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Servais Pinckaers LA VITA SPIRITUALE DEL CRISTIANO SECONDO SAN PAOLO E SAN TOMMASO D’AQUINO Sezione sesta La persona umana Volume 17/11 Jaca Book Copyrighted material

PINCKAERS-La Vita Spirituale Del Cristiano Secondo San Paolo...Aquino

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Servais Pinckaers La vita spirituale del cristiano secondo san Paolo e san Tommaso d'AquinoLa vita spirituale del cristiano non è riservata a una élite, riguarda tutti i cristiani, è opera dello Spirito Santo in ciascun uomo, si alimenta alle fonti essenziali—il Vangelo, i Padri della Chiesa, i grandi santi. Il volume—di un domenicano belga, professore di Morale fondamentale presso l'Ateneo di Friburgo (CH)—offre una dottrina solida e profonda sull'argomento, che ha come scopo l'adesione a Cristo, lo sviluppo della carità nella vita attuale della Chiesa.Da quando la Parola di Dio “si è fatta carne” nel seno della Vergine Maria, essa continuamente chiede di essere accolta come seme nel grembo dell’umanità: grembo sponsale della Virgo-Ecclesia e della Virgo-anima. Quando dunque, nella Chiesa, “l’atto del credere si estende fino a assumere tutta la vita del credente” (von Balthasar)—e emerge così nella storia il fenomeno della santità—noi davvero “sappiamo” che cosa sia “l’esperienza spirituale cristiana”: che cosa sia cioè la vita di un uomo afferrato e impregnato dallo Spirito Santo di Gesù Cristo. La vicenda di un santo è assieme quanto di più “personale” e di più “comune” si possa cristianamente immaginare. Voler rileggere tali vicende—selezionandole—non può avere lo scopo di restringere lo Spirito e la Verità a misura dei condizionamenti umani, ma ha lo scopo di narrare come la Persona di Cristo, Rivelatore e Salvatore, si renda presente “qui e ora” in un irripetibile e personalizzato abbraccio sponsale. L’agiografia è racconto esplicito di “missioni” fedelmente compiute; e la teologia spirituale riflette sulla Verità mentre osserva le diverse maniere in cui l’Annuncio cristiano è stato “vissuto”, per essere poi nuovamente annunciato. E a ogni vivo passaggio (tra l’annuncio ricevuto e quello donato) lo Spirito fa sì che l’annuncio stesso trovi purificazione, acquisti chiarezza, e cresca in vitalità. Di questa “teologia agiografica” cercheremo ora di dare alcune esemplificazioni. Le abbiamo scelte tenendo conto di due fattori che convergono a situare le vicende teologiche narrate: da un lato raggruppandole secondo alcuni contesti ecclesiali (secondo la vocazione e missione affidata dallo Spirito), e dall’altro scegliendole anche in maniera rappresentativa del diverso “qui e ora” storico-geografico in cui sono state ambientate dallo Spirito che conduce provvidenzialmente la Chiesa.

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Servais Pinckaers

LA VITA SPIRITUALE DEL CRISTIANO

SECONDO SAN PAOLO E SAN TOMMASO D ’AQUINO

Sezione sesta

La persona umana

Volume 17/11

Jaca Book

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Titolo originale La vie spirituelle du chrétien

selon saint Paul et saint Thomas d ’Aquin

© 1995Associazione Manuali di Teologia Cattolica

Lugano

© 1995Editoriale Jaca Book SpA, Milano

Agente Intemazionale

prima edizione italiana febbraio 1996

traduzione Antonio Tombolini

copertina e grafica ufficio grafico Jaca Book

in copertinaLa Presentazione al Tempio. Architrave del portale destro

della facciata. Cattedrale di Piacenza, xu secolo, in S. Stocchi, L’Emilia Romagna,

Jaca Book, Milano 1988 (foto Zodiaque)

Nihil obstat et imprimatur.Lugani, die 12 martii 1993

t Eugenius Corecco Episcopus Lugancnsis Ecclcsiae

finito di stampare nel mese di dicembre 1995 da Neuf Press - Como

ISBN 88-16-40400-0Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma

d si può rivolgere a Editoriale Jaca Book spa • Servizio Lettori Via V. Gioberti 7,20123 Milano tei. 02/4699044

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INDICE

In troduzioneL'AUDACIA DELLA FEDE______________________

Capitolo primoTEOLOGIA E SPIRITUALITÀ 7

1. La divisione tra morale, ascetica e mistica, o spiritualità, nell’epoca moderna 71.1 Definizioni______________________________________________________________81.2 Storia__________________________________________________________________ 81.3 Dibattiti recenti_________________________________________________________1Q

2. Critica della divisione tra morale, ascetica, mistica e spiritualità 112.1 L’origine di questa divisione: la sistematizzazione della morale

intorno al puro obbligo 112.1.1 La rottura tra la libertà e le inclinazioni spirituali 12

2.2 Le conseguenze della divisione: il restringimento del contattocon la Scrittura e con la Tradizione 13

2.2.1 II problema in teologia morale 132.2.2 11 problema in esegesi 14

Il restringimento della spiritualità 14Gli effetti della crisi protestante 14

3. Proposta di una concezione riunificata della morale e della spiritualitànel quadro di una morale delle virtù 15

3.1 L’aspirazione al bene alla radice della libertà 153.2 La virtù finalizzata alla perfezione 163.3 Lo slancio e il progresso della carità 173.4 L’ascesi e la mistica finalizzate alla perfezione della carità 17

Indicazioni bibliografiche 18

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Indice

Capitolo secondoRICONOSCIMENTO DI MODALITÀ E DI REGISTRI DIFFERENTI

ALL’INTERNO DELLA TEOLOGIA 21

L Le differenze tra la teologia scientifica e la spiritualità 211.1 Teologi e spirituali: due modi diversi di pensare e di parlare 22

1.1.1 Paragone tra san Tommaso e san Giovanni della Croce 221.1.2 La Summa Theologiae e le Confessiones di sant’Agostino 24 *

1.2 I tratti caratteristici della teologia spirituale 242. La relazione della teologia morale e della spiritualità con le loro

fonti scritturistiche 262.1 Paragone tra san Paolo e san Tommaso riguardo alle virtù 26

2.1.1 Cinque differenze 272.1.2 Differenze e complementarità 31

2.2 Paragone tra san Paolo e gli autori spirituali 322.2.1 Convergenze 322.2.2 Differenze 332.2.3 San Paolo, fattore di unità tra teologia e spiritualità 33

2.3 II Discorso della montagna e la teologia 333. Una definizione della teologia spirituale? 35Indicazioni bibliografiche 35

Capitolo terzoLE FONTI DELLA SPIRITUALITÀ CRISTIANA 37

1.1 passi della Scrittura più direttamente finalizzati alla vita spirituale 371.1 I libri sapienziali 381.2 II Discorso della montagna: la catechesi evangelica 391J La catechesi apostolica o «paraclesi»_______________________________________ 41

1.3.1 La paraclesi della lettera ai Romani 421.4 La presentazione del mistero di Cristo 431.5 Lista dei testi della ca techesi m ora le_______________________________________ 44

2. Il problema della lettura spirituale della Scrittura 452.1 Lettura storica e lettura «reale» 452.2 I sensi spirituali della Scrittura 472.3 L’esegesi dei Padri o l’arte di fare del pane nutriente con la Scrittura 482.4 Alla scuola della liturgia 49

Indicazioni bibliografiche 50

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Indice

Capitolo quartoLA CONFORMITÀ A CRISTO_______________________ 53

1. La persona di Gesù, fonte della vita spirituale___________________________________ 512. La conformità a Cristo secondo san Paolo 543. Il passaggio dalla sequela di Cristo all’imitazione 55

v i La criricfl luterana delfimitaMone__________________________________________521.2 L’influsso deU’individnalismn de] Rinascimento_____________________________ 58

«

4. Il tema dell’imitazione in san Paolo____________________________________________ 594.1 Limitazione deriva dalla fede in Cristo_____________________________________ 594.2 La fede come fonte della vita morale 604.3 L’imitazione di Cristo, opera dello Spirito Santo_____________________________614.4 La presenza di Cristo e l’attualità dei suoi «misteri» 62

5. La nostra parte neH'imitazione________________________________________________ 635.1 Come la grazia ci rende liberi_____________________________________________ 635-2 La varietà e la fecondità dell’imitazione di Cristo_____________________________64

A Limitazione e la Croce______________________________________________________ 6561 Imitazione g nhlv»dipn*fl d’amnrt»__________________________________________656.2 Le ricchezze del tema cristiano dell’imitazione_______________________________66

7. L’imitazione di Cristo nei Padri apostolici______________________________________66Indicazioni bibliografiche_______________________________________________________ 67

Capitolo quinto LA LF.GGF. NUOVA

O LA GRAZIA DF.LLO SPIRITO SANTO__________________62 1

1. La «formula» della Legge nuova_______________________________________________692. Le fonti della Legge nuova___________________________________________________ 70

2.1 Le fonti scrittnrisriche___________________________________________________ 202.2 La fonte spirituale della Legge nuova______________________________________ 712.3 Una fonte segreta_______________________________________________________ 722.4 Una legge interiore______________________________________________________72

3. L’opera dello Spirito Santo e i suoi segni 733.1 Lo Spirito di Gesù 733.2 La fede in Cristo 743.3 La preghiera al Padre 743.4 L’edificazione della Chiesa_______________________________________________ 253.5 Lo Spirito di pace_______________________________________________________75

4. La grazia dello Spirito Santo. Il dono spirituale__________________________________ 764.1 La grazia e la misericordia________________________________________________764.2 La grazia e il tema del matrimonio spirituale________________________________ 77

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Indice

4.2.1 L’immagine dell’amore coniugale____________________________________774.2.2 I significati della grazia____________________________________________ 78

4.3 La grazia e il tema delTamicizia___________________________________________784.3.1 L’amicizia di Cristo secondo san Tommaso d1 Aquino___________________ 784.3.2 La libertà, la reciprocità e l'uguaglianza nell'amicizia con Cristo__________ 794.3.3 Amore e amicizia 81

Indicazioni bibliografiche 81

Capitolo sestoi :tn tf .r t o r it à s p ir it u a l e _______________________83

1. L’interiorità della Legge nuova________________________________________________ 832. La via dell’interiorità secondo sant’Agostino e nell'epoca moderna__________________ 84

2.1 La «vita interiore» nell’epoca moderna_____________________________________ 863. L’interiorità e i tuoi diversi livelli______________________________________________ 88

3.1 1 livelli d ’mtgriorità e la loro comunicazione_________________________________894 Uinteriorità della coscienza secondo Newman______________________*_____________9Q

4.1 La difesa deU’animfl_____________________________________________________ 223. La lotta per rinteriorità in un mondo «unidimensionale»_________________________ 92

5.1 La dimensione dell’interiorità:____________________________________________ 21La profondità_________________________________________________________94L'altezza_____________________________________________________________ 24La densità 93La larghezza 93La lunghezza 93

Indicazioni bibliografiche_______________________________________________________ %

Capitolo settimo L’ESPERIENZA INTERIORE

ALLA BASE DELLA VITA SPIRITUALE 97

L’esperienza propria della vita spirituale L’esperienza secondo la virtù

9798

L’esperienza della sofferenza e del peccato 100L’acquisizione dell’esperienza 100Le virtù teologali e l’esperienza spirituale. La loro unione con le virtù morali 101L’agire teologale come indice dell’azione della grazia 102Un’esperienza di fede 10311 linguaggio concreto della Scrittura 104

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Indice

Un’esperienza nella docilità____________________________________________________ 104Sensi sp irituali e conostynra per connaturalità____________________________________ 105La profondità «sostanziale» della vita spirituale___________________________________ 106La conoscenza di Dio «visto di spalle»___________________________________________108L’esperienza mistica__________________________________________________________ 108Indicazioni bibliografiche______________________________________________________ HO

Capitolo ottavoLA FEDE IN CRISTO, RADICE DELLA VITA SPIRITUALE 111

La grazia donata dalla fede in Cristo 111La fede e la scienza 111Una riflessione sul metodo: il dubbio e la fede, la scienza e la sapienza________________ 112L’intelligenza della fede e il suo metodo. Il discepolo e il maestro____________________ 113La luce della fede nella vocazione degli Apostoli__________________________________ 114Se non crederete, non comprenderete___________________________________________ 115La comprensione mediante la fede______________________________________________ 116I -’idpfl della ferie_____________________________________________________________ 112La fede all’origine della vita e dell’amore 118Una certa «idea» 118La fede in Gesù Cristo 119Una fede soprannaturale ' 120La fede di Maria 121Indicazioni bibliografiche 122

Capitolo nonoLA VIRTÙ DI SPERANZA E LA SUA DIALETTICA 123 1 2

1. La speranza, virtù del desiderio 1231.1 I desideri naturali: l’essere e la vita 1231.2 II dono della vita 1241.3 L’aspirazione alla verità 1241.4 La vita in società 1241.5 L’aspirazione al bene___________________________________________________ 1251.6 II coraggio della speranza 126

2. La speranza di Abramo e le sue tappe 1262.1 La formazione della speranza di Abramo 1262.2 La prova della speranza_________________________________________________ 1272.3 II compimento della speranza di Abramo__________________________________ 128

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Indice

3. Le beatitudini, oggetto della nostra speranza____________________________________1283.1 II filo della promessa___________________________________________________ 1293.2 II filo della prova______________________________________________________ 1293.3 II filo della ricompensa__________________________________________________ 130

4. Le tre fasi del mistero di Gesù________________________________________________IH4.1 II mistero detTIncamazionc----------------------------------------------------------------------H i4.2 II mistem della Passione_________________________________________________Q l4.3 La speranza nella Risurrezione 132

5. La vigilanza e la speranza____________________________________________________ 133Indicazioni bibliografiche_______________________________________________________133

Capitolo decimoLA CARITÀ E LE TAPPE DELLA VITA SPIRITUALE 135

Il vocabolario 1. L’amore di Cristo

135136

2 I -fl rarità è un’amirizip ron Dio 1372.1 II rema dell’Amicizia 1372.2 L’amicizia con Dio 138

3. Scoprire l’amore d’amicizia 1393.1 Amore d’amicizia, bene e felicità 1393.2 L’accordo tra la speranza e la carità 1403.3 L’amore d’amicizia come un fatto primario 1413.4 L’amore d’amicizia come base naturale della carità 142

4. La crescita della carità 1424.1 Le tre tappe della crescita nella vita spirituale 143

4.1.1 Gli incipienti e il Decalogo 1444.1.2 I proficienti e il Discorso della montagna 1454.1.3 I perfetti e la Legge dello Spirito Santo 145

Indicazioni bibliografiche 147

Capitolo undicesimoL’ORGANISMO DELLE VIRTÙ E DEI DONI

DELLO SPIRITO SANTO________________________ 149

1. Riscoprire la virtù 1491.1 La virtù cristiana 15012 Virtù infuse e virtù acauisite 1501.3 Una differenza tra san Paolo e san Tommaso 151

2. L’organismo delle virtù, ossatura della vita spirituale 151

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Indice

2.1 Dalla grazia dello Spirito Santo alle virtù___________________________________1522.2 Le virtù perfezionate dai doni 1522.3 I doni e le virtù morali infuse 1532.4 La connessione delle virtù mediante la carità e la prudenza 1542.5 D ruolo delle passioni nella vita spirituale 155

3. Paragone tra san Paolo e san Tommaso sulla dottrina delle virtù 1563.1 La relazione con la persona di Cristo 1573.2 II senso decumano___________________________________________ 1573.3 Le virtù come forme della carità 1573.4 Alcune virtù generali 158

Indicazioni bibliografiche 159

Capitolo dodicesimoLA PREGHIERA 161

1. Una necessità vitale 1612 .1 modelli della preghiera 1623. Cristo, Maestro della preghiera 1624. Le formule di preghiera 163

4.1 II Padre nostro 1634.2 L’Ave Maria 1644.3 La preghiera dei salmi 164

5. Definizione della preghiera 1655.1 La preghiera è una domanda rivolta a Dio 165

6. Le specie di preghiera 1677. La preghiera e le virtù teologali 167

7.1 La preghiera e la Provvidenza secondo la fede 1677.2 Che cosa chiedere nella preghiera secondo la speranza 1697.3 L’ampiezza della preghiera secondo la carità 169

8. La preghiera, atto della virtù di religione 1708.1 La preghiera interiore 1708.2 La preghiera vocale 1718.3 II problema del tempo 172

Indicazioni bibliografiche 173

Capitolo tredicesimoL’ASCESI CRISTIANA 175

Il termine «ascesi» 1751. L’ascesi evangelica 176

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Indice

1.1 L’insegnamento dei Vangeli______________________________________________ 1761.2 L’ascesi in san Paolo 1771.3 Lo Spirito e il corpo 1771.4 L’ascesi apostolica______________________________________________________ 178

2. L’ascesi e le virtù 1792.1 Morale dell’obbligo e morale delle virtù 1792.2 L’ascesi passiva 1812.3 L’ascesi attiva 1812.4 La misura dell’ascesi 1812.5 La misura dello Spirito Santo____________________________________________ 182

3. L’ascesi come segno dell'amore di Cristo_______________________________________ 1833.1 tJn a m o re u n ico ___________________________________________________________________ 183

3.2 L’ascesi nella vita religiosa o consacrata____________________________________ 1833.3 L’amore di Cristo, povero, casto, obbediente e fedele________________________ 1843.4 La contestazione di questo mondo mediante l’ascesi_________________________ 185

Indicazioni bibliografiche_______________________________________________________ 186

Capitolo quattordicesimoI SACRAMENTI E LA VITA SPIRITUALE 187

1 .1 sacramenti e la vita spirituale secondo san Tommaso 1871.1 La conformità dei sacramenti alTIncamazione 1871.2 La conformità dei sacramenti alla natura umana____________________________ 1881.3 La spiegazione dei sette sacramenti 1891.4 I sacramenti nel tempo__________________________________________________ 190

2 .1 sacramenti e la vita spirituale secondo san Paolo_______________________________ 1902.1 II corpo di Cristo come sacramento primario . 191

3. Paragone tra san Tommaso e san Paolo________________________________________ 1924. La preminenza dell’Eucaristia a causa della presenza del Signore___________________193

4.1 La preghiera eucaristica e la fede 194indicazioni bibliografiche 196

Capitolo quindicesimoLQ SPIRITO E LE ISTITUZIONI ECCLESIALI_______________ 197 1

1. Il problema delle istituzioni nella Chiesa_______________________________________ 1972. Carisma e istituzione: l’esempio di Francesco e di Domenico 1983. La teologia dei rapporti tra lo Spirito e le istituzioni secondo san Tommaso__________ 199

3.1 La domanda___________________________________________________________ 129

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Indice

3.2 La risposta: la persona di Cristo e il prolungamento dell’Incamazionenella Chiesa 200

3.3 T carismi secondo san P a o lo e le istituzioni ecclesiali----------------------------------------- 2014. Uassoci azione tra il corpo e l’anima___________________________________________ 202

4.1 Lo Spirito esige il corpo________________________________________________ 2025. L’«istinto dello Spirito Santo» e la «Legge della libertà»__________________________ 203

5.1 L* «istinto della grazia» all’origine delle istituzioni della Legge nuova___________ 2036. Istituzioni necessarie e istituzioni libere sotto la Legge nuova 204

6.1 Le istituzioni per la formazione della libertà spirituale_______________________ 20562 La solidarietà spirituale a causa di Cristo__________________________________ 205

Indicazioni bibliografiche______________________________________________________ 206

Capitolo sedicesimoLA CONTEMPLAZIONE NEL TEMPO DELLA SCIENZA 209

1. Il declino della contemplazione nell’epoca moderna 2091.1 Dalla contemplazione mistica alla contemplazione scientifica_________________ 2101.2 L’intelligenza contemplativa 2111.3 La distinzione tra la contemplazione spirituale e la

contemplazione scientifica 2112. La contemplazione spirituale________________________________________________ 212

2.1 Lo sguardo contemplativo nella Bibbia 2132.2 La scienza e la sapienza. Oggettività e universalità 2142-3 Analisi e sin tesi___________________________________________________________________ 215

3. Il progresso della sapienza___________________________________________________2153.1 L’apprendistato spirituale_______________________________________________ 2163.2 La contemplazione secondo la virtù 2173.3 La contemplazione del mistero di Cristo___________________________________ 2183.4 Una contemplazione nella fede___________________________________________218

Indicazioni bibliografiche_____________________________________________________ 219

Capitolo diciassettesimoSANTA MARIA. MADRE DI DIO____________________ 221

M aria ne l Vangelo c nella T rad iz ione_____________________________________________________ 221L’Ave Maria al seguito del Padre Nostro 222L’Annunciazione e la prova di Maria 222S e co n d o la fedi» d i A bram o______________________________________________________________221

Il momento della prova_______________________________________________________223

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Indice

Maria e il mistero di Gesù_____________________________________________________ 224La nuova maternità ricevuta ai piedi della Croce di Gesù___________________________ 225L*unione della maternità e della verginità in Maria_________________________________ 226Il profumo di Maria__________________________________________________________ 228Indicazioni bibliografiche______________________________________________________ 228

Capitolo diciottesimoSCHIZZO DI UNA STORIA DELLA SPIRITUALITÀ CATTOLICA_____ 222

1. L’epoca dei Padri della Chiesa 2301.1 La spiritualità del martirio 2311.2 La sapienza contemplativa 2321.3 San Leone Magno, una spiritualità liturgica 233

2. II periodo monastico 2343. Il periodo degli Ordini mendicanti 236

3.1 Francesco e Domenico 2363.2 Monache c terziari 2373.3 La mistica renano-fiamminga 2383.4 La Imitazione di Cristo 238

4. Il periodo moderno 2394.1 La mistica carmelitana 2414.2 Una spiritualità sacerdotale 2424.3 II XIX secolo 244

5. Il periodo post-conciliare 2455.1 I fattori favorevoli a un rinnovamento spirituale 245

Indicazioni bibliozraftcbe 247

A mo’ di conclusione 249

Bibliografia 251Indici

Indice analitico 253

Indice dei nomi 257Indice delle c i ta z io n i______________________________________ 259

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IntroduzioneL’AUDACIA DELLA FEDE

Ci vuole audacia per credere in Gesù Cristo, oggi forse più che mai, in un mondo esplora­to e plasmato dalla scienza, davanti a una ragione ambiziosa di conoscere tutto, di spiegare tutto, di dominare tutto. Come sempre, ci vuole audacia per porre la propria speranza in un Salvatore crocifisso e per credere nella vita secondo lo Spirito che inaugura la sua risurrezio­ne. Ci vuole anche umiltà per affidarsi alla Parola e alle promesse di un Altro che riguardano le questioni più decisive: il senso della vita e della morte, la felicità e la sofferenza, la verità nell’intelligenza, nel cuore e negli atti. Un’audacia tanto più sicura in quanto non viene da noi, un’umiltà tanto più profonda in quanto si presta a disegni che ci superano.

L’audacia della fede, semplice, lucida, libera e gioiosa, sta all’origine della vita spirituale. Essa illumina i più umili donando loro l’intelligenza del Vangelo e li fortifica elargendo loro il pane dell'Eucaristia. Essa risveglia e conferma la nostra speranza con la promessa delle beati­tudini; ci ispira il fervore dell’amore con il dono dello Spirito; come una vigile sentinella ci so­stiene nella prova e ci protegge da tutti gli avversari; ci riconforta nell’intimità della preghiera.

La fede in Gesù Cristo è una pura scintilla che viene dall’alto; essa s’accende nell’anima c alimenta nel cuore il fuoco tenace della vita secondo lo Spirito che trasforma i nostri desideri, perché «quelli che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito» (Rm 8,5). Come una fiamma viva nutrita della nostra sostanza, essa si slancia al di sopra delle nostre idee e dei nostri sentimenti verso la Luce da cui scaturisce, verso la Voce che ci chiama. Chi avrebbe il diritto, e anche il potere, di fermare la sua libera corsa?

La vita spirituale, come il pensiero teologico, ha conosciuto nella Chiesa frequenti oscilla­zioni e numerose forme. Secolo dopo secolo, ha dimostrato il suo vigore e la sua tenacia attra­verso regolari e sorprendenti rinnovamenti. La nostra epoca non è sfuggita a questi impulsi dovuti al lavorio dello Spirito, che crea la storia nel cuore degli uomini.

Dopo la crisi e i sommovimenti provocati dal recente concilio, attualmente si constata un

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Introduzione

ritorno d’interesse per la spiritualità. Parecchie pubblicazioni che trattano della teologia spiri­tuale lo dimostrano chiaramente. Esse garantiscono la continuità del rinnovamento che si è sviluppato fin dall'inizio del secolo e che spiega in particolare la composizione del Dictionnai- re de Spiritualité ascétique et mystique. L’attuale fase si pone nella scia del concilio Vaticano il che ha reso ai fedeli l’uso della Sacra Scrittura mediante l’accesso alla liturgia, e che ha messo l’accento sull’invito alla santità rivolto a tutti, ai laici così come ai preti e ai religiosi. Essa è stata favorita da una nuova attenzione all’azione dello Spirito Santo nella vita e nell’esperien­za dei cristiani. Inoltre risponde al bisogno di un nutrimento spirituale solido che molti pro­vano in un mondo preso dalla ricerca del benessere materiale.

Questa aspirazione a un rinnovamento, sentita e vissuta in molteplici modi, esige una ri­flessione teologica approfondita, che si estenda fino alla verifica della dottrina e delle catego­rie che ci sono state trasmesse per pensare, spiegare e guidare la vita cristiana. La cosa è tanto più necessaria in quanto dobbiamo far fronte a una contestazione radicale della dimensione spirituale da parte della nostra cultura dominata dalle scienze e dai loro derivati, nell’ambito della tecnica e dei media. Come accordare reciprocamente la razionalità positiva e la spiritua­lità? Non si può arrivarvi senza ben definire gli ambiti e senza evidenziare le differenze.

Il compito in teologia spirituale è vasto e difficile. La semplice esposizione del contenuto della spiritualità cristiana supera di gran lunga i limiti di un libro di normale dimensione, tan­to sono molteplici e varie le correnti sorte e le ricchezze accumulate dall’età dei Padri fino ai nostri giorni. Il nostro progetto si limiterà a presentare un’introduzione teologica alla vita spi­rituale e a tracciare le vie principali che conducono alle fonti che l’alimentano e agli scopi che essa persegue. In questo campo, del resto, un insegnamento non è mai sufficiente, poiché non si può veramente conoscere ciò che è la spiritualità senza averne fatto esperienza, e questuiti- ma ne rinnova necessariamente il contenuto in quanto impegna la vita nella sua scaturigine. Chi inizia a scrivere un’opera sulla vita spirituale deve dunque rassegnarsi ad essere incom­pleto; più va avanti e meglio percepisce che sarà sempre superato da ciò che sta trattando. Tuttavia deve rallegrarsene anziché dolersene, perché in tal modo prende maggiormente co­scienza di essere un semplice servitore dello Spirito che non ha altra pretesa se non di aiutare i propri fratelli a scoprire le vie sulle quali il Signore vuole condurci.

Un quadruplice intento guiderà la nostra analisi della spiritualità cristiana: 1

1. Il nostro primo obiettivo sarà di ristabilire dei legami stretti e vivi tra la spiritualità e la Scrittura. Le correnti spirituali moderne hanno infatti sofferto, aU’intemo della Chiesa cattolica, per una perdita di contatto con la Parola di Dio. Oggi la Bibbia è messa di nuovo tra le mani di tutti; ma dobbiamo imparare a discemerc il suo contenuto spirituale e a trame la sostanza nu­triente. Il Nuovo Testamento, per esempio, riproposto dalla liturgia, ci presenta una catechesi di grande portata spirituale, che si impone a noi come una fonte primaria e un modello; noi però l’abbiamo a lungo trascurata. Tuttavia questo ritorno al testo scritturistico non potrà ottenere il suo effetto se non ritroviamo al fondo di noi stessi la fonte che scaturisce dalla grazia dello Spiri­to Santo, se non ascoltiamo nel nostro cuore la Parola interiore che risponde alla Parola scritta che ci trasmette la Chiesa.

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Introduzione

2. Un problema fondamentale per la teologia spirituale consiste nella riunificazione da operare tra la morale e la spiritualità, separate da parecchi secoli a detrimento di entrambe. Nell’insegnamento divenuto classico, si disponeva certamente di una morale in apparenza so­lida perché fondata su obblighi e divieti precisi, identificati con il Decalogo; essa però restava asfìttica e priva di slancio. Per parte sua, la spiritualità era senza dubbio piena di ardore, ma le sue basi teologiche erano deboli ed essa si sviluppava più che altro nelTordine del senti­mento. Il ristabilimento dei legami tra la morale e la spiritualità è la condizione necessaria per ridare alla prima un dinamismo spirituale e alla seconda la sua solidità. Può essere anche, al momento attuale, una condizione di sopravvivenza per l’una e per l’altra. A nostro avviso, non vi si può arrivare senza fare appello a una morale delle virtù di cui i Padri della Chiesa e san Tommaso d’Aquino ci offrono dei modelli. Così rivitalizzata, la teologia morale ritrove­rebbe facilmente i suoi profondi legami con la Scrittura e con la dogmatica.

La questione tuttavia si prolunga e tocca la teologia nel suo insieme. Si constata infatti che si è prodotta, dalla fine del Medioevo, una separazione crescente tra la teologia, che ha acqui­sito il suo statuto scientifico con la scolastica, e la mistica o la dottrina spirituale legata all’esperienza secondo la fede e l’amore. Troviamo da una parte una teologia che si irrigidisce nelle sue costruzioni razionali, col rischio di fossilizzarsi, e dall'altra un’esperienza spirituale viva, ma all’inquieta ricerca di una teologia che la sostenga e la diriga.

Anche qui il compito è importante, poiché ci si deve domandare se la teologia può conti­nuare a vivere tenendosi lontana dall’esperienza cristiana. Noi formuleremmo così la doman­da: la spiritualità fa parte o no della teologia e si può veramente parlare di una teologia spiri­tuale? La reintegrazione della spiritualità nella teologia, come una dimensione costitutiva, ci sembra essere la condizione per restituire alla scienza sacra la sua forza c la sua vitalità; ma è necessario anche che la spiritualità ritrovi l’ampiezza e la solidità che convengono al suo sta­tuto teologico.

3. Nella ricostituzione di una teologia a dimensione spirituale, l’opera di san Tommaso, largamente alimentata dalla Scrittura e dai Padri, ci offre una base preziosa e ferma, special- mente grazie alla sua concezione della morale finalizzata alla beatitudine e organizzata attor­no alle virtù. Dobbiamo tuttavia far risaltare la dimensione evangelica di questa dottrina, chiaramente indicata dal ruolo preponderante delle virtù teologali e dei doni dello Spirito Santo associati alle virtù.

La conciliazione tra l’insegnamento di san Tommaso e gli autori spirituali, in particolare i mistici, all’interno di una stessa teologia fa sorgere tuttavia un problema delicato: come ac­cordare l’insegnamento della Summa Theologiae, che ci presenta le virtù in una prospettiva piuttosto teorica e soprattutto analitica, con la visione più direttamente pratica e vicina all’esperienza concreta in cui si collocano abitualmente gli autori spirituali? Lo stesso proble­ma si pone del resto nel rapporto con la catechesi apostolica, specialmente riguardo all’inse­gnamento di san Paolo sulle virtù riunite intorno alla carità. Le modalità del passaggio dalla fonte apostolica all’esperienza cristiana e alla riflessione teologica hanno una grande impor­tanza per la vita spirituale così come per la teologia.

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Introduzione

4. L’avvento, nell’epoca moderna, dì una cultura* dominata dalle scienze e dalla tecnica, sull’impulso di una ragione sicura del suo potere universale, pone alla teologia spirituale un problema di fondo che può arrivare fino alle radici della fede. La trasformazione delle condì* zioni e dei ritmi dì vita nelle nostre società per l’influsso del progresso tecnico rende la que­stione concreta e generale: una vita spirituale la quale si sviluppi all’interno del movimento della fede verso un mistero che supera la ragione, è ancora possibile in un universo in cui tut­te le attività dell’uomo, i suoi sguardi, i suoi desideri, i suoi sforzi, sono rivolti verso il mondo esteriore sottomesso all’influsso della scienza?

Secondo il principio: distinguere per unire, ci sembra necessario mostrare prima di tutto quali sono i tratti specifici della vita e della conoscenza spirituale che ne fanno propriamente una sapienza, e di differenziarli così dal tipo di conoscenza che procurano le scienze positive. Questa distinzione è indispensabile per poi disccmere quale può essere l’apporto delle scien­ze umane, in particolare della psicologia, alla vita spirituale; ma anche per rispondere adegua­tamente alla sete interiore nata dall’insoddisfazione e dal vuoto lasciati nel cuore di molti da una cultura unicamente scientifica.

L’audacia della fede è di credere a una conoscenza, a una verità, a una sapienza superiori alla «scienza», più profonde di essa, e di pensare tuttavia che non vi è opposizione tra l’intel­ligenza credente e la vera scienza, nella misura in cui l’una e l’altra obbediscono a uno stesso amore della verità e si rispettano, ciascuna nel suo ordine e secondo il suo metodo.

I quattro intenti o scopi che abbiamo appena esposto convergono verso un punto unico: la riscoperta e la valorizzazione della spontaneità spirituale e dell’azione dello Spirito Santo in noi, come sorgente primaria della vita cristiana, e, di conseguenza, la revisione delle nostre concezioni morali e delle nostre categorie teologiche, affinché esse ridiventino dei canali lar­ghi e flessibili che ritornino a elargirci, con abbondanza e giusta misura, l’acqua viva dello Spirito. Preoccupata di arginare il peccato, la morale è servita troppo da barriera e da punto d’arresto, a detrimento dell’ispirazione che dà vita e movimento. Tutta indaffarata nelle sue costruzioni, la nostra ragione vi si è troppo spesso chiusa come in una fortezza, per timore che un impulso di tipo mistico non andasse a minacciare la sua autonomia e a compromettere il rigore dei suoi metodi. Abbiamo mancato di audacia nel servizio alla fede e di fiducia nella sua forza di illuminazione. Non è venuto il momento di recuperare la nostre fonti spirituali?

Partendo da quel centro superiore da cui sgorga la vita spirituale, noi vediamo illuminarsi di una luce nuova tutto l’insieme della teologia. Possiamo di nuovo comprendere e mostrare che la morale non sopraggiunge per la costrizione di una legge esteriore e dei suoi divieti, ma che essa è veramente inscritta nel nostro cuore, grazie alle aspirazioni del nostro spirito verso il bene, la felicità e la verità, alle quali rispondono le promesse di Dio; che la Scrittura non è un documento come un altro, sottoposto all’indagine degli studiosi, ma che essa serve da sup­porto a una Parola potente, portatrice della sapienza e dell’amore di Dio; che la Tradizione dogmatica infine non si riduce a un codice di proposizioni imposte alla nostra fede dalla Chiesa, pena la scomunica, ma che essa ci offre, come un’eredità senza prezzo, le verità vivifi­canti che Cristo ha rivelato per farci partecipare con intelligenza ed efficacia all’opera della nostra salvezza e per introdurci nell’intimità del Padre suo.

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Introduzione

Come vediamo, un rinnovamento della spiritualità, che le restituisse il suo posto al vertice della morale cristiana, sarebbe estremamente vantaggioso per ogni parte della teologia. La spiritualità vi guadagnerebbe in larghezza di vedute e in fecondità. La teologia vi ritroverebbe un centro vitale che la ispiri e la nutra; essa potrebbe di nuovo assomigliare «a un albero piantato lungo corsi d ’acqua che... nell’anno della siccità non intristisce... e non smette di produrre i suoi frutti» (Ger 17,8 e Sai 1).

In questo saggio di teologia spirituale affronteremo innanzitutto il fondamentale proble­ma posto dalla divisione moderna tra la morale, l’ascetica e la mistica, o la spiritualità, come si preferisce definirla oggi. Ne esporremo l’origine e mostreremo come si possa superare que­sta separazione, per reintegrare pienamente la spiritualità nella teologia (cap. i). Questa riuni­ficazione non può tuttavia avvenire senza il riconoscimento di modalità differenti nell’elabo­razione e nella presentazione della materia teologica (cap. il). Tratteremo in seguito delle fon­ti scritturistiche della spiritualità cristiana mostrando come possiamo di nuovo trame il nutri­mento di cui abbiamo bisogno (cap. in). Questi testi ci porranno di fronte la persona di Cri­sto che sta al cuore di ogni spiritualità cristiana: l’adesione a Cristo vi apparirà come un tema principale (cap. iv). Arriveremo allora al centro teologico della nostra analisi: la definizione della Legge nuova, ripresa da san Tommaso, ci fornirà la «formula» necessaria per ordinare tra loro le molteplici componenti della spiritualità cristiana (cap. v).

Esamineremo poi quale sia rinteriorità della vita governata dalla grazia dello Spirito San­to (cap. vi), come pure il suo legame con l’esperienza cristiana (cap. v ii). Tra le componenti della Legge nuova vedremo dapprima gli elementi principali: la fede in Cristo, radice della vi­ta spirituale (cap. vili); la speranza e il suo movimento dialettico (cap. IX);‘ la carità, come principio della crescita spirituale (cap. x). L’esercizio della vita cristiana dipende anche dall’organismo delle virtù e dei doni, che sono le nostre energie spirituali (cap. Xl); esso si ali­menta nella preghiera (cap. xu) e si fortifica con l’ascesi (cap. xni).

Vengono poi gli elementi secondi ed esteriori della Legge nuova. Dopo la Scrittura già studiata, occorre mostrare il ruolo dei sacramenti e della liturgia come strumenti della grazia (cap. xiv), come pure quello delle istituzioni ecclesiali come organi aU’intemo del Corpo di Cristo (cap. xv). Ci resterà infine da situare la vita spirituale secondo la sua duplice dimensio­ne attiva e contemplativa in rapporto con la cultura che ci circonda (cap. xvi). Termineremo con uno sguardo sulla fede di Maria, come Vergine e Madre (cap. xvil).

Completeremo la nostra analisi con un breve prospetto storico proponendo una classifi­cazione delle principali correnti della spiritualità cristiana (cap. xvm).

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Capitolo primoTEOLOGIA E SPIRITUALITÀ

Quali sono i rapporti tra la teologia e la spiritualità, tra una teologia che si vuole razionale, scientifica, e una spiritualità che si fonda sull’esperienza e impegna largamente l’affettività? O più praticamente: quale posto assegnare alla spiritualità in un programma di teologia? Ha essa il diritto di trovare posto in una teologia che rivendica uno statuto scientifico? Resterà un sup­plemento all’insegnamento della teologia morale, come il vecchio corso di ascetica e mistica? Oppure la teologia spirituale, come si ama chiamarla oggi, può allacciare relazioni più strette con le altre branche della scienza sacra e avere un ruolo più importante tra esse?

Divideremo la nostra ricerca in due parti: dapprima vorremmo mostrare come sia neces­sario reintegrare la spiritualità nella teologia morale e rimetterla in comunicazione con tutte le parti della teologia. Poi dovremo precisare i rapporti tra una teologia che ha assunto uno sco­po principalmente speculativo dopo la scolastica del XIII secolo e una dottrina spirituale più direttamente pratica e legata all’esperienza, quale si trova negli autori spirituali e nei mistici come pure nella catechesi apostolica. Sarà il nostro secondo capitolo.

Per determinare il posto della spiritualità in teologia, occorre considerare innanzitutto la storia dell’insegnamento teologico riguardo alla morale e alla spiritualità nel corso degli ulti­mi secoli. Essa ci fornisce uno status quaestionis indispensabile. Vi si vedono nascere nuove divisioni che subito si impongono e diventano classiche. Malgrado le critiche, i miglioramenti e i cambiamenti di terminologia, esse sussistono ancora e riguardano in modo particolare la spiritualità.

1. La divisione tra la morale, l’ascetica e la mistica, o la spiritualità, all’epoca moderna

La divisione tra la morale, l’ascetica e la mistica, che oggi preferiamo chiamare spiritualità o teologia spirituale, è in realtà di creazione relativamente recente. Risale al xvii secolo e fu soprattutto diffusa nel xvm e xix secolo.

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La vita spirituale del cristiano

1.1 Definizioni

Ecco come padre Pourrat (1871-1957), sulpiziano, illustra, all’interno di una visione siste­matica, il posto che occupa la spiritualità in teologia: «La spiritualità è quella parte della teo­logia che tratta della perfezione cristiana e delle vie che vi conducono. Si distinguono la teo­logia dogmatica che insegna ciò che bisogna credere, la teologia morale che insegna ciò che si deve fare o evitare per non peccare né mortalmente né venialmente, e al di sotto delle due ma basata su di esse, la spiritualità o teologia spirituale. La spiritualità si suddivide a sua volta in teologia ascetica e in teologia mistica.

«La prima ha come oggetto gli esercizi ai quali deve dedicarsi ogni cristiano che aspiri alla perfezione... Dio ci invita a questa pratica e ci dona le grazie necessarie per corrispondere al suo invito. Diverso è il caso degli stati straordinari di cui si occupa la teologia mistica, quali l’unione mistica propriamente detta e le manifestazioni che ne derivano, come l’estasi, le vi­sioni e le rivelazioni. La caratteristica propria di questi stati è che non dipendono da coloro che li provano... In ascetica, è l’anima che, solo mediante la grazia, si sforza per elevarsi verso Dio; in mistica, al contrario, è Dio che invade improvvisamente e impetuosamente l’anima senza che essa debba esercitare la sua attività se non per ricevere e gustare il dono divino» {La spiritualité chréttenne, i, Paris 1943, pp. vu-vni; ìv, Conclusione).

Abbiamo dunque una triplice distinzione: teologia dogmatica: ciò che si deve credere teologia morale : ciò che si deve fare per non peccare teologia spirituale:— ascetica: esercizi ordinari in vista della perfezione cristiana— mistica: stati straordinari.

1.2 Storia

La descrizione di padre Pourrat deve essere completata da uno sguardo sulla storia.Nel xv secolo si incomincia a distinguere tra la teologia speculativa, scolastica, insegnata

nelle università, con il suo linguaggio tecnico e astratto, e la teologia mistica il cui scopo è di descrivere e di favorire l’esperienza e la ricerca della perfezione cristiana, di indicarne i mez­zi e le tappe, in un linguaggio sufficientemente concreto e accessibile a tutti. Uno degli ini­ziatori della teologia mistica fu il cancelliere Giovanni Gerson (1363-1429) che—lo accen­niamo soltanto—aveva adottato in morale il principio di Occam secondo il quale nulla è giu­sto o ingiusto in sé: è la volontà divina che rende buono ciò che permette e cattivo ciò che proibisce. La teologia mistica diede origine a una vasta letteratura, soprattutto nel XVI seco­lo, sulla scia della mistica renana e poi della mistica spagnola. Ma a quell’epoca il termine di teologia mistica riguarda ancora l’insieme dei fenomeni ed esperienze della vita spirituale descritta dagli autori.

Il xvii secolo vede la nascita delle «Istituzioni morali», manuali di morale destinati all’in­segnamento nei seminari e finalizzati specialmente all’amministrazione del sacramento della

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Teologia e spiritualità

Penitenza. La materia morale vi è disposta seguendo i comandamenti di Dio e della Chiesa intesi come il codice degli obblighi che si impongono a tutti i cristiani, come pure dei peccati che essi devono evitare o accusare nella confessione per essere assolti.

Questa concezione della morale, incentrata sui comandamenti e sui peccati, portò alla se­parazione tra la morale, obbligatoria per tutti, e lo studio delle vie verso la perfezione in cui si impegnano liberamente certi cristiani, specialmente i religiosi. Quest’ultimo campo, conside­rato in un primo tempo come la materia della teologia mistica, si dividerà in due parti: da un lato l’ascetica che descrive le vie ordinarie dove basta lo sforzo umano per avanzare con la grazia abituale e per praticare ciò che si chiamerà la contemplazione acquisita, e dall’altro la­to la mistica che si applica alle vie straordinarie favorite da grazie divine speciali, in cui l’ani­ma è soprattutto passiva sotto l’azione di Dio e gode della contemplazione infusa.

La divisione tra ascetica e mistica si diffonderà soprattutto nel xvm secolo grazie alle ope­re di padre Scaramelli, sj (1687-1752): il Direttorio ascetico (Napoli 1752) e il Direttorio misti­co (Venezia 1754).

Il termine «spiritualità» in un primo tempo è stato usato per indicare il carattere di ciò che è spirito, distinto dalla materia. Così si parla della spiritualità dell’anima. È nel xvii secolo che esso ha cominciato ad assumere il senso che oggi gli riconosciamo1. Littré definisce così la spiritualità: «Termine di vita devota. Tutto ciò che ha rapporto con gli esercizi interiori di un’anima svincolata dai sensi, che cerca di perfezionarsi esclusivamente agli occhi di Dio». E cita, come esempio, la nuova spiritualità di Madame Guyon e di Fénelon.

Coinvolto nella disputa sul quietismo, il termine spiritualità ha dapprima assunto un tono peggiorativo per l’uso che ne fece Bossuet per designare ciò che egli chiama «la nuova spiri­tualità»; Fénelon invece la identifica con la dottrina dei santi. Si potrebbe definire la spiritua­lità, nel senso moderno, come una dottrina sul progresso della vita interiore del cristiano nel suo rapporto con Dio, formata da un insieme di principi, di metodi e di esercizi tratti dall’esperienza, riguardanti in particolare la preghiera e l’ascesi c aventi come scopo la perfe­zione della carità. Notiamo che prima di essere una dottrina, la spiritualità presuppone un soffio ispiratore, un certo spirito che si concretizza in un insegnamento e in una pratica.

Così inteso, il termine finirà per sostituire l’espressione di ascetica e mistica, troppo tecni­ca per il linguaggio corrente e divenuta ormai ostica. Esso si imporrà anche nel titolo di opere importanti, a partire dalla prima guerra mondiale, e suggerirà una visione più unitaria della vita spirituale.

Nel diventare usuale, il termine di spiritualità si applicherà largamente. Esso servirà a de­signare le diverse scuole che propongono una descrizione e una direzione della vita spirituale. Si parlerà della spiritualità ignaziana, francescana, carmelitana, domenicana. Il carattere co­stante di questi usi è di avere come scopo la perfezione della vita cristiana, distinto dall’esi­genza dei comandamenti obbligatori di cui si occupa la teologia morale. Perciò si potrà dire che la morale è una e le spiritualità molteplici.

Quando emergerà l’idea di una vocazione di tutti i cristiani—laici o religiosi—alla perfe-

1 Per maggiori dettagli, cfr. A. Solignac, art. «Spiritualité», in DSp, xv, 1989, coll. 1142$s.

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La vita spirituale del cristiano

zione, l’uso del termine di spiritualità si estenderà ulteriormente: si parlerà di una spiritualità del matrimonio, del laicato, ecc.

1.3 Dibattiti recenti

Per concludere questo rapido sguardo sulla storia, diremo una parola sui dibattiti talora intensi che si sono svolti durante la prima metà di questo secolo riguardo alla divisione della spiritualità in ascetica e mistica.

Alla fine del secolo scorso, il sacerdote—più tardi monsignore—Auguste Saudreau (1859- 1946), fondandosi sulla tradizione dei Padri della Chiesa, rimetteva in discussione le divisioni divenute classiche e ciò che esse implicavano, nel suo libro Les degrés de la vie spirituelle (An- gers 18%), affermando che le grazie mistiche erano le condizioni normali della perfezione, lar- ' gamente concesse a chiunque vi si disponga generosamente, e che il cammino della contempla­zione era apeno a tutti nella vita di preghiera. Non conviene dunque, egli pensava, separare l’ascetica e la mistica; vi è continuità tra Luna e l’altra. Saudreau scartava, per conseguenza, la teorìa di una contemplazione acquisita mediante lo sforzo personale che si ricollega all’asceti­ca; riconosceva soltanto la contemplazione infusa, di natura mistica, in cui l’anima è passiva sotto l’azione di Dio, e sosteneva che questa forma di contemplazione era accessibile a ogni cristiano mediante la grazia. Questo era, a suo giudizio, il cammino della santità che è la voca­zione comune nella Chiesa. Precisava infine che i fenomeni straordinari, estasi o rapimenti, avevano semplicemente un ruolo secondario e non appartenevano all'essenza della mistica2.

Le opinioni di monsignor Saudreau furono attaccate da padre Poulain, sj (1836-1919), autore di un Tratte de théologie mystique (Paris 1910), da A. Farges, sulpiziano (1848-1926) e, da pane dei carmelitani, poco più tardi, da padre Gabriel di Santa Maria Maddalena (1893- 1953), che prese le difese della contemplazione acquisita. Le idee di monsignor Saudreau fu­rono confermate e sviluppate dalle pubblicazioni di padre Arintero (1860-1928), domenicano spagnolo, il quale sostenne vigorosamente che la vita mistica ha la stessa estensione della vita cristiana, e di padre Garrìgou-Lagrange, OP (1877-1964), uno degli interpreti più autorevoli di san Tommaso in materia spirituale. Presero pane al dibattito, tra gli altri, anche padre de Guiben, sj (1877-1942) nella sua Theologia spiritualis ascetica et mystica, di tendenze concilia­trici, e Jacques Maritain (1882-1973) ne Les Degrés du savoir e in Science et Sagesse, dove pro­pone una riflessione originale sulla scienza morale e sulle relazioni tra la teologia c la mistica. Menzioniamo infine dom Stolz (1900-1942), in Germania, la cui Theologie derM ystik si pone nella linea dei Padri, fa una critica del lato psicologico della mistica spagnola e promuove l’unità tra l’ascesi, la liturgia, la vita spirituale e la dottrina mistica dogmaticamente fondata.

Riguardo a questa lunga discussione, padre Adnès scrive, a mo’ di conclusione: «Alcuni cercavano di trovare una via di conciliazione, come J. de Guibert. Alcuni spigoli si smussaro­no, alcuni punti di vista si riavvicinarono. Ma si trattava in realtà di posizioni inconciliabili. La controversia finì non tanto per un accordo di principio quanto per la morte dei conten-

2 Cfr. art. «Contemplation», in DSp, li, coll. 2159-2171 e art. «Saudreau Auguste», ibid., xm, col. 1988.

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Teologia e spiritualità

denti. La morte aveva assottigliato la loro schiera... E si deve ammettere che i problemi ri­mangono» (Dictionnaire de Spiritualità, art. «Mystique», col. 1937).

Questa polemica non deve nasconderci il potente movimento di rinnovamento spirituale che ha segnato la prima metà di questo secolo e che ha prodotto un ritorno d’interesse per la vita spirituale e per la mistica. Ne sono testimonianza le numerose opere di valore dedicate alla storia e alla dottrina della spiritualità, come pure alcune riviste quali la «Vie Spirituelle», sorta per iniziativa di padre Bemadot, o p (1883-1941), la «Revue d ’ascétique et de mystique», lanciata da padre de Guibert, e diverse opere monumentali, quali il Dictionnaire de Spiritua­lità ascàtique et mystique, cominciato nel 1932. Il fondo del dibattito sta nel fatto di mettere la vita spirituale alla portata dei cristiani come una vocazione comune, anche nella sua dimen­sione mistica, caratterizzata dalla preghiera contemplativa. Ci si sforza di superare le classifi­cazioni teologiche che rompono l’unità della vita spirituale, la continuità del suo progresso e impediscono al popolo cristiano di accedere alla parte migliore del Vangelo.

Tocca a noi oggi assumere questo impegno, quando un nuovo interesse per questi proble­mi sta prendendo vita.

2. Critica della divisione tra morale, ascetica, mistica e spiritualità

2.1 L’origine di questa divisione: la sistematizzazione della morale intorno al puro obbligo

La divisione tra morale, ascetica e mistica, di cui noi trattiamo, è tale che opera pratica- mente una separazione tra la morale c la spiritualità, poi riguardo alla mistica, continuando co­sì nel campo morale il processo di divisione della teologia che si constata dalla fine del Me­dioevo. La critica di cui abbiamo appena fornito un resoconto si è basata soprattutto sulla se­parazione tra l’ascetica e la mistica. A nostro avviso, l’orìgine di queste divisioni, la causa pri­ma della loro istituzione, deve essere ricercata nella concentrazione della teologia morale sugli obblighi, nella scia del nominalismo, a partire dal XIV secolo. Divenuta classica, questa conce­zione si è imposta specialmente grazie ai manuali che, dopo il concilio di Trento, hanno orga­nizzato la materia morale attorno ai comandamenti di Dio e della Chiesa, come fosse il codice degli obblighi del cristiano, e non più attorno alle virtù, come nella Summa di san Tommaso, tuttavia presa teoricamente come modello. Tutto deriva da lì logicamente, ineluttabilmente.

La concentrazione della morale sugli obblighi ha come prima conseguenza l’esclusione della ricerca di una perfezione situata al di là degli stretti obblighi e riportata ai consigli evan­gelici. Per rendere conto di questa materia e far posto agli autori spirituali, si costituirà una scienza sussidiaria, intesa come un supplemento della morale: sarà l’ascetica e la mistica. La distinzione si rafforza poiché si unisce a una divisione in seno alla Chiesa tra il popolo, a cui si rivolge la morale, e i religiosi, che sono votati alla perfezione dal loro stato.

La logica del sistema continuerà Ì suoi effetti provocando la separazione tra l’ascetica e la mistica. Effettivamente una morale dell’obbligo, che davanti alla libertà erìge la legge, fa so­

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La vita spirituale del cristiano

prattutto appello nel cristiano allo sforzo volontario, dato che si presuppone una grazia ordi­naria, promessa a tutti. Questa concezione volontaristica della morale si trasferirà all’interno della spiritualità e provocherà la sua divisione in due campi: quello dell’ascetica, che si occu­pa della ricerca della perfezione che è alla portata dello sforzo personale, nell’ambito del- l’ascesi e più particolarmente nella preghiera e nella contemplazione, da cui l’idea di una con­templazione acquisita; e poi il campo della mistica, che dipende da grazie straordinarie che Dio concede ad alcune anime scelte che le ricevono passivamente, come nella contemplazio­ne infusa, con le estasi, le visioni e altri fenomeni che possono accompagnarla. Si vedrà nel quietismo di Molinos (1628-1696), poi di Madame Guyon (1648-1717), il tipo di questo at­teggiamento di passività mistica. Così la condanna del quietismo, nel 1695, determinerà il crollo di queste correnti spirituali e una reazione antimistica generale che durerà fino al no­stro secolo.

Questa triplice divisione porterà a differenti organizzazioni della materia: la morale si or­dinerà attorno ai comandamenti fissando gli obblighi e i peccati; la dottrina sulle virtù, che suppone una tendenza verso la perfezione, sarà trasportata nell’ascetica e riguarderà special- mente le virtù acquisite; la dottrina sui doni, che comporta un modo d’agire speciale dovuto all’azione dello Spirito Santo, sarà assegnata alla mistica.

La concezione volontaristica della morale, basata sugli obblighi, è dunque la causa princi­pale delle divisioni che noi critichiamo. Essa del resto corrisponde al razionalismo dell’am­biente che la circonda, il quale riconduce la scienza alla ragione, la morale alla volontà e il re­sto ai moti dei sensi che si devono rigorosamente controllare. Ne consegue un rifiuto naturale della mistica e dell’esperienza spirituale, come pure di ogni conoscenza superiore alla pura ragione scientifica del tempo.

2.1.1 La rottura tra la libertà e le inclinazioni spirituali

Queste conseguenze storiche hanno una causa più profonda che noi indicheremo breve­mente. Esse sono il frutto di una concezione della libertà che si è diffusa nelle scuole di teolo­gia dal xiv secolo, la libertà d’indifferenza ben presto comunemente ammessa. Definita da Guglielmo d’Occam come la possibilità di scegliere tra i contrari a partire dalla sola volontà, la libertà d’indifferenza opera una rottura con le aspirazioni spirituali, in particolare con l’in­clinazione al bene e alla felicità, fonte del desiderio naturale di Dio, che san Tommaso aveva posto all’origine della libertà umana, secondo la sua concezione che noi abbiamo chiamato una libertà di qualità o di perfezione. Da allora in poi la libertà si afferma come la possibilità radicale di accettare o di rifiutare ogni inclinazione preliminare, sia essa naturale, come l’aspi­razione alla felicità, o acquisita, come le tendenze che creano le virtù. In questo caso la mora­le non può più derivare da un impulso interiore qualunque; essa non può più avere altra ori­gine che non sia l’intervento esterno della volontà divina onnipotente che si impone con la forza dell’obbligo. La libertà e la morale si separano dunque da tutto ciò che dipende dalle inclinazioni, dalle aspirazioni, dall’attrattiva e dallo slancio interiore verso il bene, vale a dire da tutti i moti della mente e del cuore che mettono in azione il desiderio di Dio e costituisco-

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Teologia e spiritualità

no la materia privilegiata della spiritualità e della mistica. La morale diventa una questione di obbligo e di volontà; la spiritualità è ricondotta nel campo dell’affettività e del sentimento, spesso considerati come una minaccia per la libertà e la capacità morale.

La rottura tra la teologia e la mistica è grave, perché scava un fossato tra la morale e le sue sorgenti spirituali. La cosa è tanto più sorprendente in quanto la divisione si è prodotta in se­no alla scuola francescana, erede della mistica così luminosa di san Francesco e tra i suoi di­scepoli che erano chiamati gli «spirituali». Essa modificò la concezione stessa della volontà il cui atto proprio non sarà più ormai l’amore che è un’inclinazione, ma la possibilità di impor­re ciò che si vuole a sé o agli altri sotto forma di imperativo5.

La Filosofia moderna erediterà queste concezioni della libertà e della morale, pensando spesso di innovare poiché ignora la trafila storica. 11 sistema di Kant, in particolare, così forte­mente imperniato sull’imperativo categorico che si impone in nome della ragione a una li­bertà invaghita d ’autonomia, manifesterà anch'esso un’opposizione radicale riguardo alla mi­stica e alle inclinazioni, e rifiuterà ogni validità all’esperienza spirituale.

La questione dei rapporti tra la morale e la spiritualità nasconde dunque un problema di fondo concernente la libertà, che impegna sia la filosofìa sia la teologia. Essa può condurre a mettere in discussione l’esistenza stessa di una conoscenza e di una scienza spirituale.

Per ristabilire saldi legami tra la spiritualità e la morale, e poi con l’insieme della teologia, occorre dunque disporre di una concezione dell’uomo che ricollochi le aspirazioni spirituali al cuore stesso dell’atto libero.

2.2 Le conseguenze della divisione: il restringimento del contatto con la Scrittura e con la Tradizione

Segnaliamo un altro notevole inconveniente che deriva dalla separazione tra morale, asce­tica e mistica o spiritualità: il restringimento del contatto con la Scrittura così come con la Tradizione dei Padri. Questa divisione, infatti, non si incontra nella Bibbia né nei Padri, an­che se i termini di morale, di ascesi e di mistica sono usati da questi ultimi. È l’organizzazione di questo trinomio in scienze distinte, in categorie separate, che è nuova e che non si può ap­plicare senza anacronismo o senza offesa ai testi antichi.

2.2.1 II problema in teologia morale

L’inconveniente principale è il seguente. Con l’idea che la propria scienza è delimitata da­gli obblighi, il moralista si interesserà solo ai testi della Scrittura che decretano precetti impe­rativi. Questi saranno principalmente i comandamenti del Decalogo, sui quali si concentrerà la sua attenzione, anche nella sua lettura del Nuovo Testamento. Egli lascerà al predicatore e allo spirituale i testi di carattere sapienziale che non possono ridursi a un obbligo legale, con-

5 Cfr. il nostro libro Les Sources de la morale chrétienne, Fribourg-Paris 19902, cap. XIV (tr. it. Le fonti della morale cristiana, Milano 1992).

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siderandoli come semplici esortazioni o consigli. Così intesa e applicata, la divisione tra la morale e la spiritualità formerà un vero e proprio schermo filtrante nella mente del moralista. È il difetto di lettura che abbiamo chiamato «schizoscopia»: il taglio artificiale di un testo, provocato da categorie che si hanno nella mente e che si proiettano su ciò che si legge4. Que­sto comportamento impedisce al moralista di vedere ciò che peraltro è chiaro come il sole: l’insegnamento morale della Scrittura ci conduce al di là degli obblighi e supera il movente della pura obbedienza alla legge, poiché è spirituale per essenza: esso ci propone una vita se­condo lo Spirito, ordinata al mistero di Dio rivelato in Gesù, c ci traccia le vie che ci condu­cono ad essa come alla nostra salvezza, alla nostra beatitudine e alla nostra perfezione.

Da questa miopia causata da categorie inadeguate deriverà il fatto che i grandi testi della catechesi apostolica, a cominciare dal Discorso della montagna di Gesù, saranno trascurati dai moralisti col pretesto che appartengono alla spiritualità piuttosto che alla morale.

2.2.2 II problema in esegesi

La difficoltà si aggrava per il fatto che i moralisti hanno trasmesso il loro modo di pensare agli esegeti, i quali lo hanno trascritto nel loro linguaggio proprio. Si distingueranno, per esempio, l’indicativo delle proposizioni di fede che formano il dogma, l’imperativo dei pre­cetti di ordine etico, l’ottativo infine o la semplice esortazione che è caratteristica della pare- nesi. Dietro la distinzione tra etica e parenesi si ritrova esattamente la separazione tra la mo­rale e la spiritualità. Il risultato sarà identico: già sufficientemente occupati dalle questioni dogmatiche ed etiche, gli esegeti non concederanno più di tanta attenzione ai testi che hanno classificato come parenetici e che tuttavia costituiscono i documenti principali della dottrina morale e spirituale del tempo degli Apostoli.

a. Il restringimento della spiritualitàIl restringimento della morale provoca un restringimento della spiritualità, messa ormai in

disparte e considerata come una scienza sussidiaria. Senza dubbio gli spirituali sapranno ali­mentarsi alle fonti vive della Scrittura. Tuttavia la loro lettura dei libri sacri soffrirà, in una certa misura, della mancanza di appoggio da parte dei moralisti e degli esegeti, dell’assenza di una solida riflessione razionale che questi ultimi avrebbero potuto fornire. Inoltre, a causa dell’accaparramento del senso letterale della Scrittura da pane degli specialisti e dei teologi, il senso spirituale sarà staccato dalla sua base, come la spiritualità, e sembrerà fluttuare nell’aria secondo ispirazioni e sentimenti incontrollabili.

b. Gli effetti della crisi protestanteIl contesto storico ha fortemente contribuito alla diminuzione del contatto della morale e

della spiritualità con la Scrittura, in seno alla Chiesa cattolica, dopo il concilio di Trento. La preoccupazione di proteggersi contro la Riforma protestante e la sua esaltazione della Scrittu-

4 Cfr. ibid., pp. 120 e 180.

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Teologia e spiritualità

ra in opposizione alla Tradizione, ha provocato nei cattolici una presa di distanza nei con­fronti della Bibbia che ha colpito gli spirituali, tra gli altri, soprattutto se essi non erano chie­rici e ignoravano il latino. Già dalla fine del xvi secolo la Bibbia non fu più accessibile nella lingua del popolo. Santa Teresa d ’Avila, per esempio, non ha mai avuto un Bibbia a sua di­sposizione, come noi oggi, e san Francesco di Sales non ha potuto raccomandare a Filoteo la lettura regolare della Scrittura. Ne è risultato un restringimento della comunicazione con la Parola di Dio che è potuto passare attraverso i canali dell’insegnamento della Chiesa dispen­sato nei catechismi, nella predicazione, nei libri di pietà, nelle opere spirituali. Questa situa­zione non ha impedito allo Spirito Santo di compiere la sua opera e di formare grandi mistici; tuttavia le correnti spirituali dell’epoca hanno incontestabilmente sofferto di queste limitazio­ni, così come è accaduto per la riflessione teologica che se ne occupava.

Ne è derivata una tendenza alla divisione e al particolarismo nel campo spirituale median­te la moltiplicazione «delle» spiritualità, paragonabili a delle cappelle nella cattedrale della Chiesa, mediante la diversificazione delle devozioni particolari divenute necessarie per ali­mentare il fervore del popolo cristiano, privato anche dell’accesso diretto alla liturgia.

Per rimediare a questa tendenza generale, caratterizzata dalla divisione e dal restringi­mento, si sono prodotti i principali rinnovamenti dell’epoca preconciliare: il rinnovamento biblico che è arrivato a ridare a tutti l’accesso alla Scrittura, il rinnovamento liturgico già ini­ziato da dom Guéranger all’inizio del secolo scorso, il rinnovamento patristico con le edizioni critiche e le traduzioni delle opere dei Padri, il rinnovamento tomistico nella misura in cui è riuscito a ristabilire dei legami con l’esperienza spirituale e a darle un’espressione teologica.

Tuttavia uno dei problemi più difficili consiste nel chiarimento delle categorie che vengo­no usate in teologia, sia speculativa sia spirituale. E ciò che rapidamente tenteremo di fare.

3. Proposta di una concezione riunificata della morale e della spiritualità nel quadro di una morale delle virtù

Per ristabilire l’unità tra la morale e la spiritualità, ci baseremo sulla concezione della mo­rale che ci propone san Tommaso d’Aquino nella linea dei Padri: la morale è una risposta alla domanda della beatitudine e si organizza attorno alle principali virtù, teologali e morali, a cui si ricollegano i precetti del Decalogo e che perfezionano i doni dello Spirito Santo. Abbiamo dunque a che fare con una morale della felicità e delle virtù.

3.1 L’aspirazione al bene alla radice della libertà

Visto in questa prospettiva il panorama della morale cambia notevolmente. LI punto più radicale sta nella concezione della libertà legata all’aspirazione al bene e alla felicità. La li­bertà, infatti, non è qui definita dall’indifferenza nella scelta tra il bene e il male, ma dall’at­trattiva per il bene, di cui il male è una mancanza. Alla radice della libertà sta una spontaneità spirituale: essa ci rende inclini a una bontà che causa l’amore, suscita il movimento del desi-

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La vita spirituale del cristiano

delio e procura infine la gioia. Noi siamo liberi non malgrado questa inclinazione, ma a causa di essa, poiché apre il nostro cuore e la nostra mente alla dimensione dell’infinito della verità e del bene; essa ci dona la possibilità di progredire continuamente e di superare ogni bene li­mitato e creato, pur apprezzandolo secondo il suo valore.

Sant’Agostino ha espresso magnificamente quale fosse questa aspirazione primaria in una breve e celebre frase che pone all’inizio delle sue Con/essiones, all’origine del suo itinerario spirituale: «Ci hai fatto per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te». L'uomo è libero, a immagine della libertà divina, a causa di questa aspirazione, inscritta nelle profondità del suo spirito, verso il riposo in Dio, il riposo dell’amore.

Questa è la libertà che sta alla fonte del dinamismo spirituale e alla base di tutta la vita morale. Troviamo in essa, nel suo orientamento verso la perfezione del bene e della felicità, il fondamento della riunione tra la morale e la vita spirituale.

3.2 La virtù finalizzata alla perfezione

La libertà, come facoltà di agire secondo il bene, non ci è data in pienezza all’inizio della vita, ma come un germe che dovrà crescere e svilupparsi per portare i suoi frutti, come un al­bero piantato sulle rive di un fiume, secondo il bel paragone della Scrittura. Inoltre l’espe­rienza ci insegna ampiamente che questa libertà può essere ostacolata nel nostro cuore e mi­nacciata dal peccato, che divide l’anima e la colpisce come una malattia. Dovremo dunque af­frontare una vera c propria lotta di liberazione e di guarigione sul piano morale e spirituale.

La protezione e la crescita della libertà saranno l’opera propria della virtù, con l’aiuto dei precetti che ci indicano quali peccati le si oppongono e minacciano la carità. Radicata nella nostra inclinazione naturale al bene e attingendovi la sua linfa, la virtù fa crescere la nostra li­bertà e la fortifica con l’esercizio perseverante degli atti che le sono conformi. Essa ci procura così una sempre crescente possibilità di compiere opere virtuose, con facilità malgrado lo sforzo richiesto, con gioia malgrado la pena, di nostra libera iniziativa malgrado le difficoltà incontrate, come lavora, senza risparmiarsi, un buon artigiano che conosce il proprio mestie­re e lo ama. La virtù ci insegna a esercitare il nostro mestiere di uomini.

La virtù, come ogni arte, implica del resto, nella sua stessa fatica, una parte di ispirazione che è del più alto valore. Ciò avverrà soprattutto nella collaborazione tra l’uomo e Dio, grazie alle virtù infuse e ai doni, i quali ci fanno tendere a una perfezione superiore per impulso del­lo Spirito Santo, che ci è stato dato per farci imparare il nostro mestiere di discepoli di Cristo e di figli di Dio.

Notiamo a questo proposito che bisogna evitare di separare le virtù acquisite e le virtù in­fuse. Nella realtà dell’agire cristiano esse sono intimamente associate, come lo sono, nell’arti­giano, il lavoro c l’ispirazione. 11 lavoro prepara l’ispirazione e questa incita al lavoro. Consi­derate in rapporto a noi, le virtù acquisite e infuse costituiscono le due facce dell’agire cristia­no, l’una efficiente e l’altra recettiva rispetto all’impulso superiore. Esse formano insieme un unico agire, frutto della collaborazione tra la grazia, che «infonde» e ispira, e la libertà che la riceve con il sì della fede e vi si unisce con l’amore attivo. Similmente, se si può distinguerle

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Teologia e spiritualità

per una differenza d'accento, non si deve, a nostro giudizio, contrapporre una contemplazio­ne acquisita a una contemplazione infusa. Ogni contemplazione è passiva o recettiva nei con­fronti della luce, nel suo primo movimento, soprattutto di fronte a Dio che noi non possiamo conoscere se non è lui a prendere l'iniziativa di rivelarsi mediante la sua Parola. In questo senso, ogni contemplazione cristiana è infusa. Tuttavia la contemplazione più alta ha sempre bisogno dell’umile lavoro della meditazione che ci riconduce alla traduzione letterale della Parola incarnata e alle esigenze della pratica.

La virtù implica dunque un dinamismo interiore orientato verso la perfezione del bene, come la vita verso la sua pienezza, come l’albero verso la produzione dei suoi frutti. Così scompare il principale motivo per separare dalla morale l’ascetica e la mistica, alle quali si ri­servava lo studio delle vie verso la perfezione. Per mezzo delle virtù, è l’intera teologia morale che viene finalizzata alla perfezione della vita cristiana; essa stessa esìge la sua manifestazione in una spiritualità che possieda una dimensione ascetica e mistica.

3.3 Lo slancio e il progresso della carità

Queste considerazioni valgono particolarmente per la carità e per ogni morale che ricono­sca veramente in essa l’ispirazione e la forma di tutte le virtù. Infatti, come ogni amore, la ca­rità produce uno slancio spontaneo verso la sua crescita e la sua perfezione fin dal primo istante della sua formazione in noi, dal «colpo di fulmine» per Dio e per Cristo, che ce l’infonde. È ciò che esprime perfettamente il primo comandamento: amerai Dio con tutto il tuo cuore, con tutte le tue forze. Esso significa l’aspirazione alla pienezza che dipende dalla natura dell’amore, al di là delle nostre imperfezioni, delle nostre debolezze e delle nostre len­tezze. Non esiste amore reale senza questa aspirazione. Arrestare la sua crescita, rifiutare il suo progresso o cercare di dispensarsene, sarebbe mortale per la carità.

Una morale delle virtù, ordinate intorno alla carità, non può dunque rinunciare alla ricer­ca della perfezione né separarsi dalla spiritualità che ne fa lo studio. Essa sarà necessariamen­te spirituale e anche mistica, al suo fondo.

3.4 L’ascesi e la mistica finalizzate alla perfezione della carità

Da un altro lato, la considerazione della carità come la virtù principale ci offre una base per legittimare, in una certa misura, la distinzione tra l’ascetica c la mistica facendo di esse non più delle scienze separate, ma dando loro come materia delle tappe distinte nel progresso verso la perfezione c nell’educazione alle virtù che essa richiede.

La carità è infatti molto esigente: essa pretende «tutto» al livello del cuore e nella vita. Ora, nella vita quotidiana non possiamo corrispondere a questo richiamo intimo senza sotto­metterci a una paziente educazione che inizia con l’accettazione di una «disciplina», di una ascesi, necessaria per vincere in noi le mancanze e i peccati che ostacolano la carità e per di­staccarci da d ò che le è incompatibile.

