

44 FICINO, Oratio II 8, 1327. CASTIGLIONE: “Perché come si mostra per il sonetto Io mi rivolgoindietro, il cuore dell’amante nell’amato si trasforma” (f. 20r).

E i duoi mi trasformaro in quel, ch’io sonofaccendomi d’huom vivo un lauro verde,che per fredda stagion foglia non perde.

et però disse poi nel fine:

Nè per nuova figura il primo alloroseppi lasciar etc. (XXIII 38-40 e 167-168).

Dove amor corse: secondo alcuni Madonna Laura et alhora sarebbe stato l’amorereciproco et questo modo usò il divinissimo Bembo dicendo: “quando mi corseal cor la mia donna gentile, / che correr vi devea sol’una volta etc.” (add. marg.“Così dello mio core etc. / et solo ivi con voi rimansi amore” LXXII 42 e 45) 45.

Et però è meglio intendere d’amore ciò è del fuoco et della fiamma d’amore,o vero de i pensieri, de’ quali si pascono et nutriscono gli amanti, il quale concettospresse assai felicemente il mio Lodovico Martelli nelle sue stanze dicendo inqueste due: “So che qual, ch’io vo dir, parrà menzogna, etc.” 46. Puossi ancoraintendere del pensiero et desio amoroso o affetto suo, come là: “Se ’l pensier chemi strugge etc.” (CXXV 1) o più tosto intende della sua immagine secondo iplatonici, onde disse:

Ben ti ricorda et ricordar ten deidella immagine sua quand’ ella corseal cor la, dove forse etc. (CCLXIV 41-43) 47.

et altrove: “l’imagin donna” (XCIV 2). /f. 71r/Novella d’esta vita etc.: alcuni spongono di questa vita novella, la quale m’

addoglia, per quello che disse nella canzone grande nella stanza: Io dico che daldì ch’il primo assalto etc.: “Lagrima anchor non mi bagnava il petto etc.” (XXIII27). Altri: furono novella radice d’esta vita etc., ciò è prima origine et principiocome altrove: “O del dolce mio mal prima radice” (CCCXXI 5), et altrove: “Sìdolce è del mio amaro la radice” (CCXXIX 14) 48.

Et quella in cui l’etade nostra si mira: ciò è Madonna Laura, nella quale ilnostro secolo, pigliando l’etade per gli huomini di quel tempo, come i Latini:Catullo, “O seclum insipiens et infacetum” 49 et “Cicero fuit eloquentissimus suaeaetatis”.

Si mira: si specchia come nel sonetto Le stelle, il cielo et gli elementi apruova: “Pose nel vivo lume in cui natura / si specchia, e ’l sol ch’altrove parnon truova (CLIV 3-4). O veramente si mira ciò è s’ammira et si maraviglia et

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45 Intendono ‘amor’ per Laura sia VELLUTELLO, f. 16r, che allega anche il verso petrarchescoaggiunto da Varchi nel margine sinistro, sia DANIELLO, f. 25r. BEMBO, Asolani, III, VIII, vv. 20-21.

46 Stanza XV 1, in Opere di M. Lodovico Martelli, f. 79r.47 Così FAUSTO, che glossa: “[gli occhi] per ricever l’imagine sua discacciaron l’anima del

proprio albergo” ed esemplifica con gli stessi versi della canzone I’ vo pensando. Il passo varchianosintetizza il capitolo ficiniano dedicato all’amore reciproco: FICINO, Oratio II 8, 1326.

48 La prima interpretazione (novella vita) è di entrambi VELLUTELLO, f. 16v e FAUSTO, f. 148r;la seconda (novella radice), di GESUALDO, f. XLIIIIr. Per CASTIGLIONE, f. 20r, il senso è il medesimoin ogni caso.

49 Catull. XLIII 8 (ma la lezione corretta è insapiens).

pregia per la singulare belleza et uniche doti et ecellenze sue come altrove: “ch’èpur un sol non solo a gli occhi miei / ma ’l mondo cieco che vertù non cura”(CCXLVIII 3-4); et altrove nella canzone Che debbo far! che mi consigli amore:

Ah orbo mondo ingratogran cagione hai di dover pianger mecoche quel ben ch’era in te perduto hai seco etc. (CCLXVIII 20-22) 50.

(add. marg. “Chi vuol veder quantunque può natura” CCXLVIII 1; et “questonostro caduco et fragil bene” CCCL 1). Et altrove: “Gloria di nostra etate o sommoGiove” (CCXLVI 7) 51. /f. 71v/

La qual piombo o legno vedendo è chi non pave: piombo o legno: al tuttoinsensato, cavato fuori dalle Tusculane di Marco Tullio dove dice: “Nisi plane inphysicis plumbei sumus” et altrove: “O plumbeum pugionem”, overo da Terentio:“Plumbeus, stipex, asinus” 52. (add. marg. Vedendo è chi non pave): disse altroveil Petrarca:

Gli occhi sereni et le tranquille cigliala bella bocca angelica di perle,piena et di rose et di dolci parole,che fanno altrui tremar di meraviglia (CC 9-12) 53.

et altrove: “Non ho midolla in osso o sangue in fibra, / ch’io non senta tremarpur ch’io mi appressi” (CXCVIII 5-6) (add. marg. “perduto hai l’arme / di ch’iotremava: omai che puoi tu farme?” CCLXX 75-76) 54.

La cagione perché gli amanti ancora che saggi, ancora che fortissimi,paventino et tremino alla presenza et inanzi il cospetto de gli amati loro ancorache inferiori, è, secondo i platonici, perché quello che gli spaventa, gli occupa etvince non è cosa humana, ma divina, ciò è la belleza, la quale non è altro cheuno splendore della divina bontà, la quale riluce nelle cose belle, et queste comeun simulacro et imagine di Dio gli fa stupire et tremare, et gli sforza a honorarlaet adorargli 55.

Quanto a le parole diremo sopra: Ma. Che. Apersi. Scacciar. Di là. Dove.d’esta. Pave 56. /f. 72r/

LA LEZIONE SU “VERDI PANNI, SANGUIGNI, OSCURI O PERSI” 707

50 La lezione corretta dei due testi petrarcheschi è, rispettivamente, ch’è sola un sol non pur agli occhi miei e che quel bel.

