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Stragi di Stato Per 15 anni una guerra occulta ha insanguinato l’Italia I mandan ieri come oggi connuano ad essere prote N°6 Luglio-Agosto 2012 ilpetardo.altervista.org La Grecia esce dall’Euro? Ascesa Pacifica in Oriente Stupro Etnico in Bosnia Il Suicidio di Lombardini

il Petardo N°6

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bimestrale di metapolitica

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Page 1: il Petardo N°6

Stragi di StatoPer 15 anni una guerra occulta ha insanguinato l’Italia

I mandanti ieri come oggi continuano ad essere protetti

N°6 Luglio-Agosto 2012 ilpetardo.altervista.org

La Grecia esce dall’Euro?

Ascesa Pacifica in Oriente

Stupro Etnico in Bosnia

Il Suicidio di Lombardini

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BIMESTRALE NON AUTORIZZATO DI METAPOLITICA

Anno II n°6Luglio/Agosto 2012

Direttore EditorialeGiovanni Pili

Collettivo di RedazioneAndrea Pili

Daniele FlorianFabio Cuzzola

Francesco TortoraIgor CartaJo Forma

Roberto MusiuSimona Rabboni

Hanno collaborato in questo numero

Alfredo SgarlatoClaudio Truglio

Roberto Rotunno

Collettivo Culturale Anarchy in The UK

Attribuzione - Non com-merciale - Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5)

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3Sommario

05 Editoriale

Sviluppo Insostenibile14 Sugli ultimi sviluppi in Grecia

Misteri di Stato07 Il Caso Quirra20 Strategia della Tensione (1^parte)28 Gioia Tauro34 Il Golpe Borghese38 Strategia della Tensione (2^parte)

Rivoluzioni53 Ascesa Pacifica

Italian Style46 Il suicidio del giudice Lombardini

Femminismo50 Lo Stupro etnico in Bosnia

La Contesa61 Strage di BrindisiUn pazzo isolato?

Pillole18 Il Bosone Incompreso44 Avete Rotto i Coglioni!

Lettere62 Qualcuno volò sul nido del cuculo: Finanza creativa

Blogroll64 Le industrie muovono le industrie68 L’ultimo terrestre e gli ultimi cinefili70 Romanzo di una Strage

Terza di Copertina72 Rivoluzione in Siria

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Manganelli“E’ il momento delle scuse ai cittadini“

Si figuri dottore, sono cose che capitano

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La tanto attesa sentenza del 5 luglio sui crimini contro l’umanità commessi nel complesso delle scuole Diaz e nella caserma di Bolzaneto non delude le nostre aspettative. Una sentenza ipocrita figlia di una legisla-zione che tra i suoi vuoti mai colmati e vari cavilli, assicura l’impunità per qualsiasi eventuale misura violenta ai danni dei cittadini. Vittime e parenti hanno dovuto aspettare dieci anni per far si che Manganelli scendesse dalle nuvole e chiedesse scusa. C’è da pensare – malignamente, perché siamo cattivi e dunque comunisti – che questo novello San Paolo avrebbe potuto evitare di farle se non ci fosse stato alcun processo; i vari tentativi di depistaggio e insabbiamento sono falliti. Le minacce ai giudici invece hanno sortito il giusto effetto. Le esterna-zioni di Cicchitto (ex loggia P2, quella che depistava le indagini sulla strage di Bologna) e di Borghezio (quello che disinfettava i treni dove si sedevano gli stranieri) fanno parte della vecchia commedia all’italiana del fingersi scontenti, perché se una cosa non piace a nessuno in Italia è fico.

In sostanza dopo un decennio i dirigenti di polizia e dei servizi – nel frattempo provvidenzialmente promossi – saranno ufficialmente interdetti dai pubblici uffici per 5 anni. Condannati quasi tutti a 4 anni (con sconto di 3 per via dell’indulto del 2006) non vedranno un giorno di carcere e continueranno a percepire uno stipendio. Siccome gli tocca anche pagare i danni hanno ben pensato di ricorrere a Strasburgo. Dovrebbe es-sere una iniziativa delle vittime. In Italia non è contemplato il reato di tortura – che per la sua natura dovrebbe essere imprescrittibile come l’omicidio – chi l’anno prossimo andrà a votare si assicuri che il suo candidato di riferimento proponga di inserire questo reato. Perché vedete, sostenere che i poliziotti non sono tutti uguali è una banalità melensa, più adatta ai ragazzini che si tenta di recuperare nei carceri minorili. Noi non siamo bimbi sociopatici. Noi conosciamo la statistica ed il buon senso. Trecento erano i criminali che si prestarono a questa infamia, irrompendo quella notte nella Diaz. Per non parlare degli aguzzini della caserma di Bolzaneto. Di loro non possiamo conoscere i nomi; eppure qualcuno ce li avrà mandati, è una bufala sostenere che non si posso-no identificare. Ma anche se si facesse non servirebbe a niente, perché il reato per le violenze inflitte è ormai prescritto. Un po’ come succedeva prima per gli stupratori. Tutta questa gente continua ad indossare la divisa, è sparsa nel territorio italiano. Danno saggi consigli ai loro colleghi, tutti sanno che – alla luce dei fatti – ancora oggi, semmai volessero sfogare qualche loro frustrazione ammazzando di botte qualcuno o meglio ancora rovi-nargli la salute per sempre, potrebbero farlo. Non gli succederebbe niente.

Sembra un problema per la nostra sicurezza, no?

Il discorso della mela marcia nel cesto vale fino a un certo punto, nella misura in cui esiste la certezza della pena. Altrimenti per quale motivo si dovrebbero arrestare i rapinatori o gli assassini? Lasciamoli liberi, tanto la maggior parte delle persone è onesta. Perché preoccuparsi? Sono solo mele marce, che non devono pregiudicare la nostra fiducia nella gente.

Questo mistificare e distorcere continuo è una nota di fondo che continua imperterrita almeno dai tempi della strage di Piazza Fontana. Lo si nota anche in momenti insignificanti e marginali. Be’ è la stampa che da presenza ai fatti. Non si può pensare davvero che un intero popolo abbia scarsa memoria. Come si può ricor-dare ciò che non viene divulgato, o se lo si fa, attraverso distorsioni e frasi fatte? Ci fa specie un commento del sottosegretario all’economia Polillo su La7. Questo vanta le lodi di Milton Friedman, considerandolo un grande economista. Se lo può permettere, perché nessuno sa chi sia. Noi ne abbiamo già parlato nel primo numero. Si trattava (grazie a dio è morto) di un criminale, ch’è stato responsabile con la sua economia dei disastri degli episodi più efferati della storia contemporanea, mandando in rovina l’economia dei paesi succubi degli Stati Uniti. Dal golpe di Pinochet alla Russia degli oligarchi. Il governo Monti ed in generale i bocconiani, sono allievi di Friedman? Chiediamoglielo, è rimasto qualche giornalista nei paraggi?

Giovanni Pili

5Editoriale

Editoriale

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Roberto Musiu

Il Caso QuirraSardegna: sole e mare, nell’isola felice al centro del Mediterraneo

Quirra: regione sud-orientale dell’isola, famosa nel mondo per essere una «terra di centenari». Immersa nella verde macchia mediterranea, la cui economia agro-pastorale ha permesso alla popolazione di vivere in armonia con la terra, conservando i saperi di una civiltà che ha sempre saputo guardare avanti, senza mai dimenticare i valori essenziali della comunità.

Percorrendo la strada che da Cagliari porta a Murav-era, Villaputzu e poi su, fino a Perdasdefogu, passando tra i tipici canneti del Sarrabus, sembra quasi di sentire riecheggiare il suono delle Launeddas, lo strumento tra-dizionale distintivo della Sardegna, ha origine in questa zona. Furono oggetto di studio del grande musicologo danese Andreas Fridolin Weis Bentzon, il quale dedicò la sua vita alla ricerca su questi antichi strumenti, su-onati nell’isola fin dal periodo nuragico.

Misteri di Stato

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Servitù militari in Sardegna

Un territorio a gran-de vocazione turistica, la cui necessità fondamentale per mantenere la sua specificità, è quella di non cedere mai a ba-rattare la sua struttura ende-mica, in cambio di un progres-so legato a regole prettamente economiche che escludono qualsiasi attitudine naturale.

Sembra quasi di esse-re catapultati fuori da un so-gno, quando si apprende che il territorio di Quirra ospita il Poligono militare Interforze

più grande d’Europa. Presente dal 1956, è teatro di addestra-menti militari e sperimentazio-ni belliche. Con una superficie di 130 kmq a terra, si somma a quella marina e aerea (Capo San Lorenzo) che ha un esten-sione di 28400 kmq, superiore alla dimensione dell’intera Sar-degna (24083 chilometri qua-drati).

La Sardegna è anche il territorio dello Stato italiano con una maggiore presenza di servitù militari. Con 24000 et-tari di suolo demaniale dedica-ti alla Difesa Militare, rappre-

senta il 66% dei 40000 ettari totali.

La militarizzazione del-la terra sarda, avvenuta a se-guito degli accordi tra i paesi del Trattato del Nord Atlantico dopo la seconda guerra mon-diale, ha portato con sé, non solo soldati e armi, ma anche tutti i rischi e gli svantaggi che accompagnano gli eserciti. Sono conosciute, ad esempio, come Sindrome del Golfo e Sindrome dei Balcani quella se-rie di malattie che colpiscono i veterani delle missioni mili-tari nel Golfo Persico e nell’ex

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“La militarizzazione della terra sarda ha portato con sé tutti i rischi

e gli svantaggi che accompagnano gli eserciti”

Misteri di Stato

Jugoslavia: a essi vengono ri-scontrati disordini al sistema immunitario, sviluppano mal-formazioni genetiche che si ripercuotono nei loro figli, con-traggono linfomi di Hodgkin e non Hodgkin e altre forme di cancro e leucemia.

Parallelamente, identi-che patologie si riscontrano tra la popolazione civile che vive nei pressi del PISQ (Poligono Interforze Salto di Quirra) e tra i militari che vi hanno prestato servizio.

Tra l’inizio degli anni ‘80 e la fine dei ‘90 sono sta-te registrati ad Escalaplano (un paese di poco più di 2 mila abitanti) 14 casi di bambini nati con gravi malformazioni. A Villaputzu l’11% della popo-lazione muore per varie for-me tumorali. La prevalenza e l’incidenza di queste malattie nella popolazione, è così alto che si è arrivato a parlare di Sindrome di Quirra.

Diverse analisi e stu-di indipendenti, eseguiti an-che grazie alla collaborazio-ne dei medici operanti nella zona, portarono all’attenzione dell’opinione pubblica i risulta-ti di anni di lotta aperta contro chi ancora cercava di occultare la polemica sulle basi e sulle malattie ad esse connesse, ac-cusando le famiglie degli stessi ammalati, di agire per interessi economici.

Si trattava di una bat-taglia coraggiosa: chi si espo-neva veniva isolato e minac-ciato pesantemente, chi faceva troppe domande veniva invita-to ad occuparsi d’altro.

Antonio Pili, ex sinda-co di Villaputzu e oncologo, nel 2001 chiese accertamenti sull’altissimo numero di linfomi riscontrati nell’area del suo Co-mune, venne improvvisamente

estromesso dalla vita pubblica. Fu la prima, coraggiosa denun-cia.

Sempre a Villaputzu, un anno dopo, la Marcia con-tro la guerra vide una grande partecipazione popolare. Tra gli abitanti della zona, anche associazioni e comitati se-guivano il corteo, guidato da quattro “fantasmi”: quattro donne sotto un lenzuolo bian-co denunciavano ai megafo-ni ciò che accadeva a Quirra, rompendo definitivamente il muro di silenzio. I movimenti popolari intrapresero un iter di azioni sistematiche che mi-ravano all’informazione e alla sensibilizzazione, imputando la responsabilità per le gravi ma-lattie registrate in Sardegna alle attività belliche esercitate

nei poligoni sardi. La questione di carattere puramente politi-co, in atto dagli anni ‘60 e ‘70, passò quindi ad un problema sanitario e ambientale.

Nonostante le morti, le malattie, il continuo transito di aerei da guerra e il pericolo dei bombardamenti a due passi dalle abitazioni, la popolazione appariva inizialmente strana-mente quieta e, con fatica, si è riuscito a costruire un significa-tivo fronte comune. Il poligono militare viene considerato l’u-nica opportunità di lavoro per gli abitanti di Villaputzu e paesi limitrofi. Infatti è li che molti di loro vengono assunti tra il per-sonale civile della base, è nei

loro paesi che i militari trascor-rono la libera uscita, usufrui-scono dei servizi e comprano i souvenir. Forse è a causa di questo velato ricatto che non è mai stato facile per i gruppi sensibili alla causa, cogliere il loro favore.

Ma gli interessi che gravitano intorno al Poligono sono molto alti, non solo a li-vello locale. Oltre che dalle forze militari internazionali, il PISQ vede tra i suoi clienti anche le maggiori industrie belliche mondiali. Al prezzo di 1.200.000 euro al giorno (50.000 euro l’ora), multi-nazionali produttrici di armi come: Oerlikon-Contraves, Aerospatiale, Finmeccanica, Alenia, Oto Melara, Iveco ecc, utilizzano il Poligono per le loro

sperimentazioni belliche. Per-dasdefogu ricava dalla conces-sione per l’utilizzo del suo spa-zio comunale, circa 600/700 milioni di euro all’anno.

Il segreto militare e il segreto industriale hanno sempre arrestato il fervore dei familiari delle vittime, dei movimenti e delle persone che chiedevano che si facesse chia-rezza sulla vicenda.

Per avvalorare la tesi che vedeva nella presenza mi-litare il motivo di una così alta incidenza di tumori e altera-zioni genetiche, era necessario poter provare scientificamen-te questi dati. Nello specifico, con riferimento ad altri studi

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effettuati dagli scienziati ame-ricani sui reduci delle guerre nei Balcani, in Medio Oriente e in Somalia, si ipotizzava la causa delle malattie nell’utiliz-zo di armi all’uranio impoveri-to, non tanto per le radiazioni emanate da questi prodotti dell’industria nucleare, quan-to per le polveri composte da nanoparticelle metalliche, prodotte dalle esplosioni delle cariche.

La dottoressa Anto-nietta Gatti, tra i massimi esperti di nano-patologie, ha condotto studi approfonditi a riguardo. Afferma che queste nanoparticelle, hanno la ca-pacità di insidiarsi addirittura all’interno delle cellule e del loro nucleo. Questo tipo di pol-veri non possono che essere un prodotto dell’attività indu-striale e, nella zona di Quirra, questo tipo di inquinamento può scaturire esclusivamente dall’attività bellica svolta all’in-terno del Poligono: lo stesso in-quinamento che venne prodot-to durante le guerre balcaniche e mediorientali, da cui sono nate le medesime patologie. Tutto trova conferma nell’in-

dagine anamnestica svolta dai veterinari delle ASL che, dall’e-same sugli allevamenti ovini, rileva «l’insorgere contempo-raneo di problematiche geneti-che (malformazione) negli ani-mali e gravi malattie tumorali nelle persone che si occupano della conduzione degli alleva-menti intorno alla zona peri-metrale della base militare di Capo San Lorenzo nei territori di Quirra». Con il trascorrere del tempo, i dati interessano percentuali sempre maggiori della popolazione.

Per anni queste pol-veri contenenti torio, piombo, bario, cromo e altri metalli pe-santi, si sono propagate nell’a-ria e nei terreni militari che, nei periodi in cui non sono previste esercitazioni o sperimentazio-ni, vengono aperte al pascolo delle greggi. In questo modo la catena alimentare risulta contaminata e gli effetti sono immediatamente riscontrabili negli animali da allevamento: «il feto non si completa» - af-ferma un allevatore della zona, nascono agnelli con due teste o altre gravi malformazioni. Nel lungo periodo, il rischio

tende addirittura ad aumen-tare: le sostanze radioattive, infatti, esprimono la loro mas-sima potenzialità dopo 35 anni dalla contaminazione.

Le autorità competen-ti, in questi anni hanno conti-nuato a nominare commissio-ni parlamentari di inchiesta e disporre monitoraggi sul terri-torio, finanziati con milioni di soldi pubblici, per verificare la possibilità di un nesso tra le morti che accomunano i milita-ri che hanno riscontrato la Sin-drome dei Balcani, con quelle avvenute nella zona di Quirra. In questo contesto il Ministe-ro della Difesa appare sempre nelle vesti del controllato sia del controllore e i risultati pro-dotti si rivelano continuamente insoddisfacenti, definiti dalle associazioni popolari: «infiniti e mirati a non trovare quello che si vuole non trovare». Tut-to sembrava fosse trascinato nel tempo solo per tenere a bada l’opinione pubblica e la stampa, che già iniziava a di-vulgare interviste e dossier, con l’aiuto di chi da sempre lottava per avere delle risposte.

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11Misteri di Stato

“Per anni queste polveri contenenti

torio, piombo, bario, cromo e altri metalli

pesanti, si sono propagate nell’aria e nei terreni militari’”

Grazie al grande inte-resse e la costante mobilita-zione dei comitati come «Get-tiamo le Basi», guidato dalla irriducibile Mariella Cao; delle associazioni degli ammalati ci-vili e militari; dei movimenti in-dipendentisti come iRS e Sardi-gna Natzione; il Procuratore di Lanusei, Domenico Fiordalisi, sta finalmente riuscendo a di-stricare la matassa. La Procura di Lanusei apre un’inchiesta per omicidio plurimo con dolo, violazioni ambientali, omissio-ne di atti d’ufficio per mancati controlli, uso e detenzione ille-

gale di armi da guerra. Nel PISQ sequestra due discariche abusive di materiale bellico e del materiale radioattivo (uranio 238, trizio e radio 226) custodito il-legalmente nei magaz-zini del Poligono e nei depositi delle aziende private. Vengono ac-quisite documentazio-ni, fino a quel momento protette dal segreto mi-litare e industriale.

Per il momen-to, sono 20 gli inda-gati per i quali è stato

chiesto il rinvio a giudizio, fra i quali: i generali Fabio Molte-ni, Alessio Cecchetti, Roberto Quattrociocchi, Valter Mau-loni, Carlo Landi, Paolo Ricci; i colonnelli Gianfranco Fois e Fulvio Ragazzon; i componen-ti della Commissione Difesa Giuseppe Di Donato, Vittorio Sabbatini, Vincenzo Mauro; i docenti universitari Francesco Riccobono, Giuseppe Protano, Fabio Baroni, Antonello Di Lel-la; i chimici Sgs Gilberto Nobile e Gabriella Fasciani; il medico Pierluigi Cocco; l’ex sindaco di

Perdasdefogu Walter Mura; il responsabile del servizio di prevenzione del poligono Wal-ter Carta.

Il sospetto è quello di una macchinazione atta a ne-gare l’inquinamento del Poli-gono, con controlli ambientali manovrati e un sistema di con-sulenze e incarichi, nominati per garantire la copertura.

Oltre che dall’utiliz-zo di missili Milan, contenenti sostanze altamente danno-se, l’inquinamento sarebbe stato provocato anche dallo smaltimento di residui belli-ci, ufficialmente fatti brillare per «l’addestramento degli artificieri». Molte sostanze cancerogene avrebbero, inol-tre, contaminato il terreno e le falde acquifere, a causa della creazione di discariche abusi-ve (come quella di Is Pìbiris), finendo nei fiumi utilizzati per l’abbeveraggio delle mandrie e dei pastori e determinandone la morte. Nelle ossa delle sal-me di questi pastori, riesumate per le indagini, è stato trovato torio radioattivo.

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Tutto questo confer-ma l’esistenza della Sindrome di Quirra. La richiesta di rinvio a giudizio per falso ideologico all’omissione aggravata di cau-tele contro infortuni e disastri, e ancora all’ostacolo aggrava-to alla difesa da un disastro, ri-portano inconfutabilmente ad una causa certa e provata.

Nel palcoscenico politi-co non mancano i primi slanci per sfruttare l’occasione di can-didarsi a salvatori della patria. I palesi sentori di una soluzione drastica per il Poligono, porta-rono già il Parlamento italiano a promettere la chiusura «qua-lora risultasse un collegamen-to tra le attività militari e l’in-cidenza di tumori», ignorando spudoratamente il principio di precauzione, e dando avvio quella serie di inutili e fasulli monitoraggi ambientali. Ora, la formula apparentemente decisiva è quella celebrata dal senatore del PD Gian Piero Scanu, approvata all’unanimi-tà dalla commissione parla-mentare d’inchiesta sull’uranio impoverito, di bonificare e ri-convertire il Poligono militare «trasformando un rischio per la salute delle persone e de-gli animali e di inquinamento ambientale, in una grande op-portunità - si legge ne L’Unione Sarda – con la riconversione di quei siti a fini industriali, nei quali favorire l’insediamento di aziende di caratura naziona-le e internazionale fortemente connotate dalla propensione a investire in alta tecnologia, anche a scopi militari, per la ricerca, lo sviluppo e la speri-mentazione di sistemi di difesa elettronica e aerospaziale».

Si passerà, quindi, dal lancio di missili, alla simulazio-ne di guerra elettromagnetica e l’addestramento alla guida degli aerei drone telepilotati, per 4 dei quali nel 2008 è sta-

to contrattato l’acquisto dalla Difesa italiana, per 330.000 milioni di Dollari.