Ogni vita cristiana comporta dunque una tappa ascetica ed esige, d ’altra parte, il manteni-

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La vita spirituale del cristiano

mento di un tale sforzo fino alla fine. Ma l’ascesi riceve qui un significato positivo: essa è fina­lizzata al progresso delle virtù, soprattutto della carità. È anche al servizio della libertà inte­riore che non può crescere senza di essa.

Inoltre, nella pienezza a cui l’amore aspira si nasconde il «mistero» della persona amata. L’amore ci inclina verso chi amiamo col desiderio di conoscerlo nella sua intimità, di contem­plarlo nel suo «segreto», di «vedere il suo volto», come dice la Scrittura. L’amore è, in questo senso, naturalmente mistico e contemplativo. È particolarmente vero per l’amore divino che, fin dalla prima scintilla provocata in noi dalla Parola rivelatrice, contiene l’invito a entrare nel Mistero di Dio, a cercare il suo Volto in noi conformandoci alla sua Immagine, cioè alla figu­ra di Cristo tracciata dai Vangeli.

La scienza mistica avrà dunque come oggetto la descrizione delle tappe della carità che conducono alla contemplazione del mistero divino manifestato in Cristo. Nella linea delle virtù perfezionate dai doni, la mistica non sarà separata dall’ascetica. Finalizzata con essa alla perfezione della carità, se ne distinguerà come studio degli stati più perfetti su questa terra dell’amore e della vita contemplativa.

In conclusione, pensiamo che oggi occorra reintegrare l’ascetica e la mistica in seno alla teologia morale e ridare loro uno statuto pienamente teologico. Ne risulterà che la teologia stessa, in particolare la morale, potrà recuperare la sua dimensione spirituale e anche mistica. È questa forse, per essa, una condizione di sopravvivenza.

Siamo felici di constatare che il Catechismo della Chiesa cattolica si pronuncia esattamente in questo senso. Dopo aver richiamato, con la Lumen Gentium , che «tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità», che tutti sono dunque chiamati alla santità, il Catechismo prosegue: «Il progresso spirituale tende all’unione sempre più intima con Cristo. Questa unione si chiama ‘mistica’ perché par­tecipa al mistero di Cristo mediante i sacramenti—‘i santi misteri’—e, in Lui, al mistero della Santissima Trinità. Dio ci chiama tutti a questa intima unione con Lui, anche se soltanto ad alcuni sono concesse grazie speciali o segni straordinari di questa vita mistica, allo scopo di rendere manifesto il dono gratuito fatto a tutti» (nn. 2013-2014).

Indicazioni bibliografiche

Dizionari

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La vita spirituale del cristiano

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Capitolo secondoRICONOSCIMENTO DI MODALITÀ E DI REGISTRI

DIFFERENTI ALL’INTERNO DELLA TEOLOGIA

1. Le differenze tra la teologia scientifica e la spiritualità

La reintegrazione della spiritualità nella teologia è largamente auspicata, almeno negli am­bienti che sono sensibili a questa dimensione della vita cristiana. L'uso dell'espressione «teo­logia spirituale» è significativo a questo riguardo1. Questo riavvicinamento tra la teologia e la spiritualità, incontestabilmente necessario, fa tuttavia sorgere un problema importante, causa-

1 Ecco alcune utili precisazioni sui termini che usiamo.a) Spiritualità si può intendere a un trìplice livello.1. Può designare la materia spirituale colta nel suo primo zampillare, come spesso accade nei misti­

ci, in san Francesco d ’Assisi, Caterina da Siena o Teresa del Bambin Gesù, per esempio.2. Questo contenuto può aver subito l’elaborazione di una riflessione in vista della comunicazione e

presentarsi come una dottrina spirituale con categorìe proprie, il che non esclude evidentemente la spontaneità. È il caso della dottrina di Francesco di Sales, come pure di Giovanni della Croce e di Tere­sa d ’Avila.

3. Infine la spiritualità può designare la riflessione e la presentazione propriamente teologica riguar­do alle opere e alla materia spirituale. Il termine sostituisce allora quelli di ascetica e di mistica. E il li­vello dei libri e dei programmi di teologia. In questo terzo senso, il teologo (o lo storico) che si occupa della spiritualità non deve essere necessariamente egli stesso uno spirituale o un mistico. Aggiungiamo tuttavia che il senso originario e pieno di «teologo» include l’esperienza spirituale.

b) Dottrina spirituale designa direttamente la materia spirituale presentata come una dottrina dagli autori che espongono la loro esperienza in un modo già articolato per comunicarla c farla vivere ad al­tri. Questa dottrina può essere poi calata e presentata in categorìe teologiche. In questo caso l’accento viene messo sul sostantivo «dottrina».

c) Teologia spirituale. Per sua natura questa espressione designa l’opera di una riflessione teologica sulla materia spirituale. Tuttavia coloro che la usano pongono spesso l’accento più sull’aggettivo «spiri­tuale» con l’intento di ridare alla teologia una dimensione che essa ha troppo trascurato a causa del suo orientamento soprattutto razionale. «Teologia spirituale» potrà dunque designare un’opera in cui un autore espone, in maniera teologica, un insegnamento basato su una esperienza spirituale.

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La vita spirituale del cristiano

to dalle differenze che sussistono tra la teologia scientifica c la dottrina spirituale proposta dagli autori che costituiscono un’autorità in materia.

1.1 Teologi e spirituali: due modi diversi di pensare e di parlare

La scolastica ha elaborato, nelle università del Medioevo, lo statuto scientifico della teolo­gìa applicandovi le categorie e le regole della filosofia di Aristotele. La teologia latina ha as­sunto, a questa scuola, un carattere sostanzialmente razionale in virtù del suo metodo dialetti­co, nella sua arte dell’analisi e della sistematizzazione, nel suo linguaggio tecnico. Questo tipo di teologia è divenuto classico in Occidente; i cambiamenti che sono intervenuti in seguito spesso non hanno fatto che accrescere l’esigenza di razionalità.

Ora, è evidente che gli autori ai quali abitualmente ci si riferisce come a fonte e modello nel campo della spiritualità hanno modi di pensare e di parlare molto diversi da quelli della teologia scientifica. La loro maniera di considerare e di presentare la vita spirituale è decisa­mente più legata all’esperienza personale, più pratica nell’intento e più vicina al linguaggio corrente. Si potrebbe d ’altronde far risalire la differenza alle orìgini stesse della scolastica, al dibattito che oppose gli spirituali cisterciensi—san Bernardo e Guglielmo di Saint-Thierry— ad Abelardo, l’iniziatore del metodo scolastico. Così gli storici, come dom Jean Ledercq, hanno potuto parlare di una teologia monastica, anteriore alla teologia universitaria.

Oggi in realtà coloro che si occupano della teologia spirituale si riferiscono principalmente ai maestri dei tempi moderni, a santa Teresa d ’Avila e a san Giovanni della Croce, a sant’Igna- zio di Loyola e a san Francesco di Sales, che sono pressappoco contemporanei all’introduzione dell’ascetica e della mistica nella teologia e all’uso moderno del termine spiritualità. A partire da lì, l’interesse per la spiritualità ha esteso l’uso della nozione ad altre epoche, come a san Be­nedetto, al monacheSimo o agli Ordini mendicanti, e si è potuta ricavare una spiritualità dalle opere e dalla vita di san Tommaso d’Aquino2.

Pur sostenendo la reintegrazione della spiritualità nella teologia morale, è opportuno mantenere una certa differenziazione tra esse, secondo una duplice modalità nella-considera­zione di una stessa materia globale.

1.1.1 Paragone tra san Tommaso e san Giovanni della Croce

Jacques Maritain, ne / gradi del sapere, ha posto chiaramente il problema nel paragone che ha instaurato tra san Tommaso, rappresentante della teologia speculativa, e san Giovanni della Croce, modello della teologia mistica*. Egli constata numerose apparenti antinomie tra questi due dottori su alcuni punti importami. Per esempio Giovanni della Croce descrive la contemplazione come un non agire, mentre Tommaso la definisce come l’attività più alta. La dottrina morale del Dottore angelico è basata sulla ricerca della perfezione per mezzo di atti

2 Cfr. J.P. Torrell, art. «Thomas d’Aquin», in DSp, xv, 1991, coll. 719-773.* Les Degrés du savoir, Paris 1932, cap. vni (tr. it. Distinguere per unire. I gradi del sapere, Brescia 19812).

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che impegnino tutte le facoltà, ciascuna al proprio livello, secondo il principio secondo il quale la grazia non distrugge ma perfeziona la natura, mentre la spiritualità del Dottore misti­co è dominata dalla sua dottrina del vuoto da scavare nelle facoltà, che appaiono come delle caverne, per l’esigenza della rinuncia a tutto fino a non conservare più nulla, «nulla, nulla».

Noi aggiungeremo una divergenza che abbiamo constatato a proposito della ferita che causa l’amore. Per Giovanni della Croce la ferita è essenziale all’amore. Così egli spiega la vi­va fiamma d’amore: «L’amore la cui natura è quella di ferire per provocare l’amore e comuni­care le sue delizie si trova in quest’anima come una viva fiamma». Per parte sua, nel suo stu­dio della passione d ’amore, Tommaso si era posto la questione: l’amore causa una ferita? Egli risponde che, preso formalmente, come una conformazione al bene, l’amore non causa ferita ma, al contrario, rende migliore e perfeziona chi ama; lo guarisce, se occorre. Questo è spe­cialmente l’effetto dell’amore di Dio. E invece l’amore peccaminoso che ferisce e corrompe colui che vi si abbandona4.

La spiegazione di queste antinomie è da ricercare, secondo Maritain, nella differenza dei livelli di conoscenza a cui si pongono i nostri due dottori, che determinano delle differenze nella visione delle cose e nel linguaggio. San Tommaso considera le realtà spirituali sul piano della scienza speculativa c usa un linguaggio ontologico che esprime l’essenza delle cose. Egli dice che le cose sono in se stesse. San Giovanni della Croce guarda la realtà spirituale al livel­lo dell’esperienza interiore secondo una scienza direttamente pratica nel suo fine e nel suo linguaggio. Egli esprime le cose così come le si sentono nell’esperienza. Dal suo punto di vista la rinuncia a ogni attività e a se stesso fino al nulla, fino al vuoto completo, è la condizione ne­cessaria per accogliere il Tutto divino nel quale sta la perfezione dell’uomo. Per lui il non agi­re conduce all’attività più alta, quella di Dio nell’uomo mediante la fede pura; ma ne parla a partire dalla rinuncia attraverso cui bisogna passare.

Quanto a san Tommaso, la ricerca della perfezione che egli propone e che culmina nell’at­tività contemplativa comporta, in realtà, un’esigenza di distacco che non è inferiore a quella di Giovanni della Croce. È infatti un distacco radicale che esige la ricerca della vera beatitu­dine: essa non sta né nelle ricchezze, né nella gloria o nel potere, né nel piacere, né in un qualsiasi bene dell’anima, scienza o virtù, né in alcun bene creato, ma in Dio solo. Questo «Dio solo» ha la stessa radicalità del «nulla» di Giovanni della Croce; esso però è posto nella linea dell’attività dell’uomo e non prima di tutto nel senso del distacco richiesto.

I nostri due dottori dunque non si contraddicono, se li si sa interpretare in profondità. Tuttavia le loro differenze manifestano l’esistenza di due modalità o di due registri distinti nella percezione e nell’espressione delle realtà spirituali che sono l’oggetto della teologia. Si può chiamare l’una speculativa e l’altra spirituale, dato che l’una usa un linguaggio ontologi­co e l’altra un linguaggio esperienziale. In questo senso si potrà parlare, all’intemo di un’uni­ca teologia, di una modalità speculativa e di una modalità spirituale, o anche di due registri, l’uno speculativo e l’altro spirituale.

Riconoscimento di modalità e di registri differenti

4 I-n, q. 28, a. 5. Si veda il nostro articolo Im Vive fiam m e d'amour ebez saint Jean de la Croix et saint Thomas d ’Aquin, in «Carmel» 4 (1991), pp. 10-14.

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La vita spirituale del cristiano

1.1.2 La «Summa Theologiae» e le «Confessiones» di sant’Agostino

Possiamo fare una constatazione dello stesso genere paragonando la Summa Theologiae con le Confessiones di sant’Agostino. Questo capolavoro della spiritualità cristiana non è una semplice biografìa, ma il racconto dell’azione di Dio nella vita di Agostino, contenente già tutta la sua teologia. Per questo san Tommaso considera le Confessiones come una fonte dot­trinale importante. Tuttavia la differenza balza agli occhi: le Confessiones trattano la materia teologica, l’opera della grazia di Dio nell’uomo, in una prospettiva, secondo modalità e in un linguaggio che sono molto lontani dalle opere del Dottore angelico.

Le Confessiones sono scritte con l’uso della prima e seconda persona, come un dialogo tra l’«io» di Agostino e il «Tu» divino. L’opera di Tommaso è tutta composta alla terza perso­na, a parte il «Respondeo dicendum» puramente tecnico, in un modo che si può definire im­personale e che si vuole universale. Le Confessiones invece riferiscono un’esperienza al tem­po stesso unica e tipica, e la presentano come una storia, divisa tra il passato, il presente e il futuro nella vita di Agostino. San Tommaso, per parte sua, non fa mai la minima allusione al­la sua esperienza personale; si può solo intuirla sotto il fìtto tessuto della sua argomentazio­ne. Qui siamo ancora chiaramente di fronte a due modalità differenti del lavoro teologico, a due registri sulla tastiera della riflessione cristiana riguardante le realtà spirituali. Da una par­te troviamo un pensiero e un linguaggio sostanzialmente razionali, che si sforzano di espri­mere le cose nella loro essenza; dall’altra abbiamo una conoscenza e un modo di espressione di natura esperienziale, caratteristici di una teologia spirituale, che dice le cose così come le si provano.

Siamo così condotti, dopo aver sostenuto la reintegrazione della spiritualità nella teologia, a mantenere tra esse una certa differenziazione secondo una duplice modalità nella conside­razione di una stessa materia, secondo un duplice registro aH’intemo di un’unica scienza teo­logica. Questa è per noi la condizione di un’autentica riconciliazione della teologia con l’esperienza spirituale.

1.2 I tratti caratteristici della teologia spirituale

A conclusione di queste osservazioni, si potrebbero riassumere nel modo seguente i tratti che caratterizzano la dottrina o la teologia spirituale, a differenza della teologia scientifica o speculativa5.

1. La dottrina spirituale mantiene un legame essenziale con l’esperienza spirituale. Essa ha come oggetto quello di descriverla nelle sue vie e nelle sue tappe, e come scopo quello di ri­produrla in coloro che vi si impegnano. Per questo essa possiede chiaramente l’impronta della personalità del suo autore ed è particolarmente attenta allo svolgimento della storia interiore.

5 Cfr. l’eccellente articolo di padre Labourdette, Q uest-ce que la théologie sptriluelle?, in RTh 92 (1992), pp. 355-372.

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2. La dottrina spirituale impegna necessariamente l’affettività, poiché il progresso in que­sto ambito è dato principalmente dallo sviluppo della carità. La volontà e la sensibilità vi han­no la loro parte in uguale, se non maggiore, misura dell'intelligenza, poiché determinano un’esperienza che impegna l’intera personalità. Noi possiamo immaginare un teologo che possiede la fede senza la carità; ma non si vede come uno spirituale possa essere privo della carità senza con questo perdere la sua qualità propria. Aggiungiamo che la vera teologia esi­ge, di fatto, la carità, perché non può essere veramente in accordo con la sua materia senza una certa connaturalità che procura proprio questa virtù.

3. Il linguaggio della spiritualità si serve di un altro registro rispetto alla teologia. Esso è più personale a causa del suo legame con l’esperienza e del suo scopo pratico. Ogni autore ha il suo stile facilmente riconoscibile e si esprime spesso alla prima persona. Lo spirituale usa abitualmente la lingua comune e si serve ampiamente dei procedimenti stilistici che essa offre per chiarire e convincere, come l’esortazione, gli esempi, le immagini e i simboli, poiché il sil­logismo non gli basta. Il suo modo di esprimersi si avvicina così al linguaggio spesso così con­creto della Scrittura.

4. La dottrina spirituale tende verso una certa sistematizzazione per amore di chiarezza e di coerenza, al fine di ottenere una comunicazione più ampia. Essa userà a tale scopo alcuni elementi fomiti dalla teologia speculativa, ma li ordinerà solitamente in un modo conforme all’esperienza del suo autore o alla corrente spirituale alla quale si ricollega. Ciò spiega l’esi- sterna di una molteplicità di spiritualità, di una grande varietà di famiglie spirituali, mentre la teologia morale conserva una relativa unità. Il pubblico a cui si rivolge la spiritualità sarà an­che più ristretto, perché se tutti i cristiani sono effettivamente chiamati alla perfezione della carità, esistono molteplici gradi e modalità nella realizzazione. Un certo numero tra loro non ha di fatto una preoccupazione di progresso spirituale sufficiente per interessarsi a una dot­trina di questo genere.

5. La dottrina spirituale ha uno scopo direttamente pratico; non si limita a descrivere la vita spirituale, a insegnare che cos’è la carità o un’altra virtù: essa cerca di farle praticare. Ecco perché Maritain ha collocato la scienza spirituale tra la teologia di tipo speculativo e la cono­scenza prudenziale qualificandola come una scienza praticamente pratica6. Essa non è così ra­zionale, così universale e, in questo senso, così scientifica come la prima; ma essa possiede d ’altronde sufficiente ampiezza, generalità e interesse, organizzazione e certezza per poter ri­vendicare lo statuto di una scienza, come dimostra, per esempio, l’attenzione privilegiata che Henri Bergson riservò alla mistica carmelitana. Per questo essa si eleva al di sopra della cono­scenza prudenziale che è tutta personale.

Tuttavia se conviene distinguere questi tre piani—teologia, spiritualità e conoscenza pru­denziale—occorre anche evitare di separarli poiché essi si riuniscono nell’atto prudenziale in cui si produce l’azione, che è l’oggetto della scienza morale, e in cui si elabora l’esperienza che le fornisce il suo alimento, in particolare sotto la forma della conoscenza per connatura­lità. Per essere vive, la teologia, la spiritualità e la prudenza devono mantenere tra loro una

6 Cfr. J. Maritain, op. cit., cap. vili.

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comunicazione costante, una sorta di circolazione intellettuale e cordiale, paragonabile al mo­vimento del sangue nel corpo umano, alla fonte dei nostri atti7.

Esistono dunque delle differenze importanti tra la teologia e la spiritualità, che deve inte­grare una teologia spirituale: da parte della scienza teologica, una considerazione più specula­tiva, più astratta e generale, più «oggettiva» e ontologica, più scientifica e tecnica; da parte della teologia spirituale, una considerazione più pratica ed esperienziale, più personale e «soggettiva», più particolare anche, più affettiva e comune nella sua espressione. Tuttavia non possiamo fermarci alla constatazione di queste differenze. Forse ci facciamo un’idea troppo ristretta, troppo rigida della teologia nella sua razionalità e della conoscenza spirituale nella sua diversità. Non potrebbe esistere una via per dare loro maggiore ampiezza e per meglio riunirle in profondità?

2. La relazione della teologia morale e della spiritualità con le loro fon ti scritturistiche

Vorremmo mostrare qui un nuovo aspetto del rapporto tra la teologia e la spiritualità. Es­so deriva dal confronto tra la teologia e le sue fonti scritturistiche che hanno alimentato an­che la spiritualità cristiana. Ci poniamo così nella linea di un ritorno alla Parola di Dio come alla fonte primaria della teologia, specialmente morale, e della spiritualità.

2.1 Paragone tra san Paolo e san Tommaso riguardo alle virtù

Prenderemo l’esempio della morale di san Tommaso perché è particolarmente significati­vo. Il Dottore angelico è il più tipico rappresentante della teologia scolastica nel suo periodo creativo. Egli ha attinto la propria dottrina prevalentemente dalla Scrittura e l’ha esaminata partendo sempre dal suo senso letterale. Come maestro di teologia ha commentato in misura notevole san Matteo, san Paolo e san Giovanni, ispirandosi ampiamente ai commenti patristi­ci in cui vedeva l’interpretazione ufficiale della Chiesa. Ha costruito la sua teologia morale partendo dall’appello alla beatitudine e l’ha organizzata secondo l’ordine delle virtù in conformità con le fonti cristiane, ponendo al servizio della dottrina evangelica tutto ciò che di vero, di giusto, di buono c’è nella virtù umana (cfr. Fil 4,8), in particolare secondo la filosofìa greca, sfruttata anche dai Padri.

Benché si sia troppo a lungo trascurato questo aspetto, nell’organizzazione della Secunda Pars della Summa Theologiae, dove il suo genio si è meglio manifestato, san Tommaso ha dato molto chiaramente la predominanza alla dimensione spirituale ed evangelica della morale: mediante la disposizione del trattato della beatitudine in funzione della visione di Dio pro­messa ai cuori puri, conformemente alle beatitudini di san Matteo, mediante il primato asse­

7 Si veda la descrizione del metodo caratteristico della teologia morale, in Les Sources de la morale chrétienne, cit., pp. 62-69.

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gnato alle virtù teologali, mediante la funzione attribuita ai doni dello Spirito Santo come perfezione delle virtù, mediante la preminenza della Legge nuova che è una autentica chiave di volta nell’edifìcio della morale, mediante il ruolo preponderante della grazia ricevuta nei sacramenti. La dottrina morale di san Tommaso merita dunque perfettamente di essere consi­derata come una teologia spirituale ed evangelica.

D’altra parte quando si paragona l’insegnamento del nostro Dottore sulle virtù, nella magi­strale esposizione della Summa, con la catechesi apostolica nelle lettere di san Paolo, si consta­ta che tra questi scrìtti esistono differenze abbastanza importanti, che concordano in gran par­te con la distinzione delle prospettive che abbiamo segnalato tra la teologia e la spiritualità.

2.1.1 Cinque differenze

Ecco alcune di queste differenze. Esse non dipendono dalla sostanza della dottrina, ma indicano modalità diverse nella considerazione delle virtù.

1. Lesposizione di san Tommaso è fondamentalmente analitica. Egli studia ogni virtù in particolare secondo l’ordine del numero sette ereditato dalla tradizione, distinguendo netta­mente i due piani delle virtù teologali e delle virtù morali. Ad ogni virtù cardinale ricollega un più o meno grande numero di virtù annesse, come la religione in dipendenza della giustizia, la sobrietà e la castità incluse nella temperanza, ecc. La sua prima preoccupazione è di distin­guere le virtù le une dalle altre per mezzo di una definizione adeguata.

Il nostro Dottore si cura indubbiamente in alcune questioni speciali di mostrare che le virtù sono connesse tra loro, come le virtù morali sono coordinate dalla prudenza, e l’insieme dalla carità che è «la forma delle virtù». Tuttavia in Tommaso la visione analitica prevale e suggerisce il paragone con un trattato di anatomia in cui sono studiati separatamente i diversi organi del corpo, che naturalmente funzionano insieme.

Davanti a questa impressionante sintesi lo spirituale è tuttavia un poco sconcertato. Egli impara senza dubbio in modo notevole ciò che sono le virtù e qual è il loro numero, ma si do­manda come affrontarle nella pratica, come acquisirle ed esercitarle nel concreto della vita.

La riflessione di san Paolo sulle virtù è sintetica e concreta. Indubbiamente troviamo in lui delle enumerazioni di virtù che la nostra mente analitica tende a separare; ma quando le si os­servano con maggiore attenzione, ci si accorge che sono strettamente raggruppate intorno alla carità e poste in un contesto che insiste sull’unità, sulla comunione. Lo si può notare nella let­tera ai Romani (12,9-13), nella prima ai Corinzi (13,4-7), nella descrizione del frutto dello Spirito della lettera ai Calati (5,22-23). Intorno alla carità sono radunate queste virtù della vi­ta quotidiana: la pazienza, la benevolenza, la bontà, la dolcezza, il dominio di sé, la gioia della speranza che accompagna la fede, la costanza nelle prove, l’assiduità nella preghiera, l’ospita­lità, ecc.

Ancor meglio, sembra proprio che agli occhi dell’Apostolo queste differenti virtù costitui­scano le facce e le qualità dell’unica carità effusa nei cuori dallo Spirito Santo. Si potrebbe di­re che la carità genera una specie di sfera in cui essa occupa il centro e di cui le altre virtù for­mano i raggi che da essa procedono e verso di essa conducono. Nascosta nel segreto del cuo­

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re, la carità si manifesta attraverso queste virtù concrete ed esse la contengono. Questa pre­sentazione corrisponde evidentemente all’intento catechetico di Paolo.

La carità appare dunque come una forza dinamica e sintetica riguardo alle virtù. Essa vuole continuare quest’opera edificando la Chiesa come una comunione, organizzando in una sintesi attiva i diversi doni e ministeri che compongono il Corpo di Cristo, come mostrano i passi precedenti della lettera ai Romani (12,4-8) e della prima ai Corinzi (12).

2. La presentazione della morale in san Tommaso è razionale e speculativa. Essa non è certo razionalista, nel senso moderno, poiché è illuminata dall’intelligenza della fede; il suo scopo però è di delineare l’essenza di una virtù così come appare allo sguardo della ragione nel rap­porto col suo oggetto, liberandola dalle connotazioni occasionali, di ordine sensibile o imma­ginario, che l’accompagnano nell’esperienza ordinaria. La definizione di una virtù esprìme questo; essa servirà come base per lo studio delle sue condizioni d ’azione e dei suoi rapporti con le altre virtù. Senza dubbio il Dottore angelico sa perfettamente che la morale ha per na­tura un fine pratico; ma noi possiamo dire che lo sguardo che ha su di essa è di tipo speculati­vo, poiché cerca prima di tutto di esprìmere che cosa è, e ciò è confermato dal suo linguaggio astratto e tecnico. Questa era la condizione per far raggiungere alla dottrina morale un livello scientifico.

In quest’ottica, san Tommaso farà una netta distinzione tra il piano delle virtù teologali, soprannaturali e infuse, e il piano delle virtù morali che l’uomo può acquisire col suo sforzo e di cui i filosofi, come Aristotele, Andronico di Rodi o Cicerone, ci forniscono elenchi e studi che il nostro Dottore sfrutterà.

In san Paolo lo scopo è d ire tta m en te pratico, a llo stesso m odo della pred icazione e della cate­ch esi apostolica. Essa assume precisamente la forma dell’esortazione o della «paradesi», se­condo il termine parakaleo che regolarmente introduce l’insegnamento morale nelle lettere degli apostoli. Non è una semplice esortazione parenetica, come troppe volte si è detto. La paraclesi impegna l’autorità apostolica e inculca una dottrina morale che forma spesso una piccola sintesi di natura catechetica. I testi rivelano un lavoro di redazione accurato al fine di presentare la dottrina in formule concise e in un modo abbastanza completo, per garantire la fedeltà della trasmissione orale e facilitare la meditazione. Vi si può distinguere uno sforzo di formulazione della dottrina morale parallelo alla formulazione del Credo, ma a scopo diretta- mente pratico.

Benché i riferimenti di san Paolo alle virtù abbiano una forma molto meno elaborata di quella della teologia scolastica, essi tuttavia contengono—e san Tommaso sarà il primo a rico­noscerlo—tutta la pienezza della sapienza secondo lo Spirito, che procede dal carisma degli apostoli, superiore a quello dei dottori e ad ogni scienza umana. L’insegnamento di Paolo di­pende infatti dall’intelligenza rivelatrice dei disegni di Dio.

3. Noteremo, in particolare, che la visione di san Paolo è così fortemente incentrata sulla fede e sulla carità che queste ultime comunicano la loro dimensione teologale alle altre virtù. Si può dire che esse le «teologizzano». Prendiamo il caso, per esempio, dell’umiltà e dell’obbe­dienza nell’inno ai Filippesi, che san Paolo sceglie per manifestare la grandezza dell’amore di Cristo nel mistero della Croce. Realmente il fatto che il Figlio di Dio si sia reso umile e obbe­

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diente fino alla Croce è stupefacente e manifesta un amore che supera ogni nostra misura c che è propriamente divino. In quanto forme dì questo amore nclTanima di Cristo, l’umiltà e l’obbedienza ricevono una dimensione che si può chiamare teologale. Per mezzo di esse Cri­sto porta a compimento la sua opera di salvezza; in esse ci rivela e ci comunica il suo amore.

San Tommaso non ha certo torto, dal suo punto di vista analitico, quando pone l’umiltà e l’obbedienza tra le virtù morali ed umane; ma ciò lo conduce a definirle a una certa distanza da quelle teologali: l’umiltà elimina l’ostacolo dell’orgoglio, l’obbedienza si oppone all’amor proprio sottomettendosi al precetto. Queste virtù possono comunque preparare la strada alla carità e awirinarvisi, ma esse restano a un livello inferiore, il che non permette, ci sembra, di rendere interamente conto di ciò che esse diventano quando sono afferrate dalla carità di Cri­sto e sono realmente trasformate in virtù divine. Il nostro Dottore studia e paragona le virtù nella loro distinzione, agli occhi della ragione; l’Apostolo le guarda e le nomina nella loro unione secondo la percezione che ne dà l’intelligenza del cuore.

Bisogna riconoscere inoltre che a causa dell’uso che fa delle liste di Cicerone per classifi­care le virtù, san Tommaso non può assegnare se non un posto apparentemente assai mode­sto all’umiltà, collegata alla temperanza, per mezzo della modestia (i m i , q . 161), e all’obbe­dienza, unita alla giustizia per mezzo dell’osservanza (q . 104).

Così collegate alla carità di Cristo, come ce le presenta san Paolo, l’obbedienza e l’umiltà possono essere considerate come virtù specificamente cristiane; esse pongono le fondamenta stesse della vita spirituale. L’insegnamento di san Tommaso su queste virtù ci aiuta ad analiz­zarle e a percepirne il lato umano; ma esso resterebbe incompleto e non potrebbe portare i suoi frutti se non ci riconducesse alla dottrina dell’Apostolo, come a una pienezza spirituale.

4. Una quarta differenza tra la prospettiva speculativa e analitica di san Tommaso e quella di san Paolo, pratica, sperimentale e sintetica, appare quando si considera il ruolo e il rilievo dati a certe virtù. Le tre virtù teologali e le quattro cardinali—prudenza, giustizia, fortezza, temperanza—, già citate nel libro della Sapienza (8,7), dominano la costruzione di Tommaso e s’impongono incontestabilmente. Anche per Paolo la fede, la speranza e la carità sono le prime tra le virtù, ma sono accompagnate da altre virtù diverse da quelle cardinali, che non sono citate come tali, il che talvolta metterà in imbarazzo san Tommaso.

È questo evidentemente il caso dell’umiltà e dell’obbedienza di cui abbiamo appena par­lato. Menzioneremo anche la pazienza o longanimità che accompagna regolarmente la carità nelle descrizioni di san Paolo. Essa è la prima qualità citata nella lettera ai Corinzi: «La carità è paziente...» (lCor 13,4). La pazienza assume la duplice forma della hypomone: è la carità che sopporta tutto e resiste nelle prove, soprattutto nella persecuzione; e della makrothumia: la costanza o pertinacia della carità. Come virtù della durata, la pazienza esercita un influsso generale nella vita spirituale, poiché nessuna virtù può svilupparsi e maturare senza di essa. Di nuovo si può dire che questa virtù acquista qui una dimensione teologale, in quanto è una partecipazione alla pazienza di Cristo e alla pazienza stessa di Dio, come saprà spiegare più tardi Tertulliano nel suo trattato De patientia.

San Tommaso, per parte sua, considererà la pazienza, sulle orme di Cicerone, come una parte della virtù di fortezza, insieme con la fiducia e la perseveranza, che ha come scopo quel­

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lo di allontanare la tristezza, in generale (ii-ll, q. 136). Egli tuttavia aggiungerà, ispirandosi al De patientia di sant'Agostino, che non si può avere la virtù di pazienza senza la carità, secon­do l’indicazione, proprio di lCor 13,4, che la carità è paziente.

Un caso particolarmente indicativo è quello della vigilanza che è per san Paolo una virtù veramente caratteristica del cristiano. Essa orienta la sua vita verso il giorno che sta per venire e guida il combattimento spirituale contro le tenebre: «Voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro: voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno... Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri» (lTs 5,4-6). «È ormai tempo di svegliarvi dal sonno... La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce... Rivestitevi del Si­gnore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri» (Rm 13,11-14). Così intesa, la vi­gilanza designa un atteggiamento di risveglio e di speranza che si comunica all’insieme delle virtù. Essa manifesta concretamente la nuova dimensione storica che introduce la fede in Cri­sto e mostra l’orientamento escatologico della morale di san Paolo. Rivolta verso la luce di Cristo, verso il Maestro, verso lo Sposo che sta per venire, anche la vigilanza assume una di­mensione teologale e una portata generale. Così compresa, la vigilanza avrà un grande ruolo aU’intemo della vita spirituale, in collegamento specialmente con la preghiera, e si esprimerà per esempio nelle veglie e nella preghiera notturne. Essa diventerà la virtù caratteristica dell’Avventò.

San Tommaso non sembra aver percepito l’importanza della vigilanza nella catechesi di san Paolo. Poiché non la trova nella lista delle virtù di cui dispone, la identifica con la solleci­tudine, come una prontezza dell’anima a eseguire ciò che bisogna fare; perciò essa fa parte della virtù di prudenza (il-ll, q. 49, a. 9). La definizione non è errata, dato che la vigilanza consiste proprio in quell’attenzione attiva che rende la prudenza zelante; ma in un contesto preso in prestito dalla filosofia, essa non implica quell’ardente tensione dello sguardo e del cuore verso la venuta del Signore che dà alla virtù paolina un carattere così personale e così luminoso.

5. Notiamo un’ultima differenza importante. L’ottica più concreta e sintetica di san Paolo gli permette di manifestare più chiaramente nelle sue descrizioni il legame dell’agire cristiano e delle virtù con la persona di Cristo. La sua catechesi morale comporta sempre l’indicazione della relazione con Cristo e della nostra integrazione nel suo Corpo che è la Chiesa. Egli ci vuole persuadere con insistenza e in tutte le maniere che la nostra vita è una vita in Cristo, con Cristo. Se sappiamo leggere questi testi senza spezzettarli, arriviamo facilmente a conclu­dere che ognuna delle virtù che circondano la carità ha la sua radice nell’amore di Cristo e prende il suo modello nei «sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5).

Lo stesso accadrà riguardo allo Spirito Santo, dispensatore dei doni spirituali e special- mente della carità con le virtù che essa genera (cfr. ICor 13). Le virtù possono essere molte­plici; per Paolo è un unico e medesimo Spirito che le opera in noi, come gli altri doni, a co­minciare dalla fede che «Gesù è Signore» (ICor 12,1-11).

La prospettiva analitica di san Tommaso gli impedisce di manifestare con la stessa chia­rezza questi legami. Egli è costretto a studiare separatamente, da una parte, l’agire umano e le

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virtù nella Secunda Pars, e, dall’altra, Cristo nella Tenia Pars. Chi ha familiarità con la Summa Theologiae sa perfettamente che lo studio di Cristo come la Via del ritorno delFuomo verso Dio conferisce una dimensione cristologica a tutta l’opera e in particolare alla morale con le sue virtù e con i doni dello Spirito Santo che attualizzano la grazia della Legge nuova. Occor­re tuttavia, per accorgersene, uno sguardo esperto, sufficientemente ampio per mantenere sempre in vista l’intero piano della Summa, e anche così penetrante da valutare nello studio di ogni virtù la parte di esperienza cristiana che vi è introdotta, come nella questione dedicata al martirio, atto supremo della virtù di fortezza (i m i , q. 124).

11 paragone tra san Paolo e san Tommaso che abbiamo appena stabilito, e che si potrebbe proseguire, non ha come scopo, ovviamente, di fare la critica del Dottore angelico, ma di evi­denziare la differenza che esiste tra la teologia scientifica e la catechesi apostolica nel modo di considerare le virtù, in rapporto col problema della congiunzione tra la teologia e la spiritua­lità. Questa ricerca ci permette nello stesso tempo di mostrare che l’insegnamento di san Pao­lo, relegato da troppi moralisti nel genere minore della parenesi, può perfettamente reggere il confronto con la teologia più esigente e perfino avere la meglio nel rapporto con l’esperienza e la pratica.

2.1.2 Differenze e complementarità per noi tra san Paolo e san Tommaso

Tentiamo di fare il punto. Lo sguardo del Dottore angelico è principalmente speculativo, anche se il suo intento è pratico; il suo metodo è soprattutto analitico, anche se egli sa indicare le connessioni e possiede il dono della sintesi; la sua concezione delle cose è in primo luogo ra­zionale, anche se egli è dotato di una intelligenza intuitiva e sa valorizzare la conoscenza per connaturalità. Il suo linguaggio infine è relativamente astratto, privo di connotazioni sensibili e immaginose; esso è di fattura tecnica e assai conciso, anche se il rapporto con l’esperienza e il riferimento ai testimoni che la esprimono sono sempre presenti. Conseguentemente le virtù, le relazioni che intercorrono tra esse, con Cristo, con lo Spirito Santo, saranno studiate separata- mente, con una breve indicazione delle connessioni che le uniscono. Si conoscerà soprattutto ciò che sono le virtù, come si esercitano, qual è la loro gerarchia e la loro natura.

Lo sguardo dell’Apostolo è pratico e spirituale. II suo insegnamento è un’esortazione e ha come scopo diretto di suscitare la fede, di generare l’agape e in essa esercitare le virtù che ci conformano a Cristo per impulso dello Spirito Santo. È una vera e propria catechesi le cui considerazioni sono sostanzialmente sintetiche, anche se entra in un certo dettaglio sulle virtù e sui vizi. Essa si rivolge al cuore e all’intelligenza e privilegia la comprensione della realtà a partire dalla carità come centro vitale. Il suo linguaggio resta concreto, legato agli esempi e ai casi, ma assume già un orientamento generale adattato alla trasmissione nella Chiesa e alla predicazione missionaria.

Queste differenze non ci devono stupire. Esse sono inevitabili a causa dei limiti della no­stra mente e del linguaggio di cui disponiamo. Sono anche necessarie per manifestare la fe­condità dell’insegnamento apostolico. Come il seme evangelico che produce cento per uno, la dottrina di san Paolo ha nutrito la predicazione dei Padri greci e latini, la riflessione di

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sant’Agostino come quella di san Tommaso e di tanti altri, spirituali e mistici. Ma nessuno ha potuto esaurire questa semente.

Perciò davanti a questa diversità dobbiamo evitare la trappola di un metodo troppo diffe­renziale che taglia, oppone e relativizza. È meglio ricercare la concordanza, che fa risaltare le linee di tendenza che possiamo riprendere per costruire a nostra volta.

Abbiamo bisogno di san Paolo per comprendere in profondità la morale di san Tommaso di cui è il primo ispiratore, per apprezzarne la dimensione spirituale, il carattere autentica­mente evangelico e teologale, per legittimare anche l’uso che egli fa della filosofia greca al ser­vizio della sapienza cristiana, basato sulle indicazioni date dall’Apostolo. Quest’ultimo ci di­mostra allo stesso modo che san Tommaso non è il Vangelo, che non ha potuto dire tutto, perché la realtà spirituale supera ogni analisi e ciascuno ha il suo carisma. La lettura dell’Apo­stolo ci aiuta infine a collocare san Tommaso nell’insieme dei Dottori e degli spirituali in cui egli stesso si è sempre posto.

D’altra parte abbiamo bisogno dello studio scientifico di san Tommaso per misurare oggi l’ampiezza e la forza della morale delle virtù e dei doni predicata da san Paolo in forma cate­chetica e troppo facilmente trascurata dai teologi. Come un maestro provetto, Tommaso può insegnarci la pratica della teologia dove si associano il rigore dell’esigenza razionale e la pene- trazione delle realtà spirituali che procurano il dono di sapienza.

Il metodo che ci suggerisce questo paragone consiste in un moto alternato tra san Paolo e san Tommaso, tra la catechesi che porta la sapienza di Dio e la scienza teologica, inaugurando una sorta di giro spirituale in cui molti possono entrare.

In questo cerchio tracciato dalla Parola di Dio, madre della teologia così come della spiri­tualità cristiana, devono trovare posto anche le guide moderne della vita spirituale. Come ab­biamo appena fatto con san Tommaso, paragoneremo dunque brevemente la loro dottrina con quella di san Paolo. Questo raffronto è tanto più utile in quanto la spiritualità cattolica ha sofferto la presa di distanza nei confronti della Scrittura che seguì la crisi della Riforma. Per constatarlo basta paragonare le opere degli autori spirituali moderni con quelle dei Padri riguardo alle citazioni bibliche e al numero dei commenti. In spiritualità come in teologia, un ritorno alle fonti scritturistiche si rivela necessario.

2.2 Paragone tra san Paolo e gli autori spirituali

2.2.1 Le convergenze

La catechesi di san Paolo è certamente più vicina per molti aspetti alla dottrina spirituale che alla teologia speculativa. L’Apostolo è in contatto diretto con l’esperienza della vita di fe­de e le dà a volte un’espressione molto personale: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Paolo sente fortemente ciò che insegna perché ne vive. Incentrata sull’dgd- pey la sua catechesi impegna profondamente l’affettività. Il primato della carità non è per Pao­lo una teoria, ma un principio di vita, che si applica nei casi concreti dei rapporti fraterni co­me nello slancio spirituale verso Cristo. Paolo è anche attento alle tappe della vita interiore,

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alla differenza tra gli uomini carnali e quelli spirituali (lCor 2,14), tra i neonati e gli adulti in Cristo (lCor 3,1), tra i deboli e i forti (Rm 15,1).

Come la dottrina dei nostri autori spirituali, la catechesi paolina può collocarsi tra la co­noscenza prudenziale, applicata nell’esame dei casi di coscienza, e una teologia di livello scientifico. In quanto «paraciesi», il suo scopo è pratico come dimostrano le formule dirette e calorose di cui fa uso. Tuttavia la sua dottrina sulle virtù ha subito un’elaborazione più accu­rata di quanto si potrebbe pensare, per adattarla ai bisogni di una predicazione che doveva raggiungere tanto i greci quanto gli ebrei, senza dimenticare la gente incolta, e così acquisire una portata universale pur restando concreta.

2.2.2 Le differenze

D’altra parte scopriamo anche qui delle differenze. Le spiritualità moderne sono contras- segnate dal personalismo del Rinascimento che concentra l’attenzione sul soggetto umano, sui suoi stati d’animo, sulla descrizione dei moti della vita interiore nel suo itinerario verso Dio. Questo orientamento soggettivo spiega il moltiplicarsi delle spiritualità e segue la diver­sità delle esperienze.

Dal canto suo, l’insegnamento di san Paolo è concentrato, con il cuore e la mente, sul mi­stero di Cristo da predicare, da far vivere c da contemplare. L’impegno personale di Paolo, in quella che si può chiamare la sua passione apostolica, è estremo, ma è come assorbito dal messaggio da trasmettere. La sua dottrina sulla vita in Cristo è oggettiva, come l’annuncio della Passione e della Risurrezione, c colpisce profondamente le persone; essa acquista per questo una universalità che supera le spiritualità e le teologie nella loro particolarità, e riguar­da la Chiesa intera; essa assume anche una portata extra-ecclesiale per il suo oggetto, il Van­gelo di Cristo destinato a tutte le nazioni, a tutte le culture e a tutti i tempi.

2.2.3 San Paolo, fattore di unità tra teologia e spiritualità

Un tratto caratteristico della dottrina spirituale di san Paolo è di possedere un potente senso dell’unità nell’acuta coscienza della diversità, come tra giudei e greci, schiavi e uomini Uberi, come tra i doni, i ministeri e le vocazioni. Il principio supcriore di questa unità è pro­prio lo Spirito Santo, generatore e guida della vita spirituale.

Così abbiamo buone ragioni per pensare che il ritorno a san Paolo e alla sua catechesi, da parte degU spirituaU come dei teologi, è il mezzo necessario per ricuperare l’unità perduta, per ridare alla teologia il suo soffio spirituale e alla spiritualità il suo vigore teologico, per re­stituire anche alle diverse spirituaUtà e scuole di teologia quel senso di unità e di accordo che le renderà feconde per tutto il corpo della Chiesa.

2.3 II Discorso della montagna e la teologia

Termineremo la nostra indagine sulle modalità e sui registri deUa teologia prendendo co-

Riconoscimento di modalità e di registri differenti

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La vita spirituale del cristiano

me ultimo punto di paragone il Discorso della montagna che ci trasmette, sotto la forma della catechesi primitiva, l’insegnamento stesso del Signore. La differenza con la teologia di tipo speculativo è ancora più evidente che con san Paolo.

Il Discorso ci conduce direttamente alla predicazione di Cristo e manifesta chiaramente quanto essa fosse concreta, immaginifica, radicata nell’esperienza quotidiana da dove essa prende i suoi esempi: il sale, la lucerna della casa, la parola di collera, lo schiaffo sulla guan­cia, la minaccia del processo, la preghiera sulla pubblica piazza, la pagliuzza e la trave, ecc. Il linguaggio raggiunge l’azione nella sua singolarità mediante l’esempio sorprendente che pro­pone e si situa all’estremo opposto del linguaggio teorico e tecnico della teologia. Anche il Discorso non nomina le virtù, come san Paolo; le mostra nei loro atti e con una modalità per­sonale: va’ prima a riconciliarti con tuo fratello, poi presenta la tua offerta; se il tuo occhio destro è per te un’occasione di peccato, cavalo; sia il vostro parlare: sì, sì; no, no; guardate gli uccelli del cielo, non seminano né mietono; amate i vostri nemici, pregate per i vostri perse­cutori; non giudicate, per non essere giudicati, ecc.

Si constata tuttavia che a questo livello si realizza già ciò che si può chiamare una univer- salizzazione concreta: voi siete il sale della terra..., la luce del mondo...; a chi ti chiede, dai. Meglio ancora, vi si può vedere un processo di spiritualizzazione tipico della Scrittura, che svilupperà più tardi la liturgia: in esso le cose sensibili sono in connessione profonda con le realtà spirituali che esse significano con maggior ricchezza di connotazione di qualsiasi altro linguaggio. Il sale ha il sapore della sapienza, la lucerna ha la chiarezza della luce interiore, la guancia offerta esprime meglio di qualunque parola la forza del perdono, il rapporto col prossimo è direttamente collegato a Dio mediante la carità: se perdonate agli uomini le loro mancanze, anche il vostro Padre celeste ve le rimetterà...

Questo carattere concreto di una dottrina che possiede l’autorità di Cristo e ci raggiunge al cuore della nostra esperienza attiva, conferisce al Discorso una forza spirituale superiore ad ogni riflessione teologica e ne fa una delle principali fonti di rinnovamento della vita teologi­ca nella Chiesa. Ma nello stesso tempo i teorici, quali sono i teologi, così come gli esegeti del resto, e insomma ciascuno di noi, si trovano in difficoltà quando iniziano a trascrivere in prin­cipi universali e in formule generali l’insegnamento evangelico: bisogna sempre porgere l’altra guancia? Bisogna sempre dare a chi ci chiede? Non si può mai contrastare il malvagio?

Il moralista può essere così tentato di rinunciare alla traduzione del Discorso nella sua lin­gua colta e anche, senza dirlo troppo, arrivare a guardare quasi con disprezzo un insegna­mento che non sa parlare il linguaggio della stretta ragione, rigoroso, categorico, universale. In realtà manchiamo troppo spesso della penetrazione dello sguardo e dell’agilità mentale ne­cessarie per seguire la linea tracciata dal Vangelo e per saperla esprimere in maniera adegua­ta. La teologia dei Padri e dei grandi scolastici vi è tuttavia riuscita. Uno studio dei loro com­menti scritturistici—sul Discorso, tra gli altri— permetterebbe di vedere come essi abbiano elaborato una teologia a partire dal Vangelo, quale sia stata la fecondità della loro interpreta­zione e quali ne siano i limiti. La Parola di Cristo è infatti così ricca da generare molteplici opere teologiche e spirituali di cui garantisce la convergenza, senza mai esserne esaurita.

Questa breve considerazione riguardo al Discorso di Gesù sulla montagna ci conduce alla

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Riconoscimento di modalità e di registri differenti

nostra conclusione; essa la conferma e la completa. Per ridare alla teologia la sua dimensione spirituale, dobbiamo nuovamente instaurare una sorta di moto alternato continuo o di circo­lazione tra i differenti livelli e registri della scienza sacra. La fonte principale sta nella Parola di Dio, nella catechesi evangelica e apostolica; il movimento prosegue al livello dell’esperien­za, sul registro della dottrina spirituale, per raggiungere infine il piano della teologia di tipo speculativo; ma dalla riflessione si deve poi ritornare verso la Parola di Dio e verso l’azione che essa esige, dove la teologia trova la sua terra feconda.

3. Una definizione della teologia spirituale?

In conclusione, potremo dare una definizione della teologia spirituale?A rigor di termini non dovremmo darla, poiché, come ha mostrato san Tommaso (i, q. 1,

a. 3), la teologia è così profondamente unificata dalla luce di Dio, di cui essa è una partecipa­zione, che non si possono distinguere al suo interno delle scienze tanto differenti da meritare una definizione particolare. Ecco perche né san Tommaso né i Padri si sono preoccupati, per esempio, di definire la teologia morale. Inoltre tutta la teologia possedeva, ai loro occhi, una dimensione e un interesse spirituali; isolarvi una spiritualità sarebbe sembrato loro così poco sensato quanto togliere l’anima dal corpo.

Non bisogna però esser troppo rigidi. Dobbiamo saper prendere in considerazione le esi­genze di una data situazione, quella di una teologia che soffre ancora di una frammentazione alla quale dobbiamo sforzarci di rimediare lavorando nel senso di una riunificazione progres­siva. Per l’utilità dell’insegnamento e della ricerca, pur mantenendo la nostra ottica unifican­te, proporremo dunque questa definizione della teologia spirituale: essa è una parte della teo­logia nella sua dimensione morale (ordinata intorno alle virtù e ai doni), che studia più parti­colarmente la vita spirituale nella sua esperienza, nelle sue condizioni e nel suo progresso, al fine di promuoverla praticamente. Essa si basa innanzitutto sulla catechesi apostolica, poi su­gli autori spirituali e sui mistici, e si mantiene in stretta connessione con la considerazione più teorica e più generale della teologia speculativa, stabilendo così una circolazione del pensiero e dell’esperienza che crea un’unità viva tra i diversi registri della sapienza teologica.

Indicazioni bibliografiche

AA.W., La comunione con Dio secondo san Giovanni della Croce, Roma 1968.G. di Santa Maria Maddalena, L’unione con Dio secondo san Giovanni della Croce, Firenze

1951.«Carmel» 4 (1991), n. 63: Saint Jean de la Croix.M.-M. Labourdette, La fo i théologale et la connaissance mystique selon S. Jean de la Croix, in

RTh 41 (1936), pp. 93-129; 42 (1937), pp. 16-57; 191-229.Id., Quest-ce que la théologie spirituale?, in RTh 92 (1992), pp. 355-372.

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La vita spirituale del cristiano

P. Marie-Eugène, Je veux voir Dieu, Venasque 19632.J. Maritain, Les Degrés du sa voir, Paris 1932 (tr. it. Distinguere per unire. I gradi del sapere,

Brescia 19812).S. Pinckaers, Le Renouveau de la morale, Tournai 1964, parte I: «Le renouveau de la morale

et ses problèmes» (tr. it. Il rinnovamento della morale, Torino 1968).

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Capitolo terzoLE FONTI DELLA SPIRITUALITÀ CRISTIANA

Se si intendono come fonti della spiritualità tutti gli autori e le correnti che hanno contri­buito ad alimentare questa scienza, si deve dire che esse sono innumerevoli dall'epoca dei Pa­dri ai nostri giorni. Di fatto, tuttavia, oggi molto spesso si fa riferimento principalmente agli autori dell'epoca moderna in cui la spiritualità si è costituita come disciplina distinta dalla morale: i mistici del Carmelo, sant’Ignazio di Loyola, san Francesco di Sales, la scuola france­se con Bérulle e i rappresentanti delle altre scuole che si sono formati nella stessa scia. Essi forniranno comunemente i modelli, i metodi e i criteri per guidare la vita spirituale.

Per parte nostra, abbiamo scelto di dedicare questo capitolo alla Scrittura, come fonte primaria e principale di ogni spiritualità e teologia cristiana. Certamente in teoria tutti am­metteranno il primato della Sacra Scrittura in materia di spiritualità: ma in pratica si può con­statare che le diverse correnti spirituali hanno sofferto nel corso degli ultimi secoli delle re­strizioni imposte dopo il concilio di Trento nell’uso della Scrittura e si sono nutriti piuttosto di una tradizione propria, derivata.

Oggi l’accesso alla Bibbia ci è restituito e fortemente raccomandato. Per riprendere un’espressione del concilio, la Scrittura deve ridiventare l'anima della spiritualità come pure della teologia. Tuttavia questo lavoro c ancora tutto da compiere e comporta notevoli diffi­coltà. In particolare dobbiamo reimparare a leggere la Scrittura in modo da estrarne la so­stanza spirituale che ci dà nutrimento. Indicheremo prima di tutto quali sono i principali testi della Scrittura destinati ad alimentare la vita spirituale. Affronteremo poi il problema di una lettura spirituale della Scrittura.

1.1 passi della Scrittura più direttamente finalizzati alla vita spirituale

L’intera Scrittura, nella sua dottrina e nella sua storia, fornisce la materia prima della spi­ritualità cristiana. Tuttavia, come in un corpo ben organizzato, i libri della Bibbia hanno fun-

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La vita spirituale del cristiano

zioni diverse. Così i salmi e il Padre nostro serviranno in particolare alla preghiera; in essi si concentra l’insieme della Parola di Dio sulla pratica della preghiera. Allo stesso modo la Scrittura offre alla spiritualità alcuni libri e passi che le si collegano in modo speciale. Saran­no nell’Antico Testamento i libri sapienziali che insegnano le vie della sapienza in una manie­ra spesso molto concreta; nel Nuovo Testamento la dottrina spirituale avrà anzitutto come centro il Discorso della montagna, che ci presenta Cristo come il Maestro della giustizia e del­la sapienza, e poi verrà la catechesi apostolica.

Questi passi non sono esclusivi, poiché la spiritualità cristiana si nutre anche dei libri sto­rici c profetici; ma sono quelli sopra indicati i testi più direttamente collegati alla formazione e allo sviluppo della vita spirituale. Li passeremo brevemente in rassegna.

1.11 libri sapienziali

I libri sapienziali occupano un posto considerevole nella Scrittura. È il gruppo che conta il maggior numero di pagine nelle nostre Bibbie. Se nc può dedurre che essi rappresentano una dimensione essenziale della vita religiosa. Sono i libri di Giobbe, dei Proverbi, del Siraci­de, di Qoelet, della Sapienza, ai quali si aggiungono il Cantico dei Cantici e un certo numero di salmi. L’insegnamento di queste opere è molto vario. Comporta alcuni precetti e racco­mandazioni di buon senso che possono sembrare talvolta terra terra. Sono dei piccoli con­densati di sapienza che rivelano il loro sapore a coloro che li mettono in pratica. Ci insegnano a superare le nostre reazioni istintive e a riflettere per scoprire le vie di una prudenza genero­sa nelle situazioni più svariate della vita, in famiglia o al di fuori, con gli amici e i nemici, con i poveri e i ricchi, presso i malati e i vecchi, davanti alle prove e alla mone. Ci esercitano al di- scernimento e ci insegnano a guardare ogni cosa alla luce della sapienza di Dio che inizia con il timore reverenziale e ci mette alla sua scuola come dei discepoli. Questi scritti ci toccano al livello dell’esperienza quotidiana e ci introducono a poco a poco nel vasto insieme della dot­trina sapienziale di cui fanno parte, che culminerà nella rivelazione della Sapienza creatrice, personificata, come nei Proverbi, al capitolo 8, nel Siracide, al capitolo 24, e nel libro della Sapienza.

Questi testi saranno ripresi nel Nuovo Testamento, a partire dalle osservazioni per la vita di ogni giorno che sono disseminate, per esempio, nella lettera di san Giacomo fino alle idee più elevate che serviranno a san Paolo e a san Giovanni per presentare Cristo come la Sapien­za (lCor l,24s$.; Col 1,16-17) e come il Verbo di Dio (prologo di san Giovanni).

. I libri sapienziali occuperanno un posto importante nella liturgia cristiana e saranno rego­larmente presentati alla meditazione dei fedeli nella predicazione dei Padri. Citiamo i salmi, la cui recita era ebdomadaria nell’antica disposizione dell’ufficio, e il loro commento fatto da Agostino che costituisce una vera e propria summa della vita spirituale. C’è anche il libro di Giobbe, così commovente nel suo confronto col problema del male, che servirà come base a Gregorio Magno, il maestro spirituale del Medioevo, per elaborare la sua dottrina tanto ricca di esperienza cristiana e umana. Infine il Cantico dei Cantici diventerà il libro prediletto dai mistici fino ai nostri giorni.

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Le fonti della spiritualità cristiana

Nella lettura cristiana che ne rinnovava l’insegnamento applicandolo a Cristo e alla vita dei credenti, i libri sapienziali sono apparsi come una sorgente feconda e un alimento prezio­so per la vita spirituale. Non dovremmo dunque trascurarli, anche perché abbiamo particola­re bisogno della sapienza che essi dispensano in un mondo in cui il predominio della tecnica concentra l’attenzione dell’uomo sulle attività esteriori, che riguardano i mezzi, e rischia di farci trascurare la ricerca dei fini che danno senso alla vita, suscitano l’amore e formano la mente con il cuore.

1.2 II Discorso della montagna: la catechesi evangelica

Il Discorso del Signore sulla montagna occupa un posto di primo piano tra le fonti della spiritualità cristiana. Esso ha manifestato nella storia della Chiesa una fecondità inesauribile.È un testo primario della catechesi primitiva e un apice nelFinsegnamento biblico della sa­pienza.

Dato che costituisce il primo dei cinque grandi discorsi che strutturano l’opera di san Matteo, il Discorso della montagna è la prima esposizione della catechesi morale del tempo degli apostoli ed è il più autorevole. Raccoglie in modo organico l'insegnamento di Gesù sulla giustizia per formare la Legge nuova, come la si chiamerà più tardi. È sostenuto dall’autorità stessa di Gesù; essa vi si manifesta con vigore nella formula «Avete inteso che fu detto..., ma io vi dico», che colpì la folla di chi lo ascoltava. Rispetto alla Legge di Mosè che esso «porta a compimento», il Discorso ci propone la «Legge di Cristo» come una carta della vita cristiana, come la costituzione fondamentale del nuovo popolo di Dio radunato da Gesù. Così l’ha in­teso sant’Agostino. Il Discorso della montagna—egli dice—contiene «tutti precetti adatti a guidare la vita cristiana» (De sermone Domini in monte, I, 1). Nella sua scia, san Tommaso farà del Discorso della montagna il testo stesso della Legge evangelica.

Nello stesso tempo il Discorso ci presenta Gesù come il Maestro della Sapienza, come il nuovo Salomone, secondo la sua parola: «Ora qui c’è più di Salomone!» (Mt 12,42); egli ci indica e mette alla portata di tutti le vie, tracciate nei cuori, che portano al Regno dei cieli. È sotto questa forma che san Tommaso immagina il Cristo delle beatitudini: lui solo ci dà la ri­sposta esauriente al problema della felicità che i filosofi hanno invano ricercato.

Si può così dire che il Discorso costituisce la Regola primaria per tutti gli Ordini e gli isti- • tuti religiosi che si propongono di vivere secondo il Vangelo. Prima della Regola di san Basi­lio, di san Benedetto, di sant’Agostino, di san Francesco, c’è il Discorso della montagna, che ne è il principio evangelico nell’idea stessa di questi legislatori religiosi. Secondo un’espres­sione felicemente scaturita dal concilio, il Discorso della montagna esprime in pienezza il ca­risma del primo Fondatore, colui che ha ispirato tutti gli altri e ha comunicato la loro sapien­za e i loro doni spirituali.

Il Discorso non deve essere preso isolatamente, né sezionato. Esso forma un tutto accurata­mente concatenato e fa parte integrante del Vangelo che lo mette in relazione con l’insieme del­la Scrittura, in particolare nei passi morali e sapienziali. Si può così approfondire la sua dottri­na considerando come le beatitudini, per esempio, si realizzino nella vita e nella passione di

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La vita spirituale del cristiano

Cristo. Si possono così ricercare le sue molteplici radici nell’Antico Testamento, tra le numero­se beatitudini che vi si incontrano, come all’inizio del salterio: «Beato l’uomo... che si compiace della legge del Signore e medita la sua legge, giorno e notte». Perciò se si considera il Discorso come un insieme organico si potrà percepire il ritmo vitale e le pulsazioni che lo animano.

Insisteremo particolarmente sulla trasformazione che opera il Discorso nella concezione stessa della legge morale. Per riprendere le espressioni di Bergson, vi si distingue chiaramente il passaggio da una morale statica a una morale dinamica, da una morale materiale e restritti­va nelle sue prescrizioni a una morale spirituale mediante lo slancio della carità che la ispira.

È ciò che spiega san Tommaso nel suo linguaggio teologico. Mentre la Legge di Mosè ha principalmente la funzione di regolare gli atti esteriori mediante i suoi comandamenti e i suoi divieti, il Discorso ha come scopo quello di dirigere gli atti interiori dell’uomo, i moti del pensiero e del cuore che sono le radici delle nostre azioni e si sviluppano grazie alle virtù, a cominciare dalle virtù teologali. Effettivamente il Discorso è la materia diretta della fede in Cristo di cui ci propone l’insegnamento per fare di noi i suoi discepoli. Esso nutre la speranza con la promessa del Regno di Dio espressa nelle beatitudini. Inoltre dirige la carità verso la sua perfezione, fino al perdono concesso ai nemici, all’imitazione del Padre celeste. In queste virtù sta la sorgente del dinamismo spirituale. Abbiamo dunque a che fare con una morale della mente e del cuore che supera una morale della legge esteriore, peraltro necessaria per prepararle la strada. Ecco perché il Discorso corrisponde perfettamente al testo della Legge nuova definita come una legge interiore, come la grazia stessa dello Spirito Santo operante at­traverso la carità. Così inteso, il Discorso è spirituale nella sua sostanza. Esso è la Legge dello Spirito così come è la Legge di Cristo. Del resto non lo si è mai potuto ricondurre a un’inter­pretazione legalista.

Si può esprimere il tutto più semplicemente paragonando il Discorso con la concezione degli scribi e dei farisei da cui prende le distanze. Il carattere proprio di una morale che ten­de al legalismo è di imporre un certo numero di obblighi, di osservanze e di divieti (minimo, solitamente, o massimo, come tra i farisei, poco importa), lasciando intendere che dopo averli rispettati, ci si può fermare e dire: «Basta così!», considerandosi ormai come liberi verso Dio, con la coscienza a posto. Questa è propriamente una morale statica, bloccata, in cui il diritto spesso prende il sopravvento sullo spirito anziché servirlo. Le manca il soffio spirituale.

Il Discorso opera qui un ribaltamento totale. Quando lo si esamina attentamente, ci si ac­corge che la sua dottrina è profondamente dinamica: tutti i suoi precetti obbediscono a una leg­ge unitaria che proviene dall’amore nel suo movimento teso alla crescita, che si può così espri­mere: «Va’ sempre oltre! Nessun male ti fermi. Riponi la tua gioia nel dare di più, nel fare me­glio». È ciò che si può chiamare il principio del superamento, del libero sovrappiù, della gra­tuità generosa. Questo è il senso dei precetti così eloquenti: «Se uno ti percuote la guancia de­stra, tu porgigli anche l’altra...; se ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Da’ a chi ti domanda...». Con il superamento questi precetti indicano anche un ribaltamento, una conver­sione del cuore: il passaggio dal cuore violento al cuore pacifico, che vince il male con il bene, dal cuore fermo al suo interesse a un cuore generoso, il cambiamento dal cuore «di pietra» in un cuore «di carne». Questa è la condizione, la fonte stessa del progresso spirituale.

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Le fonti della spiritualità cristiana

Questo dinamismo si manifesta anche nei cinque precetti che approfondiscono la legge di Mosè ed esigono l’impegno personale a favore del prossimo per evitare la collera, scacciare i falsi desideri e mettere la verità nelle proprie parole. Il cuore che vi si mette è proprio il so­vrappiù che dà vita e progresso agli atti e alle osservanze. La trasformazione culmina nel pre­cetto sconvolgente di amare i propri nemici e di pregare per i propri persecutori, nel quale si compie il passaggio decisivo da una concezione statica del prossimo, come colui che ci è vici­no, a una concezione dinamica: il prossimo diventa colui al quale ci avviciniamo, fosse anche il più distante da noi, come il nemico.

Così inteso, il Discorso è lo strumento pedagogico di cui Io Spirito si serve per indicarci i sentieri della sapienza, le strade del Regno dei cieli, e per conformarci a Cristo. Non ci dipin­ge forse, in qualche modo, il volto interiore del Signore che ha messo in pratica, per primo, ciò che insegna? Il Discorso è dunque una vera e propria icona di Cristo. Il legame che man­tiene con la grazia dello Spirito Santo ci fornisce del resto una risposta alla maggiore diffi­coltà che blocca gli interpreti moderni: questa dottrina è praticabile e si rivolge davvero a tut­ti i cristiani? Non ci pone davanti a una montagna inaccessibile, a una sorta di Himalaia spiri­tuale? Inteso come legge esteriore, l’insegn amento di Cristo supera effettivamente le capacità della maggior parte degli uomini, compresi quelli più in vista; ma esso diventa perfettamente praticabile per i poveri e gli umili, grazie alla fede in Cristo e al dono dello Spirito che l’ac­compagna. Prima di essere una legge, il Discorso della montagna è in realtà una manifestazio­ne e una promessa di ciò che lo Spirito Santo vuole compiere nella vita dei fedeli: esso descri­ve la loro vocazione. In questo senso, sant’Agostino aveva detto molto bene: «Chi vorrà me­ditare con devozione e perspicacia il Discorso che nostro Signore ha pronunciato sulla mon­tagna... vi troverà senza alcun dubbio il modello perfetto della vita cristiana» (De sermone Domini in monte, I, 1 ).

1.3 La catechesi apostolica o «paraclesi»

La seconda fonte neotestamentaria della spiritualità cristiana è l’esortazione apostolica. Le si dà solitamente il nome di «parenesi». Noi preferiamo chiamarla «paraclesi». Il termine «parene- si» è in realtà poco usato nel Nuovo Testamento, in due passi soltanto, nel racconto del naufragio di Paolo (At 27,9 e 22); ma soprattutto esso favorisce, nel linguaggio degli esegeti, la separazione tra la morale, con i suoi imperativi, e la spiritualità, ridotta a un semplice incoraggiamento.

Il termine «paraclesi» è molto più frequente, più forte e più ricco. Nel Nuovo Testamento il verbo ricorre 106 volte e una trentina il sostantivo. In san Paolo costituisce praticamente un termine tecnico per introdurre il suo insegnamento morale. «Vi esorto, fratelli, per la miseri­cordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio...» (Rm 12,1). «Vi esorto dunque... a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevu­to» (Ef 4,1). Lo ritroviamo nella prima lettera di Pietro: «Carissimi, vi esorto... ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all’anima» (2,11). È il caso infine ricordare che san Giovanni l’ha utilizzato per designare lo Spirito Santo come il Paraclito, il sostegno, l’avvoca­to e il consolatore?

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La vita spirituale del cristiano

La paraclesi è un insegnamento morale dato dall’Apostolo sotto forma di un’esortazione pressante in nome del Signore. A differenza della Legge antica che si esprime con l’imperati­vo, come un pedagogo si rivolge a bambini più piccoli, la paraclesi si inscrive nel quadro del­le relazioni paterne e fraterne create dal fatto di aver tutti ricevuto la grazia di Cristo: «Come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, incoraggiandovi e scongiu­randovi a comportarvi in maniera degna di quel Dio che vi chiama al suo regno» (lTs 2,11- 12). Essa ha come scopo principale il progresso nella carità e nelle altre virtù, che esige l’ini­ziativa e l’impegno personale di ciascuno sotto l’impulso dello Spirito. Essa implica anche l’idea di una consolazione e di un sostegno fraterni nel combattimento spirituale. La paraclesi è il genere caratteristico della catechesi morale dei tempi apostolici. Si può distinguerla dall’insegnamento del Discorso della montagna che fa intervenire immediatamente l’autorità suprema di Cristo; tuttavia ne è una partecipazione diretta, assegnata alla missione degli apo­stoli all’interno della Chiesa in formazione1.

1.3.1 La paraclesi della lettera ai Romani

1 testi dell’esortazione apostolica sono numerosi e importanti. Essi manifestano la solleci­tudine da parte degli apostoli e delle prime comunità cristiane nell’elaborare un’esposizione della morale evangelica cosi completa e ben strutturata da servire all’istruzione e alla forma­zione dei fedeli. In una cultura in cui la comunicazione delle idee avveniva soprattutto oral­mente, era necessario disporre di compendi dottrinali che usassero formule brevi, facili da memorizzare. Una tale forma espressiva garantiva nel modo migliore la fedeltà della trasmis­sione, in particolare nelle assemblee liturgiche, ed era utile alla riflessione personale in vista della sua messa in pratica.

I capitoli 12-15,13 della lettera ai Romani possono essere considerati come un modello di questo genere. Li presenteremo brevemente dal punto di vista della spiritualità cristiana, di cui sono una fonte di primaria importanza.

San Paolo vi presenta la vita cristiana come una liturgia, un culto spirituale in cui offria­mo i nostri corpi e le nostre persone in sacrificio gradito a Dio, abbandonando la mentalità del mondo con una «metamorfosi» del nostro spirito per conoscere e fare la volontà di Dio, ciò che è buono, ciò che è a lui gradito, ciò che è perfetto. Mediante questa oblazione noi partecipiamo alla vita del Corpo di Cristo, la Chiesa, dove ciascuno riceve dei doni ed eser­cita un ministero finalizzati al bene di tutti. Notiamo, tra gli altri, il dono di esortare che va di pari passo con quello di insegnare. Qui vediamo in filigrana l’offerta del Corpo di Cristo nella Passione e nell’Eucaristia, all’origine della liturgia e, per conseguenza, della vita cristia­na (12,1-8).

Al cuore di questa azione sta la carità, Vagape, descritta in un passo emblematico, ritmato, scandito dalle assonanze, che forma un quadro composto di piccole notazioni convergenti. Ci sia consentito di tradurlo letteralmente: «La vostra carità sia senza finzioni..., siate nello spirito

1 H. Schlier, Die Zeit der Kircbe, Freiburg 19582, pp. 74-89.

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ferventi, il Signore serventi, nella speranza gaudenti, nella tribolazione pazienti, nella preghiera perseveranti, le necessità dei santi condividenti, all’ospitalità sempre pronti» (12,9-12).

La pienezza della carità è poi presentata in una esortazione che richiaipa direttamente, per contenuto e dinamismo, l’insegnamento del Discorso della montagna: «Benedite quelli che vi perseguitano, benedite e non maledite... Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri... Non rendete a nessuno male per male... Vinci il male con il bene» (12,14-21).

Paolo applica questo principio al diffìcile problema dell’obbedienza dei cristiani all’auto­rità civile e del loro inserimento in una società che li perseguita. Egli lo risolve nella linea di una sottomissione generosa che deriva dall’amore del prossimo in cui l’Apostolo vede la sin­tesi e la pienezza della Legge (13,1-10).

La considerazione di questa pienezza suscita l’idea del momento unico in cui siamo: la prossimità di Cristo paragonabile al giorno che sta per levarsi. E questo il tempo di essere vi­gilanti e di combattere contro le opere delle tenebre con le armi della luce.

È sotto l’egida di una carità simile a quella di Cristo che Paolo esamina poi la delicata questione del comportamento da tenere verso i più deboli riguardo l’uso delle carni offerte agli idoli. La sua risposta è un modello nell’affronto dei casi di coscienza (14,1-15,12).

