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INTRODUZIONE
L’idea, per tanti lati controversa, che Franco Sacchetti vada considerato come
l’ultimo, grande rappresentante della letteratura del Trecento - di quello che fu, come
noto, il periodo più prolifico, splendido nella storia della cultura italiana - è divenuta
nel corso del tempo una premessa da cui parte e su cui si fonda la maggioranza degli
studi critici incentrati tanto sulle sue opere poetiche, quanto su quelle in prosa. Per
quanto oggi questa prospettiva non sia più sostenibile (soprattutto alla luce delle
recenti teorie storico-letterarie che vedono una certa continuità tra la fine del
Medioevo e l’inizio dell’Umanesimo, di fatto negando l’esistenza di una vera e
propria rivoluzione culturale improvvisa), essa va comunque tenuta in
considerazione e giustificata, se non altro perché così spesso ricorrente nei giudizi
critici espressi sul Sacchetti fino a circa un cinquantennio fa.
Tra i primi a concepire esplicitamente l’opera di questo scrittore come l’estremo
baluardo del secolo aureo, sorta di termine ante quem rispetto alle grandiose,
irripetibili esperienze letterarie del Trecento italiano, vi fu Francesco De Sanctis. In
un capitolo della Storia della letteratura italiana, non a caso intitolato L’ultimo
Trecentista, il critico campano propose una lettura dell’opera sacchettiana che, alla
metà dell’Ottocento, dovette apparire innovativa: rifiutando di fermarsi solamente
all’inveterato cliché d’un Sacchetti continuatore e perfezionatore del Boccaccio, De
Sanctis dava particolare importanza al principio di ‘intenzione d’arte’ e da esso
faceva scaturire la propria analisi sull’opera dello scrittore fiorentino. Partendo dalla
considerazione della fine di quel secolo, dunque, ricollegava la figura storica di
Franco Sacchetti a quella dei più illustri letterati suoi predecessori, ammettendo
infine il forte debito nei loro confronti di uno scrittore che «continua il passato, fa,
perché gli altri fanno, pensa così, perché gli altri così pensano, piglia il mondo come
lo trova, senza darsi la pena di esaminarlo»1; questo è uno degli aspetti dell’opera di
Sacchetti, ossia quello che qui viene definito perentoriamente come «la sua parte
morta». L’innovazione concreta apportata da De Sanctis con le sue osservazioni,
però, non stava tanto nell’obiettiva constatazione delle tante lacune culturali e
artistiche, quanto proprio nel riconoscimento di un punto di forza dell’arte sacchettiana
1. Per questa e per le successive citazioni da De Sanctis presenti nella pagina, cfr. F. De Sanctis,
L’Ultimo trecentista, in Storia della letteratura italiana, vol. I, Torino, Einaudi, 1971, pp. 385-86.
che non era stato sufficientemente specificato in precedenza: è il motivo della
spontaneità d’espressione, che da allora a oggi è stato ripreso spesso e senza
ripensamenti notevoli. Di conseguenza Sacchetti viene descritto, per la prima volta,
come uomo «d’ingegno poco al di là del comune, ma di un raro buon senso, di poca
iniziativa e originalità, ma di molta semplicità e naturalezza» e sentito, proprio per
queste sue caratteristiche, come uno degli interpreti più sinceri della sua epoca, «la
vera eco del tempo». De Sanctis, tra l’altro, traccia anche una sommaria analisi
dell’ultimo trentennio del XIV secolo, utilizzando come lente d’ingrandimento gli
scritti stessi di Franco Sacchetti, quella commistione di giocosità e di malinconia che
egli impronta sulla sostanza disomogenea di cui è costituita la vita, in particolare in
quegli anni di stallo per una società in fase di radicale cambiamento, in una Firenze
che era città tanto vitale a livello sociale, quanto culturalmente e politicamente
amorfa. Franco Sacchetti, antesignano ideale del cittadino borghese moderno, va
quindi studiato prima di tutto a partire dal suo coinvolgimento diretto nel senso di
profonda indecisione, nelle frustrazioni, nelle peculiarità positive e negative di questi
ultimi anni del secolo; ma dalle parole di De Sanctis si deduce che è anche la sua
stessa arte a consentire, in maniera più o meno diretta, la migliore conoscenza di un
periodo storico visto non soltanto come la fine di un’epoca, ma pure con l’accezione
positiva di nuovo inizio. Come sottolineò Raffaello Ramat, il De Sanctis qui non si
limita a tener conto della sola prospettiva estetica; se è vero quindi che «Franco gli
serve come anello storico fra Tre e Quattrocento, e insieme come contrasto fra
vecchio e nuovo, sì che egli appare continuatore del passato in quanto moralista
arcigno e formale, precursore del futuro in quanto precursore dello spirito libero e
gaudente del Boccaccio»2, la conseguenza implicita è che il giudizio di questo grande
critico non può non risultare ‘extra-letterario’, finalizzato a una lettura quanto più
possibile organica della storia letteraria nazionale. Ciò non toglie che lo studio di De
Sanctis sia riuscito in buona parte a superare l’atavico, retorico paragone con il
Boccaccio per valorizzare l’opera di Franco Sacchetti nelle sue peculiarità sia
formali, sia contenutistiche: è la preoccupazione morale del tutto inedita a costituire
la novità stilistica di quest’ultimo e a dare autonomia alla sua produzione letteraria,
indipendentemente da qualsivoglia confronto con i suoi modelli.