Ma l’inchiesta della Procura di Lanusei ha già mes-so in evidenza anche la perico-losità dei Radar, alla cui espo-sizione a certe frequenze si potrebbe incorrere al danneg-giamento delle cellule umane in maniera irreversibile.

La Sardegna ha una grossa rilevanza strategica per lo Stato italiano. Chissà quante commissioni d’inchie-sta dovranno ancora essere istituite, perché anche i sardi che ci abitano possano vede-re rispettati i loro diritti umani fondamentali e gli venga re-stituita la loro terra, pulita.

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GreciaSull’orlo del baratro, ma forse una via d’uscita c’è

Andrea Pili

Le elezioni legislative greche dello scorso 17 giugno hanno consegnato il governo nelle mani di Nea De-mokratia (ND, partito di maggioranza relativa) e del Pasok; gli stessi partiti responsabili della crisi greca hanno ricevuto la delega per far uscire il paese dalla stessa. Il partito della sinistra radicale – Syriza – è dive-nuto il secondo del paese, avendo perso soprattutto a causa della demonizzazione messa in atto dalla Santa Alleanza Europeista, dall’apparato ideologico di Stato oltre che dell’ostracismo degli altri partiti della Sinistra (Dimar – nella maggioranza di governo – e gli stalinisti del Kke, per il quale Alexis Tsipras sarebbe una sorta di traditore e arrivista).

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Samaras: attuale capo del governo greco

15Sviluppo Insostenibile

A vincere le elezioni greche è stata non solo l’ir-razionalità – insita in tutte le elezioni politiche occidentali – della alternanza “democrati-ca” tra i partiti di sistema ma anche l’uso del terrore come arma contro l’avversario poli-tico: se vince Syriza la Grecia uscirà dall’Euro e dunque il paese andrà incontro ad una catastrofe (come se la Grecia non ci fosse già dentro). A nul-la è servito il fatto che Tsipras abbia sempre negato di voler portare il paese fuori dall’Euro, mantenendosi, invece, fermo sul rifiuto dei piani d’austerità e la rinegoziazione del debito. La Sinistra radicale greca ha spaventato i detentori dello status quo europeo a causa di alcuni punti del suo program-ma, veramente alternativi: au-mento delle imposte a grandi imprese e redditi oltre il mezzo milione di euro; proibire i deri-vati finanziari speculativi; com-battere la fuga di capitali all’e-stero; nazionalizzazione delle banche; nazionalizzazione del-le ex-imprese pubbliche; sotto-porre a referendum vincolanti i trattati europei; ritiro delle

truppe greche all’estero; abo-lire gli accordi di cooperazione militare con Israele; uscita dal-la NATO e chiusura di tutte le basi militari straniere.

Tuttavia, i greci han-no scelto di continuare con le stesse politiche che hanno messo in ginocchio il paese. Ma il “pericolo” uscita dall’Eu-ro è veramente scongiurato? Ovviamente no. Significativo è l’atteggiamento del nuovo

governo Samaras, il quale ha chiesto una proroga fino al 2016 per raggiungere l’equi-librio dei conti pubblici senza riduzione di salari, pensioni ed investimenti pubblici; Olli Rehn, commissario europeo per gli affari economici e mo-netari, ha rifiutato di discutere la questione. Ma cosa prevede

il “piano di rientro” della troi-ka? Ulteriori tagli in cambio di 130 miliardi; come si è fat-to nei due anni precedenti, si prosegue con l’austerità e con i prestiti vincolati ad essa, al fine di far credere ai “mercati” che l’Unione ha la situazione sotto controllo. In sostanza, è neces-sario ufficializzare il fallimento della Grecia al più tardi possi-bile, attendendo che l’Italia e la penisola iberica si mettano a posto, evitando il contagio.

Pare evidente che le attuali politiche stiano danneg-giando l’economia della Gre-cia, le previsioni per quest’an-no sono eloquenti: -5% del Pil, 20% di disoccupazione, -20% dei redditi di lavoro privato (già nel 2011 fu -25% rispetto al 2010). Come mai sono stati elaborati dei programmi eco-

“come si è fatto nei due anni pre-cedenti, si prosegue con l’austerità e con i prestiti vincolati ad essa, al fine

di far credere ai ‘mercati’ che l’Unione ha la situazione sotto controllo”

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Tsipras: il leader di fatto dell’opposizione greca

nomici che anziché risolverli stanno aggravando i problemi della Grecia, tanto da condan-narla consapevolmente alla recessione? La risposta ce la fornisce Paul Krugman, econo-mista premio Nobel nel 2008 e che, all’inizio del secolo, aveva previsto l’imminente avvento di una crisi economica; secon-do lui, gli economisti contem-poranei sono stati relegati alla funzione di psicologi spiccioli, impegnati non per migliorare l’economia di un paese ma per elaborare delle politiche che tranquillizzino gli investitori. Così, in nome del Mercato, val bene distruggere la Grecia. Lo stesso Krugman, in un recen-te pensiero espresso nel New York Times, ha espresso di-sappunto per la vittoria di ND, affermando - inoltre – che la Grecia uscirà dall’Euro lo stes-so; noi possiamo solo dargli ragione, visto che difficilmente una Grecia produttivamente a pezzi potrà rispettare i pa-rametri europei, specie dopo l’irruzione del Fiscal Compact.

Uscire dall’Euro sareb-be una catastrofe? Nessuno può dire con certezza cosa suc-cederebbe se la Grecia ritor-nasse alla dracma, non essen-doci alcun precedente e dato che lo stesso processo di inte-grazione nella moneta unica è considerato irreversibile, l’usci-ta dall’Euro non è contemplata dalle attuali norme europee. Forse l’unico precedente cui ci si può rivolgere è quello dell’Ar-gentina di venti anni fa, la qua-le – sotto il governo Alfonsin – emesse una nuova moneta (l’Austral) svalutata; il risultato non fu dei migliori, visto che si generò un’iperinflazione ed il

paese proseguì per molti anni tra gravi problemi. Tuttavia, a differenza dell’opinione con-venzionale per cui chi parla di “uscita dall’Euro” sarebbe uno svitato o un ignorante, vi sono autorevoli economisti che sostengono tale prospettiva. Questi sostengono che l’unico modo per risollevare la situa-zione dei paesi critici sia una svalutazione controllata, la quale farebbe ripartire l’eco-nomia nazionale rilanciando le esportazioni e ponendo fine a questa continua discesa nella povertà; questa è la posizione di economisti controcorren-

te come Serge Latouche o Loretta Napoleoni, ma anche di economisti che a fatica potremmo conside-rare “rivoluzionari”, come Paolo Savona o Kenneth Rogoff. Quest’ultimo è sta-

to capo economista del Fondo Monetario Internazionale ed è un grande studioso delle crisi finanziarie; intervistato da “Der Spiegel” sostiene che la crisi contemporanea sia soprattut-to una crisi del debito e ritor-nare ad una moneta svalutata significherebbe ridare vigore all’economia con un debito nel groppone decisamente meno grave; inoltre sarebbe possi-bile rimanere dentro l’Unione pur essendo fuori dall’Euro, in tal modo si potrebbe usufruire degli aiuti necessari e anche ritornare nella moneta unica

“Nessuno può dire con certezza cosa succederebbe se la Grecia ritornasse alla

dracma”

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Tsipras: il leader di fatto dell’opposizione greca

17Sviluppo Insostenibile

una volta che i paesi si saranno stabilizzati.

Recentemente il trio Monti-Rajoy-Hollande è riusci-to ad imporsi ed a convincere l’Eurogruppo ad attuare il co-siddetto “scudo antispread”; ciò prevede che il fondo salva stati debba intervenire nell’ac-quisto di titoli di Stato dei pa-esi critici al fine di diminuire il livello di spread. Tale misura può essere attuata solo a fa-vore di quei paesi che hanno elaborato dei piani d’austerità e di riassetto dei conti pubblici. Proprio questo vincolo attenua l’efficacia che un tale prov-vedimento potrebbe avere sulla Grecia: si pagherebbero meno interessi sul debito ma continuando nella distruzione dell’economia reale.

La situazione greca è in continua evoluzione. Conti-

nueremo a seguirla. Possiamo solo dire che se la soluzione è quella del ritorno alla dracma, occorre fare presto e con deci-sione. Infatti, recenti crisi come quella messicana o asiatica in-segnano che non si risolvereb-be nulla con una svalutazione tardiva e tenue.

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Francesco Tortora

Il Bosone Incompresoscoperto il bosone di Higgs

ma il libretto di istruzioni è in svedese

Si tratta delle solite semplificazioni giornalistiche, in Italia alquanto frequenti, proprio perché c’è poca istruzione scientifica: è un cane che si morde la coda, da una parte si chiedono spiegazioni molto semplici, allo stesso tempo, ci si lamenta delle esemplificazioni eccessivamente piatte in ambito scientifico. In tutto questo, ci sono gli editori i quali –per vendere qualche copia di più in edicola- spingono i propri collaboratori ad usare perifrasi e costruzioni

verbali immaginifiche al punto di coniare slogan sempre più risibili come- questa volta- la definizione di “particella di Dio”, scomodando l’Altissimo, il quale pure aveva scritto nelle Tavole della Legge il Secondo Comandamento “Non pronunciare il nome di Dio invano”. Tant’è vero che sia Peter Higgs, che aveva immaginato l’esistenza di questa particella (che ora porta il suo nome) già nell’estate del 1964 (solo con carta e penna e nella incredulità spocchiosa degli scienziati), sia tutta la

Comunità Scientifica internazionale, si sono giustamente lamentati di tale definizione che svilisce l’importanza della scoperta ed il valore umano insito in tali sforzi indirizzati all’ambito della cosiddetta “ricerca di base”. Si tenga conto del fatto che solo per catturare l’impronta del bosone di Higgs c’è voluto l’acceleratore di particelle più potente del mondo, il Large Hadron Collider, un tunnel sotterraneo lungo 27 chilometri, che lambisce il lago di Ginevra e le pendici del Giura, che

Page 19: il Petardo N°6

19Pillole

ha iniziato a scagliare protoni incessantemente l’uno contro l’altro nel 2008, dopo 20 anni di costruzione e 10 miliardi di spesa. Scrive in tal proposito www.repubblica.it: “La lunga attesa per mettere nel sacco il bosone di Higgs è dovuta in buona parte alla necessità di costruire questo gioiello della tecnologia, in cui l’Europa ha nettamente scavalcato gli Stati Uniti e a cui l’Italia partecipa con 3mila dei circa 10mila scienziati attraverso l’Istituto nazionale di fisica nucleare. Tre dei quattro esperimenti che studiano i frammenti di particelle generati dalle collisioni fra i protoni sono attualmente guidati da fisici italiani. Fabiola Gianotti in particolare è responsabile di Atlas, un gigante da 7mila tonnellate e 48 metri capace di individuare il passaggio di particelle di dimensioni infinitesime. Questo rivelatore, insieme al gemello Cms, ha dato la caccia per 18 mesi alle impronte lasciate

dal bosone di Higgs”.

Sempre www.repubblica.it chiarisce l’importanza di questa particella: “Senza quel minuscolo frammento di materia teorizzato dal fisico scozzese in appena tre settimane estive del 1964, tutte le particelle elementari dell’universo sarebbero infatti state prive di massa. Ma la massa è sorgente di forza di gravità. E senza la forza di gravità descritta da Newton non c’è attrazione fra gli atomi, le molecole, le stelle, i pianeti e gli esseri viventi. Il bosone di Higgs appena scoperto al Cern è una sorta di colla che tiene insieme l’universo, ed è anche per questo che si è guadagnato il soprannome di “particella di Dio”, con un termine poco amato dai fisici e giudicato dallo stesso Higgs “inutilmente offensivo nei confronti di alcuni credenti”, ma ormai diventato i r r e v e r s i b i l m e n t e popolare”. Ecco, quindi,

l’importanza del Bosone di Higgs: “tenere insieme” la Materia e darle una “massa”. Senza questa essenza intrinseca, la materia stessa sarebbe solo una brodaglia universale, anzi, una nuvola di molecole e particelle che vagherebbero per sempre nell’Infinito, senza alcun “addensante” e quindi dispersa nell’Universo, nel Tutto (o nel Nulla, dipende dai punti di vista).

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Giovanni Pili

Strategia della Tensione (1^parte)

prove tecniche di golpe

12 dicebre 1969 – Piazza FontanaQuel che avviene quel venerdì alle

16:30 a Milano in Piazza Fontana è pas-sato alla storia come “la madre di tutte le stragi”. Si discute anche su Portella della Ginestra come possibile banco di prova, ma è un tutto dire. Dalla testimo-nianza del tassista, Cornelio Rolandi, che lo ha condotto in prossimità della Banca dell’Agricoltura quel giorno, l’uomo che porta la borsa – una Mosbach & Gruber nera – è vestito come il protagonista di un romanzo di Le Carrè: impermeabile e cappello. Sa come muoversi e come non dare nell’occhio.

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21Misteri di Stato

La banca è ancora aperta nonostante sia passato l’orario di chiusura perché c’è il mercato agricolo. L’esplosione è potentissima, crea un fosso e squarcia la cupola di vetro. Il tavolo ottagonale al centro della hall si polverizza; due persone volano fuori in mez-zo alla strada. Le schegge del-la cupola investono i passanti. Poco lontano in Corso Vittorio Emanuele un uomo coperto di ferite e ustioni corre disperato. È in stato di shock.

Dentro la banca bran-delli di corpi dappertutto, al-cuni sono ancora vivi, urlano, chiamano la mamma. Ci sono persone che sono state lette-ralmente liquefatte. 16 morti, più 1 altro a seguito dei traumi riportati quel giorno. 86 feriti, tra cui un bambino che riversa in gravi condizioni; si salverà ma vivrà per sempre senza una gamba.

Da quel giorno in poi, le stragi di stato si riconoscono anche per i cliché inaugurati da inquirenti e depistatori. Prima si pensa all’esplosione di una caldaia (ipotesi riciclata anche per la strage di Bologna) poi tocca agli anarchici (eterno jol-

ly della polizia politica) il mo-tivo per cui vengono sempre tirati fuori dipende anche dal fatto – questa storia ne è una dimostrazione – che alcuni militanti dell’estrema sinistra altro non sono che agenti in incognito o semplicemente degli squilibrati manovrati, te-nuti sotto osservazione, a cui si lascia fare. Magari il sospetto che qualche pesce ti scivoli dal-le mani resta. Se poi si mette di mezzo una parte deviata dello stato, le cose si complicano.

Lo stesso giorno, alla stessa ora, scoppiano altre tre bombe a Roma; due nell’altare della patria e una in una banca. In tutto 18 feriti e nessun mor-to. Una quinta bomba viene trovata invece, sempre a Mila-no, nella Banca Commerciale della Scala. Verrà fatta scop-piare altrove dagli artificieri, vanificando ogni possibilità di raccogliere indizi importanti.

« Ci dispiace, cose che capitano ».

E’ un periodo caldo. Ad un anno dal ‘68, la DC ha già dovuto cambiare tre governi. Forse gli autori di questi atten-tati si aspettavano la creazione di uno stato di emergenza che preparasse il terreno per un golpe. Solo ipotesi, illazioni. Sta di fatto che come da copione si indaga subito sugli anarchici. 150 militanti di estrema sini-stra vengono arrestati, le loro abitazioni perquisite. Forse un eventuale golpista si sarebbe aspettato arresti più massic-ci in tutta Italia? Chi l’avrebbe detto che il pressapochismo delle istituzioni potesse rive-larsi una valida arma contro minacce autoritarie.

Il vice commissario Lui-gi Calabresi interroga i militan-ti del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, in Via Scaldaso-

“gli autori di questi attentati si aspettavano la creazione di uno stato

di emergenza che preparasse il terreno per un golpe”

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Il commissario Luigi Calabresi

L’anarchico Giuseppe Pinelli

Pietro Valpreda

Mario Merlino

le. Sono caricati tutti su di un cellulare della polizia politica (odierna DIGOS); Giuseppe Pi-nelli, il più anziano del gruppo, li segue in moto. Gran parte di loro verranno trasferiti imme-diatamente in carcere. Pinel-li verrà trattenuto tre giorni, quando muore il suo fermo era scaduto già da 24 ore.

« Ci dispiace, cose che capitano ».

Che si fosse buttato dalla finestra di sua iniziativa o che lo avessero aiutato nella decisione poco importa. Sap-piamo per certo che se Pinelli fosse stato rilasciato a mandato scaduto, se gli fosse stato con-cesso di dormire, non sarebbe successo. I responsabili impu-niti di questa – nella migliore

delle ipotesi – induzione a sui-cidio sono i carabinieri Sabino Lograno (tenente) e i brigadieri Mainardi, Mucilli, Caracuta e Panessa. Anche Calabresi ha la sua quota di responsabilità, “non essendosi accorto” dello scadere del fermo. Inoltre si è tentato di mettere pesante-mente in crisi lo stato mentale di Pinelli facendogli presente una fantomatica confessione del compagno Pietro Valpreda.

Sospettato anche per i precedenti attentati (le bombe del 25 aprile 1969 e gli atten-tati ai treni dell’estate 1969) Valpreda viene prelevato con la forza – in modo del tutto gratuito – senza la possibilità di chiamare un avvocato. Come del resto è capitato anche a Pinelli e ai suoi compagni. Ave-va fondato il circolo 22 marzo. E’ lo stesso nome del circolo i cui militanti si occuparono del-la Strage di Gioia Tauro. (cfr. articolo di Fabio Cuzzola, pag. 28) Ma le somiglianze non fi-niscono qui, infatti in entram-

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Stefano Delle Chiaie: Avanguardia Nazionale

Giovanni Ventura

23

bi i circoli risulterà un infiltra-to della destra eversiva, con tanto di precedente presenza ad una delegazione, guidata da Pino Rauti, nella Grecia dei Colonnelli. Nel caso del circolo di Valpreda si tratta di Mario Merlino. Altre illazioni, colpi di paranoia. Può darsi.

Siamo al 16 dicembre, per un giovane Bruno Vespa non ci sono dubbi: è stato Val-preda, sbraita entusiasta per lo scoop. Non è il solo. Tutta la stampa si allinea in questa campagna denigratoria. Il gior-nalista Giorgio Zicari del Cor-riere della Sera è il più zelante, sempre sul pezzo, sembra qua-si che anticipi le mosse degli in-quirenti. Infatti, come si scopri-rà in seguito, Zicari è un uomo dei servizi segreti. Il tassista Rolandi viene chiamato per un confronto all’americana: Val-preda è stravolto dagli inter-rogatori, i vestiti sgualciti, non ha potuto nemmeno radersi. Gli altri accanto a lui sono tutti poliziotti della politica, rasati di fresco in giacca e cravatta. A Rolandi era stata fatta già vedere una foto di Valpreda, che a quanto pare presentava qualche somiglianza con l’at-tentatore da lui trasportato. E’ così che verrà incastrato.

Nel circolo di Valpre-da oltre a Merlino, ex fascista – conoscente di Stefano Delle Chiaie (Avanguardia Naziona-le) col quale partecipò alla già citata delegazione in Grecia – troviamo anche Andrea Ippoliti (poliziotto infiltrato) e Serpieri, uomo del SID, l’organo che co-ordina i servizi segreti.

« Embé? ».

Nonostante Valpreda avesse un alibi (era a letto ma-lato, con l’influenza cinese) e ci fossero chiari elementi che invalidassero il metodo del ri-conoscimento, si perdono due

anni preziosi. Fa pensare che proprio Giorgio Zica-ri – il giorna-lista sempre sul pezzo – è colui che aiu-ta fortemente questa svolta delle indagini, trovando il de-posito d’armi che sarebbe stato usato dagli attenta-tori (come ve-dremo dopo, si trattò di una segnalazione di Marco Poz-zan) e lo stesso tassista Rolan-di. Eppure in questo mare conformista della stampa italiana diver-si intellettuali come Bocca, Pansa, Staia-no, e diversi altri, non ci stanno e per la prima volta pronunciano il concetto di “Strage di Stato”.

La vera svolta alle inda-

Misteri di Stato

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Pino Rauti: Ordine Nuovo. Il suo nome com-pare sempre.

Junio Valerio Borghese: Capo del Fronte Nazio-nale. Secondo la pista golpista potrebbe essere sta-to uno dei mandanti della strage.

gini (ed è questo un bivio im-portante senza il quale Valpre-da sarebbe ancora in galera) si deve al professore trevisano Guido Lorenzon, segretario lo-cale della DC. È amico di Gio-vanni Ventura, piccolo editore di estrema destra. Questo gli confida di essere implicato nelle bombe ai treni, così gli rivela di essere stato lui ad aver messo la bomba di Piaz-za Fontana. Secondo Ventura il suo gruppo stava preparando un golpe militare. Questi dati sono corroborati dall’indagine parallela che sta nel frattempo svolgendo il commissario Iulia-no nei confronti di due amici di Ventura; Franco Freda (della Li-breria Ezzelino) e Massimiliano Facchini (consigliere del Movi-mento Sociale). Iuliano arriva a loro dopo aver sor-preso un loro militan-te in possesso di una granata. Questo però accusa il commissario di avergliela fornita un suo uomo davanti all’ingresso di casa. Scatta una campagna denigratoria per mezzo stampa anche contro Iuliano, che nel mentre viene sospeso dal servizio. Il custode del palazzo dove risiede il mili-tante, il carabiniere in pensio-ne Alberto Muraro, scagiona il commissario, sostenendo di aver visto il ragazzo uscire sen-za incontrare nessuno. Questo in un secondo momento ritrat-ta, ma il magistrato non gli cre-de e lo convoca ugualmente. Due giorni prima di presentarsi per essere interrogato, Muraro cade dalla tromba delle scale e muore.