La conclusione riprende i temi centrali della lettera; essa rivela i caratteri principali di questo insegnamento e della spiritualità cristiana primitiva: la pace e la gioia— «Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia c pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (15,13).

La ricchezza di un simile testo è inesaurìbile per chi coglie la realtà viva dietro le parole. Qui abbiamo incontestabilmente a che fare con una morale dinamica, come nel Discorso del­la montagna. Questa catechesi diventa una potente fonte spirituale sotto l’azione dello Spirito di cui essa è lo strumento.

Le fonti della spiritualità cristiana

1.4 La presentazione del mistero di Cristo

La catechesi morale non è una parte isolata nelle lettere di san Paolo. Essa possiede dei profondi legami con l’insegnamento del mistero di Cristo che spesso la precede e che offre al­la contemplazione cristiana il suo migliore alimento. Occorre dunque evitare assolutamente di applicare agli scrìtti dell’Apostolo la divisione netta tra dogma, morale o parenesi che ab­biamo conosciuto.

La paradesi della lettera ai Romani deriva direttamente dall’insegnamento sulla fede in Cristo che sola giustifica; essa d insegna come questa fede operi mediante la carità e porti in noi i suoi frutti per impulso dello Spirito che compie la nostra santificazione. L’inno a Cristo obbediente, umiliato e glorificato, che troviamo nella lettera ai Filippesi, ci introduce nel mi­stero della Passione e ha come scopo, nello stesso tempo, di ispirarci «i sentimenti che erano in Cristo Gesù» di cui Paolo stesso dà l’esempio nella propria vita partecipando alle sofferen­ze del Signore e alla sua risurrezione. Così egli può dire: «Fatevi miei imitatori» (3,17). Nella lettera ai Colossesi, Cristo, immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura, pri­mogenito di coloro che risuscitano dai morti, è il modello dell’uomo nuovo di cui dobbiamo

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La vita spirituale del cristiano

rivestirci e di cui il capitolo 3 descrive le virtù. Nella lettera agli Efesini, le benedizioni rivolte al Padre, a lode della sua gloria, uniscono ai disegni di Dio, che esse rivelano loro, quelli che cercano di «imitare Dio, quali figli carissimi», secondo l’insegnamento dei capitoli 4 e 5.

Questi passi costituiscono dei vertici nella contemplazione cristiana del mistero della sal­vezza e delle fonti preziose per la vita spirituale. Tuttavia lo studio e la meditazione di tali te­sti condurrebbero solo a una sterile speculazione, se non si prendesse in considerazione e non si applicasse ('insegnamento morale che li segue, se il cristiano non si preoccupasse di spo­gliarsi dell’uomo vecchio con le sue azioni per rivestire «il nuovo, che si rinnova, per una pie­na conoscenza, ad immagine del suo Creatore» (Col 3,9-10).

La lettura spirituale, come l’esegesi del resto, deve dunque considerare ogni scritto apo­stolico nel suo insieme, al fine di dare il suo pieno valore alla catechesi che espone. La cosa è resa difficile dalle divisioni che restano incrostate nella nostra mente; ma questa è la condizio­ne di una lettura fedele e arricchente.

Aggiungiamo che a nostro giudizio la parte contemplativa del Vangelo di san Matteo ci è fornita dal racconto della Passione e della Risurrezione quale corrispettivo al Discorso della montagna. Quest’ultimo non è una semplice narrazione degli avvenimenti. L’evangelista ce ne presenta una lettura in profondità fatta alla luce dello Spirito Santo. Egli ci mostra come Cri­sto ha visto le cose: come un compimento della volontà del Padre, come la nuova liturgia che egli celebra, come la nuova Pasqua che egli instaura, come la nuova Alleanza che egli fonda e inscrive nei cuori, come la testimonianza sulla sua persona soprattutto, che egli è veramente il Figlio di Dio e il Re d ’Israele. Si può così stabilire un legame tra il Discorso e la Passione per considerare come quelle parole di Gesù si siano realizzate in essa, e come attualizzino la no­stra comunione alla vita e alla sofferenza di Cristo.

1.3 Lista dei testi della catechesi morale

Ecco la lista dei principali passi di catechesi morale che troviamo nei libri del Nuovo Te­stamento, seguendo l’ordine delle nostre Bibbie.

/ Corinzi, dopo l’esame dei «casi di coscienza» risolti principalmente mediante la relazio­ne a Cristo, riguardanti l’incesto, l’appello ai tribunali pagani, la fornicazione, ecc., i capitoli 12 e 13 espongono i doni dello Spirito tra i quali domina la carità, nella sua dimensione eccle­siale, dato che essa edifica il Corpo di Cristo, la Chiesa, e nella sua dimensione personale, da­to che essa è l’ispiratrice delle altre virtù e degli altri carismi.

Galati 3: descrizione del combattimento spirituale con le opere della carne e dei frutti dello Spirito, il primo dei quali è la carità.

Efesini 4-3: esortazione all’unità in uno stesso Corpo e in uno stesso Spirito, spogliandosi dell’uomo vecchio per rivestirsi dell’Uomo nuovo «creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera».

Filippesi 2,1-17 e 3,1-4,9: esortazione a imitare i sentimenti di Cristo nell’umiltà e nell’ob­bedienza, e a diventare imitatori di Paolo, teso nella sua corsa per ricevere il premio della co­noscenza di Cristo Gesù.

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Le fonti della spiritualità cristiana

Colossesi 3,1-4,6: esortazione a vivere nascosti in Cristo per rivestirsi dell’Uomo nuovo «che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore».

/ Tessalonicesi 4-3: esortazione alla santità e alla vigilanza in attesa del giorno del Signore, come figli della luce.

Occorre anche menzionare, nel loro insieme:la lettera di san Giacomo e il suo insegnamento sapienziale così concreto e pregnante.La prima lettera di san Pietro, che è un autentico gioiello di esortazione morale; il suo in­

segnamento, legato alla catechesi battesimale, è spesso vicino al Discorso della montagna e a san Paolo.

La prima lettera di san Giovanni con i suoi grandi temi: la luce, il peccato e il mondo, la carità e la fede.

Segnaliamo infine che il Catechismo della Chiesa cattolica inserisce la catechesi apostolica nel quadro della sua esposizione sulla Legge nuova (n. 1971).

2. Il problema della lettura spirituale della Scrittura

Ci limiteremo qui a mostrare come la lettura spirituale della Scrittura si distingua dalla lettura semplicemente storica, non per contrapporle, ma per ordinarle tra loro e vedere come possiamo trarre profitto dall’una e dall’altra.

2.1 Lettura storica e lettura «reale»

A nostro avviso la distinzione fondamentale si basa su due tipi di lettura determinati da due tipi o due livelli di verità. La differenza deve la sua origine all’introduzione del metodo storico e critico nell’esegesi, a partire dal xvn secolo. La lettura storica si rivolge direttamente alla verità materiale del testo, come documento, come fatto del passato, come «fenomeno» della storia. Per esempio ci si domanderà se il testo delle beatitudini che possediamo è auten­tico, se è stato davvero scritto dall’apostolo Matteo e sulla base di quali fonti, infine quali idee l’autore aveva nella sua mente. Si arriva finalmente alla domanda: il testò delle beatitudini ci riferisce le parole di Gesù stesso? In una tale ricerca, lo storico deve prendere le distanze dai documenti al fine di studiarli senza preconcetti, oggettivamente, senza mescolarvi le sue idee o i suoi sentimenti. Una tale lettura ci fornisce una base e un’informazione oggi indispensabi­li. Ma essa può bastare? Ecco il problema. Per nutrire una spiritualità non bisogna ricorrere a un altro tipo di lettura?

Esiste infatti un altro modo di leggere la Scrittura che si pone all’interno della lettura sto­rica, ma che va più lontano: esso mira alla verità del contenuto dietro le parole che ravvolgo­no. Si tratta in questo caso di sapere non tanto ciò che ha scritto o pensato Matteo, ma se ciò che dice è vero. Per riprendere il nostro esempio, esso consiste nel domandarsi: è vero che i poveri, o anche quelli che piangono o che sono perseguitati, sono felici e possiedono il Re­gno, come annuncia Cristo?

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Davanti a una simile domanda che penetra nella sostanza del testo e del messaggio che es­so vuole trasmettere, il lettore non può più tenersi a distanza, né rimanere neutrale: deve prendere posizione. Non ha più a che fare, in realtà, con un testo del passato, ma con una pa­rola che si rivolge a lui e che lo mette in discussione nella sua vita. Egli deve rispondere per­sonalmente, soprattutto quando è sottoposto alla prova della povertà e della sofferenza di cui si è parlato. Nel caso delle beatitudini, inoltre, la risposta può venire solo da un atto di fede, poiché non è per nulla evidente, anzi è contrario alPopinione e al senso comune che i poveri e i perseguitati siano felici. È tuttavia questa risposta piena di fede che procurerà al lettore l’esperienza personale della verità nascosta nella beatitudine, mediante una sorta di contatto intimo con la realtà di vita che essa esprime.

Questa è la verità che cerca di comprendere quella che noi chiameremo una lettura «rea­le» della Scrittura, a differenza di una lettura semplicemente letterale o storica. La chiamiamo «reale» perché ci fa raggiungere la realtà di fondo che significano le parole della Scrittura e perché ci procura l’esperienza della verità di quell’insegnamento che tocca il nostro stesso es­sere. quando lo mettiamo in pratica2.

D’altra parte, con san Tommaso dobbiamo aggiungere che Dio ha il potere di dare un si­gnificato non solo alle parole, ma anche alla realtà delle cose, così come agli avvenimenti della storia (cfr. I, q. 1, a. 10). Così nel disegno di Dio che ne è l’autore principale, la Pasqua giu­daica prefigura la Pasqua di Cristo. La lettura credente, in questo caso, raggiunge la realtà profonda degli eventi che uno sguardo semplicemente storico può solo sfiorare. Questa com­prensione della verità spirituale corrisponde esattamente, del resto, all’intento degli autori sa­cri. Gli evangelisti non hanno scritto per raccontarci delle storie o per dare lavoro agli studio­si, né per offrirci argomenti di discussione intellettuale, ma—lo dicono esplicitamente (Gv 20,30)—per suscitare in noi la fede e per comunicarci la verità vivificante contenuta nelle pa­role e nelle azioni di Cristo.

Ecco dunque due tipi di letture e due specie di verità. Da un lato una verità formata da fatti, da documenti presi nel flusso della storia, inscritti nel passato, che non si possono acco-

2 La nostra distinzione è abbastanza vicina a quella di J.H . Newman, tra l’assenso nozionale e l’assen­so reale, che guida la sua riflessione nella Grammatica dell'assenso. A differenza dell’assenso nozionale ottenuto da un ragionamento logico, l’assenso reale è legato all’esperienza e deriva da una convergenza di indizi e di argomenti probabili che procurano la certezza. Ecco come J.H . Walgravc descrive la lettu­ra della Scrittura secondo Newman: «È da questo continuo contatto con il mondo della Bibbia che Newman ha attinto la sua concezione dell’esegesi cristiana. Per lui la Sacra Scrittura ha un duplice sen­so: un senso letterale, oggetto dell’esegesi scientifica, e un senso spirituale che si rivela solo a chi legge la Bibbia in un atteggiamento religioso. La Scrittura contiene la parola di Dio in modo oggettivo. È dun­que possibile studiarne l’esatto contenuto in modo scientifico. Ma essa è nello stesso tempo la parola vi­vente di Dio. Mediante l’ispirazione Dio ha, in un certo senso, adottato la parola storica degli antichi scrittori per trasferirla nella sfera della sua presenza eterna. Egli parla ancora, hic et nunc, al credente che cerca in essa la Sua presenza. Così l’istinto della fede ci fa comprendere la realtà vivente del Dio Salvatore nella parola che ci rivolge per mezzo della lettera. Questa lettera è come un sacramento: il se­gno visibile nel quale avviene l’incontro tra il credente e il Dio della Salvezza» (Newm an: le développe- m ent du dogme, Toumai 1957, p. 368).

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stare, nel nostro caso, senza la conoscenza delle lingue antiche. Dall’altro lato una verità che si rende presente a ciascuno, che si mostra capace di cambiare la storia di un uomo, di una comunità, e che si può comprendere in tutte le lingue'.

La lettura storica o letteraria e la lettura «reale» della Scrittura sono dunque differenti, ma non sono in sé contrapposte, poiché la prima deve normalmente condurre alla seconda e prepararla. È chiaro tuttavia che solo la lettura «reale» è in grado di generare una spiritualità, come pure una teologia viva. Infatti solo un tale sguardo, impegnato ed esperto, può farci comprendere nella sua densità il vero senso letterale della Scrittura, costituito principalmente dalla verità di fondo di cui abbiamo appena parlato, che si può paragonare a un chicco di grano nascosto nella sua spiga. Così, contenendo una verità spirituale, il senso letterale può generare i sensi spirituali della Scrittura nella loro ricchezza e nella loro diversità.

2.2 I sensi spirituali della Scrittura

Le fonti della spiritualità cristiana

Raggiungiamo così e possiamo meglio comprendere la dottrina dei sensi spirituali eredita­ta dai Padri e sistematizzata da san Tommaso all’inizio della Summa, dove egli presenta la Scrittura come la materia principale della teologia (i, q. 1, a. 10). È un punto fondamentale per l’utilizzazione della Scrittura all’interno della spiritualità.

Secondo il Dottore angelico occorre attribuire alla Scrittura un quadruplice senso. Il fon­damento è posto dal senso letterale al quale si deve sempre ritornare. Come abbiamo appena spiegato, il senso letterale, per san Tommaso come per i Padri, è principalmente costituito— al di là delle parole, della lettera—dalla «res» che esse significano, dalla verità di vita che con­tengono e che è la materia diretta della riflessione teologica. Questo è il senso letterale che fruttifica producendo un triplice senso spirituale, grazie alla verità feconda di cui è pregno, e ciò è legato all’intervento di Dio nella storia del suo popolo: il senso allegorico o tipologico designa il significato che assume l’Antico Testamento come annuncio e prefigurazione del Nuovo dove esso trova compimento; il senso morale procede dalla Scrittura quando si appli­cano l’insegnamento e le opere di Cristo alla vita dei cristiani; il senso anagogico o escatologico infine considera il Vangelo come un annuncio della gloria futura.

Questa dottrina ha come primo fondamento la nuova lettura della Scrittura fatta dagli apostoli e dalla comunità cristiana primitiva. Essa pone al centro della storia la persona di Cristo in cui si realizzano le promesse di Dio, le profezie e le figure. Ne deriva una nuova concezione e divisione della storia. Dato che dipende dall’iniziativa divina secondo i suoi di­segni di salvezza in Gesù, la storia sacra si suddividerà in tre grandi periodi: la preparazione 3

3 Spinoza aveva già fatto la distinzione stabilendo i principi del metodo storico. Scrive infatti: «Noi ci occupiamo qui del senso dei testi e non della loro verità». Con senso dei testi egli designava la verità storica che distingueva dalla verità del contenuto, la quale, secondo lui, restava di competenza della sola ragione. In quest’ottica egli mostra soprattutto come la conoscenza dell’ebraico c necessaria per inter­pretare anche il Nuovo Testamento (cfr. il Trattato teologico-politico, cap. vii). Tuttavia è evadente che l’ebraieo, per quanto possa essere utile, non è indispensabile per comprendere che i poveri possono es­sere beati. Qui sono richieste la fede e l'esperienza. Siamo su un altro piano.

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incomincia con l’elezione del popolo ebraico e prosegue col ritmo della pedagogia divina che10 forma sotto l’egida dei profeti, dei re c dei saggi dopo Mosè: è il tempo d’Israele. L’apice di questa storia è raggiunto con la nascita, la predicazione, la morte e la risurrezione di Gesù: è11 tempo del Vangelo. Questa azione decisiva continua con il dono dello Spirito Santo me­diante l’annuncio della Buona Novella a tutte le nazioni e la sua applicazione nella vita dei credenti: è il tempo della Chiesa, nuovo popolo di Dio. L’orientamento del lungo periodo in cui noi viviamo è determinato dall’attesa di Cristo e dalla speranza del Regno dei cieli. Il Ca­techismo della Chiesa cattolica ha felicemente reintrodotto la dottrina dei sensi spirituali nella catechesi (nn. 115-118).

La spiritualità cristiana si basa dunque su una interpretazione spirituale che si trova nelle Scritture stesse ed è fondata sull’intervento di Dio nella storia del suo popolo per suscitare in esso una vita nuova in Cristo, che sarà l’opera dello Spirito. L’ispirazione della Scrittura non è soltanto verbale; si può dire che è vitale: infatti è incentrata sulla realtà della vita spirituale che la Scrittura è destinata a produrre e a mantenere in chi accoglie la Parola di Cristo e la medita nella fede.

2.3 L’esegesi dei Padri o Tane di fare del pane nutriente con la Scrittura

La lettura «reale» della Scrittura, illuminata dalla fede, fa nascere una certa arte dell’inter­pretazione che si potrebbe chiamare un’esegesi d’esperienza, poiché non deriva tanto dalle parole e dalle idee quanto dal contatto con le realtà che esse rappresentano. I Padri della Chiesa hanno esercitato notevolmente quest’arte; così le loro opere sono come dei frutti della Scrittura che hanno conservato la loro freschezza e il loro sapore attraverso i secoli.

Si può descrivere l’esegesi dei Padri con un paragone: essi hanno posseduto l’arte di fare del pane nutriente con il frumento della Scrittura. Infatti molti passi della Scrittura sono composti da sentenze che costituiscono come dei condensati di dottrina paragonabili a fru­mento che porta il germe della vita spirituale. La percezione della fede è proprio questa; sotto l’involucro delle parole, essa vede, afferra e coglie il grano della Parola di Dio. È la prima operazione, paragonabile alla battitura del frumento che ne separa la pula: cogliere la Parola dietro il rivestimento storico mediante l’ascolto attento del cuore, penetrare fino ad essa la­sciandola penetrare in sé, comprenderla lasciandosi toccare e prendere da essa.

Bisogna poi macinare il grano e ridurlo in farina. È l’opera della meditazione. Essa tritura, in un certo senso, la Parola della Scrittura mediante una riflessione che cerca di estrame la verità per metterla in relazione con la vita e l’esperienza. La conserva così nella memoria per usarla al momento opportuno e per comunicarla.

La meditazione conduce alla pratica, poiché la Scrittura esige degli atti concreti. È l’impa­statura della farina che noi stessi diventiamo lasciandoci lavorare dalla Parola a contatto della vita, con le sue difficoltà e la lunghezza del tempo, accettando così le nostre debolezze, le no­stre resistenze e le nostre riprese. Nello stesso tempo dobbiamo versare nell’impasto l’acqua della preghiera, dello sforzo paziente, insieme con le lacrime del pentimento che convertono il cuore.

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Quando il pane ha preso la sua forma, è il momento di metterlo nel forno: sarà il fuoco della prova, che dura secondo il tempo di Dio e che penetra come la spada dello Spirito. La Scrittura paragona a più riprese questo processo spirituale anche alla purificazione dell’oro e dell’argento4.

Questo è il procedimento provato che ci permette di trarre dai testi della Scrittura un ali­mento vivificante, che possiamo poi offrire ad altri, come facevano i Padri nei loro commen­tari. Qui sta il segreto dell’esegesi patristica e delle opere spirituali prodotte dalla Parola di Dio. Quest’arte corrisponde in modo perfetto alla fattura degli scritti evangelici e all’intento profondo dei loro autori che volevano parlarci «di fede in fede» (Rm 1,17). Questi scritti so­no stati composti come compendi di dottrina e di esperienza, per essere ascoltati, meditati, messi in pratica e diventare per i credenti un nutrimento che dà loro la forza di produrre frut­ti di vita conformi al Vangelo.

Questo metodo è praticato dai cristiani fin dalle origini, in comunità, all’interno della ce­lebrazione liturgica, così come nella vita personale. Esso si impone anche a noi come il punto di partenza di ogni sforzo di rinnovamento e di progresso spirituale.

2.4 Alla scuola della liturgia

La Scrittura e la liturgia vanno di pari passo, tenendosi per mano; non si può separarle. Molti passi del Nuovo Testamento, come il racconto della Passione, sono stati scritti in vista delle celebrazioni pasquali che si prolungano nell’Eucaristia domenicale. La liturgia eucaristi­ca, che raduna la comunità cristiana, forma il contesto naturale della lettura della Scrittura che in essa riceve normalmente il commento autorizzato del vescovo o di un predicatore de­putato a questo incarico.

La Scrittura infatti è stata affidata alla Chiesa e da essa è offerta ad ogni credente. La let­tura del testo sacro possiede così due poli: l’ascolto comunitario nell’ambito della liturgia e della vita ecclesiale; poi l’ascolto personale di una Parola che risuona nel segreto del cuore «dove solo il Padre ci vede» e può parlarci mediante lo Spirito del suo Figlio. La Scrittura de­ve dunque essere accolta, compresa, interpretata e vissuta nella comunione ecclesiale.

La liturgia non è solo il luogo più adatto per l’annuncio e la spiegazione della Parola di Dio; essa la mette in opera nell’azione che più le conviene e che è la più necessaria, nella pre­ghiera che si può definire come un colloquio col Padre, attraverso il Figlio, per impulso dello

4 11 paragone della lettura della Scrittura con la fabbricazione del pane si incontra nei Padri ed è ri­preso dalla scolastica. Nel suo commento sulla Legge del Levitico, san Tommaso, ispirandosi ad Esi- chio, spiega così, applicandola a Cristo, l'offerta di spighe e di farina prescritta dalla Legge di Mosè: «La causa di ciò nell'ordine figurale sta nel fatto che il pane significa Cristo che è il ‘pane vivo’, come dice il Vangelo (Gv 6,41.51). E questi era come sotto forma di spiga nello stato di legge naturale, e nella fede dei Patriarchi; era come fior di farina nella dottrina della legge e dei profeti; era come pane forma­to dopo l’incarnazione: cotto al fuoco, cioè formato dallo Spirito Santo nel forno dell’utero verginale; cotto nella casseruola per le fatiche sostenute nel mondo; e sulla croce quasi arrostito su una graticola» (Mi, q. 102, a. 3, ad 12).

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Spirito, in comunione fraterna. Nella liturgia la Scrittura si trasforma in preghiera e ci fa acce­dere alla fonte viva della grazia che nutre la vita spirituale e genera l’azione. Inaugurata nella Passione del Signore e ordinata intorno all’Eucaristia, la liturgia ci insegna a esercitare il culto spirituale in cui noi offriamo, giorno dopo giorno, i nostri corpi, le nostre persone, la nostra vita in «sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1).

Il modo con cui la liturgia ci insegna a leggere la Scrittura corrisponde al metodo dei Pa­dri e alla lettura «reale» di cui abbiamo parlato. La liturgia non d raduna per studiare la Scrittura e per discuterne, ma per ascoltarla come una Parola di Dio rivolta a noi e per tra­sformarla in preghiera; essa ce la spiega anche per dirigere la nostra vita e darci l’esperienza progressiva delle realtà spirituali. È con questo intento che la liturgia ci invita a percorrere l’insieme della Scrittura nel tempo dell’anno secondo il ritmo ciclico che caratterizza la cre­scita vitale.

Inoltre il quadro in cui ci introduce la liturgia risponde esattamente alla divisione del tem­po che separa e ordina tra loro i sensi spirituali. 11 ciclo liturgico ha il suo centro nella perso­na di Cristo e si organizza secondo i «misteri», i principali avvenimenti della sua vita e della sua opera, riuniti intorno alla Passione e alla Risurrezione. È l’apice permanente della storia della salvezza. Tutti i testi dell’Antico Testamento saranno letti come una preparazione, una prefigurazione o una profezia del mistero di Cristo, secondo il senso allegorico o tipologico.

Cristo è morto e risorto per noi; l’Eucaristia è celebrata perché ne viviamo e facciamo fruttificare questa grazia e questo insegnamento ricevuti dal Signore. È l’applicazione concre­ta del senso morale della Scrittura. È un fatto notevole, Io ricordiamo, che la Chiesa abbia mantenuto attraverso i secoli la lettura della catechesi morale del Nuovo Testamento, anche quando i teologi sembravano averla dimenticata.

Infine la liturgia, soprattutto nel tempo dell’Avvento e al termine dell’anno, dirige i nostri sguardi e la nostra speranza verso la venuta di Cristo, atteso come lo Sposo e come il Maestro che noi amiamo, o anche come la Luce di un giorno nuovo che non avrà sera. Questo è il sen­so anagogico ed escatologico che orienta la vita cristiana verso l’incontro con Cristo. Possia­mo concludere: mettendoci continuamente a contatto con la Scrittura, insegnandoci ad ascol­tarla come Parola di Dio, a trasformarla in preghiera e a interpretarla in comunione con la Chiesa, secondo il ritmo del tempo inaugurato da Cristo, la liturgia costituisce una fonte pri­maria e una scuola di fondamentale importanza per ogni spiritualità cristiana.

Indicazioni bibliografiche

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versione al cristianesimo nei prim i secoli, Milano 19944).Id., La vie spirituelle d’après les Pères des premieri siècles, Paris 1968.L. Bouyer, La spiritualité du Nouveau Testament et des Pères, Paris 1966 (tr. it. La spiritualità

del Nuovo Testamento, Bologna 1967; La spiritualità dei Padri, Bologna 1986).

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Le fonti della spiritualità cristiana

C.J. Bruyère, La Vie spirituelle et Toraison, Paris 1960.L. Cerfaux, Le Christ dans la théologie de saint Paul, Paris 1951 (tr. it. Litinerario spirituale di

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Capitolo quartoLA CONFORMITÀ A CRISTO

1. L a persona d i G esù, fo n te della vita sp iritua le

La vita cristiana non è regolata principalmente da testi legislativi, né da idee, né da istitu­zioni, ma dal rapporto di fede e di amore verso una persona, Gesù Cristo, il Verbo di Dio in­carnato, che ci parla mediante i Vangeli. Questi ne sono la chiara testimonianza: sono la Buo­na Novella della salvezza compiuta per tutti in Gesù, Figlio di Dio (Me 1,1). Essi ci pongono di fronte alla domanda decisiva posta da Gesù ai suoi discepoli: «Voi, chi dite che io sia?», e ci propongono la risposta di Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,15-16). Giovanni lo conferma: i Vangeli sono stati scritti «perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio» (Gv 20,31). San Paolo, per pane sua, si presenta ai Romani come chiamato ad «annunciare il Vangelo di Dio... riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davi­de secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti» (Rm 1,1-4).

La vita cristiana si concentrerà dunque attorno alla persona di Gesù. Essa si costruirà sul fondamento incrollabile che ci propongono i Vangeli: la fede in Gesù come figlio di Maria, fi­no alla sofferenza e alla morte, e come Figlio di Dio, che vive dello Spirito, come Figlio dell’uomo e Signore della gloria, o anche, come precisano i concili, come colui che è vero uo­mo e vero Dio, una sola persona che riunisce in sé le due nature, divina e umana. L’unione a Cristo mediante la fede e il battesimo conferirà l’adozione filiale e formerà nei discepoli P«uomo nuovo» (Ef 2,15), l’«uomo interiore» (Rm 7,22), l’«uomo perfetto» (Ef 4,13).

Un tale rapporto con una persona determinata è un fatto unico nella storia delle religioni e nel campo delle dottrine spirituali. La persona di Cristo nella sua vita, nel suo corpo stesso che ha sofferto, è morto ed è risorto, diventa una fonte di sapienza e di vita per i suoi discepoli.

La persona di Cristo è anche al centro dei nostri rapporti con Dio: per la sua duplice na­tura, Gesù è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini. È grazie al Figlio che noi possiamo arri­vare al Padre: lui solo ce lo rivela (Mt 11,26) e ci ottiene il suo perdono; ci insegna a pregarlo

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(Le 11,2) e intercede per noi presso di lui (Rm 8,34). E ancora lui che ci invia lo Spirito Santo e ci procura i suoi doni, a cominciare dall’agape, per introdurci nella vita trinitaria: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo di­mora presso di lui» (Gv 14,23).

È proprio questo che infine insegnano gli inni paolini, i quali ci fanno scoprire le vette della vita spirituale. Già nella lettera ai Filippesi, Gesù ci è presentato, dopo la sua spogliazio­ne e la sua umiliazione, come «il Signore, a gloria di Dio Padre», nel nome del quale ogni gi­nocchio si pieghi nel più alto dei cieli e sulla terra. La lettera ai Colossesi ce lo rivela come «generato prima di ogni creatura», «il Capo del Corpo, cioè della Chiesa», «il Principio, il Primogenito di coloro che risuscitano dai morti». La lettera agli Efesini infine ci assicura che tutte le benedizioni del Padre ci sono venute mediante Gesù Cristo, il suo Figlio diletto, il Capo degli esseri del cielo e della terra, e che esse culminano nel dono dello Spirito Santo che prepara la «redenzione del popolo che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria».

Se procede da questa fede e da questa unione con Cristo, la vita cristiana assumerà natu­ralmente come regola e come scopo la conformità alla sua persona così come ce la descrivono i Vangeli. Ecco perché il tema della conformità a Cristo si impone a noi come la linea d ’orien­tamento principale della vita spirituale e come un asse centrale nell’organizzazione delle sue componenti.

La vita spirituale del cristiano

2. Im conformità a Cristo secondo san Paolo

Per parlare della conformità a Cristo, ci baseremo sui tre passi in cui san Paolo usa il ter­mine sum-morpbos, che significa letteralmente «con-forme», «della stessa forma». Osservia­mo tuttavia che il termine forma, in greco, possiede un senso molto più ricco rispetto al sem­plice aspetto esteriore delle cose al quale noi solitamente pensiamo. La forma manifesta la na­tura di una cosa, nella sua idea e nella sua armonia, nella sua qualità e nella sua bellezza. I Pa­dri parleranno della «forma di Dio» per designare la sua natura rivestita dei suoi attributi, la Gloria e la Maestà.

Il primo testo, nella lettera ai Romani, pone la conformità a Cristo al cuore stesso dell’opera di Dio a favore di quelli che Io amano: «Del resto noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quel­li che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine (icona) del suo Figlio, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,28-29). Tutta l’opera dello Spirito Santo, quando attesta che siamo figli di Dio e ci spinge a pregare il Padre (cfr. 8,15-16), ha come scopo di formare in noi un’immagine spirituale di Cristo, così reale come la somiglianza per mezzo della carne e del sangue nei legami familiari. Grazie a questa assimilazione nella filiazione noi diventiamo fratelli di Cristo. È significativo che questo passo termini con l’inno rivolto all’amore di Dio: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo...?» (8,35ss.). La conformità è l’opera propria dell’amore.

La dottrina della conformità a Cristo secondo la lettera ai Romani troverà la sua applica-

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La conformità a Cristo

zione concreta nella catechesi morale dei capitoli 12-15. Paolo l’introduce usando un termine strettamente imparentato alla «con-formità»: metamorphein da cui è derivata la nostra «meta­morfosi» e che si traduce letteralmente: tras-formare, acquistare una nuova forma. È la parola usata per la Trasfigurazione di Gesù. «Non conformatevi (non ‘schematizzatevi con’: il termi­ne indica un atteggiamento che rimane esteriore) alla mentalità di questo secolo, ma trasfor­matevi rinnovando la vostra mente per poter discemere la volontà di Dio...» (12,2). I caratteri precisi della conformazione a Cristo nella vita dei cristiani saranno dunque forniti dalla para- clcsi, dall’esortazione apostolica incentrata sull’a p e . La conformità a Cristo sarà il fine prin­cipale di questo insegnamento.

Il tema della conformità all’immagine di Cristo è denso di riferimenti. Esso ci richiama la creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gn 1,26), poi il primato di Cristo poiché «Egli è Tlmmagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura» (Col 1,15). L’opera di Cristo, costituito Capo della Chiesa e Primogenito di coloro che risuscitano dai morti (cfr. 1,18), è quella di ristabilire nell’uomo l’immagine di Dio offuscata dal peccato, me­diante una nuova creazione che forma in lui l’Uomo nuovo, il quale partecipa della gloria che Cristo possiede in quanto Figlio e Immagine di Dio. Questa «gloria», questa luce spirituale penetra sempre di più nel discepolo di Cristo fino al giorno in cui il suo corpo stesso ne sarà rivestito dal Signore «che trasfigurerà il nostro misero corpo per renderlo conforme (sum- morphon) al suo corpo glorioso» (Fil 3,21). È il nostro secondo passo. Come si vede, il tema della conformità è legato a quello dell’immagine che lo rende estremamente ampio1 e si appli­ca al nostro stesso corpo.

Il terzo testo di san Paolo (Fil 3,10) ci mostra la dimensione personale che acquista il te­ma della conformità a Cristo: «A motivo di Cristo ho lasciato perdere tutte queste cose..., non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo... E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurre­zione dei morti».

Siamo qui proprio alla radice della spiritualità paolina: la fede in Cristo, fonte della giusti­zia di Dio in noi e causa della nostra partecipazione alla sua vita, alle sue sofferenze, alla sua gloria. Essa conduce Paolo a raffigurare la vita come una corsa «per cercare di conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo» (3,12). L’Apostolo arriva così, nella sua esortazione fraterna, al tema dell’imitazione che preciserà quello della conformità: «Fate­vi miei imitatori (symmimetoi: mimi con me), fratelli» (3,17).

3. Il passaggio dalla sequela di Cristo all'imitazione

I temi della sequela di Cristo e dell’imitazione hanno avuto un ruolo determinante all’in­terno della spiritualità cristiana. Sono stati a lungo uniti nella Tradizione; ma vennero distinti

1 Cfr. P. Lamarchc, art. «Image et ressemblance», in DSp, vn/2, coll. 1401-1406.

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al tempo della Riforma dalla critica luterana che ha scartato Limitazione e ha dato la prefe­renza all’idea della sequela di Cristo {Nachfolge piuttosto che Nachahmung). L’esegesi ha am­piamente studiato questi temi ispirandosi alla problematica moderna2. Noi vorremmo, per parte nostra, sulla scia dell’esegesi cattolica recente, unire nuovamente questi due temi nella prospettiva di una morale delle virtù e ridare all’idea dell’imitazione di Cristo la ricchezza e l’originalità che in essa produce il radicamento nella fede e nella carità.

Se si osserva l’uso dei termini nel Nuovo Testamento, si constata una notevole differenza tra i Vangeli e le lettere apostoliche. Per indicare la relazione dei discepoli con Gesù, i Vange­li usano il verbo «seguire» (akolouthein) senza fare ricorso al vocabolario dell’imitazione (mi- mesis) che si incontra invece regolarmente nel corpus paolino.

La sequela di Cristo occupa dunque il posto centrale nei Vangeli. Essa è molto esigente. Gli apostoli sono chiamati a lasciare tutto—famiglia, proprietà, mestiere—per seguire Cristo, per condurre un nuovo genere di vita sotto la sua guida (cfr. Mt 4,18-22). I discepoli formano con Gesù una comunità permanente che si dedica all’ascolto della sua parola, al sostegno del suo ministero e alla proclamazione del suo messaggio, quando egli li invia in missione (cfr. Mt 10). Essi devono accettare le privazioni, le prove, le persecuzioni significate dall’invito alla ri­nuncia, nel discorso apostolico (Mt 10,17-39). Gli apostoli si impegnano, si è detto, in una professione nuova che occupa tutta la loro vita. Ma essi sono sostenuti dalle grandi promesse: diventare pescatori d’uomini (Mt 4,19), possedere il Regno dei cieli seguendo le beatitudini (Mt 5>3ss.), sedere un giorno accanto a Cristo nella sua gloria e giudicare le dodici tribù d ’Israele (Mt 19,28), ereditare la vita eterna (Mt 19,29).

Il rema dell’imitazione di Cristo non è tuttavia assente dai Vangeli, anche se la parola manca, poiché Gesù non vi compare solo come il maestro che insegna: si presenta anche co­me il modello da seguire. L’appello aU’imitazione è implicito nella parola che definisce il di­scepolo dopo il primo annuncio della Passione: «Se qualcuno vuole seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24). Seguire Gesù significa imitarlo lasciando che si riproduca nella propria vita il mistero della Croce che Gesù sta per portare a compi­mento. L’invito a imitare Gesù sarà particolarmente chiaro in questo appello rivolto a tutti: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi... Prendete il mio giogo sopra di voi e im­parate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,28-29).

San Giovanni, che ha potuto bere nello stesso calice del suo maestro, senza sapere ciò che domandava (Mt 20,20-23), esplicherà questo insegnamento nella scena della lavanda dei pie­di in cui Gesù propone il suo gesto di servizio, che sta a significare la Passione ormai prossi­ma, come un esempio da imitare: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, fac­ciate anche voi» (Gv 13,15). È insomma una ripresa dell’insegnamento dato ai due figli di Ze- bedeo e agli altri dieci: «Chi vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo... Il Figlio

2 Non potendo esporre nel dettaglio lo studio di questi due temi, rimandiamo alle seguenti opere che torniscono una buona bibliografia: R. Schnakenburg, Le message moral du Nouveau Testament, Le Puy- Lyon 1963, pp. 43-52, 145-150, 186-196; E. Cothenet, art. «Imitation du Christ. Dans rÉcriture», in DSp, vn/2, coll. 1536-1562.

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dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,25-28). Se si esaminano i testi in chiave più ampia e si seguono in profondità le indicazioni che ci danno, possiamo concludere: se è vero che Gesù è venuto per dare compi­mento alla Legge, come egli afferma, e che si deve considerare grande nel Regno dei cieli, se­condo le sue parole, colui che mette in pratica questi precetti prima di insegnarli (Mt 5,17- 19), non bisogna considerare il Discorso della montagna, pronunciato con tanta autorità, co­me il modello perfetto, pienamente realizzato nella propria vita, che Gesù propone all’imita­zione dei suoi discepoli? Il Discorso sarebbe allora una manifestazione del volto spirituale di Gesù e rappresenterebbe la più bella raffigurazione di Cristo, la più ispiratrice.

Così si è potuto scrivere che l’imitazione di Cristo è uno dei fondamenti e una delle carat­teristiche più importanti della dottrina evangelica e di tutta la morale neotestamentaria5.

Per comprendere il passaggio dal tema della sequela di Cristo nei Vangeli a quello dell’imitazione nelle lettere apostoliche, occorre tener conto di un fatto storico che tocca la composizione stessa dei nostri documenti. Gli scritti del Nuovo Testamento avvicinano e combinano due piani: l’attività storica di Gesù con i suoi apostoli durante la sua vita terrena e la predicazione della fede dopo la Risurrezione nella Chiesa primitiva. Questa congiunzione è legittima, poiché deriva da una fede che vive e interpreta l’insegnamento di Cristo in una si­tuazione nuova con perfetta fedeltà spirituale.

In quest’ottica, il passaggio dalla sequela di Cristo all’imitazione si spiega facilmente. Per gli apostoli, seguire Gesù aveva un significato concreto: vivere con lui, accompagnarlo nelle sue peregrinazioni dalla Galilea a Gerusalemme. Ma dopo la morte di Gesù, l’espressione non poteva più mantenere che un senso metaforico ed era normale che essa cedesse il posto al tema dell’imitazione per significare una sequela spirituale, specialmente nelle comunità di cultura greca in cui l’idea dell’imitazione era usuale4. Tuttavia la congiunzione tra la sequela e Limitazione di Cristo rinnoverà profondamente quest’ultimo tema. D’altra parte, prima di esporre la dottrina dell’imitazione di Cristo negli scritti apostolici, è indispensabile dire una parola sulle obiezioni moderne contro questo tema, che restano presenti dentro di noi, anche a nostra insaputa.

3.1 La critica luterana dcH’imiiazione

Lutero ha posto vigorosamente il problema—c l’ha, in parte, creato—applicando al tema dell’imitazione la sua dottrina della giustificazione mediante la sola fede e non mediante le opere. Egli pone Limitazione degli esempi di Abramo c di Cristo stesso nell’ordine delle ope­re che noi compiamo con le nostre proprie forze e che non possono giustificarci; in tal modo la separa radicalmente dall’ordine della fede. «L’imitazione dell’esempio di Cristo non ci ren­de giusti davanti a Dio», egli scrive. Ne deriva che non si può più usare il tema dell’imitazio­ne per indicare la nostra relazione principale con Cristo mediante la fede; occorre sostituirvi

} A. Feuillet, La coupé et le Baptéme de la Passio», in «Rcvuc biblique» 74 (1967), p. 384. 4 Cfr. R. Schnakcnburg. op. d i., pp. 47-51.

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quello della sequela di Cristo5. Da allora i due temi si contrapporranno nella tradizione pro­testante. Teologi ed esegeti rifiuteranno l’ideale dell’imitazione di Cristo a vantaggio della se­quela di Cristo intesa come un appello all’obbedienza nella fede.

3.2 L’influsso dell’individualismo del Rinascimento

L’influsso dell’individualismo del Rinascimento, ereditato dal nominalismo, spiega in buo­na parte questo rifiuto dell’imitazione in Lutero, al quale corrisponderà d'altronde una certa emarginazione del tema nella morale cattolica.

Gli antichi concepivano l’uomo come un essere spontaneamente incline alla vita in so­cietà; questa disposizione si sviluppava con l’educazione alla virtù e fioriva nell’amicizia. Il te­ma dell’imitazione si inseriva naturalmente in questo quadro e aveva un ruolo essenziale nella pedagogia, nel rapporto tra discepolo e maestro. La distanza rispetto al modello era progres­sivamente colmata dall’attrattiva, dalla condivisione e dalla reciprocità che favorisce l’amici­zia. Così inteso, il tema si prestava a una ripresa da parte dei cristiani per esprimere le relazio­ni allacciate con Cristo mediante la fede.

Isolando l’uomo nella sua libertà, di fronte a Dio c agli altri, l’antropologia nominalista ha infranto questa base di comunicazione: ogni uomo è alla fine lasciato alla sua libertà, al pro­prio sforzo, e può quindi rivendicare il merito dei propri atti davanti a Dio, anche nel caso dell’imitazione di Cristo. E proprio ciò che rifiuta il protestantesimo.

In questa concezione la morale avrà bisogno non tanto di esempi e di modelli quanto di ob­blighi, di imperativi e di proibizioni per controllare la libertà. Così il tema dell’imitazione di Cristo perderà terreno, anche nella morale cattolica che viene elaborata dopo il concilio di Trento. Esso implica inoltre l’appello a una perfezione rappresentata dal modello, che supera il minimo richiesto a tutti dalla legge, dal Decalogo. Perciò il tema sarà trasferito nell’ascetica che tratta dello sforzo verso la perfezione, o nella mistica sotto la forma di una devozione a Cristo.

Così, sia nell’ambito cattolico sia in quello protestante, abbiamo bisogno di riscoprire ciò che è veramente l’imitazione di Cristo mettendoci di nuovo alla scuola della Scrittura, e di san Paolo in particolare.

5 «Come i Giudei non si gloriano che di quell’Abramo che opera, così il papa propone solo un Cristo che compie delle opere: un esempio... Noi non diciamo che i fedeli non debbano imitare l'esempio di Cristo, né che non debbano compiere delle buone opere, ma che non è per questo che essi sono giustifi­cati davanti a Dio... I papisti e tutti quelli che fanno appello alla propria giustizia non guardano e non colgono, in Cristo, colui che giustifica, ma colui che compie delle opere (proposte come esempio), e che per questo si allontanano tanto più da Cristo, dalla giustizia e dalla salvezza... L’imitazione dell’esempio di Cristo non ci rende giusti davanti a Dio» (Lettera a i Calati, cap. 3, 9-10, in (Euvres, t. XV, p. 252, Genève 1969), Altri riferimenti: Com m ento a san Giovanni, t. ili, pp. 301-309; Commento a i Galati, t. xv , p. 177; t. xv i, pp. 63 e 211-212; Com m ento a l Genesi, t. XVII, pp. 339-340 e 387.

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4. Il tema dell’imitazione in san Paolo

Fin dalla prima lettera ai Tessalonicesi san Paolo richiama il tema dell’imitazione di Cristo e ci presenta in poche parole ciò che si potrebbe chiamare la catena dell’imitazione che uni­sce i cristiani. Essa dipende dalla predicazione stessa del Vangelo annunciato da Paolo con la potenza dello Spirito per il bene dei credenti. «E voi siete diventati imitatori (mimetoi) nostri e del Signore, avendo accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a gran­de tribolazione, così da diventare modello (typos) a tutti i credenti che sono nella Macedonia e nell’Acaia» (lTs 1,6-7). Il tema è ripreso nella seconda lettera in collegamento con il lavoro manuale che Paolo si è imposto per non pesare sui nuovi convertiti: «Sapete come dovete imitarci. Infatti non abbiamo vissuto oziosamente tra voi» (3,7). Nella lettera ai Filippesi, co­me abbiamo visto, l’esortazione all’imitazione deriva direttamente dal desiderio della confor­mità a Cristo manifestato dall’Apostolo e ne è la messa in opera: «Fatevi miei imitatori, fratel­li, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi» (3,17). Si incon­tra il tema più tardi, nell’epistola agli Efesini, al centro della catechesi apostolica: «Fatevi dunque imitatori di Dio (mimetoi tou theou) [perdonandovi a vicenda] e camminate nella ca­rità nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sa­crificio di soave odore» (5,1-2).

Così inteso, il tema dell’imitazione riveste un ruolo primario nella spiritualità cristiana, ri­chiamando il precetto più alto del Discorso della montagna: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Esso può abbracciare la vita intera dei credenti: imitazione di Dio e di Cristo, poi imitazione apostolica e fraterna Fin nel lavoro quotidiano che accompagna l’annuncio del Vangelo. Imitazione tanto vasta quanto la Chiesa, fino a rag­giungere anche i pagani mediante la testimonianza della fede e delle opere.

4.1 L’imitazione deriva dalla fede in Cristo

Il primo punto che Paolo ci indica in questi testi è decisivo: l’imitazione di cui egli parla deriva direttamente dalla fede in Cristo. La formula che introduce il tema dell’imitazione è proprio nello stile assai denso dell’Apostolo. Traduciamo letteralmente: «Memori dell’opera della vostra fede e dello sforzo deW'agape e della pazienza della speranza del nostro Signore Gesù Cristo davanti al nostro Dio e Padre» (lTs 1,3).

La menzione di Cristo riguarda l’insieme: alla fonte dell’imitazione stanno, in un unico zampillo, la fede in Cristo, l’amore di Cristo, la speranza in Cristo. Paolo poi precisa: questa è la fede del Vangelo che ha predicato e che agisce con la potenza dello Spirito Santo, facendo di lui il servitore di tutti.

Il rapporto tra la fede e l’imitazione evoca la relazione tra discepolo e maestro: il discepo­lo si mette alla scuola del maestro fidandosi del suo insegnamento e seguendo il suo esempio. Così Cristo appare sotto la figura del maestro che istruisce i suoi discepoli con la sua parola e con i suoi atti, come nel Discorso della montagna. La fede dell'ascolto si prolunga nella doci­lità dell’imitazione.

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Questa rappresentazione tradizionale è senza dubbio esatta; ma essa non basta, da sola, a giustificare ciò che di nuovo c’è nel rapporto con Cristo instaurato dalla fede. Si potrebbe in­fatti non vedervi nulla di più che una sottomissione a un saggio, a un educatore modello.

Nella lettera ai Corinzi, san Paolo pone l’imitazione all’intemo di un legame più ricco del­la relazione pedagogica: il rapporto unico di paternità nel dono della fede che lo unisce ai cri­stiani di Corinto: «Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non ceno molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi esorto dunque, fatevi miei imitatori!» (lCor 4,15-16). Si è potuto sottolineare, a questo proposito, che san Paolo propone se stesso come modello solo alle comunità che egli ha fondato: Tessa- lonica, Corinto, Filippi, i Calati (4,12). Altrove egli parla dell’imitazione di Dio e di Cristo6. Dobbiamo dunque cercare nella fede e nelle relazioni che essa crea la radice dell’imitazione evangelica.

4.2 La fede come fonte della vita morale

È nelle lettere ai Romani e ai Corinzi che san Paolo ci espone più chiaramente il ribalta­mento che opera la fede in Cristo nel campo della vita morale in cui si realizza Limitazione. Dopo aver smascherato con vigore il fallimento della morale giudaica, che sfocia nell’ipocri­sia, e della morale greca, che conduce alla corruzione, l’Apostolo innalza di fronte ad esse la morale evangelica: essa nasce dalla fede in Cristo crocifìsso, diventato per noi il dispensatore della giustizia di Dio e della sapienza di Dio. Rifiutata come una follia e uno scandalo dai sa­pienti e dai potenti, la Parola del Vangelo penetra nel cuore dell’uomo alla massima profon­dità, al di là delle idee e dei sentimenti, per cambiarv i la fonte stessa dell’agire morale: alla si­curezza dell’uomo in se stesso che genera l’orgoglio, essa sostituisce la fede in Cristo, umile e obbediente fino alla Croce, ma divenuto mediante la Risurrezione colui che dona una vita nuova la cui origine è in Dio. Così l’imitazione comincia nella fede stessa: essa è un’umile consegna di sé a Cristo umiliato per noi ed esaltato da Dio. «E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifìsso, scandalo per i Giu­dei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichia­mo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio...» (lCor l,22-24)7.

Ponendo così la fede all’origine della morale evangelica, san Paolo le conferisce una carat­teristica unica nel suo genere: la persona stessa di Cristo diventa la fonte della vita dei creden­ti. Per mezzo della fede si stabiliscono dei legami vitali tra il Maestro e i discepoli. Mediante il battesimo che li associa alla morte e alla risurrezione di Gesù, i discepoli ricevono un essere nuovo all’origine di una vita che formerà in essi un «uomo nuovo» e che Paolo definirà come «una vira in Cristo», una «vita con Cristo». Essi potranno ripetere con l’Apostolo: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).

6 E. Cothenet. art. cit., col. 1555.7 Si veda il nostro libro Les Sources de la morale chrétienne, cit., pp. 123s$.

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San Paolo vi aggiungerà il paragone della Chiesa con il corpo e le membra, nelle quali cir­cola uno stesso sangue che le assimila le une alle altre. Egli po rrà questa idea all’inizio della sua catechesi morale per mostrare chiaramente la dimensione cristologica ed ecclesiale della vita cristiana, con le virtù che essa fa agire. «Anche noi, pur essendo molti, siamo un solo cor­po in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12,5), «... al fi­ne di edificare il Corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,12-13).

San Giovanni, per parte sua, esporrà questa comunicazione di vita con il paragone così ef­ficace della vite e dei tralci che sono alimentati da una stessa linfa: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (15,5).

Questo è il nuovo fondamento che riceve l’imitazione: essa non riproduce più un modello esteriore, ma deriva da un’unione vitale con Cristo, operata dalla fede, e si presenta come una conformazione necessaria per coloro che diventano membra del suo Corpo.

4.3 L’imitazione di Cristo, opera dello Spirito Santo

Nello stesso tempo, san Paolo ci rappresenta la vita cristiana come una vita secondo lo Spirito. Nella lettera ai Galati la descrive come una lotta tra la carne e lo Spirito e oppone all’elenco delle opere della carne—fornicazione, impurità, dissolutezza, discordia, ecc.—il quadro attraente del frutto dello Spirito in noi: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (5,19-22). Il lavoro dello Spirito avviene in noi dall’in­terno; esso solo scruta le profondità di Dio e può rivelare al nostro spirito i doni di Dio, fa­cendo di noi degli «uomini spirituali» (lCor 2,10-15). Lo Spirito è il principio, l’anima, come il sangue e la linfa della vita nuova in Cristo: «Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifis­so la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito, cammi­niamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,24-25).

Nella prima lettera ai Corinzi, Paolo esporrà l’opera dello Spirito sotto la forma dei cari­smi. Alcuni di questi doni sono esteriori e visibili, come la varietà e l’interpretazione delle lin­gue, l’insegnamento e i diversi ministeri. Ma il dono principale è il più interiore: è Yagape che accompagna la fede e la speranza; esso ispira e vivifica gli altri doni e virtù per realizzare la nostra conformità a Cristo e integrarci nell’unità diversificata della Chiesa.

Dunque possiamo riferire allo Spirito Santo e alla carità le diverse esposizioni della cate­chesi morale che ci offre san Paolo (Rm 12-15; Col 3-4; Ef 4-6; ecc.), considerando le virtù che egli raccomanda e propone all’imitazione non più come il risultato del nostro sforzo, ma in quanto grazie, opere e frutti dello Spirito Santo in noi. La morale, come i suoi precetti e le sue virtù, ne è trasformata al suo fondo; essa diventa propriamente spirituale. L’agire del cri­stiano non deriva più dalla sola sapienza e forza dell’uomo, ma dalla docilità allo Spirito. L’idea, la natura stessa della virtù ne è modificata: essa non è più una conquista, un dominio volontario, ma diventa un’accettazione umile e fervente, una concordanza d’amore. E quanto la teologia ha voluto esprimere parlando delle virtù infuse. Queste infatti non agiscono su di

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noi dalPesterno, come i maestri e i modelli umani. L’azione dello Spirito ci raggiunge per mezzo di esse dall’interno, attraverso l’ispirazione e l’impulso.

Ne deriva una nuova comprensione del tema dell’imitazione. Cristo agisce su di noi non solo mediante la parola c l’esempio, ma come Maestro dello Spirito che invia ai suoi discepoli per procurare loro l’intelligenza del mistero della sua persona e realizzare in essi l’opera dell’imitazione conformandoli al suo volto spirituale tracciato nei Vangeli. Il Nuovo Testa­mento ci presenta, con un’estrema sobrietà, i tratti che lo Spirito Santo si propone di ripro­durre in noi per modellarci a immagine di Cristo mediante il comportamento e il cuore, in modo che il volto misterioso di Cristo appaia in filigrana nella nostra vita meglio che in tutti gli scritti o i quadri.

4.4 La presenza di Cristo e l’attualità dei suoi «misteri»

L’azione dello Spirito Santo si estende ancora più lontano. Esso non non è solamente una specie di pittore interiore che ci utilizza come delle tele per riprodurvi Cristo. La sua opera principale è di rendere Cristo realmente presente nell’intimo della nostra anima, come una persona è presente a un’altra e la fa vivere nella fede e nell’amore. Questo è ciò che si può chiamare il miracolo dello Spirito: esso colma la distanza di spazio e di tempo che ci separa dalla vita di Cristo su questa terra e lo pone accanto a noi, come un amico parla al suo amico, come lo Sposo conversa con la sua sposa. Lo Spirito nello stesso tempo elimina, mediante la misericordia e il perdono che ci concede, il fossato scavato dai nostri peccati tra Dio e noi, tra le nostre miserie c la sua perfezione.

Per conseguenza i fatti e i gesti, i principali avvenimenti della vita di Cristo, ciò che noi chiamiamo i suoi «misteri», si attualizzeranno per noi mediante l’azione dello Spirito; essi si ripetono davanti a noi, in noi, come un flusso di grazia che ci conforma ad essi, quando li ce­lebriamo nella Chiesa e ogni volta che meditandoli ci lasciamo investire dal loro irraggiamen­to spirituale. Questa è l’intuizione di fede che ha guidato la formazione dell’anno liturgico nei primi secoli della Chiesa; essa ne sostiene ancora e ne'fa fruttificare la celebrazione. San Leo­ne Magno esprime splendidamente il legame tra la liturgia e la vita cristiana in una formula semplice c pregnante. La liturgia è al tempo stesso «sacramento ed esempio». Come sacra­mento, essa ci conferisce la grazia di Cristo e mediante questa grazia ci modella a suo esempio in tutta la nostra condotta. Così lo Spirito Santo conforma la Chiesa nel suo insieme e ogni cristiano personalmente all’immagine e all’imitazione di ('risto. È quello che la lettera agli Efesini richiama: arrivare «allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (4,13), o anche: «rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giusti­zia e nella santità vera» (4,24).

Possiamo concludere questa prima considerazione. L’imitazione di Cristo è la realizzazio­ne di una vocazione: in essa l’iniziativa appartiene a Cristo che ci chiama a seguirlo, e il suo principale artefice è lo Spirito Santo che ci conforma al Signore secondo l’immagine che ce ne presentano le Scritture, «la Buona Novella di Gesù Cristo, Figlio di Dio». L’imitazione di Cristo ha la sua fonte proprio nella fede; essa ne riceve i suoi tratti caratteristici; non si può

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separarla da essa. La «sequela» di Cristo si compie nell’imitazione di Cristo. Essa produce una conformità spirituale che si comunica e si irradia. .

5. La nostra parte nell'imitazione

Se da una parte è opportuno assegnare all’azione dello Spirito Santo e della grazia il ruolo primario nell’imitazione di Cristo, non si può trascurare per questo lo sforzo personale che essa esige da parte dei discepoli. L’imitazione non si realizza in un’anima puramente passiva, come la cera molle si presta alla pressione del sigillo, nel qual caso avremmo un modello imi­tato, ma mancherebbe un imitatore. Il ruolo dello Spirito Santo è piuttosto quello di risve­gliare e di formare la nostra libertà per renderci capaci di collaborare alla sua opera mediante la fede e l’amore. L’imitazione presuppone un’associazione attiva tra la grazia dello Spirito e la libertà dell’uomo, ed essa la mette in opera.

Ritroviamo qui la questione cruciale dei rapporti tra la grazia e la libertà che ha effettiva­mente contribuito a eliminare, da parte protestante, il tema dell’imitazione di Cristo e a ri­durne la portata, da parte cattolica. Non si poteva evitare questa conseguenza visto che si concepivano la grazia e la libertà come estranee l’una all’altra, e anche come contrapposte.

5.1 Come la grazia ci rende liberi

Per risolvere questo problema che non è per nulla riservato ai teologi, conviene ricorrere all’esperienza spirituale più che ai ragionamenti e alle teorie. Essa infatti ci rivela nel modo migliore questo principio fondamentale: più siamo docili alla grazia dello Spirito e più diven­tiamo liberi interiormente, meglio imitiamo Cristo e ci conformiamo a lui e più diventiamo noi stessi, sorprendentemente. È proprio quello che voleva dire il principio di san Tommaso spesso citato: la grazia non distrugge la nostra natura, ma la perfeziona; l'intervento dello Spi­rito non diminuisce la nostra libertà, né ostacola la nostra spontaneità spirituale; esso al con­trario la suscita e la sviluppa anche al di là delle nostre capacità naturali. Senza dubbio il con­corso tra la grazia e la libertà non è acquisito in anticipo, né è sereno in tutte le sue tappe, a causa del peccato; ma nessun contrasto e nessuna scossa devono farci dimenticare questa cor­rispondenza di fondo che lo Spirito Santo stesso ci Ìndica e ci fa provare interiormente.

L’imitazione di Cristo, se è autentica, non costituisce affatto una diminuzione, una aliena­zione di sé, anche se si tratta di morire a se stessi come ha fatto il Signore. Anzi, è proprio es­sa che ci purifica nella prova; ci fortifica con le sue esigenze nello sforzo quotidiano; ci illumi­na con l’intelligenza più profonda che procura l’esperienza; ci insegna pazientemente le virtù necessarie perché anche noi portiamo, nell’umiltà e nella gioia, frutti di libertà, saporiti e fe­condi, come i servi fedeli, felici di offrire al loro padrone il doppio dei talenti che aveva loro affidato. Noi sappiamo anche che la fatica che facciamo proviene già da una grazia.

L’imitazione di Cristo realizza dunque in modo concreto la collaborazione tra la grazia e la libertà, tra lo Spirito Santo e noi, nell’opera della vita che ci propone il Vangelo. Così inte­

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so, il tema dell’imitazione può essere applicato all’intera vita morale e servire come principio direttivo della vita spirituale. II cristiano è chiamato a una vita in Cristo, all’imitazione di Cri­sto; è una vita secondo lo Spirito, ed essa è, nello stesso tempo, pienamente nostra.

5.2 La varietà e la fecondità dell’imitazione di Cristo

Noi vorremmo avere, per semplificare le cose, un’immagine chiara della personalità di Cristo, una specie di cartamodello, o addirittura un identikit, che basterebbe poi ricopiare nella nostra vita, ciascuno secondo le proprie capacità. Questo modo di intendere l’imitazio­ne è superficiale; se fosse così, la vita cristiana diventerebbe assai noiosa, come lo sarebbe la riproduzione della vita di Cristo in migliaia di esemplari. Alcuni obiettano anche che, poiché Cristo è vissuto in condizioni di vita e di cultura che non sono più le nostre, noi non possia­mo più imitare rigorosamente la sua condotta. Ma questa è una visione troppo materiale delle cose, come se l'imitazione ci imponesse uno stampo uniforme fino al minimo particolare.

L’imitazione che ci propone il Vangelo è di tutt’altra natura. La collaborazione tra lo Spi­rito Santo e coloro che esso anima mediante le virtù e i doni, conferisce all’imitazione una di­versità tanto grande, una fecondità tanto inesauribile quanto la varietà delle persone; tuttavia nello stesso tempo si possono riconoscere in ogni credente i tratti caratteristici della Figura di Cristo, riprodotti dall’unico Spirito che agisce in tutti. La cosa è facilmente verificabile grazie all’esempio dei santi. Ciascuno, a suo modo, è un testimone di Cristo nella sua vita, con le sue virtù e le sue opere, e fa appello a uno stesso Vangelo; ma quante differenze e quale varietà nelle realizzazioni, tra Pietro e Paolo secondo il loro ministero, tra Matteo e Giovanni nei lo­ro vangeli, tra Agostino c Girolamo o il pacifico Benedetto, più tardi, tra Francesco d’Assisi, l’ispirato, e Domenico, l’organizzatore, tra teologi come Tommaso d ’Aquino e il devoto Bo­naventura, nel XIII secolo, tra Caterina da Siena, Teresa d’Avila e oggi madre Teresa tra le donne, tra il combattivo Ignazio di Loyola, il mistico Giovanni della Croce e il generoso Vin­cenzo de’ Paoli. Si provi a considerarli tutti: non ve n’è uno che abbia semplicemente copiato l’altro; sono diversi e tuttavia sono in comunione in una stessa imitazione di Cristo che li ha guidati. E quale creatività! La maggior parte di essi ha segnato la propria epoca e influito sul­la storia della Chiesa in modo originale con dei capolavori che rispondevano ai bisogni dei lo­ro contemporanei. Tuttavia ciascuno di essi è stato plasmato nelle profondità del suo essere, nel suo cuore e talora nella sua carne, come Francesco d’Assisi, dalla conformità a Cristo che ha ricercato appassionatamente. L’esempio dei santi mostra con la massima evidenza quale sia la fecondità spirituale dell’imitazione di Cristo, quali siano le sue componenti e come essa possa sorprendentemente associare l’imitazione all’invenzione, la fedeltà alla creatività, la perfezione alla dimenticanza di se nella dedizione al bene di molti.

La considerazione dei santi riconosciuti non ci deve però far dimenticare la santità nasco­sta c senza aureola che si realizza, in mezzo alle imperfezioni e alle riprese, nella vita della maggior parte dei cristiani sotto l’impulso discreto dello Spirito Santo. È qui che si prepara­no, al riparo dagli sguardi, le messi future nel campo del Signore.

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La conformità a Cristo

6. Limitazione e la Croce

6.1 Imitazione e obbedienza d’amore

Il carattere più importante e più sorprendente dell’imitazione evangelica ci è rivelato dalla lettera ai Filippesi. Invitandoci a condividere i sentimenti che furono in Cristo Gesù, san Pao­lo sceglie per qualificare la sua persona e la sua opera un unico tratto: l’umiltà obbediente fi­no alla Croce. Questa è proprio la differenza essenziale tra il nuovo Adamo e il vecchio: que­st’ultimo, non essendo che un uomo, rifiutò di obbedire a Dio perché voleva diventare come Dio e imitarlo nella sua potenza e nella sua grandezza; Cristo, che era Figlio di Dio, manifestò la sua identità mediante la sua obbedienza alla volontà del Padre fino alla morte, dimostran­do che l’imitazione di Dio si compie nel farsi piccoli e nell’umiltà dell’amore. Questa è la por­ta stretta dell’obbedienza che dà accesso all’imitazione di Cristo.

L’inno ai Filippesi manifesta anche quanto il mistero della Croce sia centrale, poiché l'imi­tazione non inizia veramente se non a partire dalla sua accettazione, come una conformazione a Cristo sofferente. La Croce è l’oggetto principale dell’imitazione dei discepoli, la condizio­ne della partecipazione alla gloria di Gesù. È quanto ci insegnano numerosi passi delle lettere che propongono l’esempio di Cristo sofferente come modello nelle situazioni molto concrete. Pietro consiglia ai domestici di obbedire anche ai padroni difficili. Infatti, «se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme...» (lP t 2,18-22; anche 3,17-18). Nell’invitare i Corinzi a partecipare generosamente alla colletta per i fratelli di Gerusalemme, Paolo scriverà loro: «Conoscete infatti la grazia del Si­gnore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). L’esempio di Cristo sarà anche invocato a so­stegno del perdono fraterno: «Siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonan­dovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi» (Ef 4,32ss.; Col 3,13). Nell’invitare i forti ad aiutare i più deboli, Paolo dirà loro: «Ciascuno di noi cerchi di compiacere il prossimo nel bene, per edificarlo. Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma come sta scritto: Gli insulti di coloro che ti insultano so­no caduti sopra di me» (Rm 15,2-3).

Ci troviamo qui agli antipodi di un atteggiamento di sufficienza, orgoglioso o pieno di ri­vendicazioni davanti a Dio. L’obbedienza e l’umiltà sono, nella loro pratica, i segni inconte­stabili dell’amore autentico e il banco di prova dell’imitazione di Cristo. Su questo fonda­mento, lo Spirito Santo può edificare l’opera della nostra conformità al Padre. San Paolo ci indica diverse caratteristiche che la carità comunica a questa obbedienza: essa è gioiosa e tranquilla; è paziente, servizievole e dolce; è piena di docilità a Cristo e allo Spirito (cfr. Fil 2,1-4; Gal 5,22-23).

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La vita spirituale del cristiano

6.2 Le ricchezze del tema cristiano dell’imitazione

Come vediamo, l’esperienza cristiana ha largamente arricchito il tema dell’imitazione. Im­perniata dalla fede sulla persona di Cristo, l’imitazione raggiunge innanzi tutto una dimensio­ne ecclesiale e diventa un principio di interazione tra i membri della Chiesa, che si incitano reciprocamente alla conformità a Cristo mediante l’esercizio stesso dei ministeri e dei carismi ricevuti dallo Spirito Santo. I pastori devono soprattutto diventare i modelli del gregge a loro affidato (lPt 5,3). Prolungato verso la sua fonte, il tema manifesta le sue radici trinitarie: l’imitazione di Cristo ci conduce all’imitazione del Padre che Gesù ci rivela nella sua condi­zione di Figlio unico; essa è principalmente l’opera dello Spirito che ci plasma a immagine di Gesù. L’imitazione ha evidentemente una dimensione morale, costituita da una associazione unica tra la grazia e la libertà aU’intemo della carità: più l’uomo si abbandona alla grazia, più aumenta in lui la libertà interiore e più egli diventa se stesso. Più fedelmente imita Gesù Cri­sto e più diventa nella sua persona e nella sua condotta un esempio per altri. Infine il tema dell’imitazione assume nel cristianesimo una dimensione corporale e cosmica originale a cau­sa dell'Incarnazione del Figlio di Dio. La lotta tra la carne e lo Spirito descritta così vigorosa­mente da san Paolo non conduce a un dualismo che li dissocierebbe; essa porta piuttosto a una corrispondenza tale che lo Spirito compie la sua opera e porta i suoi frutti nel corpo stes­so e con lui (la pace, la gioia, la dolcezza). Formato dallo Spirito (la padronanza di sé, la so­brietà, la castità), il corpo può diventare un segno tangibile tale da fornire Ì simboli che espri­mono le realtà spirituali e da riflettere, a suo modo, i tratti del volto di Cristo. La liturgia pre­suppone questa base che si potrebbe chiamare un’imitazione corporale. 11 suo linguaggio uti­lizza direttamente la simbologia del corpo, estendendola al mondo fisico: l’acqua e il fuoco, la terra e il cielo, il grano, la vite, le piante fino al grano di senape, il pane e il vino specialmente, divengono dei segni fecondi. Questa è l’opera dello Spirito che rinnova la creazione con l’aiu­to dell’uomo grazie a un’imitazione libera e varia che garantisce, da un essere all’altro, la tra­smissione della luce spirituale. Così possiamo dire che Dio è la nostra roccia, che Cristo è la pietra angolare, che noi siamo delle pietre viventi per l’edificazione del Tempio in cui si cele­bra il culto spirituale (cfr. lP t 2,4-6). Non si tratta di semplici immagini poetiche: esse sono fondate sul realismo dello Spirito che fa di ogni essere un certo segno di Cristo e della sua opera, un richiamo all’imitazione viva e creativa.

7. Limitazione di Cristo nei Padri apostolici

Accenniamo per concludere allo sviluppo del tenia dell’imitazione di Cristo nei Padri apostolici. Esso serve a definire, in un certo senso, il discepolo di Cristo, in relazione al marti* rio quale compimento più perfetto dell’imitazione. Così scrive Ignazio di Antiochia agli Efesi­ni: «Ho accolto in Dio il nome dilettissimo (epbesis, in greco, richiama l’idea di desiderio) che voi possedete in grazia dell’indole virtuosa, della fede e della carità in Gesù Cristo nostro Sal­vatore: facendovi ‘imitatori di Dio’ (Ef 5,1), dopo esservi riaccesi di fervore nel sangue di

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La conformità a Cristo

Dio, avete perfettamente compiuto un’opera conforme alia vostra natura» (i, 1). Ai Filadelfi: «Fu lo Spirito che ne diede Pannunzio, così dicendo: Amate la concordia, fuggite i dissidi,fatevi imitatori di Gesù Cristo come egli lo fu del Padre suo’» (vii, 2). Nel racconto del marti­rio di Policarpo, il tema dell’imitazione ritorna a più riprese: «Come avvenne per il Signore, così anche Policarpo attese il momento di essere tradito, volendo con questo mezzo ammo­nirci di seguirne l’esempio e aver di mira non solo il nostro particolare interesse, bensì anche quello del prossimo» (i, 2). «Noi veneriamo lui [Cristo], perché è il Figlio di Dio, e amiamo i martiri come i discepoli e gli imitatori del Signore» (xvii, 3). «[Policarpo] fu non soltanto un insigne maestro, ma anche un martire di non comune valore, e tutti ardono dal desiderio di imitare il suo martirio, per la somiglianza che esso ha con quello di Cristo narrato dal Vange­lo» (xix, l)8.

Quando l’ideale della santità subentrerà alla spiritualità del martirio, dopo il iv secolo, ne erediterà la rappresentazione dei santi come veri imitatori di Cristo che riflettono l’immagine del loro Maestro nella Chiesa a testimonianza del Vangelo e come richiamo a tutti. È ciò che esprimerà sant’Agostino in un’omelia su san Giovanni: «‘Se qualcuno mi serve, mi segua’. Che significa ‘mi segua’ se non: mi imiti? Infatti ‘Cristo—dice l’apostolo Pietro—ha sofferto per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme’... Per quale frutto, per quale ri­compensa, per quale vantaggio? ‘E là dove io sono, egli dice, sarà anche il mio servitore’. Che egli sia amato gratuitamente e che il salario dell’opera che è il suo servizio sia di essere con lui» (In Io. Evang. tr. 51, 11-12),

Indicazioni bibliografiche

E. Cothenet et al., art. «Imitation du Christ», in DSp, xiv, 1971, coll. 1536-1601.L. Di Pinto, «Seguire Gesù» secondo i Vangeli sinotticiy in AA.VV., Fondamenti biblici della

teologia morale, Brescia 1973, pp. 187-251,L.B. Gillon, Cristo e la teologia morale, Roma 1961.P. Lamarche, art. «Image et ressemblance», in DSp, vn/2, 1971, coll. 1401-1406.D. Mongillo, art. «Suivre le Christ», in DVSp, Paris 1983 (cfr. art. «Sequela», in Nuovo Dizio­

nario di Spiritualità, cit., pp. 1431-1443).C. Noce, Il martirio. Testimonianza e spiritualità dei primi secoli, Roma 1987.P. Régamey, Portrait spirituel du chrétien, Paris 1988.R. Schnakenburg, Le message moral du Nouveau Test ameni, Lyon 1963 (tr. it. Il messaggio mo­

rale del Nuovo Testamento, Brescia 1989-1990).A. Schulz, Suivre et imiter le Christ, Paris 1966 (tr. it. Discepoli del Signore, Torino 1968).