51 I due rimandi a margine in FAUSTO, f. 148r. La lez. corretta del terzo è o vivo.52 Cic. Tusc. I 29, 71 e Fin. IV 18, 48. Solo DANIELLO, f. 25r, rinvia in proposito al passo delle

Tusculanae Disputationes, al quale Varchi affianca la citazione dal De finibus, mentre Terenzio(Heautont. 874) è chiamato in causa qui da entrambi VELLUTELLO, f. 16v e FAUSTO, f. 148r.

53 Il rinvio petrarchesco, nella lezione erronea tranquille per stellanti, è prelevato da VELLUTELLO,f. 16v. Anche GESUALDO, f. XLIIIIr fa qui riferimento al sonetto CC.

54 Provengono invece da FAUSTO, f. 148r, questi ultimi due luoghi paralleli.55 FICINO, Oratio II 6, 1326: “Hinc etiam semper accidit: ut amantes amati aspectum timeant

quodammodo atque venerentur. Quod etiam fortes, dicam equidem [...], et sapientes inquam viricoram inferiore quovis amato pati consueverunt. Nempe non humanum est quod eos terret, quodfrangit, quod occupat [...]. Sed divinitatis fulgor ille in formosis emicans, quasi dei simulacrum,amantes obstupescere, contremiscere et venerari compellit”.

56 Si tratta di un promemoria per osservazioni di tipo, si presume, linguistico. Lo si legge, d’orain avanti, al termine dell’esposizione di ciascuna delle stanze successive.

[5] Lagrima dunque etc.Questa è la stanza alla quale vogliono alcuni che il Poeta contradica a sé

medesimo et s’affaticano grandemente nel trovare la continovatione 57. La quale,secondo la spositione data di sopra, è agevole et manifesta perché havendo arispondere alla obbiettione, perché egli piangeva sempre, disse nella stanzaprecedente che la cagione della doglia sua erano state le luci et gli occhi suoi, etMadonna Laura. Hora seguitando dice: dunque essendo stati i miei occhi cagionedelle piaghe del core, egli è anco giusto et ragionevole che essi lavino le piaghefatte per colpa loro, il che essi fanno piangendo. Et però io non piango perchénon voglia amare Madonna Laura, ma perché così faccendo gli occhi miei lavinole piaghe del core fatte da loro 58. La costruttione è questa. Dunque, ciò è poichéle mie luci mirando gli occhi di Madonna Laura furono cagione del amore etdoglia mia, lagrima, pigliando il numero singulare in luogo del plurale, che, laquale, io versi et mandi fuori dagli occhi miei, per quelle quadrella, ciò è percagione di quelle ferite che, le quali ferite, mi bagna et lava nel lato manco delcuore chi primier s’accorse, ciò è la luce mia, non mi svoglia, non fa ch’io nonvoglia, dal mio volere, d’amare Madonna Laura, perché la sentenza cade in partegiusta. Et è ragionevole et hora rende la cagione. /f. 72v/ L’alma mia sospira, siduole et si affanna per lei, ciò è per essa parte, che primier s’accorse, che fu laluce et vertù visiva del Poeta. Et è degno, cosa degna et dritta, che ella, ciò èessa luce, lave <et> lavando mediche et sane le piaghe sue, ciò è d’esso cuore,sue, fatte da lei luce quando guardò Madonna Laura.

Lagrima: usano i poeti pigliare spesse volte il numero del meno per quellodel più, come: “Lagrima ancor non mi bagnava il petto etc.” (XXIII 27); et Vergiliodisse nella prima egloga “Quamvis multa meis exiret victima septis”. Altrove disseil Petrarca: “Del cor sospiri, et da gli occhi escono onde” (CCXXXVII 23) 59. Chedagli occhi versi: che può essere nel 4° caso et nel primo, perché versare è alcunavolta attivo come là: “hor versò in una ogni sua largitate” (CCCL 7) et alcunavolta neutro come là: “Se dell’humor che versa, non pur stilla” 60, ciò è cadeabbondantemente a guisa di fiume.

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57 CASTIGLIONE: “Lagrima dunque: queste parole dunque secondo quelli che intendono il poetacome innamorato si vada contrariando, non avranno dependentia niuna dalla stanza superiore” (f.20r). Prosegue con un assai contorto e oscuro tentativo di restituire il senso dato da questi interpreti.

58 Della particolare complessità sintattica della quinta stanza avverte FAUSTO (“Questa stanzaha più dura la construttione che alcun’altra”, f. 148r), che riporta, di seguito alla propria, le diverseparafrasi di altri commentatori, nei quali sono da riconoscere Vellutello e, direi, Gesualdo: se ilriscontro è corretto, è un piccolo dato a favore della precedenza cronologica del commento del napole-tano (sulla questione: BELLONI, Laura, 192). L’esposizione del soggetto e la costruzione proposta dalVarchi sono vicine a quella del Gesualdo e soprattutto di DANIELLO: “Dice ch’essendo gli occhi suoistati la radice, et il principio del suo doglioso stato, essere ancora dritta e convenevole cosa ch’essine soffrino la pena e ne piangano sempre [...]. Et è degno che quella parte [gli occhi] lave le piaghesue, cioè dell’anima” (f. 25r). Varchi interpreta diversamente solo il possessivo ‘sue’: le piaghe nonsono dell’anima, ma degli occhi che le hanno procurate all’anima nel momento in cui hanno vistoLaura.

59 La lezione corretta è: sospir’ del petto, et de li occhi escono onde. La citazione virgiliana èEcl. I 33. La nota linguistica sull’uso del singolare per il plurale, a proposito di ‘lagrima’ è già inFAUSTO: “Ha posto lagrima in singulare, che significa: per piangere ch’io faccia, overo pioggia dilacrimar non mi svoglia [...]” (f 148r); anche SILVANO: “Disse lagrima e non lagrime [...] dunque ècongiunzion razionale e con ragion congiunge la stanza di sopra con la presente” (f. XXXIIIr).