« Ci dispiace, cose che capitano ».

Intanto Iuliano viene reintegrato e trasferito lonta-no, molto lontano.

L’universo dei movi-menti di estrema destra era

molto variegato, tre domina-vano su tutti: il Fronte Nazio-nale di Junio Valerio Borghese; Ordine Nuovo di Pino Rauti; Avanguardia Nazionale di Ste-fano delle Chiaie. Sappiamo che un anno dopo Borghese tenterà un colpo di stato (cfr. articolo di Igor Carta, pag. 34). Tutti questi gruppi si ispirano al regime dei colonnelli in Grecia. Nel 1965 l’Istituto Luigi Polio per gli Affari Strategici tiene un convegno sulla minaccia del comunismo. Ci sono an-che Merlino e Rauti. Si parla anche di una eventuale cintu-ra di regimi fascisti che unisse i governi di Lisbona, Spagna, Italia e Grecia. Il convegno è finanziato dal SIFAR (di origine mussoliniana, venne acquisito dagli americani l’8 settembre

1943 e riorganizzato nel marzo 1949; sciolto ufficialmente nel 1965, ma attivo ancora fino al ‘66, verrà rimpiazzato dal SID) e dallo Stato Maggiore della Difesa.

Gladio, NATO, SID, CIA. Organizzazioni che si compe-netrano come in una matrio-sca.

Nel 1951 in tutti i pa-esi della NATO viene attua-to il piano denominato Stay Behind. Ribattezzato dai servizi italiani come Gladio. E’ qualco-sa di più, una organizzazione di mezzi e persone. In Italia il piano si concretizza nel 1956 con un accordo tra il SIFAR e la CIA. Doveva arruolare di-versi volontari di provata fede anticomunista; da addestrare per una eventuale guerriglia e azioni di sabotaggio in difesa dello status quo. Emblematica

la scelta del nome Gladio, dal momento che il SIFAR è com-posto da ex-fascisti ed il gladio sostituiva le stellette nelle divi-se dei militari della Repubblica di Salò.

Il gene-rale De Lorenzo, capo del SIFAR arruolerà più di 600 gladiatori – il numero esatto

“Secondo Ventura il suo gruppo stava preparando un

golpe militare”

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Junio Valerio Borghese: Capo del Fronte Nazio-nale. Secondo la pista golpista potrebbe essere sta-to uno dei mandanti della strage.

Il neonazista Franco Freda in aula per il processo sulla strage di Piazza Fontana

25Misteri di Stato

non lo sapremo mai – proba-bilmente erano molti di più. Dal momento che si temeva una eventuale invasione so-vietica, tenendo conto anche del fatto che in Italia esisteva il più potente partito comunista dell’Occidente e che registras-se un avanzamento nei con-sensi elettorali, il punto ideale dove raccogliere risorse umane era il Nord Est, in diretto con-tatto con la Cortina di Ferro. Tra il 1959 ed il ‘63 è proprio in queste regioni che verranno allestiti il maggior numero di depositi d’armi di Gladio. Se-condo Indro Montanelli queste erano « custodite in conteni-tori a chiusura ermetica … Si trattava di fucili automatici, esplosivi, munizioni, bombe a mano, pugnali, mortai da 60 millimetri, cannoncini da 57 millimetri, radio riceventi e trasmittenti … Gladio avrebbe

dovuto operare in sei bran-che: informazioni, sabotaggio, propaganda e resistenza ge-nerale, radiocomunicazioni, cifra, [criptazione e decripta-zione (Nda)] sgombero di per-sone e materiali. Una “base esterna di ripiegamento” era stata approntata in Sardegna » (cfr. Montanelli, Cervi, Storia d’Italia del Novecento, Fabbri Editori, 1998, pag. 445. Gras-setto e quadre del sottoscrit-to). Questi depositi venivano denominati Nasco, si stima che fossero in tutto 139, di questi ne verranno scoperti 127. Di tutti gli altri non si sa niente; alcuni possiamo immaginare come sono stati utilizzati.

Curiosa la presenza dell’ex nazista Garrin Serrac in Italia in quei giorni. Dirige la AGI Interpress a Lisbona, uffi-cialmente una agenzia di stam-

pa, in realtà si trattava di una cellula della CIA. Non è l’unica stranezza; a Castel Franco Ve-neto, in un edificio in ristruttu-razione, viene trovato uno di quelli che solo oggi conoscia-mo essere uno dei 139 Nasco di Gladio. In questo locale si trova un istituto per ciechi di-retto da Marco Pozzan il quale fa delle rivelazioni importanti: secondo lui le armi sarebbero appartenute a Giovanni Ventu-ra, nel suo istituto sarebbero avvenuti degli incontri dove si pianificarono gli attentati ai treni a Milano e a Roma. Tra i presenti spiccano i nomi di Pino Rauti (che riesce a fornirsi un alibi grazie alla testimonian-za dei colleghi di redazione) e di un fantomatico giornalista. Salta fuori poi, che Franco Fre-da risulta aver acquistato 60 timer per lavastoviglie, identici a quelli usati per gli attentati.

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“si può ipotizzare anche una guerra nei servizi; il SISMI e la CIA contro pezzi deviati dell’ex

SIFAR e del SID”

Si tratta dello stesso Freda su cui indagava il commissario Iu-liano.

« Che volesse converti-re la sua libreria in una lavan-deria? ».

Non solo, gli inquiren-ti si mettono anche a indagare riguardo le valigie utilizzate. Le Mosbach & Gruber sono valigie molto pregiate, non se ne trovano tante in giro. Ven-gono fabbricate in Germania. Così lavorando per esclusione salta fuori che una partita di cinque valigie (quattro nere e una marrone) risultano es-sere state acquistate da una stessa persona in un negozio di Padova. Quando contatta-no il negoziante questo sa già perché si interessano a quella vendita, che lui ben ricorda, anzi, erano anni che aspetta-va quella telefonata! Aveva già fatto tre anni prima una segna-lazione alla polizia, che rima-se inascoltata. Eppure agenti della polizia politica andarono

a sentirlo; probabilmente solo per assicurarsi che quel detta-glio non fosse divulgato. Il loro rapporto però esiste ancora, era rimasto a fare la polvere negli archivi dell’ufficio affa-ri riservati. Intanto Giovanni Ventura crolla e comincia a parlare. E’ in possesso di do-cumenti dei servizi segreti e a quanto sostiene sarebbe stato ingaggiato da un certo Agente Z. Si tratta del giornalista Guido Giannettini, (quel fantomatico giornalista di cui parla Marco Pozzan, dell’istituto per ciechi) autore assieme a Pino Rauti del saggio “Le mani rosse sulle forze armate” ed era presente anche lui al convegno tenu-to dall’Istituto Polio all’Hotel dei Principi. Sarà Andreotti a bruciarlo assieme ad un altro collega, quel Zicari del Corriere di cui abbiamo già accennato. Dopo tre anni di buio totale una improvvisa ventata di indi-zi e prove, che si corroborano tra loro, ma presentano ancora numerose falle. Una sola cosa è certa: gli attentati sono opera di militanti neofascisti appog-giati da pezzi deviati dei servizi segreti. Pino Rauti è – nei limiti di quel che sappiamo – moral-mente responsabile.

Sia Pozzan che Gian-nettini spariscono nel nulla. Non è una magia, si tratta di una prassi che nel gergo dei servizi si chiama esfiltrazione (il contrario di infiltrazione) ad effettuarla sarà Antonio La Bruna, capitano dei servizi, di-rige la Turris Cinematografica a Roma. Solo una copertura.

Il processo si apre nel

1977 e si protrarrà fra alti e bassi fino al 2004 senza con-cludere niente. Restano in carcere Freda e Ventura, ma solo per gli attentati ai treni. Si può ipotizzare a questo punto che prima di Piazza Fontana questi gruppi facessero azioni spontanee, che gli hanno fatto conquistare – volenti o nolenti – l’attenzione dei servizi e degli uomini di Stay Behind.

Intanto il giudice Guido Salvino conduce una inchiesta su Ordine Nuovo, movimento dal quale Pino Rauti si era nel frattempo allontanato.

« Torni a bordo cazzo! ».

Entra in gioco un nuo-vo personaggio ex ordinovista; Vincenzo Vinciguerra, che sta in galera, perché reo confesso della strage di Peteano, com-piuta assieme a Carlo Cicuttini nel 1972. Fece quell’attentato perché in polemica con la linea intrapresa dai suoi camerati, i quali avevano legami con pezzi delle istituzioni. Effettivamente è molto strano (ma comodo e remunerativo) pretendere di fare la rivoluzione a braccetto coi carabinieri. Vinciguerra fa i nomi di altri agenti dei servizi, infiltrati dentro Ordine Nuovo. Uno di questi è Martino Sicilia-no, esfiltrato a Parigi dal ‘79. Lo trovano e confessa di esse-re stato un agente del SISMI, il servizio di controspionag-gio militare. L’altro agente era Carlo Di Giglio, nome in codice Erodoto, informatore della CIA. Aveva come copertura la quali-fica di dirigente del poligono di

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27Misteri di Stato

Mestre, si sa anche che fosse esperto di esplosivi. Anche lui non si fa pregare ed ammette il suo ruolo.

Ora le cose si fanno più interessanti, ma anche più complicate, nel senso che si può ipotizzare anche una guer-ra nei servizi; il SISMI e la CIA contro pezzi deviati dell’ex SI-FAR e del SID assieme ai prin-cipali movimenti eversivi di estrema destra. Oppure i pri-mi avrebbero inquinato questi ultimi facendogli credere – a più riprese – della possibilità di attuare un colpo di stato. Col semplice scopo di gettare l’opinione pubblica nello scon-forto, spingendoli a volgere le preferenze elettorali verso i partiti moderati, isolando gli estremismi opposti. Evidente-mente tanto una dittatura co-munista (credibile a malapena solo nel primo ventennio del dopoguerra) quanto una fasci-sta in Italia, non erano ben visti all’interno della NATO. Cioè da-gli americani.

A questo punto entra-no in scena gli ultimi personag-gi. Edgardo Bonazzi, in galera per l’omicidio di un membro di Lotta Continua si sente con Giannettini durante l’ora d’a-ria nel penitenziario di Nuoro,

questo gli avrebbe confidato che a mettere la bomba a Piaz-za Fontana, come nei treni, sa-rebbe stato Delfo Zorzi. Questo personaggio verrà ripescato dagli inquirenti anche per la bomba alla stazione di Bolo-gna, dove oltre al cliché della caldaia troviamo anche quello dalla valigetta esplosiva. Certo si può pensare che dietro le due stragi ci siano uno o più autori in comune. Quello su cui non ci capacitiamo è come un agen-te dei servizi come Giannettini sia così ingenuo da confidare cose del genere a un ergasto-lano. C’è da dire comunque che le rivelazioni di Bonazzi sono corroborate da quelle di Di Giglio, l’informatore CIA. E ancora ci chiediamo se sia un lavoro di controspionaggio pu-lito, o se va inteso nell’ottica di un inquinamento informati-vo, come già ipotizzato sopra. Zorzi dal ‘74 vive in Giappone a Tokyo, è un miliardario ed ha la cittadinanza giapponese dal 1984, ha cambiato il suo nome in Hagen Roi. Con lui vengono imputati anche gli ex ordinovi-sti Carlo Maria Maggi e Gian-carlo Rognoni. Condannati all’ergastolo nel 2001 e assolti nel 2004. La sentenza ricono-sce comunque la connivenza di tutti gli organizzatori e parteci-panti del convegno dell’Istituto

Delfo Zorzi ieri e oggi: accusato di essere stato lui a preparare le bombe di Piazza Fontana e della stazione di Bologna

Polio. Freda e Ventura restano gli unici colpevoli, ma essendo stati già assolti in via definitiva non si possono più condanna-re. Per la legge sono respon-sabili solo delle bombe ai treni che precedono quelle a Milano e Roma.

Sono ancora vive, e ri-verite, le persone che possono dare una vera svolta alle inda-gini stabilendo una volta per tutte quel che è successo, per non parlare di tutti gli uomini dei servizi che contribuirono ai vari depistaggi. Non succederà mai, perché questo è il paese dove « la verità è l’unica ragio-ne di stato ». Ed effettivamen-te più si conosce la verità, più brillante sarà la carriera politi-ca. La verità di per sé prescinde da ogni cosa. Il problema sta nell’uso e negli interessi impli-citi.

Nel modo di divulgarla.

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Il 22 luglio del 1970, pochi giorni dopo l’esplosione violenta del-la Rivolta di Reggio Calabria, alle ore 17.10, a settecentocinquanta metri dalla stazione di Gioia Tauro deraglia il Palermo-Torino, il Treno del Sole, che carico di passeggeri risale la penisola ripor-tando in Piemonte centinaia di emigranti che avevano goduto della prima fase delle vacanze. Il deragliamento avviene all’altezza della zona scambio, questo particolare indurrà subito a pensare ad una sciagura ferroviaria. Sul colpo muoiono sei passeggeri, sessantasei rimangono feriti, dodici di essi sono in gravi condizioni.

Gioia Taurola strage dimenticata

Fabio Cuzzola

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29Misteri di Stato

Al momento del disastro, il convoglio che trainava ben diciassette va-goni, viaggiava ad una velo-cità vicina ai 100 km. Orari. Le indagini condotte dalla procura della Repubblica di Palmi, e seguite dal sostituto procuratore Paolo Scopelliti, sembrano non lasciare spazio a dubbi. L’ipotesi di un disastro ferroviario sembra quella più convincente. Carrera Emilio, Iannelli Riseppe, Guido Ema-nale, Crea Francesco, dipen-denti delle ferrovie dello stato e macchinisti del convoglio, vengono imputati di omicidio colposo e plurimo. Parallela-mente all’inchiesta giudiziaria, proprio le ferrovie procedono con una propria indagine inter-na. Il tribunale di Palmi nomina un collegio peritale di esperti, e fa richiesta di una perizia ba-listica, affidata al generale di brigata Antonio Mannino e al professor Giuseppe Ortese:

“Questa è la via che ha portato alla conclusione unani-me che la più probabile causa che ha dato luogo all’incidente di Gioia Tauro sia stata causa estranea all’esercizio ferrovia-rio e più concretamente allo scoppio di una carica esplosiva dolosamente posta nei pressi del binario.” 1

Un mese dopo viene depositato anche il risultato dell’indagine amministrativa che già il 1 giugno del ‘71 affer-ma con chiarezza:

“ la commissione in-quirente sottoscritta, esami-nate tutte le possibili ipotesi in base agli elementi di giudizio raccolti dichiara che:;

- che non sussistono

1

Atti dell’indagine sulla Strage di Gioia Tauro, doc. Napoli 1 giugno del 1971

responsabilità a carico del per-sonale ferroviario, di stazione, di macchina, di scorta e della linea;

- che fra le ipotesi esa-minate la più congrua è quella che fa risalire la causa dell’in-cidente ad un fatto anomalo e doloso, connesso con i disordi-ni che, all’epoca turbarono la città e la provincia di Reggio Calabria.”2

Non è trascorso nep-pure un anno e l’ipotesi che sembra chiara da subito a tutti, ovvero una strage, vie-ne debitamente insabbiata. Sarà Lotta Continua il primo movimento che in ordine di tempo collegherà l’episodio di Gioia con la morte misteriosa dei cinque giovani anarchici che per altre vie avevano fat-to luce sulla strage.3 Di quelle strane manovre che portarono a nascondere la strage, ne rese testimonianza due giorni dopo anche il giornalista, specialista ferroviario del Corriere della Sera, Mario Righetti:

“Purtroppo con il tra-scorrere delle ore si fa strada negli inquirenti un atroce so-spetto che non è basato uni-camente su uno stato d’animo, comprensibile del resto dopo 2

Sentenza della Corte di As-sise di Palmi n° 3/96 del 27/2/2001 3

Lotta Continua del 5 no-vembre 1972; per L’Avanti si veda l’articolo: Riprende il lavoro a Reggio C. ma i fascisti non disarmano” del 7 agosto del 1970.

i ripetuti rinvenimenti di can-delotti di dinamite lungo i 35 chilometri che separano la sta-zione di Gioia Tauro da quella di Villa San Giovanni. C’è di più: si tratta di una scoperta che è stata fatta quasi casualmen-te poche ore dopo il disastro: Circa duecento metri dal pun-to in cui il “Treno del sole” è uscito dai binari, un chilometro e mezzo prima della stazione prima della stazione di Gioia Tauro, c’è un piccolo ponte di ferro. Si tratta di un’unica tra-vata metallica, lunga 18 metri, la quale è ancorata alle spalle di calcestruzzo mediante alcuni grossi bulloni.

Questi bulloni sono stati trovati allentati e per que-sta operazione sono necessa-ri tempo ed una attrezzatura adatta, perché si tratta di bul-loni fortemente stretti ai perni. E’ evidente che il ponticello in ferro è stato sabotato e i tecnici ferroviari si chiedono come ab-biano potuto passare su di esso vari convogli senza uscire dai binari. La gravissima scoperta è stata comunicata alle autori-tà e al magistrato che sta con-ducendo l’inchiesta. Sono stati informati anche i ministri degli Interni e dei Trasporti.”4

La mattina successi-va alla comparsa dell’articolo, Righetti è convocato dal capo-redattore del suo giornale, che gli dice: “Non mi hai fatto

4

Mario Righetti “Non si deve sapere che è un attentato “ Corriere della Sera 24 luglio del ’70, oggi anche in Libertà di stampa anno zero.

“Sarà Lotta Continua il primo movimento che collegherà l’episodio di Gioia con la morte misteriosa dei cinque giovani anarchici che per altre vie avevano

fatto luce sulla strage”

Page 30: il Petardo N°6

Gli Anarchici della Baraccca. Uccisi molto probabilmente dagli stessi autori della strage. Stavano infatti indagando su quanto accaduto a Gioia Tauro.

dormire per tutta la notte. Ma cosa ti è saltato in mente di scrivere. Adesso comunque di-menticati di Gioia Tauro e non ne parliamo più.” Non è dato sapere cosa accadde in quella notte a Via Solferino, fatto sta che nella seconda edizione un nuovo articolo sulla vicenda in questione, ribalta l’ipotesi di Righetti, titolando in seconda pagina: “A Reggio Calabria fon-ti ufficiali escludono l’ipotesi di un atto doloso.” confermando così la versione ufficiale fornita dai carabinieri, “non esiste al-

cun elemento che autorizzi la presunzione di un atto doloso”.

Pesano sicuramente le parole del questore Santillo, che se da un lato si lascia an-dare a dichiarazioni del tono: “Non siamo ancora alla guerra civile, ma alla sua anticamera”,

dall’altro cerca di allentare la tensione affermando a riguar-do dell’episodio di Gioia: “Per carità non diffamiamo la Cala-bria!”. Fatto sta che a distanza di anni, al termine dell’inchie-sta condotta dalle Ferrovie, Righetti pubblicò sul Corriere un articolo dal titolo: “Perché si è conosciuta solo adesso la verità sull’attentato di Gioia Tauro”, dove fra l’altro afferma:

“Perché al cronista fu impedito di andare a fondo alla faccenda? Possiamo - ora che l’evento delittuoso appa-re oramai scontato - fare una rivelazione. Tre giorni dopo la pubblicazione dell’articolo sul Corriere, il 27 luglio, il sostitu-to procuratore della repubbli-

ca di Palmi, dottor Scopelliti, dispose telegraficamente che l’ufficio politico della questura di Milano interrogasse il gior-nalista autore del pezzo per sa-pere a quali fonti aveva attinto per formulare chiaramente l’i-potesi dell’attentato. Al tempo stesso il magistrato diffidava l’autore dell’ articolo a desiste-re da scrivere ulteriori pezzi se non voleva essere incriminato seduta stante per diffusione di notizie tendenziose a turbare l’ordine pubblico. Del colloquio, che chi scrive queste righe ebbe con il funzionario dell’uf-ficio politico della Questura di Milano, fu redatto verbale alla procura di Palmi.

Superfluo aggiungere che il giornalista rifiutò di fare il nome delle persone presso le quali aveva attinto le notizie re-lative al disastro ferroviario.”5

Pressioni che hanno contribuito per anni ad offu-scare la ricerca della verità.

Testimonianza di quanto acclarato al tempo, e poi tenuto debitamente nasco-sto, è un episodio che ha visto protagonista il giudice Macrì. Il procuratore antimafia, impe-gnato nella seconda metà degli anni novanta nell’operazione Olimpia, richiede al Ministero degli Interni il faldone della documentazione riguardante Gioia Tauro nell’ambito delle inchieste che partendo dal-lo strano incidente nel quale morirono gli anarchici reggini, conduce direttamente al filone della Strage di Stato. Sul dor-so del fascicolo la scritta che classifica i documenti, e l’ama-ra sorpresa: “ 22 luglio 1970:

5

Righetti Mario op. cit.