8 Traduzione di U. Moricca, Roma 1922; cfr. anche la traduzione di T. Camclot, in SCh 10.

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Capitolo quintoLA LEGGE NUOVA O LA GRAZIA

DELLO SPIRITO SANTO

La vita cristiana è ricca e complessa. Essa è interiore e spirituale, ma per viverla abbiamo bisogno di realtà tangibili, come di scritti per istruirci, di regole per dirigerci, di istituzioni per sostenerci e organizzarci nella comunità ecclesiale. Così una formula semplice, che riunisca e ordini le molteplici componenti della vita spirituale, ci è necessaria per mettervi chiarezza c or­dine. Come occorre conoscere il proprio corpo per praticare utilmente la ginnastica, così è op­portuno valutare correttamente le forze e i mezzi di cui disponiamo per sostenere il combatti­mento spirituale, paragonabile secondo san Paolo a una corsa o al pugilato (ICor 9,26).

L La « formula» della Legge nuova

La definizione della Legge nuova elaborata da san Tommaso nella Summa Theologiae ci offre un’eccellente formula. Essa si impone come l’espressione teologica del potente rinnova­mento evangelico che fece sorgere il secolo di san Domenico e di san Francesco; può essere anche applicata alla nostra epoca, perché, concentrandosi sull’essenziale, questa definizione caratterizza l’evangelismo di tutti i tempi.

Membro di un Ordine che si era appena dato delle costituzioni considerate come un capo­lavoro legislativo, Tommaso ha avuto l’audacia di definire la Legge evangelica, contro l’opinione corrente, come una legge non testuale nella sua essenza, come una legge intcriore che egli iden­tifica con la regolazione mediante lo Spirito Santo. Tuttavia, a differenza degli spirituali france­scani tentati dalla rottura con le istituzioni esistenti in nome dello spirito profetico, Tommaso ha la saggezza di mantenere saldamente i legami di questa legge dello Spirito con gli clementi visi­bili, nella Scrittura e nella Chiesa, che le sono necessari per raggiungere e guidare i credenti.

Va fatta qui un’annotazione per evitare alcuni equivoci. Il termine «legge» ha assunto nel­le nostre lingue un senso rigido. Esso designa solitamente un testo giuridico che esprime la volontà del legislatore con una forma imperativa che rafforza la minaccia di sanzioni. Il gen-

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darme è l’agente visibile della legge. Noi dobbiamo ritornare a un’accezione più profonda e dinamica della legge se vogliamo poterla applicare alla vita. Sotto tutte le sue forme, la vita si sviluppa seguendo certe leggi interne che non sono delle costrizioni, ma piuttosto delle linee di tendenza dirette verso la crescita. Si può così paragonare questo genere di legge alla colon­na vertebrale che sostiene, con saldezza e flessibilità, i movimenti del corpo. Così la Legge evangelica sarà la regola interiore della vita spirituale.

Non abbiamo nemmeno a che fare qui con una legge determinante, da cui si potrebbe trarre una tecnica di applicazione allo stesso modo delle leggi fisiche. La Legge nuova espri­me l’organizzazione della vita dello spirito in noi, che impegna la mente e il cuore, in un’azio­ne che procede dalla nostra libera volontà e si ordina nella rettitudine dell’amore. Così si oserà chiamarla una «legge di libertà», poiché ha come effetto di sviluppare la nostra libertà. Dobbiamo dunque rendere più elastico il nostro vocabolario a contatto dell’esperienza spiri­tuale, se vogliamo comprendere l’opera dello Spirito in noi e nella Chiesa.

Ecco dunque la «formula» della Legge nuova o Legge evangelica, che commenteremo poi in questo saggio sulla vita spirituale. San Tommaso la espone nel primo articolo delle questio­ni 106 e 108 della Prima Securtdae.

La Legge nuova comporta due livelli:a) l'elemento principale, nel quale sta tutta la sua forza, è la grazia dello Spirito Santoricevuta dalla fede in Cristo, operante attraverso la carità.Questo è il cuore o l’anima della Legge nuova. È il principio interiore di vita.b) Gli elementi secondari sono:— il testo del Vangelo concentrato nel Discorso di Gesù sulla montagna che insegna co­me usare della grazia dello Spirito Santo;— i sacramenti, con la liturgia, che comunicano questa grazia;— noi aggiungeremo le istituzioni e il diritto che organizzano e sostengono, sul piano ec­clesiale, l'azione suscitata dalla grazia dello Spirito.

2 . Le fonti della Legge nuova

2.1 Le fonti scritturistiche

Segnaliamo innanzi tutto le fonti scritturistiche che ispirano la nostra definizione. Esse an­nunciano un’Alleanza nuova, dopo il fallimento dell’antica. È il testo di Geremia che può esse­re considerato come la vetta spirituale di questo libro profetico; esso è ripreso e confermato dalla lettera agli Ebrei (8,8-10): «Ecco vengono giorni, dice il Signore, quando io stipulerò con la casa d ’Israele un’alleanza nuova... porrò le mie leggi nella loro mente e le imprimerò nei loro cuori; sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (31,31-33). Vi si può aggiungere la profe­zia di Ezechiele: «Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati... Vi darò un cuore nuovo,

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metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi...» (36.25-27).

San Paolo nella lettera ai Romani fornisce alcune espressioni decisive per qualificare que­sta legge di tipo nuovo. £gli parla della «legge della fede», della «legge dello Spirito di vita che ci ha liberati in Cristo Gesù».

Meditando questi testi nel suo De Spiritu et li Itera, sant’Agostino spiega: «Come la legge delle opere fu scritta su tavole di pietra, così la legge della fede fu scritta nel cuore dei fedeli». E precisa magnificamente: «Che sono dunque queste leggi divine scritte da Dio stesso nei cuori se non la presenza stessa dello Spirito Santo?».

Tutti questi passi, tra i più belli della Scrittura, convergono verso l’asserzione di Tomma­so: la Legge nuova è una legge interiore, nel senso che è inscritta dallo Spirito Santo nei cuori per mezzo della fede in Cristo. Essa è la grazia stessa dello Spirito Santo che infonde in noi una luce c una vita nuove al ritmo dei suoi impulsi.

2.2 La fonte spirituale della Legge nuova

Abbiamo appena parlato delle fonti testuali della dottrina di san Tommaso; ma non biso­gna ingannarsi: per lui la vera fonte, senza la quale le altre si esaurirebbero, è proprio la gra­zia dello Spirito Santo che «scrive» (la si chiama il «Dito di Dio») sul cuore dei fedeli nell’at­to di fede e ne ispira i movimenti in accordo con i testi della Scrittura, la cui ispirazione pro­viene dallo stesso Spirito.

La legge assume qui un senso per noi sorprendente. Come abbiamo già notato, essa non significa più una costrizione esteriore, come un codice o una diga che arresta il flusso della vi­ta; essa va a porsi aU’intemo del movimento spirituale, alla sua origine, e designa il principio direttivo, la Sapienza motrice che ne ispira e ne regola gli atti. Questa legge consiste nella pre­senza attiva dello Spirito il quale, dato che ormai occupa presso i discepoli il posto di Gesù, come un «altro Paraclito» (Gv 14,16), li rende inclini a mettere in pratica il suo insegnamento per introdurli nella comunione delle persone divine.

Perciò conviene dare un senso particolare alla novità di questa legge. Essa non è solo nuo­va perché ha sostituito la Legge antica, duemila anni fa, il che le avrebbe ampiamente dato il tempo di invecchiare a sua volta. Poiché si identifica con la grazia dello Spirito Santo, la Leg­ge evangelica ha il potere di rinnovare incessantemente le menti e i cuori. Così fu essa all’ori­gine di tutti i rinnovamenti spirituali nella Chiesa. È una legge di rinnovazione continua, che garantisce tra i fedeli la formazione e la crescita dell’«Uomo nuovo» di cui parla san Paolo: «Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni c avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, a immagine del suo Creatore» (Col 3,9-10). In tal modo lo Spirito forma in noi ciò che san Tommaso non esiterà a chiamare un istinto spirituale, del quale si deve dire che è superiormente intelligente e libero, a differenza dell’istinto animale.

La dottrina della Legge nuova ci conduce così a riscoprire, al di là del razionalismo e del volontarismo etico di cui restiamo tributari, la spontaneità dello Spirito, che è insieme intuizio­ne, aspirazione e slancio, come una fonte profonda che sfrutteranno le virtù teologali e i doni.

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2.3 Una fonte segreta

Tuttavia, non dobbiamo nascondercelo, questa fonte spirituale sfugge molto spesso alla no­stra presa. Essa è situata al di là delle nostre idee e dei nostri progetti, anche se li ispira, al di là dei nostri sentimenti e della nostra volontà, benché li animi. Essa appartiene alla categoria di «quelle cose che occhio non vide, né che orecchio udì. né mai entrarono in cuore di uomo» (ICor 2,9), di quelle cose che Dio tuttavia ha preparato per metterle nel cuore dei credenti.

Così, nel definire la Legge nuova come una legge interiore, san Tommaso deve usare un paradosso. Egli infatti ha classificato la legge, in generale, tra i principi esteriori dell’azione umana, a differenza delle virtù, ed ecco che introduce una legge, la più perfetta ai suoi occhi, nell’interiorità dell’uomo, come una regola e una causa d ’azione spontanea. Da una parte l’esteriorità è la più grande, perché la legge dello Spirito è superiore a ogni intelligenza creata, e dall’altra l’interiorità è la più intima, come in una comunione d’amore. Tommaso raggiun-’ geva così a suo modo l’esperienza di Agostino che diceva a Dio: «Tu cri più intimo a me di me stesso e superiore a ciò che c’è in me di più alto» («intimius intimo meo et superius sum- mo meo», Conf. in, 6, 11).

Notiamo inoltre che la distanza tra la Legge dello Spirito, nella sua origine, e noi che la ri­ceviamo, non è uno spazio sereno. È lì che è piantata infatti la Croce di Cristo ed è lì che do­vrà morire l’uomo vecchio perché possa nascere l’uomo spirituale generato dalla fede e dal battesimo. Ecco la terra in cui il grano dello Spirito deve affondare per farci morire e rivivere secondo la sua Legge.

2.4 Una legge interiore

La penetrazione della Legge nuova in noi è descritta da Geremia come una «scrittura sul cuore», ciò che Tommaso traduce quando parla di una legge indita, messa in noi come si ispi­ra un sentimento a qualcuno, la paura, la gioia. L’immagine della Scrittura è ricca. Il «cuore» designa la pane più intima dell’uomo a cui solo Dio può accedere. Lo si distingue da ciò che si vede. Il cuore è la sede dell’intelligenza e dell’amore, in esso si formano pensieri e senti­menti, parole e azioni. Esso è il centro profondo della vita religiosa e morale; perciò è nel cuore che l’uomo riceve mediante la fede il dono dello Spirito.

Rievocando la Legge di Mosè scritta su tavole di pietra, la parola di Geremia ci presenta la Legge nuova come un’opera della Sapienza divina che educa l’uomo allo stesso modo di un padre che ammaestra e istruisce il figlio, non solo con parole che si inscrivono nella sua me­moria—e ciò può significare il segno nella pietra—ma con l’impulso dell’amore che muove il cuore. La Legge nuova conduce così alla sua perfezione l’opera dell’educazione divina me­diante una comunicazione della sapienza che appartiene al Verbo di Dio e mediante un dono dell’amore che dipende esclusivamente dallo Spirito. Da quel momento colui che ha ricevuto la Legge nuova può, consultando il proprio cuore, conoscere la volontà di Dio: «Non dovran­no più istruirsi gli uni gli altri... perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande» (Ger 31,34). Grazie a questa Legge, lo Spirito diventa veramente il «Maestro interiore».

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). L’opera dello Spirito Santo e i suoi segni

Si è accusata la teologia cattolica post-tridentina di non assegnare allo Spirito Santo il po­sto che gli spettava nella vita cristiana. 11 rimprovero era fondato nella misura in cui le classifi­cazioni dell’epoca hanno troppo separato la vita morale dalla vita spirituale e accantonato l’intervento dello Spinto Santo nella mistica.

La nostra definizione della Legge nuova ci aiuta a ristabilire l’equilibrio. L’azione dello Spirito Santo è tanto estesa quanto il dono della grazia e la predicazione del Vangelo. Essa si esercita in tutti i fedeli e copre l’intero campo della vita morale, alla quale essa restituisce una dimensione e una finalità spirituali. Inoltre ci permette di precisare come l’azione dello Spiri­to Santo si eserciti a partire dal dono della grazia per mezzo delle virtù fino al livello dell’agi- re concreto.

3.1 Lo Spirito di Gesù

La menzione dello Spirito Santo nella nostra definizione richiama tutto quello che ci inse­gna il Nuovo Testamento sulla sua missione, presso Cristo prima di tutto, dall’Annunciazione fino alla Risurrezione; poi presso la Chiesa, a partire dalla Pentecoste, nella sua formazione e nella sua crescita grazie ai ministeri e ai carismi; infine presso ogni fedele, nell’opera della santificazione che porta a compimento quella della giustificazione nella fede operante per mezzo della carità.

Incontestabilmente la vita cristiana è, per riprendere i termini di san Paolo, nello stesso tempo una «vita in Cristo» e una «vita secondo lo Spirito». Queste espressioni si richiamano l’una all’altra, per designare l’azione dello Spirito promesso e inviato da Gesù agli apostoli per ricordare loro tutte le sue parole e realizzare con loro l’opera della salvezza di cui aveva gettato le basi1.

Non si può dunque assolutamente separare lo Spirito Santo dalla persona di Gesù. La sua missione è proprio quella di farci vivere in Cristo. Tuttavia, all’interno della Trinità e nell’ani­ma dei fedeli, lo Spirito ha la sua personalità e la sua funzione propria. Si potrebbe così com­pilare la sua carta d ’identità: è lo Spirito del Padre, e questa è la sua origine; è lo Spirito di Gesù Cristo, c ciò costituisce la sua nazionalità cristiana; è lo Spirito della Chiesa, e questo è il domicilio che si è costruito e dove gli piace abitare.

Questi tratti ci forniscono i criteri essenziali per operare il discernimento indispensabile ed evitare di confondere lo Spirito Santo con qualsiasi soffio che agiti gli uomini, con qualsia­si idea o sentimento che scuota e provochi l’opinione.

1 Per i rapporti tra Cristo e lo Spirito Santo, cfr. F. Prat, La Théologie de saint Paul, t. il, Paris 1949, pp. 352-355; 479-480 (tr. it. cit.). Allo stesso modo L. Cerfaux, Le Christ dans la théologie de saint Paul, Paris 1951, II, cap. 4: «Le Christ selon l’Esprit».

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3.2 La fede in Cristo

San Giovanni ci indica il primo criterio e la principale linea di tendenza dell’azione del­lo Spirito Santo: «Carissimi, non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni... Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio» (lGv 4,1-2). L’identità è precisa e sicura: è lo Spirito che fa nascere in noi, oggi come al tempo degli apostoli, la fede in Gesù, come Figlio di Dio, nato dalla Vergine Maria, che ha sofferto nel suo corpo ed è risuscitato sotto Ponzio Pilato. Notiamo qui il legame tra lo Spirito e la carne di Gesù, che si oppone ad ogni mito- logizzazione gnostica c indica nello stesso tempo la penetrazione della grazia fin nel nostro corpo. San Paolo ci conferma su questo punto: «Nessuno può dire: ‘Gesù è Signore’ se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (lCor 12,3). Questo è dunque il primo compito dello Spirito: rivelarci, portarci la testimonianza interiore che Gesù è il Figlio di Dio, che egli è il nostro Signore.

Esiste dunque un legame essenziale tra l’azione dello Spirito Santo e la fede nel Cristo dei Vangeli e così come la esprime il Credo cristiano. Così san Tommaso fa giustamente entrare la fede in Gesù nella definizione della Legge nuova. Il legame non è solamente dogmatico, ma è anche spirituale e vitale. Lo Spirito pianta in noi la fede come la radice da cui proviene la lin­fa della grazia e ci innesta come rami nuova sull’olivo buono che è Gesù Cristo (Rm 11,24). Mediante l’impulso della fede, esso volge gli sguardi del nostro cuore verso il mistero di Gesù e fissa in Lui l’amore che ispirerà la nostra vita.

Concretamente lo Spirito ci insegni l’umiltà semplice e l’obbedienza amorosa della fede, a imitazione di Cristo umile e obbediente alla volontà del Padre. Solo lo Spirito può insegnar­ci come accettare la sofferenza, subire la prova e portare la nostra croce nella speranza sulle orme del Signore. Inoltre ci rende docili davanti alla Scrittura, ci rende inclini a lasciarci giu­dicare da essa, anche quando ci accusa, piuttosto che giudicarla dall’alto della nostra piccola scienza o adattarla alle nostre idee e ai nostri gusti.

3.3 La preghiera al Padre

Il secondo segno è la rivelazione del Padre, specialmente nella preghiera: «Avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: ‘Abbà, Padre!’ [come Gesù al Get­semani]. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, sia­mo anche eredi [dei doni dello Spirito]...» (Rm 8,15-17). «Lo Spirito stesso intercede con in­sistenza per noi, con gemiti inesprimibili...» (8,26).

Senza dubbio non si può recitare convenientemente il Padre Nostro senza la grazia dello Spirito Santo, che ci fa sperimentare quanto questa preghiera ci elevi al di sopra delle parole e dei sentimenti: essa esprime la nostra condizione spirituale di figli di Dio e ce ne fa prende­re coscienza. Per impulso dello Spirito che prega in noi, il Padre Nostro ci unisce alla pre­ghiera stessa di Gesù davanti al Padre e lo rende presente in mezzo a coloro che si riuniscono nel suo Nome (cfr. Mt 18,20). Ecco perché la Chiesa nelle sue orazioni prega il Padre per

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mezzo di Cristo nello Spirito. Questo movimento della preghiera cristiana rivela l’intento di fondo che orienta l’intera vita spirituale.

Concretamente lo Spirito forma in noi il desiderio e il gusto della preghiera; esso ci spinge ad assegnarle la priorità nelle nostre occupazioni e ci rende inclini a «pregare incessantemente».

3.4 L’edificazione della Chiesa

Lo Spirito Santo si rivela anche—ed è un terzo segno—nella sua opera principale, cioè nell’edificazione della Chiesa in quanto Corpo di Cristo, così come ci è descritta da san Paolo con i suoi diversi ministeri e carismi uniti nella carità, e così come si svilupperà in seguito, nel corso dei secoli, su queste basi. La Chiesa è l’opera prediletta dello Spirito Santo; è la fidan­zata che esso prepara pazientemente all’incontro con lo Sposo, Cristo, conformandola a lui, nei suoi sentimenti e comportamenti.

L’azione dello Spirito Santo si riconosce dunque perché si situa all’intemo della Chiesa e si esercita sempre a vantaggio della Chiesa, in vista della sua crescita. Lo zelo costruttivo e di­sinteressato per la Chiesa è il segno dell’autentico profetismo.

Concretamente lo Spirito Santo fa nascere in noi l'amore della Chiesa e ci incita ad assu­mercene i servizi e i ministeri, a esempio di Cristo che si è fatto servo di tutti. A coloro che sono investiti di un’autorità, lo Spirito insegna a «pascere il gregge di Dio... volentieri..., di buon animo..., diventando modelli del gregge» (lPt 5,1-3). Ai fedeli esso inculca un’uguale obbedienza, pronta e generosa, benevola nell’interpretazione e intelligente nell’esecuzione, senza fermarsi agli errori e alle debolezze umane che ci sono comuni.

Conviene notare qui quelli che si possono definire i due poli dell’azione dello Spirito: essa è nello stesso tempo estremamente personale e tutta ecclesiale. È personale per la fede che ci lega alla persona di Gesù e ci spinge a pregare il Padre nel segreto. Si può anche dire che lo Spirito ci «personalizza», poiché ci insegna mediante l’esperienza interiore che più aderiamo a Cristo fino alla dimenticanza di noi stessi, a suo esempio, e meglio si sviluppa l’io profondo che forma in noi l’amore. La comunione con il Padre nella preghiera, con 0 Figlio nell’Euca­ristia, con lo Spirito nella vita, approfondisce in noi la coscienza del nostro carattere e della nostra dignità di «persona».

Ora, è proprio in questo «segreto», dove non può penetrare lo sguardo altrui, al di là del­le relazioni e degli affetti umani, che si creano intorno a Cristo, sulla base della carità, i legami di fraternità che ci fanno diventare cellule della Chiesa, membra attive del Corpo di Cristo, che partecipano della «comunione dei santi».

3.5 Lo Spirito di pace

Si può dunque certamente considerare come criterio di discernimento la lista dei frutti del­lo Spirito fornita dalla lettera ai Calati (cap. 5): la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la bene­volenza, la bontà, la fiducia negli altri, la dolcezza, il dominio di sé, e vi si può aggiungere, sul­la base di alcuni manoscritti, la castità che è, di fatto, un’opera specifica dello Spirito. Dispo-

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nendosi intorno alla carità, queste qualità si tengono per mano e si confortano a vicenda.Noi metteremo in risalto specialmente la pace che la tradizione dei Padri del deserto ha

raccomandato come un criterio sicuro per il discernimento degli spiriti. L’azione dello Spirito Santo, per quanto sia sconvolgente con le sue esigenze, mette la pace nel cuore di colui che vi corrisponde. L’azione del demonio, al contrario, anche se si copre di parole di pace, si produ­ce solitamente nell’agitazione, nel rumore, e genera il turbamento nell’anima. È ciò che dimo­stra chiaramente la lista dei peccati che produce la carne, secondo lo stesso passo dei Galati: impurità, odio, discordia, gelosia, invidia...

È necessario precisare che la pace prodotta dallo Spirito Santo non ha nulla di ozioso? Essa è la ricompensa per coloro che hanno combattuto coraggiosamente la battaglia spiritua­le e «crocifìsso la carne con i suoi desideri». Essa è destinata anche a coloro che avranno reso testimonianza a Cristo nelle prove della vita e vi avranno trovato la gioia promessa dalle bea­titudini. Questa gioia è, anch’essa, un segno della presenza dello Spirito, in contrasto con la tristezza dell’anima e la noia in cui ci lasciano i falsi profeti.

4. La grazia dello Spirito Santo. Il dono spirituale

La grazia designa il dono di Dio nella sua generosità e nella sua gratuità (cfr. 2Cor 8,9: «Conoscete infatti la ‘grazia’ del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto pove­ro per voi...»). È importante sottolineare il fatto che la teologia cristiana abbia attribuito allo Spirito Santo il vocabolo di «Dono», perché esso è l’Amore all’intemo della Trinità (l, q. 38). Questo è il nome proprio dello Spirito Santo: esso è il Dono di Dio per eccellenza, il Dono del Padre inviato mediante il Figlio; esso è perciò il dispensatore dei doni, di tutte le grazie. Occorre dunque attribuire a lui particolarmente la Legge nuova che è su questa terra il dono più perfetto nel suo ambito.

4.1 La grazia e la misericordia

11 termine «grazia» è ricco di significati. Noi l’abbiamo forse troppo concettualizzato e materializzato. La grazia ci riporta all’esperienza evangelica primitiva: l’incontro del peccato­re con il perdono di Dio offerto da Gesù nella conversione—la metanoia—che capovolge, guarisce e purifica il cuore (Mt 4,17). Per designare la fonte di questa grazia, dobbiamo rida­re la sua forza e la sua ricchezza all’antico termine cristiano di «misericordia», troppo facil­mente abbandonato dai traduttori della Bibbia. Esso esprime un amore che arriva fin nelle vi­scere come la tenerezza di una madre, che vincola il cuore come l’affetto di un padre o di un fratello. Se vi si aggiunge l’idea della fedeltà che implicano anche questi rapporti familiari, es­so traduce nel miglior modo il termine ebraico besed che significa l’amore di Dio per il suo popolo, che rimane fedele fin nella sua miseria e nel suo peccato. La grazia è il dono stesso di questa misericordia.

È dunque nell’esperienza della conversione a Dio—la quale si prolunga per tutta la vita

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mediante la coscienza e la confessione umile e fiduciosa del peccato—che possiamo meglio intuire ciò che significhi misericordia c comprendere quanto la grazia sia una grazia, un dono di pura e dolce benevolenza che ci trasforma e d libera. È là che dobbiamo ritornare per eli­minare l’ostacolo che spesso ci blocca nella questione della grazia, l’idea acquisita di una mo­rale troppo giurìdica secondo la quale esiste, tra la libertà e la grazia, un rapporto di forze mi­surabile col calcolo dei peccati e dei meriti sulla bilancia della giustizia legale. Ora, nel Vange­lo la grazia si manifesta nel modo più evidente proprio mediante la sua libertà nei confronti di una simile contabilità, mettendosi volutamente dalla parte dei «peccatori» piuttosto che dei «giusti» o dei «meritevoli» agli occhi degli uomini.

4.2 La grazia e il tema del matrimonio spirituale

Per chiarire ciò che contiene l’esperienza della misericordia di Dio e meglio discernere ciò che è la grazia dello Spirito, conviene ricorrere ai due temi dell’amore coniugale e dell’amici­zia che la Scrittura utilizza e che saranno sfruttati dalla teologia e dalla mistica.

L’amore è sempre situato dalla Scrittura nel quadro dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo, paragonata dai profeti a un fidanzamento, poi a un matrimonio. «Ti fidanzerò a me per sem­pre, ti fidanzerò nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò a me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2,21-22). «Come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (Is 62,5).

Questo tema sarà ripreso da san Paolo e applicato, nella sua meditazione sul matrimonio cristiano, all’unione tra Cristo e la Chiesa (Ef 5,32). Lo ritroviamo nell’Apocalisse dove la Ge­rusalemme celeste discende dal cielo «pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,2). Questo libro termina del resto con l’invito: «Lo Spirito e la sposa dicono: ‘Vieni!’. E chi ascolta ripeta: ‘Vieni!’ [È il Maranà tba dei primi cristiani rivolto al Cristo-sposo]. Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita» (22,17).

I mistici cristiani applicheranno più tardi il tema del matrimonio alle relazioni dell’anima con Dio e se ne serviranno per descrivere le tappe della loro esperienza. Il Cantico dei Canti­ci sarà per loro il libretto di questo amore.

4.2.1 L’immagine dell’amore coniugale

Effettivamente l’amore coniugale, così come viene assunto dalla Parola di Dio, ci offre una base ancor più concreta per chiarire le nostre relazioni con la grazia in quanto la carità è il do­no principale dello Spirito Santo. Tra gli sposi esistono, certo, dei legami giuridici, dei diritti e dei doveri fìssati in un contratto che regola la loro unione. Ma questi dati legali sono al servizio dell’amore che li unisce; è da questo amore che ricevono il loro senso profondo e il loro vero valore. È grazie all’amore che il matrimonio, così come il fidanzamento, si apre al significato spirituale che gli assegna la Scrittura per esprimere i rapporti tra Dio e il suo popolo, tra l’ani­ma e Dio, già prefigurati nella creazione dell’uomo e della donna a immagine di Dio.

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Ora, la legge caratteristica di questo amore non sta in ciò che è dovuto legalmente, ma nel dono gratuito in cui la persona si offre spontaneamente, liberamente, gioiosamente. SÌ può dire che gli sposi si fanno reciprocamente delle grazie. In questo senso, la grazia designa ciò che vi è di più proprio agli scambi d’amore, già tra i fidanzati e gli sposi, e ancor più tra Dio e l’anima.

4.2 .21 significati della grazia

In questo quadro la grazia assume d ’altronde diverse accezioni. Essa non perde il suo pri­mo significato di «fare grazia», poiché la sposa deve essere purificata da ogni lordura per ap­parire davanti al suo Sposo. Così Cristo ha dato se stesso per la Chiesa «per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola» (Ef 5,26). Ma la grazia designa anche la bellezza della sposa che suscita l’amore: Cristo vuole «farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (5,27). Questa bellezza implica la grazia nei gesti e nel contegno, nelle parole e nel comportamento, nei movimenti dell’anima soprattutto.

Ora, tutti questi significati hanno la loro radice nell’iniziativa libera e gratuita della vo­lontà che ama, in Dio prima di tutto, poi in noi che le rispondiamo. La bellezza più graziosa non è forse quella del cuore? Non è forse essa che meglio risplende nei tratti e nelle azioni? La grazia designa in noi l’opera di Dio più amabile, che san Tommaso, sulla scia di sant'Ago­stino, afferma essere più grande della creazione del cielo e della terra (i-U, q. 113, a. 9): da peccatori che eravamo, la grazia filiale ci conferisce una somiglianza attiva con Dio e la capa­cità di diventare belli ed amabili ai suoi occhi, a imitazione di suo luglio, mediante la contem­plazione della sua Bellezza e la docile accoglienza del suo Amore. La grazia rende così la no­stra anima realmente fidanzata, sposa, e ci concede la libertà di parlare a Dio nella preghiera con la confidenza che procurano i legami dell’affetto, come se Dio trovasse il suo massimo piacere nel vederci esercitare la nostra libertà nei suoi confronti e usare i diritti che egli stesso ci ha accordato nella sua misericordia.

4.3 La grazia e il tema dell’amicizia

4.3.1 L!amicizia di Cristo secondo san Tommaso d ’Aquino

Per rendere conto della natura e dei movimenti della grazia, ci si può servire anche del te­ma dell’amicizia, che san Tommaso ha presentato nella sua analisi della passione d ’amore (i-u, qq. 26-28) e nella sua definizione della carità (im i , q. 23). Si fonda, per farlo, sul discorso do­po l’ultima Cena, riportato da san Giovanni al capitolo 15, dove Gesù si serve del paragone della vite per mostrare ai suoi discepoli come «rimanere nel suo amore» e dove così conclude: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,13-15).

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San Tommaso utilizza anche il termine «comunione» (koinonia), così ricco nel linguaggio della Chiesa primitiva2, per qualificare la comunione amicale che stabilisce la carità e che la fonda come amicizia. Egli cita a questo proposito il preambolo alla prima lettera ai Corinzi: «Fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo, Si­gnore nostro» (1,9). Si potrebbe aggiungervi l'augurio finale della seconda lettera, ripreso dalla liturgia, che corrisponde perfettamente al nostro tema: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (13,13).

Infine nel cuore del trattato sulla Legge nuova, a proposito dei consigli che essa contiene, san Tommaso ci presenta Cristo come l’Amico per eccellenza. «I consigli di un amico sapien­te offrono grandi vantaggi, secondo le parole della Scrittura: ‘D’unguento e di rari profumi si rallegra il cuore, e dai buoni consigli dell’amico l’anima si sente raddolcire’ (Prv 27,9). Ma Cristo è sommamente sapiente e amico. Dunque i suoi consigli portano il massimo vantaggio e sono quanto mai convenienti» (m i, q. 108, a. 4, s.c.).

Questa particolarità della Legge evangelica, di contenere dei consigli, ci mostra che essa possiede una natura diversa dalle leggi giuridiche: essa ci eleva a una condizione nuova ispira­ta dall’amicizia, dove Cristo non si rivolge più a noi con il modo imperativo, come a dei servi­tori, ma con un tono di consiglio facendo appello alla nostra libera iniziativa. Infatti tra amici non bisogna darsi degli ordini, ma aiutarsi a vicenda con consigli ed esortazioni, come nella catechesi apostolica. Per questo la Legge nuova merita di essere chiamata una «legge di li­bertà» e, potremmo dire, una legge di grazia amicale.

Se san Tommaso ha così collocato la Legge nuova sotto il segno dell’amicizia, è perché quest’ultima occupava, ai suoi occhi come a quelli degli antichi, un posto di primo piano nel­la morale, in rapporto con le virtù che la fondano. L’amicizia realizza l’armonia nelle relazioni umane; essa è il fine superiore della legge nella società, la realizzazione più compiuta dell’amore. Essa si crea nella reciprocità e nella comunione dei sentimenti e dei rapporti. Pre­suppone o stabilisce l'uguaglianza dinamica delle persone.

Incentrati sulla persona di Cristo, i due temi dell’amicizia e dell’amore coniugale, l’uno più maschile e l’altro più femminile, procedono parallelamente nella teologia e nella spiritua­lità cristiana. Si deve evitare di contrapporli: essi si completano e ci aiutano a spiegare e co­municare le ricchezze della misericordia di Dio manifestata in Cristo, che nessuna opera di spiritualità può adeguatamente esprimere.

4.3.2 La libertà, la reciprocità e l'uguaglianza nell’amicizia con Cristo

Riguardo alla grazia e alla sua opera, il tema dell’amicizia può servire a mostrare la gran­dezza del dono divino: partendo dalla disuguaglianza più grande tra il Creatore e la creatura, tra il peccatore e la santità divina, la carità come amicizia ci unisce a Dio nella libertà, nella reciprocità e nell’uguaglianza di una comunione attiva.

La porta d’entrata dell’amicizia è la libertà: vi si accede di propria spontanea volontà; non

2 Cfr. Bible dejérusalem (bj), lC or 1,9, nota h (ed. it. p. 2452).

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la si mantiene se non mediante il rispetto attento e benevolo della libertà dell’altro. L’amicizia è il luogo di un’esperienza unica in cui si impara come due persone possano compenetrarsi e anche, nello stesso tempo, affermarsi e rafforzarsi l’una con l’altra. Nell’amicizia, forse più chiaramente che nell’amore, si può percepire come si stabilisca la comunicazione tra le li­bertà, in particolare mediante i consigli che sono delle grazie, dei doni di sapienza offerti all’amico per aiutarlo nel suo progresso.

Il legame dell’amicizia si crea nella reciprocità degli scambi a livello dei sentimenti, delle idee, dei desideri e dei beni, nella messa in comune e nella condivisione, sotto il segno della gratuità. Anche qui tuttavia, come per l’opera della grazia, le cose non vanno da sé. L’eserci­zio dell’amicizia esige infatti un’educazione, l’acquisizione di una maturità personale attraver­so il paziente lavoro delle virtù che forniscono la solida base della vera amicizia, poiché solo esse ci insegnano la generosità e formano la reciproca stima necessaria.

La carità assumerà come base primaria l’amicizia con Cristo, fondata mediante la fede sulla roccia della sua Parola confermata dalla testimonianza interiore dello Spirito; essa ope­rerà con l’aiuto delle altre virtù rendendoci spontaneamente docili ai comandamenti e ai con­sigli del Signore, specialmente nell’esercizio della misericordia fraterna. La spiritualità cristia­na è così un’educazione all’amicizia con Cristo sotto la guida dello Spirito Santo.

Infine l'uguaglianza è la legge dell’amicizia. Che l’uomo possa entrare in rapporto d ’ami­cizia con Dio, nonostante rinfìnita distanza che li separa, è la grazia più stupefacente. Essa è propriamente soprannaturale: scaturisce dal mistero dell’Incarnazione e si compie nella Re­denzione. Il suo scopo è di farci partecipare, come figli adottivi, all’intimità e all’uguaglianza che regnano tra Cristo e il Padre suo, di radunarci così all’interno della Chiesa, come fratelli e sorelle, come amici, quale che sia la diversità delle vocazioni, dei ministeri c delle condizioni.

Una tale uguaglianza è spirituale. Essa ha come misura e modello la persona di Cristo. Possiede un dinamismo che le è proprio e che caratterizza i movimenti della grazia. Segue la logica paradossale che il Vangelo esprime a più riprese, come una legge fondamentale: «Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato» (Mt 23,11-12). Ecco una sorprendente uguaglianza: la si acquisisce non ri­vendicandola, ma addirittura abbandonandola; la si esercita mediante l’umiltà e il servizio fraterno a imitazione di Cristo che è venuto «per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,28).

Troviamo già nell’amicizia umana, non dimentichiamolo, un abbozzo di questa legge, poi­ché l’amico trova gusto nel mettersi al servizio dell’amico, e anche del prossimo a causa sua; previene spontaneamente i suoi desideri, i suoi bisogni, meglio di quanto farebbe un servitore. L’uguaglianza in questo caso non è materiale e voluta di per sé innanzi tutto; essa è personale, offerta all’altro e da lui ricevuta nella reciprocità con l’aiuto del mutuo e gratuito servizio.

11 tema dell’amicizia, ricco di numerosi dati d ’esperienza forniti dai trattati classici di Ari­stotele e di Cicerone, tra gli altri, può dunque essere utilizzato dalla teologia e dalla spiritua­lità cristiana. Subirà tuttavia alcune profonde trasformazioni, come il tema dell’amore, con la sua elevazione al livello della vita della grazia e dell’esperienza spirituale. Esso peraltro offre una base naturale allo studio della carità teologale.

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La Legge nuova o la grazia dello Spirito Santo

4.3.3 Amore e amicizia

Il tema dell’amicizia è utile in quanto aiuta ad esprimere in modo più sereno, più misura­to, più completo, senza dubbio, i movimenti e il lavoro della grazia in noi e nella Chiesa; ma il tema dell’aniore possiede maggior calore, maggior senso drammatico e forse maggiore profondità. Il primo è più confacente alla spiritualità contemplativa e alla teologia armoniosa di san Tommaso; il secondo è più adatto a descrivere le lotte contro il peccato, gli ardori, le esigenze e le peripezie di un amore che supera la misura umana, come è quello della Croce di Cristo per impulso dello Spirito.

Misericordia, amore e amicizia: sono tutti e tre temi che si concentrano sulla persona di Cristo nell’esperienza cristiana. Egli è lo Sposo, è l’Amico, è la Fonte della grazia misericor­diosa. Perciò è lui che per mezzo del suo Spirito ci aiuta di più a comprendere che la sua gra­zia e la nostra libertà non sono in conflitto, ma si chiamano a vicenda e si appoggiano l’una sull’altra. La grazia non può fruttificare senza la nostra libertà e questa, senza la grazia, non può che ripiegarsi su se stessa e diventare sterile. Il legame che le congiunge e le unisce è lo Spirito di vita che scrive nel profondo del nostro cuore la Legge nuova.

Indicazioni bibliografiche

J.-M. Aubert, art. «Loi et Évangile», in DSp, ix, coll. 966-984.E. Kaczynski, «Lex spiritus» in san Paolo e la sua interpretazione in san Tommaso, in «Angeli-

cum» 59 (1982), pp. 455-474.U. Kuhn, Via caritatis. Theologie des Gesetzes bei Thomas von Aquin, Gòttingen 1965.S. Pinckaers, Les Sources de la morale chrétienne, Fribourg 19902 (tr. it. Le fon ti della morale

cristiana, Milano 1992).S. Pinckaers-L. Rumpf (a cura di), Loi et Évangile, Genève 1981.P. Régamey, Portrait spirituel du chrétien, Paris 1988.H. Rondet, La grazia di Cristo, Roma 1966.J. Tonneau, La Loi nouvelle, Paris 1981.A. Vaisecchi, Lettera e spirito nella legge nuova: linee di teologia patristica, in «La Scuola Cat­

tolica» 92 (1964), pp. 483-516.Id., art. «Legge nuova», in Nuovo Dizionario di teologia morale, Cinisello Balsamo 1990, pp.

647-657.

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Capitolo sestoL’INTERIORITÀ SPIRITUALE

La dimensione interiore della vita spirituale è un problema molto importante per il nostro tempo. Noi viviamo in un mondo in cui l’uomo è trascinato verso l’esterno con una forza continuamente crescente, dentro un universo che si trasforma per impulso delle scienze e del­le tecniche, nell’afflusso delle notizie che ci giungono da tutta la terra e nel fermento dei pro­blemi economici, sociali e politici che ci sollecitano. Da un altro lato tuttavia si constata in molti una sete sempre maggiore di interiorità sotto il fascino dei valori spirituali. È dunque diventato indispensabile riflettere sulla domanda: come concepire l’interiorità propria della vita spirituale in questo mondo dove siamo chiamati a vivere e ad agire come cristiani? Que­sta ricerca è tanto più necessaria in quanto il vocabolario della vita spirituale è ormai sorpas­sato. Abbiamo bisogno di ristabilire il contatto con la realtà dietro alle parole per restituire ad esse il loro vigore.

1. Linteriorità della Legge nuova

La definizione della Legge evangelica mediante la grazia dello Spirito Santo permette a san Tommaso di conferire a questa legge un’interiorità che la avvicina alla legge naturale, in­scrìtta nel cuore dell’uomo, e che la approfondisce facendoci partecipare all’interìorità stessa della vita divina, in una relazione personale, come lo è credere in Cristo ed entrare nell’amici­zia con Dio per mezzo della carità. Notiamo del resto che, nel linguaggio del Dottore angeli­co, i termini «esteriore» e «interiore» applicati alle relazioni tra l’uomo e Dio, alla legge e alle virtù, sono convergenti e non implicano separazione. L’interiorità è il loro punto d ’incontro e come la loro sorgente nell’uomo: lo Spirito, la grazia, la legge di Dio provengono dall’esterno, da sopra di noi, certo, ma penetrano in noi per diventare i prìncipi di una vita interiore che ha la sua fonte in Dio e ritorna verso di lui.

Questa dottrina si pone direttamente nella linea dell’insegnamento di san Paolo sull’«uo-

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La vita spirituale del cristiano

mo interiore» che si compiace della legge di Dio e si rinnova di giorno in giorno (Rm 7,22; Ef 3,16), a differenza dell’uomo esteriore che si va disfacendo (2Cor 4,16). Essa richiama anche il discorso dopo la Cena in san Giovanni, la promessa: «Se uno mi ama, osserverà la mia pa­rola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui». Quest’opera è attribuita allo Spirito Santo (Gv 14,23-26). L’interiorità della vita con Cristo si esprime poi nell’immagine della vite: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto» (Gv 15,5).

L’esperienza della vita prodotta in noi dalla grazia dello Spirito è stata in seguito esposta in modo considerevole dagli autori cristiani dei primi secoli. È opportuno consultarli.

2. La via dell’interiorità secondo sant'Agostino e nell'epoca moderna

Al tempo dei Padri, rinteriorità si è manifestata nella preghiera e nella vita contemplativa, nella ricerca della sapienza e nell’ascesi monastica. Noi prenderemo come esempio l’esperien­za emblematica di sant’Agostino, il più moderno degli antichi, come è stato detto. La sua de­scrizione della ricerca di Dio rivela magnificamente la ricchezza e l’ampiezza della via dell’in­teriorità.

Agostino ha parlato molte volte del suo itinerario spirituale, nel libro delle Confessiones— soprattutto nel racconto delle due visioni di Milano e di Ostia—, nelle sue grandi opere, co­me il De Trinitate, nei suoi sermoni Un Io. Evang. tr. 20, 12), nella sua corrispondenza (Ep. 147), nel commento al salmo 41, in particolare. Ogni volta egli dipinge la sua esperienza co­me a nuovo, con tratti originali. La linea principale tuttavia si ritrova ovunque; essa comporta tre livelli: la contemplazione del mondo esteriore, il ritorno all’interiorità, il superamento ver­so Dio. L’attrattiva della bellezza: «Nel ricercare la ragione per cui apprezzavo la bellezza dei corpi sia celesti sia terrestri» (Con}\ v i i , 17,23), il desiderio spirituale e l’esperienza dell’amo­re: «Ma che amo, quando amo te?» (Conf. x, 6, 8), sono questi i moventi e gli stimoli della ri­cerca di Dio. All’inizio c’è l’ammirazione davanti alle creature che colpiscono e affascinano i sensi sulla terra e nel cielo: «Ma poiché come il cervo anelo alle fonti delle acque, che cosa farò per trovare il mio Dio? Considererò la terra... La terra è di una bellezza straordinaria; ma ha il suo artefice... Contemplo la grandezza del mare che mi sta intorno, mi stupisco, am­miro; cerco l’autore. Levo gli occhi al cielo e alla bellezza delle stelle... Sono meravigliose queste cose...; tutto questo ammiro, tutto questo lodo, ma ho sete di colui che ne è l’autore» Un Ps. 41, 7). «Interrogai il mare, i suoi abissi e gli esseri viventi, e mi risposero: ‘Non siamo noi il tuo Dio; cerca sopra di noi’» (Con/. X, 6, 9).

Questa riflessione conduce Agostino a rientrare in se stesso. Egli si vede composto di un corpo e di un’anima che lo governa, con dei sensi che percepiscono il mondo e sono le fine­stre dell’anima; al di sopra, egli scorge una facoltà di giudizio e di valutazione riguardo alle sensazioni e agli esseri, che è legata alla percezione della Sapienza e della Giustizia, propria dell’anima. «E così salii per gradi dai corpi all’anima, che sente attraverso il corpo, dall’anima

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L’interiorità spirituale

alla sua potenza interna, cui i sensi del corpo comunicano la realtà esterna... Di qui poi salii ulteriormente all’attività razionale, al cui giudizio sono sono sottoposte le percezioni dei sensi corporei» (Con/, v i i , 17,23). «Che significa vedere nell’intimo? Significa vedere ciò che non è colore, che non è suono, che non è odore, che non è sapore, e neppure calore, o freddo, o morbidezza, o durezza. Mi si dica per esempio quale colore ha la sapienza. Quando pensiamo alla giustizia, e ci rallegriamo di lei nell’intimo, nel pensiero stesso della sua bellezza, che cosa echeggia alle nostre orecchie?... Eppure nell’intimo c’è, ed è bella, la si loda, la si vede; anche se gli occhi sono nelle tenebre, l’anima gode della sua luce» (In Ps. 41,1).

Tuttavia l’uomo percepisce chiaramente, nel più profondo di sé, che egli non è l’origine della luce da cui è illuminato nei suoi giudizi, che ha ricevuto l’essere e che è mutevole, in una parola, che non è Dio, e deve dunque cercare il suo Dio al di sopra di sé. Esamina i suoi sen­si, i suoi pensieri e «i vasti tesori della sua memoria», e non vi trova Dio.

«Ma nemmeno la mia persona, impegnata in questo lavorio, o meglio, la mia stessa for­za con cui lavoravo non erano te. Tu sei la luce permanente, che consultavo sull’esistenza, sulla natura, sul valore di tutte le cose. Udivo i tuoi insegnamenti e i tuoi comandamenti» (Con/ X , 40,65).

«Certamente Dio non si può vedere se non per mezzo dell’anima, ma non si può vedere come si vede l’anima... Infatti l’anima... cerca la verità immutabile, la sostanza che non viene mai meno. L’anima non è così, perché viene meno e progredisce; sa e ignora; si ricorda e di­mentica; ora vuole e ora non vuole. Questa mutevolezza non si trova in Dio... Mi accorgo quindi che il mio Dio è qualcosa di superiore all’anima» (In Ps. 4 1 ,7-8).

Questa è la via dell’interiorità che fa scoprire ad Agostino che Dio è «più dentro in me della mia parte più interna e più alto della mia pane più alta» (Con/ ili, 6, 11). E seguendo questa strada che gli è capitato di percepire, in un istante privilegiato, la luce divina che sta al di sopra di lui «perché fu lei a crearmi», e che gli fa esclamare: «O eterna verità e vera carità e cara eternità!» (Con/, vii, 10,16). Al termine di questa ricerca che gli dà gioia, in cui raccoglie tutte le sue dissipazioni perché nulla di lui si allontani dal suo Dio, talvolta accade che «m’in­troduci in un sentimento interiore del tutto sconosciuto e indefinibilmente dolce, che, qualo­ra raggiunga dentro di me la sua pienezza, sarà non so cosa, che non sarà questa vita» (Con/. x, 40,65; cfr. anche la contemplazione di Ostia, ix, 10,25). La sua ricerca si appoggia anche sulla Chiesa, tenda di Dio su questa terra, sulla vita dei santi dove egli sente un’eco della me­lodia del cielo (In Ps. 4 1 ,9), per elevarsi verso la casa di Dio dove trova la sua «dimora». «Ho effuso sopra di me l’anima mia; e più non mi resta altro da conoscere se non Dio stesso. Per­ché ivi è la dimora del mio Dio, al di sopra dell’anima mia; ivi egli abita, di lì egli mi guarda, di fi mi ha creato, di fi mi governa, di fi mi consiglia, di fi mi sollecita, di fi mi chiama, di fi mi dirige, di fi mi spinge, di fi mi trascina» (In Ps. 41, 8).

Nella grande opera del De Trinitate, la ricerca contemplativa si svilupperà fondandosi sul­la creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio mediante le sue tre facoltà spirituali (la memoria, l’intelligenza e la volontà) che si presentano, alla luce della Rivelazione, come uno specchio della Trinità delle persone divine. Il nostro Dottore vi traccia le strade maestre che guideranno la contemplazione e la mistica occidentali (cfr. vili, 2-3).

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La vita spirituale del cristiano

Agostino lo sottolinea scrupolosamente: l’aiuto dei neoplatonici che lo invitarono a ritor­nare in se stesso e a seguire la via dell’interiorità gli fu prezioso; ma la sua ricerca di Dio non avrebbe avuto alcun esito se egli non avesse scoperto, alla luce di san Giovanni, la sola strada che poteva condurlo fino alla meta intravista da lontano: la persona di Cristo, l’umile Gesù, il Verbo di Dio fatto carne, che «col nostro fango si edificò una dimora umile, la via per cui far scendere dalla loro altezza e attrarre a sé coloro che accettano di piegare il capo, guarendo il turgore e nutrendo l’amore» (Con/, vii, 18,24; cfr. anche In Ps. 41,12). Similmente, commen­tando il salmo 41, egli propone l’umiltà e la confessione del peccato come rimedio al turba­mento causato dall’orgoglio.

Aggiungeremo qui un’osservazione essenziale: le tre tappe dell’itinerario verso Dio de­scritte da Agostino sono separate da due livelli di decisiva importanza:

1. 11 primo livello regola il passaggio verso l’interiorità. Il lettore non può accedere all’in­teriorità se non comprende che Agostino lo invita a entrare anch’egli nella sua propria inte­riorità, poiché non vi è altro modo per penetrare in questa via e per capire la testimonianza data, l’esperienza raccontata. Il lettore non può dunque restare neutrale davanti al testo di Agostino e accontentarsi di interpretarlo dall’esterno, come un documento storico tra altri, con il rischio di non cogliere la sostanza dell’insegnamento proposto.

2. Il secondo livello determina l’accesso all'«al di sopra di sé». Poiché l’uomo non può elevarsi con le sole proprie forze al di sopra di sé, questo passaggio presuppone l’intervento di «Qualcuno» che si manifesta come radicalmente superiore mediante una Parola, un Verbo che lo rivela sotto il velo del mistero, mediante il dono di una Luce interiore che chiama alla fede. La fede nel Verbo incarnato è qui la chiave che apre la porta verso questo livello situato fuori della portata dei filosofi.

Dunque non ci troviamo di fronte al racconto di un itinerario semplicemente intellettua­le, ma a una esperienza spirituale profondamente umana e specificamente cristiana. È una testimonianza che è stata messa per iscritto per offrire ai lettori una descrizione tipica del cammino del cristiano sottoposto al lavorio interiore della grazia e animato dal desiderio di vedere Dio.

La tradizione spirituale occidentale ha seguito la via dell’interiorità che Agostino ha trac­ciato, con una grande varietà del resto, secondo le personalità e le vocazioni, nel susseguirsi delle scuole che ne manifestano la fecondità. San Tommaso stesso, molto più «estroverso» nel suo orientamento teologico e nella sua contemplazione, attinge largamente dal tesoro delle opere del vescovo di Ippona, che egli ha riletto e sfruttato in forma personale. La ria agosti­niana resta per noi uno dei grandi modelli. Essa supera le differenze di scuole e di spiritualità particolari.

2.1 La «vita interiore» nell’epoca moderna

I tempi moderni hanno prodotto profondi cambiamenti in quella che ormai si chiamerà la «vita interiore». La spiritualità si evolve conformemente al pensiero e alla sensibilità dell’epo­ca che si concentrano sul soggetto, di fronte al mondo e alla società. Sin dalla fine del Me-

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L’interiorità spirituale

dioevo con la devotio moderna e soprattutto nel Rinascimento, la vita spirituale diventa più individuale ed è sempre di più considerata separatamente dalle attività di ordine ecclesiale o sociale. È una vita soprattutto «interiore», che si esercita nelle pratiche di pietà, nella pre­ghiera e nell'ascesi; essa è alimentata specialmente dalle devozioni che fioriscono nella Chiesa cattolica dopo il concilio di Trento. La vita spirituale subisce anche il contraccolpo delle divi­sioni che si consumano, a quel tempo, nella teologia. Essa viene esclusa dalla teologia morale ormai dedita allo studio degli obblighi imposti a tutti e dei casi di coscienza. Tende perciò a diventare la prerogativa di una élite che si dedica alla ricerca della perfezione e ne fa il suo in­teresse principale. Il contatto diretto con la Scrittura le è ampiamente sottratto per protegger­la contro gli eccessi della Riforma; essa deve attingere il suo nutrimento soprattutto negli au­tori riconosciuti dalla tradizione cattolica e nell’esperienza interiore. È d ’altronde grazie a questa esperienza che essa produrrà i suoi più bei frutti nella mistica spagnola e nelle altre scuole spirituali alimentate dalla preghiera e dalla meditazione. Tuttavia la vita interiore man­tiene ormai solo dei rapporti piuttosto limitati con la liturgia, considerata soprattutto come una sorta di cerimoniale regolato dal diritto canonico e dalle rubriche, che fa appello all’ob- bligo morale più che al sentimento religioso. Infine la contemplazione della natura e del cielo come un cammino spirituale verso Dio è contestata dalle scoperte delle scienze e dal pensiero filosofico. La vita spirituale è così costretta a ritirarsi in uno spazio interiore che si restringe continuamente. Essa diventa un ambito particolare, di carattere privato, nettamente distinto dalla vita ecclesiale regolata dalla morale e dal diritto canonico, come pure dalla vita sociale sottomessa alla giustizia e alla legge civile.

Per percepirne i limiti, basta paragonare questo modo di vedere con il cammino spirituale di Agostino che comincia con la contemplazione della bellezza delle opere di Dio nella crea­zione, si approfondisce con la memoria e la confessione dei benefici della grazia nella vita personale, si manifesta poi con la considerazione dell’opera della salvezza nella storia della Chiesa, la Città celeste, inserita nella storia di questo mondo, per concludersi, fondandosi sull’immagine di Dio nell’uomo, nella contemplazione della Trinità santissima rivelata in Ge­sù Cristo. La vita interiore di Agostino, così personale e così intensa, è spalancata sulla Chiesa e sull’universo. Non esiste in lui separazione, ma una compenetrazione tra l’autore spirituale e il teologo, il vescovo e il cittadino, tra la vita interiore, la vita morale o ecclesiale e le attività nel mondo. Sapremo ritrovare questa concezione profonda e ampia della vita interiore?

C’è qualche speranza, poiché dall’inizio di questo secolo si sono prodotti diversi rinnova­menti che hanno dato i loro primi fnitti nell’insegnamento del Concilio: rinnovamento scrit- turistico, liturgico, spirituale, teologico, patristico. La vita spirituale dei cristiani nc ha tratto profitto; ma senza dubbio resta ancora molto da fare perché la Scrittura e la liturgia in parti­colare ridiventino le fonti principali della vita cristiana secondo la grande tradizione della Chiesa. Un ostacolo considerevole sta, come abbiamo mostrato, nel fossato che si è scavato, e forse reso ancor più profondo nel corso degli ultimi anni, tra la vita spirituale e l’insegnamen­to della morale. Il rinnovamento intrapreso non potrà fruttificare pienamente finché non avremo compreso che la spiritualità non è un supplemento facoltativo agli imperativi morali, ma costituisce una dimensione essenziale e specifica della morale cristiana.

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La vita spirituale del cristiano

3. L’interiorità e i suoi diversi livelli

Per chiarire i termini della questione, cerchiamo ora di precisare quale sia rinteriorità co­stitutiva della vita spirituale. Esistono infatti diversi livelli di interiorità. Dato che la nostra per­cezione delle cose e il nostro linguaggio partono dall’esperienza sensibile, la nostra prima rap­presentazione del binomio interiore-esteriore si situerà sul piano spaziale. Si parlerà dell’inter­no di una casa o di una vettura, dell’interno di un albero o del corpo umano. Questa rappre­sentazione non ci dà tuttavia se non un’interiorità relativa, poiché noi possiamo aprire gli og­getti e i corpi e constatare che lo spazio è in essi lo stesso che fuori, sottomesso a misure identi­che. Lo spazio e la quantità possono essere i supporti dell’interiorità, ma non la costituiscono.

L’interiorità non esiste veramente se non con la vita. È la vita infatti che crea l’interiorità formando un organismo, una pianta, un animale, un uomo, in grado di crescere e di agire con un’autonomia che si costruisce a partire dall’interno, mediante uno scambio continuo tra l’interno e l’esterno, come i polmoni aspirano l’aria e la espirano per ossigenare il corpo, come lo stomaco assorbe e metabolizza gli alimenti per ricostituire le nostre forze e sostene­re la nostra azione.

L’interiorità si approfondisce con la conoscenza sensibile, che segna il risveglio della co­scienza, provoca i sentimenti e suscita delle reazioni legate ai bisogni e agli appetiti. Grazie al­la percezione dei sensi, il contatto con il mondo esteriore si estende e l’autonomia si accresce con la mobilità.

L’interiorità raggiunge la sua massima estensione e profondità nell’uomo. Il pensiero fa di lui un microcosmo: grazie alla sua intelligenza, l’uomo può accogliere in sé l’universo intero e procurarsi una rappresentazione delle cose di portata universale, il che gli conferisce il potere di cambiare il mondo secondo le idee che si è formato.

Tuttavia la ragione potrebbe limitarsi, in nome del metodo scientifico, alla conoscenza dei fenomeni e concentrarsi sulla trasformazione del mondo esteriore per mezzo della tecnica. In tal caso, procedendo tutto dall’uomo mediante il pensiero, la ragione rimarrebbe al suo ester­no con le sue opere, poiché le macchine che essa fabbrica non possiedono interiorità e non possono comprendere direttamente il movimento interno della vita.

La vera interiorità, di livello spirituale, proviene in noi dall’impegno simultaneo dell’intel­ligenza e della libera volontà nell’agire morale. Essa appartiene esclusivamente alla persona e mette in moto il cuore insieme con la mente. Essa consiste nella nostra capacità innata di rice­vere in noi e di provare concretamente ogni verità e ogni bene per assimilarli ed esserne fe­condati, e nel conseguente potere di generare autonomamente delle idee e delle opere che ci trasformano, con gli altri e con il mondo che da noi dipende. L’azione morale è così parago­nabile alla generazione umana, tanto che possiamo applicarvi le principali fasi: essa è conce­pita in seno alla nostra libera volontà in un contatto d’amore e di desiderio; si sviluppa nel nostro cuore durante un tempo di gestazione più o meno lungo, prima di venire alla luce e di entrare nel mondo come un frutto giunto a maturazione. Queste sono le azioni che ci fanno crescere interiormente e progredire attraverso le età della vita.

L’interiorità morale, così manifesta grazie alle sue opere, sfugge tuttavia all’investigazione

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scientifica diretta e rimane difficilmente accessibile alla nostra stessa riflessione, perche è co­me la matrice dei nostri atti più segreti, perché in essa noi esercitiamo il nostro potere esclusi­vo di dare forma ed esistenza a un’azione che è «da fare» e che «ci fa», mentre la scienza si fonda su «fatti» e la riflessione deve partire da ciò che «è fatto» se vuole penetrare fino a ciò che «si fa».

Questa è l’interiorità dello spirito di cui parla san Paolo: «Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui?» (lCor 2,11). Essa è propria della persona e si rivela nella sua massima evidenza nell’esperienza morale.

L’esperienza cristiana ci introduce a un livello ancora più profondo e rafforza la nostra in­teriorità. Lo Spirito Santo infatti ci fa entrare nell’intimità stessa di Dio. Allarga la nostra in­teriorità aprendoci airinteriorità divina in uno scambio che diventa la fonte principale della vita spirituale. Esso l’approfondisce mettendo in comunicazione il «segreto» in cui solo il Pa­dre ci vede con il mistero divino, con la Trinità delle persone. Forma così in noi «l’uomo inte­riore» di cui parla san Paolo, capace, grazie al discernimento della fede e alla forza dell’amo­re, di produrre opere che piacciano a Dio e di portare i frutti dello Spirito.

3.11 livelli d’interiorità e la loro comunicazione

Questa è dunque l’interiorità spirituale. Localizzata nello spazio del nostro corpo, essa si estende al di là delle percezioni e delle emozioni dei nostri sensi e supera i concetti e le co­struzioni della nostra ragione «fabbricatrice». Essa si pone al di sopra e all’interno di tutto ciò, come il luogo nascosto dove si collocano l’intelligenza formatrice c la libertà produttrice dei nostri atti, in cui si esercitano gli impulsi dello Spirito.

L’interiorità spirituale non ci chiude in noi stessi, come si potrebbe credere; noi consta­tiamo al contrario che più essa è profonda e più diventa grande la potenza di irradiamento. Si ha un giudizio profondamente errato delle realtà spirituali quando si oppone superficialmen­te l’interiorità all’esteriorità, quando si attacca la «vita interiore» col pretesto che essa potreb­be ostacolare l’impegno del cristiano nel mondo. Non si comprende che l’interiorità dell’uo­mo è il luogo in cui si concepiscono le azioni migliori e le idee più feconde per la Chiesa e per la società. Non è forse nella profondità dei cuori che lo Spirito Santo tesse i legami che ci fan­no diventare «le membra gli uni degli altri» nel Corpo di Cristo (Rm 12,5)?

Se è vero che si possono così distinguere diversi livelli d’interiorità secondo i gradi della vita e della coscienza, non dimentichiamo tuttavia che essi sono congiunti nell’uomo dal lega­me naturale che unisce il corpo allo spirito. Per questa ragione possiamo trasportare sul pia­no spirituale il vocabolario che ci fornisce l’esperienza sensibile. È così che la distinzione spa­ziale dell’interiore e dell’esteriore, con i concetti di ampiezza, di lunghezza, di altezza e di profondità, sarà usato da san Paolo per descrivere la conoscenza dell’amore di Cristo pro­messa all’uomo interiore (Ef 3,16-19). Similmente si potrà parlare dei sensi spirituali, degli occhi e degli orecchi del cuore. Sant’Agostino si rifarà ai cinque sensi per definire l’amore di Dio: «Amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso ncll’amarc il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, ove splende alla mia ani­

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ma una luce non avvolta dallo spazio...» (Con/. X, 6, 8). San Tommaso, per parte sua, prepa­rerà con il suo trattato sulle passioni lo studio delle virtù, dei doni e dei movimenti spirituali che ne derivano, come l’adesione reciproca e l’estasi nell’amore, la gioia nella beatitudine. Egli descriverà le evoluzioni della vita contemplativa con l’aiuto del moto circolare, rettilineo e obliquo (im i, q. 180, a. 7).

Così si stabilisce in noi uno scambio permanente tra i sensi e lo spirito, tra la percezione e il pensiero, tra l’azione e la riflessione. È grazie a questo lavoro che tracciamo le strade dell’interiorità e ne acquisiamo la comprensione.

4 .I!interiorità della coscienza secondo Newman

Per aiutarci a delineare meglio l’interiorità spirituale, possiamo rifarci alla descrizione dell’esperienza morale che ci propone uno dei suoi migliori testimoni moderni, il cardinale John Henry Newman; egli la descrive come un’esperienza originaria, al tempo stesso persona­le e universale.

In un sermone suU’immortalità dell’anima1, Newman sostiene che questa dottrina, col sentimento della vita futura che essa implica, ha dato al cristianesimo la forza di vincere il pa­ganesimo dell’impero romano malgrado la sua potenza. Egli mostra poi come noi possiamo percepire l’esistenza della nostra anima e la sua distinzione da questo mondo a partire dall’esperienza morale.

D uran te la nostra infanzia siamo immersi tra le cose che ci circondano, ma ben presto, quando sentiamo le delusioni che provocano in noi i continui cambiamenti che le intaccano, specialmente quando ci colpisce qualche disgrazia, percepiamo più chiaramente la vanità dell’attaccamento a questo universo fragile, «agitato dal vento come una vela davanti ai nostri occhi», e comprendiamo a poco a poco che abbiamo un’esistenza propria nella nostra co­scienza e che in fondo «non esistono che due esseri in tutto l’universo, la nostra anima e Dio che l’ha fatta (our own soul, and thè God who made it)». L’idea sarà ripresa nell’Apologià prò vita sua, nel 1864, e affermata con la stessa certezza di quella di «avere mani e piedi»: la con­centrazione sul «pensiero di due, e solo due, esseri assoluti, di un’intrinseca e luminosa evi­denza; me stesso e il mio Creatore (Myself and my Creator)»1 2.

Il lettore che non Io conosce potrebbe pensare che Newman, voltando le spalle al mondo, si sia chiuso in una sorta di solipsismo a due, con un Dio di cui ci si domanda quindi se non diventi un idolo, un’ipostasi dell’io. Ora, è vero esattamente il contrario.

In realtà Newman ci espone, in due parole che dicono l’essenziale, una verità umana e cri­stiana fondamentale. Egli esprime in termini semplici e moderni un’esperienza spirituale ori­ginaria; la solitudine innata dell’uomo davanti alla vita e davanti a Dio. Per ogni uomo giunge un momento—ed è talvolta nella giovinezza che questa lucidità è maggiore—in cui prende

1 J.H . Newman. Serm oni parrocchiali, 2.2 Apologia prò vita sua (tr. it. Milano 19952, p. 22).

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coscienza di essere solo al fondo di se stesso davanti alla sofferenza, davanti alla morte, da­vanti agli altri, e soprattutto di restare solo, nel segreto del proprio cuore, davanti a Dio come Giudice del bene e del male, della verità e della menzogna, al quale egli deve rispondere delle proprie azioni e anche delle proprie intenzioni, checché ne possano pensare gli altri uomini. Il luogo di questo incontro ineluttabile è la coscienza che Ncwman chiamerà, nella sua famo­sa lettera al duca di Norfolk, «il primo di tutti i vicari di Cristo», il cui potere si estende su tutti gli uomini. Il soggetto di questo giudizio è la nostra anima, fatta a immagine di Dio per diventare suo interlocutore libero e responsabile.

Newman d’altronde ha sufficientemente dimostrato di conoscere il mondo e il suo secolo che preparava il nostro, di possedere il senso della storia e della Chiesa e di essere un eccel­lente osservatore della società del suo tempo, per non essere accusato di individualismo o di intimismo. La concentrazione della sua formula sulla relazione dell’anima con Dio esprime esattamente la forza predominante del senso della presenza divina al centro della coscienza, al punto da avere la meglio sulla percezione sensibile che ci invade tuttavia per prima e che spesso si impadronisce di noi. Notiamo questo paradosso. Il cammino dell’interiorità e della solitudine con Dio ha condotto Newman verso la Chiesa cattolica, che egli considerava come la più lontana dal soggettivismo del suo tempo, e ha dato al suo pensiero e alla sua vita una fecondità che si manifesta ancora ampiamente dopo più di un secolo. Invece molto spesso constatiamo che coloro che danno la priorità ai rapporti umani trascurando il rapporto con Dio si ritrovano alla fine rinchiusi nelle mura del loro «ego», incapaci di risolvere i problemi della comunicazione. Senza dubbio non possiamo veramente raggiungere l’altro se non ab­biamo accettato il «da solo a solo» con Dio.

L’intuizione di Newman pone, in un linguaggio semplice per chi sa intenderlo, le basi pri­marie dell’universo spirituale. Essa poggia su un fondamento metafisico, poiché ci pone da­vanti al nostro Creatore. Nel mostrarcelo come Maestro, come Giudice e come Redentore, ci rivela il mondo morale e spirituale: noi sperimentiamo che la Legge di Dio c inscritta nel no­stro cuore e costituisce una base naturale per accogliere la parola di Cristo che opera la no­stra salvezza mediante la sua grazia. Tutte le ricchezze della vocazione cristiana troveranno il loro luogo in questo segreto della coscienza «dove solo il Padre ci vede».

La formula di Newman «me stesso e il mio Creatore» esprime dunque in modo notevole l’interiorità spirituale. Essa fonda sulla relazione unica che lo sottomette a Dio l’indipendenza di cui gode ogni uomo nei confronti del mondo e della società. «Comprendere che abbiamo un’anima significa sentire la nostra separazione dalle cose visibili, la nostra indipendenza ver­so di esse, cioè che noi abbiamo in noi stessi un’esistenza diversa, significa anche sperimenta­re la nostra individualità, la nostra facoltà di agire in questa o quella maniera, la nostra re­sponsabilità riguardo a ciò che facciamo». Secondo l’esperienza di Newman, non vi è opposi­zione tra l’autonomia della volontà umana e l'«eteronomia» divina. È al contrario con la sua libera sottomissione a Dio, il quale gli parla attraverso la sua Legge, che l’uomo riceve e con­quista la sua intima libertà verso qualsiasi potere esteriore, nella natura, nella scienza o nella società umana. Newman ha dato un sufficiente esempio, durante la sua vita, di questa indi- pendenza guidata dalla Luce interiore.

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4.1 La difesa dell’anima

La prima formula di Newman— «non esistono che due esseri nell’universo: la nostra ani­ma e Colui che l’ha fatta»— può ancora renderci un importante servizio: aiutarci a restituire il suo significato cristiano a questa antica parola, «anima», di cui abbiamo bisogno per porci davanti a Dio nell’interiorità della vita che egli ci dona, poiché l’anima designa proprio la fon­te della vita.

Noi abbiamo troppo facilmente abbandonato questo termine della lingua cristiana, col pretesto che esso era di origine greca, dunque pagana, e connotava un supposto dualismo platonico. Penetrando fino alla realtà delle cose che sta sotto le parole; Newman sostiene pressappoco il contrario, ed ha ragione. Qualunque sia la sua origine linguistica, l’anima ha assunto un senso nuovo passando al cristianesimo. Essa designa il soggetto della relazione unica stabilita da Dio con ogni uomo che egli ha creato a sua immagine e chiamato mediante la sua Parola. È nella nostra anima che noi prendiamo coscienza della fragilità di ogni carne, «come l’erba dissecca e il fiore appassisce quando il soffio di Dio (quando la ruota del tem­po) passa su di essa». Perciò è nell’intimità della nostra anima che noi sperimentiamo la pre­senza di Dio e comprendiamo, come in un bagliore improvviso, che «la Parola di Dio sussiste per sempre», che essa ci invita a condividere la sua sussistenza in una vita di cui riceviamo già le primizie per mezzo della potenza dello Spirito.

In questa prospettiva Newman può presentare la dottrina cristiana dell’immortalità dell’anima come «una rivoluzione fondamentale». Dopo la venuta di Cristo, chi crede in lui sa veramente di avere un’anima, di cui dovrà rispondere davanti a Dio e nella quale può acco­gliere la grazia di Colui che «ha dato la sua anima» per noi. È nella nostra anima che noi pos­siamo ricevere la perla preziosa del Vangelo. Perciò è opportuno, a nostro avviso, conservare l’antica traduzione della parola di Cristo: «Che serve all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perderà la sua anima?» (Mt 16,26). La formula «se perderà» o «rovinerà la sua vita» ri­conduce questa parola al livello di un luogo comune, perché non abbiamo certo bisogno di una rivelazione per sapere che la morte annulla le ambizioni di un uomo. Invece è per noi es­senziale comprendere che possediamo un tesoro più prezioso di tutte le conquiste e le ric­chezze del mondo: la nostra anima, la nostra coscienza, il nostro cuore, ricettacolo della sa­pienza e dell’amore di Dio. Così a che serve all’uomo, anche se vive a lungo, dominare la ter­ra intera, come fecero gli imperatori romani, se ciò avviene a prezzo della corruzione del cuo­re, con la menzogna, con la crudeltà e veramente con la morte nell’anima? L’anima, nel senso evangelico, è l’intimo dove sgorga in noi la sorgente della vita eterna. Così, come aggiunge il Signore, «che cosa potrà dare l’uomo in cambio della propria anima?». L’anima è davvero dunque il luogo proprio della vita spirituale.

5. La lotta per l'interiorità in un mondo «unidimensionale»

Il problema dd l’anima non resta per noi teorico. Esso coincide con la lotta che dobbiamo

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L’interiorità spirituale

condurre per la salvaguardia della vita spirituale e dell’interiorità, di fronte a una rappresen­tazione del mondo che si insinua in noi da ogni parte e che si può chiamare «un mondo uni­dimensionale».