2. Cfr. R. Ramat, Franco Sacchetti e la critica, in Sette contributi agli studi di storia della
letteratura italiana, Palermo, Palumbo, 1958, p. 50.
Una dimostrazione di quanto fosse rilevante questa formulazione desanctisiana la
fornisce, paradossalmente, la dura critica a essa opposta da Benedetto Croce, in un
suo saggio pubblicato nel 1929 3: dopo aver esaltato a dismisura l’arte di Giovanni
Boccaccio, il quale «fece i suoi versi nella sua prosa»4 e fu quindi più che un ottimo
scrittore, Croce nega apertamente la possibilità di istituire un parallelo tra il
Certaldese e gli altri novellieri del Trecento, tra i quali ricorda l’autore del Pecorone
e Giovanni Sercambi. Passa quindi a criticare in particolare il punto di vista del De
Sanctis, responsabile secondo lui d’aver istituito un forzoso, erroneo accostamento
tra Franco Sacchetti e il Boccaccio: da esso, infatti, è proprio il Sacchetti a uscirne
ingiustamente sottovalutato e il rischio è quello di «disfigurare la sua verace ed
armonica, se anche modesta persona, col descriverla tale che “nella sua mediocrità
era la vera eco del tempo”»5. Se Sacchetti va considerato voce dei suoi tempi, invece,
è grazie alla sua caratteristica «aderenza alla realtà», immediata e priva di orpelli
retorici; da ciò si evince la predisposizione del Sacchetti a una forma letteraria
realista che nel suo calzare perfettamente le esigenze del soggetto scrivente,
indirettamente ritrae anche la verità storica del suo presente. Commentando anche in
questo caso con le parole di Ramat, si può concludere che la critica di Croce «è
ricerca di questa schietta umanità, graduandola al lume di una eccezionale acutezza
sintetica psicologica, e distinguendola e separandola da ogni voce di umanità che non
sia intera e indivisa, sia cioè rivolta ad altro fine, conoscitivo o pratico»6. Da ciò
nasce in Croce l’idea che l’altezza artistica di Sacchetti stia davvero nell’alto e
genuino senso dei suoi ideali culturali, etici, spirituali, e senza mezzi termini
asserisce allora che «per questa parte religiosa e morale, il Sacchetti non solo non
diminuisce il Boccaccio, ma sta al di sopra di lui, ed è più di lui uomo intero». Se lo
si guarda dal punto di vista dei lettori odierni, Croce opera sicuramente un
pervertimento del principio d’obiettività critica, piegandosi a un commento che oltre
a essere soggettivo appare anche fuori luogo, non essendo di certo ammissibile al
giorno d’oggi che si giudichi un qualsiasi prodotto letterario partendo dalla
considerazione del sentimento religioso e in genere dai principi etici del suo autore;
nonostante ciò, quello che qui conta sottolineare è che anche in Benedetto Croce, se
3. Cfr. B. Croce, Il Boccaccio e Franco Sacchetti, in Poesia popolare e poesia d’arte, Bari, Laterza,
1967, pp. 82-107.
4. Ivi, p. 82.
5. Ivi, p. 96.
6. Cfr. R. Ramat, Franco Sacchetti e la critica, cit., pp. 61-62.
pur per vie traverse, torna l’antico e abusato paragone con il Boccaccio7, con la
Firenze aurea dei decenni passati e di conseguenza l’idea che l’opera di Sacchetti,
con le sue prerogative morali e con la spontaneità di matrice popolare che la
caratterizza, vada più o meno esplicitamente a completare e chiudere un’intera epoca.
E come per De Sanctis prima e per Benedetto Croce poi, anche per molti altri
moderni studiosi del Sacchetti è rimasta viva l’ambigua visione della sua figura come
quella, appunto, dell’«ultimo trecentista»: non soltanto nel Settembrini, che – proprio
come De Sanctis – lo definisce in tutto e per tutto come artista spontaneo e
inconsapevole, ma anche nei contributi del Di Francia8 e di Li Gotti
9 (pur tanto
diversi da quelli appena nominati, sicuramente più scientifici e approfonditi) rimane
vivida l’idea d’una linea diretta che unisca i grandi trecentisti a Franco Sacchetti, con
il quale si raggiunge la ‘crisi’ definitiva e la fine di quel secolo.