“Non siamo ancora alla guerra civile, ma alla sua anticamera”

Page 31: il Petardo N°6

31

Strage di Gioia Tauro” .

Trenta anni di silenzio!

Conclusioni che ribal-tano le ipotesi avanzate in un primo momento che, come ab-biamo visto, vedevano indagati per disastro colposo i macchi-nisti e che sono state accura-tamente celate nell’immedia-tezza dei fatti e poi mai rivelate neanche con il trascorrere de-gli anni. Sul luogo al momento dell’accaduto, accorrono preci-pitosamente da Reggio il que-store Santillo e il procuratore di Palmi Scopelliti, la scena del caos manda su tutte le furie il funzionario di polizia, già alle prese con la rivolta. Santillo dall’alto della sua esperienza ha capito cosa è successo. La chiave di volta per la ricostru-

zione

dei rapporti fra la ‘ndrangheta e la politica è rappresentata dal corpus di dichiarazioni ri-lasciate dal pentito Giacomo Ubaldo Lauro, proprio a riguar-do della strage del Treno del Sole.

“Io sono stato arre-stato nel settembre del 1970 proprio in rapporto ai moti di Reggio Calabria, sono stato preso in questa morsa in quan-to “battezzato” ed ero scritto alla Federazione Giovani Ita-liani Comunisti, con tanto di tessera.

Io di estrazione ero socialista, ma poi ovviamente quando uno fa un giuramento alla ‘ndrangheta e viene un saggio compagno di ‘ndran-gheta vale di più quel giura-mento che gli altri.

Sono uscito dopo ven-titre giorni all’epoca fui co-

stretto diciamo ad aderire a questo patto tra la destra

eversiva e la mafia, per-chè nella mia posizione di malandrino non mi

potevo permettere di dire di no.”6

Il pentito Lauro è un ciclone che si abbatte sulla politica locale del pa-norama calabrese; quando le sue dichiarazioni vengo-

no rese pubbliche scatena-no una serie di querele, prese

di posizione e veleni, che han-no caratterizzato il proseguio

delle indagini giudiziarie e dei processi susseguitisi per

la strage di quel 22 luglio. Negli anni, storici ed osservatori si sono sof-fermati sulla rivolta di Reggio senza spie-

6

Giacomo Ubaldo Lauro. Vebale dell’interrogatorio del 16.11.94 DIA Reggio Calabria.

garsi come fosse stata possi-bile un’organizzazione di mas-sa al sud di quella portata, in grado di tenere testa allo stato centrale per così tanto tempo. Le nuove testimonianze acqui-site a metà degli anni novanta hanno fatto luce anche in que-sta direzione, dando corpo a quanto era già noto nella vul-gata popolare.

“I finanziatori erano il Commendatore Mauro ed Amedeo Matacena (....), a me risulta che davano i soldi per le azioni criminali per la ricer-ca delle armi e dell’esplosivo. Esplosivo, esplosivo noi gli da-vamo, le armi le avevano.

Esplosivo che pur-troppo nell’occasione di Gioia Tauro.....ho procurato io nella quantità di 50 chilogrammi.

Io l’ho consegnato a Ciccio Silverini a Giovanni Moro e Vincenzino Caracciolo e vi dirò che ho preso all’epo-ca tre milioni ed altri due se li sono divisi tutti e tre.”7

Tritolo, gelignite, mic-ce e polvere da sparo, insom-ma tutto quanto era necessa-rio per terrorizzare chi si fosse schierato contro l’onda d’urto del Comitato d’Azione, veniva dai rifornimenti della crimina-lità organizzata. L’elenco degli attentati è un triste rosario di bombe, cominciato come già visto prima dei moti, la cui re-ale paternità è stata rilevata solo in tempi recenti.

Agli anarchici reggini, “capri espiatori di professio-ne” come avrebbe detto Daniel Pennac, sono stati attribuiti gli attentati del ’69 in città, quando in una notte saltarono in aria la Standa e un’ala della parrocchia di San Brunello. An-cora oggi nonostante siano sta-7

Ibidem

Misteri di Stato

Angelo Casile. Uno degli “Anarchici della Baracca“.

Page 32: il Petardo N°6

ti accertati gli esecutori di quei misfatti, persiste una memoria distorta di quell’epoca, dando credito a quel vecchio adagio che recita: una bugia ripetuta per mille volte finisce con l’es-sere recepita come una verità. Questo meccanismo diventa più efficace nel distorcere la verità, quanto più mancano per tanti anni verità storiche e giudiziarie chiare. Solo le re-centi attività giudiziarie hanno consentito di venire a capo di una vera e propria strategia del terrore che ha segnato le notti

reggine della rivolta.

La ‘ndran-gheta al servizio dei moti è pronta a gio-care il suo ruolo sporco di mano-valanza. Le sedi del PCI, della DC e del PSI, sono nel mirino del tritolo, e dopo un primo perio-do vengono pre-sidiate giorno e

notte. La stra-ge di Gioia

Tauro è l’e-p i s o d i o

s p a r -t i a c -

q u e

della rivolta, un punto di non ritorno che indurrà molti nel tempo a credere di potersi fare ascoltare alzando il prezzo del terrore. La ‘ndrangheta inve-ce si muove, con progetti di azione immediata e di lunga prospettiva per garantirsi già un ricambio di potere nel dopo rivolta:

“ Glielo dato io l’esplo-sivo, la bomba al treno sulla

tratta di Gioia Tauro, a moti inoltrati, non so erano passa-to qualche mese dai moti, due mesi, non ricordo la data pre-cisa.

La bomba è stata messa da Silverini Vito e Vin-cenzo Caracciolo.

Mi dissero che non era loro intenzione far saltare il treno, ma far saltare i bina-ri e che per pura fatalità suc-

cesse il disastro que-sto mi risposero, ma credo che rimasero male pure loro per-chè era un treno

passeggeri.”8

Un riscontro incrocia-to a quello del Lauro, viene da Carmine Dominici, storico pen-tito del neofascismo ed appar-tenente nel ’70 al gruppo diri-gente reggino di Avanguardia Nazionale. Dominici ha confer-mato le confidenze sull’episo-dio ricevute da Vito Silverini ed ha aggiunto altre notizie in suo possesso su tale attentato:

8

Giacomo Ubaldo Lauro

“In merito al disastro di Gioia Tauro del 22.7.1970, posso confermare che non si trattò di un errore dei ferrovie-ri, ma di un attentato ricondu-cibile all’ambiente dei “Boia chi molla”.

Quella sera eravamo a Reggio Calabria ed arrivarono dalla zona di Goia Tauro Vito Silverini, detto Ciccio il biondo, e Giuseppe Scarcella i quali ad-dussero quale motivo della loro presenza in quella zona a delle riunioni politiche.

Nell’ambiente vi furo-no insistenti voci circa una loro corresponsabilità nell’episodio.

Entrambi ora sono de-ceduti.

Posso anche dire que-sto e cioè che nel 1979 io mi trovavo detenuto a Reggio Ca-labria nella cella n.10 insieme a Giacomo Lauro, Silverini ed altri due calabresi, entrambi poi uccisi per vicende di mala-vita comune.

Page 33: il Petardo N°6

33Misteri di Stato

Restammo insieme in carcere per circa 11 mesi. Sil-verini, ad un certo momento, ci disse che era stato lui a com-piere l’attentato di Gioia Tau-ro in un contesto in cui io gli parlavo delle mie motivazioni politiche ed egli rispose che anche lui faceva riferimento in parte alla politica ed al movi-mento dei “Boia chi molla” per conto dei quali egli aveva fatto l’attentato.”9

La concitazione all’ar-rivo della notizia della strage, lascia intendere non solo il cli-ma di confusione e panico in atto a Reggio ormai dal 14 di

luglio; tuttavia avvengono una serie di episodi ancora

oggi inspiegabili.

“Quando si sep-pe la notizia, immedia-tamente, io mi trovavo

al Roof Garden e lì arrivò con il cuore in gola Gau-

dio, (capo della squadra mobile di Reggio Calabria) dicendo: Hanno messo una bomba!! Hanno messo una bomba a Gioia Tauro!! Ci sono decine di morti!! Nello stesso tempo arrivò il Questore Santillo, che

poi io non mi spiegai perchè arrivarono al Roof

Garden, questo non me lo sono mai spiegato. Poi da lì sul-le macchine partimmo tutti, mi recai pure io verso Gioia Tauro, ma poi girai la macchina e me ne tornai.”10

Lo stesso pentito Lau-ro riesce a ricostruire i tasselli dell’accaduto solo dopo vari anni:

“Nel 1979 ero in car-cere con Silverini, mi raccontò

9

Carmine Dominici10

Giacomo Ubaldo Lauro

che aveva portato la bomba insieme a Vincenzo Caracciolo sulla moto ape di quest’ultimo e che li stesso aveva confezio-nato l’ordigno, composto da candelotti di dinamite con ac-censione a mezzo miccia.

Silverini era pratico della preparazione di ordigni esplosivi, perchè come lui stes-so mi aveva detto, aveva fat-to il militare presso il Genio di Bolzano.

Mi disse che si era na-scosto nei pressi del luogo ove aveva collocato la bomba per vedere gli effetti della stessa e di aver visto il Questore San-tillo, giunto poi sul luogo, che gridava infuirato.

L’attentato era avve-nuto in ore diurne e cioè nel pomeriggio, tra le 16 e le 18, e questo aveva consentito a lui e a Caracciolo di osservare senza difficoltà dall’alto la scena.”11

Ed anche a quanti han-no mosso dei dubbi sulla sua credibilità, peraltro confer-mata dalle inchieste, Lauro ha ribattuto con decisione, lan-ciando anche accuse a quanto allora servitori dello stato, con motivazioni varie, hanno ten-tato di nascondere la verità:

“Nessuna rivendica-zione, ma la rivendicazione l’hanno fatta le istituzioni, fino all’ultimo dicendo: Ma quale bomba? Ma che dite?, Quali idiozie dite? Qui ci sono le peri-zie che è stato un deragliamen-to dovuto all’alta velocità!!”12.

Di certo c’è che allo stato attuale, si sono celebrati due processi per la strage di Gioia Tauro.

11

Ibidem12

Ibidem

Le sentenze hanno fat-to luce solo sugli esecutori ma-teriale dell’attentato, peraltro come noto deceduti, mentre nulla a riguardo della verità giudiziaria è stato confermato per quanto concerne i man-danti. In cassazione poi, il re-ato di strage non prescrivibile secondo il nostro codice pena-le, è stato derubricato ad omi-cidio plurimo, confermando le condanne.

Un’altra beffa per le vittime di quel 22 luglio del 1970.

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Igor Carta

Golpe Borgheseprove tecniche di regime

Qualcuno, in seguito ed evidentemente dotato di poca lungimiranza lo ha chiamato “il golpe dei pen-sionati”, e con un nomignolo del genere vien subito da pensare ad un branco di attempati in vena di goliardate stile “Amici miei”. Ma a ben leggere i nomi dei sogget-ti coinvolti che emersero dalla successiva inchiesta lo capisce chiunque che quello che si tentò di attuare nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 fu il più serio tentativo di colpo di stato che si tentò di attuare nella storia itali-ana, almeno finché non si aprirà il minimo spiraglio in quello di cui parlò il presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi che venne tentato a suo dire nel 1993, durante il suo governo tecnico che precedette lo sciagurato ven-tennio berlusconiano.

Page 35: il Petardo N°6

35Misteri di Stato

Del “Golpe Borghe-se” o “golpe dell’Immacola-ta”, così è stato denominato dai più ragionevoli analisti, rappresenta uno dei tanti episodi, per la stragrande maggioranza, oscuri della storia italiana, quella repub-blicana in particolare, episo-dio che come tanti altri dà un’idea delle molteplici e poliedriche intelligenze che gestiscono il nebbioso sot-tobosco del segreto di Sta-to, servizi segreti nazionali e non, organismi paramilitari, massoni e quant’altro. Il pe-riodo è quello solito, quello in cui venne intrapresa la

cosiddetta “strategia della tensione”, il mezzo già pre-visto nell’immediato dopo-guerra per impedire la pre-sa del potere da parte del partito comunista che allo-ra era, quello italiano, il più forte dell’Europa occidenta-le. Il piano era già messo a punto ed i gruppi erano già stati creati nel 1969. Il pia-no prevedeva l’occupazione del Viminale, del Ministero della Difesa, il rapimento del Presidente della Re-pubblica Giuseppe Saragat e l’omicidio del Capo della Polizia Angelo Vicari. Grup-pi armati avrebbero dovuto inoltre impossessarsi delle sedi della RAI per permette-re la lettura, ad operazione avvenuta, del proclama da parte del promotore princi-pale dell’impresa, il principe

nero, Junio Valerio Borghe-se. Nome forte e rispettato, comandante di sommergibi-li e gruppi incursori durante la seconda guerra mondiale, comandante della X MAS dall’armistizio del 1943 al 1945, fondatore del movi-mento di estrema destra “Fronte Nazionale”; fu suo il famoso ordine che bloccò l’intera operazione mentre questa era in pieno svolgi-mento, un ordine di cui non si conoscono né motivazio-ne ne l’eventuale mandante. L’opinione pubblica venne informata dei fatti solo nel marzo del 1971. Il processo

iniziò nel 1977 e si concluse nel 1984 con l’assoluzione in appello di tutti i 46 im-putati “perché il fatto non sussiste”, ma nella sentenza venne comunque rilevato che l’accaduto “non fu cer-tamente riconducibile a uno sparuto manipolo di sessan-tenni”. Junio Valerio Bor-ghese se ne era già andato, morì a Cadice, in Spagna nel 1974, dove riparò nelle ore immediatamente successive al fallito golpe.

Il fatto che se ne parli poco non significa che fu un episodio da barzellet-ta, tantomeno in un paese come l’Italia, dovrebbe anzi stupire il contrario, ma visti i soggetti e le entità coinvolte si trattò certo di un fatto da non prendere sottogamba.

Difficile che un personaggio come Borghese, già vetera-no di guerra che ebbe certo il suo ruolo nella creazione di “Stay Behind”, e quindi in diretto contatto con i vertici militari, e di rimando del-la massoneria, si lasciasse coinvolgere in una impresa promossa in memoria dei bei tempi passati rimem-brando le gesta di D’Annun-zio a Fiume. E’ forte infatti il sospetto che Borghese potesse essere solo un mez-zo, ovvero un personaggio di calibro non indifferente posto come condottiero per garantire determinate ade-

sioni, dei militari in primis, e la riuscita del piano ma di cui eventualmente sbaraz-zarsi quanto prima a cose fatte. Oltre a Borghese, vi sono forti indizi che l’azio-ne godette dell’appoggio di Gladio, dei membri della P2 di Licio Gelli e dei verti-ci della mafia siciliana nelle persone dei boss Gaetano Badalamenti e Stefano Bon-tate, oltre che del silenzio assenso del capo del SID (Servizio Informazioni Dife-sa) generale Vito Miceli e di ambienti del Dipartimento di Stato americano. Stando alle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta furono i due boss ad ordinare il rapi-mento del cronista siciliano Mauro De Mauro, seque-strato nel settembre 1970 e mai più tornato a casa. De-

“Oltre a Borghese, vi sono forti indizi che l’azione godette dell’appoggio di Gladio, dei

membri della P2 di Licio Gelli e dei vertici della mafia siciliana”

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Il giornalista Mauro De Mauro, rapito nel settem-bre 1970. Aveva raccolto informazioni importanti riguardo i preparativi di golpe.

Stefano Delle Chiaie: Avanguardia Nazionale.

“All’operazione non mancò ovviamente l’appoggio degli altri movimenti di estrema

destra come Avanguardia Nazionale”

Mauro, ottimo cronista di cronaca ed ex combattente della Decima Mas era già nel mirino di Cosa Nostra per le sue indagini sulla morte di Enrico Mattei, ma la sua sorte sarebbe stata segnata dal presunto scoop sul golpe dell’Immacolata, su cui pare sapesse parecchio, e sul quale non mancò di vantarsi con i colleghi di redazione.

All’operazione non mancò ovviamente l’appog-gio degli altri movimenti di estrema destra come “Avan-guardia Nazionale”, fondato nel 1960 da Stefano Delle Chiaie, movimento già pro-tagonista degli scontri noti come “Battaglia di Valle Giu-lia”. Lo stesso Delle Chiaie venne accusato, al processo per il golpe dell’Immacola-ta, di aver guidato il primo manipolo di golpisti dentro il Viminale, accusa infonda-ta visto che lo stesso Delle Chiaie dimostrò che all’epo-ca dei fatti si trovava in Spa-gna. Il suo nome attirò nuo-vamente l’attenzione degli

inquirenti che indagavano sulle stragi di Piazza Fonta-na del 1969 di della stazio-ne Bologna del 1980. Per i fatti di Piazza Fontana su Delle Chiaie fu spiccato un mandato di cattura interna-zionale, visto che all’epoca faceva la spola tra Spagna e Sud America dove continua-va l’attività eversiva ed ebbe inoltre l’occasione di cono-scere il generale Pinochét. Estradato in Italia nel 1987 venne processato e assolto da tutte le accuse. Il giorna-lista Andrea Barbato disse di lui: “Lei è un imputato par-ticolare, o è un colpevole molto fortunato o è un in-nocente molto sfortunato”. Ai militanti di Avanguardia Nazionale si sarebbero ag-giunti anche quelli del già citato “Fronte Nazionale” di Borghese e del “Movimento Politico Ordine Nuovo”, fon-dato da Pino Rauti e poi pas-sato nelle mani di Clemente Graziani e Sandro Saccucci dopo il rientro di Rauti nel-l’MSI

Anche dagli am-bienti militari non mancò il supporto all’opera-zione, tra i luogote-nenti di Borghese vi erano il genera-le dell’Aeronautica Giuseppe Casero e il colonnello Giuseppe LoVecchio presero posizione nei pressi del Ministero della Difesa garantendo di avere il benplaci-to del Capo di Stato Maggiore dell’Aero-nautica, il generale Fanali. Il maggiore

Luciano Berti, alla testa di un gruppo di 187 allievi ca-detti del Corpo Forestale partì da Città Ducale e si ap-postò nei pressi della sede della RAI, azioni simili erano già previste a Venezia, Mila-no, Reggio Calabria, Verona, in Toscana ed in Umbria. Tutto sembrava pronto, si attendeva solo il segnale convenuto, quel “Tora Tora” ispirato dall’attacco giap-ponese a Pearl Harbour nel 1941, le sedi dei movimenti, il centro operativo e quel-lo politico; al Viminale, già preso, si attendeva la distri-buzione delle armi da parte del tenente dei parà San-dro Saccucci, che in seguito all’ordine si sarebbe mos-so con altri congiurati per operare gli arresti eccellenti previsti in una lista vidimata dallo stesso Borghese , che sarebbero stati poi imbar-cati su una nave per essere trasportati alle Isole Lipari.

E’ a questo punto che si verificò il colpo di sce-na, invece dell’ordine tanto atteso Borghese ordinò il ri-entro immediato dell’intera

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Stefano Delle Chiaie: Avanguardia Nazionale.

37Misteri di Stato

operazione. A tutt’oggi nes-suno conosce con certezza i motivi di tale decisione, l’unico fatto certo fu che Borghese certamente ob-bedì ad ordini superiori, ma egli si rifiutò fino alla morte di parlarne con chiunque, compresi i suoi più stret-ti collaboratori. Il processo non ha chiarito ciò e tanto-meno come sia stato pos-sibile che tale disegno sia stato concepito in maniera così meticolosa e senza il minimo intoppo. Le ipote-si si sprecano: da un lato si pensa al mancato appoggio, che venne a mancare ad operazione in corso da par-te di uno dei pezzi più grossi del disegno, Arma dei Cara-binieri, P2 e CIA sono le più accreditate; per controparte si sospetta che Borghese, fin dal principio, avesse previ-sto di non portare a termine il colpo di stato, un avverti-mento ad amici e nemici con il solo scopo di stabilizzare lo status quo presente. Ma quest’ultima ipotesi appare la meno consistente; stando alle dichiarazioni di un suo stretto collaboratore diffi-cilmente Borghese si sareb-be lasciato non coinvolgere, ma essere addirittura primo esponente dell’operazione senza i giusti e verificati ap-poggi, quello degli america-ni in primis, con cui il prin-cipe nero vantava contatti di prim’ordine. Un altro colla-boratore, il chirurgo Adriano Monti, dichiarò che l’opera-zione aveva come contatto diretto con il presidente Ni-xon un giovane industriale, Ugo Fenwich, nome sugge-rito da Otto Skorzeny, l’uf-ficiale che liberò Mussolini

sul Gran Sasso in seguito divenuto, a suo dire, agente della CIA. L’unica condizione posta dagli Stati Uniti per l’appoggio all’ope-razione fu la no-mina a presidente, dopo il golpe, di Giulio Andreotti.

