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INTRODUZIONE L’idea, per tanti lati controversa, che Franco Sacchetti vada considerato come l’ultimo, grande rappresentante della letteratura del Trecento - di quello che fu, come noto, il periodo più prolifico, splendido nella storia della cultura italiana - è divenuta nel corso del tempo una premessa da cui parte e su cui si fonda la maggioranza degli studi critici incentrati tanto sulle sue opere poetiche, quanto su quelle in prosa. Per quanto oggi questa prospettiva non sia più sostenibile (soprattutto alla luce delle recenti teorie storico-letterarie che vedono una certa continuità tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’Umanesimo, di fatto negando l’esistenza di una vera e propria rivoluzione culturale improvvisa), essa va comunque tenuta in considerazione e giustificata, se non altro perché così spesso ricorrente nei giudizi critici espressi sul Sacchetti fino a circa un cinquantennio fa. Tra i primi a concepire esplicitamente l’opera di questo scrittore come l’estremo baluardo del secolo aureo, sorta di termine ante quem rispetto alle grandiose, irripetibili esperienze letterarie del Trecento italiano, vi fu Francesco De Sanctis. In un capitolo della Storia della letteratura italiana, non a caso intitolato L’ultimo Trecentista, il critico campano propose una lettura dell’opera sacchettiana che, alla metà dell’Ottocento, dovette apparire innovativa: rifiutando di fermarsi solamente all’inveterato cliché dun Sacchetti continuatore e perfezionatore del Boccaccio, De Sanctis dava particolare importanza al principio di ‘intenzione d’arte’ e da esso faceva scaturire la propria analisi sull’opera dello scrittore fiorentino. Partendo dalla considerazione della fine di quel secolo, dunque, ricollegava la figura storica di Franco Sacchetti a quella dei più illustri letterati suoi predecessori, ammettendo infine il forte debito nei loro confronti di uno scrittore che «continua il passato, fa, perché gli altri fanno, pensa così, perché gli altri così pensano, piglia il mondo come lo trova, senza darsi la pena di esaminarlo» 1 ; questo è uno degli aspetti dell’opera di Sacchetti, ossia quello che qui viene definito perentoriamente come «la sua parte morta». L’innovazione concreta apportata da De Sanctis con le sue osservazioni, però, non stava tanto nell’obiettiva constatazione delle tante lacune culturali e artistiche, quanto proprio nel riconoscimento di un punto di forza dell’arte sacchettiana 1. Per questa e per le successive citazioni da De Sanctis presenti nella pagina, cfr. F. De Sanctis, L’Ultimo trecentista, in Storia della letteratura italiana, vol. I, Torino, Einaudi, 1971, pp. 385-86.

MA Thesis Preface ("Sulle 'Sposizioni di vangeli' di Franco Sacchetti")

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INTRODUZIONE

L’idea, per tanti lati controversa, che Franco Sacchetti vada considerato come

l’ultimo, grande rappresentante della letteratura del Trecento - di quello che fu, come

noto, il periodo più prolifico, splendido nella storia della cultura italiana - è divenuta

nel corso del tempo una premessa da cui parte e su cui si fonda la maggioranza degli

studi critici incentrati tanto sulle sue opere poetiche, quanto su quelle in prosa. Per

quanto oggi questa prospettiva non sia più sostenibile (soprattutto alla luce delle

recenti teorie storico-letterarie che vedono una certa continuità tra la fine del

Medioevo e l’inizio dell’Umanesimo, di fatto negando l’esistenza di una vera e

propria rivoluzione culturale improvvisa), essa va comunque tenuta in

considerazione e giustificata, se non altro perché così spesso ricorrente nei giudizi

critici espressi sul Sacchetti fino a circa un cinquantennio fa.

Tra i primi a concepire esplicitamente l’opera di questo scrittore come l’estremo

baluardo del secolo aureo, sorta di termine ante quem rispetto alle grandiose,

irripetibili esperienze letterarie del Trecento italiano, vi fu Francesco De Sanctis. In

un capitolo della Storia della letteratura italiana, non a caso intitolato L’ultimo

Trecentista, il critico campano propose una lettura dell’opera sacchettiana che, alla

metà dell’Ottocento, dovette apparire innovativa: rifiutando di fermarsi solamente

all’inveterato cliché d’un Sacchetti continuatore e perfezionatore del Boccaccio, De

Sanctis dava particolare importanza al principio di ‘intenzione d’arte’ e da esso

faceva scaturire la propria analisi sull’opera dello scrittore fiorentino. Partendo dalla

considerazione della fine di quel secolo, dunque, ricollegava la figura storica di

Franco Sacchetti a quella dei più illustri letterati suoi predecessori, ammettendo

infine il forte debito nei loro confronti di uno scrittore che «continua il passato, fa,

perché gli altri fanno, pensa così, perché gli altri così pensano, piglia il mondo come

lo trova, senza darsi la pena di esaminarlo»1; questo è uno degli aspetti dell’opera di

Sacchetti, ossia quello che qui viene definito perentoriamente come «la sua parte

morta». L’innovazione concreta apportata da De Sanctis con le sue osservazioni,

però, non stava tanto nell’obiettiva constatazione delle tante lacune culturali e

artistiche, quanto proprio nel riconoscimento di un punto di forza dell’arte sacchettiana

1. Per questa e per le successive citazioni da De Sanctis presenti nella pagina, cfr. F. De Sanctis,

L’Ultimo trecentista, in Storia della letteratura italiana, vol. I, Torino, Einaudi, 1971, pp. 385-86.

