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San Benedetto in Trunto Frammento dell’Alto Medioevo piceno FURIO CAPPELLI San Benedetto in Trunto Frammento dell’Alto Medioevo piceno

SAN BENEDETTO \"IN TRUNTO\". Frammento dell'Alto Medioevo piceno

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San Benedetto in TruntoFrammento

dell’Alto Medioevo piceno

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dell’Alto Medioevo piceno

San Benedetto in TruntoFrammento

dell’Alto Medioevo piceno

Quaderni Lamusa

Nella bassa valle del Tronto,presso Stella di Monsampolo,la chiesa di San Mauro svela

le tracce superstitidella chiesa monastica

altomedievale di San Benedetto

I Quaderni Lamusa illustrano conun taglio lucido e sintetico realtàstorico-artistiche, archeologiche eambientali di qualsiasi territorio

San Benedetto in TruntoFrammento

dell’Alto Medioevo piceno

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€ 14,50 (i.i.) ISBN 88-88972-13-7

La bassa valle del Tronto e i due versantidel territorio piceno-aprutino nel 1279,

con le aree di giurisdizione di Controguerra e Colonnella

Quaderni Lamusa

1. Santa Maria in Pantano. La Chiesa delle Sibille

2. Pedara

Una chiesa-fortezza nell’alta valle del Fluvione

3. San Benedetto in Trunto

Frammento dell’Alto Medioevo piceno

in programma:

4. Mensurata durant

Cultura architettonica nelle aree pedemontane del Piceno

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dell’Alto Medioevo piceno

FURIO CAPPELLI

Quaderni Lamusa 3

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Progetto editoriale,grafica e impaginazione

LAMUSAPICCOLA SOCIETÀ COOPERATIVA A R. L.Via Fabriano, 3763100 Ascoli Picenowww.edilamusa.come-mail: [email protected]

Copyright © 2004 Lamusa Piccola Società Cooperativa a r. l.

I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o par-ziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati.La Società potrà rilasciare autorizzazioni dietro apposita richiesta.

Foto di copertina

Davanti: Cripta altomedievale di S. Benedetto in Trunto (foto di Furio Cappelli)Sul retro: Conchiglia a bassorilievo della chiesa altomedievale di S. Benedetto

in Trunto (foto di Furio Cappelli)

L’Autore

FURIO CAPPELLI è nato ad Ascoli Piceno nel 1972. Allievo e collaboratoredel Prof. Pierluigi De Vecchi, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Storiadell’Arte presso l’Università degli Studi di Perugia. Ha fondato e presiede lacasa editrice Lamusa. In collaborazione con l’Archeoclub d’Italia ha diretto ilciclo triennale di seminari Ascoli antica (2000-2002) e Le vie della civiltà nelPiceno antico e medievale (2004). Tra le sue numerose pubblicazioni, incen-trate soprattutto sull’arte romanica in relazione alla società e alla culturamedievale, si ricorda il volume La Cattedrale di Ascoli nel Medioevo. Societàe cultura in una città dell’Occidente (2000).

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iamo nella bassa valle del Tronto, non lontano dal corso del fiume e a pochi chi-lometri dalla costa adriatica. Percorrendo la superstrada Ascoli-Mare nei pressidello svincolo di Monsampolo del Tronto, veniamo a lambire la chiesa di S.

Mauro. Richiama l’attenzione nel periodo estivo per la scritta luminosa omaggiante il santodedicatario che si sviluppa sul fianco sinistro, proprio lungo la direttrice della strada.Evidentemente, per essere segnalata in questo modo, S. Mauro costituisce una chiesa di rife-rimento nella devozione della gente del luogo, e la festa che lì si celebra in onore del suo tito-lare, nella seconda domenica di agosto, è ancora oggi un evento. Anche se discosta dall’abi-tato, in un’area di scarso rilievo ambientale, la chiesa costituisce un elemento “vivo” del pae-saggio e un segno di appartenenza della comunità, e come tale continua ad essere frequenta-ta e custodita.

Chi volesse visitare l’edificio, lascia la superstrada e imbocca la provinciale che da un latovalica il Tronto raggiungendo il versante abruzzese di Controguerra, dall’altro conduce almoderno abitato di Stella di Monsampolo.

Stella è il nucleo di sviluppo edilizio e industriale che sul fondovalle, lungo la stataleSalaria, si contrappone al castello di Monsampolo del Tronto. Attualmente S. Mauro dipen-de dalla Parrocchia di Maria Madre della Chiesa, il cui ambizioso edificio in cementoarmato, con la sua mole che domina sull’asfalto di un piazzale, è una gustosa antitesi allamite struttura esterna dell’antico edificio. Una teoria di capannoni prelude in modo signifi-cativo a Stella e alla sua “ardita” parrocchiale, ma ben presto lasciamo la strada per un diver-ticolo che si stacca a sinistra. Dopo un tratto, una stretta diramazione oltrepassa la super-strada con l’ausilio di un sottopassaggio e guadagna una striscia di campagna desolata, stret-ta tra l’arteria e il corso del fiume. È qui che S. Mauro si presenta alla nostra attenzione.

Il primo impatto è deludente. L’edificio è spoglio, privo di particolarità architettoniche edecorative. La facciata in laterizio coronata da campaniletti, umile e sgraziata, frutto di unamorevole ma grossolano rifacimento del tutto arbitrario compiuto nel secondo dopoguerra,costituisce senz’altro un pessimo biglietto da visita. Si potrebbe arrivare al sospetto che la chie-sa sia poco più che una cappella, per giunta ricostruita almeno in parte in tempi piuttostorecenti. La stessa cornice ambientale, ingentilita da una schiera di alberi, non aiuta ad arric-chire il quadro che si propone ai nostri occhi. Ma la delusione provata si cancella d’incantonon appena si accede all’interno, e proprio la delusione del primo momento innesca ancorpiù forte l’entusiasmo per la scoperta di un ambiente particolarissimo.

Non è la solita chiesa a navata unica coperta da capriate a vista o da volte a crociera diincannucciato, come se ne vedono in gran numero per le campagne. Un ingegnoso sistema di

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voltaggio in laterizio su pilastri d’ambito ingigantisce l’aula, la fortifica e la proietta versol’alto, senza che l’inerme struttura esterna potesse far minimamente presagire una così avvin-cente ricerca di effetto volumetrico e spaziale, mentre l’altissimo presbiterio si eleva su unacripta di evidente antichità, spoglia e apparentemente informe. Ad accentuare un senso dimovimento e di complessità il presbiterio stesso è chiuso sul fondo da una desueta abside apianta rettangolare, asimmetrica rispetto all’asse della navata.

La lunga epigrafe murata a destra entrando non lascia dubbi sull’importanza della chie-sa nei secoli passati, visto che non solo ne fissa con dovizia di particolari taluni aspetti di sto-ria giurisdizionale, ma le conferisce un titolo di spicco definendo “abbazia” la realtà istitu-zionale a cui afferiva. Ci troviamo dunque in una chiesa monastica, in relazione ad unimportante insediamento benedettino completamente perduto di cui proprio S. Mauro man-tiene la testimonianza. Ed esaltando l’alta cronologia della cripta nel quadro di un’ampiaricostruzione storica, non abbiamo difficoltà a delineare il profilo di una insospettabile eancor poco nota fondazione altomedievale, S. Benedetto in Tronto (così era chiamata in ori-gine), da annoverare tra le componenti storiche e monumentali più significative del territo-rio, essendo soprattutto l’unica realtà del primo Medioevo piceno che senza alcuna ombra didubbio abbia lasciato segni evidenti della propria originaria configurazione. I rifacimenti egli ampliamenti di cui le chiese divenivano oggetto nel corso del tempo, difficilmente rispar-miavano le strutture spesso rozze ed anguste delle più antiche fasi costruttive. S. Mauro cifornisce a tal proposito degli elementi preziosi, senza dei quali non potremmo avere un’ideapur approssimativa dei caratteri dell’architettura altomedievale picena. Di fatto, la cripta diS. Mauro (o meglio: di S. Benedetto in Tronto) è forse l’unico episodio rilevante che ci èrimasto di quell’arte altomedievale che pure si era ampiamente sviluppata in tutto l’ambitodel territorio piceno. Per giunta, essa è rimasta operante ab antiquo, senza conoscere rima-neggiamenti sostanziali o adattamenti di sorta.

L’insegna marrone che indica il percorso da seguire per arrivare alla chiesa ascrive la crip-ta al secolo X, e in tal modo coglie dunque un dato essenziale e veritiero. S. Mauro racchiu-de davvero componenti architettoniche databili con certezza a prima del Mille. Una voltatanto una datazione tradizionale di un elemento architettonico del Medioevo, non suffraga-ta da documenti o epigrafi o da qualsivoglia citazione o indagine specifica, non solo è per-fettamente sostenibile, ma può essere anche spinta al secolo anteriore. D’altro canto, non èraro imbattersi in datazioni di vecchio conio ancor oggi riproposte dalla segnaletica e dallaletteratura turistica e divulgativa, nonostante siano state respinte dall’analisi architettonica,alla luce di competenze specifiche che rendono conto delle conoscenze sempre più ampie e det-tagliate acquisite sull’arte medievale dalla storiografia degli ultimi decenni. Per quel che con-cerne il Piceno (non me ne vogliano gli amici di Roccafluvione) non è ad esempio ammissi-bile la datazione al secolo VIII o IX della cripta della chiesa di S. Stefano di Marsia, pun-tualmente ribadita dalla segnaletica e difesa con ostinazione dai parroci che si sono avvi-cendati nel tempo, come lo scomparso don Isaia, che riteneva “impossibile” la proposta di

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datazione al secolo XII sostenuta - a ragione - dalla critica. La notevole chiesa romanica diS. Croce sull’Ete presso S. Elpidio a Mare è stata spesso considerata un esempio di architet-tura “carolingia” senza alcun fondamento sul piano dell’analisi stilistica e architettonica, masemplicemente sulla scorta delle più antiche attestazioni del monastero di cui faceva parte:tali attestazioni ci consentono naturalmente di sostenere l’esistenza di una chiesa altomedie-vale di S. Croce sull’Ete di cui non possediamo indizio alcuno, mentre la chiesa attuale –sorta sul luogo della preesistente – si data orientativamente tra gli ultimi decenni del secoloXI e i primi decenni del secolo XII. Non mancano poi, a dire la verità, contributi speciali-stici che assegnano con una certa disinvoltura componenti architettoniche di chiara fatturaromanica ai secoli dell’alto Medioevo. La cripta della chiesa abbaziale di S. Maria diRambona presso Pollenza (Macerata) viene ascritta dal Nestori al secolo VIII o IX in base aicaratteri del repertorio decorativo dei capitelli, che ripropongono sì talune soluzioni di lon-tana ascendenza ma con esiti in nulla paragonabili ai raffinati modelli bizantini e in un“nuovo” contesto formale e strutturale di evidente organicità e di elevato livello esecutivo chesi rapporta facilmente ad un romanico ormai maturo: in area picena un concetto “plastico”di decorazione del capitello, che fa emergere e stagliare la decorazione sulla superficie, esoprattutto un’organizzazione del cantiere capace di creare un apparato ornamentale cosìorganico, tale da conferire un senso di coesione e di ricercatezza a tutto l’insieme, non è ascri-vibile ad un’epoca anteriore al secolo XII.

In sostanza, chi vuole avere un’idea dell’architettura altomedievale del Piceno e dell’in-tera regione marchigiana, a parte i residui muri perimetrali della chiesa di S. Stefano (sec.VII) nell’ambito della famosa necropoli di Castel Trosino, ora restaurati, deve fare i conti conla piccola cripta di S. Benedetto in Tronto e con l’unica altra realtà ascrivibile a prima delMille, sia pure con un margine di riserva: la cripta primitiva dei Ss. Ruffino e Vitale in ter-ritorio di Amandola. Solo recentemente questo dato è stato messo in luce con l’adeguata evi-denza, grazie all’opera di studio sul patrimonio romanico marchigiano svolta dal Prof. PaoloPiva dell’Università Statale di Milano (PIVA 2003, pp. 15-16), che ha proposto per primoun’adeguata presentazione della cripta amandolese, e per primo ha raccolto e commentato leindicazioni da me fornite sull’esemplare truentino.

Prima e dopo lo studio pubblicato nel 1996 (CAPPELLI 1996, pp. 216-226) ho avutodiverse occasioni per presentare al pubblico l’avvincente cripta di S. Benedetto in Tronto.Ricordo in particolare la fortunata mostra su Ascoli nell’Alto Medioevo, curata da ToninoTicchiarelli e svoltasi al Palazzo dei Capitani del Popolo per le Celebrazioni del Centenariodella scoperta della Necropoli di Castel Trosino (22 luglio - 31 ottobre 1995), la scheda dedi-cata al monumento per il primo volume dell’Atlante dei Beni Culturali dei territori diAscoli Piceno e di Fermo (CAPPELLI 1998b), curato dal Prof. Pierluigi De Vecchidell’Università Statale di Milano, il volume sulla Cattedrale di Ascoli (CAPPELLI 2000, pp.450-452), la serata di presentazione del pieghevole Monasterium Sancti Benedicti inTrunto svoltasi nella chiesa stessa nell’agosto 2001 su iniziativa dell’Amministrazione comu-

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nale di Monsampolo del Tronto, la visita guidata effettuata nel marzo 2002 nell’ambito delseminario su Ascoli nell’Alto Medioevo (Ascoli antica, 3), realizzato su iniziativa dellasede ascolana dell’Archeoclub d’Italia in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura delComune di Ascoli Piceno.

Questo quaderno mi permette di ripercorrere l’argomento alla luce degli studi compiutidurante il Dottorato di Ricerca conseguito presso l’Università di Perugia, e costituirà un’oc-casione ulteriore per far conoscere la realtà di San Benedetto in Trunto a tutte le persone e atutte le istituzioni culturali interessate, in Italia e non solo.

Affianca quest’opera di studio e di divulgazione l’Amministrazione comunale diMonsampolo del Tronto, che da anni si prodiga con efficacia, sensibilità e misura a riscopri-re un tessuto di memorie ricchissimo e ingiustamente misconosciuto.

Perché questo tessuto sia degnamente riproposto all’attenzione occorre un’opera meticolo-sa di riscoperta e di analisi, che richiede solerzia, tempo, umiltà. Un valido insegnamento èdato in tal senso dall’opera di tutti coloro che hanno fornito materiale prezioso di riflessioneper questa monografia, che completa il libro di padre Umberto Picciafuoco su L’abbazia deiSS. Benedetto e Mauro presso il fiume Tronto (1984) e al tempo stesso se ne avvale perintessere una irrinunciabile visione storica di inquadramento. Altre opere hanno contribui-to a quest’ultima, in particolare la vasta compilazione sulla storia della città e della diocesidi Teramo di “Niccola” Palma, e la meticolosa indagine sul territorio di Ascoli in età roma-na di Gioia Conta, prematuramente scomparsa. Si è voluto ricomporre un tessuto che conte-stualizza il monastero di S. Benedetto aldilà delle odierne suddivisioni amministrative,essendo evidenti le innumerevoli connessioni della sua storia e della storia del suo territoriocon l’ambito aprutino, e si è anche affrontato un discorso strettamente correlato a questa fon-dazione, quello cioè relativo alla viabilità antica e medievale, con particolare riferimentoalla via Salaria, alla luce delle nuove acquisizioni e delle nuove considerazioni, in linea conla sintesi da me proposta sull’argomento, limitatamente all’età antica, con il volumetto Lavia Salaria nel Piceno. Origini, percorsi e significati di una strada consolare (2003), dovehanno preso corpo osservazioni, riflessioni e commenti sulla scorta di una vicenda criticaampia e appassionante.

L’approccio analitico alle componenti architettoniche ha un altro passo e un’altra impo-stazione rispetto alle considerazioni generali, ma ricevono da queste una luce preziosa e deter-minante, senza la quale l’oggetto della ricerca rimane sospeso e indefinito. Utile e necessariaa tal proposito è la cosiddetta letteratura storica “locale”, troppo spesso screditata a ruolo dirifornitrice di notizie, ma in realtà l’unica in grado di far apprezzare con immediatezza lacomplessità delle vicende di un territorio. D’altro canto è anche utile e necessario l’apportometodologico e conoscitivo della letteratura critica specialistica, sul fronte dell’archeologia,della storia dell’arte e della storia tout court, in modo da far emergere all’attenzione in tuttala sua essenza la testimonianza materiale del passato, la cui specifica realtà va decifrata conun lavoro di analisi e di confronto che assorbe per anni, spinge verso contatti diretti con

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situazioni lontane, richiede un aggiornamento e un confronto costanti: tutto un lavoro chedeve necessariamente supplire alla mancanza di una documentazione specifica e, quandoquesta c’è, deve necessariamente fare da sostegno alla sua interpretazione. Tutto un lavoro cheapproda ad una conclusione fondamentale: l’emergere di un significato entro una prospetti-va di ricerca coerente e credibile. Senza questo approccio i problemi rimangono sul tappeto,e i temi dell’indagine rimangono chiusi nel limbo della loro realtà anagrafica. Senza questoapproccio la cripta di S. Benedetto è una cripta del sec. X, null’altro. In realtà, come vedre-te, c’è da dire qualcosa in più, e ne vale la pena.