Noi siamo infatti come avvolti da una visione del mondo limitata all’esperienza sensibile, materiale, nella considerazione della sola quantità sottomessa alla presa e al calcolo delle scienze e delle tecniche, avendo come scopo predominante l’utilità della maggioranza, la sod­disfazione dei bisogni secondo i rapporti di produzione e consumo misurati dal denaro. Que­sto modo di guardare e di giudicare secondo le apparenze tangibili, i «fenomeni», allontana dalla nostra visuale e rischia di farci trascurare le altre dimensioni e forme dell’esperienza umana: la stima della qualità secondo il bene e il male, il senso della profondità sotto la su­perfìcie delle cose, la considerazione del contenuto dietro l’apparenza, della realtà dietro l’aspetto esteriore, della verità dietro le opinioni, la tensione della coscienza e del cuore al di là degli obblighi esteriori, in una parola, la percezione di tutte le qualità che formano la ric­chezza morale e spirituale di un uomo o di un popolo, che appartengono alla sua anima c confluiscono verso la relazione con Dio come loro fonte primaria.

Si potrebbe vedere un simbolo di questo mondo unidimensionale nello schermo della tele­visione. Lo schermo è una semplice pellicola di vetro, ma ci porta ogni giorno notizie e immagi­ni del mondo intero. Ci dà l’impressione che guardandolo noi possiamo sapere tutto di ciò che si dice, di ciò che si fa, con, in aggiunta, un abbondante nutrimento per l’immaginazione. Ora, lo schermo non ha spessore; non c’è che il vuoto dietro all'immagine, anche se essa sembra profonda. Lo schermo ci dà l’illusione di comprendere la realtà, ma non può darcela. Inoltre esso genera con l’assuefazione una mentalità da spettatore che si disabitua alla riflessione e allo sforzo necessari per comprendere il reale umano e percepire l’interiorità spirituale che esso contiene. Solo chi ha una personalità formata, chi «sa di avere un’anima», come direbbe New- man, è capace di usare le creazioni della tecnica senza diventarne schiavo e può tracciare il pro­prio cammino in questo mondo «unidimensionale», materiale, utilitaristico e «impressionali- sta», in cui rischiamo di alienare Ì nostri beni più preziosi. Dobbiamo dunque combattere una vera e propria lotta per l’uomo, per la nostra anima e per la nostra libertà interiore.

Siamo così posti davanti a una scelta decisiva e davvero evangelica: o ci lasciamo trascina­re con molti altri nella via larga dell’esteriorità, o abbiamo il coraggio di impegnarci personal­mente nello stretto sentiero deH’interiorità: esso passa attraverso il nostro cuore dove lo Spiri­to ci attira per condurci verso le fonti spirituali.

5.1 La dimensione dell’interiorità

Se vogliamo liberarci da questo mondo «unidimensionale» che ci opprime con tutto il pe­so della materia e dell’opinione comune oggi diffusa, abbiamo bisogno di riprendere chiara­mente coscienza delle dimensioni proprie del mondo spirituale: esso ci introduce in un’inte­riorità ricca, veramente pluridimensionale. Abbiamo infatti bisogno di diversi termini per de­linearla: la profondità, l’altezza, la densità, la lunghezza e la larghezza, mentre una vita lascia­ta all’esteriorità ci mantiene nella superficialità, nella mediocrità, nella dispersione e nella ri­

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strettezza. Per questa descrizione possiamo appellarci all’esperienza di san Paolo che augura­va ai cristiani di Efeso: «... di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo inte­riore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,16-19).

La via dell’interiorità è alla portata di tutti. 11 suo principio è semplice e il procedimento naturale: per penetrare nell’interiorità delle cose, occorre innanzitutto aprire loro la porta e lasciarle penetrare in sé. Per comprendere il senso profondo di una parola o di un esempio, bisogna lasciarsi toccare e reagirv i in quel contatto diretto, da persona a persona, che genera l'esperienza e forma in noi quella conoscenza speciale che si chiama comprensione, da cui l’azione deriva come suo frutto. 11 metodo che qui si impone non è più l’osservazione a di­stanza, ma la riflessione sulla nostra propria esperienza. Per entrare nell’interiorità dobbiamo dunque lasciare la sedia dell’osservatore scientifico, il sedile o la poltrona dello spettatore, e confrontarci con la realtà nell’azione e nella reazione. Così potremo percepire la profondità delle cose, accedere all’interiorità degli altri e avvicinarci al mistero di Dio. La riflessione su di sé, come la scoperta delle realtà spirituali, non è certo facile; essa esige uno sforzo paziente e multiforme, ha bisogno di maturare. Vediamo più precisamente quali sono le principali di­mensioni in cui si manifesta l’interiorità.

a. La profondità. La profondità designa il superamento delle impressioni, dei sentimenti e delle idee mediante una riflessione che cerca di penetrare fino al cuore delle cose, fino al cen­tro nascosto in cui si formano e sgorgano in noi il pensiero e le azioni. Con l’aiuto della pre­ghiera questa penetrazione può giungere fino all’intimità della nostra relazione con Dio e sco­prire, all’origine dei movimenti del nostro spirito, la legge della gravitazione spirituale causata dall’attrattiva del bene, dall’aspirazione a conoscere Colui che ci ha fatti.

Con san Giovanni nell’episodio della Samaritana (4 e 7,39) e con Origene nel suo com­mento sul Genesi, possiamo vedere nello scavo dei pozzi nel deserto fatto dai servi di Gia­cobbe l’immagine del lavoro in profondità della meditazione cristiana alla ricerca dell’acqua viva dello Spirito. Lo scavo di un pozzo esige la concentrazione dello sforzo su un punto pre­ciso dove si è localizzata una falda acquifera; similmente la meditazione deve concentrarsi su un testo, su un tema, su un’esperienza, e ritornarvi regolarmente, in una sorta di fissità dina­mica, per approfondirne l’intelligenza finché sgorghi l’acqua spirituale. La Scrittura qui si im­pone particolarmente, perché ci garantisce la presenza dello Spirito.

La profondità evoca anche le radici di un albero che affondano e si estendono sotto terra. È per mezzo della meditazione della parola di Dio che noi ci radichiamo spiritualmente nella terra feconda che Dio ci dà, dove «il giusto fiorirà come palma e crescerà come cedro del Li­bano» (Sai 92,13).

b. Ualtezza. L’altezza completa la profondità. Essa deriva da uno sforzo prolungato per progredire nella qualità morale, per realizzare un ideale spirituale, come si intraprende l’asce-

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L’interiorità spirituale

sa a una cima. Essa esige il distacco da ciò che è basso, il superamento di ciò che è mediocre, la lotta contro la pigrizia e la pesantezza interiore, il combattimento dello spirito contro la carne e le sue debolezze. La si designa con espressioni come l’elevazione dei pensieri e dei sentimenti, la grandezza d ’animo. Si può vederne il simbolo nel monte Sinai dove Dio chiamò Mosè per dargli la Legge, e nella montagna delle beatitudini dove Gesù insegnò ai suoi disce­poli una giustizia superiore a ogni altra. Anche Gerusalemme è costruita su un monte il cui accesso è riservato ai cuori puri: «Chi salirà il monte del Signore?... Chi ha mani innocenti e cuore puro» (Sai 24,3-4). È significativo inoltre che i nostri luoghi di pellegrinaggio siano si­tuati solitamente su delle alture.

c. La densità. La densità è il frutto dell’accumulo paziente, nella nostra viva memoria, delle riflessioni, degli sforzi e delle esperienze condotti con continuità e discernimento. Essa è il ri­sultato di una lenta assimilazione, di una digestione, potremmo dire, delle esperienze della vita che rendono sano il pensiero e danno vigore all’agire. La densità esige la fedeltà e il raccogli­mento. Sotto l’aspetto letterario essa si manifesta nella concisione dello stile, nella precisione delle parole e nella ricchezza del loro significato. Uno scritto è denso quando si presta alla ri­lettura, a uno studio approfondito, alla meditazione. Tali sono in particolare i testi biblici che la liturgia ci propone, ogni anno, come un nutrimento inesauribile, come la manna di Dio sem­pre concessa ai nostri bisogni. Una vita è densa quando tutte le sue lince si accordano e si con­centrano nel compimento di una vocazione, di un disegno generoso, di un’idea feconda.

d. La larghezza. Il progresso nella profondità, nell’altezza e nella densità contribuisce all’allargamento della mente e del cuore. La capacità di accogliere, di comprendere e di ordi­nare le idee, i voleri e i sentimenti si accresce e si fortifica. La mente acquisisce specialmente il potere di raccogliere opinioni differenti e di confrontarle per ricavarne le verità comple­mentari, al fine di formarsi un’idea che sia vera e tenga conto delle differenze più delicate. Il cuore così si allarga fino a superare e pacificare i sentimenti più contrastanti e più violenti, come nel perdono dei nemici e nella preghiera per i persecutori secondo l’insegnamento del Signore. Questa larghezza è vigorosa e sa mantenere, con fermezza ed elasticità, una linea di condotta giusta e vera, che apre finalmente all’orizzonte spirituale più ampio.

e. La lunghezza. La lunghezza può designare la durata necessaria ad ogni crescita vitale, al progresso spirituale o intellettuale. In qualsiasi circostanza, occorre tempo e pazienza per for­mare un uomo interiormente. Le stagioni della vita sono più lunghe di quelle della natura, c la nostra durata si allunga ulteriormente quando è inserita nel tempo di Dio che dispone dei secoli. Ecco perche le virtù della pazienza, della costanza, della vigilanza, della perseveranza sono così importanti nella vita spirituale. San Paolo le menziona regolarmente insieme con la carità; senza di esse nessuna virtù, nessun dono può portare in noi qualche frutto.

Per concludere questo capitolo sull’interiorità ritorneremo al passo della lettera agli Efesi­ni che ce ne mostra tutta la portata. L’Apostolo ci invita a entrare nel mistero dell’amore di

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La vita spirituale del cristiano

Cristo che sorpassa ogni conoscenza con la sua Ampiezza, poiché tutti gli uomini vi sono chiamati, con la sua Lunghezza, poiché occupa ogni tempo, con la sua Altezza, poiché ci ele­va alla dignità di figli di Dio con Cristo che siede presso il Padre, con la sua Profondità, poi­ché abbiamo ricevuto lo Spirito che «tutto scruta, fino alle profondità di Dio».

Indicazioni bibliografiche

Agostino d’Ippona, Le Confessioni, Milano 1991 (tra le molte altre traduzioni esistenti). A. Dagnino, La vita cristiana, Milano 1968.A. Derville et al., art. «Homme intérieur», in Dsp, vii/1, coll. 650-674.J. Leveque et al., art. «Intériorité», in Dsp, vn/2, coll. 1877- 1903.Dom Marmion, Un maitre de la vie spirituale, in «Vie Spirit.», gennaio 1948.D.J. Mercier, La Vie intérieure, Louvain 193425 (tr. it. La vita interiore, Milano 19332). J.H . Ncwman, Apologia prò vita sua, Milano 19952.

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Capitolo settimo L’ESPERIENZA INTERIORE

ALLA BASE DELLA VITA SPIRITUALE

Integrata nella teologia, come presso i Padri della Chiesa, o da essa distinta, come nell’epo­ca moderna, la spiritualità è sempre stata legata all’esperienza. Perciò è necessario precisare quale genere di esperienza implichi la vita spirituale.

L’esperienza propria della vita spirituale

Il termine «esperienza» assume molteplici accezioni a seconda che lo si usi nelle scienze, in filosofia, nel campo religioso, spirituale o mistico. Esso designa solitamente una conoscen­za immediata e vissuta di cose concrete, a differenza di una conoscenza nozionale, astratta e discorsiva1. Nella sua eccellente opera su L’expérience chrétienne (Paris 1952; tr. it. Brescia 1956), Jean Mouroux distingue tre piani e come tre specie di esperienza: 1) l’esperienza empi­rica, vissuta, ma non ponderata ne esaminata criticamente; è insomma l’esperienza bruta, che in effetti designa alcuni elementi dell’esperienza abbastanza disparati e superficiali piuttosto che la vera esperienza, presa nel suo insieme; 2) quella sperimentale-, è l’esperienza scientifica. Essa è coscientemente provocata e si basa sugli clementi misurabili, che lo scienziato tratta e coordina per costruirne quell’universo che si chiama scienza. Anche questa è un’esperienza parziale; 3) esperienziale designa l’esperienza considerata nella sua totalità peculiare con tutti gli elementi che la strutturano, con tutti i suoi principi di movimento, nella lucidità di una co­scienza che è padrona di sé e nella generosità di un amore che si dona. L’esperienza spirituale autentica è di tipo esperienziale.

È utile anche notare che le scienze sperimentali si sono appropriate, in larga misura, del termine «esperienza». Esse si costruiscono infatti con l’aiuto di esperienze constatabili e rin­novabili, in linea di principio, da chiunque. Le esperienze forniscono i fatti da cui si dedur-

1 Cfr. A. Léonard, art. «Expérience», in Dsp, iv/2. Si veda anche Recberches pbénoménologiques au- tour de /'expérience mystique, in VSS 23 (1952), pp. 430-494.

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ranno le leggi necessarie che collegano i fenomeni constatati dall’osservazione di una materia, variabile secondo i campi scientifici: ben diverse saranno le esperienze fisiche, chimiche, o i dati di carattere storico e sociologico. È bene sottolineare che lo scienziato non tiene mai conto dell’esperienza concreta tutta intera. Per metodo, scarta le componenti qualitative e psicologiche, trattenendo alla fine solo gli elementi quantificabili e misurabili secondo lo spa­zio e il tempo.

L’esperienza spirituale è di un’altra natura. Essa è dello stesso genere dell’esperienza della vita che acquisiamo normalmente con l’età. Mentre la scienza progredisce mediante una mol­teplicità di esperienze e di fatti, conviene parlare dell’esperienza umana al singolare per desi­gnare quel condensato di avvenimenti vissuti e compresi personalmente che si forma nella nostra coscienza e assume in essa per noi un sapore unico, un po’ come si accumula e si arric* chisce il miele nel favo di un alveare. Giunta alla sua maturità, questa esperienza si chiamerà sapienza. Essa certo presuppone varie esperienze, ma si forma mediante una ripresa interiore che le fa entrare in una memoria viva, un po’ come l’ape estrae il succo dai fiori per portarlo nel suo alveolo. Così ricaviamo dai nostri fatti di vita una certa materia, presa nella sua qualità piuttosto che per la sua quantità, che facciamo entrare nella nostra sostanza spirituale. Que­sto lavoro, in parte nascosto ai nostri stessi occhi, come un specie di digestione dello spirito, è volto verso l’inreriorità.

La vita spirituale si fonda dunque sull’esperienza interiore, e più precisamente sull’espe­rienza dell’agire. Senza dubbio traiamo profitto da tutto un mondo di impressioni ricevute, di sentimenti provati, di avvenimenti e di ricordi raccolti; ma la nostra interiorità è pienamente impegnata solo dalle nostre scelte, quando ci impegnamo liberamente in azioni in cui si riflet­te la nostra personalità, come si manifesta l’artista nelle sue opere.

Il nostro agire personale è prima di tutto interiore, come le volontà che stanno alla radice delle nostre azioni visibili. Questi atti—volere, amare, credere e sperare, riflettere e decidere, sforzarsi e perseverare—formano in noi delle disposizioni ad agire che i moralisti chiamano «habitus»: esse ci rendono inclini a persistere nel comportamento assunto e sostengono il no­stro progresso. Abbiamo dunque a che fare con un’esperienza dinamica che nasce dall’azione e provoca l’azione.

Tuttavia non tutte le esperienze sono utili a garantire il progresso spirituale. Ci sono stra­de che salgono e ci conducono verso ampi orizzonti; ve ne sono altre che scendono, deviano e ci fanno smarrire. Ci sono strade che vanno dritte alla meta e altre che ci conducono in deda­li c vicoli ciechi. Vi sono allo stesso modo esperienze che ci arricchiscono e ci fanno crescere, e altre che ci impoveriscono, ci rendono ciechi e ci corrompono. Il discernimento sulla qua­lità delle azioni, sulle mete e sulle vie da seguire è dunque una condizione essenziale per co­struire la vita spirituale. È qui che interviene la dottrina sulle virtù.

L’esperienza secondo la virtù

La dottrina sulle virtù non è una teoria. Essa è il frutto dell’esperienza umana e cristiana, e non si può comprendere convenientemente senza far ricorso all’esperienza. Essa ci disegna,

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in un certo modo, la carta geografica delle strade della verità e del bene, del progresso verso la perfezione.

È necessaria una prima spiegazione. Si dice comunemente che la virtù si acquisisce con la ripetizione degli atti. Ci si sbaglia tuttavia quando la si comprende come una ripetizione di atti materiali che creano in noi quella specie di meccanismo psicologico che sono le abitu­dini. Le semplici abitudini ci dispensano dalTimpegno personale, dallo sforzo e, come tali, solitamente diminuiscono la qualità morale degli atti, quando addirittura non sono un osta­colo al progresso, come per esempio la routine nella preghiera che favorisce la distrazione e genera la noia.

La virtù è tutt’altro che un’abitudine2. Essa si acquisisce mediante atti di alto valore mora­le che sono il frutto di uno sforzo riuscito e che ci migliorano: infatti, dato che provengono dalla nostra interiorità, ci qualificano personalmente. La ripetizione in questo caso non è che apparente, poiché, nel loro susseguirsi, questi atti progrediscono in bontà e sviluppano in noi quella capacità di agire sempre meglio che si chiama precisamente virtù. Mentre l’abitudine è nemica del cambiamento e della novità, la vera virtù ci perfeziona e ci rinnova: essa è creativa, favorisce l’ingegno e sostiene l’ispirazione.

Inoltre gli atti che formano la virtù non sono separati gli uni dagli altri come in una suc­cessione meccanica. Sono collegati tra loro in modo vitale da una intenzione profonda che li dispone dalTintemo verso una perfezione, verso un bene superiore, preso come un fine, che agisce in noi mediante l’attrattiva che esercita e mediante il desiderio e l’amore che suscita.

È utile notare, poi, che le virtù non sono separate tra loro come può far credere la loro li­sta e i concetti che le definiscono. La presentazione analitica che ne fa san Tommaso nella Summa potrebbe ingannarci, se non la completiamo considerando che le virtù sono connesse, che formano un organismo d’azione paragonabile al corpo umano con le sue diverse membra e la sua unità. In realtà, nell’azione concreta, intervengono tutte le virtù. Non possiamo eser­citarne una senza la partecipazione delle altre. Un atto di giustizia o di carità fraterna esige il discernimento prudenziale di ciò che spetta o conviene all’altro; esso richiede coraggio per portare a termine il servizio intrapreso, richiede temperanza per moderare i sentimenti con­trari che sorgono in noi.

Così, che vi pensiamo o no, le virtù, da quelle più alte a quelle più umili, si riuniscono in noi e si attivano, ciascuna al suo posto, quando agiamo. Esse ci procurano l’esperienza mora­le, come una comprensione interiore e globale di ciò che accade in noi e per mezzo di noi. Questa esperienza è spirituale nella misura in cui impegna principalmente la nostra mente e il nostro cuore, e ci dispone a un fine dello stesso ordine.

L’esperienza dell’azione personale è dunque il momento in cui si esercitano le virtù, in cui esse compiono la loro opera e in cui noi possiamo conoscerle nella loro realtà dinamica. È qui che si svelano a noi, meglio che in tutti i libri, le strade della vita interiore a mano a mano che le percorriamo.

2 Cfr. il nostro Le Renouveau de la morale, cit., parte II, cap. rv: «La vertu est toute autre chose qu’une habitude», pp. 144-161.

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L’esperienza della sofferenza e del peccato

L’esercizio della virtù ci permette anche di comprendere due esperienze umane fonda- mentali: la sofferenza e il peccato.

La sofferenza ci pone davanti a una scelta cruciale: la ribellione o l’accettazione. L’accetta­zione della sofferenza non può essere né una rinuncia incondizionata che si manifesta in una sorta di fatalismo o di prostrazione, né una pura rassegnazione. Essa attinge la sua energia nella virtù del coraggio: ne riceve la capacità di trasformare la sofferenza perché serva alla no­stra crescita anziché alla nostra distruzione. Il confronto con la sofferenza è una prova decisi­va per accedere alla maturità umana. Non si può diventare pienamente adulti se non si è co­nosciuta e assunta la sofferenza. Ecco perché Cicerone poteva considerare il coraggio come la virtù dell’uomo per eccellenza, che condiziona l’esercizio di tutte le altre virtù.

La lettera agli Ebrei pone l’accettazione della sofferenza da parte di Cristo sotto il segno dell’obbedienza; ne fa lo strumento della perfezione e della salvezza per tutti quelli che gli obbe­discono nella fede: «Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (5,8). Qui vedia­mo il coraggio davanti alla sofferenza trasportato all’interno dell’obbedienza di Cristo verso suo Padre. La scena dell’agonia al Getsemani ne segna il momento decisivo. Così allatgato e arric­chito, il coraggio del Signore diventa fecondo per la salvezza ed esemplate per i suoi discepoli.

L’esperienza del peccato sembra opporsi radicalmente alla virtù. Il contrasto è reale, poi­ché il peccato conduce al vizio; ma non è assoluto. Sul piano umano già il riconoscimento dei propri errori e delle proprie mancanze è determinante per la conoscenza di sé; esso contri­buisce al coraggio che occorre per riprendersi e continuare il cammino senza perdere fiducia. Il cristianesimo tuttavia stabilisce una relazione nuova e sorprendente tra il peccato e le virtù che ci uniscono a Dio. La confessione sincera del peccato davanti a Dio («Ho detto; ‘Confes­serò al Signore le mie colpe’ e tu hai rimesso la malizia del mio peccato», Sai 32,5) diventa la condizione per ricevere il perdono e per scoprire personalmente la misericordia. Così la virtù dell’umiltà, che dissolve l’orgoglio, opera la conversione e come una trasformazione del pec­cato in grazia. Essa pone, nella lucidità su Dio e su di sé, la base solida e profonda di ogni co­struzione spirituale. Mediante la confessione umile e fiduciosa, il perdono diventa efficace e genera le altre virtù a partire dalla fede e dalla carità.

L’imitazione di Cristo che ha vinto il male prendendo su di sé la nostra sofferenza e il no­stro peccato nell’obbedienza e per misericordia: è questa la risposta cristiana a quelle spinose domande di fronte alle quali si arenano tutte le teorie.

L’acquisizione dell’esperienza

L’esperienza morale o spirituale si può acquisire con una sola azione, se è intensa e ricca, se ha sufficiente profondità e ampiezza per orientare la vita, come nella scelta di una vocazio­ne o in una conversione. Tuttavia tali decisioni sono solitamente preparate da una ricerca più o meno lunga e devono poi maturare per portare i loro frutti.

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In effetti l’esperienza morale, come ogni esperienza umana, si sviluppa solo con il tempo, nell’arco di anni, mediante una ripetizione di esperienze di grande valore. Occorre anche aver raggiunto una certa età, una maturità consolidata, per essere considerato come un uomo d’esperienza. Per questa ragione Aristotele giudicava i giovani inadatti allo studio della mora­le, alla scienza delle virtù, in quanto mancavano d’esperienza. Infatti la materia di cui tratta la morale non appare veramente se non all’interno dell’esperienza, che ci rivela la realtà umana sotto i suoi molteplici aspetti, spesso in contrasto tra loro.

Per acquisire una tale scienza, abbiamo bisogno di una riflessione sui «fatti di vita» che costituiscono la nostra esperienza. Essi sono tanto certi, tanto oggettivi quanto i fatti sui quali si costruiscono le scienze sperimentali, ma noi li percepiamo diversamente, mediante la co­scienza e la memoria, come testimonianze a favore della qualità morale che essi hanno forma­to in noi, come dei sostegni e degli indicatori sicuri nel cammino del progresso spirituale. La morale è dunque, anch’essa, una scienza dei fatti, ma dei fatti interiori, dei fatti che noi abbia­mo fatti e ben fatti. Essa li studia non tanto mediante l’osservazione quanto con la riflessione, non tanto per descriverli quanto per riprodurli e migliorarli. Ecco perché più che una scien­za, la morale, così come la spiritualità, è una sapienza. La sua acquisizione richiede del tempo per accumulare una raccolta di dati sufficientemente ampia e per condurre a buon fine il pa­ziente lavoro del pensiero e dello sforzo. È questo senza dubbio che voleva dire Aristotele, ma egli è forse stato un po’ troppo severo nei riguardi dei giovani, dato che possiamo avere abbastanza presto un’esperienza morale sufficiente per fare delle scelte importanti e perfetta­mente giuste. Può anche accadere che un bambino possieda un senso morale e spirituale più lucido e più retto di un vecchio, appesantito dalle delusioni e dalle fatiche della vita. Infine l’intervento dello Spirito Santo nella vita cristiana può modificare le condizioni legate all’età e procurare alla gioventù una lucidità sui disegni di Dio che supera la saggezza dei più anziani. «Sono più saggio di tutti i miei maestri... Ho più senno degli anziani» (Sai 119,99-100). Ciò non toglie che normalmente la giovane esperienza ha bisogno di crescere e di fortificarsi in una paziente fedeltà.

L’esperienza interiore alla base della vita spirituale

Le virtù teologali c l’esperienza spirituale.La loro unione con le virtù morali

Era necessario porre come fondamento la considerazione delle virtù, in quanto principi della vita interiore e fonti dell’esperienza morale. Ora dobbiamo esaminare l’apporto speciale delle virtù teologali e delle virtù infuse che ci introducono nel cuore della vita spirituale cri­stiana.

Qui, ancora una volta, dobbiamo diffidare delle nostre rappresentazioni troppo astratte. Le virtù infuse e le virtù acquisite, le virtù teologali e morali non sono separate le une dalle al­tre nell’azione reale, né nell’esperienza, come possono far credere le distinzioni stabilite dai teologi per le esigenze dell’analisi e della chiarificazione. In realtà, quando noi agiamo da cri­stiani, le virtù teologali si uniscono in noi alle virtù morali per formare un unico organismo attivo e per far penetrare l’energia dello Spirito Santo in ciò che abbiamo di più personale e

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di più umano. La fede, la speranza e la carità agiscono proprio all’interno delle nostre virtù morali per ispirarle con la penetrazione dell’amore, per consolidarle e adattarle a una funzio­ne e a una vita nuove. L’espressione virtù «infuse» significa, tra l’altro, che questo impulso viene dall’interno, come fa la vita, come agisce l’anima nel corpo.

Nello stesso tempo si può dire che le virtù teologali s'incarnano in noi grazie alle virtù morali, di cui esse hanno bisogno per esercitarsi efficacemente. L’annuncio della fede infatti, come pure la pratica dell’amore fraterno, esigono del coraggio per affrontare le resistenze e accettare le prove, fino alla persecuzione; vi è necessaria «la prudenza del serpente» per di- scemere ciò che si deve dire o fare nella situazione concreta, e «la semplicità della colomba» pronta ad ogni sacrifìcio. E come si potrebbe rivere la propria fede senza un amore vero, sen­za la regolazione e il controllo degli istinti mediante un’ascesi equilibrata?

Le virtù teologali non agiscono dunque in noi dall’alto di una sorta di piattaforma sopran­naturale da cui esse dirigerebbero a distanza i nostri atti, o aggiungendo un impulso esterno alle virtù umane sottomesse a norme razionali. Esse entrano così profondamente in noi da conferirci un’interiorità nuova mettendoci in comunicazione con l’interiorità stessa di Dio. Esse ci fanno vivere e agire nella comunione del Padre, con il Figlio e nello Spirito, e al tem­po stesso aprono i canali che condurranno la grazia in tutte le parti del nostro essere, fìn nel nostro cuore e nel nostro corpo. La preghiera, per esempio, che noi rivolgiamo al Padre, d ispira atteggiamenti e gesti in armonia con essa, che fanno del nostro corpo uno strumento dello Spirito Santo, come mostra il celebre quadro dei nove modi di pregare di san Domeni­co. Così le azioni più umili, le più banali in apparenza, come le pulizie o le cure prestate, pos­sono diventare atti di fede e d’amore irrigati dalla grazia.

Questa è l’opera in noi delle virtù teologali organicamente unite alle virtù morali. Insieme es­se trasformano la nostra vita interiore e contribuiscono a formare la nostra esperienza spirituale.

L’agire teologale come indice dell’azione della grazia

Se è vero che le virtù teologali s'incarnano, come abbiamo appena visto, e compiono la lo­ro opera nelle nostre azioni concrete e nell’intero corso della nostra esistenza, disponiamo in questo caso di un dato di esperienza solido che ci permette di scoprire il lavoro e di disceme- re le vie della grazia nella nostra vita, secondo l’adagio evangelico per cui si giudica l’albero dai suoi frutti.

Senza alcun dubbio la meditazione del Vangelo, la pratica regolare della preghiera e dell’invocazione, le letture e le conversazioni spirituali possono illuminarci sull’azione della grazia; ma esse sarebbero assolutamente insufficienti e resterebbero ambigue senza l’espe­rienza dell’agire, senza l’effettiva applicazione della fede e della carità nella vita quotidiana. È lì che queste virtù diventano una realtà per noi e si rivelano attraverso i cambiamenti che esse operano in noi. Noi disponiamo in tal caso di «fatti di vita», tanto sicuri per chi li ha vissuti quanto dei fatti materiali. Essi hanno inoltre per noi una forza più grande, poiché ci toccano più profondamente. Il cristiano che dà uno sguardo alla sua vita può così vedere gli avveni­menti spirituali susseguirsi un po’ come dei sassi gettati da un viandante lungo la sua strada;

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essi testimoniano il suo passaggio e la direzione che egli ha preso. Così la fecondità di un atto di fede in cui si è impegnato il proprio futuro, che ormai ci illumina e sostiene le nostre forze, la fruttificazione di un fia t d ’amore che ha cambiato il nostro cuore, e tanti altri benefici rice­vuti grazie all’adesione alla Parola di Dio, che manifestano al cristiano l’efficacia delle virtù teologali e l’opera della grazia. Simili esperienze costituiscono, a loro modo, delle dimostra­zioni, o piuttosto delle «ostensioni» dell’azione divina, tanto più efficaci e «percepibili dal cuore» quanto più il loro effetto persiste e aumenta, se vi rimaniamo fedeli.

Ma questo genere di argomenti ha una sua natura propria: non si può comprenderli che dall’interno, a partire dall’impegno nella fede che li ha prodotti. È da questo centro che si ir­radiano e mostrano la loro forza, assumendo solitamente la forma della testimonianza. Questa è la materia prima della spiritualità come la si trova esposta nei migliori autori; essa si fonda sull’esperienza dell’agire nelle sue molteplici dimensioni. L’esperienza cristiana ha pertanto molti tratti comuni con l’esperienza morale comune, ma l’intervento delle virtù teologali le procura una dimensione spirituale che possiede caratteri propri.

Un’esperienza di fede

Innanzitutto l’esperienza teologale si basa sulla relazione con un Altro nell’invisibile: la fe­de in Dio, il cui mistero supera ogni intelligenza, ma che si rivela in Gesù Cristo; la speranza nella grazia e nelle sue promesse che oltrepassano e spesso sconcertano le nostre attese; infine la carità che ci unisce intimamente a Dio, ma nel segreto, al di là dei sentimenti. Si potrebbe dire che la vita cristiana realizza questo paradosso: darci l’esperienza di ciò che non è speri­mentabile. È quanto diceva il profeta nel suo linguaggio concreto: «I mici pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie... Quanto il ciclo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre, i miei pensieri sovrastano i vostri» (Is 55,8-9). San Paolo dirà, ri­prendendo un altro passo di Isaia: «[Noi annunciamo] quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo» (lCor 2,9). È quanto la teologia tradurrà affermando che non possiamo avere l’esperienza diretta della grazia perché essa è sopranna­turale. Così l’esperienza cristiana, nata dalla fede, avverrà sempre su questa terra in un conti­nuo movimento della fede verso il Dio invisibile. Si può anche osservare che più la fede cre­sce in noi e meglio percepiamo la distanza che ci separa da Dio, con una coscienza più chiara della nostra debolezza e della necessità della sua grazia. Più si approfondiscono così le nostre ragioni di credere e meglio comprendiamo le ragioni che ci sarebbero di non credere.

Tuttavia la Parola di Dio è risuonata alle nostre orecchie; Dio si è reso visibile ai nostri oc­chi e tangibile alle nostre mani in Gesù Cristo secondo la testimonianza di san Giovanni: «Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita..., noi lo annunziamo a voi» (lGv 1,1). Già Isaia prediceva, dopo aver richiamato la superiorità delle vie divine: «Come infatti la pioggia e la neve scen­dono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza avere operato ciò che desidero e sen-

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za aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (55,10-11). Questa profezia si compie pienamen­te nella missione del Verbo di Dio, la cui Parola diventa un seme fecondo nella vita di coloro che lo accolgono con fede.

La potenza della parola di Cristo che agisce nel cuore dei fedeli mediante la grazia dello Spirito Santo genera in essi l’esperienza cristiana in ciò che essa ha di specifico. Quest’ultima non implica una percezione diretta della grazia, né dell’azione di Dio nell’anima, a causa della sua infinita discrezione. Ma noi possiamo sorprendere nell’esperienza globale della nostra vi­ta di fede quali sono gli effetti della grazia, i benefìci della sua azione e i frutti dello Spirito che opera in noi: il perdono, la guarigione, la bontà, la costanza, la pace, la gioia. Essi appaio­no più chiaramente quando li si esamina alla luce del Vangelo, nella loro corrispondenza con l’insegnamento del Signore e degli apostoli, nella testimonianza dei santi. In tal modo, pren­dendo coscienza dell’opera della fede in noi, paragonabile alla lenta crescita di un seme, pos­siamo percepire, come per rifrazione, il paziente lavoro della grazia di Dio e discemere le vie spesso sorprendenti in cui essa ci conduce. Così possiamo ammirare come Dio si sia avvicina­to a noi in Cristo.

Il linguaggio concreto della Scrittura

Noteremo qui una particolarità del linguaggio della Scrittura che lo rende particolarmen­te adatto a servire da nutrimento per la vita spirituale. A differenza dei nostri modi di pensare e di parlare moderni che si collocano sul piano delle idee astratte e distinte, la Scrittura ci ri­porta a contatto deU’esperienza concreta, con la sua ricchezza e le sue connessioni. Il termine «povero», per esempio, non sta a significare soltanto l’idea di una povertà materiale o spiri­tuale; esso designa l’esperienza vissuta della povertà con i suoi riflessi a tutti i livelli, tanto che abbiamo bisogno di numerosi termini per descriverla: la povertà implica l’umiltà, la modestia, lo spirito semplice, la docilità, il bisogno e la fame di Dio, ecc. L’esperienza è come un centro intorno al quale si ruota per mostrarne le molteplici facce, ed essa implica sempre nella Bib­bia. espressa o no, la relazione con Dio inscritta nel profondo. L’esperienza della vita di fede ci pone esattamente su questo piano e ci mette in sintonia con questo linguaggio che è pro­priamente spirituale. È una lingua globalizzante e vivente, le cui parole sono piene di suggeri­menti e feconde di significati per chi sa ascoltarle. Perciò la Scrittura ha potuto e ancora può generare i sensi spirituali, mentre il nostro linguaggio astratto e tecnico, che non sa dire ciò che dice, finisce per impoverirsi e perdere la sua forza evocativa.

Un’esperienza nella docilità

Abbiamo insistito sul carattere dinamico dcU’espcricnza morale. Anche l’esperienza spiri­tuale prodotta dalla fede lo possiede, e in misura ancora maggiore, poiché ci innesta, in un certo senso, nell’azione creatrice e vivificante della grazia di Dio e riceve da quest’ultima una forza nuova. Da una parte, le virtù teologali esigono da noi un impegno totale che si prolunga nello sforzo morale con l’aiuto delle virtù acquisite; dall’altra, esse ci insegnano la docilità

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all’azione divina, per mezzo di un atteggiamento interiore che si è potuto qualificare come passivo e che è propriamente un’attitudine innata a ricevere gli impulsi dello Spirito Santo.

San Tommaso, sulla scia di Macrobio, pone la docilità tra le parti cosiddette integranti della prudenza (ii-ii, q. 49, a. 3). Come quest’ultima, la docilità è una virtù intellettuale e pra* tica; essa si situa nel quadro delle relazioni tra discepolo e maestro e si riferisce in particolare all'acquisizione della sapienza mediante l’esperienza. Secondo Aristotele, «bisogna por mente alle asserzioni e opinioni non dimostrate degli uomini esperti e vecchi o saggi non meno che alle dimostrazioni; infatti essi, avendo la vista esercitata dall’esperienza, vedono rettamente» (Etica Nicomachea vi, 11,1143b). Notiamo che la docilità è, come la prudenza, una virtù della ragione; ma essa determina la disponibilità della volontà, dell’affettività.

Trattando dell’esperienza cristiana, possiamo dare un senso più ampio alla docilità ed ele­varla al livello teologale. Lo stesso san Tommaso spiega la fede secondo la relazione discepo­lo-maestro, come l’assenso e la docilità all’insegnamento di Dio, necessario per giungere alla scienza perfetta, alla visione beata (cfr. i i-ii, q . 2 , a. 3). Egli precisa che la fede ci dà una certa luce interiore per distinguere tra ciò che concorda con essa e ciò che le è contrario.

Dato che la fede è una docilità dell’intelligenza, la carità sarà una docilità del cuore: l’una completa l’altra per formare la sapienza spirituale, che si eserciterà negli atti concreti in cui si acquisisce l’esperienza.

Questa docilità si rivolge a Cristo come Maestro di vita, in particolare nel Discorso della montagna, e allo Spirito Santo, come Maestro interiore nella Legge nuova. Si può cosi mette­re la docilità in relazione con l’obbedienza evangelica, poiché ne costituisce una forma, ma essa si rivolge a colui che insegna più che a colui che comanda. Da questo punto di vista la fe­de è un’obbedienza pronta, che ci rende capaci di agire secondo Dio nelle opere più semplici, come in quelle più audaci e coraggiose.

Sensi spirituali e conoscenza per connaturalità

In questa esperienza recettiva e attiva si sviluppano in noi i sensi spirituali: lo sguardo, l’udito, il tatto, il gusto, l’odorato5. Essi ci procurano una certa percezione delle realtà spiri­tuali e si esercitano in rapporto diretto con le virtù e i doni. Ogni virtù infatti—e tutte insie­me—forma in noi una «connaturalità» rispetto al suo oggetto, un certo senso di ciò che è uti­le nel suo ambito, una sorta di intuizione per giudicare ciò che si deve fare. L’esempio classi­co è quello dell’uomo casto, che sa valutare gli aspetti della sessualità meglio dì un erudito moralista, grazie alla finezza e alla purezza che ha acquisito. Si può vederne un esempio nel discorso che sant’Agostino attribuisce alla continenza nel momento della sua conversione (Conf. vili). Lo stesso vale sul piano intellettuale o artistico, poiché chi ama un mestiere, un’arte o una scienza è normalmente il più adatto a giudicare ciò che conviene fare, a motivo della sua esperienza.

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5 Cfr. A. Solignuc, L’application des sens, in NRTh 80 (1958), pp. 726ss.

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L’osservazione si applica anche alle virtù teologali e ai doni, ma in un senso particolare. In­fatti noi non abbiamo alcuna «connaturalità» attiva rispetto alle realtà divine a causa della di­stanza infinita che ci separa dal Creatore. Dio solo, per pura grazia, può procurarci una tale connaturalità. Essa avrà come fondamento la «partecipazione alla natura divina» in Cristo (2Pt 1,4) e la filiazione adottiva nello Spirito «grazie alla quale gridiamo: Abba, Padre» (Rm 8,15). Essa si concentrerà nella carità che realizza la nostra unione affettiva con il Padre. Da questa connaturalità neH’amore deriverà proprio il dono della sapienza, come testimonia san Paolo: «parliamo di una sapienza divina... A noi Dio l’ha rivelata per mezzo dello Spirito... I segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio... Di queste cose noi parlia­mo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, espri­mendo cose spirituali in termini spirituali. L’uomo spirituale giudica ogni cosa...» (lCor 2)4.

La connaturalità d ’amore e di sapienza è il miglior dono dello Spirito Santo. Essa è all’ori­gine del giudizio e dell’esperienza spirituali. Essa assume tutte le «connaturalità» create dalle altre virtù e ne ispira i giudizi. Così radunate nella carità, le virtù formano in noi il senso spiri­tuale, la sapienza contemplativa e pratica che ci rivela le vie di Dio nella nostra vita e per i no­stri fratelli nella Chiesa. Questa è la sapienza che ha ispirato le Confessiortes di sant’Agostino e, in generale, le opere degli autori spirituali e mistici: sono dei modelli, un richiamo per mol­ti, e si inseriscono spesso in una missione ecclesiale ben definita.

La profondità «sostanziale» della vita spirituale

L’esperienza dclT«uomo interiore» è vasta. Possiamo distinguere in essa le varie dimensio­ni enumerate da san Paolo per descrivere l’interiorità. Sembra tuttavia che la profondità sia quella che meglio esprime l’interiorità della vita spirituale. Per mostrare a quale profondità essa si sviluppi, potremmo riprendere un termine oggi troppo spesso scartato dal vocabolario cristiano, quello di «sostanza». Esso è assai appropriato, se lo si comprende bene, per desi­gnare la vita che si svolge dietro le apparenze, nella profondità delle cose e più particolar­mente nello spessore del nostro essere, in quanto persona. Secondo l’etimologia della paro­la—sub-star e, stare al di sotto— «sostanza» ha due sensi principali: ciò che è permanente in un soggetto suscettibile di cambiamento, e ciò che esiste di per sé sotto gli «accidenti». Ora, questi sono proprio gli attributi della persona: dalla nascita alla morte, essa sussiste (si man­tiene sotto) e rimane attiva sotto i cambiamenti e il flusso del tempo; crea l’unità di una vita. Io mi riconosco, e talvolta con quale intensità, negli avvenimenti e nelle scelte della mia infan­zia: essi sono entrati nella mia sostanza. Allo stesso modo la persona, agendo per se stessa, li­beramente, dimostra la sua capacità di darsi l’essere mediante la qualità morale o di perderlo lasciandosi corrompere, abbandonandosi alla vacuità interiore.

La «sostanza» non si oppone dunque alla persona, tutt’al contrario. Il termine può perfet­tamente designare ciò che di più fondamentale vi è in essa, la mente dotata del senso dell'es-

4 Per l’unione del dono di sapienza con La carità a causa della connaturalità alle realtà divine che que- st’ulrima procura, cfr. Ii-u, q. 45, a. 2.

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sere e della vita che resiste al tempo, l’anima con la sua aspirazione al bene e alla verità che ordina il tempo, la ricerca della solidità e della virtù che edifica l'esistenza.

La grazia di Dio ci raggiunge nella nostra stessa sostanza, alla radice della nostra persona­lità, per metterci in comunicazione di vita con la «sostanza» divina che sostiene ogni essere nell’esistenza e nella quale «noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo», come diceva Paolo nel suo discorso davanti all’Areopago (At 17,28), e ciò si applica principalmente alla vita dello spirito nella fede e nell’amore. In realtà non possediamo termini concreti per designare realtà così essenziali e dobbiamo spesso passare al registro dell’astratto per esprimere ciò che ci toc­ca più intimamente, oppure dobbiamo usare simboli, figure o parabole per far intendere ciò che per noi vi è di più reale.

Sant'Agostino, come molti altri, ha cercato di descrivere la penetrazione della luce della grazia nel suo spirito. Ha usato i tratti di cui abbiamo appena parlato: «Questa luce... era più in alto di me, poiché fu lei a crearmi, e io più in basso, poiché fui da lei creato. Chi conosce la verità, la conosce, e chi la conosce, conosce l’eternità. La carità la conosce». Seguono poi la notazione psicologica e l’appello alla crescita spirituale: «A te sospiro giorno e notte... mi sol­levasti verso di te per farmi vedere come vi fosse qualcosa da vedere, mentre io non potevo ancora vedere... Mi pareva di udire la tua voce dall’alto: ‘lo sono il nutrimento degli adulti. Cresci e mi mangerai;... tu ti trasformerai in me’». Infine la certezza: «Tu mi gridasti da lon­tano: ‘Anzi, io sono colui che sono’. Queste parole udii con l’udito del cuore... Mi sarebbe stato più facile dubitare della mia esistenza che dell’esistenza della verità» (Con/, v i i , 10,16).

Queste sono le relazioni, sostanziali e personali, che san Giovanni ci descrive, in un lin­guaggio più familiare, come una dimora nell’amore: «In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi... Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui... Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa» (Gv 14,20-26). L’evan­gelista mette così alla portata di tutti la dottrina dell’inabitazione trinitaria, che sarà una fonte primaria della spiritualità cristiana.

A leggere questi testi, spontaneamente viene alla mente la parola della Scrittura: «Quale grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (Dt 4,7). Tuttavia tali testimonianze mostrano sempre, in rapporto con questa prossimità, l’estrema distanza che esiste tra l’uomo e Dio, costituendo ciò che si potrebbe chiamare lo spazio della fede in cui si svolge la vita spirituale su questa terra. Sotto la luce di Dio che lo illumina, Agostino, che abbiamo appena citato, scopre di essere lontano da Dio nella terra della dissomiglianza (regio dissimilitudinis), e ne trema d’amore e d ’orrore. Allo stesso modo l’insegnamento di san Giovanni si pone alle soglie della Passione, nel qua­dro dell’annuncio che Gesù fa della sua partenza: «Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete, ma come ho già detto ai Giudei, lo dico ora anche a voi: dove vado io voi non potete venire» (13,33).

Si tratta di diversi modi per dire che la grazia di Dio in noi, mentre da una parte ci dà l’es­sere e la vita, resta tuttavia fuori della nostra portata e rimane nascosta nel mistero di Cristo, nel segreto del Padre. Similmente l’opera della grazia che si compie per noi nell’esercizio del-

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le virtù e dei doni, nel progresso della vita spirituale, ci resta misteriosa malgrado le illumina­zioni che ne riceviamo e l’esperienza assai reale che ne acquisiamo. Dobbiamo sempre cam­minare accettando nel miglior modo possibile la sorprendente mescolanza del visibile e dell’invisibile, della luce e delle tenebre, del caldo e del freddo, delle gioie e delle tristezze, che appartiene alla condizione del credente su questa terra. In realtà è una fortuna e una pro­tezione, poiché non saremmo in grado di sostenere lo splendore della grazia e abbiamo biso­gno, per camminare con essa, che l’ombra della fede ci ripari. Come scrive san Paolo ai Filip- pesi: «Combattete unanimi per la fede del vangelo, senza lasciarvi intimidire in nulla dagli av- versari... Ciò parte da Dio; perché a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cri­sto, ma anche di soffrire per lui» (1,27-29). L’oscurità in cui si nasconde la grazia ci offre an­che l’occasione di presentare al Signore, secondo la nostra piccola misura, le semplici offerte della nostra fede e del nostro amore, pur sapendo che non potremmo assolutamente farlo se, con estrema delicatezza, la grazia non fosse già lì presente per ispirarci e per sostenerci.

La conoscenza di Dio «visto di spalle»

Si potrebbe esprimere la nostra attuale relazione con la grazia dicendo che su questa terra non possiamo vedere in faccia Dio, ma solo di spalle, secondo il racconto dell’incontro di Mosè con il Signore sulla montagna. Mosè aveva rivolto a Dio questa preghiera: «Mostrami la tua gloria!», e il Signore gli rispose: «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano fin­ché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può ve­dere» (Es 33,21-23).

Noi possiamo vedere il Signore solo di spalle, cioè quando è passato, quando ha compiu­to la sua opera nella nostra vita. Il Cardinal Newman vedeva in questo un principio generale dell’azione di Dio nella Scrittura e nel mondo. «Quando Dio viene a noi o interviene in que­sto mondo, noi non ne percepiamo la presenza nel momento stesso in cui essa è in noi o in mezzo a noi, ma solo in un secondo tempo, quando diamo uno sguardo indietro ed esaminia­mo ciò che è accaduto e ciò che è ormai finito»5.

Aggiungiamo tuttavia che esistono nella vita cristiana alcuni momenti privilegiati e decisi­vi in cui la grazia di Dio diventa tangibile nella sua Parola che ci tocca più profondamente, d illumina e ci muove molto più fortemente di qualsiasi parola umana. Ma queste illuminazioni non durano che un istante e non si possono riprodurre. Esse tuttavia manifestano la loro realtà mediante la permanenza del loro influsso sulla nostra vita.

L’esperienza mistica

Ci resta da dire una parola sul rapporto tra l’esperienza della vita di fede, di cui parliamo,

5 Parocbial and Plain Serm oni, «Christ manifested in Remetnbrance», voi. iv, n. xvil, London 1868. Questo sermone anglicano è stato predicato il 7 maggio 1837.

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e l’esperienza mistica. Come mostra il Mouroux (op. cit., pp. 52-56), nella vasta letteratura sull’argomento si c troppo messa da parte Pespericnza mistica, considerandola come un’espe­rienza diretta del soprannaturale sotto forma di passività cosciente, il pati divina, mentre l’esperienza cristiana comune permette tutt’al più di congetturare lo stato di grazia. Si è an­che arrivati a riservare il termine di esperienza agli stati mistici a causa del loro carattere straordinario, dimenticando che essi si inseriscono nel quadro ordinario della vita di fede. La differenza si è accentuata per la separazione che si è prodotta, tra i teologi, tra la morale e la mistica, visto che l’una si rivolge a tutti ed è sufficiente, in linea di principio, con un po’ d ’ascesi, mentre l’altra è destinata ad alcuni privilegiati della grazia.

È chiaro che gli stati mistici non sono riservati alla maggioranza dei cristiani; ma forse li si è troppo dipinti dal loro lato soggettivo, come un insieme di sentimenti provati, di impressio­ni ricevute, di rappresentazioni vissute in un modo speciale. Considerando questi stati dal lo­ro lato oggettivo, in cui si situa la loro causa primaria—cioè Cristo con la sua grazia, lo Spiri­to nei suoi impulsi, la presenza del Padre, l’apporto della Scrittura, senza dimenticare la co­munione della Chiesa—, si percepirebbe meglio il radicamento della mistica nella fede e nella carità di tutti.

D’altronde si è troppo limitata l’esperienza cristiana comune al sentimento religioso, all’ascesi imposta dall’obbedienza ai comandamenti e alla pietà esercitata dalle devozioni. Non si è stati abbastanza attenti alle aspirazioni e ai movimenti spirituali che suscita le fede vissuta c che nutre la carità. Non si è quasi più parlato dei doni dello Spirito Santo che è all’opera nel cuore dei credenti per introdurli nel mistero di Cristo. I fedeli non sono stati sufficientemente educati a ricercare questo mistero nella Scrittura e nella liturgia, che offrono ai più umili una via d’accesso diretta alla mistica più autenticamente cristiana.

È utile dunque ristabilire una continuità tra le esperienze mistiche e l'esperienza della vita di fede, che del resto non è comune e ordinaria se non in apparenza, per i nostri occhi miopi; infatti che cosa vi è di più straordinario che credere veramente in Gesù crocifisso come in un Salvatore, come nel Figlio di Dio? San Paolo lo definisce una follia, agli occhi degli uomini. La vita mistica è uno dei frutti maturi della carità e dell’intelligenza che crede. Essa si accorda perfettamente con la vocazione del cristiano che lo Spirito spinge interiormente a ricercare la conoscenza dell’«amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza» e che già abita nei nostri cuori mediante la fede, come una radice e un fondamento (Ef 3,17-19). Abbiamo bisogno di ricuperare la sensibilità spirituale che danno l’esperienza della fede e il tatto dell’amore. L’at­trattiva che esercitano su molti lettori le opere dei mistici sta a indicare che la comunicazione non è interrotta, che l’aspirazione spirituale permane ancora in maniera piuttosto diffusa, an­che in alcuni non credenti incuriositi da una tale esperienza.

Resta il fatto che le esperienze soggettive riferite dai mistici sono piuttosto rare. Esse fan­no parte delle grazie che lo Spirito Santo distribuisce in tutta libertà. Perciò conviene applica­re ad esse la dottrina di san Paolo: sono doni che, per quanto siano personali, hanno lo scopo di promuovere la vita spirituale nella Chiesa, come una testimonianza, una luce, un esempio. Anche queste grazie restano nascoste nell’intimità della preghiera, agiscono efficacemente nella comunione dei santi.

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In ogni caso non bisogna mai dimenticare che il dono principale dello Spirito è la carità che è infusa in ciascuno di noi con la fede e che è, senza alcun dubbio, la più mistica delle virtù, poiché ci introduce realmente nell’intimità del Padre, come suoi figli, in Cristo.

Indicazioni bibliografiche

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Capitolo ottavo LA FEDE IN CRISTO,

RADICE DELLA VITA SPIRITUALE

La grazia donata dalla fede in Cristo

«L’elemento principale della Legge del Nuovo Testamento, nel quale sta tutta la sua forza, è la grazia dello Spirito Santo donata dalla fede in Cristo», ci dice san Tommaso. La fede in Cristo è dunque il principio e la radice della vita spirituale nel cristiano; essa implica l’inse- gnamento del Vangelo, poiché esso è stato scritto, secondo san Giovanni, «perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio» (20,31). Questa è anche la dottrina di san Paolo nella sua lettera ai Romani: «Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco» (1,16). Lo stesso vale per la lettera agli Ebrei che passa in rassegna la fede dei patriarchi, dopo la Parola creatrice e il sa­crifìcio di Abele, passando attraverso la fede di Abramo e di Mosè per arrivare alla fede in Gesù: «Tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede, il quale in cam­bio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio» (Eb 11 e 12,2). Questi esempi illustrano la definizione della fede che diventerà classica in teologia: «La fede è il fondamento delle cose che si spera­no e prova di quelle che non si vedono» (11,1).

La fede e la scienza

Per comprendere questo insegnamento e metterlo in pratica, noi oggi abbiamo bisogno di riflettere sulla natura della fede e di confrontarla con la scienza che domina le menti e plasma il nostro mondo, per discernere la differenza e mettere in evidenza le peculiarità della fede. Infatti resta grande la tentazione di opporre la ragione scientifica alla fede e di situare que- st’ultima nel campo dell’irrazionale, dove regnano il sentimento e l’immaginazione. Noi dob­biamo riscoprire come l’atto di fede, che sta all’origine della vita spirituale, contenga in sé una luce propria, distinta dal sapere scientifico.

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La vita spirituale del cristiano

Potremmo esprimere il problema applicando alla fede la confessione che faceva Newman nel considerare lo spettacolo del mondo e lo stato della cultura nell’Europa del XIX secolo: «Partendo dunque dall’esistenza di Dio (della quale, come ho già detto, io sono certo come sono certo della mia stessa esistenza anche se, quando cerco di dare una forma logica ai moti­vi della mia certezza, ho difficoltà a trovare discorsi ed immagini soddisfacenti) io guardo fuori del mio io, al mondo degli uomini, e vedo uno spettacolo che mi riempie di sgomento indicibile. Sembra che il mondo smentisca in pieno quella grande verità che permea tutto il mio essere; con un effetto, logicamente e necessariamente, così sconcertante per me come se sentissi negare la mia propria esistenza» (Apologia, cap. v).

Come potremmo consacrare la nostra vita alla fede e seguire il suo slancio se essa ci appa­re estranea alla ragione? Siamo così condotti a una riflessione sul metodo riguardo alla fede, simile a quella di Cartesio nel suo famoso Discorso sul metodo, che ha contribuito alla forma­zione delle scienze moderne descrivendo l’atteggiamento mentale che l’avrebbe guidata. È proprio qui che si è operata la scissione tra la ragione «scientifica» e la fede. Dobbiamo risali­re Fino a questo punto per distinguere l’atteggiamento «razionale» e l’atteggiamento credente, e per mostrare che, malgrado le differenze, l’uno non esclude necessariamente l’altro.

Una riflessione sul metodo: il dubbio e la fede, la scienza e la sapienza

Il punto di partenza del metodo cartesiano contiene in germe tutto il dibattito: «U primo [precetto] era di non accogliere per vera alcuna cosa che non conoscessi esser tale con evi­denza». Si noti il radicalismo della formulazione: «Non accogliere per vera alcuna cosa». La sua perentorietà colpisce direttamente la fede poiché essa consiste proprio nell’accettare co­me vere delle cose che non si vedono, di cui non si può avere l’evidenza, almeno in questo mondo, che non possano dunque entrare in «catene di ragioni, semplici e facili», che si pre­stino a «enumerazioni complete» e a «rassegne generali», poiché, non essendo manifeste, ne spezzerebbero la concatenazione e vi seminerebbero il dubbio.

Il precetto iniziale della scienza secondo Cartesio implica dunque un’esclusione della fede per principio di metodo. Questa separazione non pregiudica la fede personale del filosofo, ma qucst’ultima, come ogni forma di fede, c scartata dal metodo che egli utilizzerà per rico­struire la filosofia e fondare la scienza.

Il fossato tra la fede e la scienza si farà più profondo quando al metodo cartesiano si asso- cerà il metodo sperimentale per concentrare il lavoro della ragione sui dati dell’esperienza sen­sibile, sui «fenomeni», per scoprirne, con l’ausilio dei matematici, le leggi determinanti e rico­struirne il meccanismo. L’atteggiamento caratteristico dello scienziato diventerà quello dell’os­servatore che si pone aU’cstcmo della materia che esamina eliminando, per scrupolo scientifi­co, ogni elemento di ordine soggettivo. La ricerca si svolge allora come se nulla possa essere ri­conosciuto come vero, se non è provato da un’osservazione e da una dimostrazione rigorose.

Ora, la fede non solo ha come oggetto delle realtà non evidenti, non dimostrabili con il ragionamento o l’osservazione, ma esige anche per sua stessa natura e per metodo, si può di­re, l’impegno del soggetto che noi siamo verso l’oggetto che ci è proposto, come nei confron­

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La fede in Cristo, radice deila vita spirituale

ti della persona che ce lo dà per vero. Il credente non può restare a distanza come un osserva­tore; è necessariamente coinvolto come attore a partire dal consenso che dà alla parola di un Altro. Tra la fede e la scienza cartesiana esiste dunque una differenza metodologica di fondo, che ispira due atteggiamenti, l’uno che elimina il soggetto e l’altro che lo implica. Questi due modi di affrontare la realtà diventano tuttavia incompatibili solo se si assolutizza il metodo «scientifico» a discapito della fede, il che alla fine danneggia la scienza stessa indirettamente, poiché lo scienziato, come ogni uomo, non può vivere e agire, anche nella pratica della scien­za, senza una certa fede implicita negli altri uomini e nel reale che lo supera.

L’intelligenza della fede e il suo metodo.Il discepolo e il maestro

Ciò che ci interessa, per parte nostra, è mostrare che la fede implica propriamente, essa pure, un atto della ragione, ma di un altro genere di quello che presiede alle scienze. Noi lo chiameremo intelligenza. Essa genera un altro tipo di sapere che si chiama sapienza, la quale si acquisisce seguendo un altro metodo che non si fonda su esperienze esteriori, ma sull’espe­rienza interiore e personale. La «scienza» guida la tecnica; la sapienza forma l’azione morale e orienta la vita. Questa distinzione ci è necessaria per comprendere come la fede in Cristo ge­neri la vita spirituale comunicandoci l’intelligenza del suo insegnamento e la conoscenza della sua persona. La sapienza di cui tratteranno gli autori spirituali e i teologi non rifiuta la scien­za, anzi può favorirla e utilizzarla; ma essa è di un altro ordine, al quale ci introduce proprio la fede. Cerchiamo dunque di scoprire come procede la fede. Non è facile comprenderlo e spiegarlo perché abbiamo a che fare con i movimenti più profondi della mente e del cuore.

Per spiegare il metodo proprio della fede, partiremo da una riflessione che ciascuno può fare nel momento in cui è sollecitato a concedere la sua fede (in particolare alla Parola di Dio): se si suppone che la verità che mi è proposta supera la capacità attuale della mia intelli­genza, come avverto istintivamente (Gesù è il Figlio di Dio), è chiaro che potrei arrivarvi solo se comincio ora a dare credito alla parola di colui che mi presenta questa conoscenza e che può guidarmi verso di essa perché la possiede pienamente (l’evangelista). Al contrario, se ri­fiuto di credere, se mi fermo alla mia conoscenza attuale (Gesù è un uomo che è vissuto al tempo di Augusto), col pretesto che essa sola è chiara e dimostrata, volto le spalle alla via che mi permetterebbe di accedere a un’intelligenza superiore, più profonda, più matura (alle ric­chezze del mistero di Cristo). Una tale riflessione vale soprattutto quando la conoscenza pro­posta supera la capacità della ragione umana perché essa riguarda Dio che solo può rivelarsi a noi nella sua intimità e manifestarci il suo disegno su di noi.

Secondo questa riflessione, la fede nella parola riconosciuta diventa un principio di meto­do, una condizione del progresso dell’intelligenza e una fonte del sapere. Qui, al dubbio me­todologico che fa il vuoto davanti alla scienza ed esige la dimostrazione, occorre sostituire ciò che si può chiamare la fede metodologica che pone davanti a noi la pienezza di una parola ri­velatrice e ci apre la mente e il cuore per accoglierla.

Per chi coglie dall’interno il movimento della fede, troviamo qui un principio tanto certo

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quanto la riflessione di Descartes sul metodo. Sant’Agostino ne ha fornito la formula ispiran­dosi a un passo di Isaia, secondo i Settanta: «Nìsi credideritis, non intelligetis, se non credere­te, non comprenderete». Lo esprimerà anche in una forma positiva che guiderà la ricerca teo­logica posteriore: «Credo ut intelligam, credo per ottenere l’intelligenza». O ancora: «Non cercare di comprendere per credere, ma credi per comprendere»1. Sant'Ansclmo, più tardi, preciserà: «Chi non crederà, non comprenderà. Infatti chi non crederà non avrà l’esperienza, e chi non avrà l’esperienza non conoscerà» (De incarnatione Verbi, 4).

La fede costituisce perciò un atteggiamento specifico nella ricerca della verità; essa ci po­ne nel rapporto discepolo-maestro, fondamentale in pedagogia. Mediante la fede noi diven­tiamo discepoli di Cristo, discepoli di Dio. Nella fede inoltre ci mettiamo alla scuola di un maestro spirituale.

Così intesa, la fede non è assolutamente una virtù cieca, anche se ci fa camminare nell’oscurità e ci dirige verso l’ignoto. Al contrario, tutto il movimento della fede è finalizzato al progresso nella conoscenza, nella sapienza. Lo stesso vale se si considera la fede nel suo ini­zio. La fede trae infatti la sua origine dalla ricezione di un raggio di luce che orienterà tutto il proprio itinerario: la percezione attraverso una parola diretta, in uno sguardo unico, della ve­racità e della superiorità di Colui che ci spinge alla fede e ci promette l’intelligenza del suo «mistero». La fede si avvia dalla verità ricevuta in germe, in un contatto semplice e forte della mente e del cuore, verso la verità piena, passando attraverso la prova caratteristica dell’alter­nanza di luce e di oscurità, tra le altre, di fronte a una scienza conquistatrice o all’ironia di quelli che dicono: «Dove il tuo Dio?».

In questa linea san Tommaso spiegherà la virtù di fede come una relazione tra discepolo e maestro, necessaria per ricevere la Rivelazione di Dio. Si fonderà sulla parola di san Giovan­ni: «Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me» (6,45), e su questo princi­pio pedagogico di Aristotele: «Chi vuole apprendere deve credere» (n-n, q. 2, a. 3). Amerà anche presentare Cristo come il Dottore per eccellenza: «Cristo è il primo e principale Mae­stro della dottrina religiosa e della fede» (ili, q. 7, a. 7).

Possiamo ora verificare questa prima riflessione sulla fede, in quanto fonte della vita spiri­tuale, a partire da esempi tratti dal Vangelo e dall’esperienza cristiana.

La luce della fede nella vocazione degli Apostoli

Vediamo come si fornii la fede nel caso della vocazione. Prendiamo la chiamata dei primi apostoli; essa è esemplare nei Vangeli: «[Gesù] vide Simone e Andrea, fratello di Simonc, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: ‘Seguitemi, vi farò

1 «Vuoi capire? Credi. Dio infatti per mezzo del profeta ha detto: ‘Se non crederete, non capirete’... Questo consiglio avevo dato: se non hai capito, credi! L’intelligenza è il frutto della fede. Non cercare dunque di capire per credere, ma credi per capire» (In Io. Evang. tr. 29, 6). Per altri riferimenti nelle prediche di Agostino, cfr. Bibl. august., t. 71, p. 895, e t. 72, p. 607. Si veda anche G. Bardy, Saint Augu- stin, Paris 1940, p. 511.

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diventare pescatori di uomini’. E subito, lasciate le reti, lo seguirono» (Me 1,16*18). Che cosa ha potuto avvincere fino a tal punto il cuore degli apostoli, se non un improvviso raggio di lu­ce interiore su Gesù prima di tutto, rivelandolo come il Maestro, e poi su loro stessi nello stu­pefacente destino che offriva loro inaspettatamente la sua promessa e che i fatti successivi confermeranno? Questo racconto, di un’estrema concisione, si pone nella linea della vocazio­ne di Abramo che esso ricorda: «Il Signore disse ad Abram: ‘Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò...’. Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore» (Gn 12,1-4). Anche qui una luce superiore è intervenuta. All’improvviso ha svelato ad Abramo i disegni di Dio su di lui e la lunga strada che avrebbe seguito, non sapendo dove andava, come dice la lettera agli Ebrei, ma illuminato da una fede che avrebbe trasmesso al popolo da lui generato.

Possiamo aggiungere il racconto di un’altra vocazione tipica, quella di Antonio, che di­ventò il padre dei monaci. «Pensando a queste cose [come gli Apostoli lasciassero la loro casa per seguire il Salvatore, come gli uomini di cui parlano gli Atti degli Apostoli vendessero i lo­ro beni e portassero il ricavato perché fosse distribuito ai poveri e come sia grande la speran­za riservata loro nei cieli], entrò in chiesa c gli accadde di ascoltare la lettura di un passo evangelico in cui sentì il Signore dire al ricco: ‘Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutti i tuoi beni e dalli ai poveri, e poi vieni, seguimi, e avrai un tesoro nei cieli’. Antonio, come se il ri­cordo dei santi gli si fosse presentato per ispirazione divina, e convinto che quel passo evan­gelico fosse stato letto per lui, uscì subito dalla chiesa... Vendette quindi tutti i beni mobili che possedeva e, ricavatone molto denaro, lo distribuì ai poveri. Conservò tuttavia un po’ di denaro per la sorella» (Atanasio, Vita Antonii 2,2-5).

Questi esempi, tanto più significativi in quanto sono serviti da modello nella storia e han­no ampiamente dimostrato la loro fecondità, contengono tutti gli elementi della fede. La fede è un sì personale dato alla chiamata di Dio, un’obbedienza pronta alla sua Parola nei fatti più che nelle parole. La fede ci impegna in un nuovo cammino di vita, ancora misterioso, ma illu­minato da una promessa che nutre la speranza e ormai orienterà, come un punto luminoso, il passo e lo sguardo rivolti verso il futuro.

A differenza della scienza che pretende di usare solo la fredda ragione, la fede esige la persona intera, la testa e il cuore; essa impegna il presente e il futuro nei confronti di un’altra persona che si rivela e che chiama. La fede è l’opera dell’intelligenza che riceve la luce e della volontà che acconsente al bene presentato sotto una forma adattata a ciascuno («Voi sarete pescatori di uomini»), ma sorprendente per la sua dimensione («Per mezzo tuo saranno be­nedette tutte le nazioni della terra»).

Se non crederete, non comprenderete

La conoscenza che implica la fede è dunque di una natura ben diversa da quella della co­noscenza scientifica: essa riguarda direttamente le persone e impegna la vita. Così non ci si deve stupire se il primo principio del metodo, in questo tipo di conoscenza, è così differente dal principio cartesiano, come abbiamo mostrato.

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«Se non crederete...». Effettivamente nella loro vocazione Simone e Andrea, come un tempo Abramo, si trovano bruscamente posti davanti a una verità, a un’idea di vita che li su­pera e li stupisce, che non avrebbero potuto nemmeno immaginare; essi non ne comprendo­no che il nucleo, il germe, al tempo stesso vicino al loro cuore e lontano davanti ai loro occhi. In quell’istante d’illuminazione, essi percepiscono chiaramente di essere incapaci di com­prendere tutto e di orientarsi da soli. Essi senza dubbio si accorgono che non possono esigere dimostrazioni né porre condizioni. Per loro argomentare, in quel momento, pretendere ragio­ni e segni alla loro portata equivarrebbe a rifiutare di credere, poiché credere consiste esatta­mente nell’abbandonare le proprie idee e i propri sentimenti, come Abramo lasciò il suo pae­se, gli apostoli il loro mestiere, per aprire le orecchie e il cuore alla Parola del Maestro che ri­vela i suoi disegni trascendenti.

La comprensione mediante la fede

«... non comprenderete». In positivo: se crederete, comprenderete. È una promessa. La fede non è dunque oscura, ma il suo «argomento» viene da oltre le nostre ragioni, da una lu­ce originale che assume nei confronti della ragione il ruolo di principio. È ciò che la lettera agli Ebrei chiama la prova o l’argomento delle cose che non si vedono. Così la fede ha molta più forza di convinzione che tutti i nostri ragionamenti, per quanto siano rigorosi, poiché me­diante il nostro consenso essa fa penetrare la luce spirituale sino al fondo del nostro cuore per formarvi una certezza fondata sulla roccia, capace di resistere ai venti e alle tempeste, co­me promette il Vangelo e come mostra l’esempio degli apostoli nella persecuzione.

È in questo modo che la fede ci fa «comprendere». Essa ci procura una forma di cono­scenza specifica che è il frutto proprio della «intelligenza», superiore alla ragione pensante. L’intelligenza designa quella facoltà che noi abbiamo di penetrare intuitivamente fino alla so­stanza delle cose, al di là dei segni e dei fenomeni; o anche essa è il dono di trapassare i di­scorsi, gli atteggiamenti e le azioni per raggiungere la persona che ci parla, facendocela cono­scere non più frammentariamente e poco alla volta, ma in se stessa, di colpo, nel suo insieme, e così «comprenderla» propriamente. In questo senso dire: «Vi ho compreso», significa mol­to di più che «Vi conosco». Parlando del dono d’intelligenza, san Tommaso la definisce mol­to bene, secondo un’etimologia latina, come la capacità di «intus-legere», di leggere un testo, di ascoltare un discorso, penetrando all’interno, fino al pensiero che esso significa, fino alla realtà che esso esprime, mentre la ragione scientifica si affatica ad analizzare minuziosamente frasi e documenti. La comprensione è una conoscenza globale, sintetica, non particolare e analitica, come nelle scienze positive. Essa stabilisce una relazione vitale, crea nelle persone un rapporto di stima e di simpatia che è alla base dell’amicizia, così come dell’amore; questa comprensione inoltre si perfeziona e si approfondisce con la comunicazione reciproca, con la condivisione e la comunione di vita2.

2 Possiamo anche appellarci alla distinzione che Pascal opera tra la conoscenza della verità mediante la ragione e mediante il cuore, a condizione di non ridurre quest’ultimo al semplice sentimento. Infatti

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Ora, per acquisire la «comprensione», per arrivare a leggere «all’interno» dell’altro, la condizione necessaria, da parte nostra, è di aprirci alla parola che ci è detta, di accettare che essa ci tocchi, ci muova e ci commuova. Non possiamo comprendere l’altro se non ci lascia­mo prendere da lui. Il moto della reciprocità, che è alla base dell’amicizia, è la condizione della comprensione. È proprio nell’atto di fede che comincia questo scambio: lasciando en­trare in noi la parola di Cristo e volgendo verso di lui lo sguardo del nostro cuore, noi ricevia­mo la capacità di conoscerlo a nostra volta e di comprendere il suo disegno su di noi, almeno inizialmente.