che non era stato sufficientemente specificato in precedenza: è il motivo della

spontaneità d’espressione, che da allora a oggi è stato ripreso spesso e senza

ripensamenti notevoli. Di conseguenza Sacchetti viene descritto, per la prima volta,

come uomo «d’ingegno poco al di là del comune, ma di un raro buon senso, di poca

iniziativa e originalità, ma di molta semplicità e naturalezza» e sentito, proprio per

queste sue caratteristiche, come uno degli interpreti più sinceri della sua epoca, «la

vera eco del tempo». De Sanctis, tra l’altro, traccia anche una sommaria analisi

dell’ultimo trentennio del XIV secolo, utilizzando come lente d’ingrandimento gli

scritti stessi di Franco Sacchetti, quella commistione di giocosità e di malinconia che

egli impronta sulla sostanza disomogenea di cui è costituita la vita, in particolare in

quegli anni di stallo per una società in fase di radicale cambiamento, in una Firenze

che era città tanto vitale a livello sociale, quanto culturalmente e politicamente

amorfa. Franco Sacchetti, antesignano ideale del cittadino borghese moderno, va

quindi studiato prima di tutto a partire dal suo coinvolgimento diretto nel senso di

profonda indecisione, nelle frustrazioni, nelle peculiarità positive e negative di questi

ultimi anni del secolo; ma dalle parole di De Sanctis si deduce che è anche la sua

stessa arte a consentire, in maniera più o meno diretta, la migliore conoscenza di un

periodo storico visto non soltanto come la fine di un’epoca, ma pure con l’accezione

positiva di nuovo inizio. Come sottolineò Raffaello Ramat, il De Sanctis qui non si

limita a tener conto della sola prospettiva estetica; se è vero quindi che «Franco gli

serve come anello storico fra Tre e Quattrocento, e insieme come contrasto fra

vecchio e nuovo, sì che egli appare continuatore del passato in quanto moralista

arcigno e formale, precursore del futuro in quanto precursore dello spirito libero e

gaudente del Boccaccio»2, la conseguenza implicita è che il giudizio di questo grande

critico non può non risultare ‘extra-letterario’, finalizzato a una lettura quanto più

possibile organica della storia letteraria nazionale. Ciò non toglie che lo studio di De

Sanctis sia riuscito in buona parte a superare l’atavico, retorico paragone con il

Boccaccio per valorizzare l’opera di Franco Sacchetti nelle sue peculiarità sia

formali, sia contenutistiche: è la preoccupazione morale del tutto inedita a costituire

la novità stilistica di quest’ultimo e a dare autonomia alla sua produzione letteraria,

indipendentemente da qualsivoglia confronto con i suoi modelli.

2. Cfr. R. Ramat, Franco Sacchetti e la critica, in Sette contributi agli studi di storia della

letteratura italiana, Palermo, Palumbo, 1958, p. 50.

Una dimostrazione di quanto fosse rilevante questa formulazione desanctisiana la

fornisce, paradossalmente, la dura critica a essa opposta da Benedetto Croce, in un

suo saggio pubblicato nel 1929 3: dopo aver esaltato a dismisura l’arte di Giovanni

Boccaccio, il quale «fece i suoi versi nella sua prosa»4 e fu quindi più che un ottimo

scrittore, Croce nega apertamente la possibilità di istituire un parallelo tra il

Certaldese e gli altri novellieri del Trecento, tra i quali ricorda l’autore del Pecorone

e Giovanni Sercambi. Passa quindi a criticare in particolare il punto di vista del De

Sanctis, responsabile secondo lui d’aver istituito un forzoso, erroneo accostamento

tra Franco Sacchetti e il Boccaccio: da esso, infatti, è proprio il Sacchetti a uscirne

ingiustamente sottovalutato e il rischio è quello di «disfigurare la sua verace ed

armonica, se anche modesta persona, col descriverla tale che “nella sua mediocrità

era la vera eco del tempo”»5. Se Sacchetti va considerato voce dei suoi tempi, invece,

è grazie alla sua caratteristica «aderenza alla realtà», immediata e priva di orpelli

retorici; da ciò si evince la predisposizione del Sacchetti a una forma letteraria

realista che nel suo calzare perfettamente le esigenze del soggetto scrivente,

indirettamente ritrae anche la verità storica del suo presente. Commentando anche in

questo caso con le parole di Ramat, si può concludere che la critica di Croce «è

ricerca di questa schietta umanità, graduandola al lume di una eccezionale acutezza

sintetica psicologica, e distinguendola e separandola da ogni voce di umanità che non

sia intera e indivisa, sia cioè rivolta ad altro fine, conoscitivo o pratico»6. Da ciò

nasce in Croce l’idea che l’altezza artistica di Sacchetti stia davvero nell’alto e

genuino senso dei suoi ideali culturali, etici, spirituali, e senza mezzi termini

asserisce allora che «per questa parte religiosa e morale, il Sacchetti non solo non

diminuisce il Boccaccio, ma sta al di sopra di lui, ed è più di lui uomo intero». Se lo

si guarda dal punto di vista dei lettori odierni, Croce opera sicuramente un

pervertimento del principio d’obiettività critica, piegandosi a un commento che oltre

a essere soggettivo appare anche fuori luogo, non essendo di certo ammissibile al

giorno d’oggi che si giudichi un qualsiasi prodotto letterario partendo dalla

considerazione del sentimento religioso e in genere dai principi etici del suo autore;

nonostante ciò, quello che qui conta sottolineare è che anche in Benedetto Croce, se

3. Cfr. B. Croce, Il Boccaccio e Franco Sacchetti, in Poesia popolare e poesia d’arte, Bari, Laterza,

1967, pp. 82-107.