Nel libro non mancano riferimenti alla storia dell’istituzione dal sec. XI in poi, ma sitratta beninteso di poche, essenziali notazioni, dal momento che questa storia è stata già pro-posta con il supporto di un’ampia messe di informazioni, e non era necessario sunteggiarla.Ciò non toglie che la cripta di S. Benedetto ha una vicenda che si prolunga ben oltre l’altoMedioevo, arrivando fino al momento in cui leggete queste righe, e va ben oltre, fiera dellasua aspra solidità.

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1. LA DIMENSIONE STORICA E TERRITORIALE

1.1. Desiderio e le porte bronzee di Montecassino

ella primavera del 1065 l’abate Desiderio di Montecassino, trovandosi adAmalfi per l’acquisto di alcuni tessuti pregiati - senza dubbio stoffe orienta-li - di cui voleva fare dono all’imperatore Enrico IV, si soffermò colmo di

ammirazione di fronte alle imposte di bronzo della porta della Cattedrale. Erano stateeseguite da non molto tempo da una bottega di Costantinopoli, a spese di un notabiledella città, il consul Pantaleone dei Mauroni. Gli venne naturale l’idea di disporre unaporta analoga per la propria chiesa abbaziale, e le spese considerevoli dell’impresa furo-no sostenute da Mauro, il figlio di Pantaleone.

L’anno seguente le preziose valve bronzee della porta di Montecassino erano state giàfuse, ma proprio in quell’anno Desiderio, sospinto da ben più forti ambizioni, decise didemolire la chiesa abbaziale per costruirne una nuova.

L’antica chiesa era stata disposta dall’abate Gisulfo (797-817). Era una costruzionea tre navate la cui fisionomia è stata definita a seguito delle indagini archeologiche del-

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l’ultimo dopoguerra. Si sviluppava in lunghezza all’incirca quanto la chiesa che avrebberealizzato Desiderio, ma era meno ampia e, al confronto, risultava spoglia di decorazio-ni e di arredi. L’area terminale riutilizzava il coro dell’oratorio di S. Giovanni Battista,la semplicissima costruzione a sala mononavale absidata che san Benedetto stesso avevaedificato dopo essersi insediato sull’acropoli di Cassino, nel 529, e nel coro di quell’an-

tico oratorio il santo monacoaveva disposto di essere tumu-lato, accanto alla sorella santaScolastica.

La chiesa di Desiderio nonaveva particolare forza nellesue dimensioni, poiché avevaun ingombro di poco più di48 metri in lunghezza e di 21metri in larghezza (fig. 1). Ciòche affascinava era la ricerca-tezza dei suoi elementi. De-siderio non inseguiva sogni digrandezza, voleva il meglio.Con la stessa disinvoltura concui si recava ad acquistare stof-fe ad Amalfi si procurò aRoma due serie di dieci colon-ne antiche da disporre su duefile lungo la navata centrale. Illoro difficoltoso e celebre tra-sporto, in larga parte compiu-to via fiume, non dovette esse-re meno costoso del loroacquisto. Da Costantinopolifece venire valenti maestri chericoprirono i pavimenti di tar-sie e rivestirono di mosaicifigurati tutte le superfici, conun effetto che oggi può esseresolo immaginato osservandogli affreschi che Desideriodispose in seguito nella basili-ca di S. Michele Arcangelo a S.3

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Angelo in Formis. Un atelier di artefici di formazione locale, magari istruiti proprio nelcantiere dell’abbazia, ha lì riecheggiato quel vasto programma decorativo semplificandola raffinata stilizzazione che doveva contraddistinguere i mosaici cassinesi. Desideriostesso, rappresentato con il nimbo quadrato del dignitario in vita, è ritratto mentre offrela chiesa al Cristo assiso in trono, campeggiante come di consueto al centro del catinoabsidale (fig. 2).

I lavori, nel breve volgere di cinque anni, furono conclusi, e fu così che nel 1071 lanuova chiesa di Montecassino fu solennemente consacrata da papa Alessandro II, allapresenza di personaggi di prestigio appartenenti alle più alte sfere del mondo religioso epolitico. Basti ricordare il cardinale Ildebrando di Soana che salirà sul soglio di S. Pietrocon il nome di Gregorio VII, la proverbiale contessa Matilde di Canossa, il principeRiccardo di Capua, Landolfo V duca di Benevento, Gisulfo principe di Salerno. Sitrattò di un evento epocale che mise in ombra la consacrazione dell’abbaziale di Farfa acui Desiderio stesso presenziò nel 1060. Fu allora forse che gli balenò una prima idea dicompetere con l’abate Berardo mettendo in cantiere un’opera ben più raffinata e memo-rabile, resa leggendaria dalla prosa esaltante del cronista Leone Ostiense.

Le preziose valve di bronzo che forse avevano avuto anch’esse una parte determi-nante in questa strepitosa vicenda, inducendo Desiderio ad affidare ai maestri greci nonuna sola componente ma l’intera decorazione della chiesa, rimasero nel frattempo indisuso perché inadatte alla nuova porta centrale più alta della preesistente. Il successoreOderisio (1087-1105) provvide ad un adattamento applicando sulla fascia basale unasemplice predella modanata fusa in Italia, e finalmente la porta desideriana prese postosulla facciata del nuovo edificio (D’ONOFRIO 1981, p. 46). E di quest’ultimo è l’unicacomponente integralmente pervenuta che ci rimane. La chiesa desideriana è stata infat-ti pressoché distrutta da un terremoto il 9 settembre 1349 per essere poi ricostruitainsieme al cenobio tra il 1357 e il 1366. La perdurante floridezza dell’istituzione fu taleda suggerire in piena età moderna una nuova ricostruzione della chiesa, che venne poiriconsacrata da papa Benedetto XIII il 19 maggio 1727. Come purtroppo sappiamo,anche quest’ultima edizione della chiesa non ci è pervenuta poiché il bombardamentocompiuto dagli alleati il 15 febbraio 1944 trasformò l’intero complesso in un tetrocumulo di macerie. Nella ricostruzione avviata nel 1946 i battenti miracolosamentesopravvissuti sono stati collocati sulla nuova facciata della chiesa, dopo il restauro com-piuto nel 1963.

Proprio questo intervento ha permesso di rilevare che nove dei 36 pannelli in cui leante sono suddivise al di sopra dell’iscrizione dedicatoria, presentano sul lato retrostan-te figure di profeti, patriarchi e apostoli appartenenti all’assetto originale della porta (siveda ABRAHAM, Abramo, fig. 3). I pannelli figurati, in sostanza, sono stati riutilizza-ti sul verso al servizio di una nuova impaginazione che rinuncia in modo pressoché asso-luto alla componente decorativa, eccettuate le quattro croci che corredano l’iscrizione

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della fascia basale. La porta desideriana è stata così trasformata in un solenne « cartula-rio monumentale » (IACOBINI 1998, p. 667) che enumera in modo dettagliato e com-piaciuto i possedimenti detenuti dall’abbazia.

Come è suggerito dal confronto con la predetta porta di Amalfi, già eseguita nel1065, e con le altre porte fatte eseguire a Costantinopoli da Pantaleone dei Mauroni,vale a dire la porta di S. Paolo fuori le mura (1070) e la porta di S. Michele Arcangeloal santuario di Monte S. Angelo sul Monte Gargano (1076), la porta desideriana dove-va presentare un assetto compositivo ben più articolato. L’aspetto epigrafico era limita-to a quattro pannelli con l’elenco dei possessi più antichi, attualmente reimpiegati sulprimo asse del battente sinistro, dal secondo al quinto ordine, distinti dalla spiccataimpronta orientale della grafia. Ai nove pannelli con figure individuati dal restauro nevanno aggiunti altri completamente perduti. Il complesso delle immagini, tutte realiz-zate in agemina con l’applicazione dell’argento, doveva interessare più di sedici pannel-li. I pannelli restanti dovevano riproporre la stessa croce fogliata presente a corredo del-l’iscrizione dedicatoria (fig. a pag. 7). Così replicata significava al meglio la figura diCristo come arbor vitae, fonte di resurrezione e di vita eterna, in linea con un’antica ico-nografia dove i tralci di vite o i racemi fioriti d’acanto si sviluppano ai lati della crocestessa o ai lati del Cristo a rappresentare il nesso tra il suo sacrificio e la beatitudine cele-ste del fedele (cfr. CADEI 1988, p. 17).

A trasformare questa raffinata trama di simboli e di immagini in una portentosaparata di possedimenti fu con ogni probabilità l’abate Oderisio II (1123-1126). Il signi-ficato del suo intervento, di primo acchito “distruttivo” rispetto all’impostazione desi-deriana, sta nella particolare situazione storica che l’abbazia stava attraversando, all’api-ce della sua potenza e proprio per questo nella condizione di manifestare la propriaautonomia, la propria forza e i propri privilegi di fronte a tutti coloro che potevanoattentare all’integrità di un così ingente patrimonio, dai signori locali sino ai sovraninormanni. L’esempio di Oderisio fu significativamente imitato negli stessi territori delRegno: nella porta bronzea disposta dall’abate Gioele (1182-1189) per il portale mag-giore di S. Clemente a Casauria, dove gli emblemi dei castelli erano corredati dalle iscri-zioni che elencavano le proprietà terrae sancti Clementis, mentre nell’altra porta bronzeadel Duomo di Benevento, forse commissionata dall’arcivescovo Rogerio (1179-1221) esolo in parte conservata, si presenta un’epigrafe basamentale sviluppata su tre righe a for-mare « una sorta di monumentale lista di possesso » (IACOBINI 1998, p. 668).

1.2. La presenza di Montecassino nel Piceno

E per tornare alla porta desideriana, o per meglio dire alla porta di Oderisio II, nelpercorrere quella selva di nomi che si sviluppa lungo gli assi verticali dal primo pannel-

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lo in alto a sinistra al trentaseiesimo in basso a destra, incontriamo molteplici riferimentialla realtà del territorio piceno: sulla valva sinistra, al tredicesimo pannello, leggiamo:“I(n) Ascu/lo S(anctus) Angelus ancillaru(m) Dei. S(anctus) Ben(edictus) i(n) Trun/tocu(m) cella S(anctae) Mar/garitae”; sulla valva destra, dal ventottesimo al trentesimopannello: “In / Asculo duo ca/stella idest De//cinianum et / Tribillianu(m) / cumom(n)ibus / ecclesiis et / possessioni/bus earum. / Item ibide(m) / duorum / portiones/ castelloru(m) // idest Po/montis / et Octavi / cum ter/ra modio/rum quat/tuor milia”(fig. 4). Dalle porte bronzee risulta peraltro collocato in Asculo il monastero di S.Maximus in Vairano, che sorgeva in realtà in pieno territorio aprutino, precisamentepresso Torano. La mancanza di una separazione chiaramente avvertibile tra il comitatodi Ascoli e il comitato teramano ingenerava evidentemente taluni equivoci (PALMA

1978-81, IV, p. 358).Riguardo al monastero femminile di S. Angelo di Ascoli citato nelle porte bronzee

viene istintivo scomodare il famoso monastero di S. Angelo Magno che sorge entro ilperimetro della cinta urbica della città picena, ma in realtà ci si riferisce ad un’altra fon-dazione del territorio, forse identificabilecon il Sanctus Angelus de Stabulo o con ilSanctus Angelus de Feltriano nel novero deipossedimenti piceni di S. Angelo in Bar-rea nei privilegi di Ludovico II (873) e diOttone I (964) (BLOCH 1986, I, p. 301,n. 83). Il monastero di Barrea si trovavanell’alta valle del Sangro, nel territorio diconfine con le regioni del Lazio e delMolise, vicino alla celebre abbazia di S.Vincenzo al Volturno. Passò alle dipen-denze di Montecassino insieme a tutto ilsuo patrimonio nel 970 su interessamentodi Ottone I.

Veniamo così al nostro SanctusBenedictus in Trunto rilevando innanzitut-to che la sua più antica attestazione docu-mentaria risale al 989, quando papaGiovanni XV confermava all’abate Man-sone le dipendenze di Montecassino(PICCIAFUOCO 1984, p. 35; BLOCH 1986,I, pp. 301-303, n. 84). La cella SanctaeMargaritae è un’istituzione che dipendevada S. Benedetto e che sorgeva nel territo-

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rio di Monte Cretaccio, lo scomparso castello a dominio della costa che costituì lo sboc-co sul mare concesso ad Ascoli da Federico II nel 1245. Per inciso, anche se la citazio-ne delle porte bronzee è propriamente estranea a Desiderio e alla sua epoca, un aggan-cio tra il celebre abate e la fondazione truentina è comunque documentato da un decre-to a lui inviato da papa Vittore II nel 1059, e da una bolla inviata sempre a Desiderioda papa Alessandro II nel 1067: in entrambe le carte S. Benedetto in Tronto è annove-rato tra i numerosi possedimenti confermati all’abbazia di Montecassino (PICCIAFUOCO,pp. 41-42).

Riguardo agli altri beni citati, dalla Chronica di Leone Ostiense e dal Regestum diPietro Diacono veniamo poi a sapere che nel luglio 1045 l’abate cassinese Richerius rice-vette in dono da Rolando, filius quoddam Othoni, et Rolando, filius quoddam Ferraci, etAtto, et Tederico, filius quoddam Mainardi, habitatores de comitatu Asculo i castelli diDecinianum con la relativa chiesa di S. Pietro, e di Tribillianum con la relativa chiesa diS. Lorenzo, insieme a tutte le altre pertinenze e a tutti gli altri possedimenti connessi.Sempre nel 1045 il predetto Tederico cedette a Montecassino quanto possedeva delcastello di Pomonte e della relativa chiesa di S. Rustico, insieme alla sua “porzione” delcastello di Ottavo e della relativa chiesa di S. Giovanni. Di particolare interesse è l’ac-certata ubicazione di questi ultimi castelli, entrambi già situati ad est di Ascoli, sul ver-sante sinistro del Tronto: Pomonte sorgeva nei pressi del torrente Bretta, e verrà assor-bito nel territorio del Syndacatus Podii Brecte, l’attuale Poggio di Bretta; Ottavo, cosìdetto in riferimento alla distanza in miglia dalla città di Ascoli, corrisponde all’attualeColli del Tronto (BLOCH 1986, I, pp. 425-427, nn. 158-159; per l’identificazione,GIROLAMI 1996).

Al novero dei possessi “ascolani” dobbiamo aggiungere il monastero di S. Salvatoread caput Aquis, fondato alla metà del sec. IX (MARCUCCI 1766, pp. CCXIII-CCXIV),che non è attestato nella porta cassinese ma risulta in molteplici privilegi imperiali diconferma sotto la giurisdizione dell’abbazia: così ad esempio nel diploma emanato infavore di Montecassino da Enrico III nel 1047 oltreché nel famoso privilegio concessoda Lotario III nel 1137 (BLOCH 1986, I, p. 129; II, p. 762).

La prima attestazione del cenobio ascolano rimonta all’anno 873, quando viene cita-to in un perduto diploma rilasciato dall’imperatore Ludovico II a favore del monasteroabruzzese di S. Angelo in Barrea, come risulta dalla Chronica monasterii Casinensis diLeone Ostiense. Sempre la Chronica attesta un significativo legame stabilito dal mona-stero di S. Salvatore con l’aristocrazia locale: il ricco Hermefrid, definito civis Asculanus(ma forse - dato il nome - oriundo del Walhalla nibelungico), nell’anno 888 decise divestire l’abito monastico lasciando se stesso, attraverso il dono dei propri capelli (percapillos sui capitis), e tutti i suoi beni nelle mani del prevosto Vuamelfridus. Il secoloseguente Guido di Ascoli lascia al monastero la sua vasta corte di Casale nel territoriodi Force, con un’estensione di circa millecinquecento moggi di terra (ANDREANTONELLI

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1673, pp. 219-220; BLOCH 1986, I, p. 798, n. 129). Un atto di permuta tra Lupone diManfredi, conte aprutino, e l’abate Elia di Barrea, rogato nel 951, riguarda tra l’altro unpossedimento di centotrenta moggi in Territorio Asculano in locum ubi acque bocaturavente tra i suoi confini il fossato de ipsa solfenaria: come asserisce il Palma si trattasenz’altro della località Aquae, l’odierna Acquasanta Terme, le cui sorgenti di acquasolforosa erano note già dall’età romana (PALMA 1978-81, IV, p. 347). La giurisdizionesu S. Salvatore e su altri possedimenti piceni è confermata dal privilegio rilasciato infavore del monastero abruzzese da Ottone I nel 964. Alcuni anni dopo, nel 970, S.Salvatore insieme a Barrea e a tutti i suoi beni passò nell’orbita di Montecassino. L’unicamemoria che resta della fondazione picena è la chiesa ottocentesca di S. Salvatore diSopra, che sorge poco lungi da Porta Romana sulla direttrice della Salaria.