60 BEMBO, Rime, CXXX 1; ma la lezione corretta è Se col liquor.

Per quelle quadrella: ciò è per quelle punture, ferite et piaghe; usano i poetipigliare la cagione per gli effetti come fece anco Vergilio: “Saevus ubi Aeacidaetelo iacet Hector, etc.” 61. Quadrella: sono le armi et gli strali d’amore: “S’io ’ldissi amor l’aurate sua quadrella / spenda in me tutte, et le impiombate in lei”(CCVI 10-11) /f. 73r/ il che tolse da Ovidio nelle Trasformationi: “Quod facit,auratum est et cuspide fulget acuta / quod fugat, obtusum est et habet sub arundineplumbum”. Et altrove: “facit hoc, fugat illud amorem” 62. Nel lato manco: dove ilcuore; altrove: “Amor colla man destra il lato manco / m’aperse et piantòvi entroin mezzo ’l core etc.” (CCXXVIII 1-2).

Chi primier s’accorse: chi vide prima Madonna Laura che fu la luce et gliocchi del Poeta. Che ’n giusta parte la sentenza cade: cavato da Homero secondoalcuni et per traslatione dalle bilance, però disse cade 63.

Per lei sospira l’alma etc.: se gli occhi mirando Madonna Laura furonocagione della piaga et de sospiri dell’anima è cosa ragionevole che ne pata lapena chi n’ha la colpa, et che essi occhi lavino le piaghe fatte da loro. Disse lavetolto forse da Vergilio: “Et vulnera lavit”. Et è da notare che i sospiri et le lagrimesono aiuto et grande sfogamento a chi si duole, onde Ovidio disse: “Fleque meoscasus, est quaedam flere voluptas / expletur lachrimis egeriturque dolor” 64. È ancorada notare qui che se bene il Poeta piange sempre et sospira dolendosi, non peròè contrario a quello dice di sopra che non sostiene alcun giogo men grave, et inmolti altri luoghi percioché esso medesimo risponde a questo, sì come là nel sonetto:

Cantai, hor piango, et non men di dolcezadel pianger prendo che del canto presi,ch’a la cagion, non a l’effetto, intesison i miei sensi vaghi pur d’alteza (CCXXIX 1-4). /f. 73v/

Et altrove: “sì dolce è del mio amaro la radice” (CCXXIX 14); et altrove:

Pur mi consola, che languir per lei meglio è che gioir d’altra; et tu mel giuriper l’orato tuo strale, et io tel credo (CLXXIV 12-14).

Et altrove:

LA LEZIONE SU “VERDI PANNI, SANGUIGNI, OSCURI O PERSI” 709

61 Verg. Aen. I 99. Anche GESUALDO segnala la metonimia, formata dalla causa per l’effetto, diquadrella (f. XLIIIIr).

62 La prima citazione è Ov. Met. I 469-71; la seconda è il precedente v. 468, citato però conl’inversione dei due sintagmi: la lezione corretta è infatti fugat hoc, facit illud amorem.

63 Si riferisce a GESUALDO: “Ove è metafora presa acconciamente da giudici, che far si sogliono,come n’insegnò Homero nello scudo d’Achille fabricato da Vulcano, ov’è scolpito il giudicio di duo,l’un dimandando il debito, l’altro dicendo haver già tutto renduto. Tiene la giustitia la bilancia [...].Tienla anchora colui che governa il mondo, onde apo il medesimo Poeta combattendo Hettorre conAchille, Giove, perché ragionevolmente si vedesse chi di loro morir dovesse, prese la bilancia” (f.XLIIIIr).

64 Ov. Trist. IV 3, 37-38 e Verg. Aen. IX 487 (ma la lezione corretta è aut volnera lavi). Lastessa citazione virgiliana, nella stessa lezione erronea, nonché l’osservazione sulla funzione di sfogodel dolore assolta dalle lagrime si leggono in GESUALDO, f. XLIIIIv.

Così con quello stral dal lato mancoche mi consuma et parte mi diletta,di duol mi struggo et di fuggir mi stanco (CCIX 12-14) 65.

Et altrove: “Togliendo anzi per lei sempre trar guai / che cantar per qualunque edi tal piaga etc.” (CCXCVI 12-13).

Quanto a le parole diremo sopra: dunque, versi, per, bagna, primier, quadrella,svoglia, degno, sue, lave.

[6] Da me son fatti etc.In questa 6a stanza secondo alcuni fornisce la prima parte principale et

comincia la 2a dove il Poeta di nuovo, secondo loro, si contradice, et anco questadicono non havere continovatione 66. Alcuni dicono che egli segue di provare quantoha detto nella stanza precedente, ciò è esser degno che gli occhi pianghino perdisfogare l’anima dolorosa, et che così vuole fare, ancora che tali pensieri sianodiversi, ciò è contrari a lui etc. 67.

Altri dicono che infino a qui il Poeta ha parlato della belleza, havendo speranzad’haverla a godere et che Madonna Laura si havesse a innamorare di lui et cosìintendono nella 2a stanza vendetta fia etc. et hora in questa 2a parte parla dell’ho-nestà et diffi- /f. 74r/ dandosi di poterla conseguire, perde ogni speranza di vendettaet però disse: Da me son fatti i miei pensier diversi. La quale oppenione è contrariaa quello che seguita immediate, perché non direbbe tal già qual io mi stanco, seintendesse dell’honestà perciò che Dido non fu tale 68. A noi pare che la contino-vatione penda di sopra et sia meravigliosa, et è cavata questa sentenza non dalquarto di Vergilio quando Dido si duole, ma dalla pistola d’Ovidio che scriveDidone ad Enea 69. La continovatione pende da quelle parole: et quella in cuil’etade etc., perché havendo detto due essere state le cagioni dell’amore et passionisue, ciò è l’hora et il giorno che egli vide Madonna Laura et la seconda cagioneessa Madonna Laura, et havendo risposto a la prima che però piangevano gli occhigiustamente, perché havendo colpa dovevano anco haver la pena, et di Madonna

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65 La lezione corretta del v. 12 è Tal io con quello stral dal lato manco.66 Il Varchi riprende quanto esposto all’inizio del suo commento dal Castiglione (vedi supra,

p. 694 nota 2). Un giudizio pesantemente negativo su questa stanza è espresso da SILVANO: “Questaè quella stanza, qual, se gli uomini non aran grazia della resurrezione del Petrarca mai non crederannoche sia posta se non per contrario. Et è dubbio anchor che poi che fusse resuscitato, non se licrederebbe” (f. XXXIIIv).