4. Ivi, p. 82.

5. Ivi, p. 96.

6. Cfr. R. Ramat, Franco Sacchetti e la critica, cit., pp. 61-62.

pur per vie traverse, torna l’antico e abusato paragone con il Boccaccio7, con la

Firenze aurea dei decenni passati e di conseguenza l’idea che l’opera di Sacchetti,

con le sue prerogative morali e con la spontaneità di matrice popolare che la

caratterizza, vada più o meno esplicitamente a completare e chiudere un’intera epoca.

E come per De Sanctis prima e per Benedetto Croce poi, anche per molti altri

moderni studiosi del Sacchetti è rimasta viva l’ambigua visione della sua figura come

quella, appunto, dell’«ultimo trecentista»: non soltanto nel Settembrini, che – proprio

come De Sanctis – lo definisce in tutto e per tutto come artista spontaneo e

inconsapevole, ma anche nei contributi del Di Francia8 e di Li Gotti

9 (pur tanto

diversi da quelli appena nominati, sicuramente più scientifici e approfonditi) rimane

vivida l’idea d’una linea diretta che unisca i grandi trecentisti a Franco Sacchetti, con

il quale si raggiunge la ‘crisi’ definitiva e la fine di quel secolo.

D’altronde fu Franco Sacchetti stesso, e in più occasioni, ad autorizzare tale

approccio ai suoi scritti: egli per primo percepì il suo tempo quasi come un punto di

non ritorno, come la propaggine di un’epoca d’oro che lentamente, ma

inesorabilmente, stava smarrendo il suo originario lucore. Sarà soprattutto la notizia

della morte di Giovanni Boccaccio ad alimentare nello scrittore fiorentino il timore

di una decadenza culturale immane la quale, accompagnandosi a quel lassismo

politico e sociale più volte denunciato non solo dal Sacchetti ma anche da una

moltitudine di scrittori suoi contemporanei (su tutti, sicuramente esemplare il caso di

Filippo Villani), dava dell’ultimo scorcio del Trecento l’immagine di un’epoca in

pieno declino. In mezzo a tanta mediocrità del panorama coevo, Franco Sacchetti

non poteva che vedersi come un superstite di quella grande età che stava per

concludersi e, di conseguenza, testimoniarne con amarezza l’inoppugnabile

disfacimento. Già i versi che chiudono la prima stanza della canzone CLXXXI scritta

da Sacchetti tra la metà degli anni settanta e l’inizio degli anni ’80 per commemorare

la scomparsa di Boccaccio possono essere letti come la sintesi di quella visione

estremamente nichilista del presente che indusse De Sanctis a definire tale

componimento come «l’elogio funebre del Trecento»10

:

7. Una prima prospettiva sugli Autori che hanno parlato di Franco Sacchetti, dal Quattrocento alla

fine del Settecento circa, si può già trovare in F. Sacchetti, Novelle, Milano, Giovanni Silvestri, 1815,

pp. XXI-XXXII.

8. Cfr. L. Di Francia, Franco Sacchetti novelliere, Pisa, Fratelli Nistri, 1902.

9. Cfr. E. Li Gotti, Il Sacchetti e la tecnica musicale del Trecento, Firenze, Sansoni, 1935. 10. Cfr. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, cit., p. 390.

Casgion del mio dolore

non è perché sia morto,

ch’io mi dorrei a torto,

perché chi nasce a questo passo giugne;

ma quel duol che mi pugne

è che nïun rimane né alcun vène, che dia segno di spene,

a confortare chi salute aspetti,

perché ‘n virtù non è chi si diletti11

.

Qui si vede come abbrutimento morale e impoverimento culturale, nel pensiero

dell’autore, siano intimamente legati l’uno all’altro e come, assieme, vadano a

dipingere questa fin de siècle con tinte assai cupe. Se in effetti, come suggerisce

Giuseppe Petronio, tra gli ammiratori del Boccaccio volgare «le note più alte e, in un

certo senso, più critiche […] si avranno nel Sacchetti»12

, resta il fatto che in tutta

l’opera di quest’ultimo «è viva la certezza che con la morte del Boccaccio, preceduta

di poco da quelle del Petrarca e di Zanobi da Strada, si fosse chiusa tutta una

stagione della letteratura italiana; solo che nel Sacchetti a questa coscienza del

chiudersi di un’età non si accompagna una fiducia viva nell’inizio di una nuova più

alta». Se da un lato ciò provoca un ridimensionamento effettivo del tono poetico, fino

a raggiungere la cifra di quello stile umile, caratteristico di gran parte dell’opera di

Sacchetti, che Sapegno descriveva come «una lieve e garbata effusione d’affetti in

tono minore»13

, dall’altro comporta necessariamente la presa di coscienza del proprio

ruolo all’interno della società e, di conseguenza, un acuirsi del proprio senso di

responsabilità a livello intellettuale.