Così Simone e Andrea hanno compreso le parole di Gesù e la sua opera meglio di qual­siasi sapiente, esegeta o teologo. Nel momento in cui la voce di Cristo è risuonata ai loro orecchi, ha proiettato nella loro umile intelligenza una luce di fede che sarebbe aumentata attraverso le prove e avrebbe portato questi incolti pescatori ad amare il «mistero» che irra­diava da Gesù, a diventare i primi predicatori del Vangelo, i dottori autorizzati della Chiesa ai quali dobbiamo riferirci, ancor oggi, come ai custodi e ai dispensatori delle ricchezze del­la Rivelazione.

L’idea della fede

La luce spirituale che ha fatto nascere la fede degli apostoli e suscitato più tardi la vocazio­ne di Antonio, come di molti altri, può essere definita come un’idea di vita, il pensiero del Re­gno dei cieli; ma essa è legata a una persona, a Gesù, come l’idea della Terra promessa lo fu al Dio di Mosè. Una tale «idea» porta una luce così potente che dispone la vita intera del creden­te allo scopo superiore che essa propone. Tuttavia è assai diversa dalle idee chiare che sono il prodotto della nostra ragione e che si possono connettere con altre in una sequenza logica.

Ciò che noi chiameremo idea della fede è di un genere speciale: senza contraddirla, essa domina la nostra ragione con le sue opere e supera la sua logica. Si mostra al tempo stesso chiara e molto oscura. Essa è assai chiara quando si manifesta come una fonte di luce superio­re, capace di rovesciare le nostre ragioni a proprio favore e di suscitarne di migliori. Ma essa dura solo lo spazio di un istante privilegiato, perché subito la luce si attenua e sparisce ai no­stri occhi, lasciandoci nell’oscurità dove riprendono forza e contorni le nostre pallide idee e i

il cuore, inteso nel senso della Scrittura, ci procura una forma superiore di conoscenza, poiché sta al principio delle ragioni.

«Conosciamo la verità non solo con la ragione ma anche col cuore; ed è in questo secondo modo che conosciamo i primi principi, e inutilmente il ragionamento, che non vi ha parte, si industria di com- . batterli... Ed è tanto inutile e ridicolo che la ragione chieda al cuore di dar le prove dei suoi primi prin­cipi, per decidersi a prestare il suo assenso, quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa dimostra, per decidersi ad accettarle...

Per questo, coloro ai quali Dio ha concesso la religione mediante il sentimento del cuore sono ben fortunati e legittimamente convinti. Ma a coloro che non l'hanno, noi non possiamo darla se non col ra­gionamento nell’attesa che Dio gliela conceda per sentimento del cuore, senza di che la fede è puramen­te umana e inutile alla salvezza» (Pensieri, n. 282).

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nostri mediocri sentimenti. Resta, per sostenerci, il «ricordo amoroso» di quel momento di grazia efficace. È il tempo del cammino nella notte della fede dove l’«idea» si profila davanti a noi come un «mistero», pur continuando a esercitare il suo ascendente anche nella tenebra più nera, servendosi, tra le altre, della rete delle Scritture. Se le restiamo fedeli, essa attirerà verso di sé, a poco a poco, i nostri pensieri, i nostri progetti, e accrescerà la nostra capacità di comprendere. Questa è l’esperienza che ci narra magnificamente sant’Agostino, nel Vii libro delle Confessione*, nel racconto della visione di Milano.

La fede all’origine della vita e dell’amore

La scienza fabbrica dei meccanismi; la luce della fede forma in noi i movimenti della vita. Non si deve dimenticare infatti che ogni vita comincia con un atto di fede che la genera e poi la guida nel suo sviluppo.

Prendiamo l’esempio dell’amore coniugale che impegna gli sposi in una nuova esistenza e fa di essi dei donatori di vita. Come un uomo e una donna potrebbero legarsi per sempre sen­za un atto di fede estremamente personale che sta all’origine della loro unione? Al di là degli obblighi giuridici, degli interessi materiali e dell’attrattiva dei sensi, il loro più sicuro sostegno nella formazione di una famiglia, con tutti i suoi rischi, non consiste forse nella fede, nella sti­ma, nella fiducia reciproche?

Un fede di questo genere comporta una conoscenza dell’altro del tutto diversa dal sapere scientifico. È una percezione diretta, globale, intima della persona dell’altro rispetto a sé, con le promesse future che essa manifesta con le sue qualità, nella reciprocità. L’amore, che con troppa facilità si dice cieco, possiede, se è vero, una sorta di lucidità profetica che gli conferi­sce la sua migliore possibilità di riuscita. Come un’«idea» dinamica, questa conoscenza si si­tua al cuore stesso dell’amore e regola la sua crescita, grazie alla fedeltà che è la caratteristica propria della fede.

Questa è la fede coniugale di cui i profeti si sono serviti per parlarci dell’Alleanza di Dio con il suo popolo, come pure san Paolo per descrivere l’Alleanza nuova di Cristo con la Chie­sa e, per il suo tramite, con ogni credente. È nella fede che noi riceviamo la conoscenza inizia­le del mistero di Cristo e che si creano tra lui e noi i legami della carità mediante l’opera dello Spirito Santo. Tutto lo sviluppo della vita spirituale deriva da questa radice.

Una certa «idea»

Del fatto che la fede, anche di tipo umano, comporti una conoscenza propria, un’«idea» direttrice che guidi la vita e l’azione, troviamo una testimonianza notevole nella prima pagina delle Memorie di guerra del generale De Gaulle, scritte nel più puro linguaggio ispirato dal secolo di Cartesio.

La prima frase ci espone l’idea che dominerà l’opera: «In tutta la mia vita, ho sempre avu­to una certa idea della Francia». Ecco lo scopo, ecco la luce che chiama, secondo il titolo stes­so di questo primo volume, LAppello. Questa idea è chiara, ma non è formata dalla sola ra-

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gjone, come voleva Cartesio. In essa l’affettività si unisce al pensiero e addirittura occupa il primo posto: «[È] un’idea nutrita ugualmente di sentimento e di ragione. La parte di me che è sensibilità affettiva immagina naturalmente la Francia... come votata a un destino eccelso e straordinario». Per descrivere con maggiore chiarezza questa immaginazione naturale De Gaulle userà due termini assai precisi, ma di cui talvolta si ha paura: l’istinto e il genio; essi permettono di spalancare l’orizzonte in cui si inserisce l’idea: «D’istinto, sento che la Provvi­denza l’ha creata per successi compiuti o per sventure esemplari». Quanto alla mediocrità, es­sa è «imputabile agli errori dei Francesi, non al genio della patria».

Viene poi l’aspetto positivo e realista dell’idea, dove tuttavia è all’opera una ragione che va nettamente più lontano di quella delle scienze sperimentali: «Ma anche il lato positivo del mio spirito mi convince che la Francia non può essere se stessa se non rimanendo in prima fila... In- somma, secondo me, la Francia non può essere la Francia senza grandezza». Il senso della grandezza è in effetti una delle componenti della fede nella misura in cui è finalizzata a un grande disegno e ne riceve la sua ampiezza. Perciò essa ha bisogno di audacia: si deve osare credere al di sopra dei fatti e delle opinioni. La fede cristiana aggiungerà l’umiltà a questa gran­dezza, perché il disegno che essa ci propone è così grande che noi non possiamo nemmeno im­maginarlo; dobbiamo riceverlo nella disponibilità della mente e nell’obbedienza del cuore.

Ecco infine il termine che qualifica, da solo, l’insieme di questo testo e che ci interessa di­rettamente: «Questa fede è cresciuta con me, neH’ambiente in cui sono nato». Dunque si trat­ta proprio di una fede in un’«idea» capace di procurare una lucidità veramente profetica su­gli avvenimenti, così potente da generare un’azione che si imporrà a un popolo e gli riaprirà le porte del futuro dopo la più grave disfatta. Conviene sottolinearlo: è fin dalla prima infan­zia che questa fede si è formata, come confessa il generale, il che indica la sua profondità e spiega come essa sia quasi «una seconda natura».

Si deve proprio convenirne. Tutte le «idee chiare» accumulate da scienziati, storici, socio­logi, psicologi, politologi e altri, non avrebbero potuto, nel giugno del 1940, formare un‘«idea dinamica» paragonabile a quella del generale De Gaulle. Essi anzi molto probabilmente lo avrebbero condannato nella circostanza, poiché essa riguardava un altro livello, un’altra for­ma di conoscenza rispetto alla loro; ma il risultato ha ampiamente dimostrato quale fosse la sua forza di verità, la sua potenza di realtà, durante la lunga notte che dovette attraversare co­lui che la sosteneva.

La fede in Gesù Cristo

Abbiamo parlato di un’idea dinamica e vitale per definire la luce che origina la fede e la guida. L’idea è realmente l’oggetto proprio della conoscenza che trova compimento nella comprensione. Nella fede cristiana, tuttavia, l’idea si trasforma e prende corpo identificando­si nella persona di Gesù: la luce viene da lui e su di lui si incentra, le promesse del Regno si realizzano in lui. Cristo è nella sua persona l’oggetto diretto e centrale della fede.

Si può vedere chiaramente come gli apostoli fissino la propria fede sulla persona di Gesù nell’episodio della professione di fede di Simon Pietro (Mt 16,13ss.). Questo atto di fede ri-

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sponde alla domanda decisiva di Gesù, che è rivolta a ciascuno di noi: «Per voi, chi sono io?». Tutto il Vangelo si condensa in questa domanda. La risposta di Pietro, secondo san Matteo, è completa: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Gesù è il Messia annunciato dai profeti e atteso dal popolo eletto. Egli è quell’uomo, figlio di Maria, che sta là davanti a Simone e ai suoi compagni; ma è anche il Figlio del Dio vivente. Ecco la risposta che supera le altre, secondo le quali Gesù è un profeta, e anche il più grande. Essa rivela la sua identità e ci pone davanti al «mistero di Gesù», che la Chiesa difenderà contro tutti i tentativi compiuti dalla ragione umana per ridurlo alle sue dimensioni, alle sue idee. Per proteggere questa fede e mantenere il suo slancio, i primi concili elaboreranno alcune formule adattate alle esigenze: nato dal Padre prima dei secoli, Gesù gli è uguale e consustanziale; veramente uomo e vera­mente Dio, resta una sola e medesima persona nell’«unione ipostatica». In lui il mistero della Trinità si manifesta a noi e si rende accessibile ai più umili nella fede, introducendo nei cuori la fonte della vita divina mediante il dono della grazia. Tutta l’energia della fede cristiana è raccolta nella formula semplice e densa della professione di Simon Pietro: è più esplosiva di una bomba, poiché fa saltare tutte le categorie umane in cui noi vorremo rinchiudere la per­sona di Gesù; essa le spezza tirandole verso quelle due estremità che noi non possiamo conce­pire come unite: egli è figlio di una donna ed è Figlio di Dio.

Una fede soprannaturale

Gesù stesso precisa che una tale conoscenza non può venire «dalla carne c dal sangue», cioè dal pensiero dell’uomo, quale che sia il suo genio. Essa può venire solo «dal Padre mio che sta nei cieli», mediante una rivelazione divina; inoltre non può essere acquisita al di fuori dell’arto di fede che mantiene la nostra ragione e il nostro cuore aperti al mistero di Gesù.

È quanto esprimerà la teologia dicendo che l’oggetto della fede è soprannaturale, poiché supera ogni intelligenza, anche angelica. La fede cristiana è dunque molto più della convin­zione che noi possiamo raggiungere con la riflessione sulla nostra esperienza umana e con lo studio dei documenti della Rivelazione, il che alla fine la ricondurrebbe alla fede in noi stessi, nella nostra scienza, a una fede naturale. Essa è la fede in un Altro che è al di sopra di noi, nella Parola di Cristo che ci rivela il Padre come l’origine della Luce e nella testimonianza dello Spirito che ce ne dà l’intelligenza. Così la fede in Cristo è, se così si può dire, sopranna­turale per natura.

La fede di Pietro non è soltanto un modello per noi. Essa sta all’origine della fede della Chiesa e ne diviene il fondamento, saldo come la roccia: «Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa... A te darò le chiavi del regno dei cieli». Da quel momento la fede non avrà più come fine la Terra promessa, un regno di questo mondo, come nell’Antico Te­stamento, ma il Regno dei cieli di cui la Chiesa formerà le primizie. Per mezzo della nostra fe­de, anche noi diventiamo delle pietre vive che si prestano «alla costruzione di un edifìcio spi­rituale... per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (lP t 2^5).

Tuttavia il racconto della professione di Pietro contiene anche un ammonimento per noi. Si direbbe che l’apostolo, avendo ricevuto il potere delle chiavi per legare e sciogliere, ha vo­

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luto servirsene troppo in fretta applicandolo a Gesù stesso. Sorpreso dal primo annuncio del­la Passione, si mette a rimproverare il suo Maestro e si attira questa dura replica: «Lungi da me, satana..., perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Dopo che si era eleva­to fino alla contemplazione del Figlio di Dio e già lo immaginava nella gloria, Pietro urta que­sta volta contro l’umanità di Gesù, contro la sofferenza e la morte che sono il segno indubita­bile e il destino dell’umanità che Cristo ha assunto con il suo peccato stesso. La Croce di Cri­sto è ancora per Pietro un oggetto di scandalo, prima di diventare subito dopo il principale tema della sua predicazione.

Questo episodio ci mostra che la Croce di Gesù sta al centro e al cuore della fede cristia­na, come l’unica via verso la Risurrezione e verso il Regno. Al di là delle parole che la espri­mono, al di là della professione stessa che la proclama, la fede non raggiunge veramente in noi la sua realtà e la sua fecondità se non nella partecipazione, per quanto sia minima in ap­parenza, alle sofferenze, alle umiliazioni e alla morte di Gesù. Questo è proprio l’ambito in cui noi possiamo più sicuramente sperimentare la presenza di Cristo e conoscere la forza del suo amore (Ef 3,17-19). «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cri­sto, e questi crocifisso... perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (lCor 22-5). È nella croce di Cristo che si scontrano più violentemente i pensieri dell’uomo e i pensieri di Dio, la natura e la grazia divise dal peccato, e che esse poi si uniscono grazie alla forza dell’amore per dare origine a una vita nuova, soprannaturale. Questa è la radice di ogni spiritualità autenticamente cristiana.

La fede di ̂Maria

La Vergine Maria ci offre il modello più perfetto di una tale fede. Nel giorno dell’Annun­ciazione, ella meritò il titolo di «Madre di Dio» che le decreterà la Chiesa, pronunciando il sì decisivo della fede che apriva il suo cuore e il suo grembo al mistero dell’lncamazione del Fi­glio di Dio. Come dirà sant’Agostino, ella ha concepito Gesù nella sua fede prima di generar­lo nella sua carne. Meditando c contemplando queste cose nel suo cuore, come una «umile ancella» dello Spirito, Maria giunse a una comprensione ineguagliabile della persona e dell’opera di suo figlio a causa dei legami unici che la univano a lui. Questa è la fede che con­dusse Maria fino al Calvario, ai piedi della Croce di suo figlio. Là, nel crogiolo della prova, la sua fede ricevette una fecondità nuova. Si può vedere infatti, nelle parole di Gesù riportate da san Giovanni: «Donna, ecco tuo figlio» e al discepolo amato: «Ecco tua madre», il dono fatto a Maria di una «maternità supplementare»5 nei confronti del discepolo che rappresenta la comunità dei fedeli, una maternità che era la fioritura della sua maternità carnale c che do­veva abbracciare tutti quelli che avrebbero creduto in Gesù e sarebbero diventati membra del suo «Corpo», cioè la Chiesa. Così si realizzava la beatitudine dei credenti rivolta da Elisa- betta a Maria per impulso dello Spirito Santo: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore».

5 F.M. Braun, La Mère des fidèles, Toumai 1954.

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Capitolo nonoLA VIRTÙ DI SPERANZA E LA SUA DIALETTICA

«Il giusto vivrà della fede», ci ripete san Paolo; ma la fede non resta sola. Essa è «come al­bero piantato lungo corsi d ’acqua, che darà frutto a suo tempo» (Sai 1,3). Il primo frutto del­la fede è la speranza suscitata dalle promesse di Dio, per mezzo delle beatitudini. «Ho spera­to: ho sperato nel Signore... Beato l’uomo che spera nel Signore» (Sai 40).

La speranza, se la si intende in un senso generale, è la virtù del desiderio che tende verso il bene affrontando con fiducia le difficoltà, gli ostacoli e la lunghezza del tempo che la sepa­rano dal suo oggetto.

I. La speranza, virtù del desiderio

Il cuore dell’uomo è pieno di desideri che sorgono in lui con il movimento stesso della vi­ta. Solo Colui che scruta le menti e i cuori sa contarli e spiegarli. Noi possiamo tuttavia farce­ne un’idea un poco più chiara basandoci sulle principali inclinazioni che san Tommaso distin­gue nell’uomo e che gli sono servite per fondare la legge naturale che lo guida (i-n, q. 94, a. 2). Esse ci aiutano a discernere sotto i «piccoli» desideri che sorgono in noi i desideri profon­di che ci ispirano.

1.1 I desideri naturali: l’essere e la vita

Il nostro desiderio più fondamentale riguarda l’esistenza e la vita. È l’istinto di conserva­zione. Esso ci rende inclini a mantenere, difendere e sviluppare la vita che abbiamo ricevuto, e si manifesta nei nostri bisogni primitivi, la fame e la sete. Così noi ricerchiamo spontanea­mente ciò che ci è utile per garantire la nostra sussistenza: il nutrimento, i vestiti, un riparo, ecc. Questo attaccamento radicale all’esistenza, che ci fa fuggire ciò che la minaccia, come la sofferenza e la morte, forma in noi l’amore naturale di sé che è all’origine delle nostre attività.

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Esso si manifesterà anche sul piano spirituale, suscitando in noi una fame e una sete per i be­ni dello spirito.

1.2 11 dono della vita

Come in tutti gli esseri viventi, il Creatore ha posto nell’uomo un istinto di fecondità, l’in­clinazione naturale a dare, a propagare la vita. Questo è il desiderio sessuale, che porta l’uomo e la donna a unirsi e a intraprendere la grande opera della fondazione di una famiglia, che cul­mina nell’educazione dei figli con tutte le dimensioni che essa comporta, in particolare quella culturale e religiosa. Innestato sull’amore naturale di sé, questo desiderio procura all’uomo e alla donna, se è ben regolato, un’esperienza specifica dell’amore verso l’altro nella differenza e nella complementarità. Grazie a questa apertura al coniuge e ai figli, l’amore di sé si trasforma e fa amare l’altro come se stesso: questo è l’amore, nel senso proprio del termine.

1.3 L’aspirazione alla verità

Vengono poi i desideri di ordine propriamente spirituale, che tuttavia si agitano in noi in un legame naturale con i moti della sensibilità e con le attività del corpo.

Citeremo innanzitutto il desiderio della verità. L’aspirazione alla verità è costitutiva della nostra esistenza spirituale; essa si esercita attraverso le percezioni dell’intelligenza e nel lavoro della ragione. L’amore della verità ha creato le scuole, le scienze, e si compie nella cultura, nella sapienza. Esso guida gli altri desideri con la luce che proietta su di loro; se disubbidisco­no alla ragione, i nostri desideri non possono che smarrirsi e corrompersi. Poiché deriva dalla nostra capacità di conoscere che non ha limite, questo istinto di verità testimonia che noi sia­mo fatti per Dio e a sua somiglianza. San Tommaso si fonda proprio su questa inclinazione, che ha animato tutta la sua opera, per elaborare il suo famoso argomento del desiderio natu­rale che—per quanto sia possibile— dimostra la possibilità per l’uomo di vedere Dio, se egli si rivela, poiché una simile aspirazione non può essere vana. E il desiderio contemplativo per eccellenza. Esso tuttavia diventa pratico quando si rivolge all’agire morale mediante il giudi­zio della coscienza e il discernimento della prudenza.

1.4 La vita in società

Anche l’inclinazione alla vita in società costituisce in noi un desiderio naturale. Essa ci spinge a ricercare la compagnia degli altri uomini e ad avere degli scambi con essi, non solo per il nostro interesse, ma per amore della giustizia e per il bisogno di amicizia, di affetto. Co­me dice Aristotele, anche se si possedessero tutti i beni, non si può essere felici senza amici. Che l’uomo sia perciò un «animale socievole» e che non è bene lasciarlo solo, secondo l’espressione del libro della Genesi, deriva dal senso naturale dell’altro, anch’csso costitutivo del nostro essere spirituale. Lo testimoniano la regola aurea e il precetto dell’amore per il prossimo. Abbiamo a che fare con un principio primario della civiltà, poiché colui che va

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contro questo sentimento primitivo diventa ben presto un «animale selvaggio», come un lupo per gli altri uomini.

1.5 L’aspirazione al bene

L’ultimo desiderio, che san Tommaso poneva all’inizio della serie, è il più importante dal momento che riunisce e lega insieme tutti gli altri. È l’aspirazione al bene, inteso in un senso pieno che noi dobbiamo assolutamente ritrovare, poiché questo desiderio riguarda la vita spi* rituale nella sua stessa sorgente. 11 bene è ciò che contemporaneamente fa nascere l’amore, suscita il desiderio e procura la felicità. Sfortunatamente il termine «bene» si è impoverito e irrigidito identificandosi nell’obbligo legale e negli imperativi; è stato così separato dall’incli­nazione alla felicità e perfino dall’amore. Si potrebbe rimediare dicendo che il bene è ciò che è «buono», buono in sé grazie alla sua perfezione e buono per noi grazie alla gioia che ne ri­ceviamo; anche nel senso in cui il libro della Genesi riferisce che contemplando la sua opera, Dio vide che ciò era buono, molto buono.

L’aspirazione al bene, così intesa, definisce, in un certo senso, la volontà come la nostra facoltà di amare, di desiderare, di volere. È un desiderio primitivo che soggiace agli altri e li ingloba. Come l’aspirazione alla verità, esso manifesta la nostra capacità di accogliere il «buo­no» in tutta la sua ampiezza, senza alcun limite. Questo è il desiderio della felicità che sant’Agostino metterà alla base del suo trattato sulla morale cristiana e di cui si servirà per riassumere ciò che conviene domandare nella preghiera: «Domanda la vita beata», scrive a Proba che lo interrogava a questo proposito.

Allo stesso modo san Tommaso porrà la sua analisi della beatitudine all’inizio della parte morale della sua Summa Theologiae anziché alla fine, come si faceva generalmente, poiché il problema della vera felicità è decisivo, a suo giudizio, per orientare l’intero agire morale. In questo trattato egli costruirà una via ascendente che conduce l’uomo, mediante un supera­mento e un distacco progressivi, dai beni esteriori (ricchezza, onori e gloria) ai beni interiori (diletto, scienza e virtù) per mostrargli che la visione di Dio è il solo bene che possa appagare il suo desiderio. L’attrattiva per il bene si presenta anche come una vera e propria forza di gravitazione spirituale nell’uomo. Allo stesso modo della gravitazione fìsica, la sua azione è così profonda e così estesa che sfugge a quelli che vi sono sottomessi e che si perdono spesso nella ricerca di desideri particolari e superficiali. Ma in ogni vita, un giorno, questo desiderio si manifesta sollevando delle questioni di fondo: la felicità e la sofferenza, il senso o il non senso della vita, il destino dell’uomo e l’aldilà, il bene e il male, che alla fine non sono altro che variazioni sul tema di Dio.

Citiamo ancora, riguardo al desiderio che è alla radice della speranza, questo bel testo di sant’Agostino: «Il desiderio è il recesso più intimo del cuore (sinus cordis). Quanto più il desi­derio dilata il nostro cuore, tanto più diventeremo capaci di accogliere Dio. Ad accendere in noi il desiderio contribuiscono la divina Scrittura, l’assemblea del popolo, la celebrazione dei misteri..., la nostra stessa predicazione: tutto è destinato a seminare e a far germogliare que­sto desiderio, ma anche a far sì che esso cresca e si dilati sempre più fino a diventar capace di

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accogliere ‘ciò che occhio non vide né orecchio udì, né cuor d ’uomo non riuscì mai ad imma­ginare’» (In Io. Evang. tr. 40, 10).

1.6 II coraggio della speranza

La speranza è la virtù di quel desiderio multiforme e concentrato, legato alla vita a tutti i suoi livelli, e che ci porta verso la felicità. Essa contiene il coraggio di essere e di agire accet­tando i rischi della vita, sopportando pazientemente la pena e il dolore, senza indietreggiare neppure davanti alla morte. La speranza è anche una fiducia che d sostiene nelle nostre ini­ziative e che si estende fino agli altri uomini, nella collaborazione all’intemo di una famiglia, di una comunità, di una nazione. La speranza è capace di superare le delusioni, anche gravi, perché avendo la sua origine in Dio che dona la vita, essa tende a ritornare verso di lui come verso la fonte di ogni bontà. La speranza è insomma l’energia spirituale primitiva nel suo ma­nifestarsi; ma essa ci fa aspirare a realtà così alte—anche senza troppo saperlo, a causa del mi­stero in cui essa ci introduce—che non potrebbe mai raggiungere il suo fine, l’unione a Dio, se quest’ultimo non fosse intervenuto. Pertanto, dopo aver considerato il desiderio dell’uomo e, in tal modo, interrogato il nostro stesso cuore, ora dobbiamo consultare la Scrittura per ve­dere come essa ci presenti la virtù di speranza c ce ne descriva la storia.

2. La speranza di Abramo e le sue tappe

La Scrittura non fa teoria e non argomenta come la teologia, ma ci mostra la speranza all’opera nelle relazioni tra l’uomo e Dio. Per scoprire la natura e i movimenti di questa spe­ranza, ci baseremo su tre documenti: la storia di Abramo che ci narra la nasata della speranza teologale e ce ne offre il primo modello; il testo delle beatitudini che ce ne mostra l'esito pro­ponendoci la risposta di Cristo al problema della felicità; infine il Vangelo che ci descrive le tappe del mistero di Gesù, oggetto della nostra speranza.

2.1 La formazione della speranza di Abramo

La speranza di Abramo ha conosciuto tre tappe: la sua formazione, la sua prova e il suo compimento. Tutto comincia con la promessa di Dio e l’obbedienza di Abramo: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome» (Gn 12,1-2). La promessa si precisa in seguito con l’annuncio che Abramo avrà da sua moglie, Sara: un figlio, un erede di­retto. Abramo credette a questa Parola e Dio «glielo accreditò come giustizia» (15,6).

La promessa corrisponde alla speranza naturale del patriarca: avere un figlio, un erede che assicuri la sua discendenza. Essa ravviva in lui questo desiderio e nello stesso tempo lo al­larga e gli dà una portata inattesa, oltre misura: egli diventerà il padre di un grande popolo, otterrà una posterità così numerosa come le stelle nel cielo. Ma la promessa, che assume così

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un alone d’infinito, si scontra con un ostacolo umanamente insormontabile: la sterilità di Sara e la tarda età di entrambi. Ora, Abramo osò credere alla Parola di Dio andando contro le sue opinioni di uomo e allargò la sua speranza alla misura del disegno di Dio. Il bambino che na­scerà sarà veramente il figlio della promessa divina e della fede di Abramo.

La fede di Abramo trasforma la sua speranza introducendo in essa un elemento nuovo che avrebbe assunto un ruolo fondamentale: essa non è più soltanto una speranza d’uomo, ma diventa una speranza in Dio, nella potenza di Dio in quanto origine di ogni vita e di ogni paternità. Da quel momento la speranza di Abramo si rivolgerà verso un duplice oggetto: ver­so suo figlio con la sua discendenza e verso Dio stesso, verso il suo benevolo aiuto, verso la sua grazia. Apparentemente resta una speranza molto umana che si realizza con la generazio­ne; interiormente diventa una speranza divina, che possiamo chiamare teologale. L’eredità stessa ne sarà cambiata: oltre ai suoi beni e ai suoi diritti, Abramo lascerà a suo figlio il futuro della promessa legata alla sua fede. Perciò Abramo sarà chiamato il «padre della fede».

La nascita di Isacco fu la conferma della fede fiduciosa di Abramo. Da allora, con la ga­ranzia di Dio, egli poteva godere in pace del figlio che aveva ricevuto e su cui riposava la be­nedizione.

2.2 La prova della speranza

Ma ecco che il cammino di Abramo, tracciato da Dio, cambia bruscamente direzione e nel modo più inatteso. «Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: ‘Àbra­mo!... Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò’» (22,1-2).

La risposta di Abramo è straordinaria: senza proferir parola, senza fare domande e senza rivelare a nessuno l’ordine di Dio, Abramo sella il suo asino, prende con sé suo figlio e due servitori, prepara la legna dell’olocausto e si mette in cammino. Si percepisce chiaramente che una grazia segreta lo guida e lo sostiene.

Tuttavia, se ci è consentito ricercare ciò che accadeva nell’anima di Abramo—ne abbiamo bisogno per comprenderlo e seguirlo nella fede—, egli doveva sentirsi preso come in una morsa tra due parole di Dio che si contraddicevano: da una parte la promessa realizzata in Isacco come nel suo primo germe e, dall’altra, l’ordine così crudele in apparenza, così oppo­sto anche alla legge divina, di offrirlo in olocausto. Che voleva dunque Dio?

Tutte le spiegazioni umane sono in questo caso insufficienti. Occorre farsi piccoli davanti a una simile domanda, perché solo la fede può discemere la risposta al di là delle povere pa­role e delle deboli idee di cui disponiamo. Come con il fuoco, Dio voleva purificare il cuore di Abramo distaccandolo radicalmente da ciò che aveva di troppo umano, di possessivo nel suo affetto per Isacco, per aprirlo a un amore nuovo, l’amore dì Dio come l’Unico e come la fonte primaria di ogni vero amore. Dio voleva sapere se Abramo lo amasse al di sopra di tut­to, più dei suoi benefici, più del figlio della stessa promessa, al fine di elevarlo fino a sé con una specie di salto nella fede e nella speranza, con uno slancio appassionato e assoluto che lo accordasse al proprio Amore. Illuminato dalla sua fede, Abramo comprese molto bene ciò

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che voleva Dio, poiché, come dice la lettera agli Ebrei: «Egli pensava che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo riebbe suo figlio e fu come un simbolo» (11,19). Infatti secondo il senso allegorico i primi cristiani, e poi la liturgia, hanno visto nel sacrificio di Isac­co la prefigurazione del sacrificio di Cristo. Per stabilire questo legame essi non si basavano su un’analogia esteriore, ma sulla continuità dell’azione di Dio per mezzo della fede. Scorge­vano nella prova di Abramo la prima rivelazione dell’amore di Dio manifestato nel suo Figlio, che proseguirà nel Vangelo, poi nell’esperienza di ogni credente con una prova simile. La prova della speranza è qui la condizione della sua fecondità mediante il dono dell’amore.

2.3 II compimento della speranza di Abramo

Quando Abramo ebbe la sua speranza ancorata in Dio con la forza di un amore senza ri­serve, l’angelo che lo guidava, vedendo che egli «temeva Dio», fermò il suo braccio e gli resti­tuì Isacco rinnovando solennemente la promessa: «Perche tu hai fatto questo e non mi hai ri­fiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione». A leggere queste parole, si ha l’impressione che Dio è commosso, sconvolto dal gesto di Abramo. Come un amico riconosce il suo amico in uno sguardo che va al cuore, Dio si è riconosciuto in Àbra­mo, ed era una pura grazia. Egli poteva ormai realizzare la speranza di Abramo con i frutti futuri della promessa.

Poiché il cuore di Abramo è ormai fissato in Dio, la speranza nata dalla sua fede potrà as­sumere la speranza umana che gli faceva desiderare un figlio. Essa continuerà nel popolo che nascerà da Isacco e prenderà corpo nella speranza di una stabile dimora nella Terra promessa che Abramo aveva solo percorsa. Questa speranza estremamente concreta determinerà la sto­ria del popolo ebraico nell’Antico Testamento e fino ai nostri giorni. 3

3. Le beatitudini, oggetto della nostra speranza

Le beatitudini si presentano a noi, nel primo Vangelo, come l’apertura magistrale della predicazione di Gesù, come la sua risposta alla domanda della speranza. Esse si pongono nel­la linea della speranza ebraica sostenuta dalle promesse rivolte ad Abramo, a Mosè, a Davide, ma la elevano a un livello superiore fissandole come termine non più una terra da occupare e da difendere, ma il Regno dei cieli che viene. Le beatitudini perciò «portano a compimento» la speranza dell’Antico Testamento, come la Legge evangelica che le segue «porta a compi­mento» i precetti della Legge mosaica.

Per la realtà che esse significano, le beatitudini sono così ricche da permettere diverse spiegazioni convergenti. La tradizione latina, sulla scia di sant’Ambrogio e di sant’Agostino, le ha interpretate come la descrizione dell’itinerario spirituale del cristiano, in sette od otto tappe, dalla povertà e dall’umiltà fino alla pace e alla sapienza dei figli di Dio o alla testimo­nianza del martirio. Tuttavia, se si esamina attentamente il testo di san Matteo, si vede appari­re, come nella trama di un tessuto, un altro taglio, che non esclude il primo, ma che attraversa

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ciascuna beatitudine. In quest’ottica, si può dire che le beatitudini sono come intrecciate, per il loro fondo e nella loro forma letteraria, con tre fili di pensiero che corrispondono alle tre tappe che abbiamo distinto nella storia di Abramo: il filo della promessa di felicità prima di tutto, in mezzo il filo della prova e infine il filo della ricompensa.

3.1 II filo della promessa

Il filo della promessa è costituito dalla ripetizione del termine «beato» che rievoca tutte le promesse di felicità, i «macarismi» che si trovano un po’ dappertutto nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Questa è la prima parola del salmista: «Beato l’uomo... che si compiace della leg­ge del Signore», o ancora: «Signore degli eserciti, beato l’uomo che in te confida» (Sai 83,13). Si può pensare anche alla beatitudine di Maria espressa da Elisabetta: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Le 1,45), e a quella di Simon Pietro do­po la sua professione di fede. Tuttavia ci troviamo di fronte, con le beatitudini evangeliche, a un insieme unico nella Bibbia per il loro numero e la loro coordinazione. Si possono conside­rare come un punto di concentrazione delle promesse di Dio.

Come spiega san Tommaso nel suo commento a san Matteo, che sarà perfezionato dalla Stimma (i-il, q. 69), le beatitudini offrono una risposta alla domanda di felicità che sorpassa e soppianta quella di tutti i filosofi: essa elimina le risposte false, basate sulla ricchezza o sul piacere (la vita voluttuosa), corregge le risposte imperfette fondate sulla virtù (la vita attiva) o sulla contemplazione in questo mondo. Tuttavia, nel contesto biblico, le beatitudini conten­gono molto di più che la soluzione di un problema filosofico, per quanto sia importante. Esse provengono da un’iniziativa divina mediante una promessa che suscita una speranza nuova ed esige la fede, come abbiamo visto nel caso di Abramo. Queste promesse corrispondono senza dubbio al desiderio naturale della felicità, ma superano la speranza umana per il loro oggetto, il Regno dei cieli, e la trasformano poiché ci fanno poggiare sulla potenza di Dio piuttosto che sulla forza dell’uomo. La prima parola delle beatitudini contiene già dunque una chiamata alla fede in Cristo che le proclama per fondare la speranza. Questa speranza non ci lascia soli; fin dai suoi primi passi, ci associa alla grazia di Dio che viene verso di noi. Essa ne riceve il suo slancio e apre davanti a noi il vasto orizzonte dei disegni di Dio.

3.2 II filo della prova

11 secondo filo delle beatitudini, che sta in mezzo, contraddistingue il tempo della prova, in modo chiaro per le quattro beatitudini di base—la povertà, le lacrime o il lutto, la fame e la sete, la persecuzione con la calunnia—e in modo implicito per le beatitudini aggiunte da Matteo, poiché la dolcezza nasconde la prova della violenza, la misericordia suppone l’ingiu­stizia che si perdona o la miseria che si allevia, la purezza combatte l’impurità e la doppiezza, mentre lo spirito pacifico lotta contro la guerra.

Da questo punto di vista le beatitudini si pongono in totale contrasto con le nostre conce­zioni della felicità, che la associano spontaneamente alla ricchezza, al godimento, alla sazietà,

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al possesso della forza e dell’abilità che assicurano il successo e il favore nell’opinione comu­ne. Le beatitudini capovolgono le nostre idee e i nostri sentimenti riguardo alla felicità. Più profondamente, esse ci rivelano la prova che ci attende, in una forma o in un’altra, nella qua­le ci verrà posta al di là delle parole, nella solitudine davanti a Dio, la domanda decisiva sulla speranza: tu oserai porre la tua speranza nella Parola di Cristo, nel momento in cui tu stesso fai l’esperienza della povertà, della sofferenza, dell’ingiustizia? Prendendo coscienza della tua debolezza, saprai riporre la tua fiducia nella forza di Dio e obbedire alla voce che ti chiama interiormente a impegnarti nel cammino misterioso e sicuro del Regno? È in questi momenti che la Parola del Vangelo per noi si attualizza e diventa una realtà vissuta. Le beatitudini compiono così in noi un lavoro paragonabile a quello dell’aratro che penetra profondamente nella terra, la rivolta con le sue erbacce e scava il solco in cui verrà seminato il buon grano e dove esso germoglierà.

Grazie a questa speranza, le beatitudini cambiano la nostra vita e operano un distacco progressivo dai nostri istinti di possesso, di godimento, di dominio; esse purificano il nostro cuore, a imitazione di Abramo nel suo consenso al sacrificio, e ci preparano ad accogliere l’amore di Cristo che ci rende degni di essere chiamati «figli di Dio». Così le beatitudini rea­lizzano l’annuncio iniziale: «Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino!».

3.3 II filo della ricompensa

Il terzo filo delle beatitudini significa il compimento della promessa sotto la forma del Re­gno dei cieli, presentato in vari aspetti adatti a ciascuna beatitudine: la consolazione, la sa­zietà, la misericordia, la visione di Dio, il carattere di figli di Dio, la gioia e l’allegrezza. Si può così chiamarlo il filo della ricompensa, con san Tommaso, a patto di non vedervi il merito dei nostri soli sforzi, ma l'opera della grazia dello Spirito che opera nel movimento della speran­za. Perciò sant’Agostino avrà la buona idea di mettere le beatitudini in rapporto con i doni dello Spirito Santo secondo l’enumerazione di Isaia, giudicando che non si può percorrere il cammino da esse tracciato senza l’aiuto continuo della grazia.

Riguardo a queste ricompense, san Tommaso osserva che la loro realizzazione comincia già da questa vita e che esse procurano il suo vero e proprio oggetto al desiderio di quegli stessi che pongono la loro felicità in beni perituri e ingannevoli, poiché il Regno dei cieli con­tiene la ricchezza, ma spirituale; esso procura la gioia e la pace che essi desiderano, ecc. (i-Il, q. 69, a. 4). Se ne può concludere che la speranza evangelica, dal momento in cui è saldamen­te legata a Cristo, è capace di assumere ogni speranza umana riformandola e finalizzandola al Regno dei cieli, specialmente mediante la dolcezza, lo spirito di giustizia, la misericordia e la volontà di pace.

Poste all’inizio del Discorso della montagna, le beatitudini dominano questo insegnamen­to di Gesù che si può considerare come la «carta» della vita evangelica, la regola fondamenta­le di ogni spiritualità cristiana. Esse collocano questa dottrina sotto il segno della speranza in vista del Regno dei cieli e ci mostrano le tre tappe essenziali del cammino che vi conduce. Co­sì ritroveremo questa dialettica in ogni vocazione cristiana, a partire da quella degli Apostoli

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che il Vangelo ci propone come modello. Chiamati a lasciare tutto per seguire Gesù, la loro speranza sarà come annientata dalla prova della Passione, prima di risorgere con una sicurez­za imparagonabile, quando avranno ricevuto il dono dello Spirito.

4. Le tre fasi del mistero di Gesù

Come la fede, la speranza cristiana si concentra sulla persona di Gesù: egli ci insegna le bea­titudini con un’autorità unica che colpiva chi lo ascoltava, ed esse si realizzano in lui, come il Fi­glio della promessa inaugurata in Isacco. Così è nella vita e nell’opera di Cristo che si compiono ed emergono nel modo più netto i tre movimenti dialettici della speranza, secondo le principali fasi del mistero della salvezza: il mistero dell’Annunciazione e dell’Incarnazione innanzitutto, poi quello della Passione, infine il mistero della Risurrezione e del dono dello Spirito.

4.1 11 mistero dell’Incarnazione

L’Annunciazione a Maria, completata dall’Annunciazione a Giuseppe, ci racconta come, con il fiat della fede, la speranza nelle promesse di Dio si è incarnata con la nascita di Gesù, «figlio di Davide». Nel Verbo fatto carne le promesse divine e i desideri dell’uomo si con­giungono e si associano in un modo unico, come sostanzialmente; nella persona di Cristo ot­tengono il pegno sicuro e lo strumento efficace della loro realizzazione. Dapprima nascosta, questa speranza appare pubblicamente con la predicazione della Buona Novella preparata da Giovanni Battista, poi proclamata da Gesù, che chiama il popolo a convertirsi e a seguirlo: «Il popolo che viveva nelle tenebre ha visto una grande luce...». La sua predicazione, le sue guarigioni, i suoi miracoli sono un appello alla speranza.

4.2 II mistero della Passione

Il racconto della Passione ci introduce nella grande prova e nella profondità del mistero nascosto sotto le apparenze del processo intentato dal Sinedrio. Il dramma culmina nel rac­conto dell’agonia dove Gesù viene posto, allo stesso modo di Abramo, davanti a due volontà del Padre apparentemente contrarie: che egli sia il Figlio di tutte le promesse, inviato per rea­lizzare «la speranza d ’Israele» e degli uomini chiamati dalle beatitudini e, dall’altra parte, che egli sacrifichi ogni speranza abbandonandosi fino alla croce, «portando a compimento» il sa­crificio di Isacco per la salvezza di tutti. Sottomettendosi alla volontà del Padre suo, com­piendola poi in un silenzio che impressionò lo stesso Pilato, lasciandosi inchiodare al legno della croce, Gesù porta a compimento l’obbedienza di Abramo e pone definitivamente nel cuore di Dio, nell’amore del Padre suo, il fondamento della speranza cristiana. Nello stesso tempo egli rende la sua «bella testimonianza» riguardo alla sua persona, in quanto Figlio di Dio e Re d ’Israele, che fa di lui l’oggetto di una speranza nuova, proprio nel momento in cui ogni speranza umana lo abbandona. Per mezzo della sua umiltà e della sua sottomissione, egli

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riporta la vittoria sullo spirito del male e sul suo orgoglio, sulla tentazione di essere «come dèi», e diventa, nella sua stessa debolezza accettata per amore, il sostegno incrollabile di una speranza che nessuna forza del male potrà vincere.

La Passione diventa così la prova radicale per gli apostoli che speravano, come dicono i discepoli di Emmaus, «che fosse lui a liberare Israele» (Le 24,21). È tuttavia dal fondo della Passione che sarebbe rinata la loro speranza con Cristo che esce dal sepolcro. Essa assumerà ben presto come emblema la Croce di Gesù, secondo la magnifica esclamazione di san Leo­ne: «O potenza mirabile della Croce! O gloria ineffabile della Passione! Tu hai attirato tutti a te, perché la tua Croce è la sorgente di tutte le benedizioni, la causa di tutte le grazie» (,Sermo­ni sulla Passione, vni, 7). L'Eucaristia che i discepoli celebreranno in memoria della Passione sarà il sacramento di questa speranza con il sostegno della presenza del Signore che essa pro­cura e con rorientamento verso il suo ritorno, perché celebrandola «voi annunciate la morte del Signore finché egli venga» (ICor 11,26).

4.3 La speranza nella Risurrezione

La speranza cristiana riposa da quel momento sulla fede nella Risurrezione di Gesù, come fonte di una vita nuova, e sul dono dello Spirito che ce la comunica interiormente. In questa fede, a partire dal Battesimo che lo fa morire e rivivere con Cristo, il cristiano trova il punto di appoggio inamovibile della sua speranza e riceve la rivelazione del fine a cui aspira, in co­munione con la Chiesa, per impulso dello Spirito. Come insegna san Paolo: «Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio... La vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,1-3).

Questa speranza nuova, che supera «le cose di questo mondo», manifesta tuttavia la sua potenza fin d’ora penetrando nella nostra vita quotidiana per impregnare e ordinare le nostre speranze concrete, anche le più umili, per sostenere e dirigere i compiti e le attività di ogni genere che ci sono affidati nella famiglia, nella Chiesa, nella società, per mezzo della carità e delle virtù che essa ispira, secondo l’insegnamento della catechesi apostolica: «Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza... Qualunque cosa facciate, fatelo di cuore come per il Signore e non per gli uomini...» (Col 3).

San Paolo inoltre ritiene che la virtù di speranza possieda una dimensione cosmica, poi­ché la creazione, attualmente sottomessa alla caducità, condivide a suo modo la speranza dei figli di Dio e si trova nelle doglie del parto, aspirando alla sua liberazione, come anche noi siamo nell’attesa della redenzione dei nostri corpi (Rm 8,18-25).

Così la speranza cristiana che ci fa vivere di una vita che non è di questo mondo, ci spinge a lavorare per la trasformazione del mondo mediante la grazia dello Spirito, che trova la sua origine nella Passione e nella Risurrezione del Signore e si attualizza facendoci rivivere e ri­cercare il suo mistero di salvezza.

Notiamo infine che la liturgia farà ripercorrere alla Chiesa queste tre tappe nel ciclo delTanno. 11 tempo del Natale e dell’Epifania celebra la nascita della speranza; la Quaresima

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e la Passione ci fanno partecipi della prova della speranza; la Pasqua e Pentecoste sono come la messe della speranza.

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5. La vigilanza e la speranza

Abbiamo già notato il ruolo importante che assume la vigilanza in san Paolo: essa è la virtù dei cristiani risvegliati dalla fede alla luce di Cristo che viene verso di noi come il giorno che si avvicina. Essa li distingue da coloro che si abbandonano alle loro brame tenebrose e re­stano addormentati spiritualmente. Come attenzione dello spirito, come attesa perseverante rivolta a Cristo, la vigilanza raggiunge la speranza teologale. Essa esprime un atteggiamento caratteristico della speranza nella vita concreta, in particolare nella preghiera e nel servizio: il risveglio del cuore che si desta al pensiero della vicinanza del Signore.

Nel Vangelo la raccomandazione alla vigilanza si fa pressante all’approssimarsi degli ulti­mi eventi. Essa assume la forma delle tre parabole così significative del servitore fedele, delle dieci vergini che attendono lo Sposo nella notte e della resa dei talenti affidati dal Padrone. Poi diventa esplicita e commovente sulle labbra di Gesù all’inizio della sua Passione: «Veglia­te con me...; vegliate e pregate!». Secondo queste parole, solo la vigilanza e la preghiera pos­sono, in mezzo alla prova, mantenere aperta la porta della speranza. Ma quando calarono le tenebre, gli apostoli si addormentarono a rischio di perdere ogni speranza.

Conviene dunque unire strettamente la vigilanza alla speranza nella vita spirituale. Essa è la speranza all’erta di Cristo, se così si può dire. È uno sguardo del cuore che porta lontano e in profondità, verso Cristo «che siede alla destra del Padre», e che sa nello stesso tempo indi­care ai nostri passi il sentiero da seguire, l’ostacolo da evitare, il lavoro da fare, il servizio da rendere; per questo essa si ricollega alla prudenza. Insomma, la vigilanza è la speranza di Cri­sto in attesa e in atto.

Indicazioni bibliografiche

AA. W , Saggi sulla speranza, in «Rivista di Vita Spirituale» 34 (1980), pp. 5-96.L. Fedele, La speranza cristiana nelle lettere d i san Paolo, in «Studi di Scienze Ecclesiastiche»

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La vita spirituale del cristiano

limiti ci esortano a cercare al di là delle parole ciò che è questo amore. Certamente si può an­che usare il termine agape, ma, traslitterato dal greco, resta un po’ artificiale.

1. Lamore di Cristo

Per considerare la carità, noi sceglieremo una via che ci conduce all’essenziale e ci mostra chiaramente ciò che un tale amore ha di unico.

La prima lettera di Pietro conferma il passo di Paolo ai Romani citato sopra: «Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurci a Dio» (3,18), e ne offre un commento: «Cristo patì per voi..., egli non commise peccato..., quando era ol­traggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta... Egli portò i nostri peccati sul suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vi­vessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti» (2,21-25).

La Passione è dunque il luogo della rivelazione dell’amore di Cristo per noi. Paolo lo ri­peterà nell’inno ai Filippesi con una successione di contrasti tra la condizione divina di Gesù e l’«annientamento» della sua Incarnazione, terminato nell’umiliazione e nell’obbedienza fino alla morte su una croce, a cui seguirà l’esaltazione del suo Nome da parte di Dio come «il Si­gnore, a gloria di Dio Padre».

Nello stesso tempo si rivela l’amore del Padre di cui Gesù compie la volontà, conforme­mente alle Scritture, dall’agonia nel Getsemani fino alla consumazione sulla Croce. Per gli evangelisti, l’amore del Padre manifestato in Gesù è la chiave d’interpretazione degli eventi della Passione, contro ogni opinione umana. È ciò che Paolo esprimerà con ardore rivolgen­dosi ai cristiani di Roma: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmia­to il proprio Figlio, ma lo ha dato p er tutti noi... Io sono infatti persuaso che... nessuna crea­tura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,32-39).

Ecco il mistero: che il Padre abbia dato il suo Figlio per noi, mentre noi eravamo peccato­ri, e che il Figlio, obbedendo a questo amore, si sia umiliato fino alla Croce. Non si può pen­sarvi seriamente senza restare a bocca aperta. Il Padre ha preso il posto di Abramo. Nessuno avrebbe potuto immaginare una cosa simile. È proprio «ciò che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore di uomo».

Per quanto elevato e perfino inverosimile possa sembrare questo amore, esso penetra tut­tavia nella vita dei credenti, specialmente all’interno dei rapporti fraterni. Il contesto dei passi che abbiamo citato lo mostra chiaramente. L’inno ai Filippesi si leva come un argomento a fa­vore della paraclesi di Paolo: «Se c’è pertanto qualche consolazione2 in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità (agape), se c’è qualche comunanza di spirito..., rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità (agape), con i medesimi sentimenti... senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri» (2,lss.).

2 Bl preferisce tradurre: «appello pressante» (paraklesis), specie di scongiuro affettuoso per ciò che c’è di più sacro (ndt).

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Anche il passo della prima lettera di Pietro presenta l’obbedienza di Cristo come un mo­dello ai domestici che hanno dei padroni diffìcili; egli mostra loro che è una grazia per chi co­nosce Dio sopportare la sofferenza anche ingiusta facendo il bene a causa di Cristo (2,20).

Questa è la carità che Paolo raccomanderà nella prima ai Corinzi come il dono principale, come la via che supera le altre. Essa edifica la Chiesa come Corpo di Cristo ed è operante nel­le semplici virtù della vita quotidiana, come la pazienza, la benevolenza, il disinteresse, la dol­cezza, l’amore della verità.

Meditando questi testi, si percepisce chiaramente che il termine agape, anche se è usato sen­za precisione d’oggetto o in rapporto ad altri, designa sempre nel suo fondo l’amore di Cristo: la carità ci viene da lui o ci porta verso di lui, e per mezzo di lui verso il Padre. Cristo ne è l’ori­gine, il modello e l’oggetto centrale. La relazione con la persona di Gesù per mezzo della fede garantisce la specificità della carità. Si potrebbe dire che essa è una virtù «cristologale».

2. La carità è un’amicizia con Dio

La teologia cristiana si è sforzata di precisare quale sia la natura della carità, come pure le relazioni con le altre virtù, alla luce di san Paolo. Sant’Agostino si dedicò particolarmente a questa ricerca e meritò di essere chiamato il Dottore della carità. Egli inoltre ripristinò l’uso del termine amor per designare l’inclinazione naturale verso Dio. Conosciamo la sua bella formula: «Amor meus, pondus meus. Il mio amore è il peso che mi trascina» {Con/ Xlll, 10). Paragonato all’attrazione fìsica, l’amore ha tuttavia il potere, che lo apparenta con il fuoco, di portarci verso l’alto, verso Dio, anziché verso il basso, verso il peccato. Nel Medioevo la ri­flessione sulla carità venne condotta in modo sistematico grazie alla dottrina sulle virtù elabo­rata dalla filosofia greco-latina e, in particolare, da Aristotele. Essa sfocerà in san Tommaso in uno studio preciso dell’amore, come la prima delle passioni, e in una definizione della carità come un’amicizia tra l’uomo e Dio.

2.1 II tema dell’amicizia

Questa dottrina di san Tommaso ci invita a riscoprire il tema dell’amicizia che si è pratica- mente perduto dopo l’avvento delle morali dell’obbligo, benché esso appartenga all’esperien­za comune, così come la nozione di amore d ’amicizia, indispensabile per comprendere che cosa sia l’amore e assegnargli il posto che gli spetta.

L’amicizia occupa un posto di primo piano nella morale degli antichi. Platone le dedica un celebre dialogo, il Liside. Aristotele studia l’amicizia nei libri vili e IX della sua Etica Nico- machea, come il coronamento dello studio delle virtù e una preparazione alla sua dottrina sul­la vera felicità. Cicerone scrive un dialogo sull’amicizia, indirizzato a Lelio, che diventerà clas­sico e sarà ripreso, nel xn secolo, da Aelredo di Rievaulx sotto forma di dialogo De spirituali amicitia, che è uno dei gioielli della spiritualità cisterciense. Aelredo è tentato di definire la carità come un’amicizia; ma subito fa marcia indietro davanti all’obiezione che questa virtù ci

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corpo, non abbiamo comunicazione diretta con Dio, né con gli angeli; è nella vita dello spiri­to che avvengono questi scambi, secondo la parola dell’Apostolo: «la nostra ‘conversazione’ [dimora, compagnia, scambi reciproci] è nel cielo» (Volgata). Questa comunicazione resta tuttavia imperfetta sulla terra dove noi siamo ancora sotto il regime della fede. La vita spiri­tuale è dunque un’amicizia con Dio che si esercita con la conversazione sotto la forma della preghiera, con una condotta conforme alla volontà del Padre, a esempio di Cristo, e soprat­tutto con la «dimora» in Dio che costituisce l’intimità amicale.

Su questa base, Tommaso potrà risolvere le obiezioni che si levano contro la sua definizio­ne della carità, per il fatto che questa virtù ha ugualmente come oggetto i nemici e i peccatori (ad 2 e ad 3). Come noi amiamo, a causa di un amico, i membri della sua famiglia anche se non ci vanno a genio o ci avversano, così la carità ci fa amare d’amicizia anche i nostri nemici e i peccatori per Dio, per causa sua.

Possiamo citare nello stesso senso la risposta di Agostino riguardo all’amore fraterno inse­gnato da san Giovanni che non dice nulla dei nemici: «Se tu speri amando il tuo nemico che egli diventi tuo fratello: quando lo ami, è un fratello che tu ami» (In 1 Io. tr. vin, 10). Questa rifles­sione ci mostra il dinamismo della carità e ci fa intuire fin dove essa debba andare nella Iona contro l’inimicizia, fino a sperare che anche i nostri nemici diventino nostri amici e nostri fratelli.

3. Scoprire l'amore d’amicizia

Oltre alla sua importanza per lo studio teorico della carità, la sua definizione come un’amicizia ci indica un’esperienza umana che può condurci al cuore della vita spirituale e ri­velarci un punto essenziale riguardo alla natura dell’amore.

L’amicizia infatti fa agire in noi una capacità che è propria degli esseri spirituali e ce ne fa prendere coscienza attualizzandola: la facoltà che noi abbiamo di amare qualcuno in se stesso e per se stesso al di fuori dei sentimenti interessati che così spesso ci assalgono, fino al punto di trovare la nostra gioia nelle volontarie privazioni per quelli che noi amiamo. Questo è l’amore, nel senso proprio del termine. San Tommaso lo chiama amore d’amicizia, a differen­za dell’amore di concupiscenza per il quale riportiamo ciò che amiamo a noi stessi o ad altro, come nel caso di un cibo o del denaro. L’amicizia rafforza questa presa di coscienza mediante quella relazione speciale che forma la reciprocità, nella quale noi scorgiamo nell’amico un’uguale capacità di amare generosamente. L’amicizia è un luogo privilegiato dove si rivela ciò che si può chiamare la quintessenza dell’amore. Non si può forse dire, come della carità, che senza l’amore d ’amicizia la vita virtuosa sarebbe vuota e le sue opere paragonabili a un cembalo che tintinna?

3.1 Amore d’amicizia, bene e felicità

La scoperta dell’amore d’amicizia è di grande importanza, poiché ci mostra ciò che costi­tuisce il nucleo dell’amicizia e di ogni forma di vero amore; per questo essa condiziona la no-

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stra concezione del bene e della felicità. Il bene non è né l’utile, né il dilettevole e nemmeno ciò che detta l’obbligo legale o il dovere, ma propriamente ciò che merita di essere amato per se stesso e provoca in noi un tale amore. È come la scoperta di un nuovo mondo. È anche il dono di un nuovo sguardo sul mondo, che modifica la nostra idea e la nostra percezione della felicità. La felicità non consiste più neiraccumulare beni utili e piaceri, o nell’assenza di dolo­re, come pretende una filosofia più realista, e nemmeno nel possedere qualità intellettuali e umane che guadagnano la reputazione. La felicità si rivela come l’effetto diretto dell’amore d’amicizia sotto la forma della gioia, una gioia che zampilla dal cuore e che può perfettamente coesistere con la povertà e perfino con il dolore. L’amore possiede infatti il potere unico di tra­sformare la sofferenza assumendola, al punto che il sacrificio accettato e la pena sopportata di­ventano le garanzie più sicure della sua presenza e della sua azione. Questo è proprio l’inse­gnamento delle beatitudini, in particolare dell’ultima promessa ai discepoli insultati e perse­guitati, che il Signore invita alla gioia e all’esultanza. Fu anche l’esperienza degli apostoli quan­do uscirono dal Sinedrio «lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (At 5,41).

3.2 L’accordo tra la speranza e la carità

Se tutto ciò è vero, come l’esperienza e le testimonianze dimostrano, possiamo vedere in qual modo si accordino tra loro il desiderio di felicità e l’amore generoso, la virtù di speranza e la carità, c quale soluzione si debba dare al problema così dibattuto dell’amore interessato e disinteressato, per sé o per gli altri, che sia sotto la forma dell’opposizione tra l’amore «fìsi­co», di cui parla san Tommaso, e l’amore estatico dei mistici, secondo la tesi di Rousselot, o tra Yeros platonico e Yagape evangelica, secondo NygrenL

Noi abbiamo troppo immaginato il desiderio sul modello dei nostri appetiti fìsici, come la fame e la sete che sono interessate per natura, poiché non si può certo avere fame per un al­tro. Ora, l’esperienza dell’amicizia o dell’amore fa sorgere in noi un desiderio di tutt’altro ge­nere: il desiderio del bene della persona amata, come del nostro proprio bene, al punto da provare gioia per la sua gioia, pena per la sua pena, secondo la parola di san Paolo: «Gioite con chi è nella gioia, piangete con chi è nel pianto» (Rm 12,15). Il desiderio si sdoppia, in un certo senso, per effetto dell’amicizia e ci fa ricercare la felicità degli altri come la nostra.

Ecco ora il paradosso: in questo movimento dell’amore d ’amicizia e del desiderio in cui non pensiamo al nostro interesse, in cui «dimentichiamo» noi stessi, scopriamo improvvisa­mente ciò che è il meglio per noi e interessa più di tutto: il valore dell’amicizia, dell’amore ve­ro e delle caratteristiche che gli conferiscono la sua solidità come la benevolenza reciproca", l’accordo delle volontà nella stima delle virtù, la generosità, la fedeltà. L’amore d ’amicizia ci appare allora come il bene più utile e più dilettevole; ma le parole non hanno più assoluta-

* Cfr. P. Rousselot, Pour l ’histoire du problème de l'am our au M oyen Age, Mùnstcr 1908; A. Nygren, Eros e Agape, Paris 1944.

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3.4 L’amore d’amicizia come base naturale della carità

Si può dire che l’esperienza dell’amicizia o dell’amore umano fornisce una base naturale per l’infusione della carità in noi secondo una certa corrispondenza tra la nostra natura spiri­tuale e il dono soprannaturale. La Scrittura non si serve forse del paragone del matrimonio per parlarci dell’amore di Dio?

In realtà è più giusto dire che il dono della carità è primario e principale a livello del­l’esperienza. È la mozione stessa dello Spirito—che crea in noi l'esperienza unica dell’amici­zia con Dio—a rivelarci le potenzialità della nostra natura spirituale. Una tale amicizia non sarebbe neppure immaginabile a partire dall’esperienza umana. Più precisamente, è nell’espe­rienza dell’amore di Cristo—che si manifesta al cuore dei «bambini», secondo la parola di Gesù—che noi possiamo percepire, meglio che nelle dotte considerazioni dei «sapienti e de­gli intelligenti», che cosa sia l’amore d’amicizia e scoprire le nostre capacità di conoscere e di amare. Perciò è nell’esperienza della misericordia del Padre, ricevuta nel perdono in nome del Figlio, che noi possiamo meglio comprendere come la carità sia una grazia d’amicizia e quanto essa risponda al desiderio di felicità che il «Signore del cielo e della terra» ha inserito nel nostro cuore.

Ne consegue che l’esperienza spirituale è d ’importanza capitale per la teologia. E nell’atto stesso della carità, come in un contatto d ’amicizia, che si manifesta al teologo in maniera inso­stituibile la materia da lui studiata; è lì che egli percepisce, meglio che in ogni teoria, quanto Dio ne sia l’oggetto reale, il centro e il fine. In questo senso, è per mezzo della carità che lo studio di Dio diventa veramente una teologia, una partecipazione alla scienza stessa di Dio, secondo la definizione di san Tommaso. Così la carità assume un ruolo essenziale nello svi­luppo della teologia e nella sua organizzazione attorno a quello che si potrebbe chiamare il suo asse divino manifestato in Cristo. 4

4. La crescita della carità

Abbiamo individuato e messo in evidenza l’amore d’amicizia con il «desiderio amicale» che esso genera, in rapporto con la definizione della carità come un’amicizia con Dio. In realtà le cose sono più complesse, poiché tutte le forme di amore e le specie di desideri coesi­stono e si mescolano nel nostro cuore, al punto che spesso ingarbugliano le nostre sensazioni.' Inoltre l’amore d’amicizia proietta davanti a noi un ideale che non possiamo evidentemente raggiungere senza un lungo sforzo di purificazione e di risanamento interiore, indispensabile per la maturazione dell’amicizia così come dell’amore. Aristotele non diceva che, per essere veramente amici, bisognava aver mangiato uno staio di sale insieme? Questa necessità si veri­fica particolarmente per la carità che noi dobbiamo imparare mettendoci alla scuola del Si­gnore e accondiscendendo all’opera della sua grazia, come la vite si lascia potare dal vignaiolo per portare frutti migliori. Perciò ora dobbiamo considerare come cresce la carità e quali so­no le tappe della sua crescita.

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L’insegnamento di san Paolo sul primato della carità, nella prima lettera ai Corinzi, e l’in­sistenza di san Giovanni sull’amore fraterno, nella sua prima lettera, servono come base a san Tommaso, nel suo opuscolo sulla perfezione della vita spirituale, per affermare che quest’ulti- ma consiste principalmente nella perfezione della carità, come amore di Dio e del prossimo. La carità effettivamente riunisce tutte le virtù; essa è il loro principio motore e loro ispiratri­ce; le dispone al loro fine divino; è il «nodo» e la «forma» dell’organismo delle virtù e dei do­ni. È dunque a partire dalla carità che conviene stabilire il progresso nella vita spirituale.

La divisione della vita spirituale in tre tappe era tradizionale presso i Padri, ma le spiega­zioni variavano. Secondo una dottrina abbastanza generale attribuita a san Basilio, il cristiano passa per tre stati: all’inizio della sua conversione, conosce dapprima lo stato di timore, stac­candosi dal male per la paura dell’inferno e dei castighi, al modo di uno schiavo. Se egli per­severa, al timore segue la speranza della ricompensa celeste; questo desiderio è ancora inte­ressato e proprio del mercenario. Infine, lasciandosi guidare dall’amore di Cristo e della virtù, il cristiano accede allo stato dei figli di Dio che conoscono il disinteresse.

Guglielmo di Saint-Thierry è particolarmente interessante perché descrive, con l’aiuto di numerose notazioni esperienziali, le tre tappe della vita spirituale e le mette in relazione con le età della vita. Il luogo di nascita dell’amore è l’immagine della Trinità nell’uomo con le sue tre facoltà—memoria, ragione e volontà—che formano un’unica energia: «Come infatti se­condo la crescita o la consumazione delle età della vita il bambino si trasforma in giovane, il giovane in adulto, l’adulto in vecchio, mutando a ogni età il nome secondo il cambiamento delle qualità, così, secondo il progresso delle virtù, la volontà si accresce e diventa amore, l’amore carità, la carità sapienza»5. La vecchiaia è l’età dei perfetti perché conferisce la sa­pienza e prepara direttamente a entrare nella gioia del Signore.

San Tommaso riprende queste idee della tradizione spirituale. Le espone e le approfondisce con la sua consueta chiarezza e concisione. Richiamandosi alla divisione di ogni movimento, sia esso spaziale o vitale, a seconda che un mobile si allontani dal suo punto di partenza, si avvicini al suo fine e infine riposi in esso, Tommaso distingue tre tappe nella vita spirituale: la tappa de­gli incipienti che corrisponde all’infanzia; quella dei profìcienti che si può riferire alla giovinez­za; infine la tappa dei «perfetti» o dell’età adulta (ii-ii, q. 24, a. 9). Ma subito si premura di ag­giungere un principio di distinzione che permette di caratterizzare ciascuno di questi stati: la preoccupazione principale che diversifica l’opera della carità. Per gli incipienti il pensiero domi­nante sarà il distacco dal peccato e dai desideri cattivi, la lotta contro ciò che è contrario alla ca­rità, ciò che la mette in pericolo e compromette la sua crescita. I profìcienti, già fortificati ed esperti, si preoccupano soprattutto di crescere nella carità e di progredire nella pratica delle virtù. I perfetti saranno animati dal desiderio spirituale di aderire a Dio e di godere di lui, se­condo la parola di san Paolo che esprime l’augurio di «dissolversi e di essere con Cristo».

5 De natura et dignitate amoris, 4; cfr. anche D eux traités de l'amour de Dieu, trad. di M.-M. Davy, Pa­ris 1953.

La carità e le tappe della vita spirituale

4.1 Le tre tappe della crescita nella vita spirituale

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Questa divisione possiede delle basi profonde. La relazione delle tappe della carità con le età della vita indica un radicamento della dottrina nelFesperienza umana così come nell’espe- rienza spirituale, e ciò implica un rapporto tra l’opera di Dio nella natura dell’uomo, corpo e anima, e nell’ordine della grazia.

Esiste inoltre una notevole corrispondenza tra questa descrizione del progresso della carità e le tappe dello sviluppo della «libertà di qualità» mediante l’educazione, che abbiamo esposto ne Les Sources de la morale ckrétienne (cap. xv), in relazione con il progresso nelle virtù. Perciò la carità, come la principale delle virtù, opera in noi la crescita della libertà spirituale.

Su questa base commenteremo brevemente il quadro delle diverse tappe della crescita della carità.

4.1.1 Gli incipienti e il Decalogo

All’origine di ogni progresso in noi si situano le disposizioni naturali che formano la nostra spontaneità spirituale, allo stesso modo del talento in un’arte. Si tratterà innanzitutto dell’incli- nazione al bene e al vero che sta alla radice della libertà; essa le conferisce la sua ampiezza e la dispone alla felicità. Questa attrattiva verso il bene si precisa in ciò che gli antichi chiamavano i «semi delle virtù», i germi delle qualità morali deposti al fondo della nostra coscienza. Queste disposizioni implicano in particolare un amore naturale che ci porta istintivamente verso Dio e verso il prossimo; esso genera un desiderio spontaneo di unione a Dio e di amicizia. 11 dono della carità risponderà a questa aspirazione segreta in un modo che supera ogni speranza.

La prima tappa nell’educazione della libertà c nella formazione della personalità è caratte­rizzata dall’accettazione di una disciplina con l’aiuto di educatori, in particolare i genitori. La disciplina non si limita a una costrizione esteriore. La sua funzione è positiva: essa ci fornisce l’aiuto indispensabile per imparare le regole della vita, come ci si inizia e ci si esercita alla scuola di un maestro alle regole di un mestiere o di un’arte. La disciplina si intende dunque come una relazione tra discepolo e maestro. In un primo tempo il maestro si dedicherà, in esercizi ripetuti, a rilevare gli sbagli, a evitare le distrazioni, a correggere gli errori.

Allo stesso modo l’educazione alla carità inizierà con l’apprendistato delle regole fonda- mentali della vita morale, principalmente di quelle che si trovano nel Decalogo. L’insegna* mento del Decalogo è fondamentalmente positivo come mostra chiaramente la sua interpre­tazione evangelica che lo riassume nell’amore di Dio con tutto il nostro cuore e del prossimo come noi stessi. Questa legislazione dunque è proprio al servizio della carità; ma la sua fun­zione primaria è quella di inculcarci, con i suoi comandamenti negativi, quali sono i peccati incompatibili con la carità e mortali, in questo senso, quali l’omicidio, l’adulterio, lo spergiu­ro, ecc. 11 Decalogo sarà completato in questa funzione dalle liste di peccati del Nuovo Testa­mento. Si tratta di un insegnamento indispensabile per lottare contro la carne e accedere alla vita secondo lo Spirito, come dice san Paolo. Ma non ci si può fermare alla teoria: come l’ap­prendistato di un mestiere, occorrono la pratica e degli esercizi precisi. Anche in questo caso il Decalogo adempie la sua funzione determinando gli atti esteriori, concreti e tangibili che si devono compiere o evitare perché la carità e le virtù abbiano libero corso.

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La seconda tappa dell’educazione è caratterizzata da una assunzione di responsabilità più personale e dall’iniziativa propria nella ricerca delle doti morali. Come nel caso dell'appren­dista che prende gusto per il suo mestiere e non ha più bisogno che lo si obblighi a compiere il suo lavoro e a perfezionarsi, questa tappa comporta la formazione in noi di una stima e di un amore per l'azione buona, come per un lavoro ben fatto, vale a dire la scoperta di ciò che è la virtù, come una qualità che merita di essere ricercata per se stessa e che ha più valore di ciò che si vende e si compra. Tale sarà la sapienza, secondo la Scrittura, che vale più di «mille pezzi d’oro e d’argento» e di cui le virtù sono come delle sfaccettature. Da questa esperienza deriveranno uno spirito d’iniziativa e uno sforzo di progresso che si fortificheranno con l’esercizio e la fedeltà interiore.

Ciò si verifica particolarmente nel caso della carità mediante l’esperienza personale dell’amore di Cristo e l’impegno volontario nella sua sequela secondo la vocazione ricevuta. Il cambiamento consiste soprattutto nel superamento di una considerazione morale fissata sugli obblighi e sui divieti per ricercare ormai, di propria volontà, il progresso verso una perfezio­ne spirituale incentrata sulla carità. La scoperta dell’amore d’amicizia e del valore delle virtù, in quanto forme di questo amore, assume un ruolo decisivo nell’accesso a questo livello in cui la carità si rivela sempre più chiaramente come un’amicizia con Dio, con Cristo, che risveglia in noi ciò che Agostino chiamava «l’amore dell’amore». Questa sarà la fonte del dinamismo spirituale che si manifesterà nell’ambito delle virtù, come ancelle della carità.

Per questa tappa, il testo fondamentale è il Discorso della montagna. Esso ci indica, se­condo san Tommaso, le regole dei nostri atti interiori, per disporre i movimenti del nostro cuore e della nostra mente conformemente all’amore di Dio, sul modello della generosità del Padre, e secondo l’amore del prossimo spinto fino all’amore dei nemici e alla preghiera per i persecutori. Così il Discorso ci mette alla scuola di Cristo mediante l’imitazione della sua ob­bedienza al Padre e nel servizio fraterno. Come regola interiore, esso raggiunge la definizione della Legge nuova, inscritta dallo Spirito nei cuori e operante per mezzo della carità.