67 GESUALDO: “Poi che il Poeta ha determinato non per lagrimar, ch’egli faccia, torsi di voglial’amoroso disio, giudicando esser degno che gli occhi piangano per isfogar l’anima dolorosa, quisegue affermando sua sentenzia, benchè quei suoi pensieri di tal giudicio siano contra lui stesso” (f.XLIIIIv).

68 CASTIGLIONE: “Quando pensava alla bellezza sua aveva credenza, e non poca speranza diconseguirla. Quando all’onestà si desperava, e diffidava di poterla conseguire: e così nascevasi unpensiero diverso al primo”; poco oltre: “ora comincia a pensare alla bellezza e alla sua onestà, mapiù alla onestà [...] e non più spera quelle cose prima sperava: cioè di far ch’essa senti le fiammeamorose” (ff. 16v e 21v). Per Castiglione, cioè, motivo della stanchezza del poeta è l’onestà di Laura.L’obiezione del Varchi è giustificata dal fatto che anche il Castiglione interpreta come riferiti aDidone i versi seguenti. Il Varchi scrive qui erroneamente 2a stanza invece di 3a.

69 Ov. Her. VII (Epistula Dido Aeneae). La segnalazione della fonte ovidiana piuttosto chevirgiliana sembra rivolgersi a GESUALDO, f. XLVr, che invece rimanda in proposito al lamento diDidone in Aen. IV 529-34.

Laura, che fu la seconda cagione, et più assai che la prima, non haver detto cosaalcuna, et però risponde hora che se bene Madonna Laura fu cagione de i suoimartiri, non per questo non vuole non amarla o pregare alcuna cosa contra leicome fece Dido nel 4° che disse: “Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor / quiface Dardanios ferroque sequare colonos, etc.”; “imprecor, arma armis: pugnentipsique nepotesque” 70. /f. 74v/ Anzi vuol fare tutto il contrario come fece lamedesima Didone nella pistola appresso Ovidio:

Ille quidem male gratus et ad mea munera surduset quo, si non sim stulta, carere velim.Non tamen Aenean, quamvis male cogitat, odi;sed queror infidum questaque peius amo.

Et poco di sotto: “Perdita ne perdam timeam etc.” 71. Et però disse: i miei pensierisono fatti diversi da me, volendo rendere bene per male.

Et tale, intendendo di Di<d>one, stancandosi come io mi stanco, ciò è havendosimili voglie et pensieri, s’ammazò, come si vede nel fine di detta pistola; et nonè meraviglia, anzi usitatissimo, che due poeti diversi parlando d’una cosa medesimasiano vari seguendo ciascuno il proponamento suo secondo la materia soggetta,onde Vergilio disse: “Si quis mihi parvolus aula etc.”, et Ovidio per il contrariodisse: “Forsitan et gravidam Didon, scelerate relinquas, / parsque tui lateat corporeclausa meo”, pensando di potere muoverlo maggiormente così 72.

Nè quella priego che però mi scioglia, etc. Qui comincia la seconda parte,et entra nelle lodi de i beni dell’animo, diventando amatore contemplativo, perchédice: se bene io non potrò conseguire il fine dell’amore attivo, io da quello saliròallo speculativo, et può (?) /f. 75r/ sciogliersi dall’amore ammazandosi, come feceDidone, perché come dice anco Platone, non c’è strada più dritta di salire al cielonè più spedita che mediante l’amore, et non si aspira et cerca di salire allo regnodi gloria in nave più salda che in quella d’amore 73.

La costruttione è questa: i miei pensieri son fatti diversi da me, tale già,stancandosi quale, et come, io mi stanco, ciò è essendo condotta ne termini dove

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70 Verg. Aen. IV 625-26 e 629.71 Ov. Her. VII 28-31 e 61 (la cui lezione corretta è Perdita ne perdam timeo). Il richiamo

ovidiano, con citazione degli stessi versi 28-31 e 63-64 delle Heroides, si legge anche in DANIELLO,f. 25v, la cui interpretazione dell’intera stanza risulta così sostanzialmente coincidente con questadel Varchi: si veda quanto osservato supra, p. 708.

72 Verg. Aen. IV 328 e Ov. Her. VII 137-38. Commentando questa stanza in polemica conVellutello che aveva contestato l’identificazione di tal già [...] l’amata spada in se stessa contorsedei vv. 37-38 con Didone, adducendo motivazioni di coerenza, poichè nei Trionfi Petrarca si erasforzato “di levar de la mente de gli uomini ” che Didone si fosse uccisa per Enea (VELLUTELLO, f.17r), Gesualdo replica con una considerazione di poetica analoga a questa di Varchi: “i poeti hannoin costume di seguir diversi scrittori, sì come apo Virgilio Servio n’ammonisce”, esemplificandolacon altri luoghi petrarcheschi (Rvf CII e XLIV) nei quali il divergente trattamento di uno stessosoggetto storico è determinato dalla diversità delle fonti cui il poeta si sarebbe ispirato (GESUALDO,f. XLVv).

73 CASTIGLIONE: “Perché mediante la bellezza di Laura cadeva nell’amor divino: come quelleche son scala al fattor chi ben le stima, come se mostrò nella Canz. Nel dolce tempo” (f. 22r);GESUALDO: “La via amorosa esser la più dritta che meni al cielo, sì come nel sonetto Amor piangevaet io con lui talvolta (Rvf XXV), s’è detto coll’autorità di Platone et in altri luoghi; perché la bellezzaè quello mezo ch’al celeste albergo ne riconduce” (f. XLVr).

sono io, contorse et rivolse in se stessa et nel petto suo la spada amata. Nè ioper questo però prego quella spada che mi scioglia d’amore et di vita, ché, perché,tutte l’altre vie al cielo, d’andare al cielo, sono men dritte, et non s’aspira et sidisidera et spera di salire al regno glorioso in nave più salda, più ferma et certa,che in quella, s’intende d’amore et massimamente Madonna Laura.