1.3. Un territorio (e un monastero) di confine

Viene a questo punto istintivo chiedersi il perché della “presenza cassinese” nellabassa valle del Tronto, nel caso del monastero di S. Benedetto attestata già alla fine delsec. X. L’interrogativo nasce semplicemente da una lettura del territorio conformatasulle odierne suddivisioni amministrative, cosicché Montecassino, che ha legato a sé lastoria del Mezzogiorno medievale, appare come una presenza intrusiva o problematicaa nord del Tronto. In realtà il confine tra le Marche e l’Abruzzo stabilito dal corso delfiume nel suo ultimo tratto eredita sì in buona parte il confine tra le terre della Chiesae il Regno, ma questo confine non rappresentava, come è ovvio, una barriera impene-trabile e si è affermato solamente con il consolidarsi delle rispettive realtà politiche, sol-tanto cioè a partire dal XIII secolo, soprattutto a seguito dell’instaurarsi della monarchiaangioina. Prima di allora si assisteva ad una situazione fluida in cui un marcato ruolopolitico-territoriale veniva giocato dagli episcopati e dai monasteri, dai comuni dellecittà maggiori, nonché dalle baronie aprutine: tutte realtà che nel loro variegato insie-me avevano ereditato il controllo sulle vaste giurisdizioni del ducato di Spoleto e dellamarca di Fermo. I privilegi altomedievali concessi proprio a favore di Barrea e diMontecassino compattano le realtà suddivise dal Tronto attraverso il riferimento alduplice ambito di Spoleto e di Fermo (infra ambobus Ducatibus nostris, recita il citatodiploma di Ottone I del 964: PALMA 1978-81, I, p. 175), e nel presentare una realtàpatrimoniale diffusa a macchia di leopardo su ambo i settori, riconoscono la forza uni-ficatrice dei monasteri stessi.

Solo “sconfinando” verso la Vibrata e il Salinello possiamo ricomporre con precisio-ne e completezza le vicende stesse del Piceno meridionale, già in età preromana viva-mente connesse con i territori a sud del Tronto, essendo peraltro attestato che il primotratto del Salinello stabiliva il confine tra l’ager Asculanus e l’ager Praetutianus, entram-

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bi compresi nella regioaugustea nota comePicenum (la V regio).

Il territorio del-l’ultimo tratto dellabassa valle del Trontorisultò sottratto alcontrollo di Ascoli apartire da una fasestorica indeterminata.La città rimase in talmodo priva del suonaturale sbocco sulmare alla foce delTronto, dove sorgevabensì la città di Truen-tum o di CastrumTruentinum. Sia Ca-strum Truentinum asud del Tronto sia, anord, l’altra città diCupra Maritima, ave-vano in età romanaun proprio territorioin qualità di comunitàautonome (CONTA

1982, p. 85), e rafforzarono una vicenda insediativa che limitava all’entroterra la sferad’influenza di Asculum già caput gentis dei Piceni (fig. 5), permettendo bensì una “rami-ficazione” in area picena delle esperienze politiche e culturali del territorio aprutino,cosa che sarà ben evidente in tutto il corso del Medioevo. Come sarà asserito nei confi-ni stessi tra le diocesi di Ascoli e di Teramo, il territorio aprutino presentava infatti unlembo che valicava il Tronto assorbendo in parte l’ager di Castrum Truentinum, cheaveva come confine settentrionale il fiume Helvinus attestato da Plinio, identificabilecon il torrente Acquarossa che sfocia nel mare a sud dell’odierna Cupra Marittima. Lostesso Plinio considera il fiume Helvinus come confine settentrionale della regioPraetutiana (CONTA 1982, pp. 81-82), vale a dire del territorio dei Praetutii, la popola-zione confinante con i Piceni che darà il nome all’ager Praetutianus a sua volta confi-nante con gli agri di Asculum e di Castrum Truentinum, dal quale ager prenderà nome ilcomitatum medievale di Teramo (Aprutium), da cui deriva infine il nome dell’attuale

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regione che confina a sud delle Marche, l’Abruzzo. E si può supporre che la città diCastrum Truentinum, in linea con l’assetto territoriale anteriore alla conquista e allacolonizzazione da parte dell’Urbe, rientrasse già in età romana nella sfera d’influenza delsettore aprutino, così da esserne definitivamente assorbita nel Medioevo a seguito dellasua regressione a insediamento fortificato (Turris ad Truntum), che si definì verosimil-mente nel sec. VI, in relazione alla guerra greco-gotica, dopo un fenomeno di riqualifi-cazione e di parziale abbandono dell’impianto urbano (cfr. STAFFA 2000, pp. 424-425).Fu così possibile che le lontane realtà monastiche di S. Angelo di Barrea e diMontecassino, rispettivamente già nel sec. IX e nel sec. X, interessassero la fascia terri-toriale individuata dal Tronto, forti di una presenza fittamente testimoniata in tutto ilterritorio teramano. D’altro canto, l’episcopato ascolano si era assicurato numerosi epreziosi “avamposti” oggi compresi nel territorio abruzzese, alcuni dei quali rivendicatisuccessivamente dal comune stesso di Ascoli (è il caso di Controguerra), e dalla bolla dipapa Anastasio IV del 27 novembre 1153 a favore di Guido vescovo di Teramo (PALMA

1978-81, I, pp. 354-355), possiamo in ogni caso vedere stabiliti oltre il corso del Trontoi confini tra la diocesi di Ascoli e la diocesi di Teramo, a vantaggio di entrambe. La lineava dalle creste montuose della Lagaall’alto corso del Salinello (usque adrivum qui decurrit inter Esculanumcomitatum, et Aprutinum), e in corri-spondenza di Garrufo (per Carrufam)piega verso il Tronto e lo valica (usquetrans fluvium Tronti), per curvare infi-ne - confinando a nord la diocesi diFermo - verso la costa adriatica (usquein mare).

Addentrandosi nel territorio truen-tino, il comitatum Aprutinum com-prendeva il nostro monastero di S.Benedetto come pure i tre castelli chedaranno vita a Monsampolo del Tron-to. Ciò si riflette anche sul piano dellevicissitudini storiche. I Normanni vali-carono senz’altro con i loro armati leacque del Tronto, dato che papaGregorio VII ebbe modo chiaramentedi dolersi nel 1080 per le appropria-zioni da loro compiute nel territoriodella marca di Fermo (DELOGU 1984,

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pp. 108-109), e stabilirono il loro potere nelle terre aprutine intorno al 1140. Un pre-zioso testimone di ciò è dato dal cosiddetto Catalogo dei Baroni riportato dal diligentis-simo Palma (1978-81, I, pp. 363-384). Si tratta di una compilazione grosso modo data-bile tra il 1150 e il 1155 in cui i feudatari facenti capo al viceré conte Roberto d’Aprutiovengono passati in rassegna con le loro competenze territoriali e con il dettaglio di quan-ti armati e di quanti scudieri avrebbero fornito per una impresa purtroppo non rileva-bile: armati e scudieri determinati in base alle rendite dei possessi, come era in uso pres-so i Normanni. Lo stesso conte aprutino detiene nel Piceno il castello di Acquaviva epossiede una torre (gentilizia, si deve supporre, se si riferisce al nucleo urbano) in queldi Ascoli (Et in Asculo tenet Aquamvivam … una cum torre, quae est similiter in Asculo).Landolfo di Corbone e Gualtiero di Enganna detengono i castelli di Monte S. Paolo edi Monte Donnello, due insediamenti che saranno abbandonati nel sec. XIII conte-stualmente alla formazione del nuovo castello di Monsampolo del Tronto. Una parte diMonte S. Paolo era stata donata all’abbazia di Farfa nel 1039 da Tofanio di Aimerado(GIROLAMI 1998e, p. 187), mentre una parte di Monte Donnello, per effetto delladonazione compiuta nel 1050 da Corbone di Cono (PICCIAFUOCO, pp. 37-41), si tro-vava sotto la giurisdizione di Montecassino: queste e altre occupazioni militari crearonosenz’altro delicate questioni giurisdizionali riguardo ai diritti pregressi detenuti dalleistituzioni religiose. Uguccione possiede il castello di Lucum, il celebre Castel di Luco,nel territorio di Acquasanta, tra le giurisdizioni del vescovo di Ascoli confermate daEnrico III nel 1055 (FRANCHI 1995, p. 76). Attone detiene invece il castello diMozzano, non lungi da Ascoli, che nel 1150, dunque nell’epoca stessa del Catalogo,viene rivendicato dal vescovo Presbitero al cospetto dell’imperatore Corrado III comedono dei figli di un tale Trasmundo (FRANCHI 1995, p. 98).

Non sono le uniche occupazioni attestate nel territorio ascolano, ve ne sono altreancora, ed è sorprendente che la penetrazione normanna segua gli stessi percorsi dise-gnati dagli insediamenti e dagli interessi patrimoniali dei monasteri di Barrea e diMontecassino: sulla Salaria superiore (Castel di Luco, Mozzano) dove già Barrea posse-deva un terreno e l’importante monastero di S. Salvatore ad caput Aquis; nella bassa valledel Tronto e sulla linea interna del litorale (Acquaviva, Monte S. Paolo, MonteDonnello) dove Montecassino deteneva S. Benedetto in Tronto. Ciò era evidentementefavorito dai sistemi viari, che privilegiavano collegamenti piceno-aprutini oggi di secon-daria importanza, come l’asse della Valle Castellana, una cui diramazione consentiva divalicare la cresta dei Monti della Laga oltre la quale si sviluppa il comprensorio diAcquasanta; o come l’asse Monsampolo - Controguerra, lungo il quale sorgeva lo stes-so monastero di S. Benedetto in Tronto. E, nel solco dei sistemi viari, la presenza mona-stica “aprutina” aveva senz’altro innescato rapporti di lungo periodo anche sul pianoeconomico e politico tra i territori di Ascoli e di Teramo, ciò favorendo la penetrazionestessa dei signori “normanni”.

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In ogni caso, la presenza normanna poteva e doveva costituire una spina nel fiancoper i poteri locali, e si comprende perfettamente la preoccupazione del vescovo Presbi-tero d’Ascoli per la sorte delle giurisdizioni della propria diocesi. È significativo in talsenso il viaggio che si adoperò a compiere in Germania nel 1150, presso la corte diNorimberga, per ottenere un privilegio di conferma dei propri possessi (compreso ilcastello di Mozzano!) da parte dell’imperatore Corrado III, e ancor più interessante peril nostro discorso è il breve tragitto che il medesimo vescovo compì nel 1136, motivatoanche allora dalla minaccia normanna, allo scopo di sottoporre i suoi problemi all’im-peratore Lotario III (fig. 6) (MONTI 1987, pp. 11-24). Presbitero ebbe modo di incon-trare l’imperatore mentre era accampato presso il Tronto con la sua corte e il suo eserci-to, in procinto di portare guerra proprio al re di Sicilia Ruggero II. Dopo aver espugnatoSalerno, nella stessa città provvide a sottoscrivere il 18 agosto dell’anno seguente il pri-vilegio di conferma richiesto dal vescovo ascolano (FRANCHI 1995, pp. 84-91). AdAquino invece, il 22 settembre, dopo aver deposto l’abate “filonormanno” Rainaldo afavore di Guidobaldo, Lotario sottoscrisse il particolareggiato privilegio di conferma deibeni di Montecassino, tra i quali viene ricordato il monastero di S. Benedetto in Tronto.Lo stesso Ruggero II, nel 1133, aveva sottoscritto anch’egli un privilegio a favore del-l’abbazia in cui si annovera il cenobio piceno, trovatosi così confermato nel giro di pochianni dal re normanno e dal suo acerrimo nemico Lotario (PICCIAFUOCO, pp. 43-44).

L’accampamento imperiale del 1136 dovette essere stabilito nella bassa valle delTronto, con tutta probabilità proprio nei pressi del monastero di S. Benedetto, laddovel’attuale strada di Controguerra ricorda l’importante via che congiungeva i due versan-ti del fiume. La presenza in quel luogo dell’imperatore dovette essere un elemento dirichiamo non solo per Presbitero, visto che un altro importante dignitario religioso, l’a-bate Oldrio di S. Clemente a Casauria, si recò « al fiume chiamato Tronto, dove [Lota-rio] stava con grande esercito » (la testimonianza è del Chronicon Casauriense), e nellacircostanza si lagnò di Conone di Guittone, un signore locale che accampava diritti suun importante possesso dell’abbazia, vale a dire la non lontana chiesa di S. Clemente alVomano. Lotario convocò Conone, gli ingiunse di giurare la rinuncia ad ogni pretesasulla chiesa e sui suoi possedimenti, e presa visione dei privilegi che Oldrio aveva oppor-tunamente recato con sé, riconoscendo l’abbazia come “patrimonio imperiale” si ripro-mise di omaggiarla di una visita e di riconfermare tutti i suoi privilegi (DELOGU 1984,pp. 166-167).

Con Enrico VI, la cui figura sancisce il connubio tra l’Impero e il Regno norman-no, la situazione politica del territorio ascolano ha modo di stabilizzarsi. Le lagnanze suibeni precedentemente usurpati si riflettono con chiarezza nel primo diploma concessodall’imperatore a favore della Chiesa di Ascoli, e in Ascoli sottoscritto, il 13 dicembre1186, laddove si autorizza il vescovo a riprendersi tutto ciò che è stato sottratto al suopatrimonio (FRANCHI 1995, pp. 116-120). Per inciso, mentre si adoperava all’assedio di

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Napoli, nel 1191, il sovrano confermò e accrebbe a favore di Montecassino il privilegiodi Lotario, e tra i beni menzionati compare così ancora una volta il monastero di S.Benedetto in Tronto (PICCIAFUOCO 1984, p. 45). Nel maggio 1193, con il diploma con-cesso davanti a Campli dal legato imperiale Bertoldo di Kunigsberg, il vescovo ascolanopuò vedere riconfermata la giurisdizione sul prezioso monastero caposaldo di S. Mariadi Montesanto, nel territorio di Civitella, già usurpato dal conte aprutino Rainaldo, enel 1195 una famiglia di dinasti ascolani facenti capo all’arcidiacono della CattedraleBerardo potrà detenere per disposizione dello stesso imperatore il castello di S. Omero,già infeudato al “normanno” Gualtiero di Rainaldo nel novero del predetto Catalogo deiBaroni (FRANCHI 1995, pp. 140-144, 158-170).

Nel braccio di ferro tra il Regno e la Chiesa che seguì alla scomunica di Federico II,il confine del comitato ascolano venne superato in molteplici occasioni dalle truppesveve, sino al celebre assedio posto ad Ascoli e al saccheggio che ne conseguì nel 1242ad opera del luogotenente Andrea Cicala. Il castello di Macchia sull’alto Salinello, notocome Castel Manfrì (di Manfredi), già detenuto dai Normanni, espugnato infine daCarlo I d’Angiò, era tornato ad essere in epoca federiciana un avamposto strategico dellacittà di Ascoli e un baluardo del suo potente partito filoimperiale.

Le vicende burrascose tra Ascoli e Fermo, innescate dallo sbocco sul mare concessoad Ascoli dallo stesso Federico II nel 1245, e rinfocolate dalla costruzione del porto con-cessa parimenti ad Ascoli da papa Giovanni XXII nel 1323, manifestano il ruolo terri-toriale giocato (e rivendicato) nella bassa valle del Tronto sin dall’alto Medioevo dallacittà rivale. A rendere ancora più complesso il quadro la presenza della potente abbaziadi Farfa, che deteneva numerose giurisdizioni anche nei luoghi stessi in cui Montecas-sino e il vescovo di Ascoli o di Fermo avevano acquisito prerogative patrimoniali. Ariprova di tutto ciò si vedano alcuni esempi. Il castello di Ottavo, l’attuale Colli delTronto, oltre alla citata donazione del 1045 in favore di Montecassino, vede una con-ferma in favore dell’abate Berardo di Farfa da parte dell’imperatore Enrico III nel 1050,e viene concesso al vescovo di Ascoli Bernardo II da papa Leone IX nel 1052 (GIROLAMI

1998c, p. 229). Una donazione compiuta nel 1032 o nel 1033 a favore del vescovoUberto di Fermo da parte di Gisone di Alberto interessò d’altra parte il monastero di S.Benedetto in Tronto, che pure si trovava sotto la giurisdizione cassinese, nonché la metàdel castello di Monte Cretaccio, una cui porzione era stata già ceduta allo stesso vesco-vo Uberto nel 1023 da Gisilmanno di Gisleberto. Infine, per effetto della donazionecompiuta da Guido e da Longino nel 1039, un’ulteriore porzione di Monte Cretacciofu donata a Farfa insieme al castello di Monteprandone (LOGGI 1998, p. 86; ID. 1998b,p. 130).