D’altronde fu Franco Sacchetti stesso, e in più occasioni, ad autorizzare tale
approccio ai suoi scritti: egli per primo percepì il suo tempo quasi come un punto di
non ritorno, come la propaggine di un’epoca d’oro che lentamente, ma
inesorabilmente, stava smarrendo il suo originario lucore. Sarà soprattutto la notizia
della morte di Giovanni Boccaccio ad alimentare nello scrittore fiorentino il timore
di una decadenza culturale immane la quale, accompagnandosi a quel lassismo
politico e sociale più volte denunciato non solo dal Sacchetti ma anche da una
moltitudine di scrittori suoi contemporanei (su tutti, sicuramente esemplare il caso di
Filippo Villani), dava dell’ultimo scorcio del Trecento l’immagine di un’epoca in
pieno declino. In mezzo a tanta mediocrità del panorama coevo, Franco Sacchetti
non poteva che vedersi come un superstite di quella grande età che stava per
concludersi e, di conseguenza, testimoniarne con amarezza l’inoppugnabile
disfacimento. Già i versi che chiudono la prima stanza della canzone CLXXXI scritta
da Sacchetti tra la metà degli anni settanta e l’inizio degli anni ’80 per commemorare
la scomparsa di Boccaccio possono essere letti come la sintesi di quella visione
estremamente nichilista del presente che indusse De Sanctis a definire tale
componimento come «l’elogio funebre del Trecento»10
:
7. Una prima prospettiva sugli Autori che hanno parlato di Franco Sacchetti, dal Quattrocento alla
fine del Settecento circa, si può già trovare in F. Sacchetti, Novelle, Milano, Giovanni Silvestri, 1815,
pp. XXI-XXXII.
8. Cfr. L. Di Francia, Franco Sacchetti novelliere, Pisa, Fratelli Nistri, 1902.
9. Cfr. E. Li Gotti, Il Sacchetti e la tecnica musicale del Trecento, Firenze, Sansoni, 1935. 10. Cfr. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, cit., p. 390.
Casgion del mio dolore
non è perché sia morto,
ch’io mi dorrei a torto,
perché chi nasce a questo passo giugne;
ma quel duol che mi pugne
è che nïun rimane né alcun vène, che dia segno di spene,
a confortare chi salute aspetti,
perché ‘n virtù non è chi si diletti11
.
Qui si vede come abbrutimento morale e impoverimento culturale, nel pensiero
dell’autore, siano intimamente legati l’uno all’altro e come, assieme, vadano a
dipingere questa fin de siècle con tinte assai cupe. Se in effetti, come suggerisce
Giuseppe Petronio, tra gli ammiratori del Boccaccio volgare «le note più alte e, in un
certo senso, più critiche […] si avranno nel Sacchetti»12
, resta il fatto che in tutta
l’opera di quest’ultimo «è viva la certezza che con la morte del Boccaccio, preceduta
di poco da quelle del Petrarca e di Zanobi da Strada, si fosse chiusa tutta una
stagione della letteratura italiana; solo che nel Sacchetti a questa coscienza del
chiudersi di un’età non si accompagna una fiducia viva nell’inizio di una nuova più
alta». Se da un lato ciò provoca un ridimensionamento effettivo del tono poetico, fino
a raggiungere la cifra di quello stile umile, caratteristico di gran parte dell’opera di
Sacchetti, che Sapegno descriveva come «una lieve e garbata effusione d’affetti in
tono minore»13
, dall’altro comporta necessariamente la presa di coscienza del proprio
ruolo all’interno della società e, di conseguenza, un acuirsi del proprio senso di
responsabilità a livello intellettuale.
Come già accennato, questo pessimismo, quest’ansia che potremo in un certo senso
definire ‘escatologica’, è alquanto diffusa in questi tempi tra buona parte degli
intellettuali fiorentini; soprattutto tramite la lettura di opere storiografiche come
quelle di Donato Velluti o di Marchionne de’ Bonaiuti (entrambi quasi coetanei del
Sacchetti) si percepisce la svolta rappresentata dagli anni a cavallo tra XIV e XV
secolo per la società e la cultura di Firenze: in esse la storia si riduce, infatti,
all’«angolo visuale di una memoria privata», si dispone tutta alla narrazione dei «miti
morali e culturali di una società alto borghese, di ricchi mercanti desiderosi di eternare
11. Cfr. F. Sacchetti, Libro delle rime, a cura di F. Brambilla Ageno, Olschki, Firenze – University
of W. Australia Press, Perth, 1990, p. 256.
12. Cfr. G. Petronio, Giovanni Boccaccio, in Classici italiani nella storia della critica, vol. I, Da
Dante al Marino, a cura di W. Binni, Firenze, La Nuova Italia, 1962, p. 179.
13. Cfr. N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, vol. I, Dalle origini alla fine del
Quattrocento, Firenze, La Nuova Italia, 1995, p. 195.
il proprio passato familiare, rivivendolo negli antenati e nelle loro azioni»14
.
Nella cronaca cittadina esposta da questi autori il senso stesso della morale sembra
aver perso del tutto la tensione palingenetica che aveva contraddistinto la scrittura di
un Giovanni Villani o, ancora di più, quella di un Dino Compagni per farsi invece
(specialmente nel Velluti) veicolo di «un bonario moralismo conservatore»15
e
introdurre, con modi in gran parte stereotipi, il rimpianto per un passato di rettitudine
e integrità civile molto maggiori.