Da me son fatti i miei pensier diversi: alcuni intendono: io vo pensandodiverse cose et mandano quello da me non a diversi, ma a fatti, ciò è io fo, etallegano il sonetto “Io son già stanco di pensar sì come / li miei pensieri in voistanchi non sono, etc.” (LXXIV 1-2) 74. Altri altramente; a me pare il senso et lacontinovatione data di sopra acomodata alle parole et alla sentenza. Ciascuno pigliqual più gli piace. /f. 75v/

Tal già quale io mi stanco: ciò <è> Didone stancandosi nel modo medesimoche mi stanco io, come si è detto di sopra presso Ovidio. L’amata spada: peressergli stata lasciata da Enea. Vergilio: “Dardanium, non hos quaesitum munusin usus”. Et in quelle dolcissime et miserabili parole: “Dulces exuviae, etc” 75.

Nè quella prego etc.: quella spada, la quale alcuni intendono per la dispera-tione. Dante: “Amor mi ha posto in terra et stammi sopra / con quella spadaond’egli uccise Dido etc.” 76. Alcuni intendono quella, ciò è Madonna per ecellenza,come i latini: Tibullo: “Pareat ille suae etc.” 77. Scioglia: dell’amore o di vita.Vergilio: “meque his exsolvite curis” 78.

Che men son dritte al ciel tutte altre strade: sentenza, come ho detto, diPlatone perché, etc. 79 Et non s’apira al glorioso regno: alla via dell’honore o delregno beato. Certo in più salda nave: traslatione dal mare perché questo mondoet questa nostra vita non è altro che un mare come dice altrove: “Di questotempestoso mare stella, etc.” (CCCLXVI 67) 80.

Quanto alle parole diremo sopra: tal, qual, s’aspira, certo. /f. 76r/

[7] Benigne stelle, etc.In questa 7a stanza, essendo il Poeta, come s’è detto, diventato amante contem-

plativo et della belleza dell’animo, loda Madonna Laura dall’honestà 81. Et perchéi platonici considerano in qualunche cosa tre cose: quello che precede et va inanzi,quello che accompagna alcuna cosa et quello che ne seguita, et se queste cose

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74 Così FAUSTO, f. 148v. Riporta simile interpretazione anche GESUALDO (f. XLVr), attribuen-dola ad alcuni Accademici del circolo minturniano, nel passo già citato supra, p. 694, nota 2.

75 Verg. Aen. IV 647 e 651; il primo dei due versi virgiliani è richiamato in proposito da FAUSTO,f. 148v, e da DANIELLO, f. 25v; il secondo da GESUALDO, f. XLVr.

76 Dante, Rime, XLVI (ma la lezione corretta è E’ m’ha percosso in terra e stammi sopra / conquella spada ond’elli uccise Dido). Il luogo dantesco si legge anche in FAUSTO, f. 148v, che citaperò correttamente.

77 Tib. I 4, 75. Pressoché tutti i commentatori precedenti e anche Daniello interpretano quellanel senso di Laura; GESUALDO, f. XLVr, ammette però l’alternativa col senso di ‘spada d’amore’.

78 Verg. Aen. IV 652; ancora una volta la citazione virgiliana è in GESUALDO, f. XLVr. 79 Qui Varchi rinvia, solo alludendovi, a quanto ha già illustrato in proposito.80 FAUSTO: “Questo nostro mondo è figurat’un mare, però ha detto nave” (f. 148v).81 Conforme alla bipartizione del Fausto. Diversamente dal Varchi però, che legge una gradua-

lità nell’ascesa del poeta alla contemplazione della virtù di Laura, introducendola dalla metà dellastanza precedente, egli ne sottolinea e apprezza, con felice intuizione critica, la repentinità: “Insinoa qui della bellezza del corpo, ora condiscende alle qualitadi dell’anima e con mirabile brevitadepassa” (FAUSTO, f. 148v).

sono buone, essi le lodano, se ree le biasimano 82, però il Poeta comincia dallaprima et racconta il felice nascimento di Madonna Laura, poi loda essa MadonnaLaura, poi gli effetti ch’ella fa conservando verde il pregio et gloria dell’honestà.La costrutione sia così.

Benigne et cortesi stelle le quali si fecero compagne al fianco, al ventreavventuroso, della madre di Laura quando ella la scorse giù nel mondo, ciò èquando la partorì, il qual parto, ciò è Madonna Laura, è stella in terra, et conservaet mantiene verde il pregio et honore d’honestà come foglia in lauro si mantieneverde, ove, ciò è nel quale lauro, alludendo sempre al nome di lei, non spira, nonmove fulgore o saetta, nè indegno vento che l’aggrave, che le sia molesto o purun poco la pieghi, alludendo a Laura. Dove non cade se saetta et forza (?) è toltodal 2° di Vergilio: “Fulminis afflavit ventis et contigit igni” 83. /f. 76v/

Benigne stelle: questo è detto per sclamatione o più tosto ammiratione. Alcunic’ (?) intendono il verbo sustantivo furono, il che non è necessario 84. Che compagnefersi: ciò è che regnavano quando Madonna Laura nacque, et così piglia l’ascen-dente nell’hora della natività et non della concettione. Il medesimo fece in quellamiracolosa stanza della canzone Tacer non posso et temo non adopre, etc.: “Il dìche costei nacque, etc.” (CCXXV 61) 85. Et altrove disse: “sua ventura ha ciascundal dì che nasce” (CCCIII 14). Et qui è da notare che il Poeta si concorda congli astrologi come anco nel sonetto: Le stelle, il cielo et gli elementi a pruova(CLIV); et nel sonetto: La gola e ’l sonno etc.: “et è sì spento ogni benigno lume/ del ciel, per cui s’informa humana vita etc.” (VII 5-6). Altrove lo mette indubbio: “Fera stella, se ’l cielo ha forza in noi / quanto alcun crede, fu sotto ch’ionacqui” (CLXXIV 1-2). Altrove il negò, nella canzone allegata Lasso me: “Tuttele cose di che ’l mondo è adorno etc.” (LXX 41).