Monte Cretaccio, come già accennato, sarà concesso al comune di Ascoli daFederico II nel 1245, mentre Monteprandone farà atto di sottomissione nei confrontidel comune stesso nel 1292 (LOGGI 1998b, p. 131). Al 1299 risale la nascita del castel-

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lo di Monsampolo, nato dall’abbandono e dall’accorpamento dei castelli di Monte S.Paolo, Monte Donnello e Fano, già passati sotto il controllo della città picena (GIRO-LAMI 1998e, pp. 188-191). La bassa valle del Tronto era tornata ad essere in toto terri-torio ascolano, ma il confine faticò a stabilirsi. Basti ricordare che nel 1279, come risul-ta da un atto stipulato presso il castello di Controguerra, in quel momento rivendicatodal barone angioino Amelio di Agoto Corbano, quello stesso castello e il vicino castel-lo di Colonnella detenevano il controllo di un’area che si estendeva oltre il fiumeTronto, ovviamente a svantaggio dei castelli “ascolani” che si affacciavano sul versantesinistro del fiume (GIROLAMI 1999). Dopo secoli di questioni giurisdizionali e di vicen-de militari, la linea di confine si stabilizzò sul corso del Tronto addentrandosi a sud gra-zie alle enclaves ascolane di Maltignano e di Ancarano, mentre i castelli di Controguerrae Colonnella, rimasti in varie fasi alterne sotto il controllo ascolano, saranno definitiva-mente perduti dalla città picena tra il sec. XV e il sec. XVI. Ancarano fu accorpata aiterritori del Regno delle due Sicilie nel 1852 (GIROLAMI 1998, p. 458).

Trovandosi in questo teatro di vicende territoriali soprattutto a partire dalla metà delDuecento, il monastero di S. Benedetto in Tronto può a ben diritto definirsi “monaste-ro di confine”, con i vantaggi strategici del caso ma anche con uno strascico di situa-zioni indefinite tale da lasciare un’istituzione del genere in uno stato di perduranteincertezza. Questa situazione determinò la decisione assunta da papa Innocenzo III il 24ottobre 1216 di porre sotto la protezione apostolica S. Benedetto in Tronto insieme adaltri monasteri abruzzesi, tutti vessati da continui assalti di bande armate di predoni,con le ruberie, le devastazioni e le molestie che ne conseguivano. Il monastero truenti-no, proprio per essere meglio controllato, finì per essere sottoposto all’abbazia di S.Liberatore alla Maiella (PICCIAFUOCO 1984, pp. 46-47).

Chiari riflessi di una gestione patrimoniale contrastata si avvertono poi nell’inven-tario dei beni del cenobio redatto nel 1254 (PICCIAFUOCO 1984, pp. 49-70), laddove siriservano agli eventuali usurpatori invettive di minuziosa ferocia. Fiant vie illorum tene-bre… « Il cammino della loro vita diventi tenebroso e l’angelo del Signore li percuota.Divengano ciechi e la loro schiena si incurvi, siano ritenuti peccatori e il diavolo sia sem-pre accanto a loro » (trad. di G. Pagnani, in PICCIAFUOCO 1984, pp. 69-70).

Un aggancio alla storia politica del territorio è dato infine dall’interesse per la chie-sa dimostrato dalla nobile famiglia dei Guiderocchi di Ascoli, evidentemente sensibiliall’ancor vivo valore strategico della fondazione, tale da poter rientrare in un disegno dicontrollo o comunque di “visibilità” certo non privo di correlazioni con il tentativocompiuto da quella famiglia di assumere la signoria della stessa Ascoli. Nel 1482, pochidecenni dopo la guerra del Tronto, è prevosto “per metà” di S. Benedetto don NelloGuiderocchi arcidiacono della Cattedrale di Ascoli, che si prodiga a raccogliere fondiper la ristrutturazione della chiesa (PICCIAFUOCO 1984, p. 74). Nel 1534 per l’altarmaggiore venne commissionata a Matteo Bonfini da Patrignone da Astoltus Guideroccus

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patronus Ecclesiae S(ancti) B(enedicti) et Mon(ti)s S(anc)ti Polus (sic) (così recitava un’i-scrizione dipinta) e dal canonico Sigismondo Migliani una perduta pala in tempera sutavola che raffigurava la Madonna in trono con il Bambino tra S. Mauro e S. Paolo,mostrando nel basamento gli stemmi delle due nobili famiglie Migliani e Guiderocchiai fianchi dello stemma di Monsampolo (l’attestazione risulta da un brano della rela-zione di una Visita pastorale del 1582, trascritto in PICCIAFUOCO 1984, p. 79). AstolfoGuiderocchi, morto nel 1552, è lo sfortunato protagonista del tentativo di affermazio-ne signorile in Ascoli. Il dipinto da lui commissionato, unito ai lavori di ristrutturazio-ne promossi alla fine del Quattrocento da don Nello, eleggeva chiaramente la chiesa diS. Benedetto a “cappella signorile” della nobile famiglia ascolana, ed è particolarmentesignificativo il ricorso a Matteo Bonfini, pittore sinora ignoto (da non confondere conil discendente Martino) di una nota famiglia a cui appartengono tra gli altri l’umanistaAntonio, l’omonimo maestro di scuola pubblica Matteo e l’intagliatore Desiderio, chenel 1619 realizza su commissione di Aurelia Guiderocchi, figlia di Astolfo, il taberna-colo della chiesa di S. Francesco di Ascoli, oggi conservato nella chiesa di S. PietroMartire (FABIANI 1957-59, II, pp. 257-258). Nel 1554 proprio Aurelia Guiderocchi,che l’anno dopo sarà presente ad Urbino presso la corte di Guidobaldo II Della Rovere,ha il giuspatronato della chiesa truentina (PICCIAFUOCO 1984, p. 76), e la famiglia risul-ta detenere la nomina del prevosto ancora nel 1743, quando il designato GaspareSerianni ritenne opportuno attribuirsi la carica di Abate (PALMA 1978-81, IV, p. 416).

1.4. Il percorso della via Salaria

Ancora oggi la collocazione della chiesa di S. Mauro, e dunque dell’antico monaste-ro di S. Benedetto in Tronto, si giustifica in rapporto alla più volte ricordata direttricepiceno-aprutina che valica il fiume e collega Monsampolo a Controguerra. L’importanzadi questo tracciato è evidente a partire dal toponimo che già nel 1018 designava lo scom-parso monastero di S. Benedetto ad trivium (PALMA 1978-81, IV, p. 427), altra dipen-denza di Montecassino, quasi un pendant di S. Benedetto in Tronto sul versante oppostodel fiume. Era situato nei pressi di Controguerra in corrispondenza di un incrocio impor-tante, un trivium. In quel punto, la strada “piceno-aprutina”, diretta verso Corropoli eTortoreto, era tagliata da un percorso che seguiva l’andamento del fiume su una linea dicrinale interna, in modo da congiungere le località di Rocca di Morro (presso Marino delTronto), S. Egidio alla Vibrata, Ancarano, Controguerra per poi proseguire verso l’ulti-mo tratto della Vibrata. Prima ancora di raggiungere il trivium, dalla direttrice piceno-aprutina si staccava verso Colonnella un percorso di crinale che seguiva il Tronto per con-cludersi in corrispondenza dell’attuale Martinsicuro, alla destra del fiume, laddove la TorSegura sorge sul luogo della scomparsa città di Castrum Truentinum.

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Al trivium di Controguerra e all’incrocio con la strada per Martinsicuro fa rimandol’incrocio che sul versante opposto del fiume la strada diretta a Monsampolo formavacon l’attuale Salaria inferiore. Quest’ultima, seguendo l’andamento del Tronto, nelMedioevo rispondeva alla duplice funzione di collegamento sia al servizio di Ascoli - ilche si evidenziò soprattutto con la nascita del porto sulla costa adriatica -, sia al serviziodegli abitati di altura che si affacciavano sulla valle, in corrispondenza degli attualiCastel di Lama, Colli del Tronto, Spinetoli, Monsampolo del Tronto, Monteprandone.

Due rami viari che correvano fino alla costa sui due versanti della bassa valle delTronto ripercorrevano (e ripercorrono nella forma attuale) due direttrici ipotizzabili concertezza sin dall’età preromana. Grazie ai rinvenimenti archeologici compiuti proprionelle fasce territoriali interessate, è possibile infatti asserire che sul versante sinistro dellabassa valle - dove si sviluppa ora la Salaria inferiore - almeno sin dall’età del bronzorecente, e dunque fin dalle ultime fasi della preistoria, fosse presente un sistema di vil-laggi le cui testimonianze finora individuate si distribuiscono in chiaro rapporto allevicende insediative delle epoche seguenti. I reperti più antichi individuati, infatti, sisituano pienamente in una cultura di tipo “subappenninico”, e si distribuiscono su unalinea segnata da Cartofaro, Castel di Lama, Colli del Tronto, Monsampolo del Tronto(cfr. LUCENTINI 2000, pp. 302-303; tav. I). I reperti micenei di Castel di Lama e diMonsampolo del Tronto (contrada Treazzano) arricchiscono ulteriormente il quadrosuggerendo la presenza di antichissime consuetudini commerciali in chiaro rapporto allacosta adriatica. L’ipotizzabile tracciato che interessava i villaggi del versante sinistro delTronto avrebbe dunque potuto svolgere già nell’ultima fase preistorica un ruolo di sup-porto per i collegamenti tra l’insediamento di Ascoli e la costa adriatica. Le testimo-nianze archeologiche delle fasi storiche successive, a partire dall’età del ferro, conferma-no puntualmente l’importanza di questa fascia territoriale fino all’età romana, epoca incui fu interessata dalla centuriazione agraria e da una schiera di considerevoli insedia-menti colonici. Beninteso sulla linea di crinale interna, si riscontra un’analoga situazio-ne sul versante destro del fiume, ma i reperti archeologici non permettono di risalireoltre l’età del ferro (cfr. LUCENTINI 2000, pp. 303-304; tav. I), e la vicenda insediativadell’età romana, almeno a giudicare dalle indicazioni disponibili, non ha lo spicco e l’en-tità di quella ravvisabile sul versante opposto.

Riguardo al percorso della strada consolare Salaria, che nell’ultimo tratto congiun-geva Asculum a Castrum Truentinum, si pongono all’attenzione varie ipotesi. La rico-struzione che si è imposta all’attenzione di recente, sull’onda delle indagini archeologi-che che hanno permesso di individuare, tra il 1991 e il 1995, l’ubicazione di CastrumTruentinum presso l’odierna Martinsicuro, sulla destra del Tronto, riconosce nel traccia-to di crinale interno e mezza costa Marino del Tronto - Rocca di Morro - S. Egidio allaVibrata - Ancarano - Controguerra - Colonnella - Martinsicuro (GALIÉ 1986) o nel trac-ciato di fondovalle e di mezza costa Marino del Tronto - Controguerra - Colonnella -

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Martinsicuro l’ultimo tratto della strada romana (STAFFA 2000, pp. 425-429). L’ipotesialternativa riconosce in sostanza che l’attuale tracciato della statale Salaria Ascoli - Portod’Ascoli coincida in larga parte con il percorso della via consolare (CONTA 1982, pp.400-417).

Se l’ipotesi di un tracciato interamente condotto sul versante destro della vallata hail pregio di una soluzione perfettamente in linea con alcuni punti acquisiti (essenzial-mente l’uscita della Salaria in Ascoli dal Ponte di Cecco e la collocazione di CastrumTruentinum), pure lascia spazio a molte perplessità, e non è soprattutto supportata daelementi sostanziali. Se infatti è fuori di dubbio che già in età romana e ancor prima nel-l’età del ferro si sviluppasse un tracciato continuo sulla linea di crinale interna, tale per-corso non privilegiava situazioni insediative di spicco e di lungo periodo come quelleampiamente documentate sul versante sinistro della valle, per giunta affacciate diretta-mente sulla linea del fiume e dunque in perfetta coerenza con l’ubicazione della città diAscoli. Ancor meno significativo seppure più coerente il percorso di fondovalle, docu-mentabile solo dall’età romana, e punteggiato da situazioni insediative isolate prive diforte rilievo. D’altro canto la ricostruzione in base a cui la via Salaria usciva da Ascolicon l’ausilio del Ponte di Cecco e proseguiva sul versante destro del Tronto almeno finoltre Marino del Tronto, per quanto ampiamente riproposta, lascia spazio anch’essa amolti dubbi. I ponti tuttora conservati sul fosso Gran Caso e sul fosso della Scodellanonché il miliario rinvenuto a Marino del Tronto, rendono edotti dell’esistenza di unastrada romana che collegavaAscoli a Rocca di Morro, lad-dove si innestava il percorsodi crinale per S. Egidio allaVibrata nonché la direttriceper Interamnia Praetuttiorum(l’odierna Teramo) oggi rie-cheggiata dalla statale pice-no-aprutina, ma nessun ele-mento oggettivo ci induce aconsiderare tale tratto distrada come inerente al ramoprincipale della via consolareSalaria. Si può proporre unasoluzione maggiormente inlinea con molteplici evidenzerinunciando allo schemaaprioristico in base al qualela Salaria stessa, percorrendo 7

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all’interno di Ascoli, doveva necessariamente coincidere con l’intero percorso del decu-manus maximus, corrispondente all’odierno Corso Mazzini, così da dover necessaria-mente uscire dalla città per mezzo del Ponte di Cecco, sul torrente Castellano. La Salariainfatti, orientandosi all’altezza dell’attuale Piazza S. Agostino sul cardo corrispondente avia delle Torri, poteva tranquillamente valicare il Tronto con l’ausilio del ponte augusteodi Porta Solestà (fig. 8), struttura di evidente impegno costruttivo di ben più forte risal-to tecnico, estetico e dimensionale rispetto al Ponte di Cecco (cfr. CAPPELLI 2003, pp.79-82). Orientandosi sul versante sinistro del fiume poteva attraversare il nucleo piùimportante della necropoli, situato nella piana di Campo Parignano, e in localitàVallecupa, presso l’odierno Stadio comunale, poteva valicare il fosso Pittima con l’ausi-lio del ponte presentato nel 1997 (fig. 9), ignorato fino ad allora dalla critica nonostanteil suo cospicuo valore testimoniale (CAPPELLI 1994; DELPLACE 2000). Trattasi infatti diuna struttura realizzata con particolare accuratezza, in perfetta linea con i requisiticostruttivi e dimensionali del ponte romano sul rio Garrafo, inerente al tratto superio-re della strada consolare. A tale grado di definizione si adeguano solo in parte i citatiponti sul fosso Gran Caso e sul fosso della Scodella, sul versante opposto del Tronto, adevidenza pertinenti ad una strada secondaria. D’altro canto il miliario di Marino delTronto ha una qualità di lavorazione e di definizione epigrafica assolutamente non para-gonabile al miliario di Trisungo di Arquata (fig. 7), sicuramente relativo alla strada con-solare Salaria. Le stesse rispettive indicazioni cronologiche lasciano spazio a qualche per-plessità, qualora si continui a credere che le due testimonianze appartengano entrambeal ramo principale della Salaria. Lo scarto di quattro anni tra il miliario di Trisungo (a99 miglia da Roma) e quello di Marino (a 123 miglia da Roma) è difficilmente moti-

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vabile nell’ambito di una medesima campagna edilizia, in considerazione della tempi-stica degli interventi stradali in età augustea, specie se rapportata alla mancanza di opered’arte particolarmente impegnative nel tratto intermedio. A ciò si aggiunga che il milia-rio di Scandriglia, nel Reatino, a 31 miglia da Roma, ha la stessa indicazione cronolo-gica del miliario di Trisungo (16-15 a. C.). Se, dunque, il miliario di Marino (12-11 a.C.) fosse appartenuto alla medesima strada, se ne dovrebbe arguire che mentre 68 migliadi tracciato potevano rientrare in un lotto unico di lavori, occorrevano quattro anni perallestire un tratto di 24 miglia al massimo.