Però è alla voce d’un altro importante letterato contemporaneo che le parole amare,
nostalgiche pronunciate da Franco Sacchetti nell’elogio funebre a Boccaccio possono
essere meglio accostate: si tratta di quel Cino Rinuccini la cui Invettiva contro a cierti
caluniatori di Dante e di messer Francesco Petrarca e di messer Giovanni Boccaci16
va considerata quale una fondamentale testimonianza del ‘doloroso’ passaggio che
dalla cultura del tardo medioevo stava portando all’avvento del periodo umanistico
fiorentino. Scagliandosi contro «le vane e schiocche disputazioni d’una brigata di
garruli, che per parere litteratissimi apresso al vulgo gridano a piazza quanti dittonghi
aveano gli antichi»17
, Rinuccini esalta in primo luogo la grandezza dei grandi poeti
volgari suoi predecessori: più che su Boccaccio o su Petrarca, la sua attenzione cade
qui su «lo egregio e onore de’ poeti Dante Alighieri», allora valutato meno di quanto
la sua genialità avrebbe dovuto assicurargli.
È oltremodo interessante osservare come il Rinuccini si basi su una supposizione di
natura tutta morale per sconfessare l’idea (all’epoca professata dagli antesignani
dell’umanesimo fiorentino) che il poema dantesco fosse inferiore rispetto al suo
modello virgiliano. Il concetto di utilità dell’arte è dunque centrale e non viene
utilizzato soltanto per magnificare il contenuto della Commedia, nella quale «le dette
istorie, alcuna ne nasconde sotto la corteccia delle parole o moralità grandissima,
alcuna pura verità […], e insieme intermiste meritano somma loda l’utile col dolcie
mescolando»18
, ma anche per giustificarne la forma: Dante scrive in volgare proprio
«per fare più utile a’ suo’ cittadini che non farebbe in gramatica»19
ed è, questo, un
concetto che verrà ripreso, di qui in poi, da molti tra i sostenitori dell’uso del volgare
14. Cfr. A. Tartaro, La letteratura civile e religiosa del Trecento, Bari, Laterza, 1972, p. 48.
15. Ibid.
16. Cfr. Giovanni da Prato, Il Paradiso degli Alberti, vol. I / 2, a cura di A. Wesselofsky,
Romagnoli, Bologna, 1867, pp. 303-16.
17. Ivi, p. 306.
18. Ivi, p. 310.
19. Ivi, p. 311.
in ambito letterario, anche in pieno periodo umanistico20
. A differenza delle grandi
personalità della Firenze comunale, secondo Cino Rinuccini i nuovi intellettuali della
fine del secolo non fanno altro che proiettarsi in un lontano, ormai mitico passato
classico, senza impegnarsi affatto a sostenere alcun ideale civile che possa giovare al
presente, e conseguentemente «tanto tempo in cotali disputazioni vane perdono, che
niuna veracie istoria possono aprendere o apresa fissa nella memoria tenerla per
recitarla secondo il tempo e ’l luogo utile pella republica»21
.
Ora, riprendendo l’«orfana» canzone CLXXXI di Sacchetti, si può notare come
l’inconsolabile lamento dell’autore per la mollezza dei costumi diffusa alla fine di
quel secolo e il suo fastidio per la grettezza degli studi in un’età durante la quale «le
meccaniche arti / abbraccia chi vuol essere degno e alto»22
possono costituire una
premessa alla veemente Invettiva di Cino. Come ha spiegato Edoardo Gennarini, in
tale epoca l’«ostilità verso la cultura che ricalcava le orme degli antichi» e il recupero
in letteratura di istanze morali forti, tanto civili quanto religiose, potevano fare
spesso tutt’uno: le stesse opere di Dante, di Petrarca e di Boccaccio, allora, non
venivano lette e commentate per trarne schietti spunti poetici, quanto piuttosto «solo
per apprezzarne il contenuto dottrinario e i significati simbolici», e dunque in chiave
prettamente morale23
.
Se da un lato i confronti tra alcune direttrici dell’opera di Sacchetti e le
testimonianze lasciateci da altri scrittori suoi contemporanei sembrano essere leciti e
assai proficui, d’altra parte è però necessario anche riconoscere le specificità di
questo autore, che spesso si sottrae a semplici comparazioni ed elabora
autonomamente la propria ‘poetica’. E sarebbe forse più opportuno parlare di
‘poetiche’, data la varietà delle esperienze letterarie affrontate da Sacchetti; una
caratteristica, questa, che è stata particolarmente sottolineata sia dal Caretti, sia da Li
Gotti e che va ricondotta a un’originaria convivenza, nel Sacchetti, di due diverse
ispirazioni: la prima tutta lirica, musicale, sempre legata ai grandi nomi della poesia
20. Si veda in particolare come l’Alberti, nel proemio al Libro III del trattato Della famiglia, difenda
in modo molto simile la sua scelta di scrivere in volgare invece che in latino: «Più tosto forse e’
prudenti mi loderanno s’io, scrivendo in modo che ciascuno m’intenda, prima cerco giovare a molti
che piacere a pochi, ché sai quanto siano pochissimi a questi dì e’ litterati» (cfr. Leon Battista Alberti,
I libri della famiglia, a cura di R. Romano e A. Tenenti, Torino, Einaudi, 1969, p. 187).