4.1J I perfetti e la Legge dello Spirito Santo

La terza tappa conclude il processo dell’educazione conducendo la libertà alla sua matu­rità. Due aspetti la caratterizzano: la padronanza e la fecondità. Come il talento fiorisce grazie all’abilità e all’esperienza acquisite in un’arte, così, sul piano morale, la nostra libertà giunge alla sua pienezza grazie alla capacità che le virtù ci concedono di compiere azioni eccellenti, paragonabili ai buoni frutti di cui parla il Vangelo, che perfezionano noi stessi e sono vantag­giosi per molti. La padronanza comporta la facoltà di agire quando lo si vuole, con facilità, gioia e abbondanza. Essa ci conferisce la capacità di ordinare con efficacia la nostra vita e i nostri atti a un disegno superiore, a un compito importante, a servizio di una comunità, in una famiglia, nella società civile o nella Chiesa.

Lo stesso vale per la carità. I «perfetti», di cui parla san Tommaso, che riprende questo

La carità e le tappe della vita spirituale

4 .1 .2 1 proficienti e i l Discorso della montagna

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La vita spirituale del cristiano

termine da san Paolo (lCor 2,6) e dalla tradizione, non designano assolutamente dei cristiani che riposano ormai nella loro perfezione guardando gli altri dall’alto, ma piuttosto coloro che hanno raggiunto una carità adulta, il cui cuore è totalmente assorbito dall’amore di Cristo e che trovano la loro gioia nel consacrarsi al suo servizio, nel dedicarsi al bene dei loro fratelli secondo la loro vocazione e il loro ministero nella Chiesa. Questa perfezione della carità è principalmente l’opera della grazia in essi. Questi sono effettivamente i frutti dello Spirito che enumera san Paolo: la carità prima di tutto che dà la forza e l’impulso; poi la padronanza di sé insieme con la pace, la pazienza e la dolcezza, che sono i segni della maturità, dell’equili­brio e della solidità acquisiti; infine la benevolenza, la bontà e la fiducia negli altri che assicu­rano la fecondità dell’agape. È utile notare inoltre che nell’ordine della carità, i più perfetti sono anche i più umili e i meglio disposti al servizio, anche a quello più oscuro.

La perfezione della carità si manifesterà particolarmente attraverso una stretta associazio­ne tra due desideri apparentemente contrari che san Paolo esprime quando confida ai Filip- pesi: «Da una parte [ho] il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio», e, d ’altra parte, «è più necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d ’aiuto a voi tutti, per il pro­gresso e la gioia della vostra fede» (1,23-25).

Paolo definisce con precisione in questo passo il duplice movimento di fondo che anima la carità apostolica, così come si esercita nella dedizione a un incarico, a una comunità, in ogni servizio fraterno. L’esperienza rivela a chi vi si dedica senza riserva che i due comi del dilemma del {'agape, lungi dal contrapporsi, si rinforzano piuttosto l’uno con l’altro: più cre­sce in noi l’amore di Cristo che ci attira a sé nel segreto del cuore e nella solitudine, e più au­menta la nostra disponibilità al servizio e alla dedizione fraterna. Al contrario, noi sperimen­tiamo che nell’ordine della carità è dando che si riceve di più e più sicuramente. Infatti predi­cando, insegnando, comunicando il Vangelo, in un modo o in un altro, specialmente agli umi­li e ai piccoli, si ottiene la grazia di comprenderlo meglio e di percepire la presenza del Signo­re dietro le parole, in coloro che l’ascoltano e che si nutrono di Lui. La corrispondenza di questi due movimenti della carità ci fornisce una chiave per risolvere il problema sempre ri­sorgente dell’associazione tra la contemplazione e l’azione. La risposta è da cercare sul piano della carità che ci spinge a seguire Cristo, sia nel segreto della nostra camera per la preghiera sia in mezzo alla gente per il servizio del Vangelo.

Questa tappa della crescita spirituale è regolata dalla Legge nuova come grazia e mozione dello Spirito Santo operante per mezzo della carità. Si può contraddistinguerla con l’azione predominante dei doni dello Spirito Santo che ci dispongono a ricevere i suoi impulsi e ad agire con una perfezione che supera la misura della semplice ragione, come quando si è por­tati da un’ispirazione speciale verso la povertà, la casdtà o il perdono, come mostra l’interpre­tazione delle beatitudini da parte di san Tommaso (l-ll, q. 69, a. 3). L’età dei «perfetti» si rive­la come il tempo dell’effusione mistica, delle creazioni apostoliche, delle grandi opere dottri­nali e spirituali, come umili mansioni nascoste che un amore paziente e fedele trasfigura.

Aggiungiamo, per completare, che le tappe della crescita spirituale che abbiamo distinto concordano con le tre vie divenute classiche presso i mistici, sulla scia del De triplici via di

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La carità e le tappe della vita spirituale

san Bonaventura. La via purgativa, legata al distacco e alla purificazione, è propria degli inci­pienti. La via illuminativa comporta delle grazie di luce, in particolare nella preghiera, e sup­pone un'esperienza spirituale caratteristica dei profìcienti. La via unitiva è contraddistinta da un’unione a Dio consumata, spesso paragonata al matrimonio, e da un’intimità di vita con Cristo che garantisce la maturità di questo amore. Nei mistici queste tappe della vita spiritua­le saranno descritte soprattutto dal punto di vista dell’azione di Dio nell’anima, a seconda che mediante la sua grazia operi nell’anima purificazione, illuminazione e unione.

Indicazioni bibliografiche

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carità in teologia morale, Brescia 1959).H . D. Noble, La charité, «Somme des Jeunes», Paris 1936.Id., L’amicizia con Dio, Torino 1940.B. Olivier, La Charité, in Initiation théologique, III, Paris 1963.J.-M. Perrin, Il mistero della carità, Roma 1965.S. Pinckaers, Le Renouveau de la morale, cit., pp. 256ss.Id., Les Acts humains, t. 2, «Somme des Jeunes», Paris 1966, pp. 240ss.F. Prat et al., art. «Charité», in DSp, il, 1953, coll. 507-691.A. Rosmini, La dottrina della carità, Domodossola 1931.G. Rotureau, art. «Charité», in Catholicisme, II, 1950, coll. 659-676.R. Spiazzi, Piccola teologia della carità, Roma 1961.C. Spicq, Agapè dans le Nouveau Testament, 3 voli., Paris 1958-1959.C. Wiener, art. «Charité», in Voc. Th. bibi, Paris 1970, coll. 46-56.

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Capitolo undicesimoL’ORGANISMO DELLE VIRTÙ E DEI DONI

DELLO SPIRITO SANTO

Dopo aver considerato le virtù teologali, è utile estendere il nostro sguardo ed esaminare l’intero organismo delle virtù che esse animano e di cui sono come la testa cristiana. Si può infatti applicare alle virtù il paragone del corpo che san Paolo utilizza per spiegare la distin­zione e il concatenamento dei carismi nella Chiesa. Siamo troppo abituati a pensare le virtù isolatamente; è importante prendere coscienza del fatto che, nella realtà, esse formano un or­ganismo e non possono agire o svilupparsi se non insieme, come le membra del nostro corpo. Ogni virtù possiede la sua identità e la sua funzione propria, ma deve esercitare il suo ruolo per il bene dell’uomo nella sua totalità con la collaborazione delle altre virtù, per impulso della carità che le riunisce tutte. Così le virtù servono a far agire la grazia dello Spirito Santo che definisce la Legge nuova, e formano la struttura della vita spirituale.

I. Riscoprire la virtù

Prima di descrivere l’organismo delle virtù che sostiene la vita cristiana, è indispensabile richiamare in poche parole la natura della virtù, poiché l’uso ha estremamente impoverito il significato del termine. Causa di perfezione e di gioia per gli antichi, la virtù ha perso per noi le sue attrattive, come una serva rugosa per gli anni. Essa tuttavia nasconde dentro di sé un tesoro che non è invecchiato. Sta a noi riscoprirlo, se vogliamo avere di che costruire solida­mente insieme con lo Spirito Santo.

Per definirla, diciamo semplicemente che la virtù designa le disposizioni del cuore e della mente che ci rendono capaci di compiere azioni di alto valore. Le virtù sono atteggiamenti fermi che ci fanno agire per il meglio e tendere verso la perfezione che conviene alla nostra persona e alle nostre opere. In una parola, le virtù ci consentono di esercitare pienamente il nostro mestiere di uomini. Solo l’esperienza rivela veramente ciò che possono essere queste qualità dinamiche.

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La vita spirituale del cristiano

Ricordiamo che le virtù così intese non sono delle semplici abitudini—una sorta di mec­canismo psichico formato in noi dalla ripetizione degli stessi atti materiali—che diminuireb­bero l’impegno personale; esse sono propriamente degli habitus, delle disposizioni ad agire sempre meglio, ottenute con una successione di atti intelligenti e liberi1.

1.1 La virtù cristiana

Per applicare la dottrina delle virtù alla vita spirituale, è peraltro indispensabile compren­dere quale trasformazione il cristianesimo abbia apportato nella concezione della virtù. Noi infatti tendiamo troppo a immaginare la virtù come il risultato dello sforzo umano che si conforma alla legge morale, come un’abitudine acquisita di obbedire ai precetti morali nono­stante la difficoltà e la fatica. Queste sarebbero le cosiddette virtù acquisite, causa di merito secondo i cattolici, ma oggetto di contestazione per i protestanti, in nome della fede che giu­stifica senza le opere.

La catechesi cristiana ha annoverato le virtù tra i doni spirituali o carismi elargiti dallo Spirito Santo; essa ha messo in evidenza la fede e in particolare l'agape, come il dono più grande (lCor 13). Questo insegnamento si poneva nella linea dell’Antico Testamento che parla delle «forze» o delle «virtù» di Dio (ischus, dynamis), come la manifestazione della sua potenza in favore di coloro che confidano in lui. La virtù è dunque presentata come una forza divina, un impulso che viene dall’alto, un’opera della grazia. Essa tuttavia penetra nel concre­to della vita: l'agape è paziente e benigna, fiduciosa e dolce, sopporta tutto.

1.2 Virtù infuse e virtù acquisite

Questa è la dottrina che la teologia posteriore ha ripreso ed espresso nella sua teoria delle virtù infuse. Essa presuppone un’associazione tra la grazia e la nostra volontà tale che le no­stre azioni siano al tempo stesso opera dello Spirito Santo e del nostro sforzo, in risposta alla sua mozione, grazie all’unione delle volontà che realizza la carità.

Anche se conviene distinguerle, occorre ad ogni costo evitare di dissociare le virtù acqui­site e le virtù infuse situandole su piani separati, naturale o umano da una parte, soprannatu­rale dall’altra. La differenza ha una sua utilità per l’analisi delle virtù e lo studio delle loro condizioni; ma la loro separazione è mortale per il loro esercizio e per il dinamismo della vita cristiana. Come indica il loro nome, le virtù infuse penetrano all’interno delle virtù acquisite, come una linfa nuova sotto la vecchia corteccia, per ispirarle, trasformarle e completarle, an­che sul piano naturale. D’altra parte, le stesse virtù teologali non possono agire senza prende­re forma nelle virtù morali, senza il discernimento prudenziale, senza il coraggio e la tempe­ranza, che sono come i muscoli e il senso dell’equilibrio nell’organismo cristiano delle virtù.

La virtù designa dunque un insieme di qualità dinamiche formate in noi dalla grazia dello

1 Cfr. il nostro libro Le Renouveau de la morale, cit., parte il, cap. IV: «La vertu est tout autre chose qu’une habitude». Si vedano anche gli articoli «Habitude, Habitus» e «Infus», nel Dictionnaire de Spiri- tualité.

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Spirito, integrate alla nostra libera volontà per mezzo dell 'agape, per farci portare frutti di vi­ta e compiere opere che piacciano a Dio. La virtù cristiana è insieme spirituale, soprannatura­le e tuttavia profondamente umana.

Questa duplice dimensione, divina e umana, si incontra in san Paolo così come in san Tommaso. Nel suo sermone sulla conversione di san Paolo, Newman espone in questi termini quale sia, a suo giudizio, il dono caratteristico dell’Apostolo: «In lui la pienezza dei doni divi­ni non tende a distruggere ciò che egli ha di umano, ma a spiritualizzarlo e a perfezionarlo... Paolo è capace di identificarsi alla natura umana e di simpatizzare con essa, in un modo che non appartiene a lui»2. Nella sua catechesi morale, Paolo citerà effettivamente numerose virtù assai umane, di fronte a liste di peccati che purtroppo non lo sono di meno.

Quanto a san Tommaso, lo studio delle virtù cardinali e di quelle loro annesse, condotto sulla base di Aristotele e di altri filosofi, è così sviluppato che il lettore moderno ha l’impres­sione di avere a che fare con una morale in cui la componente umana e razionale trova mag­giore spazio della dimensione cristiana. In realtà è quest’ultima che prevale, ma, nella pro­spettiva unificante che abbiamo adottato, il Dottore angelico ci offre una dottrina sulle virtù umane indispensabile per illuminare la vita spirituale, per assicurarne l’equilibrio e la solidità.

1.3 Una differenza tra san Paolo e san Tommaso

Esiste tuttavia una differenza importante tra i nostri due dottori a proposito della virtù. San Tommaso comincia il suo trattato sulla morale cristiana con un lungo studio sulla virtù, in generale, mentre san Paolo usa una sola volta la parola virtù (arete): «In conclusione, fra­telli, tutto quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8). Questa constatazione non significa che san Paolo abbia poca considerazione della virtù; ma egli la guarda dal suo punto di vista di predicatore che deve insegnare le virtù in modo concreto, citandole con il loro nome particolare: l’amore fraterno, la sopportazione, la spe­ranza, la misericordia, ecc., senza aver bisogno di passare a una considerazione generale che esige dei termini più astratti, come habitus, e delle classificazioni, come virtù teologali e cardi­nali, idea che sta in primo piano nella prospettiva più teorica di san Tommaso e della scolasti­ca. Le due considerazioni saranno tuttavia necessarie per trattare in modo adeguato la vita spirituale, Luna per guidarla efficacemente, l’altra per riflettervi intelligentemente.

L'organismo delle virtù e dei doni dello Spirito Santo

2. L'organismo delle virtù, ossatura della vita spirituale

Consideriamo ora l’organismo delle virtù proposto da san Tommaso nella Summa Theolo- giae. Esso forma l’ossatura della vita morale e spirituale e si manifesta conformemente alla de­finizione della Legge nuova come «la grazia dello Spirito Santo ricevuta mediante la fede in Cristo, operante per mezzo della carità», con il complemento delle virtù morali.

2 Sermone all’Università di Dublino ( 1857).

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La vita spirituale del cristiano

Notiamo qui che dopo san Tommaso l’uso dello schema delle virtù resterà classico tra gli autori spirituali per descrivere la vita ascetica, la ricerca della perfezione con l’aiuto della gra­zia ordinaria. Tuttavia, malgrado un’incontestabile volontà di fedeltà, le differenze con il Dot­tore angelico saranno grandi: l’ascetica non sarà più legata a una morale regolata dalle virtù, ma dai comandamenti; si tenderà, come Scaramelli nel suo Direttorio ascetico, a trattare le virtù morali prima delle virtù teologali perché esse mettono direttamente in opera lo sforzo di ascesi; le virtù verranno separate dai doni dello Spirito Santo che si attribuiranno alla mistica perché li si considera come grazie straordinarie.

L’organizzazione delle virtù che ci propone san Tommaso può essere rappresentata in una tabella, una sorta di organigramma, che esporremo brevemente5.

2.1 Dalla grazia dello Spirito Santo alle virtù

Alla sorgente della vita spirituale e all’origine della sua struttura sta la grazia dello Spirito Santo che noi riceviamo mediante la fede in Cristo, quando apriamo la nostra intelligenza e la nostra volontà alla luce della Parola di Dio. Alla fede si aggiungono in uno stesso movimento la speranza e la carità che la rendono attiva per impulso della grazia.

Mediante questo impegno spirituale, la grazia dello Spirito penetra nelle virtù morali re­golate dalla ragione e riunite attorno alla prudenza che disceme ciò che conviene fare, alla giustizia che regola le relazioni con gli altri, alla fortezza e alla temperanza che garantiscono il controllo della sensibilità e la sua partecipazione all’azione. La grazia assume in tal modo le virtù umane e le coordina alle virtù teologali; essa raggiunge la sensibilità e l’immaginazione e discende fino alle profondità dell’«inconscio»; si incarna associando il corpo stesso all’agire spirituale e dispone così l’uomo tutto intero alla beatitudine in Dio.

Inoltre, per il fatto che la nostra condizione carnale è stata assunta dal Figlio di Dio, alla grazia interiore corrispondono come degli strumenti esteriori e visibili, la Scrittura nel suo testo, la Bibbia, e i sacramenti con la liturgia. Così si stabilisce una connessione essenziale tra la vita spirituale animata dalle virtù, la lettura della Scrittura come Parola di Dio e la vita sacramentale, disposta intorno al Battesimo e all’Eucaristia come celebrazione della Passione del Signore.

2.2 Le virtù perfezionate dai doni

La dottrina delle virtù non basta tuttavia a rendere conto dell’azione dello Spirito Santo così come si manifesta in san Paolo, in modo particolare, e nell’esperienza spirituale. Nella collaborazione tra la grazia e noi, le virtù rappresentano la parte attiva della nostra partecipa­zione; ma la loro azione ha bisogno di essere completata dai doni che ci dispongono ad acco­gliere le mozioni dello Spirito e costituiscono la pane passiva o ricettiva della vita spirituale; essi ci rendono docili alla grazia.

5 Cfr. il nostro libro Les Sources de la morale chrétienne, cit., cap. vn.

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L’organismo delle virtù e dei doni dello Spirito Santo

La dottrina dei doni dello Spirito Santo è stata elaborata da sant'Agostino nella sua spie­gazione delle beatitud in i evangeliche alla luce di san Paolo che presen ta l ’agire cristiano com e una vita secondo lo Spirito (Rm 8). San Tommaso la riprende, ma la innesta sull’organismo delle virtù che forma la base della sua morale. A ciascuna delle sette virtù principali egli af­fianca un dono: l’intelligenza e la scienza alla fede, il timore alla speranza, la sapienza alla ca­rità, il consiglio alla prudenza, la pietà alla giustizia, la fortezza al coraggio, ancora il timore alla temperanza. L’effetto dei doni è di rendere l’azione perfetta, come quando sopraggiunge un’ispirazione superiore in colui che dà il meglio di sé secondo le regole della sua arte.

Questa dottrina dei doni è prima di tutto, in sant’Agostino, una predicazione catechetica, alimentata dalla meditazione di san Matteo, san Paolo e Isaia. Essa contiene idee e orienta­menti teologici fecondi che san Tommaso adatterà alla propria sistematizzazione. E un bell’esempio di sviluppo di una dottrina spirituale a partire dal Vangelo, che riunisce la cate­chesi, la spiritualità e la riflessione teologica. Il ricongiungimento dei doni con le virtù opera­to da san Tommaso significa: 1) che l’azione dello Spirito Santo si esercita nello stesso tempo mediante le virtù e mediante i doni, secondo due modalità complementari, attiva e recettiva, poiché i doni sono necessari al pieno sviluppo delle virtù, mentre queste ultime formano la base dei doni; 2) che i doni, come le virtù, sono concessi a tutti i cristiani, quali che siano le variazioni e i gradi nella realizzazione, nella presa di coscienza e nel progresso.

Per il Dottore angelico le virtù e i doni costituiscono insieme la struttura della vita cristia­na. Se si vuole restarvi fedeli, non si possono dunque separare le virtù dai doni, attribuendo per esempio le prime alla vita ascetica e i secondi alla vita mistica. Non si può nemmeno riser­vare la ricerca della perfezione mediante le virtù a un ristretto numero di persone, né il godi­mento dei doni dello Spirito Santo a una cerchia ancora più ristretta favorita da grazie straor­dinarie. Conformemente all’insegnamento di san Paolo, l’azione dello Spirito Santo mediante le virtù e i doni si esercita nella vita di ogni cristiano e nella Chiesa intera garantendovi la continuità. Essa mira all’unità e alla convergenza nella diversità dei percorsi e delle vocazioni.

2.3 I doni e le virtù morali infuse

San Tommaso sembra aver avuto una percezione particolarmente acuta dell’azione dello Spirito Santo. È lui che ha intuito la distinzione tra i doni e le virtù osservando che Isaia, nel­la sua enumerazione, usa il termine «spirito», e parla piuttosto di ispirazioni: «Su di lui si po­serà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, ecc.» (11,2). Sono dei doni sot­to forma di disposizioni a ricevere queste ispirazioni c a corrispondervi. Essi sono costanti, un po’ come la prontezza di un discepolo ben formato a cogliere il pensiero del suo maestro. Sono propriamente degli habitus e procurano alla vita spirituale una fermezza superiore.

Proseguendo la sua riflessione su questa linea, il nostro Dottore elaborerà la sua dottrina delle virtù morali infuse. Una trasformazione interna delle virtù umane gli sembra necessaria per adattare queste ultime alla loro nuova finalità e far sì che esse contribuiscano efficace­mente all’opera della grazia. Questa modificazione si manifesterà con una misura e dei criteri nuovi nella valutazione e nel giudizio pratico. Altro sarà la temperanza nel nutrimento in co­

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La vita spirituale del cristiano

lui che bada al mantenimento della sua salute secondo la misura della ragione, altro quella di san Paolo quando «tratta duramente il suo corpo e lo trascina in schiavitù» per amore di Cri­sto. Altro è anche la giustizia che regola i nostri rapporti nella società umana, e altro la giusti­zia che fa di noi dei «concittadini dei santi e familiari di Dio» (i-u, q. 63, a. 3 e 4).

2.4 La connessione delle virtù mediante la carità e la prudenza

L’organizzazione delle virtù elaborata da san Tommaso sulla base delle sette virtù princi­pali deriva da dati tradizionali, completati da un’analisi dettagliata che riguarda una cinquan­tina di virtù connesse. Per affrontare questa moltiplicazione, è essenziale individuare chiara­mente i fattori d’unità che le riuniscono in vista dell’azione. Secondo il nostro Dottore, la coordinazione delle virtù è garantita dalla carità con l’aiuto della prudenza.

La carità è l’amore di Dio donato dallo Spirito, che esercita in noi come nella Chiesa la sua potenza unificante: essa riunisce tutte le virtù, come in un corpo vivente, e le dispone, ciascuna al suo livello, secondo la sua funzione, alla visione amorosa di Dio, vero e pieno fine ultimo dell’uomo. La carità è la virtù per eccellenza. Essa sta all’origine stessa della vita spiri­tuale. Si può paragonarla al sangue che, per impulso del cuore, circola in tutto il corpo per nutrirne gli organi. Senza di essa le altre virtù diventano sterili e languiscono; esse infatti non possono fruttificare davanti a Dio.

Tuttavia la carità non potrebbe compiere convenientemente la sua opera senza la pruden­za, che è per la vita spirituale come l’occhio nel corpo. È infatti grazie alla prudenza, virtù del giudizio e della decisione, che noi sappiamo scoprire la misura che conviene nell’esercizio di ogni virtù, compresa la pratica della carità. Per quanto sia generosa, quest’ultima si smarri­rebbe senza il discernimento della ragione. Come virtù della ragione credente e amorosa, la prudenza esercita dunque, anch’essa, una funzione generale tra le virtù: essa assicura la loro connessione nel giudizio sull’azione concreta e ci guida passo passo sulle strade, talora sor­prendenti, che ci conducono verso la beatitudine promessa.

Questo è proprio l’insegnamento delfesperienza cristiana che ci è testimoniato, per esem­pio, da Cassiano, nella sua seconda Collatio, quando racconta la discussione di sant'Antonio con un gruppo di anziani monaci nel suo eremitaggio in Tebaide. La questione era: quale virtù può meglio proteggere il monaco contro le illusioni del demonio e condurlo alla perfe­zione? Per Antonio, questa virtù preziosa non sta né nella fedeltà alle osservanze ascetiche, né nella rinuncia totale e nemmeno nella pratica della carità, ma nella sola virtù di discernimen­to, la quale, con occhio semplice e luminoso, individua nei nostri pensieri e nei nostri atti la via regale del Vangelo, senza deviare a destra, verso un fervore sconsiderato, né a sinistra, ver­so una torpida rilassatezza. Il discernimento è pertanto come la lampada interiore che ci illu­mina e ci guida progressivamente sulle vie della vita spirituale. Questa dottrina spirituale sarà una delle fonti del trattato di san Tommaso sulla prudenza.

Anche qui occorre evitare di porre una separazione. Senza dubbio la carità è nella vo­lontà, nell’affettività, e la prudenza nella ragione; l’una è una virtù teologale e l’altra una virtù morale. Tuttavia carità e prudenza, che hanno un ruolo di unificazione, lavorano tenendosi

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per mano e sono necessarie Luna all’altra. Una carità senza discernimento rischia di far più male che bene e finisce per degradarsi. Una prudenza senza amore non ha il senso né il desi­derio del fine a cui dovrebbe condurci; come potremmo valutare correttamente ciò che non amiamo?

È dunque grazie alla congiunzione dell’insieme delle virtù—realizzata con l’aiuto della ca­rità e della prudenza, con i doni di sapienza e di consiglio—che la grazia dello Spirito Santo compie a poco a poco in noi la sua opera di santificazione nel quadro della Legge nuova.

2.5 II ruolo delle passioni nella vita spirituale

Un’altra considerazione è importante per mantenere l’unità della vita spirituale: la coordi­nazione tra le passioni e le virtù stabilita su solide basi da san Tommaso.

Precisiamo innanzitutto che le passioni sono qui intese come i moti della sensibilità—po­tremmo dire i sentimenti, le emozioni—senza la connotazione peggiorativa che dà loro il no­stro uso attuale, secondo il quale la passione designa spesso un impulso dominante, eccessivo, contrario alla ragione. Le principali passioni sono l’amore e l’odio, il desiderio, il piacere con la gioia, il dolore con la tristezza, la speranza e la disperazione, il timore e l’audacia, la collera.

San Tommaso ha un senso profondo dell’unità del composto umano. Per lui la passione non è né una malattia dell’anima, come pretendevano gli stoici, né una minaccia e un ostacolo per la libertà, diminuendo il carattere volontario degli atti, come si legge correntemente nei manuali di morale classici. Egli nemmeno separa la mente dalla sensibilità, come farà Descar­tes, che considera le passioni come una specie di meccanismi psichici.

Per il Dottore angelico, al di là delle tensioni suscitate nell’uomo dal peccato e mantenute dalla concupiscenza, che la corrente agostiniana sottolinea, e dietro i conflitti talora dramma­tici che possono sorgere, esiste una coordinazione naturale tra la sensibilità e la mente, una predestinazione all’armonia che andrà a fortificare la virtù. Questa sarà l’opera della tempe­ranza riguardo ai desideri, del coraggio di fronte alla paura. Su questo punto, san Tommaso si distingue nettamente dalla scuola francescana che poneva la virtù morale unicamente nella volontà. Il nostro Dottore non esita a fare della sensibilità stessa il soggetto delle virtù che la correggono e la accordano alla ragione amorosa.

D vasto trattato sulle passioni della Summa Theologiae (i-ii, qq. 22-48) è assai significativo a questo riguardo. È un’opera originale, troppo trascurata dai moralisti e dagli spirituali. Essa si fonda sull’idea che esiste una connessione naturale nell’uomo tra la sensibilità e le facoltà spirituali, sul piano dclTagire così come al livello intellettuale dove la nostra conoscenza parte dal sensibile. La relazione tra passioni e virtù che ne consegue implica un legame tale da per­mettere un passaggio dalle une alle altre. Così il trattato sulle passioni della Summa è una pre­parazione diretta dello studio sulle virtù, anche a livello teologale. È chiaro infatti che l’analisi della passione d’amore che giunge all’amore d’amicizia, alla spiegazione dell’adesione reci­proca, dell’estasi e dello zelo è direttamente orientata verso il trattato sulla carità, definita co­me un’amicizia con Dio, e comporta anche una dimensione mistica. Similmente lo studio del­la speranza e del timore prepara il trattato sulla speranza con il dono del timore. San Tomma-

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La vita spirituale del cristiano

so arriverà anche a utilizzare l’analisi della delectatio, che congiunge il piacere e la gioia, per elaborare la sua teoria della beatitudine nella visione di Dio4.

Scopriamo qui una differenza essenziale, che si comunica alla spiritualità, tra le morali del puro obbligo e degli imperativi e la morale delle virtù che propone san Tommaso. Le prime fondano il valore morale e spirituale escludendo la sensibilità, reprimendola. San Tommaso certamente non disconosce la necessaria lotta contro «la carne», contro l’eccesso delle passio­ni, ma presuppone un’armonia innata tra la sensibilità e la virtù, di cui vede l’origine nella creazione dell’uomo a immagine di Dio. Egli mira alla restaurazione di questa armonia, per quanto è possibile su questa terra, per mezzo delle virtù e dei doni dello Spirito Santo. Per questo la sensibilità può dare il suo contributo nell’edificazione della vita spirituale e ricevere la sua parte di grazia, sotto forma di gioia, di pace, di dolcezza, di padronanza di sé, di ca­stità, annoverate tra i frutti dello Spirito (Gal 5,22).

3. Paragone ira san Paolo e san Tommaso sulla dottrina delle virtù

Abbiamo già rilevato alcune differenze tra san Paolo e san Tommaso riguardo alla dottri­na delle virtù, a causa della diversità dei loro punti di vista. Ne richiamiamo gli elementi. San Paolo ha una considerazione di tipo catechetico e apostolico; è una paradesi vicina all’espe­rienza, direttamente finalizzata alla pratica della virtù. Egli prende in esame le virtù nella loro peculiarità e le collega strettamente alla carità che si esercita in esse. Inoltre sottolinea il lega­me delle virtù con la persona di Cristo e le considera soprattutto come doni dello Spirito. Non ha una dottrina sulla virtù in se stessa, cita a malapena il suo nome e nemmeno menzio­na le quattro virtù cardinali.

San Tommaso, per parte sua, segue una considerazione teorica, anche se essa in ultima analisi mira alla pratica; inoltre è di natura fondamentalmente razionale e relativamente astratta, prevalentemente analitica, anche se arriva a una vasta sintesi. Egli compone un’opera di teologia, di riflessione scientifica. Comincia con uno studio della virtù in generale, come habitus, e scende poi verso le virtù particolari, associate ai doni e contrapposte ai peccati. Egli organizza le virtù intorno alle tre teologali, riprese da san Paolo, e alle quattro cardinali, ere­ditate dalla filosofìa greca.

Questi due approcci che dipendono da due registri differenti, la paradesi e la teologia, so­no in realtà complementari, poiché l’uno ha generato l’altro. La dottrina di san Tommaso è un frutto del Vangelo di Paolo, pensato e vissuto nd fervore spirituale del xin secolo, di fronte al­la filosofìa venuta da Atene, dove Paolo predicò; essa è stata elaborata alla luce di una ragione credente e amorosa. Per scorgere questa complementarità e l’accordo di fóndo attraverso le differenze, conviene, al termine di questo capitolo, ritornare alla fonte primaria e precisare brevemente alcune caratteristiche della catechesi dell’Apostolo dei gentili sulle virtù.

4 Cfr. il nostro articolo Les passioni et la morale, in RSPT 74 (1990), pp. 379-391.

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L’organismo delle virtù e dei doni dello Spirito Santo

3.1 La relazione con la persona di Cristo

La relazione vivente con la persona di Cristo nello Spirito è fondamentale per Paolo e ovunque presente nel suo pensiero. Essa è originata e mantenuta dalla fede, dall’amore, e rie­voca l’unione degli sposi nel matrimonio. Così sotto ogni menzione di virtù che l’Apostolo rac­comanda si può porre il nome di Cristo, secondo l’esortazione della lettera ai Filippesi: «Ab­biate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (2,5). Gesù diventa il vero modello di ogni virtù, presente e operante nel cuore dei credenti per mezzo della grazia dello Spirito. Le virtù contribuiscono, da quel momento, a riprodurre nella vita del cristiano i «misteri» di Cristo: la pazienza nella persecuzione e nelle prove è una partecipazione a quella di Gesù nella sua Passione; la vigilanza diventa un’attesa della venuta di Cristo. Allo stesso modo l’umiltà e l’obbedienza che sostiene la speranza della gloria, la dolcezza e il perdono fraterno, l’assiduità nella preghiera e l’ospitalità, tutte le virtù diventano una comunione con quelle di Cristo de­scritte nel Vangelo. Questa sarà l’opera di santificazione affidata allo Spirito Santo.

La presenza della relazione con Cristo e l’azione dello Spirito appaiono chiaramente, tra le altre, nel modo in cui Paolo tratta i casi di coscienza che gli vengono sottoposti. Egli ne trae i criteri più determinanti del suo giudizio. Nella prima lettera ai Corinzi, per esempio, ri­fiuta la fornicazione ricordando: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?... Non appartenete a voi stessi, infatti siete stati comprati a caro prezzo». Poi aggiunge: «O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio?» (6,15-20). San Paolo ci offre qui un modello per l’esame dei problemi concreti di ordine mo­rale e spirituale.

3.2 11 senso dell’umano

Nello stesso tempo, come notava giustamente Ncwman, san Paolo ha un profondo senso dell’umano, così come la stima del buon senso. Egli si sente giudeo con i giudei, greco con i greci, si potrebbe aggiungere barbaro con i barbari, peccatore con i peccatori. Perciò non esita ad attingere dai filosofi, che sono dei testimoni d ’umanità, così come dalle liste di vizi e virtù che circolano al suo tempo negli ambienti colti. Ma così facendo egli trasforma questi dati in- troducendoli in un organismo spirituale nuovo animato dall’amore di Cristo. Allo stesso mo­do, quando esamina un problema di coscienza, comincia regolarmente con una riflessione di buon senso simile a quella che poteva fame un filosofo, come nel caso della fornicazione che abbiamo appena richiamato: «Fuggite la prostituzione! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impudicizia, pecca contro il proprio corpo» (lCor 6,18). Questo criterio di ordine razionale è per Paolo una preparazione all’applicazione del principio del rapporto con Cristo e con lo Spirito che interviene in seguito come un a fortiori.

3.3 Le virtù come forme della carità

A causa della relazione con Cristo presente nelle virtù, Yagape sta al cuore di ogni azione

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del cristiano che essa ispira. Perciò si possono considerare le virtù, prese nell’esperienza pra­tica, come forme della carità. Ecco perché esse ricevono in san Paolo, anche se la loro presen­tazione è di orìgine pagana, una dimensione cristologia. Per quanto esse possano sembrare umili, l’esercizio di queste virtù ci mette in relazione con Dio, con il Padre mediante Cristo, e ci inserisce nella comunione della Chiesa.

3.4 Alcune virtù generali

Menzioneremo infine alcune virtù di portata generale in san Paolo e che san Tommaso spiega diversamente.

a. Citeremo innanzitutto la giustizia che nella Bibbia designa la qualità morale per eccel­lenza. È di essa che Paolo parlerà alla comunità di Roma, di orìgine giudaica, per mostrare la potenza della fede. Insegnata da una Legge che non poteva darla, la giustizia che conferisce la fede in Cristo possiede veramente una dimensione teologale, che confermerà la sua applica­zione mediante la carità. San Tommaso, per pane sua, sulla base di Aristotele, situa la giusti­zia prima di tutto al livello della società e considera il rapporto personale dell’uomo con Dio, di cui parla san Paolo ai Romani, come una giustizia in senso metaforico. Anche se conserva un valore generale, la giustizia diventa anzitutto, nel suo sistema, una virtù cardinale, il che mette in risalto il suo ruolo nell’organizzazione e nella vita sociale.

b. La sapienza era la virtù suprema per i greci; essa riuniva le altre virtù per fame le colon­ne del Tempio che le era dedicato. Così essa avrà un posto di primo piano nella prima lettera ai Corinzi dove Paolo predica audacemente la Croce di Cristo, come fonte della sapienza di Dio, trasmessa dalla carità. Anche la sapienza donata dallo Spirito raggiunge in lui una di­mensione teologale. San Tommaso, che vede nella teologia un’opera di sapienza, continuerà a riservare a qucst’ultima un valore generale all’apice delle virtù intellettuali. Egli attribuirà il dono di sapienza alla carità: infatti per lui è proprio quest’ultima la virtù principale, la «for­ma» di tutte le virtù; ma la sapienza regola, per parte sua, l’ordine della conoscenza e della contemplazione credente. Come si vede, la dottrina è sostanzialmente la stessa, ma le catego­rie di cui fa uso il Dottore angelico sono più complesse e diversificate.

c. Menzioniamo infine la santità, concetto tanto importante nell’Antico Testamento dove essa designa il Dio tre volte santo, secondo la visione di Isaia (6,1*5), che comunica la sua san­tità al suo popolo conformemente al precetto: «Siete santi, perché io, il Signore, Dio vostro, so­no santo» (Lv 19,2; 20,26). La si ritrova nel Nuovo Testamento applicata a Gesù che è chiama­to «il Santo» (Me 1,24; Le 1,35; At 3,14). Essa è più particolarmente attribuita allo Spirito la cui opera specifica è la santificazione dei fedeli, divenuti per lui come dei templi in cui esso di­mora. Così l’espressione «i santi», dapprima applicata alla comunità di Gerusalemme, sarà ben presto estesa a tutte le comunità di fedeli (Rm 16.2; lCor 1,2; 2Cor 13,12). Si può peraltro no­tare che san Paolo riserva quasi sempre l’aggettivo «santo» a queste due accezioni. Le epistole della prigionia gli danno talvolta un senso morale, ma più che altro come una comunicazione della santità di Dio per mezzo di Cristo (Col 1,22; 3,12; Ef 1,4; 5,27). La santità, come qualità che deve essere ricercata dai cristiani, si incontra nella seconda lettera ai Corinzi: «In possesso

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dunque di queste promesse, purifichiamoci da ogni macchia della carne e dello spirito, portan­do a compimento la nostra santificazione [la santità], nel timore di Dio». Si può vedere anche lTs: «Il Signore vi faccia crescere e abbondare nell’amore... per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro» (3,13). La santità non ha ancora trovato un vero e proprio posto nell’ordine delle virtù in san Paolo, ma la via è indicata.

San Tommaso si è evidentemente posto il problema della collocazione della santità tra le virtù (IM I, q. 81, a. 8). Dopo aver accuratamente analizzato le componenti della santità, egli conclude identificandola sostanzialmente alla virtù di religione, pur distinguendola con la sua nozione: la religione rende a Dio il servizio che gli è dovuto in tutto ciò che concerne il culto divino, mentre la santità lo fa più particolarmente finalizzando le opere delle altre virtù a Dio. Per questo motivo, pur essendo una virtù speciale, la santità esercita un’azione generale sulle virtù, e dunque sulla vita morale e spirituale. L’identificazione con la religione spiega il fatto che la santità non compaia nell’organigramma delle virtù della Summa, anche se vi è conside­rata come una virtù di alto rango. Si può tuttavia osservare che essa resta sul piano delle virtù morali con la religione, mentre se la si considera come l’opera propria dello Spirito di Cristo in noi, sembra proprio che essa acquisti una dimensione teologale.

Questa questione ha una certa importanza per noi, poiché l’ideale della santità, illuminato dalla personalità e dall’esempio dei santi, si è diffuso largamente nella Chiesa fino a soppian­tare, assumendola, la ricerca della giustizia o della sapienza di cui parlano i documenti del Nuovo Testamento. La santità è divenuta, a sua volta, la virtù cristiana per eccellenza, e si po­trebbe tradurre così la parola del Signore che riassume il Discorso della montagna: se la vo­stra santità non supera quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei cieli.

Senza dubbio l’immagine della santità si è ristretta nel corso degli ultimi secoli, poiché si è concentrata sulle esigenze ascetiche e sulle «virtù eroiche» dei santi riconosciute dalla Chiesa. Tuttavia la riscoperta dell’azione dello Spirito, la rivalutazione della fede e dell’amore di Cri­sto all’origine della santità, così come l’affermazione conciliare della chiamata di tutti i battez­zati alla santità, sono dei fattori determinanti per un rinnovamento della spiritualità cristiana, grazie a una lettura attualizzata della Scrittura e a un uso intelligente delle risorse della tradi­zione di santità sempre viva nella Chiesa.

L’organismo delle virtù e dei doni dello Spirito Santo

Indicazioni bibliografiche

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2. I modelli della preghiera

La Scrittura ci presenta numerosi modelli per la preghiera. Citiamo prima di tutto la com­movente intercessione di Abramo, così umana, per i giusri e i peccatori di Sodoma: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola; forse là si troveranno soltanto dieci giu­sti...» (Gn 18,16-33). Poi Mosè che diventa il tipo stesso dell’orante; la sua intercessione pre­figura quella di Cristo, quando sostiene la lotta del popolo contro gli Amaleciti tenendo le mani levate verso Dio fino al tramonto del sole (Es 17,8-16). Egli intercede anche per il pec­cato del popolo dopo l’episodio del vitello d’oro (Es 32,11-14; 32,30-32) e in molte altre cir­costanze diffìcili durante la lunga marcia degli Ebrei nel deserto2.

Gli evangelisti ci mostrano Gesù come il modello perfetto della preghiera. Egli prega spesso e ama ritirarsi per pregare da solo, la notte, sulla montagna (Mt 14,23)*. San Luca in particolare riferisce le sue preghiere in relazione alla sua missione: al momento del suo batte­simo da pane di Giovanni (3*21), prima della scelta dei Dodici quando «passò tutta la notte a pregare Dio» (6,12), in occasione della Trasfigurazione che avvenne mentre egli pregava (9,29), all’origine dell’insegnamento del Pater (11,1).

La preghiera di Gesù culmina nel discorso dopo la Cena che essa corona (Gv 17). Essa riassume tutto il Vangelo in quella che si può chiamare la catena dell’a p e che unisce, nel mantenimento della preghiera, il Padre al Figlio, Gesù ai suoi discepoli e questi ultimi tra lo­ro per fame dei testimoni davanti al mondo. «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano an- ch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (17*21). La pre­ghiera di Gesù annuncia quella di tutti i cristiani, perché egli non ha pregato soltanto per i suoi apostoli, ma anche «per quelli che per la loro parola crederanno in me» (17,20).

La preghiera di Cristo ha un ruolo decisivo nella sua agonia: essa lega in certo modo la vo­lontà di Gesù con la volontà del Padre che egli compirà fino alla croce per la salvezza di tutti. Quando Gesù si rialza dalla sua preghiera al Getsemani, la Passione è già realizzata nel suo cuore.

A imitazione di Gesù, la preghiera caratterizzerà la prima comunità apostolica: «Tutti questi [gli apostoli] erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui» (At 1,14). Questo è il nucleo primitivo ed esemplare della Chiesa; riceverà il dono dello Spirito che lo farà crescere da «Gerusalemme in tutta la Giudea e la Samaria, fino agli estremi confini della terra». Questa crescita sarà con­tinuamente nutrita e sostenuta dalla preghiera.

3. Cristo, Maestro della preghiera

Cristo non è solo un modello; c anche il Maestro della preghiera, in due modi: egli ci inse­gna le parole e il contenuto della preghiera, e prega egli stesso in noi e per noi.

2 Cfr. BJ, Es 32,11, nota f (ed. it. p. 191).* Cfr. Bt, nota a (ed. it. p. 2120).

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La preghiera

Cristo è il Capo della Chiesa, di cui noi siamo le membra: «Pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12,5; lCor 12); «lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo» (Ef 1,22). Questa dottrina si applica particolarmente alla preghiera. La preghiera di Cristo con­tinua nella preghiera dei fedeli e la mette in comunione con la preghiera della Chiesa. Quan­do noi preghiamo il Padre, Cristo stesso prega con noi, lui che ormai sta presso Dio, «sem­pre vivo per intercedere a nostro favore» (Eb 7,25). Le nostre intenzioni di preghiera, per quanto siano umili e personali, vengono così assunte dalla preghiera di Cristo e possono contribuire al bene della Chiesa intera. La preghiera diventa allora l’espressione della «co­munione dei santi».

Ma il Signore conosce la nostra debolezza: «nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare». Per questo Cristo ci ha inviato il suo Spirito che conosce i disegni di Dio, per ispirare e guidare la nostra preghiera; egli stesso prega in noi «con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26-27). Lo Spirito Santo ci insegna a pregare con Cristo e in Cristo, in comunione di Chiesa.

È proprio questa la preghiera che ci insegna la Chiesa nella sua liturgia e nelle sue orazio­ni: essa si rivolge al Padre, mediante Cristo, nello Spirito.

4. Le formule di preghiera

4.1 II Padre Nostro

Cristo è anche nostro Maestro perché ci ha insegnato le parole della preghiera, poiché noi abbiamo bisogno di parole per esprimere a Dio i nostri sentimenti, i nostri desideri, i nostri bisogni, per imparare a parlare con il Padre. Questo è il «Padre Nostro» che san Matteo ha posto al centro del Discorso della montagna (6,9-13) e di cui san Luca (11,2-4) ci ha conser­vato una versione breve.

Il Pater è la preghiera del Signore, così come dello Spirito Santo che ci «attesta che siamo figli di Dio» e «ci fa gridare: Abbà, Padre!» (Rm 8,15-16). Nella versione di Matteo adottata dalla Chiesa, esso si divide chiaramente in due parti: le domande «per te», per il Padre, ri­guardanti il suo Nome, il suo Regno, la sua Volontà, e le domande «per noi», il nostro pane, i nostri debiti, la nostra protezione dalla tentazione e dal male.

Secondo l’interpretazione dei Padri, esposta da sant’Agostino nella sua lettera a Proba, il Pater è una preghiera perfetta perché raccoglie nelle sue brevi domande tutte le preghiere formulate nelle Scritture, in particolare nei salmi, e ci fornisce i criteri per valutare le nostre proprie preghiere, per garantirne la qualità. Il Padre Nostro è la pietra di paragone della pre­ghiera cristiana; poiché procede direttamente dalla preghiera stessa del Signore, ci manifesta le intenzioni del suo cuore e della sua vita.

La perfezione del Pater non è tuttavia tale da escludere altre formule né può bastare ripe­terlo sempre. Esso è piuttosto una fonte di ispirazione per le molteplici preghiere che lo Spi­rito suggerisce alla Chiesa e forma nel cuore dei credenti secondo le loro necessità.

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La preghiera

quale è il Vangelo, e ci insegnano a percorrerlo nella speranza, sostenuti dalle promesse e dal­la misteriosa presenza di Dio.

I salmi furono la preghiera di Cristo e degli apostoli. Essi sono entrati nella trama dei Vangeli; hanno illuminato la vita di Gesù e la storia della salvezza che egli ha scritto. Cristo ha portato a compimento i salmi e continua a farli agire nella vita della Chiesa e dei fedeli.

Per questo la Chiesa ha ripreso il salterio come un elemento principale della sua liturgia; essa però ne ha rinnovato l’interpretazione alla luce del Vangelo finalizzandolo alla persona e all’opera di Gesù. Come insegna sant’Agostino nel suo magnifico commento ai salmi; quando la Chiesa canta i salmi, è Cristo stesso che prega in suo nome, come Capo del Corpo mistico, e in nome della Chiesa con i fedeli che sono le sue membra. I salmi continuano così l’opera dell’Incarnazione, della Passione offerta «per molti, in remissione dei peccati» e cominciata «dopo aver cantato i salmi» (Mt 26,28.30), come pure della Risurrezione annunciata dal sal­mo 15: «Non lascerai che il tuo santo veda la corruzione», secondo il discorso di Pietro che spiega la Pentecoste (At 2,25-28).

II salterio acquista in tal modo un significato spirituale che noi dobbiamo imparare. Non è più un libro del passato che spiegano gli storici; non appartiene più all’Antico Testamento. Deve essere pregato sotto l’impulso dello Spirito, in unione con Cristo, nell’attualità della vita della Chiesa e di ogni fedele. È allora che manifesta la sua verità, la sua potenza e la sua fe­condità spirituale.

5. Definizione della preghiera

Dopo aver considerato i modelli della preghiera, tenteremo di definirla, benché non si possa rinchiuderla in una formula, dal momento che la preghiera è un atto ricco quando è ben fatto: essa impegna tutta la nostra personalità, l’intelligenza come l’affettività.

Sono state proposte molte definizioni della preghiera. Ecco la definizione classica di san Giovanni Damasceno riportata da san Tommaso: «La preghiera è un’elevazione della mente a Dio o la richiesta fatta a Dio di cose oneste»4. San Francesco di Sales, pensando alla funzione della preghiera nella vita spirituale, preferisce dire che «l’orazione è un colloquio e una con­versazione dell’anima con Dio» (Trattato dell’amore di Dio, VI, 1), il che va nel senso della de­finizione dell’orazione mentale data da santa Teresa d’Avila come «lo scambio di amicizia in cui ci si intrattiene spesso e intimamente con Colui del quale sappiamo innanzitutto che ci ama» (Libro della sua vita, 8/5/56).

5.1 La preghiera è una domanda rivolta a Dio

Con la tradizione teologica, possiamo definire la preghiera come una domanda a Dio, a condizione di intenderla nel senso ampio delle domande del Padre Nostro e delle orazioni li-

4 II-II, q. 83, a. 1.

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turgiche. Può essere una domanda per Dio come la santificazione del suo Nome che assume la forma della lode, la venuta del suo Regno tra noi e in noi secondo la nostra speranza, il compimento della sua Volontà nel nostro cuore e nella nostra vita che è l’opera della carità. È anche una domanda per noi e per i nostri fratelli, per ottenere il pane quotidiano, spirituale e corporale, il perdono delle nostre colpe, la protezione dalle tentazioni e dal male in tutte le sue forme. Così intesa, la domanda non si limita alla ricerca del nostro interesse personale; es­sa mette nel nostro cuore il pensiero degli «interessi» di Dio, della Chiesa e di tutti gli uomi­ni; inoltre ci fa partecipare all’opera della salvezza che compie la grazia di Cristo e assume an­che la forma dell’intercessione con tutta l’ampiezza della carità.

La preghiera è la modalità propria che assumono le nostre relazioni con Dio per mezzo della parola. Essa è la nostra risposta alla Parola di Dio che, per primo, ha iniziato la «con­versazione» con il suo popolo fin dall’Antico Testamento, al tempo della vocazione di Abramo, della missione di Mosè e della scelta di Davide. Questo dialogo culmina con l’in - . vio del Figlio, il Verbo di Dio, e con il dono dello Spirito che possiede «l’arte della Parola», come mostra il racconto della Pentecoste. In risposta a questa Parola divina, la nostra pre­ghiera impegna la nostra intelligenza alla luce della fede e la nostra affettività mediante la speranza e l’amore che si esprimono in essa. Così nella nostra preghiera l’ascolto deve pre­cedere la domanda.

Le nostre relazioni con Dio si basano sulla coscienza, illuminata dalla sua Parola, che egli è il nostro Creatore, la fonte e il dispensatore di tutti i beni, che egli è veramente anche no­stro Padre, animato da una misericordia che non è stancata da nessun peccato, come ci rivela il Vangelo. La preghiera nasce dal senso del nostro bisogno che si radica nel rispetto e ncll’umiltà che suscitano l’adorazione, nel timore filiale che ci spinge a parlare a Dio con la fi­ducia di un bambino.

Noi non pretendiamo certo di poter dare ordini a Dio, ma ci capita di cercare sottilmente di imporgli la nostra volontà usando la preghiera come uno strumento di pressione, con il se­greto desiderio di mettere la sua potenza al nostro servizio. La preghiera diventa allora un’esi­genza mascherata e non può che fallire. La vera preghiera è una domanda semplice, che parte dal cuore e si rivolge alla benevolenza di Dio, sapendo che egli conosce ciò di cui abbiamo bi­sogno e ciò che è meglio per noi, ancor prima che noi glielo domandiamo. Per questo, secon­do il Discorso della montagna, la preghiera cristiana non ripete sempre le stesse cose né cede all’inquietudine (Mt 6,7.25-34; 7,7-11); essa è sicura e si eleva verso Dio già mista d’azione di grazie. «Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti» (Fil 4,6). Insomma, ogni preghiera dovrebbe ter­minare dicendo a Dio: «per favore», se la mia domanda è conforme ai suoi disegni patemi.

La disponibilità nei confronti della volontà divina è la condizione dell’efficacia spirituale della preghiera. Se domandiamo a Dio una guarigione o la riuscita nel nostro compito, dob­biamo accettare anticipatamente che egli ci concede piuttosto il coraggio di sopportare la ma­lattia con spirito di fede, o di perseverare nel nostro servizio malgrado le contrarietà e le criti­che. La preghiera ci insegna così quali sono i beni migliori e dove sta la vera gioia, «ciò che è gradito a Dio e perfetto», ciò che egli non rifiuta mai a una domanda perseverante.

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La preghiera

6. Le specie di preghiera

La preghiera come domanda è presente in tutte le specie di preghiera perché essa corri­sponde esattamente al dono della grazia, di cui noi abbiamo ovunque bisogno. La tradizione si è basata, per la distinzione delle specie di preghiera, su un testo della prima lettera a Timo­teo: «Raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringrazia­menti per tutti gli uomini» (2,1). Si può distinguere Vorazione o elevazione della mente verso Dio, che può anche essere intesa come colloquio amicale con Dio dove si alimenta la vita contemplativa; la postulazione o domanda determinata; la supplica, come domanda d’aiuto senza determinazione; V ossecrazione t che è un’invocazione alla santità o alla misericordia divi­na, in particolare per ottenere il perdono dei peccati, come preghiera di penitenza; vi è anche l’intercessione in favore di altri, che può assumere la forma di preghiera di riparazione; infine l’azione di grazie per i benefici ricevuti e le richieste esaudite. Si può aggiungere l’adorazione che è alla base di ogni domanda, come riconoscimento della nostra condizione di creatura, della nostra dipendenza nei confronti di Dio, e che sta all’apice, come il compimento di ogni preghiera. La domanda è anche qui necessaria, poiché non potremmo adorare conveniente­mente senza la grazia. La preghiera di lode si eleva senza dubbio al di sopra delle nostre do­mande, ma noi abbiamo bisogno ancora della grazia per accedere allo stato di lode e per pro­gredirvi verso Dio che è al di là di ogni lode.

La preghiera di domanda risponde così alla necessità della grazia e ci prepara ad acco­glierla rendendo più acuto in noi il desiderio. Lì sta il segreto della sua forza e della sua effi­cacia, poiché, come dice potentemente Tertulliano, la preghiera è «la sola forza capace di vin­cere Dio».

7. La preghiera e le virtù teologali

La fede, la speranza e la carità sono delle virtù oranti’; esse si esprimono nella preghiera, che è l’atto principale della religione, e le forniscono il suo contenuto e le sue dimensioni. La fede ci mostra quale visione del mondo implichi la preghiera cristiana, la speranza le propone i suoi oggetti, la carità le procura la sua estensione. La virtù di religione che esse ispirano ci ren­de inclini, per parte sua, a rendere a Dio il culto che gli è dovuto, in particolare nella preghiera.

7.1 La preghiera e la Provvidenza secondo la fede

La preghiera cristiana si fonda sulla fede nell’esistenza di Dio e nella sua Provvidenza che governa il mondo, chinandosi specialmente sulla vita c sulle azioni degli uomini. Essa si rivol­ge a Dio che si eleva al di sopra dei cieli e che china il suo sguardo sui poveri della terra (Sai 113,4-7).

5 Cfr. Agostino d’Ippona, Enchiridion ad Laurentium, 7.

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La v'ita spirituale del cristiano

La Scrittura non si sofferma a discutere della Provvidenza divina: essa ce la mostra all’opera. Ci racconta come Dio sia intervenuto mediante la sua Parola creatrice e salvifica nella storia del mondo e nella vita degli uomini, scegliendosi un popolo per inviargli il suo Fi­glio e donargli il suo Spirito. Essa ci insegna che la Provvidenza è all’opera nella nostra vita, giorno dopo giorno, e ci invita a collaborare con essa mediante la nostra preghiera e la nostra azione: «Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo?... Il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, c tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,31-33).

Il pensiero cristiano è stato confrontato con diverse concezioni filosofiche o religiose con­trarie alla preghiera6; la negazione dell’esistenza di Dio che rende vana la preghiera, o il rifiuto della sua Provvidenza a causa di una rappresentazione di Dio tanto elevata da non poter am­mettere che egli si occupi degli affari di questo mondo o di cose così contingenti come sono le nostre azioni. L’ateismo moderno contrappone alla Provvidenza di Dio e alla preghiera la provvidenza dell’uomo che trasforma il mondo con la sua scienza e il suo lavoro. Alcuni pen­sano anche che Dio non intervenga direttamente nel meccanismo delle cause seconde, nello svolgimento dei fenomeni della natura regolati dalle leggi scientifiche, che la preghiera non ab­bia né oggetto né efficacia a questo livello e debba, di conseguenza, limitarsi allo spirituale.

Illuminata dalla fede, la preghiera presuppone la penetrazione dell’azione divina in tutte le cause che intervengono in questo mondo, anche nelle attività della scienza o nelle invenzio­ni della tecnica. La Provvidenza agisce negli esseri dall’interno, come la vita, e specialmente per mezzo della libertà umana che essa muove segretamente, non per diminuirla, ma per per­fezionarla e per associarla, come un agente intelligente, all’opera della grazia. La preghiera trova la sua origine nella fede nella Provvidenza e assume con essa anche le realtà corporali per finalizzarle a Dio, come al nostro sommo bene. Così la preghiera unisce in noi lo spirito e il corpo; come la pietà, essa è utile a tutto, secondo san Paolo (lTm 4,8). L’esperienza della preghiera personale è in ultima analisi la risposta più efficace alle obiezioni menzionate; essa è insostituibile per comprendere la natura e l’utilità della preghiera.

Contro queste difficoltà, alcuni hanno pensato che la preghiera modificasse la volontà di Dio e cambiasse i suoi disegni secondo le nostre domande, come avviene nei rapporti tra gli uomini, il che assoggetterebbe Dio alla nostra volontà e alle sue mutazioni.

Ispirata dalla fede e dalla carità, la preghiera cristiana si inserisce al contrario nell’ambito della conformità alla volontà e ai disegni di Dio e vi collabora seguendo questo principio di­rettivo: noi domandiamo a Dio nella preghiera tutto ciò che egli ha deciso, nella sua bontà, di accordarci per mezzo della preghiera mediante l’intercessione del suo Figlio. Così intesa, la preghiera ci rende servitori di Dio e collaboratori della sua grazia, senza tuttavia dissipare il mistero delle sue vie in cui ci introduce la fede. «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto... Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri fi­gli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!» (Mt 7,7-11).

6 Cfr. i m i , q. 83, a. 2: «Se pregare sia un atto ragionevole».

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7.2 Che cosa chiedere nella preghiera secondo la speranza

La preghiera è l’interprete della speranza, ci dice sant’Agostino nella sua lettera a Proba. Noi possiamo, secondo lui, chiedere nella preghiera tutto ciò di cui abbiamo bisogno e che speriamo giustamente, come il necessario per vivere, la salute, l’amicizia, le virtù, infine la vita eterna, ed egli riassume il tutto in una parola: «Chiedete la vita beata». La preghiera si situerà dunque nella linea del desiderio della felicità, che è nel cuore di ogni uomo, e delle beatitudi­ni evangeliche che orientano la nostra speranza verso il Regno dei cieli. Essa riguarderà tutti i beni, materiali e spirituali, che ci sono utili, a noi e ai nostri fratelli, nel nostro cammino verso Dio. È con questo intento e secondo i criteri forniti dal Vangelo che noi potremo valutare ciò che conviene domandare e il modo giusto per farlo, considerando che i beni del corpo sono ordinati ai beni spirituali. Questi saranno allora i temi principali delle orazioni liturgiche: il progresso nelle virtù e nei doni, la carità e la pace, tutte le grazie necessarie collegate all’opera della salvezza e ai «misteri» di Cristo. Noi non possiamo abusare di questi beni e Dio non li rifiuta alla preghiera fiduciosa7 8.

Quando ha come oggetto qualche bene corporale, la preghiera non entra in concorrenza con il lavoro umano che contribuisce a procurarcelo; essa si unisce al nostro sforzo ponendo­si al di qua dell’opera esteriore: agisce infatti nella profondità del nostro cuore per renderci consapevoli che tutti i beni, che le nostre capacità e le nostre opere ci vengono da Dio e sono destinati a condurci a Lui, come alla nostra vera beatitudine. L’uomo non è fatto per il lavoro, per quanto esso sia necessario ed esaltante, ma per Dio che ha plasmato l’uomo a sua imma­gine per conoscerlo ed amarlo. La preghiera è una collaborazione diretta all’opera di Dio all’interno dell’uomo e di ogni cosa.

7.3 L’ampiezza della preghiera secondo la carità

Posta alla radice della speranza, la carità comunica alla preghiera un’estensione tanto va­sta quanto l’amore stesso di Cristo. Facendoci amare il prossimo a imitazione del Signore, es­sa ci fa sperare per lui come per noi e ci rende inclini a pregare per lui all’interno della comu­nione dei santi. La preghiera seguirà i movimenti della carità; si estenderà ai genitori, ai pa­renti, agli amici, a quelli che sono vicini e a quelli lontani, ai membri della Chiesa e a quelli al di fuori di essa. Come la carità, la preghiera sarà al tempo stesso personale e universale nella sua intenzione, secondo l’amore di Cristo che è morto e risorto per tutti, affinché noi viviamo in lui e speriamo in lui (2Cor 5,14-15)®.

La preghiera, come la carità, raggiungerà un punto nevralgico nell’atteggiamento verso i nemici, che sono per noi i più lontani affettivamente, anche se ci vivono vicini. Questo è l’api­ce dell’insegnamento del Signore: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori»

7 Cfr. imi, q. 83, a. 5: «Se nella preghiera si debba chiedere a Dio qualche cosa di determinato»; a. 6: «Se nel pregare si possono chiedere a Dio cose temporali».8 Cfr. u-n, q. 17, a. 3: «Se uno possa sperare la beatitudine eterna di un altro»; q. 83, a. 7: «Se siamo tenuti a pregare per gli altri».

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(Mt 5,44). A questo punto si opera un rovesciamento nella carità e nella speranza proprio a partire dalla preghiera: il prossimo non è più, in questo caso, colui che ci è vicino, ma diventa colui al quale noi ci avviciniamo, nonostante gli ostacoli, facendo verso di lui il passo della preghiera e del perdono, aprendo il nostro cuore alla misura della bontà del Padre «che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiu­sti» (Mt 5,45). Da quel momento, per impulso della carità, la preghiera diventa dinamica, co­municativa, vincente. Noi siamo al centro irraggiatore della catechesi apostolica: «Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri» (Rm 12,14*16).

8. La preghiera, atto della virtù di religione

La preghiera è l’atto più tipico della religione. Nel suo senso abituale, la religione designa' l’insieme delle relazioni tra l’uomo e Dio sotto la forma del culto e dei riti sacri. San Tomma­so considera la religione come una virtù e la ricollega alla giustizia. La definisce come una vo­lontà ferma di rendere a Dio l’onore e il culto che gli sono dovuti9. Nel cristianesimo la reli­gione si inserisce tra le virtù teologali e si mette al loro servizio con i suoi diversi atti—la pre­ghiera, le offerte, i sacrifìci—per formare il culto spirituale nel quale noi offriamo con Cristo «i nostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1).

Unendo la creatura al suo Creatore, il debito religioso è il più radicale e il più forte, il più giusto. Perciò non si può ridurlo a un obbligo giuridico o a un dovere esteriore; esso è piuttosto un debito d ’amore, come l’affetto filiale, poiché la religione procede dall’aspirazio­ne verso Dio, inscritta nel cuore dell’uomo, e si sviluppa normalmente in speranza e in amo­re. Ecco perché il dono di pietà si collegherà più particolarmente a questa virtù, come un certo «istinto dello Spirito Santo» che ci spinge a rendere a Dio il culto e l’onore, non solo come al nostro Creatore e Signore, ma come al nostro Padre, secondo l’adozione filiale rice­vuta nel Battesimo10.

La religione, così intesa, forma dapprima in noi la devozione, come un attaccamento del cuore e una dedizione a Dio, poi la preghiera come uno slancio e una parola diretti verso Dio. Questo movimento determina le condizioni e le forme della preghiera: la preghiera inte­riore e la preghiera vocale, comunitaria o liturgica.

8.1 La preghiera interiore

La preghiera interiore è la preghiera del cuore. La si distingue dalla preghiera vocale per­ché resta segreta e personale, secondo la raccomandazione del Signore di ritirarci nella nostra

9 Cfr. n-n, q. 83, a. 3.10 Cfr. u ri, q. 121, a. 1. Il dono di pietà è associato da san Tommaso alla giustizia, ma corrisponde in modo particolare alla religione animata dalla carità.

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camera dove solo il Padre ci vede (Mt 6,5-6); tuttavia non si deve separarle, poiché hanno bi­sogno l’una dell’altra: senza la preghiera interiore la preghiera vocale sarebbe come una con­chiglia vuota, un corpo senz’anima e, in senso inverso, la preghiera interiore trae vantaggio dalla preghiera vocale che la completa e la rafforza, facendoci pregare col nostro corpo e con l’aiuto degli altri.

La preghiera interiore è fondamentale; essa costituisce l’essenza della preghiera, poiché «Dio ascolta non la voce, ma il cuore», come dice san Cipriano. È infatti nel cuore—inteso in senso biblico, che riunisce l’attenzione della mente e lo slancio della volontà—che si crea il legame della preghiera con il Padre, nel «segreto» dove zampilla la fonte della vita spirituale.

L’attenzione gioca qui un ruolo decisivo: anzitutto l’attenzione alla presenza di Dio, al quale noi ci rivolgiamo; poi l’attenzione alle parole che gli diciamo e alle intenzioni che gli presentiamo. Senza dubbio la distrazione è quasi inevitabile a causa della debolezza umana. Non si può nemmeno rifiutare un qualche valore ed efficacia a una preghiera anche disat­tenta, se è mossa da una buona intenzione. Tuttavia l’attenzione del cuore è la condizione dell’efficacia spirituale della preghiera, poiché stabilisce il contatto intimo con Dio; essa ci permette di ricevere il nutrimento interiore e la luce dello Spirito. È grazie all’attenzione che si formano in noi l’esperienza e il gusto della preghiera. L’attenzione è come l’occhio del cuore fissato su Dio, come la bocca del nostro spirito aperta alla sua Parola, che nutre più del pane (Mt 4,4)n .

Come accade per ogni virtù, la preghiera si impara allo stesso modo di un mestiere, con un lungo e paziente esercizio, in uno sforzo ripreso incessantemente per garantirne la qualità e il progresso. Per la preghiera, tuttavia, la linea di crescita non si situa nell’opera esteriore, ma al livello del cuore, nella profondità interiore. L’efficacia e il buon esito non dipendono in essa solo dalla nostra fatica e dalla nostra abilità, ma soprattutto dalla nostra docilità allo Spi­rito Santo che è il maestro della preghiera e ne assicura la fecondità.

La preghiera interiore può assumere diverse forme. Essa si alimenta nella lettura della Pa­rola di Dio, la «lectio divina», o nella lettura spirituale, in generale. Si approfondisce con la meditazione che è una riflessione sulla Parola, legata alla nostra esperienza. Fiorisce neU’ora­zione che è un colloquio filiale con il Signore e può assumere la forma di una presenza sem­plice e silenziosa, in un contatto di fede che supera le parole e le idee.

8.2 La preghiera vocale

La preghiera vocale designa la preghiera pronunciata ad alta voce, recitata o cantata in gruppo, in un coro o in un’assemblea liturgica. È una preghiera comune, normalmente rego­lata e fissata nella sua forma e nelle sue parole; essa però può essere anche personale e spon­tanea secondo la pratica dei gruppi carismatici, per esempio. Si può inoltre pregare solo ad alta voce, secondo l’uso degli antichi.

Si è molte volte contrapposta, nel corso degli ultimi secoli, la preghiera vocale, nella cele-

11 Cfr. IMI, q. 83, a. 13.

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brazione dell’ufficio e della liturgia, alla preghiera mentale, sotto forma di meditazione e di orazione, come una preghiera pubblica, qualificata come «oggettiva», e una preghiera indivi­duale, «soggettiva». Il dibattito che opponeva tradizioni diverse ha perso una delle sue cause determinanti dopo la riforma liturgica che ha reso accessibile a tutti, nella propria lingua, la preghiera della Chiesa. Ormai il problema consiste soprattutto nel ristabilire un legame vivo tra la preghiera liturgica e l’orazione personale, così che esse diventino feconde l’una per l’al­tra. Così la liturgia potrà ridiventare una fonte primaria della vita di preghiera, mentre la pre­ghiera personale contribuirà a garantire il contenuto spirituale delle celebrazioni.

Quanto alle devozioni particolari che sono fiorite nella Chiesa e si sono diffuse soprattut­to nell’epoca moderna—devozione al Santissimo Sacramento, al Sacro Cuore, alla Vergine Maria e al Rosario, ai santi—, esse hanno avuto un ruolo indispensabile per alimentare la pietà del popolo cristiano in un tempo in cui esso non poteva più accedere alle preghiere li­turgiche né ai salmi per nutrirsene. Ora che l’ostacolo è stato eliminato, non dobbiamo re­spingere queste devozioni, ma ricollocarle nell’ambito della preghiera cristiana incentrata sul­la liturgia, riferendole al Vangelo come alla loro fonte primaria e adattandole anche a una sensibilità e a bisogni spirituali nuovi.

8.3 II problema del tempo

Come ogni attività, la preghiera richiede del tempo per essere ben fatta. Essa è la parte di Dio nelle nostre giornate. Perciò conviene, nella preghiera, dare al Signore «una buona misu­ra..., perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Le 6,38). In ef­fetti una buona misura di tempo e una certa libertà nel dedicarlo sono necessarie per garanti­re la qualità della preghiera, per acquisirne l’esperienza e il gusto. La regolarità è in questo caso più importante della lunghezza, e capita che alcune preghiere brevi siano più intense; ma non bisogna fame un pretesto per accorciare la preghiera. Quando scaturisce da un cuore attento e fedele, la preghiera tende a prolungarsi e può allora penetrare, come un’acqua sot­terranea, nelle nostre altre occupazioni per alimentarle spiritualmente.

La liturgia ci mostra qui la via e ci serve da modello. Col suo ritorno regolare nel quadro della giornata e nel ciclo dell’anno, essa contribuisce ad assicurare una preghiera continua e infonde una dimensione spirituale al tempo della Chiesa ordinandolo ai misteri di Cristo e al­la loro attualizzazione nella vita dei fedeli. Allo stesso modo, sotto l’azione della preghiera il nostro tempo si lascia penetrare dal tempo di Dio e si dipana in una crescita interiore che la Scrittura paragona a quella degli alberi, al granello di senape piantato in un campo o al seme che dà frutto nella terra buona (Mt 13). Per impulso dello Spirito Santo, che agisce in noi co­me una linfa paziente, il tempo della nostra vita si raccoglie lentamente all’interno della pre­ghiera, anziché disperdersi e sbriciolarsi nel vortice dei giorni; possiamo così offrire a Dio il frutto dei nostri anni, come un gonfio covone.

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La preghiera

Indicazioni bibliografiche

Arti. «Prière», «Oraison» e «Pater» nei vari dizionari citati.Numerose opere dei Padri dedicate alla preghiera: sant’Agostino (lettera a Proba), Cassiano

(ix Collatio), san Cipriano (De oratione dominica), Origene, Tertulliano.AA.VV., ha preghiera nella Bibbia e nella tradizione patristica e monastica, Roma 1964. AA.VV., Preghiera e vita monastica, Roma 1978.H.U. von Balthasar, Das Betrachtende Gebet, Einsiedeln 1955 (tr. it. La preghiera contemplati-

va, Milano 19902).B. Bro, Apprendre à prier, Paris 19852.Id., Cerchiamo colui che ci cerca, Torino 1980.A.M. Carré, Le Notre Pere. Prière du Christ et prière des chrétiens, Paris 1977.A. Furioli, La preghiera. Riflessioni di teologia spirituale, Torino 1981.J. Gouillard (tr. di), Petite philocalie de la prière du coeur, Paris 1953.R. Guardini, Formazione liturgica, Milano 1988.Id., Preghiere, Brescia 1964.A.-G. Hamman, Le Pater expliqué par les Pères, Paris 1952.Id., Compendio sulla preghiera cristiana, Ciniscllo Balsamo 1989.J.A. Jungmann, L’histoire de la prière chrétienne, Paris 1972 (tr. it. Breve storia della preghiera

cristiana, Brescia 1991).G. Lazzari, La preghiera cristiana, Roma 1986.G. M. Oury, Dictionnaire de la prière, Chambray 1990.J.H. Newman, Le secret de la prière. Sermons traduits par D. Gorce, Paris 1958.Id., Sermoni anglicani, Milano 1981.Id., Sermoni cattolici, Milano 1984.S. Pinckaers, La prière chrétienne, Fribourg 1989.H. P. Rinckel, La prière du coeur, Paris 1990.Saint Thomas d ’Aquin, La religion. i f i f f, qu. 83, trad. et notes par A.I. Mennessier, Paris

1936.