Oltre il fosso Pittima mancano indizi di una strada romana su tutto il versante sini-stro della bassa valle del Tronto - anche se va sottolineata la testimonianza del Girolamicirca un cospicuo tratto di basolato venuto alla luce in territorio di Monsampolo alcu-ni decenni fa -, ma il versante destro ha restituito solo un tratto di strada glareata, inlocalità Masseria Montori (STAFFA 2000, p. 426). Sul versante sinistro sono presentiinvece due toponimi medievali chiaramente originati da pietre miliari romane, con ilriferimento alla città di Ascoli nella sua qualità di statio di spicco del percorso: trattasidi “Sexto” (a sei miglia da Ascoli), corrispondente all’odierno Castel di Lama, e del giàcitato “Octavo” (a otto miglia da Ascoli), corrispondente all’odierno Colli del Tronto. Idue toponimi, già attestati rispettivamente nel 1150 e nel 1045, fanno pendant conquello tuttora in uso di Quintodecimo, sul tratto superiore della Salaria, originaria-mente a quindici miglia dalla città, e devono essere necessariamente contestualizzati suun tracciato di lunga percorrenza (non solo cioè di uso locale) direttamente collegato adAsculum (cfr. CONTA 1982, p. 408). Come se ciò non bastasse, numerosi documentiattestano la continuità della qualifica di Salaria in relazione al percorso che presenta tut-tora questa intitolazione. Si parla della via Salaria nel contesto di una descrizione di benisituati ultra flumen Trunti (oltre il fiume Tronto e precisamente sul versante sinistro,dato il punto di vista “aprutino”) nel già citato atto del 1279 steso presso Controguerra(GIROLAMI 1999, p. 10). Nell’inventario dei beni del monastero di S. Benedetto inTronto, redatto nel 1254, due terreni, uno dei quali ubicabile presso Monterone, tra gliattuali Monsampolo e Monteprandone, risultano supra Salariam; analogamente, unulteriore terreno situato in Trunto si trova super Salara (PICCIAFUOCO 1984, pp. 55, 66).A queste testimonianze del sec. XIII si aggiungono quelle dei secoli seguenti, che trova-no un simbolico culmine nel Ponte di Ss. Filippo e Giacomo, ardimentoso viadotto get-tato sul Tronto alle porte di Ascoli nel 1478 in funzione del trasferimento della Salariasull’asse del Ponte Maggiore, realizzato nel 1373. Il nuovo, lungo ponte, tuttora in uso,consentiva alla “variante” di imboccare il versante sinistro del fiume non appena attra-versata la piana attualmente occupata dal Quartiere Luciani, e conferma nella sua stes-sa evidenza l’importanza strategica dei collegamenti su quel settore del territorio.

L’unico “ostacolo” alla ricostruzione così presentata è in sostanza costituito dalla pre-senza di Castrum Truentinum sul versante destro del fiume, ma il problema è presto

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risolto grazie alle considerazioni fatte all’inizio. La strada di collegamento tra Monsam-polo e Controguerra che valica il Tronto in località Pontellara, costeggiando l’area in cuisi colloca la chiesa di S. Mauro, proprio per la presenza del monastero si candida cometracciato viario di antica percorrenza e di evidente valore strategico, tale da poter essereproposto come tratto grosso modo coincidente con un troncone della strada consolare.Prima di raggiungere il trivium di Controguerra sul versante destro del fiume, la diret-trice poteva orientarsi sul corso stesso del Tronto in direzione di Castrum Truentinum, a139 miglia da Roma. Trova così spiegazione il documento del 1095 in cui si attesta una“via Salaria” che delimita un terreno a ponente in rapporto al castello di Corata nel ter-ritorio di Controguerra (GALIÉ 1996, p. 48). Nell’atto si specifica che la strada vadit inTronto et pergit in Tortoreto et vadit in mare, il che configura perfettamente l’asse piceno-aprutino Monsampolo - Controguerra: un ramo va verso il Tronto cioè in direzione diMonsampolo, un ramo prosegue in territorio aprutino in direzione di Tortoreto per rag-giungere poi il mare. La qualifica di “Salaria” così conferita al ramo di percorrenza inter-no verso Tortoreto non deve meravigliare, visto che il nome si estendeva già in età roma-na al vasto sistema viario che faceva capo alla direttrice principale Roma - Asculum -Castrum Truentinum.

L’asse Tortoreto - Controguerra - Monsampolo così attestato poteva giocare unruolo ragguardevole nel Medioevo poiché seguiva l’andamento del litorale su una lineainterna intensamente abitata, mentre la costa, punteggiata da insediamenti isolati, non

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doveva offrire collegamenti di spicco. Non è quindi da meravigliarsi se proprio questotracciato indica il percorso seguito da taluni imperatori nel corso dei viaggi compiutidalle loro corti itineranti nel territorio della penisola. Se la direttrice piceno-aprutinaAscoli - Teramo guidò nel 986 Ottone III, quando sottoscrisse un placito nella localitàPiancarani presso Campli (PALMA 1978-81, I, p. 165), e nel 1193 il legato di Enrico VIBertoldo di Kunigsberg, che sempre presso Campli confermò al vescovo Rinaldo ilmonastero di Montesanto, proprio la direttrice “truentina” fu preferita nel 1047 daEnrico III, proveniente da S. Flaviano (l’odierna Giulianova), in seguito presente pres-so Civitanova al santuario di S. Marone per un placito avente come parti in causa ilvescovo di Ascoli Bernardo II e la feudataria Albasia (FRANCHI 1995, pp. 68-72), e sem-pre questo tracciato guidò nel 1136 la discesa di Lotario verso le terre del Regno, comeabbiamo già visto.

1.5. Il luogo del martirio di san Marone

Il tema della viabilità antica nella bassa valle del Tronto si intreccia con la memoriadell’evangelizzatore piceno san Marone.

Le prime menzioni del Santo sono presenti nel Martirologium Hyeronimianum enegli Acta Nerei et Achillei, opere rispettivamente ascrivibili al sec. V e al sec. VI. Standoad una più tarda compilazione, la Passio sanctorum Eutychetis, Victorini et Maronis, rea-lizzata in ambito farfense tra il sec. VIII e il sec. IX, Marone era un prete mandato alavorare come schiavo insieme ai martiri Vittorino ed Eutiche dal ricco Aureliano, sottol’imperatore Nerva (96-98). Come già attestano le fonti più antiche, il suo martirioavvenne al CXXX miglio della via Salaria, vale a dire nove miglia prima di CastrumTruentinum. Costretto a reggere sulle spalle un enorme macigno che a malapena settantauomini potevano muovere, san Marone fece due miglia di strada carico dell’immane far-dello senza battere ciglio. Al termine del cammino, depositata la pietra, san Maronevenne trucidato per ordine di Aureliano, e lo stesso macigno che aveva condotto sin lìfu collocato sulla sua sepoltura. Il Martirologium specifica che il luogo del martirio edella sepoltura è ubicato in Aureo monte. La passio farfense attesta inoltre che venne edi-ficata una chiesa in suo onore presso la tomba, nella quale il Signore dispensava i suoibenefici, ancora esistente all’epoca di redazione del testo (usque in hodiernum diem).

I monaci farfensi contribuirono fortemente alla propagazione della memoria delMartire, ma non è dato riscontrare chiaramente la modalità di diffusione di un cultoche si riscontra in situazioni ben distinte tra Marche, Abruzzo e Umbria. Peraltro siriscontrano sovrapposizioni del san Marone martire con il san Mauro abate (510/12-584). Si veda ad esempio il caso di Volperino di Foligno, dove il culto di un san Mauroè attestato già nel 1138, e risulta festeggiato nel dies natalis ossia nella ricorrenza del

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martirio del san Marone della basilica ad corpus di Civitanova Marche, ossia il 18 ago-sto. A complicare le cose, questa ricorrenza non coincide con il 15 aprile del san Maronemartire della Salaria (SENSI 1998, pp. 24-25). Non si esclude al riguardo che vi sianodue personaggi distinti all’origine dei rispettivi culti, anche in considerazione della qua-lifica martiriale del santuario di Civitanova, che non si concilia con le indicazioni topo-grafiche fornite dalla tradizione riguardo al martirio del san Marone in Aureo monte. Innessun modo, infatti, il santuario di Civitanova può risultare collocato a 130 miglia daRoma sulla via Salaria.

Una situazione interessante forse assimilabile a questa casistica è data proprio dallachiesa di S. Mauro, dove la titolazione attuale sostituisce quella antica originale di S.Benedetto, a seguito di un periodo intermedio in cui i due nomi risultarono associatinel titolo di Ss. Benedetto e Mauro. Nel 1534, come si è evidenziato, S. Mauro abatecompare insieme a S. Paolo a fianco della Madonna nella pala dell’altar maggiore.Mentre la presenza di S. Paolo era giustificata dal nome antico del castello di Monsam-polo su cui il committente della pala Astolfo Guiderocchi deteneva il controllo, S.Mauro prende il posto che doveva essere assegnato all’antico dedicatario S. Benedettosenza alcuna chiara motivazione. La condedicazione a S. Mauro della chiesa risulta atte-stata per la prima volta pochi anni dopo (è un caso?), in un atto notarile del 1540(GIROLAMI 1996, p. VIII), a cui fa seguito un atto del 1554 relativo al giuspatronato deiGuiderocchi (FABIANI 1957-59, II, p. 51, n. 57), tanto da accentuare il sospetto che ilculto di san Mauro abate sia stato introdotto (o potenziato) proprio grazie al loro inte-ressamento. Alla fine del Cinquecento la contrada di S. Benedetto in cui il monasteroera ubicato iniziò a chiamarsi di S. Mauro (GIROLAMI 1996, p. VIII): il Santo di Norciaviene “spodestato” esattamente come era avvenuto nella pala dell’altar maggiore! Inmodo analogo un affluente del Tronto del territorio di Monsampolo è tuttora denomi-nato fosso S. Mauro, ma nel Seicento è documentato come fosso Icona, e nei secoli pre-cedenti risulta come fosso di Fonte Grande (GIROLAMI 2003, p. 16).

A giudicare da questi elementi il titolo di san Mauro appare tardivamente nella sto-ria del monastero di S. Benedetto così come nella storia del territorio circostante, e nonsi ha alcun elemento definito che giustifichi questa presenza. Al tempo stesso, la collo-cazione del monastero nei pressi del luogo del martirio di san Marone, suscita il sospet-to che vi sia una correlazione, o meglio, una sovrapposizione tra la memoria del marti-re piceno e il culto del san Mauro abate. Il sepolcro in Aureo monte può essere infattiubicato nei pressi della località Montorio, sul versante destro della bassa valle del Tronto,tra Colonnella e Controguerra (GALIÉ, 1984, p. 10, n. 6), perfettamente in linea con laricostruzione del percorso della strada consolare. Ed è un fatto che la festa agostana disan Mauro, contrapposta all’effettiva ricorrenza del san Mauro abate, vale a dire il 15gennaio, costituisca tuttora un elemento di richiamo per la piccola chiesa, il che si riflet-teva in modo ancora più forte nel passato. Basti pensare che nell’occasione, fino

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all’Ottocento, vi era l’uso di allestire sul fiume ponti di barche che consentivano l’af-flusso di numerosi pellegrini provenienti dalle terre d’Abruzzo.

Non risultano né risultavano presenti reliquie di un qualsivoglia san Mauro, né risul-ta una cappella a lui dedicata, né su tutto il settore piceno-aprutino esiste traccia di unachiesa dedicata a san Mauro o san Marone la cui titolatura poteva essere stata assorbitanel Cinquecento dalla chiesa di S. Benedetto in Tronto, come pure sarebbe lecito ipo-tizzare (cfr. PICCIAFUOCO 1984, p. 81). D’altro canto, la chiesa martiriale attestata dallapassio farfense del sec. VIII-IX non solo è scomparsa, ma non ha lasciato traccia docu-mentaria alcuna. Un indizio può essere dato dal Chronicon farfense laddove si annoveratra i beni perduti dall’abbazia nel periodo 897-930 a seguito delle incursioni saracene… medietatem curtis de Castello, quae fuit mille modiorum … inter fluvium Truntum, etprata prope mare, et prope Castellum Montis Aurei (PALMA 1978-81, IV, p. 433). La coin-cidenza tra questo toponimo e l’ubicazione in Aureo monte non necessita commenti, eil riferimento all’invasione saracena potrebbe addirittura motivare la scomparsa dell’an-tico santuario. Resterebbe a questo punto da chiarire quale nesso possa esserci stato traquesta ipotizzabile distruzione e l’esistenza nel sec. XI di un santuario di San Maronepresso Civitanova, posto sotto l’egida del vescovo di Fermo. Il mistero rimane.

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2.1. Le origini

l Marcucci, che poté avvalersi di una compilazione basata sulla Storia dellaChiesa ascolana scritta dal vescovo Trasmondo nell’ottavo decennio del sec.XII, fa risalire il monastero alla seconda metà del VIII secolo (MARCUCCI

1766, p. CCVIII). S. Benedetto in Tronto rientrerebbe in un gruppo di cenobi fondatiall’epoca del vescovo ascolano Auderis (745-780), noto come Auclere o Euclere, ricor-dato nel Regestum Farfense tra i sottoscriventi di una sentenza del 776 [Regestum 1879-1914, II (1879), p. 89, nr. 97]. Contrariamente a tutti coloro che hanno attinto a que-sta informazione, risulta chiaro che la fondazione sarebbe avvenuta all’epoca di Auderis,ma non su suo diretto interessamento, almeno non necessariamente. È importante sot-tolinearlo perché l’informazione risulterebbe altrimenti problematica o inverosimile.Sarebbe strano infatti che di tutti quei monasteri - se tutti di fondazione vescovile - soloalcuni risulteranno sotto quella giurisdizione: S. Benedetto in Tronto, come visto, nel989 risulta già sotto l’egida di Montecassino; S. Angelo Magno di Ascoli, il celebremonastero sul declivio dell’Annunziata, pur godendo di autonomia amministrativa saràeffettivamente confermato al vescovo di Ascoli in un perduto diploma di Ottone III

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(996?: FRANCHI 1995, pp. 38, 49); S. Maria in Solestà di Ascoli, nell’area foranea diBorgo Solestà, dove ora sorge il convento di S. Serafino, risulta sotto la giurisdizione diFarfa già nell’anno 898 (Chronicon 1903, I, p. 233, 4); S. Pietro in Castello di Ascoli,ove sorge tuttora la chiesa omonima, risulterà nel sec. XII in forma di collegiata sotto lagiurisdizione dell’episcopato ascolano; S. Lorenzo in Carpineto, sulle falde del Colle S.Marco, a sud della città, apparterrà nel sec. XIII alla congregazione di S. Angelo inVoltorino.

All’origine di queste fondazioni - tre delle quali sicuramente già esistenti nell’altoMedioevo - si può ipotizzare l’interessamento di un’aristocrazia di ceppo longobardofortemente radicata nel territorio e sempre più incline a compiere donazioni nei riguar-di degli enti religiosi, come pure incline a istituire e a dotare nuovi insediamenti mona-stici, sia per fini devozionali, sia per avviare membri dei propri clan alla vita e alla car-riera ecclesiastica. Auderis stesso era di origine longobarda e di ceppo longobardo si rive-lano le badesse che reggevano il monastero ascolano di S. Angelo Magno. Indiscutibil-mente germanico è il già incontrato Hermefrid, che nel 888 lasciava tutti i suoi beni evestiva l’abito monastico a S. Salvatore ad caput Aquis.

D’altronde, già nell’aprile 782 il duca di Spoleto Ildebrando donò all’abate diMontecassino Teodemaro olivas in Trunto, in loco qui dicitur tritalias… (PALMA 1978-81, I, p. 175). Possedimenti cassinesi in area fermana sono attestati nel 798 (PICCIA-FUOCO 1984, pp. 33-34; GALIÉ 1986, p. 40), nel 867, nel 964 (PALMA 1978-81, IV, pp.349-350). Di particolare interesse è il documento del 798, che testimonia la concessio-ne da parte di Carlo Magno di un beneficio situato presso S. Benedetto in Turri, loca-lità identificabile con la Torre al Tronto poi Tor Segura alla foce del fiume, nel territo-rio dell’odierna Martinsicuro. L’esistenza di questa fondazione nella bassa valle delTronto allo scorcio del sec. VIII, meno di un ventennio dopo la morte del vescovo asco-lano Auderis, può essere significativa. È forse questo il monastero ricordato nella crona-ca medievale di Trasmondo? La sua assenza dalla documentazione successiva potrebbeimplicare un abbandono o un trasferimento, magari legato alle devastazioni saraceneche colpirono la bassa valle del Tronto alla fine del sec. IX. La “comparsa” nel 989 delnostro monastero di S. Benedetto in Trunto, già dotato di un patrimonio e già sottopo-sto alla giurisdizione cassinese, non sembra casuale in rapporto all’ipotesi di un trasferi-mento dell’antica fondazione in un luogo più sicuro. Non va d’altra parte escluso che ilmonastero in Trunto avesse potuto formarsi in modo autonomo, per essere ceduto aMontecassino solo in un secondo momento della sua storia. Traccia di interessi feudalipregressi è d’altra parte attestata nella donazione di parte del monastero stesso che alcu-ni anni dopo, nel 1032 o nel 1033, Gisone di Alberto fece a favore del vescovo di FermoUberto. D’altro canto, un’origine del monastero anteriore al sec. X appare cronologica-mente sostenibile grazie all’apporto di prove architettoniche desunte dall’esame dellachiesa di S. Mauro, che mantiene quanto ci è rimasto dell’antica istituzione. Quand’an-

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che si circoscrivesse al sec. X la fase architettonica altomedievale, occorrerebbe comun-que ammettere che la fondazione doveva preesistere di qualche anno se non di qualchedecennio rispetto alla realizzazione della chiesa.