Interessante al ri-guardo fu la posizione as-sunta dal generale dell’eser-cito Amos Spiazzi. Secondo i sostenitori dello scenario del golpe allo stato puro la notte egli mosse da Milano con una colonna di militanti con lo scopo di occupare Se-sto San Giovanni; a suo dire invece, a Borghese fu tesa una trappola, il golpe sareb-be stato utilizzato dalla DC per emanare leggi speciali, e fu lui stesso a telefona-re a Borghese avvisandolo dell’imminente pericolo, in quanto l’esercito aveva già avviato la cosiddetta “Esi-genza Triangolo”, a supporto delle forze dell’ordine con-tro eventuali disordini.

Ma ancora più inte-ressante, nelle dichiarazioni di Spiazzi, fu come egli de-finì le “Stragi di Stato”, che “sarebbero state espressa-mente volute ed organizzate da servizi segreti stranieri, inquadrabili in un gioco più sporco e più grande di quel-lo che la politica locale riu-sciva ad osservare dal suo limitato orizzonte: un gioco a danno della popolazione civile inerme ed inconsape-vole ordinato da interessi internazionali facenti capo a Washington ed a direttive nazionali - nella figura della

Democrazia Cristiana – che rispecchiavano in pieno la sudditanza italiana all’Alle-anza Atlantica. Le forze po-litiche nazionali più legate e devote agli Stati Uniti vole-vano e dovevano continuare a governare l’Italia a qualun-que costo e con qualunque mezzo. Le minacce di colpi di stato erano un pericolo inventato, un modo per po-ter tenere in piedi un siste-ma di polizia. In breve, una dittatura pluripartitocratica, a detta di Spiazzi, da ses-sant’anni governa l’Italia non tenendo conto del vole-re dei cittadini”;

Solo elucubrazioni di un arzillo pensionato in vena di goliardate? Che mat-tacchione!! Peccato che i più grandi disastri del nostro pa-ese, Piazza Fontana, Ustica, Bologna, Moby Prince tan-to per fare qualche nome, sono sospesi nella nebbia d’avvezione, nessun colpe-vole ma la classica “ouver-ture”, ovvero “gli inquirenti seguono la pista anarchica”, quella non manca mai, l’uni-ca certezza in questi casi.

Il generale Amos Spiazzi

Skorzeni con Mussolini: fu incaricato da Hitler di comandare la missione sul Gran Sasso per aiutare all fuga il dittatore italiano.

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Strategia della Tensione (2^parte)schegge impazzite

Giovanni Pili

Il 17 maggio 1973 alla questura di Milano il presidente del consiglio Mariano Rumor scopre il busto alla memoria del commissario Calabresi, ucciso da (o sotto istigazione di) es-ponenti di Lotta Continua. Non appena Rumor abbandona via Fatebenefratelli, sede della questura, Gianfranco Bertoli lan-cia una bomba a mano sulla folla. Quattro morti e 52 feriti. Bertoli viene facilmente immobilizzato ed arrestato. Si dichi-arerà anarchico stirneriano. Un veneto, appena tornato da un kibutz israeliano. In realtà è un infiltrato del SID dentro il movimento anarchico; già informatore del SIFAR.

Page 39: il Petardo N°6

Il sedicente anarchico Bertoli, bloccato subito dopo aver lanciato una bomba a mano durante la commemora-zione di Calabresi.

39Misteri di Stato

Strage della que-stura di Milano

Lo confermeranno, in tempi diversi i camerati Car-lo di Giglio, Martino Siciliano, Vincenzo Vinciguerra e l’agen-te del SISMI Niccolò Pollari. Dalle loro rivelazioni sappiamo che Bertoli sarebbe stato ar-mato da Ordine Nuovo e pezzi dei servizi per punire Rumor, il quale dopo Piazza Fontana non chiese la proclamazione dello stato di emergenza. Que-sto implicherebbe che l’allora capo del governo fosse com-plice di un disegno golpista – il che fa abbastanza ridere – non è da escludere piuttosto che queste voci girassero negli am-bienti di estrema destra e che questi militanti usati come pe-dine fossero stati disillusi. Fa parte delle tecniche dei servizi usare le motivazioni minori di gruppi eversivi per soddisfare motivazioni superiori; si chia-ma nel gergo triangolazione. Del resto Rumor se n’era già andato quando è stata lancia-ta la bomba. Forse è stata solo una intimidazione? Tutto fa pensare che dopo Piazza Fon-tana la strategia della tensione fosse ancora da finire; questo contraddice il parere di alcuni intellettuali che vorrebbero lo stragismo di stato plausibile solo per le vicende di Portella

della Ginestra e della Banca Nazionale della Agricoltura. Il fatto che Bertoli abbia fatto questo nella consapevolezza di essere arrestato e condannato toglie comunque consistenza a questi ragionamenti. Questo fa della suddetta strage, la più enigmatica.

Concludo il paragrafo invitandovi a considerare co-munque l’utilità che possono avere i malati mentali nei ser-vizi segreti: possono essere molto professionali quando gli si affida un compito preciso; possono vedere nell’ufficiale a cui passano le informazioni una figura paterna, l’amico di cui hanno bisogno; hanno mo-tivazioni e comportamenti illo-gici, cosa che è molto utile per spiazzare le ricostruzioni dei magistrati, per esempio una persona affetta da disturbo narcisistico della personalità potrebbe pure addossarsi col-pe, farsi la galera, ecc., e que-sto soddisferebbe comunque il loro amor proprio. Le pedine ideali insomma, anche se è dif-ficilissimo trovare i più adatti e soprattutto suscettibili di esse-re inquadrati.

Piazza della Log-gia

Dopo un anno dalla

strage della questura di Mila-no abbiamo un altro episodio che fa pensare ad una fase in cui cellule impazzite dell’e-strema destra volessero ven-dicarsi dello stato, perché non c’è stata nessuna svolta auto-ritaria, perché si sono sentiti usati, ecc.; queste almeno era-no le motivazioni di Vincenzo Vinciguerra, autore assieme a Carlo Cicuttini della strage di Peteano avvenuta un anno prima, nel giugno del 1972. Tre stragi a distanza di un anno l’una dall’altra. L’unico coinvol-gimento dei servizi in questo caso è meramente volto a de-pistare. Tanto più che gli autori delle prime due sono reo con-fessi. Per nascondere conni-venze inconfessabili con quan-to avvenne tra il dicembre del 1969 e il dicembre del 1970.

Nelle settimane an-tecedenti la strage di Piazza della Loggia si susseguono nu-merosi attentati, per mezzo di ordigni esplosivi, nel brescia-no. I responsabili sarebbero i camerati delle SAM (Squadre Armate Mussolini); colpisco-no un super mercato Coop, la Chiesa delle Grazie, la sede del PSI in Largo Torre Lunga e la sede della CISL. Uno di questi attentatori era Silvio Ferrari, esplode sulla sua vespa men-tre trasportava una bomba il

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18 maggio 1974. La comunità organizza così una manifesta-zione, attraverso il Comitato Permanente Antifascista. Alle ore 10:00 il corteo dei manife-stanti si riunisce in Piazza della Loggia, prende la parola Franco Castrezzati. Dodici minuti dopo l’ordigno esplode sotto i porti-ci, dove solitamente avrebbero dovuto esserci i carabinieri. Era stato gettato in un cestino at-taccato ad una delle colonne. Deflagrano 7 etti di esplosivo. Otto morti, tutti quelli che vi si trovavano attorno, che funsero da scudo per gli altri. 94 i feriti. Tutte le tracce, gli indizi vengo-no lavati via per ordine della questura dai vigili del fuoco. Cioè il luogo del delitto è sta-to immediatamente ripulito di

elementi importanti per le indagini. Un gesto idiota, che può anche spiegarsi con l’eterna ignoranza dei pubblici ufficiali ita-liani.

Che dire allo-ra delle lettere mina-torie inviate da vari mitomani neofascisti; dei cestini svuotati dalla nettezza urbana e mai più analizzati; i

frammenti nei corpi delle vitti-me estratti in ospedali e spariti nel nulla.

« Ci dispiace, che sba-dati! ».

Eppure qualcosa di ri-levante era successo già prima dell’attentato. Gli inquirenti a capo dell’allora capitano dei carabinieri Francesco Delfino avevano a disposizione ele-menti importanti. Erano stati fermati Kim Borromeo, respon-sabile della bomba alla sede del PSI; Giorgio Spedini, che se ne andava in giro con tritolo e denaro nel bagagliaio; Carlo Fumagalli, capo del MAR (Mo-vimento Armato Rivoluziona-rio) organizzazione di estrema

destra, lo avevano trovato in possesso di divise militari, do-cumenti falsi e ordigni esplosi-vi. Il MAR aveva contatti anche con i SAM e Ordine Nero (nato dal disciolto Ordine Nuovo). Non solo, il SID trova un campo paramilitare di addestramento tenuto da militanti neofascisti nel bosco di Pian del Rascino; dopo un conflitto a fuoco coi carabinieri vengono catturati. Rimane a terra ucciso Giancar-lo Esposti. Muore in modo stra-no, lo trovano in ginocchio con un colpo di pistola alla nuca. Apparteneva a Ordine Nero ed era vicino al MAR di Fumagalli.

Nonostante ciò le inda-gini di Delfino, dopo la strage, vanno in un’altra direzione. Si concentrano su Ermanno Buz-zi, uno psicopatico neonazista accusato di aver plagiato un gruppo di ragazzi. Per gli inqui-renti è un noto confidente e pederasta. Il risultato di tutto questo è che tra i presunti at-tentatori, comandati da Buzzi ci sarebbe anche Andrea Arcai, figlio di un magistrato che sta indagando sui MAR. Ovvia-mente gli toglieranno l’indagi-ne. Il capitano Delfino strappa rivelazioni, confessioni, tra le

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sue fonti anche Ugo Bonati, il principale testimone ai danni di Buzzi. Il suo complice sareb-be stato Angelo Papa. Verranno condannati nel ‘77; scagionati nel ‘82 assieme ad Arcai. Die-ci anni buttati, intanto Bonati è sparito, letteralmente nel nulla. Eppure era sotto stretta sorveglianza da parte dei cara-binieri. Di lui non si saprà più niente. Buzzi invece è morto in carcere assassinato lo stesso anno due giorni dopo il trasfe-rimento nel carcere di Novara. I suoi assassini Mario Tuti, del Fronte Armato Rivoluzionario e Pier Luigi Concutelli, di Ordine Nuovo, già assassino del ma-gistrato Vittorio Occorsio che stava indagando sulla Strage di Piazza Fontana.

« Che sfiga ».

C’è stato anche un se-condo depistaggio operato da detenuti eccellenti: Sergio Calore del gruppo Costruiamo l’Azione; Angelo Izzo e Gianni Guido, neofascisti autori della Strage del Circeo; Ivano Bon-giovanni, confidente delle car-ceri. Sarà proprio Bongiovanni a un certo punto ad ammette-re che quelle rivelazioni non

valevano niente. Il modo in cui è stato fatto il depistaggio è comunque molto interessan-te; Avevano fatto il nome di Cesare Ferri come autore della strage, che effettivamente era stato riconosciuto da un testi-mone, Don Gasparotti il quale lo vide il giorno della strage.

Strage della Sta-zione di Bologna

Di tutti gli attentati precedenti bene o male siamo in grado di farci un’idea del movente, possiamo anche sti-lare una rosa dei possibili man-danti, però non abbiamo dei colpevoli. Quel che avvenne a Bologna quel 2 agosto 1980 ha tre colpevoli ufficiali, confer-mati a tutti i gradi di giudizio. Manca il resto (ammesso e non concesso che siano stati loro); qui il lavoro di depistaggio è stato impeccabile.

Esplode nella sala d’a-spetto della stazione di Bolo-gna una valigia imbottita di esplosivo ad alto potenziale. Muoiono 85 persone, 200 i feriti. Sarà ricordata come la strage più devastante. Emble-matico il caso di Maria Fresu, letteralmente disintegrata. Di

lei si recupereranno in un se-condo momento pochi fram-menti. Era la prima volta che capitava un fenomeno simile.

La memoria delle stra-gi precedenti è ancora fresca, benché l’ultima strage di sta-to fosse avvenuta il 4 agosto del 1974. Stiamo parlando del treno Italicus, in provincia di Bologna. C’è stato però un al-tro evento terrificante molto più recente (27 giugno 1980: meno di due mesi prima); la caduta vicino all’isola di Ustica di un DC9 Itavia e una ventina di giorni dopo il misterioso ri-trovamento di un Mig23 libico nella Sila. Così gli inquirenti non possono per l’ennesima volta tirare fuori la storia dei bombaroli anarchici, benché il cliché dell’esplosione di una caldaia sia tornato per qualche giorno tra le possibili cause. Esistono già diversi rapporti della DIGOS su Ordine Nuovo e organizzazioni neofasciste affi-ni, come i NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari). C’è poi l’inchie-sta del giudice Mario Amato che indagava a Roma sui grup-pi di estrema destra, ma è sta-to assassinato due mesi prima.

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Come prima cosa ven-gono spiccati 50 mandati di cat-tura e un agente in incognito, dagli uffici del SISMI di Firenze, fa una telefonata anonima so-stenendo che i NAR fossero gli autori dell’attentato. Un agen-te dei servizi francesi (detenu-to in Svizzera per reati comuni) Elio Ciolini incolpa Stefano Del-le Chiaie di Avanguardia Na-zionale, questo avrebbe ordito l’attentato assieme al Gruppo Hoffman, formato da neona-zisti tedeschi. È un nome che compare già in mezzo ai fatti di Piazza Fontana e persino nelle vicende del golpe Borghese. Il tutto viene confermato dal giornalista Andrea Barberi su Panorama, bruciando l’agente del SISMI Francesco Pazienza il quale si sarebbe incontrato col generale Santovito (iscritto alla P2). Pazienza era indicato col nome in codice Super S. Si ipotizza che questo termine indicasse una rete particolare, una sorta di super SISMI legata alla P2 di Licio Gelli. Sì, Pazien-za ammette di essere un agen-te del SISMI, solo che il resto sono mere illazioni. Lo stesso Ciolini sarà denunciato per calunnia. Si tratta di un depi-staggio. Non sarà l’unico. Il 13 gennaio 1981 sull’espresso Ta-ranto-Milano viene trovato un arsenale vero e proprio, non-ché lo stesso tipo di esplosivo usato per la strage di Bologna. Già 4 giorni prima Santovito e Pazienza avevano consegna-to a Musumeci (vice direttore del SISMI) un rapporto dove si attenzionavano dei terroristi internazionali (francesi, tede-schi e neofascisti italiani). Un altro depistaggio: Licio Gelli si sarebbe incontrato con Elio Cioppa del SISDE concordando di deviare le indagini verso una pista internazionale. Il colon-nello Belmonte dei carabinieri sarebbe stato l’organizzatore di questo depistaggio del treno. Anche lui era iscritto alla P2.

L’ultimo capitolo di questa vicenda porta alla testi-monianza del pentito Massimo Sparti e si torna ad incolpare i NAR, nella persona di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Non riesco-no a fornire degli alibi convin-centi e finiranno per essere riconosciuti come gli esecutori della strage.

Perché la P2 è interes-sata a deviare le indagini verso una pista internazionale? Cosa c’entrano i servizi francesi? Chi si sta cercando di coprire? Alla luce di quanto già scrit-to, anche nella prima parte di questo articolo, viene da pen-sare che i movimenti della de-stra eversiva siano stati usati come pedine inconsapevoli in una guerra occulta tra servizi – anche di diversa nazionalità – in un periodo storico difficile, dove alla minaccia sovietica si somma per la prima volta quel-la islamica di Gheddafi e Kho-meini. Israele col suo Mossad (il servizio segreto più poten-te del mondo) e i suoi nemici filo-palestinesi erano attivi nell’Europa occidentale. Per ammissione dello stesso pre-sidente Cossiga sappiamo che potrebbero essere stati i fran-cesi ad abbattere per sbaglio il DC9 dell’Itavia nel tentativo di stanare un traffico di Mig dalla Jugoslavia alla Libia ed i servizi italiani chiudevano un occhio concedendo loro il passaggio, sfruttando i punti deboli della difesa aerea.

Riusciremo mai a scio-gliere questa matassa?

Il dopo è tutt’altro che in discesa. Già dalla strage del rapido 904, il 23 dicembre 1984, vediamo per la prima volta (dopo Portella della Gi-nestra), l’inizio delle stragi di mafia – così come confermato anche dalla Commissione Stra-

gi – ed in seguito scopriremo dell’esistenza di una trattativa stato-mafia. Un po’ come se queste schegge impazzite, tra-dite ed usate, si fossero messe al servizio della malavita orga-nizzata per meglio vendicarsi. Ma così caliamo nel romanze-sco. Capita quando una verità viene negata per troppi anni. Si sente a tutti i costi il bisogno di trovarla questa verità; tanto più che non stiamo parlando di quesiti metafisici. Stiamo parlando di persone come tut-ti noi, che sono morte o che hanno perso di punto in bianco i loro parenti, la loro intera fa-miglia. Non dovrebbero essere cose che capitano.

Non in uno stato sovra-no.

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43Misteri di Stato

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Francesco Tortora

Avete Rotto i Coglioni!sessant’anni di risse in parlamento

Si tratta di scene alle quali si assiste anche in altre zone del Mondo, non necessariamente nel solo cosiddetto “Terzo Mondo”. Per quanto riguarda il “caso” italiano, vi è una divertentissima lettura per “approfondire” l’argomento degli insulti nelle Aule parlamentari, aspetto che è stato analizzato e storicizzato da Sabino Labia, nel suo volume intitolato “Tumulti in Aula. Il Presidente sospende la seduta. “Sei un cesso corroso… ! Sei una merda. Sei una merda. Sei una merda! (Un senatore della Repubblica Italiana a un collega.) Da de Gasperi a Berlusconi, Da Togliatti a Prodi, Sessant’anni di risse in Parlamento”, Aliberti Editore. Nella recensione a tale prestigioso volume www.panorama.it scrive: “È il 24 gennaio 2008: durante il voto di fiducia

che sancisce la caduta del governo di Romano Prodi, il senatore di Annino Strano, fra i banchi di Palazzo Madama, dopo aver sventolato un paio di fette di mortadella se le infila in bocca per celebrare la caduta dell’esecutivo di centrosinistra. È solo una della lunghissima serie di scene che hanno costellato la storia parlamentare nel corso dei sessant’anni di repubblica e che, talvolta, hanno trasformato la politica in un’arena nella quale gli onorevoli hanno dato il peggio di sé come protagonisti di risse senza esclusione di colpi…. Sceneggiate come quella che ha avuto come protagonista Nino Strano (che prima di assaporare in diretta televisiva la mortadella si era rivolto al collega dell’Udc Nuccio Cusumano, apostrofandolo con un “Sei un cesso

corroso”) non erano rare, sebbene con un lessico differente, agli albori del Parlamento repubblicano. In aula si fronteggiavano uomini che, in gran parte, avevano combattuto la Seconda guerra mondiale, che avevano imbracciato un fucile (qualcuno lo conservava ancora sotto il letto) e quindi non si facevano scrupoli ad affrontare un avversario politico con le parole o con le mani.

Per esempio, durante il dibattito per l’adesione dell’Italia al Patto atlantico, nel marzo 1949, durato 52 ore vivacizzate da un’interminabile sequela di insulti e aggressioni. Oppure in occasione dell’approvazione al Senato della cosiddetta legge truffa nel marzo del 1953: dopo 70 ore di seduta ci fu una rissa

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45Pillole

di 40 minuti che vide Sandro Pertini rivolgersi al presidente Meuccio Ruini con un “Lei non è un presidente, è una carogna! Un porco!”. O ancora, sempre nella stessa seduta, il senatore Elio Spano (Pci) affrontò a muso duro il giovane sottosegretario Giulio Andreotti, che in quel momento aveva in testa il cestino della carta per proteggersi dagli oggetti che piovevano dai banchi della sinistra, urlandogli: “Dopo il voto avrete un nuovo piazzale Loreto!”.

Da l l ’ A s semb l ea costituente a oggi nel Parlamento italiano le seconde linee dei partiti, quelli che non decidono le sorti del Paese ma che sono nei banchi di Camera e Senato a cercare il loro momento di notorietà, si sono resi protagonisti di esibizioni degne dei migliori attori di B movie: battute, lanci di oggetti, riprese di boxe, salti fra i banchi. Tutto per scagliarsi lancia in resta contro l’avversario di turno, magari farsi giustizia per un’offesa ricevuta”.