Come già accennato, questo pessimismo, quest’ansia che potremo in un certo senso

definire ‘escatologica’, è alquanto diffusa in questi tempi tra buona parte degli

intellettuali fiorentini; soprattutto tramite la lettura di opere storiografiche come

quelle di Donato Velluti o di Marchionne de’ Bonaiuti (entrambi quasi coetanei del

Sacchetti) si percepisce la svolta rappresentata dagli anni a cavallo tra XIV e XV

secolo per la società e la cultura di Firenze: in esse la storia si riduce, infatti,

all’«angolo visuale di una memoria privata», si dispone tutta alla narrazione dei «miti

morali e culturali di una società alto borghese, di ricchi mercanti desiderosi di eternare

11. Cfr. F. Sacchetti, Libro delle rime, a cura di F. Brambilla Ageno, Olschki, Firenze – University

of W. Australia Press, Perth, 1990, p. 256.

12. Cfr. G. Petronio, Giovanni Boccaccio, in Classici italiani nella storia della critica, vol. I, Da

Dante al Marino, a cura di W. Binni, Firenze, La Nuova Italia, 1962, p. 179.

13. Cfr. N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, vol. I, Dalle origini alla fine del

Quattrocento, Firenze, La Nuova Italia, 1995, p. 195.

il proprio passato familiare, rivivendolo negli antenati e nelle loro azioni»14

.

Nella cronaca cittadina esposta da questi autori il senso stesso della morale sembra

aver perso del tutto la tensione palingenetica che aveva contraddistinto la scrittura di

un Giovanni Villani o, ancora di più, quella di un Dino Compagni per farsi invece

(specialmente nel Velluti) veicolo di «un bonario moralismo conservatore»15

e

introdurre, con modi in gran parte stereotipi, il rimpianto per un passato di rettitudine

e integrità civile molto maggiori.

Però è alla voce d’un altro importante letterato contemporaneo che le parole amare,

nostalgiche pronunciate da Franco Sacchetti nell’elogio funebre a Boccaccio possono

essere meglio accostate: si tratta di quel Cino Rinuccini la cui Invettiva contro a cierti

caluniatori di Dante e di messer Francesco Petrarca e di messer Giovanni Boccaci16

va considerata quale una fondamentale testimonianza del ‘doloroso’ passaggio che

dalla cultura del tardo medioevo stava portando all’avvento del periodo umanistico

fiorentino. Scagliandosi contro «le vane e schiocche disputazioni d’una brigata di

garruli, che per parere litteratissimi apresso al vulgo gridano a piazza quanti dittonghi

aveano gli antichi»17

, Rinuccini esalta in primo luogo la grandezza dei grandi poeti

volgari suoi predecessori: più che su Boccaccio o su Petrarca, la sua attenzione cade

qui su «lo egregio e onore de’ poeti Dante Alighieri», allora valutato meno di quanto

la sua genialità avrebbe dovuto assicurargli.

È oltremodo interessante osservare come il Rinuccini si basi su una supposizione di

natura tutta morale per sconfessare l’idea (all’epoca professata dagli antesignani

dell’umanesimo fiorentino) che il poema dantesco fosse inferiore rispetto al suo

modello virgiliano. Il concetto di utilità dell’arte è dunque centrale e non viene

utilizzato soltanto per magnificare il contenuto della Commedia, nella quale «le dette

istorie, alcuna ne nasconde sotto la corteccia delle parole o moralità grandissima,

alcuna pura verità […], e insieme intermiste meritano somma loda l’utile col dolcie

mescolando»18

, ma anche per giustificarne la forma: Dante scrive in volgare proprio

«per fare più utile a’ suo’ cittadini che non farebbe in gramatica»19

ed è, questo, un

concetto che verrà ripreso, di qui in poi, da molti tra i sostenitori dell’uso del volgare

14. Cfr. A. Tartaro, La letteratura civile e religiosa del Trecento, Bari, Laterza, 1972, p. 48.

15. Ibid.

16. Cfr. Giovanni da Prato, Il Paradiso degli Alberti, vol. I / 2, a cura di A. Wesselofsky,

Romagnoli, Bologna, 1867, pp. 303-16.

17. Ivi, p. 306.

18. Ivi, p. 310.

19. Ivi, p. 311.

in ambito letterario, anche in pieno periodo umanistico20

. A differenza delle grandi

personalità della Firenze comunale, secondo Cino Rinuccini i nuovi intellettuali della

fine del secolo non fanno altro che proiettarsi in un lontano, ormai mitico passato

classico, senza impegnarsi affatto a sostenere alcun ideale civile che possa giovare al

presente, e conseguentemente «tanto tempo in cotali disputazioni vane perdono, che

niuna veracie istoria possono aprendere o apresa fissa nella memoria tenerla per

recitarla secondo il tempo e ’l luogo utile pella republica»21

.

Ora, riprendendo l’«orfana» canzone CLXXXI di Sacchetti, si può notare come

l’inconsolabile lamento dell’autore per la mollezza dei costumi diffusa alla fine di

quel secolo e il suo fastidio per la grettezza degli studi in un’età durante la quale «le

meccaniche arti / abbraccia chi vuol essere degno e alto»22

possono costituire una

premessa alla veemente Invettiva di Cino. Come ha spiegato Edoardo Gennarini, in

tale epoca l’«ostilità verso la cultura che ricalcava le orme degli antichi» e il recupero

in letteratura di istanze morali forti, tanto civili quanto religiose, potevano fare

spesso tutt’uno: le stesse opere di Dante, di Petrarca e di Boccaccio, allora, non

venivano lette e commentate per trarne schietti spunti poetici, quanto piuttosto «solo

per apprezzarne il contenuto dottrinario e i significati simbolici», e dunque in chiave

prettamente morale23

.