2.2. Analisi della chiesa

S. Mauro è una chiesa orientata, completamente costruita in laterizio tranne le voltedella cripta, in conglomerato cementizio a vista, le pareti della cripta e il lato terminaledell’abside, in paramento misto a conci, pietrame e mattoni. Compresa la sporgenzadell’abside, è lunga m. 20,88 e larga m 8,26 (fig. 10). La facciata che l’edificio presen-ta attualmente non fa testo perché è un rifacimento arbitrario, come si è detto in pre-messa. I contrafforti che l’affiancano sono in linea con la facciata primitiva, già apertada un semplice oculo e da un portale riquadrato da un presunto pseudoprotiro in mura-tura. I fianchi sono privi di particolarità decorative e costruttive, eccettuate le due ampiemonofore a pieno centro che si aprono sul fianco destro. All’interno si presenta con unasala a navata unica conclusa da un’abside a pianta rettangolare. L’alto presbiterio si elevasu una cripta alla quale si accede da un’imboccatura centrale a scivolo. Il soffitto è carat-terizzato da volte a crociera a pieno centro che si impostano ai lati su sei pilastri addos-sati alle pareti perimetrali. L’ingegnosa opera di voltaggio, realizzata da maestranze lom-barde, è frutto di una ristrutturazione avvenuta alla fine del sec. XV, come è attestato daun documento del 1482, laddove si dispose di fabricare, murare, reparare et cooperireunam navim [l’unica navata] della chiesa (cfr. FABIANI 1950-51, II, p. 30). Nell’assettoprecedente l’aula era senz’altro coperta da capriate a vista, tant’è che la nuova imposta-zione necessitò il contraffortamento delle pareti, e alla fase precedente possono ancheessere riferite le ampie monofore di gusto tardoromanico del fianco destro. In mancan-za di dati maggiormente circoscritti, l’edificio può essere orientativamente attribuito alsec. XIII, vale a dire all’ultima fase di vita dell’insediamento monastico.

Il cenobio si articolava a destra della chiesa, verso il fiume (che beninteso scorrevapiù a sud rispetto all’invaso attuale), ma non ne rimane più alcuna traccia, essendoscomparsi i pochi tratti di muro superstite osservati dal Palma alla metà dell’Ottocento(1978-81, IV, p. 415). La dislocazione delle monofore del fianco destro nell’ultimo trat-to della parete è senz’altro in rapporto alla presenza del cenobio. La parte iniziale dellaparete doveva infatti presentare un collegamento con il fronte dell’edificio monastico,mentre le monofore prospettavano sullo spazio claustrale. La loro assenza sul fiancoopposto è forse motivabile per esigenze difensive.

La cripta e la parete terminale dell’abside costituiscono le testimonianze vive dell’ordina-mento costruttivo originale.

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tav. 5

tavv. 3, 4

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3. LE COMPONENTI ALTOMEDIEVALI

3.1. La cripta

un ambiente che suscita un senso di meraviglia e di estraniamento grazie alvigore quasi primitivo delle sue linee irregolari. Per effetto della notevolesopraelevazio-

ne del presbiterio sembraun sotterraneo propria-mente detto, ma il suopavimento si trova inrealtà poco al di sotto delpiano di campagna attua-le, situato ad un livelloovviamente superiore ri-spetto al piano antico.Anche a giudicare dallaferitoia superstite, in ori-gine i due livelli - internoed esterno - dovevanogrosso modo coincidere.

La pianta del locale,coperto da quattro volte acrociera, è a forma di capo-croce (non a croce greca,come talvolta si asserisce):intorno ad un quadratocentrale si attestano i qua-drati delle ali laterali e del-l’abside. L’ambiente prin-cipale, corrispondente alsettore centrale e alle alidella struttura, è copertoda tre volte a crociera.Oltrepassa le pareti peri-metrali della chiesa sopra-stante avendo una lun-ghezza di m. 9, ed è largo

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m. 3. Da ciò si desume chiaramente la modularità dell’impianto, costituito da tre quadra-ti aventi m. 3 di lato. Differiscono leggermente le proporzioni del vano dell’abside, chemisura m. 2,88 in profondità e m. 2,83 in larghezza (fig. 10).

L’evidente patina di antichità “catacombale”, assicurando fascino e prestigio alla fon-dazione, ha forse garantito alla cripta la sua preservazione, anche a fronte dei restauriintrapresi nella chiesa alla fine del sec. XV. Le modifiche all’assetto originario della strut-tura sono di fatto incredibilmente limitate. Si riducono all’apertura del vano centrale dicollegamento al nuovo assetto della chiesa, presumibilmente realizzato nel sec. XIII, ealla finestra inferriata aperta nel sec. XIX o nel secolo scorso sulla parete terminale del-l’abside. Gli ingressi delle scalinate originali di collegamento alla chiesa consistono indue archi a pieno centro operati sulle ali laterali. Sono alti m. 1,50 circa e aprono deivani ampi solo m 0,60. Sono stati liberati nel 1990 dalla tamponatura che li avevaocclusi, probabilmente all’epoca dell’apertura dell’ingresso centrale.

Il settore centrale e quello absidale sono stati pavimentati a laterizio nel secolo scor-so mentre le ali laterali presentano un fondo di terra battuta conforme alla situazioneoriginale, seppure ad un livello più alto. Le mura perimetrali presentano un paramentodi conci appena sbozzati di pietra calcarea, ciottoli e mattoni grossolani, questi ultimisoprattutto concentrati sugli elementi di sostegno. Le volte, in larghi tratti palesementedeformi, consistono in un agglomerato cementizio di ciottoli di fiume, laterizi, scagliee conci di pietra. Tra i diversi elementi affogati nella malta si nota materiale fittile dirisulta presumibilmente ricavato da rovine di edifici antichi, quali dovevano essere pre-senti nelle vicinanze stesse dell’edificio, vista tuttoggi la presenza di analoghi elementisporadici nello spiazzo antistante alla chiesa.

Impostate agli angoli estremi su esili costoloni a sezione rettangolare, le volte con-centrano la loro massa su due bassi ma poderosi pilastri di forma rettangolare posti ailati dell’abside. Ad essi corrispondono due paraste sulla parete d’ambito. Una feritoiaaperta ad ampio strombo sull’ala sinistra è l’unica luce originaria rimasta.

Nulla rimane (e nulla sappiamo dell’esatta ubicazione) dei « rozzi » affreschi ricor-dati dal Luzi (1877, p. 30). Le ali laterali e l’abside sono corredate da altari, il che sug-gerisce ovviamente una possibile corrispondenza tra dipinti e pratiche cultuali. L’altaredell’ala destra è restaurato. L’altare dell’ala sinistra, prospiciente la feritoia, costituito daun apparato di conci destinato a sostenere la mensa perduta, è originale. L’altare del-l’abside, quasi addossato al muro di fondo, è realizzato con la stessa modalità costrutti-va e conserva ancora la mensa monolitica originale.

Su tale mensa si può notare un concio erratico di pietra calcarea curiosamente tra-sformato dalla devozione popolare in un oggetto sacro. Reca scolpita una decorazioneframmentaria in forma di treccia o di nastro vimineo, tipologicamente definita a kor-bodden (in tedesco, “fondo di cesto”), destinata ad un arredo presbiteriale o ad un pie-dritto di monofora. In merito alla seconda ipotesi va osservato che la finestra absidale

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superstite della chiesa altomedievale - ovviamente la luce più importante dell’edificio -presenta all’esterno una riquadratura non originale che fa corpo con un risarcimentomurario coevo alla finestra postuma della cripta, tanto da far pensare che il concio erra-tico (se lì era posizionato) poté essere dislocato dall’inquadratura esterna della monofo-ra nell’occasione in cui fu compiuto il “restauro” della parete.

La decorazione è formata da due nastri bisolcati nel mezzo della fascia che si intrec-ciano descrivendo ampie pieghe curvate, con soluzione ad angolo sull’estremo, in mododa disegnare un ordito diagonale che si sviluppava entro un campo rettangolare.

Ancor più degna di nota, nell’ala laterale destra, quasi a livello di calpestio, un’ana-loga decorazione lapidea. Appartiene alla stessa tipologia dell’elemento erratico avendoun nastro a due solchi, ma si distingue per la forma arrotondata degli snodi, il che sug-gerisce che doveva essere destinato ad una componente o ad un arredo distinto dellachiesa. La decorazione è tuttavia solo abbozzata. Il maestro ha infatti appena incisoun’ansa dell’ordito, senza com-pletare il suo svolgimento nellaparte sottostante e senza defi-nire né la parte di attacco (pre-sumibilmente a destra) né laparte di prosecuzione, dalmomento che la treccia si con-clude con un’evidente promi-nenza della superficie chedoveva essere ovviamente rasa-ta per proseguire l’opera. Sitratta perciò di un eccezionaleesempio di pietra semilavoratain sede di cantiere, successiva-mente scartata e allogata almateriale di costruzione per unerrore di calcolo o d’imposta-zione, visto l’andamento leg-germente sghembo della trec-cia, o per un pentimento incorso d’opera, potendosi ipo-tizzare che si volesse d’un trat-to adottare una nuova impo-stazione decorativa o si volesse-ro cambiare le caratteristichedimensionali della componen-

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te cui l’opera era destinata, oppure che si volesse rinunciare al completamento o alla rea-lizzazione in toto dell’opera stessa. Naturalmente, non sapremo mai quale fu la ragione.

Va infine osservato che l’arredo cui era pertinente il concio di scarto, dovette esserequantomeno progettato antecedentemente ai lavori di costruzione della cripta, dalmomento che l’elemento venne utilizzato nella fascia basale di una parete di quest’ulti-ma, e dunque nella fase iniziale della costruzione del suo elevato. In tale fase il capocrocedella chiesa corrispondente alla cripta ovviamente non era ancora esistente, e dunque illavoro deve necessariamente riferirsi ad un’altra area della chiesa che in quel momentopoteva essere agibile, presentando strutture di elevato che potessero ospitare decorazio-ni di tal fatta. Ne deriva che con buona probabilità gli scultori erano all’opera sul pie-dicroce dell’edificio, magari in prossimità degli ingressi alla cripta in corso di costruzio-ne, laddove si poteva sviluppare un recinto presbiteriale.

3.2. La decorazione a nastro vimineo

Il nastro vimineo trova applicazione in tutta l’Europa carolingia, tra la fine del sec.VIII e la prima metà del sec. IX, grazie ad una ramificata diffusione di modelli che per-misero la riproposizione fedele dello stesso schema anche entro realtà apparentementelontanissime. Si tratta di una forma facilmente adattabile ad un’ampia gamma di esi-genze tipologiche e ornamentali. Gode di una fortuna di lunghissimo corso, rientrandotra le espressioni simboliche di tipo aniconico (senza cioè alcun elemento figurato) atte-state in modo pressoché ininterrotto, pur nelle inevitabili varianti di applicazione e diinterpretazione, nell’intero bacino mediterraneo-orientale sin dagli stessi Egizi, cheadottarono i filamenti ondulati per rappresentare il mare o il corso d’acqua. La trecciacarolingia è debitrice del repertorio ornamentale bizantino, e si riallaccia alla simbolo-gia della croce di Cristo come fonte di resurrezione: rappresenta il racemo (o il corsod’acqua) che si sviluppa prodigiosamente dal sangue del Figlio, e compone dunque unavisione del mondo eterno.

In ambito italico le prime applicazioni del tema si incontrano a Roma, da dove pote-rono facilmente irraggiarsi su tutti i territori contermini, grazie a quella rete viaria checonsentiva un ruolo culturale perdurante della città eterna. Particolare impulso vennedato dagli elaborati arredi presbiteriali messi in opera nelle basiliche romane a partiredal sec. IX. Basti pensare alle iconostasi di S. Prassede e di S. Cecilia, commissionate dapapa Pasquale I (817-822), e di S. Sabina, commissionata dal successore papa EugenioII (822-824). Una recente indagine ha poi permesso di asserire che le decorazioni anastro bisolcato - con un effetto “a sbalzo” - come quelle della cripta in esame, in sosti-tuzione del nastro piatto “a fettuccia” degli esempi più antichi, che sembra “disegnato”sulla pietra, non inciso, si diffonde insieme ad uno stile di lavorazione in genere meno

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accurato, sia dal punto di vista compositivo che tecnico, a partire dal secondo quartodel sec. IX (cfr. BETTI 1995, pp. 131-132). In base a tutto ciò, l’elemento erratico e ilconcio di scarto qui esaminati si datano orientativamente al sec. IX, non prima del 825,fermo restando che una decorazione del genere poteva essere proposta da una suppel-lettile databile anche al secolo seguente, vista l’adozione di lungo periodo di questimodelli. (Motivi “a treccia” si trovano beninteso anche nel pieno romanico, ma si distin-guono non difficilmente grazie alla loro diversità tipologica, formale ed esecutiva). Ladatazione così presentata, pur se orientativa, è particolarmente utile soprattutto in rela-zione al concio di scarto. Non essendo quest’ultimo un elemento propriamente di reim-piego (dislocato cioè da una situazione pregressa definita e operante), la sua datazionenon fornisce un terminus post quem per la cronologia della struttura, ma si presta a data-re tout court la struttura stessa.

Il corpus di scultura architettonica dell’alto Medioevo ascolano, costituito da unampio numero di pezzi erratici o reimpiegati in costruzioni romaniche, evidenzia cheanche nella città picena, tra il sec. VIII e il sec. IX, si poté recepire in modo determi-nante l’opera e la creatività di quelle botteghe intente a rinnovare gli arredi presbiteria-li delle basiliche romane. Lo stile delle decorazioni viminee, che poteva essere reinter-pretato anche da botteghe locali con materiali ed esiti facilmente distinguibili, si trovadiffuso anche in area aprutina. Tra tutti gli esempi possibili valgano gli elementi già con-servati presso la chiesa di S. Pietro di Campovalano, oggi al Museo Nazionale dell’A-bruzzo de L’Aquila, tra i quali si distingue una transenna di probabile esecuzione localecorrelata ad una analoga scultura ascolana, e valga ancor più il sistema di recinzioni lapi-dee attualmente conservate nel Museo Archeologico di Teramo. Presentando il consue-to motivo a intreccio vimineo bisolcato, reinterpretato da scultori di formazione locale,gli elementi osservati nella cripta di S. Benedetto in Tronto si correlano agli elementi discultura architettonica di Ascoli, di Campovalano e di Teramo, rientrando in un siste-ma coerente di apporti e di influssi reciproci. Si delinea così un ampio, denso quadro divitalità artistica altomedievale che interessa il territorio piceno e l’alto Abruzzo, un qua-dro in cui la chiesa in esame si contestualizza facilmente, in una posizione di puntonodale, grazie alla sua posizione strategica nel gioco dei rapporti tra l’area picena e l’a-rea aprutina.

3.3. La tipologia della cripta

Il dato emergente della cripta è dato dalla spiccata conformazione materica dell’am-biente. Alle cortine degli spiccati si affiancano i conglomerati cementizi di ciottoli difiume, scaglie di pietra e laterizi che caratterizzano le deformi, suggestive volte di coper-tura, edificate senza rivestimento, senza nervature e senza sottarchi, tali da manifestare

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una tecnologia costruttiva apparentemente stentata, indice di una limitata padronanzadelle forme e dei materiali. È evidente in forza di ciò che dovettero essere all’opera mae-stranze locali che sperimentavano soluzioni proprie sulla scorta di modelli costruttivi etipologici solo in parte recepiti. Ciò tuttavia non vale ad escludere recisamente una pre-cisa volontà di effetto. L’irregolarità e l’eterogeneità della volta potevano evocare laconformazione di una grotta naturale, in modo da accentuare un’impressione di profon-dità e di lontananza dalla dimensione quotidiana. Un parallelo per quanto concerne ladistinzione costruttiva ed estetica tra muri di sostegno con filari a vista e volte di coper-tura cementizie, si può istituire con l’altrettanto lineare (ma assai più accurata) crypte dupessèbre della chiesa abbaziale di S. Michele a Cuxá (ai piedi dei Pirenei, nel Roussillonfrancese), cripta che rientra nell’ampliamento di una chiesa già inaugurata nell’anno974, ampliamento voluto dall’abate Oliba e portato a termine nel 1040. Si tratta di unambiente anulare coperto da una volta a botte sostenuta da un sostegno cilindrico cen-trale, la cui rilevanza strutturale ricorda i pilastri che affiancano l’abside della cripta pice-na. Si riscontra peraltro la pavimentazione in terra battuta (fig. 11). È un confrontoprivo di valore sostanziale, ma consente di ritrovare nella cripta picena il segno di unlinguaggio formale altrettanto consapevole.