Veniamo ora ai nostri tempi, quindi alle affermazioni di Franco Barbato (Italia dei Valori)

ed al suo dito medio (mostrato ai parlamentari del PD, ha chiarito lo stesso Barbato, e non certo al Presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini, pur essendo questi allo stesso tempo: 1-Presidente della Camera dei Deputati, 2-guida politica di un Partito, ovvero Futuro e Libertà ed infine 3- essendo noto sostenitore del Governo Monti). Quando Umberto Bossi era Ministro della Repubblica Italiana (un altro controsenso in termini costituzionali visto che la Lega Nord professa la Secessione) pronunciò la nota frase “Col Tricolore mi ci pulisco il culo!”, durante un comizio del 26 luglio 1997 a Cabiate (Como). Bossi fu condannato in primo grado dal giudice di Como a un anno e quattro mesi di reclusione, con la sospensione condizionale della pena, per vilipendio della bandiera tricolore. La sentenza però fu impugnata dalla difesa e il gennaio 2002 la Camera dei Deputati negò l’autorizzazione a procedere. Successivamente fu salvato per un indulto intervenuto a “sanare” la cosa. Questa è stata la risposta della casta

parlamentare italiana. In buona sintesi, si possono contestare i metodi dell’onorevole Franco Barbato. Credo però ci sia da riflettere su quello che ha detto e sui fatti che addita, compreso il malessere dei giovani italiani, prima offesi come “bamboccioni” e “sfigati”, poi trattati come illusi nel caso in cui credano ancora alla favola del posto fisso (oltretutto “noioso” secondo Monti nominato Senatore a Vita, bontà sua…) ed oggi tenuti fuori dalla vita civile e sociale ed infine costretti nella carcerazione a vita del precariato e della disoccupazione. Visti i comportamenti e le decisioni intraprese dal Governo dei cosiddetti “Professori” guidati da Monti, c’è parecchio da riflettere su tutto questo e non certo su quel che semplicemente ha indicato l’onorevole Franco Barbato. In fondo, cosa mai gli si potrebbe imputare, di aver detto che “il Re è nudo”?

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Igor Carta

Il suicidio del giudice Lombardini

apologia di un magistrato

Un colpo di pistola riecheggiò sinistro nel pala-zzo di giustizia di Cagliari nell’afosa serata dell’11 giugno 1998. Per il giudice Luigi Lombardini fu il giorno più lungo, oltre che l’ultimo. Quella mat-tina si presentarono al palazzo di giustizia di Ca-gliari i colleghi della Procura di Palermo, Giancarlo Caselli, Vittorio Aliquò, Antonio Ingroia, Lia Sava e Giovanni DiLeo. Stando a quanto emerso dalle in-dagini sul sequestro di Silvia Melis, imprenditrice di Tortolì rapita il 12 febbraio 1997 e liberata l’11 novembre dello stesso anno, il giudice Lombardini si sarebbe macchiato dei reati di estorsione, ten-tata estorsione, falso e calunnia; lui sarebbe inol-tre il vertice di una struttura occulta da lui stesso creata per la gestione dei sequestri di persona, parallela a quella prevista dalla legge.

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Silvia Melis

47Italian Style

Secondo la Procura di Palermo le ipotesi di reato sono confutate da elementi di prova inoppugnabili; il principale accusatore sareb-be l’imprenditore Tito Me-lis, padre di Silvia, secondo il quale, dopo aver già versato un miliardo per la liberazio-ne della figlia, gli vengono fatte ulteriori richieste da parte di un sedicente avvo-cato civilista in un appunta-mento che si sarebbe svolto nei pressi dell’aeroporto di Cagliari. Il misterioso perso-naggio usa modi bruschi, l’o-staggio rischia la vita, perciò esige un altro miliardo di lire che sarebbe stato recapitato ai rapitori tramite l’avvocato Antonio Piras di Gavoi; vuo-le inoltre la sua firma su una lettera liberatoria per Piras, in cui lo stesso Tito Melis avrebbe dovuto affermare il falso, ovvero che la Pro-cura di Cagliari autorizzava la trattativa e il pagamento. I magistrati di Palermo arri-vano al Tribunale di Cagliari per procedere all’interro-gatorio di Luigi Lombardini e di Antonio Garau, legale della famiglia Melis, assistiti entrambi dall’avvocato Luigi Concas. L’interrogatorio e la successiva messa a verbale si protraggono fino a pome-riggio inoltrato con alcune pause per caffè e pranzo. A questo punto il colpo di scena, i magistrati di Paler-mo, chiedono al magistrato cagliaritano di essere ac-compagnati nel suo ufficio; il magistrato fa strada ma giunto sulla soglia si barrica all’interno e prima che qual-cuno possa intervenire si spara un colpo di pistola in bocca.

Perché finirla così? Chi o cosa ha costretto ad un gesto tanto estremo “Lo sceriffo della Barbagia”? Le accuse si incrociano fin da subito: il procuratore capo di Cagliari, Francesco Pin-tus, accusò subito e sen-za mezzi termini i metodi usati nell’interrogatorio dal pool di Caselli, ben sei ore di domande, sempre le stesse identiche domande a cui Lombardini avrebbe risposto più volte. Per tali dichiarazioni Pintus è stato querelato ed è passato per diversi gradi di giudizio, tutti vinti compreso quello della Cassazione. Particolare at-tenzione i pm siciliani pon-gono alle agende dell’av-vocato Antonio Garau, una delle principali prove a ca-rico di Lombardini. Da loro emergerebbe infatti che il misterioso avvocato civilista di cui parla Tito Melis sa-rebbe proprio Luigi Lombar-dini. La chiave del mistero sarebbe però nel foglio che Lombardini stringeva nella mano sinistra anche dopo il suicidio, un fo-glio imbrattato di sangue recante l’effige della Pro-cura di Palermo e una data, 5 ago-sto 1998. I colle-ghi di Lombardini sostengono che si tratti di un ordine di perquisizione a cui sarebbe certa-

mente seguito l’arresto, sa-rebbe stato tutto deciso con largo anticipo, ma Caselli e il pool si difendono sostenen-do che si tratta di un errore, un equivoco. Nell’inchiesta, oltre a Lombardini, sono coinvolti il già citato avvo-cato Antonio Piras e il noto imprenditore Nichi Grauso, allora patron di “Videoli-na”, la maggiore emittente televisiva della Sardegna. Piras, deceduto nel 2007, sarebbe uno dei maggiori e più rispettati mediatori della struttura occulta creata da Lombardini per la gestione dei sequestri, una fitta rete di esponenti dell’Anonima che il giudice cagliaritano avrebbe posto al servizio della magistratura attraver-so benefici di vario genere. Avvocato di grossa caratura, presidente di SardaLeasing, socialista laico e fiero mas-sone, sarà anche lui assol-to con formula piena dalle accuse di estorsione. Nichi Grauso viene coinvolto nella vicenda secondo la sua stes-sa confessione, ovvero, da-

“Perché finirla così? Chi o cosa ha costretto ad un gesto tanto

estremo lo sceriffo della Barbagia?”

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L’imprenditore Nicola Grauso

L’avvocato Antonio Piras

vanti al rifiuto di Tito Melis di pagare un ulteriore miliar-do di riscatto, sarebbe stato lo stesso Grauso a versar-lo ai rapitori sfruttando la mediazione dell’avvocato Piras. Numerose voci vor-rebbero tale gesto come frutto di semplice carità, mentre altre e ben più in-sistenti lo vedono come un gesto tutt’altro che di-sinteressato, visto che Grau-so si stava preparando per la discesa in politica. La sto-ria dei sequestri di persona in Sardegna è sempre stata caratterizzata da moltepli-ci facce ma è rimasta quasi sempre nell’oblio; quello di Silvia Melis rimarrà l’ultimo sequestro eseguito in Sarde-gna prima della più nota vi-cenda di GiamBattista Pinna, liberato dopo 9 mesi di pri-gionia, il cui processo è an-cora in corso, ma dalle mo-dalità tutt’altro che chiare. Un’altra rapita, Vanna Liche-ri, non farà mai più ritorno a casa. Rapita ad Abbasanta nel 1995 e mai più tornata a casa, morta probabilmente di stenti in una caverna del

Supramonte o, secondo una intercettazione telefonica di un basista, uccisa dai rapito-

ri ormai braccati dalle forze dell’ordine . Il marito, Gino Leone, s p a r a a zero s u l l e p ro c e -d u r e p r e v i -ste per legge in caso di seque -s t r o . R a c -c o n t a dell’os-sessiva presen-za delle f o r z e dell’or-

dine che rendeva difficile sia trovare emissari che i con-tatti coi rapitori, di come, una volta messa assieme la somma per il riscatto questo abbia dovuto eludere con-trolli strettissimi allungan-do i tempi al punto che agli emissari coi soldi in mano i rapitori abbiano risposto “è troppo tardi”. Leone sposa la linea dello stesso Tito Me-lis che chiosò lapidario “do-vessi trovarmi nuovamente in una situazione simile evi-terei di fare denuncia, solo, completamente solo ma senza nessuno ad ostaco-lare la mia azione”. Forse è proprio in tale clima e dall’e-sperienza di sequestri tragici

come quello Licheri appun-to, o quello di Paolo Ruiu e

“la storia dei sequestri di persona in Sardegna è sempre stata caratterizzata da molteplici facce ma è rimasta quasi

sempre nell’oblio”

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49Italian Style

di Giuseppe Sechi, inghiot-titi dall’oblio, che il giudice Lombardini decise di creare la famosa zona grigia avva-lendosi di un professionista navigato e profondo cono-scitore del mondo barbari-cino come Piras, reclutando di volta in volta le persone giuste in modo da salvaguar-dare sia la vita dell’ostaggio che l’onore dello Stato. Le accuse di estorsione della Procura di Palermo sono cadute nel nulla, possibi-le che Lombardini sia stato incastrato? Nichi Grauso si tolse i sassolini dalle scarpe solo dopo l’assoluzione con formula piena dall’accusa di estorsione arrivata nel 2010, e raccontò i meccanismi che portarono alla liberazione di Silvia Melis prima e al suici-dio di Lombardini poi. Lom-bardini era inviso a suo dire nella magistratura a livello medio alto, le sue candida-ture alle Procure più ambite come Milano e Palermo ve-nivano puntualmente bloc-cate con cavilli di basa lega. Grauso racconta della situa-zione di stallo creatasi a cir-ca 9 mesi dal sequestro, una situazione che poteva por-tare alla morte dell’impren-ditrice ogliastrina, e pensò di farsi carico della vicenda. Tito Melis aveva già versa-to un miliardo ma preten-deva che lo Stato versasse il resto come era successo nel caso di Farouk Kassam. Si rivolse a Lombardini ma ricevette un secco rifiuto, parlò con l’avvocato Piras che non sapeva però come muoversi dato il regime di stretta sorveglianza a cui era sottoposto, così Grauso si fece carico di entrambi i

problemi, consegnando la seconda tranche del riscatto ai rapitori nelle campagne di Esterzili. La Procura di Cagliari negò il pagamento, ma le stesse modalità del-la liberazione di Silvia Me-lis, fuggita in un momento di distrazione dei banditi, sembrerebbe dargli ragio-ne. Non ha però mai chiarito chi lo mise in contatto con la banda, e viste le crescen-ti richieste di denaro, come mai non hanno approfittato di una simile occasione per trarre in sequestro lo stesso Grauso, fondatore di Vide-olina, Radiolina, editore de “L’Unione Sarda” e mentore di “Video On Line”, primo provider internet globale d’Italia che in seguito Tele-com Italia farà diventare Tin.it? Lo stile unico dell’operato dell’Anonima rende ancora più complessa la compren-sione dei meccanismi che tutt’ora si celano nella storia di questa “non organizzazio-ne” che risponde solamente ai rigidi dettami di quello che l’Università di Cagliari definì “Codice Barbaricino”. Ogni sequestro rappresentò una storia a sé, casi eclatanti come quello di Fabrizio De-André e Dori Ghezzi, di forte impatto emotivo come quel-lo di Farouk Kassam, media-tico come avvenne per Silvia Melis e Ferruccio Checchi o tragici e dimenticati come i casi di Vanna Licheri, Pao-lo Ruiu, Giuseppe Sircana e Giuseppe Sechi.

E che dire dei pro-cessi? Eterni, di minimo in-teresse giornalistico e con imputati che non tradiscono la minima emozione, atteg-

giamento da colpevole in attesa di punizione o da in-nocente rassegnato al ruolo di capro espiatorio, sempre in silenzio.

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Jo Forma

Stupro Etincoil corpo delle donne come obiettivo militare

Nel 1992 il conflitto bosniaco è appena agli inizi, niente farà prevedere che a due passi dall’Europa cosiddetta “civilizzata” accadranno avvenimenti di una portata devastante con più di 100.000 morti, campi di concentramento, un milione e mezzo di sfollati, pulizia e stupri etnici sistematici; niente farà presagire tre lunghi anni di guerra nazionalis-ta e spietata soprattutto nei confronti dei musul-mani bosniaci.

Tre anni dopo, nel 1995, l’accordo di Dayton met-te fine alla sanguinosa guerra civile e verrà avviata un’opera di pacificazione difficilissima che vedrà contrapporsi paren-ti, vicini di casa, amici, in nome di una ricostruzione che per molti dei protagonisti e delle protagoniste dei singoli eventi sarà impossibile da realizzare. Dal 1992 al 1995 si calcola che le vittime di stupro etnico in Bosnia oscillino tra le 20.000 e le 50.000, un numero stimato dall’organizzazione Amnesty International che denuncia da anni la mancata statistica e ca-sistica di questo dramma con cifre e testimonianze precise.

Lo stupro etnico, dal mitico Ratto delle Sabine al giorno d’oggi, è sempre sta-to collegato alla guerra come fattore “collaterale”, come un

danno inevitabile a cui anda-re incontro in caso di conflitto, come conseguenza naturale della conquista e della sopraf-fazione: basti pensare alla na-turalezza con cui la canzone “faccetta nera” è entrata nel canzoniere italiano, stupro co-lonialista ed etnico che vedrà poi la controparte nelle “ma-rocchinate” subite dalle donne italiane. Corpi di donne quindi come terreno di scontro, corpi da abusare e distruggere come in Congo, Darfur, Afghanistan. Un’impresa di cui vantarsi, di cui essere fieri e poter canta-re nelle canzoni: “Muslimanka sva u krvi, srbin joj je bio prvi,

“donna musulmana tutta in-sanguinata, il serbo è stato il primo per lei”, un progetto pia-nificato a tavolino con l’intento di annientare il nemico.

E’ proprio questo che accade dopo la fine del conflit-to bosniaco: le Nazioni Unite per la prima volta riconoscono la violenza sessuale come cri-mine di guerra e quindi come genocidio. La propaganda na-zionalista criminale dei serbi difatti produce e crea in quegli anni “lo stupro di massa” allo scopo di colpire la capacità ri-produttiva e la trasmissione genetica del nemico etnico, in particolar modo le comunità di fede musulmana. A testi-monianza della sistematicità dell’atto le migliaia di testimo-nianze di donne tenute prigio-niere nei campi di sterminio (più di trecento nell’ex Jugo-slavia) o nei bordelli delle città e dei villaggi fino ad uno stato avanzato di gravidanza affin-ché non fosse più possibile il ricorso all’aborto. La pianifica-zione dello stupro di massa di-venta evidenza oggettiva (fino al riconoscimento di crimine contro l’umanità) anche nel massacro di Srebrenica, dove

“dal 1992 al 1995 si calcola che le vittime di stupro etnico in Bosnia oscillino tra le 20.000 e le

50.000”

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51Femminismo

Stupro Etincoil corpo delle donne come obiettivo militare

l’intera comunità maschile vie-ne cancellata (8000 uomini) e dove si palesa chiaramente l’i-dea che il genere maschile sia quello generativo nonché capo della gens: l’intenzione serba era infatti quella di uccidere gli uomini e violentare le donne per far nascere figli serbi e inci-dere etnicamente sul nemico. Le donne costrette a portare a termine le gravidanze perché segregate venivano restituite alle famiglie poco prima del parto oppure accompagnate agli ospedali a maternità mol-to avanzata. La maggioranza delle donne che non riuscirà ad abortire lascerà il figlio all’o-spedale o lo abbandonerà per tentare di ricominciare una vita, di essere accettate dalle famiglie d’origine (lo stigma della violenza nelle famiglie musulmane è molto forte) e dalla società. Molte di loro si suicideranno non riuscendo ad affrontare le drammatiche conseguenze delle violenze su-bite, altre verranno ripudiate da mariti e famiglia, la totalità non sarà assistita né psicologi-camente né economicamente nel recupero post traumatico. Le donne stuprate bosniache non sono riuscite in questi 20 anni, neppure attraverso le numerose e battagliere asso-ciazioni, a ricevere dallo Stato un minimo di riconoscimento come “vittime di guerra” e il diritto all’assistenza sociale e sanitaria.

Il Tribunale Penale In-ternazionale dell’Aja è stato il primo, già nel 2001 con il verdetto sui fatti della città di Foca, a gettare luce e persegui-re lo stupro etnico come tortu-ra e crimine contro l’umanità, come arma sistematica di pu-lizia etnica, condannando per la prima volta tre stupratori a 12, 20 e 28 anni di carcere (uno di loro, Dragoljub Kunarac, vio-lentò più di 105 donne), fatto

che non era mai avvenuto in precedenza, neppure nel fa-mosissimo processo di Norim-berga.

Sarà solo nel 2008 che l’Onu ratificherà la violen-za carnale come genocidio, in colpevole ritardo rispetto agli avvenimenti di Bosnia, del Ko-sovo, del Sudan, del Ruanda e di molti altri paesi in cui lo stupro etnico diventa un’arma per lo sterminio di massa. Un ritardo che vede molte delle “forze di pace” coinvolte negli stupri stessi in quegli anni e nel conflitto bosniaco, in quei soldati canadesi che abusa-vano di donne bosniache nel dopoguerra, nei frequentatori dei bordelli (ossia i luoghi di segregazione delle donne abu-sate incinte) che venivano fre-quentati quotidianamente dai caschi blu.

Nel museo del geno-cidio di Potocari una delle im-magini più famose è proprio il disegno di una donna violen-tata da un carro armato, ese-guito da un soldato olandese: nulla di più realistico e vero se si pensa che perfino il coman-dante delle forze internazionali in Bosnia, il generale canadese Lewis MacKenzie, come ripor-tato dal New York Times “ ha abusato delle donne bosnia-che tenute prigioniere nel bor-dello locale Sonja”.

Ad oggi nessuna giu-stizia è invece riconosciuta in campo non internazionale alle donne bosniache che hanno subito quelle atroci violenze, buona parte di loro vive con 18 euro al mese e non ha diritto a nessun tipo di assistenza. Ma la parte più difficile spetta a quel-le donne che convivono con i loro stessi aguzzini, che sono costrette a vedere i loro carne-fici nelle vie delle loro città e paesi, che decidono di andare avanti e unirsi in associazioni di

donne stuprate, continuando a battersi ferocemente per il loro riconoscimento ricevendo ancora oggi minacce di morte.

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Francesco Tortora

Ascesa PacificaCina e Sud Est asiatico si alleano

dandosi la mano nel nome dell’Armonia

Le diverse risposte alla crisi glo-bale: l’Occidente impaurito e rintana-to, in ginocchio, si lecca le ferite e pensa che la soluzione sia risanare i conti. L’Estremo Oriente si organizza e pianifica il futuro in modo organico, puntando a nuove frontiere nella pro-duzione e nella distribuzione, poten-ziando la domanda interna.

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53Rivoluzioni

A fronte della cri-si globale che attanaglia ormai l’intero Pianeta, il Mondo Occidentale e l’Asia rispondono in modo ben differente. Gli Stati Uniti, vertice iniziale della crisi nata soprattutto nel conte-sto finanziario, sta cercando nel potenziamento dell’ap-parato produttivo la propria risposta, sebbene buona parte del proprio debito sia proprio nelle mani della fi-nanza cinese. L’Europa s’è tutta concentrata nel dare

la propria visione alla crisi globale, cercando di trova-re –differentemente dagli USA- le proprie soluzioni nel pareggio di bilancio, nella risoluzione dei debiti pub-blici degli Stati Membri UE, cercando di attuare tutte le forme possibili di risparmio. Secondo gli osservatori di cose economiche e finanzia-rie, da una logica sud/euro-pea caratterizzata da econo-mie keynesiane, a sostegno delle forme di intervento pubblico nell’economia na-zionale, per sostenere la do-

manda e correlativamente nel tentativo di irrobustire il mondo del lavoro e del-la produzione, si è passati ad una logica interpretativa nord/europea (per certi ver-si di Scuola “monetarista”) caratterizzata da varie for-me di riequilibrio del bilan-cio nazionale, Stato che si al-lontana dalla vita produttiva nazionale, strenua ricerca di logiche di bilancio al punto di obbligare gli Stati Mem-bri ad inserire il pareggio di bilancio della Costituzione

nazionale.

Gli effetti di questa diaspora in atto nel Vecchio Continente è sotto gli occhi di tutti.

In Asia, invece, la Cina si è proposta come Na-zione-Capofila nel coordina-re una risposta omogenea nei confronti della crisi glo-bale, di fatto ri-disegnando gli assetti estremo-orientali, escludendo in una qualche forma il competitor princi-pale cioé il Giappone, trop-po caratterizzato da un’e-conomia che agisce più in

ambito finanziario che nel settore dichiaratamente produttivo e stabilendo una sorta di patto di non aggres-sione con l’ASEAN, Associa-tion of South-East Asian Na-tions ovvero Associazione delle Nazioni Asiatiche del Sud Est. Gli attuali membri ASEAN sono: Indonesia, Ma-laysia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Myanmar, Cambogia. L’India è tenuta fuori da que-sta prospettiva, è un compe-titor ritenuto troppo ingom-

brante dalla Cina, avversario diretto sulla scena econo-mica mondiale, oscillante in quello che è stato definito il suo “swing power” attra-verso alleanze talvolta con gli Stati Uniti talvolta con la Cina, secondo le convenien-ze specifiche ed i tempi più o meno opportuni.