Se da un lato i confronti tra alcune direttrici dell’opera di Sacchetti e le

testimonianze lasciateci da altri scrittori suoi contemporanei sembrano essere leciti e

assai proficui, d’altra parte è però necessario anche riconoscere le specificità di

questo autore, che spesso si sottrae a semplici comparazioni ed elabora

autonomamente la propria ‘poetica’. E sarebbe forse più opportuno parlare di

‘poetiche’, data la varietà delle esperienze letterarie affrontate da Sacchetti; una

caratteristica, questa, che è stata particolarmente sottolineata sia dal Caretti, sia da Li

Gotti e che va ricondotta a un’originaria convivenza, nel Sacchetti, di due diverse

ispirazioni: la prima tutta lirica, musicale, sempre legata ai grandi nomi della poesia

20. Si veda in particolare come l’Alberti, nel proemio al Libro III del trattato Della famiglia, difenda

in modo molto simile la sua scelta di scrivere in volgare invece che in latino: «Più tosto forse e’

prudenti mi loderanno s’io, scrivendo in modo che ciascuno m’intenda, prima cerco giovare a molti

che piacere a pochi, ché sai quanto siano pochissimi a questi dì e’ litterati» (cfr. Leon Battista Alberti,

I libri della famiglia, a cura di R. Romano e A. Tenenti, Torino, Einaudi, 1969, p. 187).

21. Cfr. Giovanni da Prato, Il Paradiso degli Alberti, cit., p. 309.

22. Cfr. F. Sacchetti, Libro delle rime, cit., p. 257-8, vv. 71-72.

23. Cfr. E. Gennarini, La società letteraria italiana – dalla Magna Curia al primo Novecento,

Firenze, Sandron, 1971, pp. 101-19.

trecentesca; l’altra prosastica, di gusto popolare e genuinamente narrativo. Anche

all’interno dello stesso canzoniere sacchettiano – opera amplissima, portata avanti

dall’autore per buona parte della sua esistenza – si riflette quella che va vista come

una vera e propria dicotomia di stile e contenuti, senza trovare mai una sintesi

effettiva. I toni millenaristici e atterriti del Sacchetti delle ultime rime sembrano,

perciò, non essere frutto di una tendenza univoca al pessimismo, ma il risultato di un

percorso di crescita artistica, il prodotto della maturazione umana dell’autore; se

paragonati alle ballate giovanili di tematica amorosa o alle movimentate cacce tanto

ammirate dal De Sanctis, gli ultimi componimenti mostrano chiaramente lo scarto

stilistico che li caratterizza.

Forse allora fu soprattutto riferendosi alla singolarità di questa esperienza di scrittura

in continua evoluzione diacronica che De Sanctis parlò di Sacchetti come di uno

specchio dei tempi: leggendolo, in effetti, ci si rende conto di come questo autore

riesca a registrare nella sua opera, indirettamente e nel più dei casi in maniera

inconsapevole, tanto il mutare delle condizioni culturali e in genere le contingenze

storiche esterne, quanto le tappe della sua esperienza personale, lo sviluppo

progressivo della sua vita interiore. Non si può non pensare che se è davvero lecito

parlare per Sacchetti di una forma ante-litteram di realismo, questo carattere, nei suoi

aspetti più profondi, non si rintraccia solo attraverso singoli passaggi della sua

produzione, quanto più che altro nella complessiva attitudine dell’artista a modulare

la scrittura sulle esigenze della propria fantasia poetica e sulle proprie impellenze di

uomo. Grazie alla sua attitudine al cambiamento, alla mobilità del suo punto di vista

sul reale, egli riesce ad affinare i suoi mezzi stilistici per ritrovare, infine, la cifra più

sincera della propria ispirazione realizzando quelle Trecentonovelle che di fatto

rimangono la sua opera più riuscita e rappresentativa.

Osservando da tale prospettiva l’intera produzione sacchettiana, però, il lettore di

oggi – ben più di quello di ieri, che spesso si accontentava di ravvisare in Sacchetti

un continuatore del Boccaccio, se non addirittura un suo emulatore24

– sente il

bisogno di stabilire delle coordinate che gli permettano di orientarsi in un percorso

tanto eterogeneo. Fondamentale sembra specialmente una ricostruzione organica del

24. Si veda, a tal proposito, il giudizio formulato dal Borghini, che a metà dell’Ottocento proponeva

una visione ancora a-storica del secolo XIV, parlando di un Sacchetti «pieno de’ medesimi detti e

parole del Boccacci, perchè nasce dalla medesima vena di quel buon secolo, quando, come gli abiti e

le monete, così usavano tutti li medesimi motti e parole» (cfr. V. Borghini, Annotazioni e discorsi

sopra alcuni luoghi del Decameron, Firenze, Le Monnier, 1857, p. 31).

carattere di Franco, che ne giustifichi le scelte artistiche senza l’esigenza di ricorrere

a nozioni abusate, e probabilmente assai semplicistiche, come quella che vuole

vedere in lui una sorta di spontaneo, ingenuo apprendista della scrittura. In parte

riprendendo, in parte superando i giudizi di Francesco De Sanctis e Benedetto Croce,

la critica letteraria contemporanea ha segnato delle tappe concrete nella rivalutazione

degli scritti sacchettiani, a partire dalla concezione di essi come prodotti originali e

caratterizzati da una certa coerenza interna.