Al fortunato fianco: piglia fianco per il ventre, forse tolto di là: “Beatus venterqui te portavit” 86. Quando il bel parto giù nel mondo scorse: bellissima et poeticacircollocutione.

Ch’è stella in terra: perché gli effetti s’assomigliano sempre alla causa.Altrove disse: “in un soggetto ogni stella consperse” (CCCXXXIX 4) (add. marg.“tutta accesa de’ raggi di sua stella” CCCXXXVI 4) 87. /77r/ Come in lauro fogliaconserva verde il pregio d’honestate: (add. marg. “Alhor saranno i miei pensieria riva / che foglia verde non si trovi in lauro” XXX 7-8) bellissima lode et maggioreche si possa dare a donna, onde là: “Cara la vita et dopo lei mi pare / vera honestà,ch’in bella donna sia, etc.” (CCLXII 1-2), onde anco ne’ Trionfi la pone in cielocoronata dell’alloro, “che meritò la sua invitta honestate” (CCCXIII 11).

Ove non spira folgore nè indegno / vento mai che l’aggrave: alcuni piglianoper folgore il sole ardente, et per il vento il gielo per quello che disse altrove:

LA LEZIONE SU “VERDI PANNI, SANGUIGNI, OSCURI O PERSI” 713

82 FICINO, Oratio I 2, 1321: “Tria in omni re viri optimi philosophus quisque Platonis imitatorconsiderat, quae antecedunt, quae comitantur, et quae sequuntur”.

83 Verg. Aen. II 649.84 Si tratta di GESUALDO: “Benigne stelle, con meraviglia, o pur vi manca il verbo de la sostantia,

che ’ntender si dee, ciò è sono o furono” (ff. XLVv-XLVIr). 85 Rimandano a questo luogo parallelo tutti i commentatori cinquecenteschi; tra questi, FAUSTO

(f. 148v) si sofferma su considerazioni astrologiche per precisare che l’ascendente è calcolato almomento della nascita e non del concepimento.

86 Lc 11, 27. Si legge in GESUALDO, f. XLVIr. 87 Entrambi questi luoghi paralleli sono prodotti da FAUSTO, f. 148v.

“dell’arbor, che nè sol cura, nè gielo” (CXCV 4). Alcuni per il vento intendonoi sospiri come là: “Piovonmi amare lagrime dal viso / con un vento angosciosodi sospiri” (XVII 1-2) 88. Altri il folgore per il fuoco della concupiscenza, il ventoper l’appetito. Altri per il folgore l’ardore degli appetiti, per il vento l’impetodegli affetti. Altri per il folgore il peccato, per il vento la suspitione del peccato 89.

Quanto a le parole diremo sopra: fersi, scorse, aggrave. /f. 77v/

[8] So io ben, ch’a voler etc.Havendo cominciato a lodare Madonna Laura da beni dell’animo usa hora

con meraviglioso artificio un colore retorico arguendo dall’impossibile, dicendoche non la loda perché sa bene che si stancarebbe il più degno scrittore che maifusse 90. Poi con incredibile affetto et meraviglia dimanda chi è quello di tantamemoria che possa capere, non che scrivere quanta vertù, et quanta beltà vedechi mira gli occhi di Madonna Laura, appositiv<ament?>e segno d’ogni valore,et dolce chiave del suo cuore. La costruttione è facile.

So io ben ch’a voler chiudere in versi sue lodi fora stanco: onde disse nelsonetto “Parrà forse ad alcun che ’n lodar quella / ch’i adoro in terra errante siail mio stile, etc.” (CCXLVII 1-2); et nella canzone: “Non perch’io non m’aveggia /quanto mia laude è ingiuriosa a voi etc.” (LXXI 16-17); et “Tacer non posso,etc.” (CCCXXV 1); et “Vergognando talhor, etc.” (XX 1).

Chi più degna la mano a scriver porse: o fusse Homero, o Vergilio, oCicerone, o Demostene, “È cosa da stancare Athene, Arpino, / Mantova et Smirna,et l’una et l’altra lira” (CCXLVII 10-11) 91.

Quanta vede vertù, quanta beltade: lode dell’anima prima, poi del corpo. /f.78r/ Pigliando la virtù per tutte le doti et eccellenze dell’anima, et belleza perquelle del corpo. Et qui è da notare che i platonici se bene amano più la bontàet vertù dell’anima che la belleza del corpo, tutta via cercano d’havere insiemel’una cosa et l’altra, et però disse quanta vede vertù, mettendo prima le doti dell’a-nimo, poi quanta beltade, dote del corpo. Et tengano che sia quasi impossibileche dove sia beltade di corpo non sia anco bontade d’animo, et se hoggi si credealcuna volta il contrario, è da credere che sia per accidente, et che venga dall’usocorrotto et cattive prediche et costumi.

Chi gli occhi mira d’ogni valor segno: della vertù de gli occhi di MadonnaLaura, oltra le tre sorelle de gli occhi, n’è pieno tutto il canzoniere del Petrarcaet pare a me che tutto quello n’ha detto in tutta l’opera sparsamente, sia raccoltoet ristretto qui in tre parole, dicendo questa appositione d’ogni valor segno, ciòè mira et oggetto di qual si voglia virtù et valore, perché chiunche mirava gliocchi di Madonna Laura s’accendeva ad alte imprese et gloriose, perché quividentro era collocata compiutamente ogni virtute, come disse egli stesso nella 3a

canzone de gli occhi: “Dico: se ’n quella etate, etc.” (LXXIII 31) 92.

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88 In questo segmento della lezione, Varchi tiene particolarmente presente FAUSTO, f. 148v, dalquale proviene il precedente suggerimento di Rvf CCCXIII 11 nonché l’interpretazione riportata difolgore e vento dei vv. 48-49, con relative citazioni di luoghi paralleli.