Non a caso il discor-so tenuto dal Presidente della Repubblica Popolare Cinese Hu Jintao in occasio-ne del Summit finanziario dei leader G20 tenutosi a Londra nell’aprile 2009 era

“la Cina si è proposta come Nazione-Capofila nel coordinare una risposta omogenea nei confronti della

crisi globale”

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intitolato “Cooperare mano nella mano. In un periodo di turbolenze”. In realtà la Cina aveva già disegnato –attra-verso le parole di Hu Jin-tao- lo scenario attuale nel quale siamo oggi tutti come intrappolati. Ed allo stesso tempo aveva mostrato la “via cinese” per contrasta-re l’andamento sempre più asfissiante delle spire del serpente denominato “Crisi Globale”, spostando sem-pre più l‘asse del proprio interesse non tanto sulla produzione, punto cardi-

ne dell’apparato produttivo ed economico cinese fino a quel momento, quanto piuttosto nel sorreggere e dare fiato ai consumi, visto il rallentamento anch’esso progressivo del Pil cinese, a fronte della sempre più ridotta capacità d’acquisto delle Nazioni occidentali, or-mai sempre più prede della carenza di liquidità.

Tra le soluzioni espe-rite in clima “comunitario” tra Cina ed ASEAN vi è la de-finizione dell’accordo deno-minato CAFTA (China – ASE-

AN Free Trade Area) dando così vita alla più popolosa area di libero scambio con circa due miliardi di abitanti ed un volume complessivo di scambi commerciali che s’aggira intorno ai due mi-liardi di dollari USA. Tra gli aspetti più importanti vi è quello della riduzione dei dazi doganali (immaginando di poter così procedere –nel tempo- fino alla loro totale eliminazione), la soluzione di ogni misura restrittiva finora applicata, la facilita-zione di ogni via utile per il

“vengono ad essere pri-vilegiati i prodotti dell’area,

pur restando ogni Paese aderente del tutto libero di continuare a mantenere i

propri rapporti commercia-li con Nazioni terze”

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miglioramento dello scam-bio e della circolazione dei prodotti originari dei Paesi aderenti nell’area dove l’ac-cordo CAFTA è vigente. Si tratta quindi di una forma di integrazione economi-ca dove vengono ad essere privilegiati i prodotti dell’a-rea, pur restando ogni Pae-se aderente del tutto libero di continuare a mantenere i propri rapporti commerciali con Nazioni terze. In merito alla stipula di tale accordo, il membro dell’Istituto cinese di ricerche sulle moderne re-lazioni internazionali Zhang Xuegang affermò: “Sotto l’impatto della crisi finanzia-ria, la firma dell’accordo da parte di Cina e Asean dimo-stra che la Cina promuove la cooperazione con i Paesi cir-costanti e con quelli dell’A-sean persistendo coerente-mente nei principi di parità, mutuo vantaggio e coope-razione win to win. Non at-tueremo il protezionismo a

causa dell’impatto della crisi finanziaria, ma promuove-remo ulteriormente questo mercato aperto e la coope-razione commerciale bilate-rale, il che riveste un grande significato, sia simbolico che concreto”.

Tra gli aspetti posi-tivi che derivano da questo

contesto organico disegnato da Cina ed ASEAN vi è il ra-pido abbattimento dei dazi doganali tra i Paesi aderenti e già si pensa di vederli del tutto eliminati entro il 2015. L’accelerazione impressa dall’accordo è frutto della volontà di ridurre le politi-che protezioniste così tanto care in Occidente ed adot-tate nell’attuale crisi econo-

mica mondiale. Oltretutto, si tratta di misure intraprese per rendersi più indipenden-ti proprio dalle strategie po-ste in essere da USA, Euro-pa e Giappone. Si immagina persino di usare una moneta unica di riferimento e la Cina ovviamente crede si possa usare lo yuan come mone-

ta CAFTA. Ma vi sono diffi-coltà in termini di mancata conversione della moneta cinese di non semplice riso-luzione. La nuova realtà eco-nomica -prima ancora che geopolitica- porta vantaggi a tutt’e due le parti. La Cina si approccia a un vasto parter-re di materie prime a basso costo delle quali il suo appa-rato produttivo ha letteral-

“si immagina persino di usare una moneta unica di riferimento e la Cina ovviamente crede si possa

usare lo yuan”

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mente “fame”. I Paesi mem-bri ASEAN si ritrovano ad avere come partner più alla propria portata -soprattutto in termini di produzione in-dustriale- i gruppi industriali ed il numero di potenziali acquirenti per i propri pro-dotti, tra i primi in termini di numerosità e spessore a livello mondiale. Resta sul terreno, però, il rischio di subordinazione rispetto al colosso cinese di tutta l’area sud est asiatica ed estremo-orientale. La Cina, infatti, dispone a proprio favore di una graniticità politico/am-ministrativa difficilmente ravvisabile nel resto dell’a-rea, dove spesso si hanno turbolenze e incertezze poli-

tiche fino a raggiungere casi estremi come il Myanmar (nei cui confronti ancora pendono restrizioni da par-te di USA e UE che vogliono ancora aspettare prima di effettuare ulteriori “aper-ture” favorevoli al governo birmano, dopo la cancella-zione della carcerazione alla quale è stata costretta per 15 anni circa il leader Aung San Suu Kyi), tanto per fare un esempio. Nel frattempo, il nuovo contesto commer-ciale è ora in fase avanzata nell’espansione dell’area stessa rivolgendosi ad al-tre Nazioni già coinvolte –per forza di cose- in questo quadro, come accade con Nuova Zelanda, Australia e

Corea del Sud ma anche In-dia, l’altro colosso asiatico di riferimento unitamente alla Cina. Quest’ultima, invece, agisce anche su un pedale più “globale” rivolgendo le proprie attenzioni commer-ciali ed in ambito lavorativo verso Sud America, Africa ed ovviamente Sud Est Asia. L’UE è direttamente interes-sata per gli scambi commer-ciali sino ad ora sviluppati, per effetto del sistema del-le preferenze generalizzate di cui i Paesi ASEAN sono destinatari, con l’esclusio-ne, al momento, soltanto del Myanmar. “Il Reg. (CE) n. 2454/1993 dedica la Se-zione 1 del Capitolo 2 alle regole che disciplinano il

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trattamento preferenziale nei confronti dei Paesi in via di sviluppo, per effetto del quale i prodotti sono con-siderati originari del Paese beneficiario, sia quelli ivi interamente ottenuti, sia quelli ottenuti utilizzando materiali originari degli al-tri Paesi del gruppo, le cui lavorazioni o trasformazio-ni, conferiscono l’origine. E’ la regola del cosiddetto cumulo regionale dell’origi-ne, finora in essere soltanto nell’ambito delle preferen-ze generalizzate. I prodot-ti ottenuti possono essere esportati verso la Comunità e fruire del trattamento ta-riffario favorevole, anche se nella loro fabbricazione sono stati utilizzati materia-li non originari sottoposti a lavorazione o trasformazio-ne nel Paese esportatore. Si pensi ai prodotti ottenuti,

ad esempio, nelle Filippine, di cui acquistano l’origine nell’ambito del CAFTA, pur avendo impiegato materiali cinesi per effetto del CAFTA”. (“CAFTA: libero scambio tra Cina e Paesi ASEAN”, www.mglobale.it).

La Cina quindi, pre-sa visione della debolezza e dell’incapacità dell’Occiden-te di venir fuori dalle paludi del debito, intende attuare una strategia commerciale, economica e geopolitica tut-ta giocata su un doppio pe-dale, il soft e l’hard power. L’hard power, quello dello strapotere militare, missili-stico ma anche produttivo, più recentemente moneta-rio, economico-finanziario, borsistico è roba da Guerra Fredda, fa parte di un ba-gaglio vetusto gravemente compromesso –in termini d’immagine e sostanziali-

dalla sanguinaria repressio-ne dei giovani manifestanti in Piazza Tian’Anmen nel giugno 1989. Quel “punto di svolta” ha gettato una luce inquietante sulla Cina, I cui effetti –in termini di restri-zione della fiducia da parte dell’Occidente nei confronti della modernizzazione della Cina- si fanno notare anco-ra oggi. A differenza di tutto ciò, “Il soft power è la fac-cia nascosta del potere che consente di influenzare la volontà altrui per via indi-retta, attraverso la fascina-zione culturale e l’attrattiva. Dopotutto, sono proprio “le risorse di soft power come la cultura, i valori politici e la diplomazia” a costituire una potenza globale”. (Ecco come la Cina può avere la meglio sull’America, Maria Dolores Cabras in www.the-postinternazionale.it).

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Quindi, a fronte di un sistema mondiale che è già oltre il multipolarismo, già nella dimensione dell’ad-densamento dei poli verso alcune realtà che tendono ad omogeneizzarsi al proprio interno, vanno consolidan-dosi alcuni nuclei di potenza geopolitica, con correlative nuove alleanze, sinergie, strategie comuni. Questo è lo scenario nel quale s’aggira la Cina che intende porre la sua sfida (talvolta hard tal-

volta soft) forte del suo es-sere detentrice del 25,67% (1.152,5 miliardi di dollari) del debito americano non sul terreno dello strapote-re nei confronti degli Usa o dell’Europa ma su quello di un rinnovato appealing sul-la scena mondiale. “È un mondo armonioso governato dalla pace e dalla prosperità quello in cui la Cina intende radicare e potenziare lo sviluppo economico per imporsi come grande potenza nell’arena globale. A Pechino la chiamano “he-

ping jueqi”, l’ascesa pacifica, nodo centrale della nuova dottrina strategica cinese, propugnata per la prima vol-ta durante il Forum di Bo’ao nel 2003, poi ufficializzata con la pubblicazione del Li-bro bianco per lo sviluppo pacifico della Cina nel 2005 e messa infine in risalto nei discorsi di Hu Jintao e Wen Jiabao come chiave di vol-ta per la crescita del Paese. “L’umanità ha una sola casa: la terra. Costruire un mon-

do armonioso, sostenere la pace e la prosperità comu-ne è un desiderio collettivo dei popoli di tutto il mondo, ma riflette anche l’ambizio-so obiettivo della Cina di in-traprendere la strada dello sviluppo pacifico.” (Maria Dolores Cabras, ibidem).

Gli intellettuali cine-si (più o meno “organici”) stanno quindi individuando nel cosiddetto soft power la via maestra per guadagnare simpatie a livello mondiale, stante la permanente forza militare degli USA e sem-

pre più va facendosi strada tutto il repertorio e l’arma-mentario confuciano così strenuamente censurato ed ostracizzato nel periodo di Mao e delle Guardie Rosse. Paradossi della Storia. “C’è addirittura chi, come l’intel-lettuale Yan Xuetong, ha fat-to un tuffo nel passato fino al periodo delle Primavere e degli autunni e dei Regni combattenti per far resusci-tare i fondatori della dottri-na confuciana e del legismo, convinto che rispolverare antichi valori come l’uma-nità (ren), la rettitudine (yi), l’autorità morale (zhi), la condotta e la disciplina dei riti (li), sia un passo obbli-gato per rendere la Cina la nuova potenza egemone.

Per costruire un ordi-ne mondiale pacifico, hexie shijie, Pechino deve prima trasformare la società cine-se a partire dalla famiglia, la primitiva unità associativa, armonizzandola attraverso la morale confuciana. Poi, deve anteporre l’autorità umana a quella economica, cancellando vizi e degenera-zioni come la corruzione e le disuguaglianze, per ottimiz-zare il benessere collettivo.

La campagna di con-quista del Beijing-consensus attraverso l’esercizio del soft

“sono proprio le risorse di soft power come la cultura, i valori po-

litici e la diplomazia a costituire una potenza globale”

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power dovrebbe essere ri-volta prioritariamente all’in-terno dei confini nazionali. È in primo luogo nelle regioni la cui maggioranza della po-polazione è appartenente a minoranze etniche nazionali diverse dagli han, come in Xinjiang o in Tibet, che la Cina deve costruire il suo consenso e deve esercitare il suo potere seduttivo. L’e-stensione territoriale e la pluralità etnica, culturale e linguistica della Cina, pro-spettano l’esistenza di mol-te sfaccettature all’interno di uno Stato che si propone come unitario e armonico ma che preminentemente è molteplice e differenziato” (Maria Dolores Cabras, ibi-dem).

L’Italia, però, nel suo provincialismo –e nei suoi piccoli media ancor più provinciali ed abitati da operatori dell’informazione anch’essi attentamente se-lezionati per nepotismo e scarsa sagacia- non sembra aver sviluppato conoscenze adeguate sul tema, o peg-gio, sembrerebbe non aver coscientizzato nulla di quel che si dovrebbe sapere in tal proposito. Un esempio ulteriore, da questo punto di vista, lo ha offerto l’at-tuale Premier italiano, Ma-

rio Monti, il quale è andato anch’egli in Cina col cappel-lo in mano, chiedendo umil-mente ai cinesi di acquistare titoli di debito pubblico ita-liani, ricevendo una risposta ben tiepida per usare un eu-femismo: il colosso bancario cinese Bank of China infatti ha comunicato il 30 Marzo 2012, durante la presenta-zione del bilancio 2011, di “non detenere alcun titolo di debito emesso da Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia”. Il che la dice lunga su quanta poca stima l’Ita-lia riceva dai vertici bancari cinesi nei tempi correnti. “A peggiorare l’intero quadro c’è però un altro aspetto. La decisioni dell’istituto di credito non sarebbero lega-te alla fase iniziale della cri-si italiana, quella compresa fra il maggio e il settembre scorsi, quando quindi al go-verno c’era Silvio Berlusco-ni. Fonti bancarie spiegano a Linkiesta che sarebbero invece arrivate a cavallo di novembre e dicembre, in vi-

sta della chiusura dell’anno commerciale, cioè quando Mario Monti si era già inse-diato a Palazzo Chigi. Colpa di una mancata sicurezza sull’Italia o sull’eurozona in generale? Lecito pensa-re la prima, dato che Bank of China avrebbe deciso di chiudere le posizioni italiane solo dopo Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna. Bank of China ha chiuso diverse posizioni in Europa, mante-nendone però Regno Unito, Germania, Olanda, Francia e Svizzera. Di conseguenza, l’esposizione è passata dai 15,7 miliardi di dollari di fine 2010 ai 12,9 miliardi di fine 2011. Sono quindi 2,8 i mi-liardi di dollari che il colosso bancario ha tagliato sui Pa-esi dell’eurozona periferica, Italia compresa. E dai vertici, non sono state date indica-zioni su eventuali riacquisti nel prossimo futuro” (Fabri-zio Goria www.linkiesta.it).

In poche parole: sono cinesi, non fessi.

Rivoluzioni“Pechino deve prima trasforma-

re la società cinese a partire dalla fa-miglia, la primitiva unità associativa, armonizzandola attraverso la morale

confuciana”

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Blog di Andrea Arancini: http://andreacarancini.blogspot.it/2012/05/la-scena-del-crimine-di-brindisi.html

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Strage di BrindisiUn caso isolato?

Jo Forma Giovanni PiliSì No

La Contesa

Il tentativo di strage nella scuola femmini-le di Brindisi è stato già in parte dimenticato. Pas-sano i giorni e si abbassano i riflettori su ciò che per diversi giorni ha tenuto alta l’attenzione: “è stata la mafia”, si diceva, nessun altro avrebbe il potere o il coraggio di compiere un’azione simile contro delle ragazzine minorenni, contro una scuola. E invece a me è venuto subito in mente la scuola come luogo di esperimento criminale nell’omicidio di Marta Russo, che guarda caso era una ragazza e si trova-va proprio all’università. E mi sono venuti in men-te diversi episodi poco edificanti legati al mondo della scuola, quel luogo in cui ci si dovrebbe sen-tire al sicuro, come in una famiglia. Una famiglia e una scuola che mietono vittime quotidianamente in maniera meno strombazzata e mediaticamente di basso profilo rispetto alla tentata strage di Brin-disi. Le vittime di femminicidio dall’inizio del 2012 sono già 84 ma l’attentato alla scuola Morvillo-Falcone riscuote un’attenzione diversa per i me-dia rispetto a tante donne e bambine massacrate tra le mura domestiche dai loro compagni, mariti, padri. Eppure sono tutte vite stroncate per motivi banalissimi, per il possesso dell’altro, per rivalsa, spesso vendetta, come nel caso di Melissa Bassi lì davanti a quella scuola. Corpi femminili come vittime da sacrificare silenziosamente in una guer-ra dove non esiste nessuna organizzazione crimi-nale, né mafie né Al Qaeda di sorta che possano reggere il passo di tutti questi omicidi di donne, considerate vittime ideali perché più indifese, me-glio se minorenni, ancora più sacrificabili. Trattate alla stregua di oggetti nella mercificazione media-tica allo stesso modo più facili da deumanizzare per qualunque soggetto che intenda compiere un certo tipo di crimine, le donne diventano semplici pedine da eliminare: protagoniste dei gialli media-tici (Yara Gambirasio, Sarah Scazzi) o pezzi di carne da macello da fotografare, queste sono le uniche soluzioni proposte dai media. L’unica consolazio-ne sembra essere“il mostro” in sé, così lontano dalla famiglia, dalle rassicuranti mura della scuo-la, dalla vita di tutti i giorni, un essere che non ci tocca, rabbioso sicuramente, covo di un odio che non appartiene a nessuno. Eppure la banalità del male è proprio evidente in Vantaggiato, nelle sue futili pretese, nelle sue elucubrazioni egoistiche e potrebbe essere un nostro amico, un nostro pa-rente, un nostro congiunto, niente di più facile a pensarci bene.

Proprio mentre scrivo mi giunge la noti-zia che i reperti raccolti a Brindisi sarebbero an-dati perduti in un incendio. Questi erano stati già analizzati, non di meno sarà impossibile verifica-re la correttezza delle stesse. Pensate alle perizie multiple fatte per Ustica, per il Mig23 sulla Sila, sul corpo di Pasolini. A pensarci bene non c’è strage che presenti delle analisi decenti al primo colpo in Italia. Ci fa specie che questo incendio sia scop-piato ufficialmente per “combustione spontanea”. Hanno avuto la decenza di non dirlo proprio in questi termini. Gli inqirenti così oggi si trovano ad avere a che fare - dopo la scoperta del bosone di Higgs - anche con una nuova legge fisica: d’estate fa caldo.

Durante le indagini ci hanno risparmiato di divulgare la storia della pista anarchica. Sebbe-ne gli inquirenti l’avessero effettivamente presa in considerazione. Non si poteva evitare di indagare sui mafiosi, anche perché malavitosi della sacra corona unita avrebbero avvicinato gli inquirenti promettendo di trovare il colpevole. Non credo si possa parlare di “strage di stato”, mentre inve-ce è più probabile ipotizzare una nuova trattativa stato-mafia. Quando lo scrissi di Brindisi nel blog (cfr. http://tinyurl.com/858b8b3) feci due predi-zioni; ovvero scrissi cosa sarebbe potuto accade-re nei giorni successivi: il video non sarebbe stato più preso in considerazione e la legge sulla corru-zione semplice sarebbe stata resa effimera. Sono avvenute entrambe le cose. L’impunità dei colletti bianchi serve anche a Berlusconi, senza bisogno di disturbare i mafiosi. Trovo comunque interessante quanto il Fatto Quotidiano (isolato da tutti i colle-ghi) ha divulgato le settimane scorse; le intercet-tazioni di diverse conversazioni uscite “dal Colle” che dimostrerebbero l’esistenza di una trattativa in corso.

Oltre a questo provvidenziale incendio che rischia di salvare Vantaggiato - unico reo con-fesso per il momento - restano anche diverse la-palissiane stranezze: cosa ne sa la sacra corona unita di chi ha commesso la strage? Come ha fatto questo imprenditore a fare tutto da solo? con la moglie al telefono che lo assecondava pure. E’ un caso il fatto che quella scuola si chiamasse Morvil-lo-Falcone? E’ un caso che gli indizi di una strage prendano fuoco per cause naturali?

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Silvio CossuSulle vignette di Staino in

difesa di Napolitano : “Che vergogna, un sat-

iro di parte ha perso il senso del suo ruolo

e quindi non ha più senso che esista. Vada pure in pensione. Ha fallito la sua missione.”

Fate attenzione a ciò che scrivete nei commenti al blog Anarchy in the UK, nelle pagine che condivi-dono la nostra rivista o nelle bacheche dei nostri autori: i migliori commenti potrebbero finire nei SUOI artigli...