In tutti i casi, si vede come nell’evoluzione della sua arte sia data una grandissima

importanza, in positivo ma anche in negativo, a quel senso stringente e compulsivo

della morale cui s’è già accennato. Questo carattere ha fatto parlare molti studiosi

d’un Sacchetti anacronistico, arretrato rispetto ai suoi stessi modelli e di conseguenza

palesemente legato a un periodo di crisi culturale, civile, forse anche religiosa; la

valutazione di Flora, in tal senso, è illuminante e permette di osservare come, sino a

tutti gli anni ’50, la critica fosse rimasta davvero poco benevola nei confronti del

Sacchetti: senza mezzi termini, il critico sostiene che «chi legga con animo storico i

suoi libri è tentato di far violenza alla cronologia, e porre Franco Sacchetti prima dei

grandi trecentisti; poiché in lui, che pur tanto deve ai loro modi formali e linguistici,

meno che in quelli appare la coscienza di una nuova età dello spirito»25

. Né sarà

meno corrosivo il giudizio di un grande esperto delle opere di Franco come

Lanfranco Caretti, il quale all’incirca nello stesso periodo descrive il suo moralismo

come «assai più naturale e istintivo che meditativo e profondo, schietto e verace ma

in gran parte legato ad una polemica di costume più che allo scandaglio vero e

proprio dell’animo umano», per concludere poi che «con un minimo in più di

leggerezza e di distacco sentimentale, il Sacchetti avrebbe anche potuto approdare ai

limiti difficili di una poesia incisivamente satirica, crudamente icastica»26

. C’è

d’altra parte anche chi, come Luigi Russo, recepisce più positivamente l’intento

morale di questa scrittura: «la cosa che più impressiona in Sacchetti», secondo

Russo, «è questo suo candore e bonomia di uomo di popolo, e al tempo stesso questa

sua serietà di uomo spirituale, per cui tutte le vicende della vita devono concludersi

in un sermone, in un ammonimento, e in cui il narratore non muta voce, non cambia

gesti, ma continua nella sua sovrana semplicità espansiva di uomo ingenuo, elementare

25. Cfr. F. Flora, Franco Sacchetti e gli ultimi Trecentisti, in Storia della letteratura italiana, vol. I,

Dal Medioevo alla fine del Quattrocento, Milano, Mondadori, 1969, pp. 453-54.

26. Cfr. L. Caretti, Il Trecento minore, in La letteratura italiana: le Origini, il Duecento e il

Trecento, a cura di L. Caretti e G. Luti, Milano, Mursia, 1973, p. 415.

e sano». Ed esprimerà un concetto simile, ma con ancora maggior favore, pure

Natalino Sapegno nel suo Compendio di storia della letteratura italiana27

. Al di là dei

singoli giudizi di valore manifestati intorno a questo punto, è allora chiaro come i

risvolti morali assumano una posizione centrale nella comprensione degli intenti

artistici di Sacchetti; ancora una volta, perciò, va riconosciuto come le lezioni di De

Sanctis e di Croce – pur partendo da posizioni diametralmente opposte – abbiano

segnato senza dubbio i prodromi della critica successiva, portando avanti una visione

storicamente contestualizzata di Sacchetti e valorizzandone la «parte religiosa e

morale» dell’opera.

La stessa mobilità delle sue attitudini letterarie, in fondo, può dipendere anche solo

da questa volontà d’approccio a una scrittura diversa da quella che

contraddistingueva la sarabanda disordinata di sentimenti amorosi, tinte popolari forti

e spensieratezza di concetti nella Battaglia di belle donne e nelle prime sue rime: per

il poeta gli anni trascorrevano inesorabilmente, e alla vecchiaia dell’uomo si

accompagnava la vecchiaia del secolo, quasi giunto alla fine; perciò se si torna per un

attimo sulla metafora dello specchio dei tempi, si capisce come lo specchio-Sacchetti

sia in realtà tutto concavo, perché il riflesso della realtà circostante in lui è spesso

informato e deformato dal moralismo, condizionato dalla sua spontaneità poetica.

Presupporre alla creazione artistica uno stabile intento morale fa sì che quest’ultimo,

oltre a permeare la struttura profonda delle significazioni, abbia anche un certo

influsso sulle modalità di scrittura, sulla forma e lo stile adottati. Nelle opere della

maturità questo si vede sempre, e non soltanto in maniera eclatante come avviene nel

passaggio dall’iniziale vocazione poetica alla successiva elaborazione delle novelle.

Già si è accennato al fatto che, circa questo punto, il testo davvero istruttivo è quello

delle Rime, e non solo perché esse sono frutto di un indefesso lavoro di composizione

che dagli anni sessanta circa arriva sino a quelli dell’estrema vecchiaia, ma in primo

luogo perché, come la maggior parte dei testi lirici coevi, queste poesie possono

essere considerate ognuna un prodotto finito in sé, e quindi riassumere le singole

tappe del percorso evolutivo dell’autore in maniera assai limpida. Leggendo le rime

di Sacchetti ci si accorge subito che il gusto per il precetto moralistico e per la

massima istruttiva nasce in realtà con la sua stessa scrittura, ispirando alcune delle

sue prime e più note composizioni liriche: ad esempio, nella famosa canzone dedicata

27. Cfr. N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, vol. I, Dalle origini alla fine del

Quattrocento, Firenze, La Nuova Italia, 1995, p. 195.

ai barbari costumi di Schiavonia, illustrando con tinte particolarmente vivide sia

l’incuria che gli abitanti di quella terra avevano per il loro aspetto esteriore, sia la

villania dei loro modi, si delineano per contrasto le caratteristiche essenziali del

buoncostume civile. Ciò si vede in primis già nella descrizione iniziale degli uomini

schiavoni,

che lamento

non odon di tormento,

istando duri, e di materia grossi

sì forte che con mazze non son mossi28

;

il che (se si capisce che la caratteristica fondamentale di questi forestieri è quella che

all’epoca veniva genericamente definita inurbanitas) fa implicitamente percepire il

valore dato all’eleganza, alla piacevolezza dei modi e del sembiante dai cittadini del

tempo – e si tratta di cittadini fiorentini, visto che ovviamente è la lontananza da