89 Rispettivamente VELLUTELLO, f. 17v; GESUALDO, f. XLVIr; CASTIGLIONE, f. 22r.90 La segnalazione dell’adynaton è in FAUSTO: “Or vedendo di non poter narrar appieno le sue

lode, arguisce dallo impossibile” (f. 149r).91 GESUALDO: “qual fu Homero o Vergilio” (f. XLVIr). Si leggono invece in FAUSTO, f. 149r, i

versi 9-13 di Rvf CCXLVII. 92 Il verso parafrasato è Rvf LXXIII 38: “locar compitamente ogni virtute / in quei be’ lumi”.

Dolce del mio cor chiave: seconda appositione degli occhi, i quali gli aprivanoil core et serravano, onde disse altrove: “quel core ond’hanno i begli occhi lachiave” (LXXII 30) 93. Puossi ancora leggere questo verso non per appositione,ma per vocativo, et mandarlo a quello che segue chiamando Madonna Laura odolce chiave del mio cuore 94.

Quanto il sol gira: quanto il sol circonda. Amor più caro pegno, donna, divoi non have: bellissima fine certamente et degna di qualunche alto premio, toltaforse da Vergilio: “qua sol utrumque recurrens / respicit oceanum”. Altrove disse:“Dolce mio caro et pretioso pegno / che natura mi tolse, e ’l Ciel mi guarda”(CCCXL 1-2) 95.

Quanto a le parole: chiudere in versi, fora, porse, cella, segno, gira, pegno, have.Et questo è quello etc. 96.

LA LEZIONE SU “VERDI PANNI, SANGUIGNI, OSCURI O PERSI” 715

93 Il verso è citato anche da FAUSTO, f. 149r.94 Si tratta di VELLUTELLO: “et a lei il suo parlar volgendo, la domanda dolce chiave del suo

cuore” (f. 17v), la cui interpretazione è riportata anche da GESUALDO, f. XLVIr.95 Entrambi i richiami di luoghi paralleli provengono da FAUSTO, f. 149r, che cita i versi virgiliani

(Aen. VII 100-101) nella stessa lezione (respicit per aspicit).96 L’‘eccetera’ riguarda le consuete formule di conclusione: si veda, ad esempio, VARCHI, Opere,

II, 568b.

APPENDICE

PRIMA REDAZIONE DEL PROEMIO DELLA LEZIONE SU RVF XXIX

(Archivio di Stato di Firenze, Carte strozziane, serie III, 206, ff. 93rv e 96rv)

Bellissima certamente et non meno difficile che utile (a) canzone è questa laquale io per osservare il lodevole ordine dell’ardentissima Accademia nostra, etobbedire a’ comandamenti tuoi, Autore et primo principe nostro meritissimo, hoscelta hoggi tra tutte l’altre a dovere leggere et isporre in così dotta et (b) honoratacompagnia. Del che, oltra molti altri argomenti, fanno fede manifestissima le molteet diverse spositioni, che da molti et diversi accomodate ci sono, conciò sia cosa,che alcuni (c) credettono (d), et quello ch’è più, s’ingegnarono di fare credere adaltri, che così dotto /scientiato/ (e), così giuditioso, così accorto poeta quanto fu ilnostro (f) leggiadro et (g) veramente divino messer Francesco Petrarca, contradicessea se (h) stesso (i) et più volte (j) in una (k) canzone medesima. Alcuni, et non puntomeno follemente, ardirono dire questa canzone, per la difficultà della misura etmaleagevoleza delle rime sue essere stata composta dal poeta senza ordine, senzaleggiadria, et senza (l) continovatione (m) alcuna, come sogliono fare tal volta gliinnamorati spinti dalle passioni per disfogare il dolore. Altri, per il contrario,dissero questa canzone essere stata fatta con tanto artificio et così bene et maestre-volmente intessuta l’una stanza coll’altra, ch’essi la chiamarono la canzone incate-nata. Forse, s’è lecito agguagliare le cose picciole a le grandi, a similitudine delleTrasformationi d’Ovidio, il quale libro per le maravigliose congionture et ingegno-sissime appiccature delle (n) precedenti favole colle seguenti a guisa che nelle /anelli/catene si vede (o), /fu/ (p) è chiamato da alcuni l’opera concatenata. Et così quelloche per ventura devea essere cagione di sbigottirmi, ciò è la /f. 93v/ difficultàdella canzone, et le varie e et fra sé contrarie interpretationi d’essa, è stato cagionedi confortarmi et d’inanimirmi a pigliare più tosto questa che alcune dell’altre (q),non disiderando nè cercando altro gli Infiammati et io massimamente, che d’impa-rare. Oltre che devendosi nella accademia nostra (r) per l’inanzi, secondo gli ordiniet statuti nostri leggere non meno greco (s) et latino che toscano, mi è paruto cosaconvenevole, essendosi letti (t) infin qui (u) sempre /sei de’/ sonetti, si leggessi ancora,inanzi si passassi alle cose latine et greche, almeno una delle (v) canzoni (w), lequali, come che tutte bellissime et utilissime siano, come sa ciascuno (x), oltre labelleza et utilità (y) a questa si aggiugne ancora la difficultà, la quale noi ci ingegna-remo et sforzeremo secondo le deboli forze nostre (z), di fare agevole /agevolareet far chiaro/ (a) quanto potremo il più, non seguendo nè le spositioni, nè l’auto-rità d’alcuno se non dove et quanto ci parranno concordare col vero et colle parole.

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(a) et leggiadra canc. prima di canzone (b) dotta et in interl. (c) si sono dati canc. prima dicredettono (d) ett in interl. (e) scientiato in interl. (f) div canc. prima di leggiadro (g) leg-giadro et in interl. (h) me canc. prima di stesso (i) non per una volta sola canc. prima di in(j) et più volte in interl. (k) medesima canc. prima di canzone (l) senza in interl. (m) nes-suna canc. prima di alcuna (n) una canc. prima di precedenti (o) a guisa che nelle /anelliin interl./ catene si vede, add. marg. (p) fu in interl. (q) a pigliare più tosto questa, chealcuna (altra canc.) dell’altre in interl. (r) nella /in questa in interl./ accademia nostra ininterl. (s) che la canc. prima di et latino (t) letti add. marg. (u) letti canc. prima di sempre(v) delle in interl. (w) canzoni corr. canzone (x) che le ha canc. prima di oltre la (y) oltrela belleza et utilità add. marg. (z) secondo le deboli forze nostre in interl. (a) agevolare efar chiaro in interl.