Ma veniamo ora allo specifico, e cerchiamo di chiarire il significato e la funzione diquesto ambiente. La presenza dei tre altari sin dall’origine afferma con chiarezza unafunzione cultuale, e si può asserire che ad ogni altare corrispondesse un santo dedicata-rio o un gruppo di santi dedicatarii. Non sappiamo se fossero presenti anche delle reli-quie, ma è molto probabile. La presenza dei due ingressi simmetrici potrebbe a tal pro-posito essere in funzione delle pratiche devozionali dei pellegrini, che potevano affluireordinatamente utilizzando una scala per l’accesso e l’altra scala per l’uscita. Accanto allafunzione cultuale possiamo supporre che un ambiente del genere potesse svolgere la fun-zione di chiesa invernale (o secondo coro) al servizio della comunità monastica.Sappiamo infatti che per fronteggiare il freddo gli appartenenti di una comunità duran-te i mesi più rigidi tendevano spesso a prediligere per le loro frequenti funzioni ambien-ti poco spaziosi e rinserrati, che consentivano la minima dispersione del calore e unaprotezione contro le asprezze del clima.

Per collocare correttamente l’episodio in esame risaliamo a questo punto all’originedella sua tipologia. Il termine crypta è in uso già nel sec. VI per definire ipogei sepolcralio sacelli sotterranei realizzati ex novo per custodire reliquie. Prima di allora svolgevanouna simile funzione gli ambienti di tipo devozionale che si situavano attorno alle tombedei martiri romani, cui fecero seguito, nei primi esempi di architettura paleocristiana,gli anditi e gli ambienti che consentivano l’accesso alle tombe illustri su cui le basilicheerano state edificate, con il presbiterio corrispondente all’area del sepolcro, come sipoteva osservare per le tombe apostoliche presso le basiliche di S. Pietro in Vaticano edi S. Paolo fuori le mura. Già nel sec. V si cominciano ad osservare strutture specifiche

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per il culto funerario, soprattutto in area bizantina: nella Theotokos Chalkoprateia diCostantinopoli o a S. Demetrio di Salonicco si osservano in tale epoca “paleocripte”cruciformi con volte a botte congiunte a crociera accessibili dall’area retrostante del pre-sbiterio. Ed è sempre in area bizantina che si osserva il probabile prototipo della vastaschiera di cripte che faranno seguito già nelle epoche immediatamente successive:Anicia Giuliana tra il 524 e il 527 fa eseguire a Costantinopoli la chiesa di S. Polieucto,con una cripta a camera rettangolare articolata con pilastri e volte, un corridoio trasver-sale d’ingresso corredato da nicchie, un lungo braccio assiale che corre lungo tutta l’au-la sino al portico anteriore dell’edificio. Alcuni decenni dopo suscita una vasta eco, sottoil pontificato di Gregorio Magno (590-604), la cripta di S. Pietro, con due ingressi late-rali agli estremi dell’abside, un corridoio semianulare che corre lungo l’abside stessa, eun corridoio assiale che consente l’accesso alla tomba dell’apostolo, in vista dalla chiesacon l’ausilio della fenestella confessionis che si apre al di sotto dell’altar maggiore. Accantoallo schema “semianulare” reso celebre dalla “confessione” di S. Pietro, in età carolingiasi assiste ad un’ampia varietà di tipologie. Lo schema cruciforme in una forma multiplaassai elaborata si riscontra a Steinbach (827 circa), fondata da Eginardo, dove agli estre-mi di un corridoio a croce si situano quattro ambienti a croce anch’essi. Un altro esem-pio è offerto da Saint-Philibert-de-Grand-Lieu, dove un corridoio a U presenta lungo ilsuo sviluppo una serie di ambienti a croce. Di particolare interesse lo sviluppo dell’im-pianto a camere parallele in funzione dei corridoi multipli d’accesso, già sperimentatoin S. Valentino a Roma nella prima metà del sec. VII sotto forma di un corridoio tra-sversale unico collegato da due scale agli estremi. La cripta di Petersberg presso Fulda(836 circa) presenta a tal riguardo due camere poste di fianco ad una camera centraleabsidata.

Il particolare sviluppo planimetrico e ambientale delle cripte era dato in area tran-salpina da un marcato utilizzo sepolcrale, con la conseguente necessità di adeguati svi-luppi di superficie e una spiccata articolazione di vani. In Italia la cripta si afferma essen-zialmente come spazio sacro (GUIDOBALDI 1994, p. 477), e come tale vede un’imposta-zione sempre rapportata e congiunta ad un nucleo centrale definito. A Farfa si adottal’impianto semianulare di ispirazione romana, così pure nella nuova basilica di S.Vincenzo al Volturno (primo decennio del sec. IX), mentre sotto l’abate Epifanio (826-843), nella cripta della cappella da lui disposta, si impone all’attenzione un impianto acroce irregolare con due bracci absidati. La tipologia della cripta “a corridoio”, caratte-rizzata cioè da un ambiente unico o da ambienti multipli a formare un braccio trasver-sale continuo o separato da pareti (nel caso di Volturno arricchito da un vano-reliquia-rio che forma un braccio assiale contrapposto al vano dell’abside maggiore), e la tipolo-gia della cripta “semianulare”, vengono presto soppiantate, con molteplici soluzioniintermedie, a favore della cripta “ad oratorio”, dove lo spazio unitario è scandito danavatelle suddivise da colonne, e dove si raggiunge una corrispondenza reciproca tra lo

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sviluppo della cripta e l’impianto del capocroce, che può essere così letto come unaproiezione in alzato della cripta stessa. Il passaggio intermedio è dato dalle cripte acamera absidata, o a corridoio con vani absidati, di tipo “monoastile” (con un solo soste-gno centrale), o di tipo “poliastile” (con due, tre o quattro colonne), già riscontrabili nelsec. X. Accanto allo sviluppo planimetrico, nel sec. XI si assiste poi all’introduzione deisottarchi, che permettono di evidenziare nel modo più efficace la suddivisione in cam-pate dello spazio.

Per quel che concerne l’area picena, gli esemplari osservabili presentano una gammanotevole di schemi e di impostazioni. Un’antica cripta scavata nell’arenaria e completa-mente rivestita di dipinti corrispondeva alla chiesa primitiva dell’insediamento mona-stico dei Ss. Ruffino e Vitale in territorio di Amandola, con un corridoio trasversale vol-tato a botte, absidato al centro e corredato da una scala sul braccio destro, secondo unoschema che semplifica il modello della cripta di Epifanio in S. Vincenzo al Volturno(PIVA 2003, pp. 213-217). La struttura, coeva ai dipinti, ha una cronologia che non puòsuperare in alcun modo i primi decenni del sec. XI, non potendosi per giunta esclude-re una datazione al sec. X (cfr. MANACORDA 1997, p. 194) anche in ragione del fattoche già nel sec. XII doveva risultare completata la nuova chiesa di impianto basilicale,corredata da una cripta ad oratorio. D’altro canto già nel 1064 esisteva la cripta dellachiesa plebana di S. Angelo in Montespino in territorio di Montefortino, con uno sche-ma a camera absidata suddivisa a tre navate e con accesso multiplo, pareti d’ambitomodulate da semicolonne e volte a crociera con sottarchi. Nell’ultimo quarto del sec. XIera verosimilmente già realizzata la vasta cripta ad oratorio della cripta della Cattedraledi Ascoli, e allo stesso periodo si assegna agevolmente la cripta della chiesa monastica diS. Maria delle Macchie presso San Ginesio, con una struttura ad oratorio che copreanch’essa l’estensione del soprastante transetto, e con una preziosa scansione dell’areadell’altare (originale!) con quattro colonne agli angoli intessute di materiale di reimpie-go, tale da richiamare l’idea di un ciborio o ancor meglio l’impianto a quattro colonnedelle cripte ad oratorio “primitive” (cfr. SIMI VARANELLI 1996, p. 140). Anche le nicchieoggi tamponate che si succedono nella parete d’ambito sembrano costituire un vivoretaggio delle esperienze altomedievali.

La cripta di S. Benedetto appartiene alla tipologia “a corridoio” o “a galleria” noncomune in Italia, e si riallaccia bene alla casistica delle cripte transalpine a camera multi-pla, visto che le due scale d’accesso qualificano anche qui gli ambienti laterali in funzionedi “snodo” per l’accesso all’area centrale e all’abside. Il suo impianto conforme alla strut-tura della chiesa soprastante, fa sì che non rientri propriamente nell’ambito delle criptecruciformi, potendo essere annoverata tra le cripte che attuavano precocemente un rap-porto di corrispondenza con l’assetto del capocroce. Anche se giocata su minori dimen-sioni e con minore dispiego di mezzi tecnici, vista peraltro la presenza del ciclo dipinto,un’analoga consapevolezza si osserva nella cripta antica di Amandola, dove il riferimento

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al Volturno suggerisce anche lì un aggancio alla cultura architettonica dell’Europa caro-lingia, magari attardata, fermo restando che chi lavorò in S. Benedetto e in Ss. Ruffino eVitale era totalmente all’oscuro di quelle novità di linguaggio che si affermeranno in areapicena con pienezza di esiti e di intenti alla metà del sec. XI, sul supporto di una tradi-zione costruttiva locale già attiva e aggiornata almeno sin dal secolo precedente.

Per lo schema “a corridoio” o “a galleria” elementi di raffronto nello specifico di S.Benedetto sono suggeriti da vari episodi. La cripta della chiesa monastica a pianta basi-licale di S. Maria delle Cacce a Pavia, fondata da re Ragimperto (700) e di datazionecontroversa, che oscilla tra il sec. VIII-IX e la prima metà del sec. X, ha un corridoio inorigine voltato a botte che collega i vani absidali. Nel contesto di chiese a navata unica,la cripta della chiesa monastica di S. Felice sempre di Pavia, anch’essa fondazione regiacorrelata questa volta a Desiderio (757-774), anch’essa databile con difficoltà (sec. IX oX?), ha un corridoio voltato a crociera scandito in tre campate da muri-diaframma chesi impostano su due solidi pilastri e su altrettanti semipilastri nella parete d’ambito, for-mando due ambulacri di comunicazione tra il vano absidale di centro e i vani laterali;analoga impostazione si riscontra nell’esemplare di S. Salvatore di Sirmione (Brescia);si ricorda poi la cripta di S. Michele a Corte di Capua (sec. X), con una struttura a cor-ridoio voltata a botte, arricchita però da un diaframma su colonna unica in corrispon-denza dell’abside; infine, l’ormai matura cripta di S. Maria Assunta dell’abbaziale diFarneta (inizi sec. XI), con corridoio voltato a crociera (senza sottarchi) e vani absidalipolilobati, quello centrale a quattro sostegni, i laterali a sostegno unico. Un interessanteapparato di volte cementizie con mattoni di recupero, pietrame, ciottoli affogati in unamalta con grossi inclusi e frammenti di ghiaia si riscontra nella cripta di S. Pietro diBreme (Pavia), databile alla metà del sec. X, dove si osserva però l’adozione della “nuova”impostazione ad oratorio (TOSCO 1997, pp. 28-29). L’incertezza di talune ipotesi cro-nologiche lascia spazio a molti problemi, ma il linguaggio architettonico di S. Benedettofornisce alcuni punti fermi. Con l’impostazione modulare del corridoio scandita daipilastri e dai semipilastri, con il suo apparato “arcaico” di volte a “protocrociera” conti-nue, senza scansioni di diaframmi o di sottarchi, con la sua rispondenza alla conforma-zione della chiesa soprastante, con la sua mancanza di ogni possibile accenno ad unasoluzione “ad oratorio”, la cripta truentina è al tempo stesso approssimata e consapevo-le, ricordando in particolare la carolingia S. Felice di Pavia per la scansione degli spazi,ma anche la protoromanica S. Maria di Farneta per lo scarnito apparato delle volte, chelì appaiono altrettanto massicce seppur rivestite in muratura. In definitiva, l’analisi strut-turale, affiancata all’analisi già compiuta delle componenti decorative, giunge a rendereplausibile una datazione della nostra cripta tra la seconda metà del sec. IX e la primametà del sec. X.

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3.4. La parete terminale dell’abside

All’abside della cripta corrisponde l’abside superiore della chiesa. Il suo scarso pro-nunciamento sul muro di fondo della chiesa stessa, la sua posizione asimmetrica, la suadesueta pianta rettangolare rendono evidente quanto sia estranea alla ricostruzione effet-tuata nel sec. XIII.

A seguito della stonacatura compiuta nel 1990, il lato di fondo si presenta con un’e-dicola ricavata nello spessore del muro, irregolarmente cuspidata, che mostra nel tim-pano, entro una raggiera di laterizi, un bassorilievo su pietra calcarea riproducente unaconchiglia. In basso si apre una monofora. Le caratteristiche costruttive sono del tuttoconformi a quelle della cripta, con un paramento di conci irregolari di pietra calcarea elaterizi di forma grossolana soprattutto concentrati nel coronamento e nell’archivoltodella finestra. L’archivolto della finestra e il timpano sono “bardellonati” da una serie dilistelli di laterizio.

L’esame stilistico conferma pienamente che l’edicola faceva parte della chiesa primi-tiva, potendosi attribuire all’epoca della sottostante, corrispondente cripta. L’analisidelle murature attesta inoltre che le pareti laterali e gli attacchi di queste al lato di fondofanno parte dell’opera di ricostruzione. Il paramento antico si distingue specialmenteall’esterno, per l’eterogeneità del materiale e per l’abbondante uso di calce. Sempre all’e-sterno si nota un’estesa risarcitura in asse alla monofora su quasi tutto l’elevato.

L’edicola mostra in nuce, e in forme estremamente grossolane, il concetto della pare-te stratificata che sarà poi ampiamente sviluppato nell’arte romanica. Individuando unpiano retrostante alla linea della parete, alleggerisce e movimenta la parete stessa. Ad ungusto protoromanico va poi riferito l’inquadramento della monofora absidale con listel-li di laterizio, una pratica decora-tiva che si svilupperà nell’archi-tettura del comprensorio a parti-re dal sec. XI.

Il bassorilievo con il motivo aconchiglia, reso con bordi arro-tondati e margini appena rilevati,riecheggia essenziali forme grafi-che quali potevano essere desun-te da esempi di scultura funerariatardoantica, reinterpretate coningegno dalla scultura precarolin-gia e carolingia. Riscontri delmotivo in differenti situazionicompositive possono essere isti-

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tuiti con una lastra di pluteo delMuseo Archeologico di Venezia,databile al sec. VIII-IX, in cui unasequenza di conchiglie stilizzateassai simili allo schema qui riscon-trato (ma assai meglio definite)corre su una fascia di inquadra-mento; con un fregio in terracottadatato al sec. VIII presente pressola basilica di S. Salvatore aSpoleto; con un piedritto di arre-do presbiteriale del sec. VIII-IXreimpiegato nella chiesa di S.Eufemia sempre di Spoleto, e conun capitello datato al sec. VIIIreimpiegato nella torre campana-ria superstite della chiesa abbazia-le di Farfa. Ulteriori confronticoinvolgono rilievi di età visigotapresenti in area ispanica, dove ilmotivo è largamente attestato, ecoinvolgono altresì il noto sarcofa-go della badessa Teodechilde con-servato nella cripta della chiesaabbaziale di Jouarre, risalente alsec. VIII. Interessante per l’impa-ginazione del motivo in una lastrarettangolare il reperto del MuseoArcheologico Nazionale di Ma-drid proveniente dalla provincia diSalamanca, anch’esso databile alsec. VIII (cfr. BETTI 1992, pp. 9,23-24, 32). Stele o fronti di sarco-fago caratterizzati da edicole frontonate con l’invaso del timpano lavorato a coclea, oltrea suggerire il motivo decorativo, potevano altresì suggerire il disegno della nicchia nelsuo complesso. Il confronto con gli esempi citati rimarca comunque una notevoleapprossimazione, motivabile con l’intervento di maestranze locali non specializzate. Sitratta dunque di un’interpretazione tardiva, difficilmente databile anche in modo orien-tativo, essendo solo evidente la sua anteriorità rispetto alle esperienze del sec. XI.

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3.5. Ipotesi ricostruttiva e tipologia della chiesa primitiva

Il fatto che all’abside della cripta corrispondesse l’abside della chiesa lascia indubbioche la chiesa primitiva avesse una pianta a croce latina, riflettendo nel capocroce la sot-tostante conformazione della cripta (fig. 13). Il transetto dovette coincidere con l’auladella cripta mentre l’abside dovette essere più profonda di quanto lo è tuttora. Questaconformazione planimetrica, fortemente diffusa in ambito benedettino, si rivelò capacedi riunire la semplicità alla necessità di gerarchizzare l’ambiente di culto, dividendo net-tamente il transetto, accogliente il coro dei monaci, dalla navata, riservata ai fedeli.