Firenze a ispirare il lamento del poeta. Si potrebbero fare tanti altri esempi di

analoghi accenti precettistici, se non perfino etici, rintracciabili nei primi versi del

Sacchetti, ovvero in un contesto poetico prettamente idillico e d’afflato amoroso. Le

stesse caratteristiche si ritroveranno anche nelle composizioni scritte più in là,

all’incirca tra la metà degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta; qui però si apre

già per l’autore un primo importante periodo di mutamento, determinato innanzitutto

dalle parecchie tragedie pubbliche e private che investono la sua vita: non solo la

peste che nel ’74 sconvolse Firenze, ma in particolare il tumulto dei Ciompi, al quale

partecipò attivamente il fratello Giannozzo, riconosciuto poi come cospiratore e

giustiziato il 15 ottobre del 1379. Ne nascono delle poesie di forte impatto etico, in

alcuni casi profondamente legate al contesto sociale, culturale, politico di quegli

ultimi anni. Anche qui (e lo possiamo vedere dall’ironica, grottesca canzone CVII,

schierata contro gli eccessi della moda del tempo) il tono è acre, il lessico vivissimo,

a tratti marcatamente popolare e in genere l’impatto è di incredibile espressività.

Tuttavia, per quanto concerne sia le prime prove liriche sia quelle di questo

secondo periodo, si notano numerose divergenze rispetto alle poesie scritte dagli anni

ottanta in poi; la differenza più importante riguarda, forse, proprio l’acutizzazione

generalizzata del cipiglio morale, che se prima poteva anche valere solo da pretesto o

da incentivo alla stesura di componimenti di fatto molto vicini (e in alcuni casi, come

28. Cfr. F. Sacchetti, Libro delle rime, cit., p. 18, vv. 10-13.

si è visto, pure causticamente ironici), ora invece si fa sovente autoreferenziale. Ciò è

già stato osservato nell’apocalittico scenario della canzone CLXXXI, ma non si tratta

certo di un caso isolato: si potrebbe prendere ad esempio ancora un’altra canzone, la

CCXCVII, scritta addirittura nel 1399, che sin dall’aspro e ardito incipit – «Da l’A a

l’O disvaria Marte a Morte»29

– dà segno chiaro della sua natura ideologica,

concentrandosi sul tema del rifiuto totale della guerra (che, come si vedrà, ricorre

spesso specialmente nell’ultimo Sacchetti).

Quel che si osserva, dunque, è che se in un primo momento Franco Sacchetti riesce

a investire le sue pretese moralistiche in una divertita, e tutto sommato efficace,

polemica sui costumi, dai primi anni ottanta in poi qualche cosa in lui muta e le rime

adulte si dispongono su una tesa intelaiatura morale che lascia poco spazio a qualsiasi

divertissement: «i versi d’ispirazione etico-politica predominanti negli ultimi anni»

sembrano quasi «rozzi, prosaici nella loro immediatezza oratoria»30

. Di conseguenza,

sono meno frequenti le forme metriche tradizionalmente legate alla poesia

d’occasione o amorosa, come il madrigale, la ballata o lo stesso sonetto e al loro

posto acquista spazio la canzone d’endecasillabi e settenari.

È una predisposizione nuova in Sacchetti, che era solo parzialmente ravvisabile

negli scritti anteriori e comunque in forma che potremmo definire larvata, embrionale.

Di qui la maturazione completa dell’artista, con la scoperta finale dell’inclinazione

alla prosa narrativa, è a un passo di distanza: il ‘lavoro’ che Sacchetti compie su se

stesso, sulle modalità di realizzazione della propria arte è completamente visibile

nelle sue novelle e si palesa addirittura a partire da un’attenta analisi linguistica,

come ha spiegato Cesare Segre, appurando che «la sintassi del Trecentonovelle ci

fornisce […] il diagramma dell’incidenza della spinta morale nell’ispirazione del

Sacchetti»31

; un dato che consente d’affermare come con la sua ultima e più

maestosa opera lo scrittore raggiunga senz’altro anche l’acme delle proprie

potenzialità creative, armonizzando in un sinolo di vitale ispirazione popolare e

profondo senso della morale le proprie contrastanti esigenze.

Ma a questo punto sarebbe lecito porsi una domanda: esiste, nell’opera omnia di

Franco Sacchetti, un preciso momento che faccia quasi da ponte tra la sua prima e la

29. Cfr. F. Sacchetti, Libro delle rime, cit., p. 456, v. 1.

30. Cfr. C. Muscetta e P. Rivalta, Poesia del Duecento e del Trecento, Torino, Einaudi, 1956, p.

1173.