21. Cfr. Giovanni da Prato, Il Paradiso degli Alberti, cit., p. 309.
22. Cfr. F. Sacchetti, Libro delle rime, cit., p. 257-8, vv. 71-72.
23. Cfr. E. Gennarini, La società letteraria italiana – dalla Magna Curia al primo Novecento,
Firenze, Sandron, 1971, pp. 101-19.
trecentesca; l’altra prosastica, di gusto popolare e genuinamente narrativo. Anche
all’interno dello stesso canzoniere sacchettiano – opera amplissima, portata avanti
dall’autore per buona parte della sua esistenza – si riflette quella che va vista come
una vera e propria dicotomia di stile e contenuti, senza trovare mai una sintesi
effettiva. I toni millenaristici e atterriti del Sacchetti delle ultime rime sembrano,
perciò, non essere frutto di una tendenza univoca al pessimismo, ma il risultato di un
percorso di crescita artistica, il prodotto della maturazione umana dell’autore; se
paragonati alle ballate giovanili di tematica amorosa o alle movimentate cacce tanto
ammirate dal De Sanctis, gli ultimi componimenti mostrano chiaramente lo scarto
stilistico che li caratterizza.
Forse allora fu soprattutto riferendosi alla singolarità di questa esperienza di scrittura
in continua evoluzione diacronica che De Sanctis parlò di Sacchetti come di uno
specchio dei tempi: leggendolo, in effetti, ci si rende conto di come questo autore
riesca a registrare nella sua opera, indirettamente e nel più dei casi in maniera
inconsapevole, tanto il mutare delle condizioni culturali e in genere le contingenze
storiche esterne, quanto le tappe della sua esperienza personale, lo sviluppo
progressivo della sua vita interiore. Non si può non pensare che se è davvero lecito
parlare per Sacchetti di una forma ante-litteram di realismo, questo carattere, nei suoi
aspetti più profondi, non si rintraccia solo attraverso singoli passaggi della sua
produzione, quanto più che altro nella complessiva attitudine dell’artista a modulare
la scrittura sulle esigenze della propria fantasia poetica e sulle proprie impellenze di
uomo. Grazie alla sua attitudine al cambiamento, alla mobilità del suo punto di vista
sul reale, egli riesce ad affinare i suoi mezzi stilistici per ritrovare, infine, la cifra più
sincera della propria ispirazione realizzando quelle Trecentonovelle che di fatto
rimangono la sua opera più riuscita e rappresentativa.
Osservando da tale prospettiva l’intera produzione sacchettiana, però, il lettore di
oggi – ben più di quello di ieri, che spesso si accontentava di ravvisare in Sacchetti
un continuatore del Boccaccio, se non addirittura un suo emulatore24
– sente il
bisogno di stabilire delle coordinate che gli permettano di orientarsi in un percorso
tanto eterogeneo. Fondamentale sembra specialmente una ricostruzione organica del
24. Si veda, a tal proposito, il giudizio formulato dal Borghini, che a metà dell’Ottocento proponeva
una visione ancora a-storica del secolo XIV, parlando di un Sacchetti «pieno de’ medesimi detti e
parole del Boccacci, perchè nasce dalla medesima vena di quel buon secolo, quando, come gli abiti e
le monete, così usavano tutti li medesimi motti e parole» (cfr. V. Borghini, Annotazioni e discorsi
sopra alcuni luoghi del Decameron, Firenze, Le Monnier, 1857, p. 31).
carattere di Franco, che ne giustifichi le scelte artistiche senza l’esigenza di ricorrere
a nozioni abusate, e probabilmente assai semplicistiche, come quella che vuole
vedere in lui una sorta di spontaneo, ingenuo apprendista della scrittura. In parte
riprendendo, in parte superando i giudizi di Francesco De Sanctis e Benedetto Croce,
la critica letteraria contemporanea ha segnato delle tappe concrete nella rivalutazione
degli scritti sacchettiani, a partire dalla concezione di essi come prodotti originali e
caratterizzati da una certa coerenza interna.
In tutti i casi, si vede come nell’evoluzione della sua arte sia data una grandissima
importanza, in positivo ma anche in negativo, a quel senso stringente e compulsivo
della morale cui s’è già accennato. Questo carattere ha fatto parlare molti studiosi
d’un Sacchetti anacronistico, arretrato rispetto ai suoi stessi modelli e di conseguenza
palesemente legato a un periodo di crisi culturale, civile, forse anche religiosa; la
valutazione di Flora, in tal senso, è illuminante e permette di osservare come, sino a
tutti gli anni ’50, la critica fosse rimasta davvero poco benevola nei confronti del
Sacchetti: senza mezzi termini, il critico sostiene che «chi legga con animo storico i
suoi libri è tentato di far violenza alla cronologia, e porre Franco Sacchetti prima dei
grandi trecentisti; poiché in lui, che pur tanto deve ai loro modi formali e linguistici,
meno che in quelli appare la coscienza di una nuova età dello spirito»25
. Né sarà
meno corrosivo il giudizio di un grande esperto delle opere di Franco come
Lanfranco Caretti, il quale all’incirca nello stesso periodo descrive il suo moralismo
come «assai più naturale e istintivo che meditativo e profondo, schietto e verace ma
in gran parte legato ad una polemica di costume più che allo scandaglio vero e
proprio dell’animo umano», per concludere poi che «con un minimo in più di
leggerezza e di distacco sentimentale, il Sacchetti avrebbe anche potuto approdare ai
limiti difficili di una poesia incisivamente satirica, crudamente icastica»26
. C’è
d’altra parte anche chi, come Luigi Russo, recepisce più positivamente l’intento
morale di questa scrittura: «la cosa che più impressiona in Sacchetti», secondo
Russo, «è questo suo candore e bonomia di uomo di popolo, e al tempo stesso questa
sua serietà di uomo spirituale, per cui tutte le vicende della vita devono concludersi
in un sermone, in un ammonimento, e in cui il narratore non muta voce, non cambia
gesti, ma continua nella sua sovrana semplicità espansiva di uomo ingenuo, elementare
25. Cfr. F. Flora, Franco Sacchetti e gli ultimi Trecentisti, in Storia della letteratura italiana, vol. I,
Dal Medioevo alla fine del Quattrocento, Milano, Mondadori, 1969, pp. 453-54.