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La satira di Staino63

Tortora

Lettere

Il ruolo dei disegnatori di vignette satiriche, soprattutto in Italia, è davvero molto delicato. Memorabile la querela di Massimo d’Alema nei confronti di Forattini, per una cifra astronomica di tre miliardi delle vecchie lire, in parte “abbonata” dopo un ulteriore atto di sottomissione pubblica del vignettista il quale però, da allora, non ha mai più lavorato per il quotidiano “la Repubblica”. Per quanto riguarda Staino su Napolitano, lo si poteva presuppore, le sue simpatie per l’ex Ministro degli Interni nel Governo Romano Prodi Primo, Giorgio Napolitano, era già nota. Scrive Maria Serena Palieri sulla Rivista Reset: “…Ed ecco Sergio Staino, il cui Molotov ha avuto per tante vignette e tanti decenni borbottii di fuoco contro la “destra” del Pci: “Napolitano faceva parte del gruppo dei ‘miglioristi’. All’epoca, giovane, io per loro provavo una certa diffidenza. Il mio cuore

batteva a sinistra, con Ingrao, Pintor, Minucci, Terracini. Però poi successe una cosa di cui capii il senso solo a distanza di molti anni. Cioè che a chiamarci a collaborare con l’Unità furono proprio loro: cominciai con Macaluso direttore, continuai con Chiaromonte…”. Forse perché avevano più chiara una cultura liberale dei diritti? “Sì. Ho capito solo molto dopo di essere stato utilizzato da Macaluso per dare una svolta in chiave volterriana, per instillare quel dubbio laico che la politica dovrebbe sempre coltivare”. Ma qual è stato poi per Staino il Napolitano migliore, dal punto di vista della satira: il leader migliorista, il responsabile Esteri del Pci, il ministro… “Nel Pci Napolitano esisteva in quanto punto di vista filosofico, aveva visibilità scarsa in quanto leader, era Amendola che aveva il vero physique du rôle. Bisognò aspettare che diventasse ministro”.

E oggi? Staino spiega che il Napolitano

presente – in effetti – in lui muove più altre corde che quelle della satira: “Da Presidente l’ho difeso da Di Pietro perché non sono sempre d’accordo con lui, ma mi sembra dimostri una saggezza notevole”. Sì, è vero, qui il satiro Staino depone la matita: “Nelle nostre sfortune mi sembra una stellina luminosa…” conclude.

Può un vignettista dimettersi da se stesso? Mi sembra alquanto improbabile. Certo, perde in “credibilità” su questo concordo con Silvio Cossu.

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Nexus Co.

Claudio Truglio

Le industrie muovono le industriehttp://tinyurl.com/ckk9ljs

da Fear To Sleep Il modello economico del Cile è basato nel neoliberismo che promuove gruppi economici dal profitto insaziabile a liv-elli di depredazione e sfrutta-mento causato dalle industrie estrattive ed energetiche, in particolare minerario, idro-elettrica e forestale - cellulosa. Le forme di tale modello sono l’eredità della dittatura mili-tare e molto ben gestite dalla democrazia co-governata con le imprese dell’ultra-destra e che oggi, il governo di Sebas-tián Piñera, sta cercando di espandere ulteriormente, con la missione principale a favore dei datori di lavoro e a scapito della maggioranza.

I. - L’espansione depredatoria dell’industria mineraria in Cile La morte e l’inquinamento sono il risultato della princi-pale attività economica in Cile, le Miniere, che perforano vio-lentemente la terra, generan-do milioni di tonnellate di roc-ce distrutte e contaminando con migliaia di tonnellate di rifiuti tossici, seccando i fiumi e i campi per via dell’uso dell’acqua indiscriminata e

concentrando, in potenti grup-pi economici, gli utili commer-ciali. Tutto ciò provoca danni alla popolazione. Dai minatori intrappolati dalla negligenza di una società, l’anno scorso, alle vittime di frane e inquinamento, si aggi-unge che nella Caimanes, i suoi abitanti si sono ribellati per via di tutti i danni e impatti causati dalla Minera del Grupo Luksic, gli stessi proprietari del Banco de Chile, tra le altre grandi aziende; e c’erano per-sone che hanno mantenuto uno sciopero della fame prol-ungato, cominciata il 27 settembre 2011 contro l’estrazione, mettendo a rischio la propria vita. Oggi la miniera giudica chi si oppone ai loro compiti. È interessante notare che i Caimanes sono una piccola popolazione del Cile. Nelle vic-inanze, si trova anche la miniera di Los Pelambres. Questo miniera, a inquina-mento già provocato, ha im-posto un arginamento di ma-teriali sterili: ciò significa depositare 1,7 milioni di ton-nellate di materiali tossici al di sopra delle acque sotterranee, che sono l’unica fonte di ac-

qua potabile per questa popo-lazione. È importante sottolineare che, tra l’industria mineraria e la sua espansione nel nord del Cile, esiste una stretta relazi-one con l’espansione della Mega Centrales Hidroeléctri-cas, geotermias e termoelec-tricas che ha continuano a col-pire vaste aree in Cile nel fornire energia alle imprese minerarie, e che agiscono in maniera parassita, in quanto non sono in grado di mante-nere la loro autosufficienza energetica e sperano che il protezionismo statale e la col-lusione con gli altri gruppi eco-nomici, mantengano stabili i vari commerci depredatori. Infine, con l’arrivo di multin-azionali come la Barrick Gold, ci si rende conto che non c’è una sovranità nazionale in Cile e che conflitti come Pascua Lama o el Morro, sono dei tentativi nel mettere gli inter-essi dei gruppi economici al di sopra dell’inquinamento, della depredazione e dei danni che essi procurano. II -. L’industria forestale in Cile e le sue conseguenze Il taglio delle foreste native, la

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65Blogroll

perdita delle risorse idriche, superficiali e sotterranee, sono una delle continue la-mentele tra la IXa e la Xa re-gione (le monocolture es-otiche agiscono come delle pompe per l’acqua); l’uso in-discriminato di pesticidi e dell’inquinamento degli eco-sistemi; le lamentele delle co-munità rurali sulle mono-colture; distruzione di strade rurali e l’inquinamento dei macchinari pesanti, soprattut-to al momento del raccolto; la perdita di flora e fauna (in-cluse le piante medicinali e quelle commestibili) per lo spostamento degli ecosistemi forestali autoctoni; le terre per l’allevamento e per coltivazio-ni, sostituite con l’introduzione di coltivazioni di alberi per l’industria della cel-lulosa e che ha portato tutto ciò alla perdita della sovranità e della sicurezza alimentare; trasgressione dei luoghi sacri; aumento della migrazione (l’offerta di lavoro diminuisce) e povertà nei luoghi in cui vi è sono queste piante per essere usate nelle industrie della cel-lulosa. Seguendo questo modello, l’industria distruttiva della cel-lulosa si sta espandendo, ed è di proprietà degli stessi gruppi economici come Angelini, Nueva Aldea, Celco, Licancel, Constitución, Arauco, Valdivia, Grupo Matte, Laja, Santa Fe, Pacífico-Mininco; sono un es-empio di queste conseguenze, i cui effetti si cominciano a ve-dere. L’espansione dell’industria nelle terre dei contadini e del-le comunità. Considerando che il patrimo-nio forestale delle grandi com-pagnie si sta praticamente es-aurendo nelle regioni VII e X, essi si espandono, in modo da incorporare i terreni dei conta-

dini e dei Mapuche e trasfor-marli in foreste usate per l’industria della cellulosa; e per questo scopo, vi è stata la proroga del Decreto Legge 701. In questo senso lo Stato ha dato il consenso a essi, ren-dendosi complice di questo gruppo economico. Il Decreto-legge considera certe modifiche che potenzia-no l’erogazione di incentivi per questa attività, incentivo del 90% per i piccoli proprietari nel corso dei primi 15 ettari, 75% per i medi proprietari e il 50% per i grandi proprietari, come riportato da CONAF. Questa estensione è stata sos-tenuta da diverse fazioni politiche dell’Alleanza per il Cile e dalla Coalizione, ed è stato considerato un beneficio importante e di opportunità, secondo le osservazioni di di-versi legislatori, in quanto ne beneficeranno prevalente-mente proprietari di piccole e medie. È interessante notare che il decreto 701, è stato installato nel 1974 durante la dittatura militare: era volto a fornire dei benefici fiscali alle casse dei principali gruppi economici del paese (Matte e Angelini). La Corma (Corporacion de la Madera) organo di coordina-mento del settore forestale cileno, ha riconosciuto che gli investimenti dipenderanno dai tassi di imboschimento. Jorge Seroni, di ExpoCorma, ha rich-iamato, nel 2005, il fatto che il forte aumento nel valore della terra negli ultimi 20 anni, è poco redditizio per le aziende forestali che acquistano ter-reni forestali per il rimboschi-mento, cominciato, da quelli già avviati, da più di due de-cenni. Inoltre ha aggiunto, so-pra la proiezione delle car-tiere, che se si costruiscono,

saranno una per ogni 150 et-tari di “foreste”. Questa versione imprenditrice segnala che “lo Stato deve ora creare strategie e strumenti per gli attuali proprietari di queste terre che possono en-trare nel settore forestale, con un orizzonte dai 15 ai 25 anni. Ci sono circa 4 milioni di ettari tra la VII, VIII e IX regione: su-perficie che può essere usata per l’imboschimento.” Al mo-mento, come politica di Stato si pretende di destinare più di 3.000 ettari per l’imboschimento, a partire da oggi fino al 2025. Conflitto forestale con i Ma-puche È interessante notare che uno dei motivi principali del con-flitto tra queste industrie e la comunità Mapuche è per il possesso della terra. Una par-te importante del territorio che viene rivendicato, è dete-nuto dalla Società, con tutto che vi sono i reclami ancestrali o di denuncia di usurpazione contemporanea. Inoltre, l’espansione di questo tipo di foreste nel territorio ancestrale dei mapuche, è un affronto alla loro Diritto Pro-prio, alla Visione del mondo e Cultura Mapuche. L’assalto dell’industria è diventato un simbolo di neo colonialismo e di inquinamento sociale. Inoltre, decine di persone ma-puche sono state, e/o sono tuttora, perseguite dai tribu-nali civili e dai procuratori mili-tari per la partecipazione a manifestazioni, nelle aree ur-bane e rurali, nel conflitto con le aziende forestali. Oltre a questo, si aggiungono anche ordini di detenzione e prigion-ieri tra l’VIII e la X regione. De-cine di ministri speciali e nu-merosi procuratori militari

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hanno incaricato di investigare su questi “atti di violenza” -dalla fine del 1997-, in quanto parte dei conflitti territoriali. Decine di dirigenti Mapuche e membri della comunità stanno sperimentando, in diversi casi, le leggi dello Stato, quale la legge 12.927 sulla sicurezza di Stato e la legge 18.314 o Anti-terrorista, creata dalla ditta-tura militare e che sono state applicate attivamente nei gov-erni passati e presenti come forma di controllo sociale del-le proteste dei Mapuche. In questa applicazione, si aggiun-gono anche numerose per-sone mapuche che devono af-frontare il sistema di procedura penale, entrato in vigore nel 2000. Nel 2002, dopo l’assassinio del giovane mapuche Alex Lemún, ucciso da un poliziotto in un’area che la comunità recla-mava dall’impresa forestale Mininco, era cominciato un paziente piano -con la collab-orazione di enti pubblici e pri-vati- nell’attaccare queste pro-teste e, di conseguenza, smobilitarle. L’effetto di questa repressione, è stata che le zone rurali dei Mapuche in Ercilla, Traiguén, Lumaco, Chol Chol, Imperial, Collipulli, Purén, Tirúa, Lebu, Cañete, hanno affrontato nu-merose incursioni e operazioni di polizia, con gravi conseg-uenze per la vita sociale, cul-turali e psicologiche, ripetute fino ad oggi. L’ultimo è stato il sollevamen-to dei mezzi di comunicazione del governo cileno nel contes-to degli incendi boschivi e di chi, irresponsabilmente, rilas-cia sciatte dichiarazioni pub-bliche, come quelle del Presi-dente della Repubblica del Cile, Sebastián Piñera, il suo ministro degli interni, Rodrigo

Hinzpeter, e delle autorità re-gionali designati, che afferma-vano che gli incendi boschivi che interessano diversi terri-tori Mapuche nel Cile meridi-onale, aveva un’origine cau-sale, “terrorista”, e che hanno accuato le organizzazioni ma-puche di tali atti, annunciando l’attuazione della Legge Anti-Terrorismo solo nella regione di Araucania, quando la mag-gior parte dei principali incen-di sono stati nella regione di Bio Bio Altos, nascondendo che, a causa della piaga che avevano diverse piantagioni, si era usato il fuoco. I principali gruppi economici forestali MATTE Il Grupo Matte, della famiglia Matte (Eliodoro, Bernard e Pa-tricia), nel 2010 ha avuto una fortuna d di 8.100 milioni di dollari, e oggi ha una fortuna di oltre 10.400 milioni di dol-lari. Le sue principali attività economiche si basano sull’espansione delle foreste e sull’industria della cellulosa (carta). Alcune delle aziende sono: Empresas CMPC (55,4% della proprietà): azienda forestale integrata, con prodotti di legname, polpa, carta e altri prodotti industriali e di consumo massivo. L’Empresas CMPC ha una capi-talizzazione di mercato di oltre US $ 7.200 milioni. Insieme con la cellulosa, che è delle sua attività principali, è gestita dalla Forestal Mininco. Per l’energia vi è la Colbún (49% della proprietà), che è una del-le più grandi società di produz-ione di energia in Cile, con una capacità installata di 2.521 MW, e una capitalizzazione di mercato di circa US $ 2.600 milioni. La Banca Comercial (Banco BICE): banca commer-ciale corporativa con un patri-monio di circa US $ 2.700 mil-ioni, che ha attività anche nel

leasing, factoring, mutui e commercio estero. Sono invis-chiati anche nel settore delle assicurazioni vita, sicurezza privata e investimenti immo-biliari. ANGELINI L’Angelini trae la sua fonte di accumulazione di ricchezza da Anacleto Angelini, ora dece-duto, che nel 1990 entrò nella classifica dei più ricchi del mondo secondo la rivista Forbes. Nel 2006, Forbes l’ha classificato nel 181° posto nel-la classifica mondiale e 10° in tutta l’America Latina, mente nel 2007 è stato classificato, nella classifica mondiale, al 119° posto, il che lo rende il più grande milionario del Cile e del Sud America. La sua for-tuna è stimata in 6.000 milioni di dollari; tuttavia, non è chia-ro esattamente la sua fortuna, né quella che viene trattata, e che sarà distribuito tra la ve-dova e il nipote, Roberto An-gelini, che gestisce il business. Attualmente il gruppo Angelini è uno dei maggiori produttori mondiali di farina di pesce, controllando anche il terreno dei combustibili e delle for-este. La sua più grande risorsa, Empresas COPEC, è oggi, una società diversificata, con una partecipazione importante nel settore forestale, attraverso il suo controllo nella filiale della Celulosa Arauco, è anche la più grande società cilena capi-talizzata sul mercato. Antar Cile è un’altra impresa filiale della COPEC, dove l’attuale presidente Piñera è suo azioni-sta (idem nel COPEC).

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Alfredo Sgarlato

L’ultimo terrestre e gli ultimi cinefili

http://tinyurl.com/cw2w3uz

Leggo su una rivista che alcuni critici, dopo la visione del film “L’ultimo terrestre” di Gipi, presentato alla scorsa Mostra del cinema di Venezia, non si chiedono se è bello o brutto, ma come mai malgrado il fortissimo battage pubblicitario sia stato un flop, e quindi se tutto il sistema cinema abbia ancora senso. Da parte mia, vedendo il film, mi sono chiesto se fosse brutto o orribile. Brutto perché è un film fallito, che non mantiene quello che promette (cioè fondere fantascienza, commedia e satira sociale). Orribile perché dopo un’ora e mezza

di cattivismo protervo e fine a sé stesso gli viene appiccicato un finale buonista e consolatorio (insomma, Feltri che diventa veltroniano, tanto per non far nomi).

Quanto al battage, se non erro è stato fatto da uno stesso gruppo che possiede cinema, televisioni, giornali e persino un ex premier: per quanto il pubblico sia ingenuo, se un film è brutto non ci casca. Sempre che al pubblico di quel gruppo mediatico di un film come “L’ultimo terrestre” possa fregare qualcosa, bello o brutto che sia. Al contrario il successo dell’anno, è stato un imprevisto: “I

soliti idioti” odiato dai critici con l’eccezione dell’ultrasnob Maria Rosa Mancuso che l’ha amato perché, a suo dire, è un film politicamente scorretto che non piace ai radical chic. Io “I soliti idioti” non l’ho minimamente preso in considerazione.

Non per radicalchicchismo, chi mi segue sa quanto mi piacciono J.J. Abrams o i polizieschi francesi (ne ho appena visto uno bellissimo: “Non dirlo a nessuno” di Guillame Canet). Semplicemente mi capita di guardare “I soliti idioti” su MTV prima che cominci “South park” (questo si che è

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politicamente scorretto, e divertentissimo) e mi fa sorridere una scenetta su dieci. E non sono così snob- o masochista- da andare a vedere un film orribile solo perché non piace a qualcun’ altro. Se poi vogliamo fare i veri critici diciamo che “I soliti idioti” è non-cinema.

Oddio, anche certi pastrocchi dei Dardenne o di Lars von Trier sono non-cinema, eppure tanti critici ci cascano. Ma il cinema non può essere solo due comici che si agitano davanti a una telecamera. Il cinema dev’essere qualcosa di grande, invenzione, liberazione dell’inconscio, sfida a Dio sul suo terreno, come diceva Fellini. Ultimamente lo è sempre meno, ma chi cerca trova.

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Le Recension

i di Roby

Dick

Roberto Rotunno

Romanzo di una Stragehttp://tinyurl.com/bsby7ln

2012, Marco Tullio Giordana.

Lo stesso regista mila-nese Marco Tullio Giordana, allora studente diciannovenne, era in tram vicino Piazza Fon-tana alle 16:47 del 12 dicem-bre 1969, abbastanza da senti-re l’onda d’urto dell’esplosione e potersi immediatamente re-care a vedere cos’era successo alla sede della Banca Naziona-le dell’Agricoltura. Vicenda che dopo 43 anni lui per primo, scrivendola insieme agli sce-neggiatori Stefano Rulli e San-dro Petraglia, ha deciso di rac-contare, oggi che questa strage “... ha dei colpevoli ma non dei condannati” (parole di Giorda-na che sottoscrivo). Da wiki: “Il 3 maggio 2005 la Corte di Cas-sazione ha assolto definitiva-

mente gli ultimi indagati (Del-fo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni, militanti di Ordine Nuovo condannati in primo grado all’ergastolo) scrivendo però nella sentenza che con le nuove prove - emer-se nelle inchieste successive al processo milanese nel 1972 e alla definitiva assoluzione nel 1987 - gli ordinovisti veneti Franco Freda e Giovanni Ven-tura sarebbero stati entrambi condannati. Attualmente non vi è alcun procedimento giudi-ziario aperto in quanto la con-danna arriva tardiva, oltre al terzo grado di giudizio.”.

Diviso per capitoli come appunto un romanzo, si parte dall’autunno del 1969 passando per il famoso 12 di-cembre, poi al 15 dicembre

quando dopo tre giorni d’in-terrogatorio in questura senza né mangiare né dormire Giu-seppe Pinelli “cadde” da un ufficio del 4° piano nel cortile, per finire al 17 maggio 1972 quando Luigi Calabresi ven-ne assassinato da militanti di Lotta Continua dopo una fe-roce campagna accusatoria a mezzo stampa attuata nei suoi confronti. Raccontare tutta la vicenda ora sarebbe opera lun-ghissima, eppure il film ci rie-sce bene a condensare in poco più di 2 ore un notevolissimo numero di protagonisti diretti e indiretti, in un contesto co-rale che rende le cose, sempre molto complicate, veramente semplici da seguire. E’ un gran-dissimo merito.

Aver incentrato la vi-

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cenda soprattutto sulle figure di Calabresi e Pinelli (ottima-mente interpretati nell’ordi-ne da Valerio Mastandrea e Pierfrancesco Favino), en-trambi vittime a posteriori del-la Strage, è stato intelligente e storicamente interessante. Non sapevo, come penso buo-na parte degli italiani, che i due si conoscessero bene, da pri-ma del 12 dicembre. Emerge tra loro non certo un’amicizia, ma una forma di rispetto reci-proco, in un certo qual modo di fiducia, avallata da un fatto che è documentato: Pinelli, du-rante la retata che fecero degli anarchici la sera stessa dell’at-tentato, si recò in questura col suo motorino, seguendo il cel-lulare della polizia che non ave-va più posto per ospitarlo. Le storie di due uomini sono più facili da ricordare che non un guazzabuglio di intrighi sem-plicemente enunciati. A sotto-lineare l’intento la rappresen-tazione della loro vita familiare con le rispettive mogli. Anche in questo caso, per quanto bre-vi, ottime le prestazioni di Lau-

ra Chiatti e Michela Cescon nei panni di Licia Pinelli e Gemma Calabresi. (Merita ricordare che le due donne s’incontra-rono nel maggio 2009 grazie ad un’iniziativa del presidente Giorgio Napolitano, un evento che personalmente mi com-mosse profondamente).

Non voglio farla troppo lunga. Film eccezionale, con un grandissimo cast di attori italia-ni tutti al loro meglio. Regia e sceneggiatura di livello assolu-to, nelle scene di azione come nei dialoghi. Da cineteca a mio parere tutta la rappresenta-zione dell’attentato. Un me-raviglioso ritorno del cinema che fa inchiesta, che si espone, narra fatti difficili e scomodi, come se ne faceva una volta. Per idee personali non pos-so dargli l’Olimpo, causa una omissione importante: non si fa cenno della scandalosa “Let-tera aperta a l’Espresso sul caso Pinelli”. Certo, qualcosa può sfuggire con tante cose da raccontare, ma questa lettera proprio non poteva, e citarla,

prima di vedere steso in terra Calabresi, era fondamentale secondo me.

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