Dico dunque, che per l’intelligenza della presente canzone sono da notare trecose principalmente. La prima è che Aristotele nel primo libro dell’Etica dividendole sorti de i beni, dice le maniere de i beni /essere/ (b) sono tre, nè più nè meno,perciochè alcuni sono et si chiamano beni esterni (c) della fortuna, come essempigratia le riccheze et gli honori; alcuni beni del corpo come (d) la belleza et le forze,et alcuni dell’animo come le virtù et le scienze. Et questi (e) soli sono quelli chepropiamente (f) si possono et si debbeno chiamare veri (g) beni (h) dell’huomo, per ciòche il vero et propio bene dell’huomo debbe essere appropiato a lui et in suapotestà, come /et tali/ (i) sono le scienze et le virtù solamente, perché (j) gli honoriet riccheze non sono in potestà dell’huomo /nostra/ (k) ma della fortuna, la qualesi è /dispone/ (l) come più a lei piace, onde da lei si chiamano beni della fortuna;similemente i beni del corpo non sono in potere nostro nè proprii dell’huomo /f.96r/ ritrovandosi in molti altri animali et questo è quello che (m) intendeva /scriveva/ (n)

Seneca confortando Lucillo agli studi della santissima filosofia, la quale è il verobene et più (o) in potere dell’huomo et appropiato a lui che nessun altro: se tu seigrande, anco gli arbori et gli elefanti sono grandi, se forte et gagliardo, anco (p) ileoni et i tori, se bello, anco i pagoni, se veloce, anco le lepri. Et altrove: se tusei ricco (q) loda et ringratiane la fortuna, se bello la (r) natura, ma se sei saggio testesso (...) (s) dichiarare etc.

La seconda cosa che si deve notare (t) per maggiore agevoleza di questa canzoneè che, come si disse nella spositione del sonetto Non dall’hispano Ibero etc.,nell’anima nostra sono tre sorti d’amore oltre quelle due che si ritruoveno /sempresono/ (u) in tutte le anime generalmente (v) et che si chiamano demoni, ciò è, ilcontemplativo, l’attivo o vero morale, et il lascivo. Quelli che ardono d’amorecontemplativo diventati quasi dii considerano solo et contemplano colla mente (w)

la belleza spiritale et divina; i lascivi per il contrario, fatti bestie, seguitano coltatto la terrena et mortale; gli attivi et morali, come sono nel mezo dell’uno etdell’altro, così tra l’uno et tra l’altro si rimangono non potendo volare tanto altoquanto i primi, nè caggendo sì basso come gli ultimi, et però si rimangono inquel mezo contentandosi et acquetandosi nel piacere et diletto di (x) vedere etconversare colla (y) cosa amata.

La terza cosa è che l’amore, secondo Platone, non è altro, che disiderio dibelleza, et la belleza non è altro che (z) uno splendore et una gratia che nascedall’unione et dalla temperanza di più cose, et è la belleza (a) /f. 96v/ di tre maniere,perciò che si ritruova in tre cose: negli animi, ne i corpi, et ne’ suoni; negli animinasce dalla temperanza di più virtù, ne i corpi dalla concordia di più colori et

LA LEZIONE SU “VERDI PANNI, SANGUIGNI, OSCURI O PERSI” 717

(b) che canc. prima di le maniere; essere in interl. (c) esterni in interl. (d) la sani canc.prima di la belleza (e) questi corr. questa; una canc. prima di soli (f) veramente canc.prima di si possono (g) veri in interl. (h) et propri de canc. prima di dell’huomo (i) ettali in interl. (j) i beni canc. prima di gli honori (k) nostra in interl. (l) dispone in interl.(m) bene canc. prima di intendeva (n) scriveva in interl. (o) appr non canc. prima di inpotere (p) anco ricostruito per congettura da guasto meccanico (q) sei ricco ricostruitoper congettura da guasto meccanico (r) bello la ricostruito per congettura da guasto meccanico(s) testo mancante per guasto meccanico (t) deve notare ricostruito per congettura da guastomeccanico (u) sempre sono in interl. (v) generalmente in interl. (w) colla mente in interl.(x) piacere et diletto di in interl. (y) et conversare colla in interl. (z) una concinnità perdir così et canc. prima di uno splendore (a) et è la belleza ricostruito per congettura daguasto meccanico

linee, ne (b) i suoni dalla consonanza di più voci. La belleza dell’animo si conoscecolla mente, quella del corpo cogli occhi, quella de i suoni colle orecchie. Essendodunque l’amore desiderio di godere la belleza (c), et essendo ciascuna bellezaincorporale, la mente (d) et il vedere et lo udire sono quelli soli che possono goderela belleza et di (...) (e) è contenta. Gli altri tre sensi (...) (f) l’odorare, il gustare etil toccare non ci hanno che fare perché alhora si chiamarebbe non amore, malibidine et rabbia.

Fornite queste tre cose, diremo della intentione. Vuole il gentilissimo poetanostro in questa canzone lodare come in mille altri luogi (g) la sua bellissima etcastissima Madonna Laura et la loda prima da i beni del corpo, et poi da queglidel corpo et dell’ (h)anima insieme, non faccendo mentione di quelli della fortunacome quelli (i) i quali di vero arrecano più commodo et utilità a mortali che lodeo gloria.

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(b) le voci canc. prima di i suoni (c) la belleza ricostruito per congettura da guasto meccanico(d) la mente ricostruito per congettura da guasto meccanico (e) testo mancante per guastomeccanico (f) testo mancante per guasto meccanico (g) come in mille altri luogi in interl.(h) corpo et dell’ in interl. (i) come quelli add. marg.