26. Cfr. L. Caretti, Il Trecento minore, in La letteratura italiana: le Origini, il Duecento e il
Trecento, a cura di L. Caretti e G. Luti, Milano, Mursia, 1973, p. 415.
e sano». Ed esprimerà un concetto simile, ma con ancora maggior favore, pure
Natalino Sapegno nel suo Compendio di storia della letteratura italiana27
. Al di là dei
singoli giudizi di valore manifestati intorno a questo punto, è allora chiaro come i
risvolti morali assumano una posizione centrale nella comprensione degli intenti
artistici di Sacchetti; ancora una volta, perciò, va riconosciuto come le lezioni di De
Sanctis e di Croce – pur partendo da posizioni diametralmente opposte – abbiano
segnato senza dubbio i prodromi della critica successiva, portando avanti una visione
storicamente contestualizzata di Sacchetti e valorizzandone la «parte religiosa e
morale» dell’opera.
La stessa mobilità delle sue attitudini letterarie, in fondo, può dipendere anche solo
da questa volontà d’approccio a una scrittura diversa da quella che
contraddistingueva la sarabanda disordinata di sentimenti amorosi, tinte popolari forti
e spensieratezza di concetti nella Battaglia di belle donne e nelle prime sue rime: per
il poeta gli anni trascorrevano inesorabilmente, e alla vecchiaia dell’uomo si
accompagnava la vecchiaia del secolo, quasi giunto alla fine; perciò se si torna per un
attimo sulla metafora dello specchio dei tempi, si capisce come lo specchio-Sacchetti
sia in realtà tutto concavo, perché il riflesso della realtà circostante in lui è spesso
informato e deformato dal moralismo, condizionato dalla sua spontaneità poetica.
Presupporre alla creazione artistica uno stabile intento morale fa sì che quest’ultimo,
oltre a permeare la struttura profonda delle significazioni, abbia anche un certo
influsso sulle modalità di scrittura, sulla forma e lo stile adottati. Nelle opere della
maturità questo si vede sempre, e non soltanto in maniera eclatante come avviene nel
passaggio dall’iniziale vocazione poetica alla successiva elaborazione delle novelle.
Già si è accennato al fatto che, circa questo punto, il testo davvero istruttivo è quello
delle Rime, e non solo perché esse sono frutto di un indefesso lavoro di composizione
che dagli anni sessanta circa arriva sino a quelli dell’estrema vecchiaia, ma in primo
luogo perché, come la maggior parte dei testi lirici coevi, queste poesie possono
essere considerate ognuna un prodotto finito in sé, e quindi riassumere le singole
tappe del percorso evolutivo dell’autore in maniera assai limpida. Leggendo le rime
di Sacchetti ci si accorge subito che il gusto per il precetto moralistico e per la
massima istruttiva nasce in realtà con la sua stessa scrittura, ispirando alcune delle
sue prime e più note composizioni liriche: ad esempio, nella famosa canzone dedicata
27. Cfr. N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, vol. I, Dalle origini alla fine del
Quattrocento, Firenze, La Nuova Italia, 1995, p. 195.
ai barbari costumi di Schiavonia, illustrando con tinte particolarmente vivide sia
l’incuria che gli abitanti di quella terra avevano per il loro aspetto esteriore, sia la
villania dei loro modi, si delineano per contrasto le caratteristiche essenziali del
buoncostume civile. Ciò si vede in primis già nella descrizione iniziale degli uomini
schiavoni,
che lamento
non odon di tormento,
istando duri, e di materia grossi
sì forte che con mazze non son mossi28
;
il che (se si capisce che la caratteristica fondamentale di questi forestieri è quella che
all’epoca veniva genericamente definita inurbanitas) fa implicitamente percepire il
valore dato all’eleganza, alla piacevolezza dei modi e del sembiante dai cittadini del
tempo – e si tratta di cittadini fiorentini, visto che ovviamente è la lontananza da
Firenze a ispirare il lamento del poeta. Si potrebbero fare tanti altri esempi di
analoghi accenti precettistici, se non perfino etici, rintracciabili nei primi versi del
Sacchetti, ovvero in un contesto poetico prettamente idillico e d’afflato amoroso. Le
stesse caratteristiche si ritroveranno anche nelle composizioni scritte più in là,
all’incirca tra la metà degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta; qui però si apre
già per l’autore un primo importante periodo di mutamento, determinato innanzitutto
dalle parecchie tragedie pubbliche e private che investono la sua vita: non solo la
peste che nel ’74 sconvolse Firenze, ma in particolare il tumulto dei Ciompi, al quale
partecipò attivamente il fratello Giannozzo, riconosciuto poi come cospiratore e
giustiziato il 15 ottobre del 1379. Ne nascono delle poesie di forte impatto etico, in
alcuni casi profondamente legate al contesto sociale, culturale, politico di quegli
ultimi anni. Anche qui (e lo possiamo vedere dall’ironica, grottesca canzone CVII,
schierata contro gli eccessi della moda del tempo) il tono è acre, il lessico vivissimo,
a tratti marcatamente popolare e in genere l’impatto è di incredibile espressività.