Due scalinate addossate ai muri perimetrali della navata collegavano quest’ultimaalle ali laterali della cripta. In luogo dell’attuale accesso centrale alla cripta, una scalina-ta collegava l’aula al presbiterio della chiesa.

Per quanto concerne la struttura del piedicroce, la positura degli antichi fianchi late-rali è desumibile dagli sbocchi superstiti delle antiche scale di collegamento alla cripta.Dalla pianta così ricostruita risulta evidente che le sporgenze del transetto, meno ampiedella navata, erano meno pronunciate rispetto ai corrispondenti bracci della cripta.

Nel rifacimento del sec. XIII, le sporgenze del transetto vennero abolite e il presbi-terio venne arretrato. Fu così che l’abside, come notato, venne a trovarsi palesementefuori asse.

La forma dell’edificio primitivo così ipotizzata si ricollega, in nuce, agli schemi delleaediculae funerarie romane, che presentavano una pianta a croce, oppure polilobata,poligonale, circolare, quadrata, fornendo in tal modo molteplici modelli all’architettu-ra paleocristiana per gli edifici destinati al culto dei martiri (martyria). Lo schema pla-nimetrico così concepito si riallaccia ai martyria cruciformi con ambiente quadrato cen-trale, il cui esempio più antico e autorevole è dato dal Martyrion di S. Babila adAntiochia, Siria (380-387). La prima applicazione in ambito italico è data dal sacello diS. Lorenzo di Ravenna, meglio conosciuto come Mausoleo di Galla Placidia, con cupo-la centrale e bracci coperti a botte, già annesso alla destra del nartece della chiesa di S.Croce, probabile cappella palatina a pianta cruciforme edificata nella prima metà delsec. V. Altri esempi sono offerti dal sacello di Casaranello presso Casarano, Lecce (sec.V), e dalla cappella delle Ss. Tosca e Teuteria presso la chiesa cruciforme dei Ss. Apostolia Verona (fine sec. V). In particolare, l’accentuata modularità quadrata nell’area delcapocroce della chiesa truentina si ricollega a chiese altomedievali a navata unica conpianta cruciforme quali S. Zeno a Bardolino (Verona, 873-881, ma talora riferita agliinizi del sec. IX), S. Lorenzo a Settimo Vittone (Torino, 850-900), S. Pietro inMonastero a S. Pietro in Valle presso Gazzo Veronese, la cui prima fase costruttiva sidata al sec. IX, e S. Quintino a Spigno Monferrato (Alessandria, 991) (cfr. PEROGALLI

1974, pp. 51, 53, 55, 67-68). Un’adesione ai modi dell’architettura tardoantica si evin-ce a Roma nelle strutture cruciformi a bracci molto contenuti osservabili nella cappella

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di S. Zenone presso S. Prassede (817-824) e nelle due cappelle altomedievali annesse allachiesa dei Ss. Quattro Coronati (BOZZONI 1993, p. 232).

Concentrando l’attenzione sugli esempi di età carolingia e ottoniana dell’Italia set-tentrionale, ci soffermiamo innanzitutto su Bardolino. Apparteneva al famoso mona-stero di S. Zeno di Verona, al quale la relativa corte veniva confermata già nel 807 permano del vescovo Ratoldo e del re d’Italia Pipino, figlio di Carlo Magno e di Ildegarda.Un impianto a croce latina di chiara ispirazione paleocristiana viene reinterpretato dauna sensibilità nuova, “carolingia”, che rompe l’unitarietà dello spazio con una scansio-ne delle pareti e dei volumi in grado di movimentare tutto l’insieme con una sintassi rit-mica semplice ed efficace. La navata e il transetto sono coperti a botte, e sulla crocierasi eleva un tiburio. La muratura si presenta in laterizi alternati a pietre non squadrate,con un effetto analogo a quello dei paramenti della chiesa truentina. Una recinzionelapidea presbiteriale, di cui si sono rinvenuti dei frammenti, doveva fare da diaframmatra la navata e il transetto, come pure doveva osservarsi a S. Benedetto. Ed è impressio-nante, nel confronto, la quasi sovrapponibilità delle misure del transetto, anche quiimpostato su un modulo quadrato ripetuto tre volte (m. 8,50 x 2,75 a Bardolino, m. 9x 3 a S. Benedetto in Tronto). Settimo Vittone, di chiara ispirazione tardoantica nellachiarezza del suo impianto, conserva una lapide che vi indicherebbe il luogo di sepol-tura della regina franca Ansgarda. Presenta una pianta a croce latina, ambienti voltati abotte, una muratura solida e poco accurata. È inoltre affiancato da un battistero data-bile tra la fine del sec. VIII e gli inizi del sec. IX. Sia Settimo Vittone che Bardolino ciinteressano per l’impianto quadrato dell’abside, che nel caso veronese è direttamenteattestata ai bracci del transetto, come si doveva osservare a S. Benedetto. Gazzo Verone-se, detto “lo Chiesone”, è un esemplare complesso e problematico, che vede la sua attua-le definizione a seguito di almeno tre campagne costruttive. A partire da un impiantolineare databile al sec. IX, ispirato al vicino modello di Bardolino, si arriva all’alto tibu-rio-campanile di retaggio cluniacense, databile al sec. XI. L’ultimo esemplare, quello diSpigno, è stato fondato nel 991 dal marchese Anselmo. Presenta una navata coperta avista (forse sin dall’origine) e un transetto voltato a botte. La struttura si mostra altempo stesso con una certa approssimazione dal punto di vista tecnico - tanto da ricor-dare le strutture truentine - ma anche con una evidente complessità, che proietta l’edi-ficio in un orizzonte decisamente “protoromanico”. Si veda in particolare la raffinatainserzione delle due presumibili torri (perdute) su due cappelle absidate ai fianchi del-l’abside centrale, in adesione ai bracci del transetto, torri cui corrispondono altrettantecappelle sul piano della cripta. Quest’ultima presentava una struttura a sala con volte acrociera su colonne, chiaramente assimilabile alle cripte ad oratorio della successiva faseromanica (cfr. TOSCO 1997, p. 61).

Tornando al S. Benedetto, la distinzione planimetrica tra navata e transetto potevacompiersi attuando corpi murari della stessa altezza, oppure si poteva dare un maggio-

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re rilievo alla navata anche in alzato, cosicché l’edificio si sarebbe presentato all’esternocon un corpo longitudinale a cui risultavano legati due bracci minori a formare il cosid-detto transetto nano. Per le due opzioni si prendano a raffronto la già citate chiese di S.Zeno a Bardolino e di S. Lorenzo a Settimo Vittone, la prima con una raffinata risolu-zione dell’incrocio tra navata e transetto, attuata con la consueta applicazione dellacupola su tiburio, la seconda con un semplice innesto a transetto nano, senza corpoemergente sulla crociera (cfr. PEROGALLI 1974, p. 68). Nella prima possibilità, cheimplicherebbe un’articolazione di notevole peso, due archi avrebbero potuto affiancareil presbiterio formando il quadrato della crociera, che in un tale contesto sarebbe statosicuramente sormontato da una torretta o da una cupola su tiburio.

La pianta stessa evidenzia inoltre degli allineamenti che potevano dare facilmenteluogo ad un triforio sul fondo della navata, con l’arco centrale posto ad inquadrare lascalinata d’accesso al presbiterio, e con gli archi laterali posti a sormontare le scalinatedella cripta (fig. 13). L’esemplare già citato di S. Michele a Capua (sec. X) è in tal sensorivelatore: la navata unica si conclude su una parete-diaframma aperta da tre archi impo-stati su due poderose colonne ioniche (fig. 12). L’arco centrale inquadra la scalinata delpresbiterio, gli archi laterali sormontano le scalinate della cripta, che si estende su tuttal’area del transetto, in questo caso non sporgente dai fianchi dell’aula. Un alto tiburiosormonta la crociera.

EPILOGO (PROVVISORIO)

conclusione di queste note, nella prospettiva di adeguate indagini archeolo-giche che approfondiscano i problemi qui delineati, ci sembra di poter riba-dire anche sulla scorta dell’analisi tipologica della presumibile chiesa primi-

tiva la predetta datazione alla seconda metà del sec. IX - prima metà sec. X, soprattuttoin considerazione delle forti analogie con i casi di Bardolino e di Capua.

Difficile arguire quali modelli fossero presenti ai costruttori di S. Benedetto, se sullaloro formazione operò un influsso proveniente dal nord, dall’area ravennate e lombar-da, o dai territori del sud, dall’area del ducato di Benevento in cui si colloca la stessaabbazia di Montecassino. In ogni caso, ci troviamo di fronte ad un episodio cardine perla comprensione dell’alto Medioevo nell’area medioadriatica.

A seguito di questa e di simili sperimentazioni, l’area piceno-aprutina si è prestodotata di elementi “strategici” e di punti fermi in quella tessitura di esperienze che face-vano da filtro e da recettore nei confronti di quanto si veniva elaborando nel nord e nelsud della penisola, creando episodi e situazioni originali che solo gli studi più recentistanno pazientemente definendo.

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1-2) S. Mauro.Vedute della facciata sul fare dell’alba

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3-4) S. Mauro.Vedute dell’interno verso la controfacciata e verso il presbiterio

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5) S. Mauro.Il presbiterio con l’accesso centrale alla cripta

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6-7) S. Mauro.Vedute della cripta altomedievale di S. Benedetto in Trunto

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8-9) S. Mauro. Cripta: parete d’ambito con ingressi antichi e ala sinistra

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10-11) S. Mauro.Cripta: fittile di reimpiego nella volta e feritoia dell’ala sinistra

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12-13) S. Mauro.Cripta: elemento erratico e concio di scarto con decorazione a nastro

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14) S. Mauro.Presbiterio: edicola altomedievale nella parete terminale dell’abside

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15-16) S. Mauro.Abside: particolare dell’edicola interna e veduta esterna

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17) S. Mauro.Veduta esterna dell’abside

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Salaria antica 2000 = La Salaria in età antica. Atti del Convegno di studi(Ascoli Piceno - Offida - Rieti, 2-4 ottobre 1997), a cura di E. Catani, G.Paci, Macerata-Roma 2000 (Ichnia, s. II, 1).

SCARTONI 1991 = R. Scartoni, La chiesa abbaziale di Farneta: contributoall’interpretazione di alcuni aspetti dell’architettura dell’XI secolo in Italiacentrale, in “Arte Medievale”, s. II, 5 (1991), pp. 49-65.

SEGAGNI MALACART 1998 = A. Segagni Malacart, Pavia, s. v., in Enciclopediadell’Arte Medievale, IX (1998), pp. 247-264.

SEITNER 1991 = G. Seitner, Le Venezie, Milano 1991 (Italia Romanica, 12).SENSI 1996 = M. Sensi, Santa Maria di Montesanto. Un monastero benedetti-

no di frontiera tra Regno di Napoli e Stato Pontificio, Grottammare 1997.SENSI 1998 = Id., Santuari e reliquie lungo la via Salaria: rapporti con

l’Umbria, in Agiografia 1998, pp. 21-38.SIMI VARANELLI 1993 = E. Simi Varanelli, Un raro esempio di architettura

monastica alto-medievale ubicato nelle Marche: la chiesa abbaziale di S.Croce al Chienti, in Studi per Piero Zampetti, a cura di R. Varese, Ancona1993, pp. 41-49.

SIMI VARANELLI 1996 = Ead., Architetture monastiche altomedievali nelleMarche, in Vie europee 1996, pp. 125-194.

STAFFA 2000 = A. R. Staffa, La via Salaria nella bassa valle del Tronto, inSalaria antica 2000, pp. 417-436.

STAFFA in corso di stampa = Id., La Salaria nella bassa valle del Tronto tra l’etàtardoantica e l’alto Medioevo, in La Salaria in età tardoantica e altome-dievale. Atti del Convegno Nazionale di studi (Rieti - Cascia - Norcia -Ascoli Piceno, 28-30 settembre 2001), a cura di E. Catani, G. Paci, S.Patitucci Uggeri, in corso di stampa.

Strade 1987 = Le strade nelle Marche. Il problema nel tempo. Atti delConvegno (Fano, Fabriano, Pesaro, Ancona, 11-14 ottobre 1984) = “Attie Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Marche”, voll. 89-91(1984-1986), Ancona 1987.

SUSI 1998 = E. Susi, L’agiografia picena fra l’Oriente e Farfa, in Agiografia1998, pp. 57-84.

TASSI 1991 = E. Tassi, L’antica diocesi di Truentum e le pievi dell’area truenti-na, in “Riviera delle Palme”, a. VII (1991), n. 3/4, pp. I-VIII.

TOSCO 1997 = C. Tosco, Architetti e committenti nel romanico lombardo,

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SAN BENEDETTO IN TRUNTO

Roma 1997 (I Libri di Viella, 9).VALENZANO 2000 = G. Valenzano, Verona, s. v., in Enciclopedia dell’Arte

Medievale, XI (2000), pp. 561-578.Vie europee 1996 = Le vie europee dei monaci. I, L’Europa: « Mucchio di

frante immagini su cui batte il sole » (T. S. Eliot). Atti del IV Convegno del« Centro di Studi Farfensi » (Santa Vittoria in Matenano, 9-12 settembre1993), Negarine di S. Pietro in Cariano 1996 (Scuola di memoria storica.Centro di Studi Farfensi per la storia del monachesimo mondiale e delsapere universale, 4).

ZAMPETTI 1993 = P. Zampetti (a cura di), Scultura nelle Marche dalle originiall’età contemporanea, Firenze 1993.

ZULIANI 1992 = F. Zuliani, Bardolino, s. v., in Enciclopedia dell’ArteMedievale, III (1992), pp. 78-80.

Referenze iconografiche

Tavole

1, 2, 4, 12: BERNARDO CARFAGNA; 3, 5, 6, 14: LUIGI GIROLAMI; 7, 8, 9, 10, 11,13, 15, 16, 17: FURIO CAPPELLI

Illustrazioni nel testo

1, 3, 11: ZODIAQUE (da D’ONOFRIO 1981 e da OURSEL 1986, ed. Jaca Book);2: disegno di KENNETH J. CONANT, con H. M. WILLARD (1935); 4: LUIGI GIRO-LAMI; 5, 7 (disegno di ALFREDO GUIDOTTI): da CONTA 1982 (ed. Giardini); 6:da FRANCHI 1995 (ed. D’Auria); 8: rame di GIAMBATTISTA CARDUCCI (1853); 9:FURIO CAPPELLI; 10: presentazione di FURIO CAPPELLI (1990), sulla base delrilievo depositato presso il Comune di Monsampolo del Tronto; 12: ArchivioFotografico del Museo del Sannio, Benevento (da GALASSO 1991); 13: disegnodi FURIO CAPPELLI (1994)

Elaborazioni grafiche

La pianta della terza di copertina, con relativa ricerca storico-topografica, è diLUIGI GIROLAMI (tratta da GIROLAMI 1999).

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Finito di stampare nel mese di luglio dell’anno 2004presso lo stabilimento Stampitalia Srl di Ancarano (Teramo)

per conto della Lamusa Piccola Società Cooperativa a r. l. di Ascoli Piceno

Questo volume esce con il Patrocinio dellaDiocesi di Ascoli Piceno

e con il Patrocinio dellaAmministrazione Comunale di Monsampolo del Tronto

Le riproduzioni relative alla chiesa di S. Maurovengono pubblicate con l’autorizzazione concessa dall’Ufficio

Arte Sacra e Beni Culturali della Diocesi di Ascoli Piceno

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La bassa valle del Tronto e i due versantidel territorio piceno-aprutino nel 1279,

con le aree di giurisdizione di Controguerra e Colonnella

Quaderni Lamusa

1. Santa Maria in Pantano. La Chiesa delle Sibille

2. Pedara

Una chiesa-fortezza nell’alta valle del Fluvione

3. San Benedetto in Trunto

Frammento dell’Alto Medioevo piceno

in programma:

4. Mensurata durant

Cultura architettonica nelle aree pedemontane del Piceno

San Benedetto in TruntoFrammento

dell’Alto Medioevo piceno

FURIO CAPPELLI

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3San Benedetto in TruntoFrammento

dell’Alto Medioevo piceno

San Benedetto in TruntoFrammento

dell’Alto Medioevo piceno

Quaderni Lamusa

Nella bassa valle del Tronto,presso Stella di Monsampolo,la chiesa di San Mauro svela

le tracce superstitidella chiesa monastica

altomedievale di San Benedetto

I Quaderni Lamusa illustrano conun taglio lucido e sintetico realtàstorico-artistiche, archeologiche eambientali di qualsiasi territorio

San Benedetto in TruntoFrammento

dell’Alto Medioevo piceno

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€ 14,50 (i.i.) ISBN 88-88972-13-7