31. Cfr. C. Segre, Lingua, stile e società. Studi sulla storia della prosa italiana, Milano, Feltrinelli,

1963, pp. 302-3.

sua seconda fase produttiva? Si può rintracciare, cioè, un nodo nevralgico che riveli

in maniera diretta (e non, come fanno le Rime, ‘obliquamente’) la crisi dell’uomo e

nel contempo la variazione di traiettoria nel percorso dell’artista? Anche per risolvere

quest’ultimo, determinante interrogativo può essere utile consultare le pagine più

rilevanti della critica. Se si sfogliano i tradizionali contributi di studiosi del calibro di

Natalino Sapegno e Borlenghi, si nota un certo accordo con studiosi molto più

recenti, come Getto32

, nel giudizio pronunciato un’opera davvero unica nel corpus

sacchettiano: le Sposizioni di Vangeli. L’importanza di questo scritto potrebbe essere

già tutta riassunta nella laconica e nettissima descrizione che ne fece proprio

Borlenghi a metà degli anni sessanta, quando sottolineò l’importanza delle Sposizioni

come «documento più preciso che le canzoni morali, e politiche, del sentimento e

della coscienza dello scrittore, e perché mostrano in atto come in un costante giudizio

e apprezzamento nasca l’esempio e, nel Trecentonovelle, la morale, a un tempo e nel

corso stesso e come elemento inseparabile della struttura e del linguaggio della

novella»33

. È notevole il fatto che il Gigli, pubblicando per la prima volta il testo

integrale di quelli che egli chiamò Sermoni Evangelici, senta addirittura la necessità

(tutta ottocentesca) di richiamare all’attenzione del lettore la natura ideologica dello

scritto; Gigli tenta di sfatare il pregiudizio secondo il quale quest’opera sarebbe nata

da un tardivo pentimento di Sacchetti per i bagordi (veri o supposti) della giovinezza,

ma nel contempo sottolinea la presenza di un abisso a separare i sermoni dalla

restante produzione del Sacchetti: essi, «se non si fossero messi a confronto con le

sue Novelle e con le Poesie scritte in vari tempi della sua vita, si sarebbe detto, da chi

lo faceva un picchiapetto in vecchiaia, che erano sospiri di spigolistro, co’ quali

voleva innanzi a Dio acquistarsi grazia per le colpe commesse»34

.

Al di là di queste assolute esagerazioni (che tra l’altro, per contrasto, ricordano

molto da vicino quelle già lette in Benedetto Croce), non è comunque negabile che la

natura dell’opera possa sembrare anomala, per un poeta come sino a quel momento si

32. Cfr. G. Getto, Proposte per Franco Sacchetti, in Immagini e problemi di letteratura italiana,

Milano, Mursia, 1966.

33. Cfr. A. Borlenghi, Novellieri italiani del Trecento, Milano, Vallardi, 1966, p. 517.

34. Cfr. F. Sacchetti, I sermoni evangelici, le lettere ed altri scritti inediti e rari, a cura di O. Gigli,

Firenze, Le Monnier, 1857, p. XXXIII. In realtà la preoccupazione di sfatare una simile prospettiva

rimane identica anche circa cent’anni dopo, come si vede dalla perfetta ripresa del Gigli effettuata da

Letterio Di Francia, quando afferma che «se noi volessimo lavorar di fantasia, crederemmo – e

qualcuno credette, – che i Sermoni siano l’atto di contrizione di Franco, per riabilitarsi in vecchiaia

innanzi a Dominedio d’aver scritto le Novelle» (cfr. L. Di Francia, Franco Sacchetti novelliere, cit., p.

43).

era mostrato Sacchetti: quarantanove scritti in prosa, uno per ogni giorno della

Quaresima dal Mercoledì delle Ceneri al primo martedì dopo Pasqua, e per ogni testo

il commento di un brano evangelico; più anomalo ancora, sia nella vita dell’autore, sia

nella storia di Firenze, è il periodo in cui le Sposizioni vennero stese, ossia l’inizio di

quell’ultimo ventennio del secolo, così gravido di cambiamenti forti e acute

sofferenze. E, di fatto, ciò che emergerà a seguito di questo testo sarà un nuovo

Sacchetti, certamente più consapevole, autonomo e di certo meno incline alla

riduzione della sua arte a un puro gioco formale. A tale cambiamento non concorre la

sola intensissima speculazione religiosa, bensì anche una complessa indagine sociale

dalla quale sbocciano spesso acute intuizioni, senza che siano mai edulcorati gli aspri

toni di protesta.

Banco di prova per un’indispensabile sperimentazione letteraria, sfogo sincero di

un animo realmente provato, testimonianza tanto di un’esperienza di vita particolare

quanto di una cultura generalmente diffusa: le Sposizioni di vangeli possono essere

tutte queste cose assieme e perciò stupisce il fatto che, nonostante sia stata spesso

sottolineata la loro centralità d’opera di passaggio, nessuno abbia mai studiato davvero

a fondo i loro ingranaggi interni e tutti i riferimenti extratestuali. Questo è

propriamente ciò che qui si tenterà di fare: al di là di una necessaria

contestualizzazione filologica che introduca le principali nozioni sulla struttura del

codice autografo contenente le Sposizioni, lo studio si concentrerà specialmente su

un’attenta lettura del testo prima di tutto in sé e per sé, per scoprire l’origine delle

fonti utilizzate dall’autore, analizzarne i contenuti e la forma sia sotto il punto di

vista dottrinale, sia a livello letterario; quindi, anche per trarre spunti d’analisi

riferibili alla visione che Sacchetti aveva del suo tempo e rivedere il resto delle opere

di questo autore alla luce di tale esame, con lo scopo di interpretarne meglio alcuni

fondamentali passaggi.

In questo modo, forse, si riuscirà a comprendere realmente il motivo per cui Franco

Sacchetti vada considerato come uno dei rappresentanti fondamentali dell’ultimo

Trecento, e se davvero egli possa essere visto o no, e in che modo, come la vera eco

del suo tempo.