Tuttavia, per quanto concerne sia le prime prove liriche sia quelle di questo
secondo periodo, si notano numerose divergenze rispetto alle poesie scritte dagli anni
ottanta in poi; la differenza più importante riguarda, forse, proprio l’acutizzazione
generalizzata del cipiglio morale, che se prima poteva anche valere solo da pretesto o
da incentivo alla stesura di componimenti di fatto molto vicini (e in alcuni casi, come
28. Cfr. F. Sacchetti, Libro delle rime, cit., p. 18, vv. 10-13.
si è visto, pure causticamente ironici), ora invece si fa sovente autoreferenziale. Ciò è
già stato osservato nell’apocalittico scenario della canzone CLXXXI, ma non si tratta
certo di un caso isolato: si potrebbe prendere ad esempio ancora un’altra canzone, la
CCXCVII, scritta addirittura nel 1399, che sin dall’aspro e ardito incipit – «Da l’A a
l’O disvaria Marte a Morte»29
– dà segno chiaro della sua natura ideologica,
concentrandosi sul tema del rifiuto totale della guerra (che, come si vedrà, ricorre
spesso specialmente nell’ultimo Sacchetti).
Quel che si osserva, dunque, è che se in un primo momento Franco Sacchetti riesce
a investire le sue pretese moralistiche in una divertita, e tutto sommato efficace,
polemica sui costumi, dai primi anni ottanta in poi qualche cosa in lui muta e le rime
adulte si dispongono su una tesa intelaiatura morale che lascia poco spazio a qualsiasi
divertissement: «i versi d’ispirazione etico-politica predominanti negli ultimi anni»
sembrano quasi «rozzi, prosaici nella loro immediatezza oratoria»30
. Di conseguenza,
sono meno frequenti le forme metriche tradizionalmente legate alla poesia
d’occasione o amorosa, come il madrigale, la ballata o lo stesso sonetto e al loro
posto acquista spazio la canzone d’endecasillabi e settenari.
È una predisposizione nuova in Sacchetti, che era solo parzialmente ravvisabile
negli scritti anteriori e comunque in forma che potremmo definire larvata, embrionale.
Di qui la maturazione completa dell’artista, con la scoperta finale dell’inclinazione
alla prosa narrativa, è a un passo di distanza: il ‘lavoro’ che Sacchetti compie su se
stesso, sulle modalità di realizzazione della propria arte è completamente visibile
nelle sue novelle e si palesa addirittura a partire da un’attenta analisi linguistica,
come ha spiegato Cesare Segre, appurando che «la sintassi del Trecentonovelle ci
fornisce […] il diagramma dell’incidenza della spinta morale nell’ispirazione del
Sacchetti»31
; un dato che consente d’affermare come con la sua ultima e più
maestosa opera lo scrittore raggiunga senz’altro anche l’acme delle proprie
potenzialità creative, armonizzando in un sinolo di vitale ispirazione popolare e
profondo senso della morale le proprie contrastanti esigenze.
Ma a questo punto sarebbe lecito porsi una domanda: esiste, nell’opera omnia di
Franco Sacchetti, un preciso momento che faccia quasi da ponte tra la sua prima e la
29. Cfr. F. Sacchetti, Libro delle rime, cit., p. 456, v. 1.
30. Cfr. C. Muscetta e P. Rivalta, Poesia del Duecento e del Trecento, Torino, Einaudi, 1956, p.
1173.
31. Cfr. C. Segre, Lingua, stile e società. Studi sulla storia della prosa italiana, Milano, Feltrinelli,
1963, pp. 302-3.
sua seconda fase produttiva? Si può rintracciare, cioè, un nodo nevralgico che riveli
in maniera diretta (e non, come fanno le Rime, ‘obliquamente’) la crisi dell’uomo e
nel contempo la variazione di traiettoria nel percorso dell’artista? Anche per risolvere
quest’ultimo, determinante interrogativo può essere utile consultare le pagine più
rilevanti della critica. Se si sfogliano i tradizionali contributi di studiosi del calibro di
Natalino Sapegno e Borlenghi, si nota un certo accordo con studiosi molto più
recenti, come Getto32
, nel giudizio pronunciato un’opera davvero unica nel corpus
sacchettiano: le Sposizioni di Vangeli. L’importanza di questo scritto potrebbe essere
già tutta riassunta nella laconica e nettissima descrizione che ne fece proprio
Borlenghi a metà degli anni sessanta, quando sottolineò l’importanza delle Sposizioni
come «documento più preciso che le canzoni morali, e politiche, del sentimento e
della coscienza dello scrittore, e perché mostrano in atto come in un costante giudizio
e apprezzamento nasca l’esempio e, nel Trecentonovelle, la morale, a un tempo e nel
corso stesso e come elemento inseparabile della struttura e del linguaggio della
novella»33
. È notevole il fatto che il Gigli, pubblicando per la prima volta il testo
integrale di quelli che egli chiamò Sermoni Evangelici, senta addirittura la necessità
(tutta ottocentesca) di richiamare all’attenzione del lettore la natura ideologica dello
scritto; Gigli tenta di sfatare il pregiudizio secondo il quale quest’opera sarebbe nata
da un tardivo pentimento di Sacchetti per i bagordi (veri o supposti) della giovinezza,
ma nel contempo sottolinea la presenza di un abisso a separare i sermoni dalla
restante produzione del Sacchetti: essi, «se non si fossero messi a confronto con le
sue Novelle e con le Poesie scritte in vari tempi della sua vita, si sarebbe detto, da chi
lo faceva un picchiapetto in vecchiaia, che erano sospiri di spigolistro, co’ quali
voleva innanzi a Dio acquistarsi grazia per le colpe commesse»34
.
Al di là di queste assolute esagerazioni (che tra l’altro, per contrasto, ricordano
molto da vicino quelle già lette in Benedetto Croce), non è comunque negabile che la
natura dell’opera possa sembrare anomala, per un poeta come sino a quel momento si
32. Cfr. G. Getto, Proposte per Franco Sacchetti, in Immagini e problemi di letteratura italiana,
Milano, Mursia, 1966.
33. Cfr. A. Borlenghi, Novellieri italiani del Trecento, Milano, Vallardi, 1966, p. 517.
34. Cfr. F. Sacchetti, I sermoni evangelici, le lettere ed altri scritti inediti e rari, a cura di O. Gigli,
Firenze, Le Monnier, 1857, p. XXXIII. In realtà la preoccupazione di sfatare una simile prospettiva
rimane identica anche circa cent’anni dopo, come si vede dalla perfetta ripresa del Gigli effettuata da
Letterio Di Francia, quando afferma che «se noi volessimo lavorar di fantasia, crederemmo – e
qualcuno credette, – che i Sermoni siano l’atto di contrizione di Franco, per riabilitarsi in vecchiaia
innanzi a Dominedio d’aver scritto le Novelle» (cfr. L. Di Francia, Franco Sacchetti novelliere, cit., p.
43).
era mostrato Sacchetti: quarantanove scritti in prosa, uno per ogni giorno della
Quaresima dal Mercoledì delle Ceneri al primo martedì dopo Pasqua, e per ogni testo
il commento di un brano evangelico; più anomalo ancora, sia nella vita dell’autore, sia
nella storia di Firenze, è il periodo in cui le Sposizioni vennero stese, ossia l’inizio di
quell’ultimo ventennio del secolo, così gravido di cambiamenti forti e acute
sofferenze. E, di fatto, ciò che emergerà a seguito di questo testo sarà un nuovo
Sacchetti, certamente più consapevole, autonomo e di certo meno incline alla
riduzione della sua arte a un puro gioco formale. A tale cambiamento non concorre la
sola intensissima speculazione religiosa, bensì anche una complessa indagine sociale
dalla quale sbocciano spesso acute intuizioni, senza che siano mai edulcorati gli aspri
toni di protesta.
Banco di prova per un’indispensabile sperimentazione letteraria, sfogo sincero di
un animo realmente provato, testimonianza tanto di un’esperienza di vita particolare
quanto di una cultura generalmente diffusa: le Sposizioni di vangeli possono essere
tutte queste cose assieme e perciò stupisce il fatto che, nonostante sia stata spesso
sottolineata la loro centralità d’opera di passaggio, nessuno abbia mai studiato davvero
a fondo i loro ingranaggi interni e tutti i riferimenti extratestuali. Questo è
propriamente ciò che qui si tenterà di fare: al di là di una necessaria
contestualizzazione filologica che introduca le principali nozioni sulla struttura del
codice autografo contenente le Sposizioni, lo studio si concentrerà specialmente su
un’attenta lettura del testo prima di tutto in sé e per sé, per scoprire l’origine delle
fonti utilizzate dall’autore, analizzarne i contenuti e la forma sia sotto il punto di
vista dottrinale, sia a livello letterario; quindi, anche per trarre spunti d’analisi
riferibili alla visione che Sacchetti aveva del suo tempo e rivedere il resto delle opere
di questo autore alla luce di tale esame, con lo scopo di interpretarne meglio alcuni
fondamentali passaggi.
In questo modo, forse, si riuscirà a comprendere realmente il motivo per cui Franco
Sacchetti vada considerato come uno dei rappresentanti fondamentali dell’ultimo
Trecento, e se davvero egli possa essere visto o no, e in che modo, come la vera eco
del suo tempo.