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Capitolo tredicesimo L*ASCESI CRISTIANA

L’ascesi non ha una buona fama, ai nostri giorni. Non si osa più parlarne troppo, anche negli ambienti religiosi. Essa tuttavia occupa un posto importante nel Vangelo e nella tradi­zione cristiana, dove ha conosciuto d’altronde molte variazioni. La nostra attuale diffidenza nei suoi confronti si spiega, in parte, con la nostra reazione contro una concezione della vita cristiana che metteva l’accento sulle privazioni e sulle penitenze senza evidenziare sufficiente­mente il primato della carità. Non si può del resto esimersi dall’ascesi, perché essa assicura la partecipazione del corpo alla vita spirituale e ne garantisce il realismo. È dunque necessario trattare dell’ascesi in un’analisi come la nostra, al fine di riscoprirne, alla luce del Vangelo e dell’esperienza, il valore positivo e il ruolo effettivo.

U termine «ascesi»

Facciamo anzitutto alcune precisazioni sul vocabolario. Nel greco classico, l’ascesi desi­gnava gli esercizi metodici che servivano all’allenamento fisico degli atleti e dei soldati. Per analogia esso significherà, in filosofìa, le rinunce e gli sforzi richiesti per acquisire la virtù, per raggiungere la sapienza. San Paolo riprenderà il paragone con le gare degli atleti nello stadio; lo applicherà alla vita cristiana e attribuirà all’ascesi un senso religioso che si ritroverà nei Pa­dri. Per questi ultimi l’ascesi designerà il regime di vita finalizzato alla perfezione evangelica, in particolare nello stato di continenza c nella professione monastica. Nell’epoca moderna l’ascesi fa pensare soprattutto alle privazioni e alle penitenze fisiche associate alla vita spiri­tuale; essa assume allora un’accezione negativa, afflittiva. 11 dizionario di Robert la definisce così: «Insieme di esercizi fìsici e morali che tendono alla liberazione dello spirito mediante il disprezzo del corpo». Quanto all’asceta, egli è «una persona che... si impone per pietà eserci­zi di penitenza, privazioni, mortificazioni».

In teologia l’ascesi darà il suo nome alla parte della dottrina spirituale, l’ascetica, che stu­dia la ricerca della perfezione mediante lo sforzo personale e l’uso delle pratiche di penitenza per lottare contro gli errori e acquisire le virtù.

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La vita spirituale del cristiano

Anche se può significare la vita spirituale nel suo insieme, il termine ascesi ha come base, in tutte le accezioni, gli esercizi e le privazioni di ordine corporale che implica la disciplina morale. Noi considereremo dunque l’ascesi dal lato della partecipazione del corpo alla vita spirituale.

1. L’ascesi evangelica

1.1 L’insegnamento dei Vangeli

Nel riprendere la dottrina giudaica delle buone opere, il Discorso della montagna assegna un posto importante all’ascesi, sotto la forma del digiuno, in unione con Pelemosina e la pre­ghiera; ma esso ne approfondisce il valore e ne modifica lo spirito. Per essere autentico, il di­giuno deve essere praticato non come un’osservanza esteriore che gli uomini possono vedere e lodare, ma unicamente per piacere al Padre che vede nel segreto, senza trascurare quella nota di gioia c di discrezione che indica la raccomandazione di profumarsi la testa e di lavarsi il volto. Il vero digiuno riceve dunque il suo valore a livello del cuore, in rapporto con la pre­ghiera rivolta al Padre (Mt 6,16-18). Il Signore non si è limitato a predicare l’ascesi. Ha co­minciato la sua missione apostolica, a imitazione di Mosè e di Elia, sottoponendosi a un di­giuno di quaranta giorni nella solitudine del deserto. Ha così inauguratoci suo combattimen­to spirituale con Satana durante una triplice tentazione, la prima delle quali prende spunto dalla fame provocata dal suo digiuno. La replica di Gesù alla proposta di mutare le pietre in pane ci rivela il senso del digiuno cristiano: esso è destinato all’ascolto della Parola di Dio, come il solo nutrimento capace di placare la fame spirituale, e al riconoscimento di Gesù co­me Figlio di Dio che ci dispensa questa Parola. Questo sarà anche il senso della quarta beati­tudine: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati». Il raccon­to delle tentazioni nel deserto ci presenta il modello del combattimento spirituale e dell’ascesi che ci prepara ad esso.

La posizione di Gesù riguardo al digiuno è nettamente più libera di quella dei farisei e dei discepoli di Giovanni Battista. A questi ultimi che lo interrogano, stupiti perché i suoi disce­poli non si conformano alle pratiche tradizionali, Gesù dà una risposta che supera il piano delle osservanze e rivela la dimensione nuova che con lui assume il digiuno: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno» (Mt 9,15). E dunque il rapporto di fede e di amore con Gesù, come «lo sposo», a determinare il senso e la pratica del digiuno per i suoi discepoli. Il digiuno è rinnovato dal suo legame con la persona di Cristo, con la sua presenza o assenza nelle tappe dell’opera della salvezza.

L’ascesi cristiana è perciò associata al mistero della Passione e della Risurrezione al quale ci uniscono la fede e il Battesimo. È quanto la Chiesa ha perfettamente compreso e applicato nella sua liturgia instaurando il digiuno quaresimale, che prepara alle celebrazioni pasquali.

Il digiuno non ha più dunque un valore in sé come un’osservanza imposta, come un’opera di religione che l’uomo potrebbe far valere davanti a Dio o davanti agli uomini; la sua pratica

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La vita spirituale del cristiano

essenziale in relazione diretta con l’azione dello Spirito Santo. Concentrandosi sulla persona di Cristo, la dottrina ascetica del Vangelo si ricalca in qualche modo sul mistero della Incar­nazione e della Redenzione. È nel suo corpo, formato dallo Spirito nel grembo della Vergine Maria, che Cristo ha sofferto la Passione e la morte; è questo stesso corpo che è risuscitato per potenza dello Spirito. È ancora al corpo di Cristo che ci uniscono i sacramenti, prima il Battesimo sotto il segno dell’acqua in cui il nostro corpo viene immerso per essere purificato e così rivivere, poi l'Eucaristia sotto il segno del pane e del vino divenuti per noi il Corpo e il Sangue del Signore in memoria della sua Passione1.

La catechesi morale della lettera ai Romani ci invita a considerare il nostro corpo—e con esso tutta la nostra persona—come la materia del culto nuovo; «Vi esorto... ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale (ratta- nubile)» (12,1). Una tale offerta trasforma la vita cristiana in una liturgia che ne assume le realtà più umili e più concrete. Essa fa dei credenti le membra attive del Corpo di Cristo e «le membra gli uni degli altri», esercitando ciascuno per il bene di tutti i doni che ha ricevuto dall’unico Spirito (Rm 12,4; lCor 12,13). Anche se non viene menzionata esplicitamente in questo passo, la liturgia eucaristica, in cui la fede ci fa «riconoscere il Corpo del Signore» (lCor 11,29), è evidentemente compresa in questa dottrina.

Si potrebbero così distinguere quattro fasi nell’opera dello Spirito Santo in relazione al corpo. Essa comincia nel corpo personale di Gesù mediante l’Incarnazione, la Passione e la Risurrezione; continua con quello che si può definire il corpo sacramentale del Signore nel Battesimo e nell’Eucaristia; ci raggiunge con la penetrazione della grazia nel nostro stesso corpo che offriamo nel culto spirituale; si manifesta nel Corpo ecclesiale di Cristo di cui noi siamo le membra.

L’ascesi cristiana deve dunque essere compresa in rapporto con l’azione dello Spirito San­to sul piano personale («Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi?», lCor 6,19) e sul piano ecclesiale («Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cri­sto?», lCor 6,15). Essa ha la funzione di purificarci e di conformarci a Cristo facendo del no­stro corpo uno strumento dello Spirito, docile ed efficace. Così si stabilisce in noi per mezzo dcll’ascesi una corrispondenza profonda tra lo Spirito e il corpo, che è caratteristica del reali­smo cristiano: lo Spirito non agisce in noi senza il corpo, e il corpo non può fare nulla di buo­no senza lo Spirito. L’impegno del corpo attesta in noi il lavoro spirituale; ma l’ascesi, per quanto possa sembrare eroica, ricade su se stessa se non è animata dal soffio della carità, da quella misericordia che vale più di ogni sacrificio, come Gesù ama ricordare ai farisei. L’ascesi cristiana trova così la sua sede primaria sul piano spirituale, nel cuore dell’uomo; essa però si compie nel corpo e realizza in un certo senso l’incarnazione dello Spirito.

1.4 L’ascesi apostolica

Così intesa, l’ascesi assume in san Paolo un duplice aspetto: è una comunione alle soffe-

1 Cfr. bj, lCor 12,12, nota g (ed. it. pp. 2470-2471).

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La vita spirituale del cristiano

segno della salute interiore e frutto della carità. «Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7). In­fine la pratica degli esercizi necessari per mantenersi in buona forma fìsica è anch’essa una forma di ascesi.

Collegata alle virtù morali, l’ascesi avrà una misura variabile secondo le forze, le disposi­zioni, i bisogni e lo stato di vita di ciascuno; essa potrà perciò cambiare secondo le età della vita spirituale. Ma, quali che siano queste modalità, la necessità di una parte di ascesi sussiste in ogni vita cristiana, come condizione del suo realismo e della partecipazione del nostro cor­po all’opera dello Spirito Santo in noi.

2.5 La misura dello Spirito Santo

L’ascesi segue normalmente, come la virtù, la misura della ragione; tuttavia può capitare che l’intervento dello Spirito modifichi questo criterio. È quanto insegna san Tommaso, conformemente all’esperienza cristiana illustrata dalla vita dei santi. Nel suo commento alle beatitudini, il Dottore angelico mostra come la misura ispirata dai doni possa andare al di là delle rinunce richieste dalle virtù morali. La virtù ci insegna, per esempio, un uso moderato dei beni di cui disponiamo, secondo i nostri bisogni, evitando l’attaccamento del cuore che genera la schiavitù. Non si può arrivarvi senza una parte di rinuncia. Ma il dono dello Spirito ci conduce molto più lontano. Secondo la prima beatitudine, esso può ispirare un amore del­la povertà tale da togliere dal cuore ogni attaccamento ai beni materiali e da considerarli poca cosa. È quanto mostra l’esempio di san Francesco, di san Domenico e di tanti altri, che si so­no innamorati della povertà a causa del Vangelo.

La pratica della povertà, specialmente in comunità, varierà perciò secondo le vocazioni, poiché una cosa è la povertà che conviene a una comunità contemplativa, apostolica, inse­gnante o ospitaliera, e un’altra quella per i laici.

La stessa differenza nelle misure si ritroverà nel campo dell’affettività, nel dominio delle pas­sioni e dei desideri, dei timori e delle paure. Secondo san Tommaso, la beatitudine dei miti d in­segna il coraggio, che modera i nostri sentimenti davanti alle difficoltà e alle sofferenze secondo la misura della ragione; ma il dono della fortezza può darri una sorprendente tranquillità d’ani­mo e una totale sicurezza in mezzo ai più gravi pericoli e tormenti, come nel caso dei martiri.

Similmente la beatitudine degli afflitti ispirerà, per impulso dello Spirito, una pratica del distacco nei confronti dei piaceri sensibili che supera la disciplina richiesta dalla virtù di tem­peranza, secondo il termine «afflizione» usato dalla terza beatitudine. Questa sarà l’origine della vocazione alla verginità consacrata e alla vita religiosa, come una forma di partecipazio­ne alla Passione del Signore e una testimonianza della «consolazione» che ci procura la sua Risurrezione.

Noteremo infine che questa dottrina sulle beatitudini e sui doni corrisponde al trattato sulla beatitudine, in cui san Tommaso pone il fondamento e il fine della morale cristiana nella chiamata dell’uomo alla visione di Dio, secondo la beatitudine dei cuori puri che vedranno Dio. L’ascesi, con le progressive rinunce che insegnano le beatitudini, vi appare come un lato della strada che conduce alla vera beatitudine.

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L’ascesi cristiana

3. L'ascesi come segno dell'amore di Cristo

3.1 Un amore unico

Proprio grazie alle rinunce che essa comporta, l’ascesi cristiana è il segno della penetra­zione di un amore nuovo nella vita dell’uomo. Come avrebbero potuto gli apostoli lasciare tutto, la loro famiglia, il loro mestiere, e seguire Gesù, se il loro cuore non fosse stato afferra­to da un amore più forte degli affetti e degli altri legami umani? Fin dal primo istante della loro vocazione, la fede nella Parola di Gesù ha seminato in loro il germe di un amore unico che sarebbe cresciuto lentamente, nelle gioie e nelle prove, per manifestare infine la sua fe­condità dopo il dono dello Spirito Santo, nel giorno della Pentecoste. Essi saranno da quel momento i testimoni e i servitori dell’amore di Cristo, come mostra la triplice domanda di Gesù a Simon Pietro dopo la Risurrezione: «Pietro, mi ami tu?», che gli meritò l’incarico dell’amore pastorale: «Pasci le mie pecorelle».

La chiamata degli apostoli è il modello di ogni vocazione cristiana, se la si considera alla sua fonte, al livello del cuore. Senza dubbio esisterà nella Chiesa una grande varietà nelle for­me della chiamata, nei doni ricevuti e nei ministeri affidati, nelle modalità di realizzazione co­sì come nelle risposte; ma all’origine di ogni vita cristiana sta la rivelazione dell’amore di Cri­sto, con l’invito, dolce e forte, a tenersi pronti, nel proprio cuore, a lasciare tutto, se egli lo domanda, per seguirlo sulle vie della vita. La disponibilità al distacco, fino alla rinuncia a sé e alla propria vita, è il segno indubitabile della verità e della forza dell’amore. L’ascesi cristiana ha la sua radice nella carità; essa manifesta e mantiene la sua purezza; ne riceve la sua fecon­dità, così come la gioia che la abita, secondo la testimonianza degli apostoli: «Se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (At 5,41).

3.2 L’ascesi nella vita religiosa o consacrata

La chiamata alla vita evangelica, all’imitazione degli apostoli, ha ispirato tutti i rinnova­menti posteriori ed è in particolare all’origine della formazione degli Ordini religiosi, la cui dottrina e i cui esempi hanno contribuito a nutrire la vita spirituale della Chiesa, in ogni pe­riodo della sua storia.

Sulla scia del monacheSimo, la vita religiosa, la vita consacrata in generale, si è organizzata attorno ai tre voti di povertà, castità e obbedienza. L’esperienza ecclesiale ha così raccolto i consigli evangelici in queste tre rinunce fondamentali: alla proprietà, al matrimonio e alla vo­lontà propria. Esse formano i tre pilastri dell’ascesi religiosa che sostengono le altre pratiche e osservanze. Inoltre pongono in maniera netta il problema dcll'ascesi cristiana per l’insieme dei fedeli, ai quali questa testimonianza della vita evangelica è destinata all’interno della co­munione ecclesiale.

Per comprenderle, è necessario considerare le rinunce che comporta la vita consacrata a partire dalla loro causa: l’amore di Cristo generato dalla fede e mantenuto vivo dallo Spirito, e nel loro scopo: il distacco da ogni intralcio per conquistare la libertà di amare, di donarsi

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senza riserve. Secondo la loro ispirazione originaria, i tre consigli evangelici ci propongono le vie più dirette verso la perfezione della carità. Si può applicarvi il paragone usato dal Signore: essi rappresentano il sale del Vangelo; hanno l’asprezza del sale per Pascesi che esigono, per le rinunce che implicano; ma è per farci conoscere il sapore della sapienza e il gusto del vero amore. In realtà questi consigli ci rivelano tre aspetti della carità; l’amore è povero, l’amore è casto, l’amore è obbediente. Per questo esso è libero e forte.

3.3 L’amore di Cristo, povero, casto, obbediente e fedele

Basta lanciare un colpo d ’occhio sul Vangelo per verificarlo. L’amore di Cristo è povero. San Paolo ci descrive l’opera del Signore proprio attraverso questa caratteristica: «Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). Paolo qui indica eviden­temente la povertà dell’Incarnazione e della Croce, di cui riparlerà nell’inno ai Filippesi. La prima beatitudine ci mette già su questa strada. L’educazione all’amore comincia con l’ap­prendistato della povertà, di corpo e di spirito, che ci libera dall’attaccamento ai beni mate­riali per rivelarci le ricchezze spirituali che non si accumulano, poiché non le si può ottenere se non distribuendole con la generosità dell’amore. «A chi ti domanda, dai».

L’amore di Cristo è casto. Esso vuole unirci al Signore nel corpo e nell’anima, in un’al­leanza che san Paolo paragona a un matrimonio e che ci fa partecipare all’unione stessa di Cristo con la Chiesa. «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla san­ta, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 3,23-27). La castità realizza la purezza dell’amore spirituale ed è l’opera caratteristica dello Spirito Santo. Essa non implica alcun disprezzo del corpo, ma fa penetrare l’amore di Cristo nel nostro stesso corpo, per fame un «sacrifìcio vivente, santo e gradito a Dio», appropriato al culto spirituale che prolunga nella nostra vita l’offerta eucari­stica del Corpo del Signore.

Così intesa, la castità può richiamarsi alla beatitudine dei cuori puri, in cui la tradizione ha visto l’esito dell’opera purificatrice iniziata dalla povertà. L’impegno alla castità è intera­mente al servizio dell’amore. Esso contribuisce ad aprire il nostro cuore a una carità che si estende in ampiezza e in profondità, al di là degli inevitabili limiti dell’amore umano.

Ma se si arriva a considerare il voto di castità unicamente dal punto di vista delle priva­zioni che esso impone, in una prospettiva strettamente ascetica e giuridica, esso inevitabil­mente crea difficoltà e non può essere sostenuto convenientemente, poiché solo lo slancio dell’amore di Cristo gli procura la sua legittimità, la sua fecondità, e lo rende vivibile molto semplicemente.

Infine l’amore è obbediente. Per descrivere la carità e l’opera di Cristo, san Paolo ha scel­to due tratti piuttosto straordinari, cioè l’umiltà e l’obbedienza: «Apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato...» (Fil 2,7-9). L’impegno all'obbedienza propone all’uomo l’ascesi più radicale e

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L’ascesi cristiana

più difficile, la rinuncia alla propria volontà. Soltanto l’amore, con la sapienza penetrante che esso procura, può insegnare l’obbedienza evangelica e renderla volontaria, pronta, gioiosa e intraprendente. L’amore ha d’altra parte bisogno dell’obbedienza, fin dall’inizio, poiché non possiamo né conoscerlo né servirlo se non ci siamo svincolati dal nostro amor proprio, da quella propensione a possedere e a dominare che ci chiude in noi stessi e corrompe il nostro desiderio di amare. L’obbedienza amorevole alla volontà altrui è il primo passo per accedere alla comunione delle volontà che definisce il vero amore, secondo l’esempio del Signore che è venuto tra noi «non per essere servito,, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,28), per compiere così in ogni cosa la volontà del Padre suo. L’obbedienza è la forma attiva dell’umiltà, identificata con la povertà nella prima beatitudine. Essa è la carità docile al­lo Spirito, paziente e benigna verso tutti (lCor 13,4).

Notiamo infine che i voti e le altre forme di impegno evangeliche procedono dalla fedeltà dell’amore di Cristo e no esprimono la solidità e la durata; inoltre ci offrono un sostegno per la sua applicazione perseverante nella nostra vita, secondo i tempi di Dio, per sempre.

3.4 La contestazione di questo mondo mediante l’ascesi

L’ascesi cristiana è un cammino verso la libertà spirituale che appartiene all’amore. Come tale, l’ascesi costituisce una contestazione radicale nei confronti del mondo in cui viviamo, nella misura in cui esso è guidato dal desiderio di possedere, di godere e di dominare, dal fa­scino del denaro, del sesso e del potere, e si lascia abbagliare dalla tentazione di una libertà senza impedimento né misura. L’impegno alla povertà, alla castità e all’obbedienza attacca di­rettamente questi desideri; esso però trasferisce il contrasto a livello del cuore dell’uomo per sostituirvi alla volontà di potenza che è una volontà di essere «come dèi», secondo l’espres­sione del libro della Genesi, la volontà di amore che ci deriva dall’umile e gioioso riconosci­mento di Dio come il nostro Dio, specialmente mediante l’accoglimento della sua misericor­dia nel perdono offerto in Gesù Cristo.

La contestazione di questo mondo mediante l’ascesi cristiana è forse la sola che sia vera­mente realistica, perché osa andare al fondo dei problemi, fino alle loro radici nascoste nel cuore di ogni uomo. Essa è come una rivolta d’amore contro l’asservimento alle passioni e alle bramosie che si diffondono nel mondo sotto l’apparenza della libertà, con le ingiustizie che ne conseguono. Essa proclama a suo modo, senza tare molto rumore, più con il comportamento che con le parole, che esiste un’altra specie di libertà, che è un puro dono dello Spirito; la li­bertà di amare come Dio ci ama in Gesù Cristo, malgrado i nostri errori e le nostre debolezze.

Indicazioni bibliografiche

L'ascèse chrétienne et l’homme contemporain, Paris 1951 («Cahiers de la Vie spirituelle»),E. Ancilli, art. «Ascesi», in Dizionario enciclopedico di spiritualità, I, Roma 1990, pp. 211-226.J.B. Bauer, Alle origini dell’ascetismo cristiano, Brescia 1983.

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La vita spirituale del cristiano

ne..., pieno di grazia e di verità... Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto, e grazia su grazia... La grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (1.14-17)1.

I sacramenti, per via degli elementi sensibili che utilizzano, sono dunque i segni e il pro­lungamento fino a noi dell’umanità di Cristo, come una «corporalizzazione» della grazia. Inoltre, comunicandoci la grazia che sottomette la carne allo spirito, proseguono la loro ope­ra di «incarnazione» portandoci a compiere degli atti visibili, conformi al Vangelo di Cristo, che sono dei frutti dello Spirito e ci impegnano anima e corpo.

Questa dottrina è una base solida e profonda per il principio direttivo della vita spirituale che abbiamo proposto: la conformità alla persona di Cristo realizzata dalla grazia dello Spiri­to Santo.

1.2 La conformità dei sacramenti alla natura umana

La seconda ragione ci procura un fondamento antropologico. Essa è legata alla natura dell’uomo così come Dio lo ha creato e lo guida con la sua Provvidenza, la cui sapienza di­spone ogni cosa «con dolcezza», in conformità con le sue facoltà d’agire (Sap 8,1).

Dato che è naturale per l’uomo appoggiarsi sulla percezione dei sensi per elevarsi alla co­noscenza delle realtà intelligibili che riflettono, i sacramenti si serviranno di una materia sen­sibile per significare e farci conoscere le realtà spirituali che operano la nostra santificazione. Così degli umili oggetti possono diventare nei sacramenti, come vediamo anche nella Scrittu­ra, i segni, i simboli, gli strumenti e i rivelatori del mondo spirituale in cui ci introduce la fe­de. Mediante i sacramenti come mediante la Scrittura, la grazia penetra in noi per illuminarci e guidarci in stretta armonia con la nostra natura di uomini, così come con la natura sensibile che ci circonda e ci procura ciò di cui abbiamo bisogno per conoscere, per vivere e per agire1 2 3.

Alla conformità a Cristo corrisponde dunque nei sacramenti l’accordo con la nostra natu­ra umana. Questa armonia sarebbe tuttavia imperfetta se i sacramenti non avessero anche delle parole che si aggiungono ai segni per manifestarne il senso e gli effetti. I sacramenti con­tengono perciò un duplice elemento, l’uno di ordine corporale, come l’acqua, il pane, l’olio per l’unzione, e l’altro di carattere spirituale: la parola. In questa associazione ritroviamo an­zitutto l’armonia e la conformità con Cristo, come Verbo di Dio fatto carne, Parola di Dio in­carnata; e poi con la natura umana, composta di corpo e spirito; infine con lo scopo stesso dei sacramenti, che è quello di santificarci manifestandoci le realtà spirituali, il che non può avve­nire convenientemente senza la parola, strumento naturale della comunicazione tra gli uomini e con Dio*.

Tuttavia la grazia dei sacramenti, che deriva dallTncarnazione del Figlio di Dio, sarebbe vana se non si realizzasse nella vita stessa dei cristiani, nelle opere della fede operante per mezzo della carità, dove essi si impegnano personalmente con le facoltà e i talenti di cui di­

1 i-ii, q. 108, a. 1.2 ili, q. 60, a. 4.3 lbid„ a. 6.

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La vira spirituale del cristiano

mente attenta all’unità dell’uomo, si ritroverà nella spiegazione delle virtù morali. Per san Tommaso, all’opposto di san Bonaventura, le virtù di fortezza e temperanza hanno come sede la sensibilità e non la sola libera volontà. Perciò la grazia dei sacramenti si manifesta normal­mente nelle virtù per creare la coordinazione e l’armonia nella vita spirituale.

1.4 I sacramenti nel tempo

Il legame con la vita corporale impegna anche la grazia sacramentale e la vita spirituale nel tempo e nella storia. Ne risulta una trasformazione del tempo in uno spazio spirituale che si concentra sul corpo personale di Cristo, che ha sofferto per noi, e sul suo corpo mistico, la Chiesa. Il tempo spirituale si dividerà secondo i tre momenti principali che richiama e com­pie la liturgia eucaristica: la memoria della Passione di Gesù, causa della nostra santificazio­ne; la manifestazione della grazia attuale, effetto della Passione: essa ci conforma a Cristo e diventa attiva mediante le virtù; infine l’annuncio della gloria futura, termine della santifica­zione5. Questi tre momenti corrispondono alla divisione della storia della salvezza, all’Antico e al Nuovo Testamento orientati verso il Regno dei cieli, così come al triplice senso spirituale della Scrittura, allegorico, morale e anagogico.

La vita cristiana è dunque unita ai sacramenti e alla liturgia mediante legami vitali. Il Bat­tesimo genera la vita spirituale facendoci morire e rinascere con Cristo per una vita nuova se­condo la grazia. Il sacramento della Cresima merita di essere rivalutato, poiché ci concede la pienezza dello Spirito con i suoi doni, necessari per garantire la crescita spirituale e per rag­giungere la perfezione dell’età adulta; esso ci dona anche la forza di compiere con la dedizio­ne delVagape i ministeri che ci sono affidati nella Chiesa. L’Eucaristia ci nutre dell’amore di Cristo che si è offerto per noi nell’unico sacrificio spirituale e che diventa realmente presente sotto le specie del pane e del vino, come la fonte di ogni grazia; ritorneremo su questo punto. Il sacramento della Riconciliazione infine, completato a sua volta dal sacramento degli infer­mi, ci è necessario per recuperare la grazia e il vigore della carità lesi dai nostri peccati, per proseguire il nostro cammino spirituale nella speranza.

2. I sacramenti e la vita spirituale secondo san Paolo

San Paolo parla dei sacramenti in modo diverso da san Tommaso: egli ci pone nell’ottica della predicazione apostolica, all’origine dello sviluppo della teologia sacramentale. L’Aposto­lo non comincia trattando dei sacramenti in generale, poiché non ha elaborato questo concet­to comune e non usa, del resto, la parola sacramento. Quest’ultimo termine assumerà il senso che noi gli attribuiamo al tempo dei Padri che l’associano a quello di «mistero». La realtà sa­cramentale tuttavia è senz’altro presente, ma è concentrata sul Battesimo e sull’Eucaristia. Se­condo mons. Cerfaux, «Battesimo ed Eucaristia si incontrano nella teologia [di san Paolo]

5 Antifona O sacrum convivium dell’ufficio del SS. Sacramento.

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La vita spirituale del cristiano

la base sulla quale si fonda e che è come la sua pietra angolare: il legame con il corpo perso­nale di Cristo per mezzo del Battesimo e dell’Eucaristia, come fonte della vita spirituale che vivifica il corpo stesso di coloro che sono stati redenti da Cristo e sono diventati templi dello Spirito (lCor 6,15-20).

Questa dottrina si può applicare agli altri sacramenti nella misura in cui essi implicano una materia che si ricollega al Corpo di Cristo offerto per i nostri peccati, così come all’azione del­lo Spirito Santo mediante la Parola di fede e di grazia che li rende efficaci e li mette al servizio dei due sacramenti principali. Come abbiamo già notato a proposito di san Tommaso, sarebbe utile dare maggiore rilievo e riconoscere un ruolo di primo piano alla Cresima, direttamente associata al Battesimo nella disciplina sacramentale primitiva, perché il dono dello Spirito che essa comporta è la fonte stessa della vita spirituale. Così la vita nel Corpo di Cristo e la vita se­condo lo Spirito costituiscono i due aspetti di una stessa opera della grazia sacramentale.

Paragone tra san Tommaso e san Paolo

Se facciamo un paragone con san Tommaso, noi constatiamo una profonda concordanza, particolarmente in ciò che si può chiamare il realismo corporale e sensibile. Per san Paolo i sacramenti ci uniscono al Corpo personale di Gesù; per san Tommaso la dimensione sensibile dei sacramenti è il prolungamento deU’Incamazione. Nell’uno come nell’altro, questo reali­smo è spirituale: secondo Paolo la grazia ci viene da Cristo morto per noi e risuscitato dallo Spirito; essa ci giustifica mediante la fede e ci consente di vivere secondo lo Spirito come figli di Dio e coeredi di Cristo (Rm 8). Tommaso definisce la Legge nuova con la grazia dello Spi­rito e fa procedere i sacramenti dal Verbo di Dio e dalla Parola che dà loro la forma. Per l’uno come per l’altro, i sacramenti sono la fonte principale della vita spirituale per mezzo della fede in Cristo operante mediante la carità e le virtù che essa ispira.

Tuttavia vi sono delle differenze tra i nostri due Dottori. Tommaso deve rendere conto dello sviluppo posteriore dei sacramenti nella Chiesa. Perciò è portato a elaborare una dottri­na generale dei sacramenti servendosi di un’antropologia basata sul processo della conoscen­za umana, e ciò lo conduce a partire dal mistero dell'Incarnazione e dalla dottrina del conci­lio di Calcedonia, formulata da san Leone Magno, sulla duplice natura di Cristo. 11 suo pen­siero ne riceve un carattere più astratto e più intellettuale. L’insegnamento di san Paolo, più direttamente centrato sul mistero della Redenzione, è più personale, più drammatico si po­trebbe dire, più concreto nella sua presentazione. È personale perché si pone nell’ambito del­la relazione intima del credente con la persona di Cristo mediante la fede e la carità, nella lot­ta contro il peccato.

L’Apostolo quando parla usa spesso la prima persona, mentre Tommaso si esprime alla terza, a un livello generale: «Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Chi ci separerà dall’amore di Cristo?» (Rm 7,24-25; 8,35).

Paolo è anche più concreto e fa intervenire il rapporto con il corpo a tutti gli stadi della

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I sacramenti e la vita spirituale

sua dottrina, dalla Passione del Signore nella sua carne fino alla lotta tra lo spirito e la carne che si svolge nella vita dei credenti, in attesa della redenzione del loro corpo mediante lo Spi­rito che abita in essi (Rm 8). Perfino le azioni più naturali saranno ricondotte al Signore: «Chi mangia, mangia per il Signore... Anche chi non mangia, se ne astiene per il Signore e rende grazie a Dio... Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rm 14,6-7).

L’insegnamento di Paolo è anche più esplicitamente ecclesiale, poiché la dottrina sulla Chiesa, Corpo di Cristo, forma la cornice di catechesi morale e spirituale nelle sue grandi let­tere, da quella ai Romani a quella agli Efesini.

La vita cristiana appare dunque come una vita unita sacramentalmente al Corpo di Cristo, la quale si sviluppa nel Corpo mistico che è la Chiesa; essa è nutrita dal corpo eucaristico del Signore, impegnando il cristiano anima e corpo nel culto spirituale c nella lotta dello Spirito contro la carne, nella speranza della risurrezione dei corpi al seguito del Signore.

Ciò che possiamo chiamare il realismo corporale di san Paolo servirà poi da base allo svi­luppo della liturgia cristiana attorno al Battesimo e all’Eucaristia, a partire dalla celebrazione pasquale che sarà il perno dell’organizzazione dell’anno liturgico, inteso come tempo occupa­to da una preghiera continua e da una meditazione costante del mistero di Cristo attualizzato in noi. La liturgia farà largo uso del simbolismo corporale e fisico per parlare delle realtà spi­rituali, ma gli conferirà una densità unica grazie al legame dei riti, delle parole e delle pre­ghiere con la vita e la persona del Signore.

4. La preminenza dell'Eucaristia a causa della presenza del Signore

Le differenze che si possono osservare tra san Paolo e san Tommaso dipendono soprattut­to dalla diversità dei punti di vista c della sistematizzazione. Esse non impediscono l’accordo della dottrina, in particolare quando il Dottore angelico inizia a mostrare quale sia la premi­nenza dell’Eucaristia. La sua riflessione teologica si situa proprio nella linea dell’Apostolo quando ha come punto di partenza la considerazione del Corpo del Signore. Nel De Ventate (q. 27, a. 4), appellandosi alla giustificazione operata dal sangue di Cristo per mezzo della fe­de (Rm 3,24-25), san Tommaso scrive: «Così l’umanità di Cristo è causa strumentale della giustificazione; la quale causa ci è applicata spiritualmente mediante la fede e corporalmente mediante i sacramenti—perché l’umanità di Cristo è spirito e corpo— , in modo che ricevia­mo in noi l’effetto della santificazione che proviene da Cristo». Dunque l’Eucaristia è il sacra­mento più perfetto, poiché il corpo di Cristo vi è realmente contenuto. Essa è anche il compi­mento degli altri sacramenti. Nella Summa san Tommaso riprenderà e preciserà questa ragio­ne. L’Eucaristia è il più potente dei sacramenti, in primo luogo per il suo contenuto: in questo sacramento infatti Cristo stesso c presente sostanzialmente; gli altri sacramenti, per parte lo­ro, non contengono che una partecipazione della potenza strumentale che possiede Cristo ri­guardo alla grazia mediante la sua umanità. Così tutti gli altri sacramenti sono ordinati all’Eu­caristia (ili, q. 65, a. 3). Ecco perché san Tommaso può dire, in una formula assai densa, che «il bene comune spirituale di tutta la Chiesa è contenuto realmente nel sacramento dell’Euca-

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è», l’Eucaristia rende più profondo in noi il senso del reale e ravviva la nostra sensibilità verso le cose spirituali.

Grazie alla presenza eucaristica, noi non ci rivolgiamo più a Dio come a un essere lonta­no, nascosto nell’immensità dei cieli, ma come a una persona vicina che possiamo chiamare col suo nome, come al Figlio di Dio che ci rivela il Padre e ci invita a entrare nella sua inti­mità. Noi prendiamo coscienza della nostra vocazione di figli di Dio, ammessi alla sua pre­senza e invitati a parlargli, a confidargli tutto.

In forza di questa presenza, le parole del Vangelo escono dai libri che le riferivano per es­serci ridette da vicino con quel tono unico della voce del buon Pastore, che chiama le sue pe­core per far loro sapere che egli viene ad «abitare nei loro cuori». Allo stesso modo è median­te il contatto eucaristico che noi possiamo meglio ascoltare la Parola di Dio e conoscere la persona di Gesù, nella sua umanità e nella sua divinità, secondo le dimensioni del suo miste­ro, «nella sua ampiezza, lunghezza, altezza e profondità».

Davanti all’Eucaristia penetra in noi un amore paragonabile a nessun altro, poiché esso «sorpassa ogni conoscenza», come dice san Paolo, e si abbassa tuttavia fino alla nostra picco­lezza per rinnovarci nelle nostre radici e nelle nostre fondamenta, con la semplicità di una pa­rola diretta e ardente, come la scintilla che fa divampare la stoppa.

Per l’irradiamento della Presenza eucaristica si forma lentamente in noi l’Uomo interiore, come il germe di una vita nuova deposto nel nostro intimo, fecondato dalla potenza dello Spirito, conformato all’Immagine del Figlio di Dio. Il segreto dell’Eucaristia ci attira nella so­litudine e scava la nostra anima per introdurci nel segreto di Dio.

Nello stesso tempo, e come all’opposto di questa rivelazione, la presenza eucaristica ci in­segna a vivere nella pura fede, davanti all’invisibile, davanti all’impercettibile, si può dire per­fino davanti al Nulla, poiché le specie del pane e del vino, come le chiama la teologia, sono un prisma che filtra la luce per chi osa credere, uno schermo d’insignificanza e di opacità per chi non vuole credere se non ciò che vede. Impercettibile senza i riti che la attorniano, la pre­senza del Signore ci provoca alla fede e corrisponde esattamente al suo movimento, poiché la vera fede è un salto al di là di ciò che si percepisce, al di sopra delle sensazioni, delle immagi­nazioni, delle idee, di tutte le costruzioni del nostro cuore e della nostra mente. Essa ci tra­sporta più lontano delle scienze, compresa la teologia, verso la presenza semplice, pura e san­ta di Colui che ci attende nel silenzio e ci offre la possibilità di presentargli in tutta libertà l’offerta della nostra attenzione vigilante, adorante. Il termine «sostanza» usato da san Tom­maso è indubbiamente più adeguato, anche se non è più di moda, per definire questa presen­za che sta al di là dei «fenomeni» e delle nostre impressioni, perché significa una realtà cen­trale e una solidità che permane sotto la mutabilità incessante di ciò che vediamo e sentiamo, come è anche la nostra propria personalità che merita di essere chiamata una sostanza a causa della sua permanenza dinamica sotto i mutamenti della vita. In questo modo la presenza eu­caristica realizza pienamente la quarta domanda del Padre Nostro nella sua formulazione gre­ca: dacci oggi il nostro pane «supersostanziale» (epiousios). Il pane non è forse fatto per nu­trire la nostra sostanza e assicurare la nostra sussistenza?

La presenza eucaristica ci introduce anche nel tempio di Dio, nella storia della salvezza

I sacramenti e la vita spirituale

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Capitolo quindicesimoLO SPIRITO E LE ISTITUZIONI ECCLESIALI

I. il problema delle istituzioni nella Chiesa

Abbiamo definito la Legge nuova come la grazia dello Spirito ricevuta mediante la fede in Cristo e operante nel cuore dei fedeli mediante la carità. Per essere applicata, questa legge spirituale ha bisogno di clementi più materiali che servano da strumenti alla grazia: sono le Scritture e i sacramenti di cui abbiamo trattato. A questi mezzi di santificazione citati da san Tommaso possiamo aggiungere le istituzioni ecclesiali che si sono sviluppate, fin dai tempi apostolici, come dei sostegni per l’opera della grazia nella vita e nelle attività delle comunità cristiane in espansione. Tali sono l’organizzazione gerarchica che ruota attorno al papa e ai vescovi con il suo prolungamento nei diversi ministeri, l’elaborazione del diritto canonico, la formazione degli istituti religiosi con le loro regole, le loro consuetudini e le loro costituzioni. Si può così osservare nella vita della Chiesa una coordinazione progressiva, grazie a una sorta di moto alternativo continuo tra lo slancio spirituale e le istituzioni secondo il modello della Chiesa primitiva, «assidua nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2,42).

Questo bisogno di elementi istituzionali si fa sentire nella vita personale dei cristiani. Ognuno percepisce l’utilità di piegarsi a una certa disciplina di vita che favorisce la preghie­ra, la meditazione della Parola di Dio, l’esercizio delle virtù evangeliche. Si sente così il bene­ficio di un accompagnamento spirituale e dell’aiuto fraterno all’interno di una comunità. Questo sarà l’apporto delle osservanze monastiche che sono spesso servite da modello per l’organizzazione concreta della vita spirituale. Noi non siamo puri spiriti; abbiamo bisogno di delimitazioni ben precise, materiali, per sostenere, proteggere e sviluppare la nostra vita personale e comunitaria.

Una riflessione sui rapporti tra la vita spirituale e le istituzioni ecclesiali è particolarmente necessaria nella crisi che attualmente attraversiamo, dove le istituzioni e le tradizioni sono quasi sistematicamente messe in discussione in nome della libertà e della novità. La Chiesa

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Lo Spirito e le istituzioni ecclesiali

Così all’ombra dell’albero fiorente e luminoso piantato da san Francesco nella povertà e nel­l’obbedienza si insinuava la tentazione di uno spiritualismo libero da ogni istituzione, addirit­tura svincolato dal quadro evangelico.

Senza assolutamente contrapporsi a Francesco, il carisma di Domenico è assai differente. Il fondatore dei Predicatori non ha un minor soffio spirituale, ma la sua ispirazione è total­mente rivolta all’annuncio del Vangelo, secondo i bisogni della società comunale che a quel tempo stava costruendo le università così come edificava le cattedrali. La povertà di Domeni­co, meno mistica, ma altrettanto esigente per i suoi figli, verrà messa al servizio della predica­zione: essa ne eliminerà gli ostacoli e manterrà viva la sua fiamma.

Tuttavia il carisma di Domenico si manifesta più chiaramente in quella che si può consi­derare come la sua opera principale, anche se non l’ha redatta da solo: l’elaborazione delle Costituzioni del suo Ordine, che sono state definite «una cattedrale di diritto costituziona­le»1. È uno dei frutti meglio riusciti della rinascita del diritto che accompagnò lo sviluppo della teologia nella Chiesa, specialmente a Bologna, la cui università brillò soprattutto nel campo giuridico, e dove si tennero i primi capitoli generali dei Frati predicatori. Da allora le Costituzioni, che instaurano un’organizzazione precisa, adeguata alla cristianità, sostituiranno le regole e le consuetudini nelle istituzioni religiose. 1 Domenicani forniscono il primo model­lo, tra i più equilibrati e i più elastici nell’adattarsi alle circostanze e ai bisogni. Quest’opera è contemporanea alle Decretali di Gregorio ix che rinnovarono il diritto canonico ed ebbero lo stesso artefice, san Raimondo di Penafort, che ben presto prese il posto di san Domenico alla guida del suo Ordine.

Vediamo così rappresentati da due grandi figure del xm secolo i due fattori principali che compongono la vita della Chiesa: il soffio dello Spirito Santo, così manifesto nella vita di Fran­cesco, e le istituzioni ecclesiali poste da Domenico al servizio della predicazione del Vangelo.

3. La teologia dei rapporti tra lo Spirito e le istituzioni secondo san Tommaso

3.1 La domanda

Alla luce di questi modelli viventi, si doveva ancora dare una risposta teologica al proble­ma dei rapporti tra lo Spirito e le istituzioni all’intemo della Chiesa. Fu l’opera della genera­zione seguente. Ne troviamo la sostanza nelle questioni di san Tommaso sulla Legge nuova redatte a Parigi, a contatto diretto con i problemi di quel momento e particolarmente in ri­sposta alle teorie degli spirituali francescani. La questione verteva sul modo in cui inserire il Vangelo in una società e in una Chiesa che stavano rinnovando profondamente la loro legisla­zione. Come la libertà dello Spirito poteva accordarsi con il nuovo sviluppo delle leggi eccle­siastiche e civili? In nome dello Spirito si dovevano rompere i legami con le istituzioni, anche con quelle più venerate e più autorevoli, come volevano alcuni spirituali, oppure si doveva la-

1 L. Moulin, Le mond vivant des religieux, Paris 1964.

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Lo Spirito e le istituzioni ecclesiali

3.3 I carismi secondo san Paolo e le istituzioni ecclesiali

Ci ricongiungiamo così con rinsegnamento di san Paolo sui carismi, molti dei quali faran­no nascere nella Chiesa delle istituzioni legate al loro esercizio e alla loro manifestazione. Vale la pena rileggere quei testi che espongono una dottrina ponderata e testimoniano una pratica già ben consolidata.

Nella lettera ai Romani: «Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascu­no di noi. Chi ha il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fede; chi ha un mi­nistero attenda al ministero; chi rinsegnamento, all’insegnamento; chi l’esortazione, all’esor­tazione. Chi dà, lo faccia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia» (12,6-8).

Il tutto viene precisato nella prima ai Corinzi: «Ora, voi siete corpo di Cristo e sue mem­bra, ciascuno per la sua parte. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri... Poi vengono i mira­coli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue» (12,27-28).

La lettera egli Efesini mette in primo piano i doni d ’insegnamento e indica più chiara­mente la finalità dei ministeri riferendoli a Cristo salito al cielo: «È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per ren­dere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché ar­riviamo... allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cri­sto» (4,11-13).

A motivo della loro portata ecclesiale, un certo numero di questi carismi darà origine a istituzioni particolari. I doni di apostolo, di pastore o di governo saranno all’origine dell’orga­nizzazione gerarchica della Chiesa, che garantisce la successione apostolica e la guida dei fe­deli. Il ministero di maestro sarà esercitato principalmente dai vescovi e da coloro che hanno l’incarico di insegnare nelle istituzioni necessarie a questa funzione, come furono le scuole cattedrali e poi le università nel Medioevo. A questo proposito, è interessante notare che san Tommaso riunirà le grazie gratis datae elencate nella prima ai Corinzi attorno al dono di mae­stro, poiché—egli dice—un uomo non può agire su di un altro c condurlo a Dio se non per mezzo dell’insegnamento e della persuasione (i-ii, q. I l i , a. 4). Allo stesso modo, parlando di queste stesse grazie di cui godeva anche Cristo, lo presenterà come il primo e principale Mae­stro per la dottrina spirituale e per la fede (ili, q. 7, a. 7).

Quanto agli altri carismi meno istituzionalizzabili, come la profezia, il dono dei miracoli o delle lingue, l’Apostolo si sforzerà di integrarli nello svolgimento delle assemblee cristiane; egli si curerà che il loro esercizio non turbi il buon ordine, ma contribuisca all’edificazione della comunità nella carità. D’altronde si può attribuire al dono di guarigione l’instancabile dedizione che si è prodigata nel corso dei secoli all’interno delle istituzioni cristiane d’assi­stenza a tutti i miseri.

I carismi, specialmente nel senso ampio in cui li intende l’Apostolo, non si contrappongono dunque alle istituzioni che servono a renderli operativi; essi anzi le esigono nella misura stessa in cui sono ordinati al bene della comunità ecclesiale e debbono contribuirvi tutti insieme.

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Conviene pertanto situare l’insegnamento paolino sui carismi nella linea della dottrina dell'Incarnazione prolungata nella costituzione e nell’organizzazione della Chiesa. Lo stesso Spirito che ha formato Cristo in Maria, forma e muove la Chiesa per mezzo dei sacramenti e delle istituzioni utili alla manifestazione delle sue attività spirituali. È insomma quanto espri­mevano i Padri, quando paragonavano i fonti battesimali, dove lo Spirito genera dei nuovi fi­gli di Dio, al grembo della Vergine che ha portato Cristo, poiché anch’essi contengono la fon­te della grazia; essi però devono prolungarsi attraverso canali appropriati perché questa gra­zia prosegua la sua opera nel Corpo della Chiesa.

4 .1!associazione tra il corpo e l ’anima

Per rendere ragione di questa coordinazione nella Chiesa tra i doni dello Spirito e le isti­tuzioni, si può anche appellarsi alla dottrina del Dottore angelico che afferma l’unità sostan­ziale che regna tra il corpo e l’anima nell’uomo, a differenza del pensiero francescano che di­stingueva nettamente l’anima spirituale dall’anima vegetativa e animale, favorendo così una separazione, se non un’opposizione tra l’ordine spirituale e l’ordine corporale o istituzionale. Come lo spirito umano non può vivere e sentire, conoscere e agire senza la partecipazione na­turale del corpo, così si può dire che lo Spirito Santo agisce sempre nella Chiesa servendosi delle realtà e dei segni sensibili. Il culto spirituale non consiste forse nella «offerta dei nostri corpi come sacrificio vivente... a Dio»? Perciò le istituzioni ecclesiali costituiranno come il corpo dei carismi e dei ministeri, indispensabili per il loro esercizio comunitario.

4.1 Lo Spirito esige il corpo

Si potrebbero esprimere i rapporti tra lo Spirito e le istituzioni anche in un altro modo. La divinità e l’umanità in Cristo ci appaiono come degli estremi che la nostra intelligenza non riesce a congiungere; ma in realtà, nel mistero della persona di Gesù, essi si attirano e si uniscono indissociabilmente. Similmente lo Spirito sembra porsi all’estremo opposto delle realtà corporali e delle istituzioni; ma in realtà anch’esso chiama il corpo, in certo modo, nel mistero della santificazione che l’Incarnazione porta a compimento. La sua azione diventa reale per noi solo quando impegna il nostro corpo e si riversa in esso, in particolare median­te la sobrietà e la castità. I carismi allo stesso modo non raggiungono la loro efficacia e non dimostrano la loro autenticità se non nel loro accordo e nella loro cooperazione con gli orga­ni della Chiesa, al di là delle difficoltà e degli scontri che possono sopraggiungerc. Senza dubbio siamo qui posti davanti a un mistero, spesso assai concreto, perché la nostra mente è troppo limitata per comprendere l’ampiezza e la profondità delle opere dello Spirito. È tut­tavia grazie al suo abbassamento fino al livello del corpo e delle istituzioni che lo Spirito si mette alla portata della nostra piccolezza. Mediante queste realtà umili e tangibili, spesso pe­santi, esso ci fa accedere a quelle più elevate, se sappiamo mantenere il nostro cuore docile ai suoi impulsi.

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Lo Spirito e le istituzioni ecclesiali

5. L «istinto dello Spirito Santo» e la «Legge della libertà»

Nella sua analisi della Legge evangelica, san Tommaso ci fornisce ancora due dati che ci aiutano a precisare i rapporti tra la grazia dello Spirito e le istituzioni.

Spiegando il contenuto della Legge nuova, il Dottore angelico ritiene che essa esiga certe opere esteriori che noi compiamo sotto la mozione della grazia, quae ex instinctu gratiae produ- cuntur. Qual è questo «istinto»? Come può accordarsi con la Legge di Dio e con le istituzioni che essa implica nella Chiesa? D’altra parte, prosegue il nostro autore, tra questi atti alcuni mantengono un legame necessario, in accordo o in contrasto, con la fede operante mediante la carità, e sono quindi comandati, come la confessione della fede, mentre altri sono lasciati da Cristo alla libera valutazione di ciascuno, in panicolare dei superiori nei riguardi dei loro sud­diti. Questo è il campo dei consigli: essi costituiscono un’originalità della Legge nuova e le me­ritano il nome insolito di «legge della libertà» (l-li, q. 108, a. 1). Come dunque accordare que­sto ambito di libertà spirituale con le esigenze imperative di una legge e dei suoi organi?

5.1 LVistinto della grazia» all’origine delle istituzioni della Legge nuova

«L’istinto della grazia»: una simile espressione, uscita dalla penna del più rigoroso e del più razionale dei teologi, ha di che sorprenderci, poiché ci fa inevitabilmente pensare all’istin­to animale e ai suoi impulsi, che precedono la libertà e devono essere dominati dalla volontà. Si constata d’altronde che i traduttori moderni esitano spesso davanti a questo termine per ti­more di fraintendimenti. Come accordare la grazia c la morale con l’istinto?

Dobbiamo tuttavia constatare che san Tommaso usa con una certa predilezione il termine «istinto» per indicare l’azione della grazia dello Spirito Santo nel cuore dei fedeli, special- mente nel caso dei doni. Tra i 298 casi in cui viene utilizzata nelle sue opere la parola instinc- tus, una cinquantina presentano l’espressione instinctus Spiritus sancii e una trentina parlano di un istinto divino, soprattutto a proposito della profezia. Più di cinquanta altre citazioni ri­guardano l’uomo nella sua vita morale, il movimento della libertà nel discemere il bene dal male e il rapporto con la legge. Le menzioni dell’istinto animale raggiungono anch’esse la cin­quantina. Si può infine osservare che l’uso del termine instinctus a proposito dello Spirito Santo si moltiplica nelle opere della maturità. La maggiore concentrazione si incontra nella questione della Summa dedicata ai doni che ci muovono come un «istinto divino», che viene dallo Spirito Santo, e che ci dispongono a seguire i suoi impulsi (i-ii, q. 68).

È evidente che san Tommaso non era così esitante come noi nell’utilizzare la parola «istin­to», perché ai suoi occhi il termine non era così legato all’animalità e restava perfettamente adatto a designare la spontaneità che suscita lo Spirito nell’anima dei credenti e che si prova, tra l’altro, nella preghiera.

Tommaso poteva vederne l’illustrazione nella vita dei santi del suo tempo: l’amore della povertà e gli slanci mistici di Francesco, l’audacia apostolica peraltro così ponderata di Do­menico. Si può pensare così all’esperienza contemplativa che tanto bene ci viene descritta da Cassiano e da Gregorio Magno. Ma senza dubbio aveva egli stesso una qualche esperienza di

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Lo Spirito e le istituzioni ecclesiali

senza alcun dubbio ai nuovi Ordini religiosi del suo tempo che erano una vera e propria crea­zione. Si può dunque distinguere nella Chiesa tra istituzioni necessarie e inamovibili, per la loro fondamentale importanza, e altre che sono più libere per natura e maggiormente variabi­li secondo i bisogni dei tempi e dei luoghi.

6.1 Le istituzioni per la formazione della libertà spirituale

La distinzione che abbiamo appena fatto esige tuttavia qualche puntualizzazione. Innanzi­tutto le istituzioni necessarie nella Chiesa non si situano al di fuori della sfera della libertà, poiché sono indispensabili proprio per procurare alla nostra libertà l’insegnamento e la for­mazione di cui essa ha bisogno per radicarsi nella fede e nell’amore di Cristo, per esercitarsi e crescere in una vita che non sia più secondo la carne, ma secondo lo Spirito. L’insieme delle istituzioni legate ai diversi ministeri, come apostolo o vescovo, maestro e pastore o catechista, è finalizzato alla crescita della libertà nel processo dell’educazione morale e spirituale. Mette­re in discussione queste istituzioni in nome di una libertà senza costrizioni priverebbe que- st’ultima degli strumenti di cui la grazia dello Spirito si serve per renderci liberi da ogni osta­colo interiore ed esteriore in vista del bene.

Occorre dunque intendersi sulla natura della libertà qui impegnata. Non è una libertà d’indifferenza definita dalla pura scelta tra i contrari, che si contrappone alla legge e alle isti­tuzioni sentite come un limite avverso. Noi abbiamo a che fare con una libertà di qualità o di attrattiva, mossa dall’amore di Cristo e formata secondo la sua sapienza, aperta anche, con l’aiuto dello Spirito, alla comunità ecclesiale e al bene di tutù.

Una tale libertà non si erge contro le istituzioni, ma si pone subito in armonia con esse, poiché perseguono insieme lo stesso fine: la crescita del Corpo di Cristo e il progresso della grazia in ciascuno. La libertà spirituale ci è concessa con la fede come il germe di una vita nuova; essa cresce nella carità con il sostegno delle istituzioni mediante l’esercizio delle virtù, alla luce della sapienza che procurano la meditazione della Parola di Dio e l’esperienza matu­rata. Questa è la libertà che ci rende capaci, quando è diventata adulta, di avvalersi delle isti­tuzioni ecclesiali come conviene, secondo la loro natura e la loro finalità, con la cura, il tatto e l’elasticità che esige l’uso di strumenti che servono alla vita e devono corrispondere agli inci­tamenti dello Spirito. Fermezza e dedizione, fedeltà e flessibilità, intelligenza e benevolenza, nell’obbedienza così come nel governo, sono queste le qualità che rendono le istituzioni ec­clesiali efficaci e spiritualmente feconde.

6.2 La solidarietà spirituale a causa di Cristo

Un’armonia di fondo tra coloro che esercitano una carica all’interno della Chiesa e coloro che si avvalgono della loro direzione è tanto più necessaria in quanto sanno, gli uni e gli altri, di essere sottomessi all’autorità di Cristo e chiamati a seguire il suo esempio, lui che si è fatto obbediente e ha dato se stesso per il bene di tutti. Perciò i superiori, assolvendo la loro fun­zione in nome del Signore, imparano anch’essi a obbedire con tutto il cuore, assumendo la lo­

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La vita spirituale del cristiano

ro responsabilità di comando. L’esercizio dell’autorità diventa così per loro un’occasione ina­spettata di obbedienza ai bisogni di ciascuno; esso esige una disponibilità che non si può as­solutamente acquisire se prima non si è resa più docile la propria volontà sottomettendosi al governo di un altro a causa del Signore. L’autorità di Cristo stabilisce così tra governanti e go­vernati una sorta di solidarietà spirituale, una forma di reciprocità che, si può dire, dovrebbe informare lo spirito delle leggi e delle istituzioni nella Chiesa e che si fonda su un comune amore, su una medesima speranza, su una uguale intelligenza del bene spirituale. Per illustra­re tutto questo, citeremo semplicemente il magnifico testo della prima lettera di Pietro che si rivolge agli anziani e ai giovani: «Esorto gli anziani che sono tra voi...: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge... Ugualmente voi, giovani, siate sottomessi agli anziani... Umiliatevi dun­que sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al momento opportuno» (5,1-6).

L’analisi della Legge nuova fatta da Tommaso ci mostra come risolvere il problema sem­pre risorgente nella Chiesa dei rapporti tra gli elementi più spirituali, animati dall’«istinto dello Spirito Santo», dalla carità, dai doni o dai carismi, e gli elementi più materiali, talora pe­santi da maneggiare e da dirigere quali sono le istituzioni. Essa ci aiuta a evitare il legalismo di un tempo, in cui il diritto aveva invaso la morale a detrimento della vita spirituale, e a su­perare la tentazione attuale di una promozione inconsulta della libertà individuale che si con­trappone al legalismo, ma resta chiusa nello stesso quadro di un confronto tra la libertà e la legge, così che tutti i problemi si trovano a ruotare attorno ai rapporti con l’autorità, intesi e sentiti come un conflitto di forze, come una forma della lotta per il potere. Sotto questa luce le istituzioni appaiono come strumenti di dominio e di oppressione che è necessario ridurre al minimo sopportabile, finché non ci si accorge che il vuoto istituzionale così creato lascia campo libero ad altri poteri, meno controllabili e non meno tirannici, alla pressione di gruppi che utilizzano la potenza dell’opinione, del denaro o della politica, ricoprendosi del mantello della libertà. Questo non è evidentemente il cammino della libertà spirituale che ci propone il Vangelo, né semplicemente di una libertà veramente adulta, atta ad assumere delle responsa­bilità nella Chiesa e nella società.

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Capitolo sedicesimo LA CONTEMPLAZIONE

NEL TEMPO DELLA SCIENZA

Nel mondo in cui viviamo, sempre più modellato dalla scienza e invaso dalla tecnica, il problema della vita spirituale si pone in termini e in un contesto molto diversi da quelli di un tempo, per quanto riguarda le condizioni di vita e i modi di pensare. In altri termini, si po­trebbe dire che una volta si viveva nel seno della natura, conformandosi ad essa; oggi scienze e tecniche ci fabbricano un mondo a loro misura, sempre più meccanizzato, servendosi delle leggi della natura per dominarla e asservirla a fini utili. Il lavoro dell’uomo sembra aver sosti­tuito la creazione da parte di Dio. Una nuova visione del mondo, che si vuole rigorosa ed effi­cace, è penetrata nella nostra vita quotidiana. Perciò facciamo una certa fatica a comprendere ancora le antiche dottrine spirituali e ad applicarle. Un confronto tra il mondo spirituale e l’universo della scienza è dunque necessario per evitare una nefasta opposizione tra queste due visioni, che porterebbe all’eliminazione dell’una o dell’altra, e per individuare le possibi­lità di accordo e di collaborazione. Affascinati dall’aureola della scienza e presi dalle nostre occupazioni, noi rischiamo veramente di perdere il senso stesso delle realtà spirituali e di ina­ridire in noi le fonti della nostra vita interiore.

1. Il declino della contemplazione nell’epoca moderna

Il problema posto è vasto; lo affronteremo mediante una riflessione sul ruolo della con­templazione. Nella maggior parte delle correnti spirituali e teologiche, la contemplazione era presentata un tempo come la parte più alta e principale della vita cristiana. Già nel Nuovo Testamento, come abbiamo visto, la contemplazione del mistero di Cristo esige una confor­mazione alla sua persona che si precisa nella catechesi morale. In teologia la predominanza della contemplazione o dell’azione è un argomento di controversia. Ricordiamo che san Tom­maso, a differenza di san Bonaventura, concepisce la teologia come una scienza più speculati­va o contemplativa che pratica, perché essa considera principalmente le realtà divine e, in se-

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La vita spirituale del cristiano

condo luogo, le azioni umane per ordinarle alla perfetta conoscenza di Dio, nella quale si tro­va la beatitudine eterna (i, q. 1, a. 4). Molte scuole spirituali assegneranno anch’esse il prima­to alla vita contemplativa o mistica, che si esercita in particolare sotto forma di orazione; ma il dibattito si rinnoverà regolarmente, soprattutto riguardo al primato della carità e alle esigenze dell’amore del prossimo.

L’epoca moderna ha conosciuto una reazione anti-mistica abbastanza generale. Le correnti predominanti, dopo il concilio di Trento, mettono l’accento sul lato pratico e attivo della vita spirituale—cioè la meditazione e gli esercizi—c la orientano verso l’ascesi intesa come una di­sciplina volontaria. Vi è una certa diffidenza verso una contemplazione che debba dipendere da grazie straordinarie ed esiga la passività interiore. Questa concezione della spiritualità è in perfetto accordo con la mentalità dell’epoca, in cui si impone sempre di più l’ideale di una ra­gione che si sente ormai capace di svelare i segreti della natura e di trasformarla con la sua atti­vità. Anche la scienza volta le spalle alla contemplazione, sia essa religiosa o filosofica, per de­dicare tutti i suoi sforzi alla ricerca sperimentale e alle invenzioni pratiche. Così all’età della contemplazione che guardava al mondo con ammirazione, come opera di Dio, succede il tem­po della scienza che lo osserva per scoprirne le leggi e usarle al servizio dell’uomo.

La concezione ascetica della vita spirituale è assai utile per insegnare all’uomo moderno la disciplina necessaria alla pratica della scienza e alla sua utilizzazione. Essa è imparentata con lo spirito scientifico per il suo scopo e i suoi mezzi: stabilire il dominio della ragione sulla na­tura umana, mossa dagli istinti del corpo e dagli impulsi dei sensi, mobilitando le forze della volontà con l'aiuto di esercizi appropriati che formano una sorta di tecnica spirituale. Non si vede quale possa essere il contributo della passività contemplativa in questo lavoro, e si arriva facilmente a diffidare delle vie che non si possono strettamente controllare con la ragione.

Si potrebbe dunque credere che la contemplazione sia ormai bandita dallo spirito moder­no, tanto nell’ambito spirituale quanto nel lavoro scientifico. Essa non sussisterebbe più se non in certi chiostri come vestigia del passato, come quei castelli di cui si conservano le rovi­ne e che ispirarono Teresa d’Avila nella descrizione delle sue ascensioni mistiche.

1.1 Dalla contemplazione mistica alla contemplazione scientifica

Questo modo di vedere è troppo semplicistico. L’aspirazione contemplativa, che nutre il desiderio del puro sapere, non è per nulla scomparsa dal nostro mondo; essa ha soltanto cam­biato orientamento e oggetto adottando un altro metodo. La scienza non contempla più il cielo e le opere della natura per individuarvi delle tracce di Dio e scoprire le vie che conduco­no a lui; ormai essa ha fissato il suo sguardo sulla materia, nell’esperienza sensibile, e la scruta sempre di più con gli strumenti che inventa, sia sulla terra con i microscopi sia nel cielo con i telescopi e i satelliti. Alla contemplazione mistica si è sostituita la contemplazione scientifica. Possiamo facilmente riconoscere anche in quest’ultima la sete di infinito che animava la pri­ma, nel movimento incoercibile che spinge gli scienziati, in qualunque campo, a superare le conoscenze acquisite, a cercare sempre oltre, sempre più lontano. La scienza è realmente di­ventata per molti una mistica.

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La contemplazione nel tempo della scienza

Possiamo dunque affermare che le scienze rappresentano, nel nostro tempo, la dimensio­ne contemplativa della vita umana, come una ricerca della verità per se stessa, mentre il lavo­ro per mezzo della tecnica ne costituisce la dimensione pratica.

1.2 L’intelligenza contemplativa

NelTispirarsi ad Aristotele, san Tommaso aveva già chiaramente riconosciuto, nel suo stu­dio della vita contemplativa e attiva, la duplice dimensione costitutiva della mente umana. Queste due forme di vita hanno la loro base nella duplice funzione dell’intelligenza umana: nell’intelletto speculativo che non ha altro fine che la conoscenza della verità, e nell’intelletto pratico che ha come scopo di edificare l’azione (HI, q. 179, a. 2).

La varietà dei termini utilizzati non intacca l’essenziale. Tommaso preferisce usare «con­templazione» quando sfrutta la dottrina di uno spirituale, come Gregorio Magno (q. 179, a. 2). Si serve dell’espressione «intelletto speculativo» quando si basa su Aristotele (l, q. 79, a. 11). Altrove, quando studierà l’agire morale, parlerà della ragione speculativa e della ragion pratica. Menzioniamo anche la denominazione «ragione teorica». Il tratto comune a questi termini sta nella loro relazione con lo sguardo che contempla, che osserva, o che esamina c scruta, secondo la sfumatura che implica il termine «speculativo». Questa constatazione ci in­dica l’esperienza concreta che è all’origine di questo vocabolario. È con lo sguardo che noi percepiamo la forma, il numero, la misura, la bellezza e la qualità delle cose e delle persone. Così è con l’incontro degli sguardi che si concepisce l'amore e che esso si mantiene vivo. Lo sguardo contemplativo non è dunque così passivo come si pensi: è grazie ad esso che la men­te e il cuore sono prima di tutto toccati e informati e che si generano in noi le prime energie, rese feconde da ciò che i nostri occhi hanno visto.

La contemplazione non è limitata alla vita religiosa: essa deriva da una inclinazione co­stitutiva della nostra intelligenza, il desiderio di conoscere, la curiosità per la verità, l’attrat­tiva degli esseri che nasce con lo sguardo e suscita una ricerca senza fine. Questa è l’ammi­razione che Aristotele pone all’origine della filosofia e delle scienze; questo fu l’amore della verità che ispirò il lavoro teologico di Tommaso d ’Aquino e di cui egli fissò il termine nella visione di Dio.

1.3 La distinzione tra la contemplazione spirituale e la contemplazione scientifica

Siamo così nuovamente posti davanti al nostro problema: che cosa distingue la contem­plazione degli spirituali dalla contemplazione o dalla speculazione scientifica? La risposta a questa domanda determinerà il posto che può ancora occupare la vita contemplativa nel no­stro mondo, come pure la sua relazione con la vita attiva.

Tre elementi ci sembrano essenziali sul piano della contemplazione: essa è innanzitutto uno sguardo, che ha come oggetto una certa esperienza del reale, il quale è colto a partire dà una certa posizione o atteggiamento di colui che cerca di conoscere. Quest’ultimo elemento è decisivo per il nostro problema.

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La vita spirituale del cristiano

La «contemplazione)» scientifica moderna trac infatti la propria orìgine da una nuova pre­sa di posizione dell’uomo di fronte all’universo. Questa rivoluzione, così si può chiamarla, è avvenuta a partire dal xvii secolo con l'uso sistematico del metodo sperimentale. Da allora lo sguardo si concentra sull’esperienza sensibile, controllabile attraverso la ripetizione e misura­bile dai matematici, e perciò limitata all’ordine della quantità secondo lo spazio e il tempo. La posizione adottata è caratteristica: è l’atteggiamento dell’osservatore che si pone a distanza dall’oggetto per esaminarlo e si cancella, come soggetto, davanti ad esso per acquisirne una conoscenza il più esatta e rigorosa possibile. Abbiamo dunque a che fare con uno sguardo dall’esterno, che procura una conoscenza che resterà sempre esteriore; essa si fonderà su ciò che appare e che si definisce «fenomeni». Questa esteriorità, che crea l’opposizione del sog­getto e dell’oggetto, è caratteristica della «contemplazione» scientifica.

L’osservazione della natura fìsica si presta perfettamente a un tale metodo; ma le cose si complicano quando lo sguardo si volge sull’uomo e cerca di penetrare in lui, nella sua psico­logia. È qui che il metodo delle scienze sperimentali mostra i suoi limiti. Esso infatti si scon­tra con la domanda: si può raggiungere con una osservazione dall'esterno ciò che forma l'in­teriorità dell’uomo: il cuore e la mente, la libertà, l'amore, il bene e il male, la virtù e il pecca­to, tutte le qualità e i movimenti propri della vira spirituale? Per penetrare all’interno dell’uo­mo, non occorre forse un altro sguardo, un altro genere di contemplazione, un atteggiamento e un metodo diversi che procurino un’altra forma di conoscenza?

2. La contemplazione spirituale

Volgiamo dunque la nostra attenzione alla contemplazione spirituale. Siamo invitati a una vera e propria riscoperta. La contemplazione qui si svolge in seno all’esperienza interiore che si forma in ogni uomo, a contatto con il mondo, con gli altri, e in ascolto della Parola di Dio. Essa nasce da uno sguardo che sta al centro di questa esperienza, nell’intimo della persona e del suo impegno. Non abbiamo più a che fare con esperienze ripetute su una materia estra­nea, ma con l’esperienza specificamente umana che lentamente si sviluppa e matura in noi al cuore della vita, se è condotta intelligentemente.

11 metodo che qui si impone non è più l’osservazione a distanza, ma la riflessione su noi stessi per penetrare nel profondo della nostra interiorità attiva, per accostarci, il più vicino possibile, alla sorgente spirituale che ci alimenta, non con lo scopo di impadronirci di essa, ma per aprirci al suo zampillo, con una lucidità e una disponibilità sempre più grandi. La sor­gente è esattamente lo spirito in noi: esso si manifesta nel soffio che forma la parola e nell’ispirazione che anima l’azione.

La contemplazione spirituale si svilupperà mediante esercizi appropriati. Per iniziarla e mantenerla viva, abbiamo bisogno di oggetti concreti e di aiuti tangibili, di ricordare eventi e azioni in cui si rifletta la nostra interiorità, di meditare testi e ascoltare parole che ci risveglino alla luce di Dio, di entrare in contatto con persone che ci servano da guida con la loro espe­rienza e da modello con il loro esempio.

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La contemplazione nel tempo della scienza

verità e al bene delle persone fin nei loro rapporti con il mondo esteriore. Perciò si può soste­nere che i veri contemplativi sono i più oggettivi degli uomini nelle loro relazioni con gli altri e con il mondo, a causa della purezza dello loro sguardo e della sincerità del loro amore.

Questa è l’oggettività che ci insegnano i libri sapienziali, e poi la catechesi apostolica, conformandoci alla Sapienza personificata che i cristiani identificheranno in Cristo.

La conoscenza spirituale possiede anche la sua universalità; essa però è di un genere parti­colare. La sapienza infatti riunisce due estremi: essa si forma nel segreto del cuore, in ciò che ciascuno ha di proprio e unico, e proprio a causa di questo fatto, quando essa si esprime, giunge a toccare le persone molto più profondamente di qualsiasi opera scientifica. Si può anche dire che più un’opera è personale, come i racconti delle conversioni e le testimonianze di vita, e più ha la possibilità di ottenere un interesse vasto e durevole; in essa molti si ricono­scono e scoprono nel loro autore un amico intimo. Insomma, esiste qualcosa di più personale del Discorso della montagna con l’affermazione: «Ma io vi dico...» e con Io stile tanto con­creto nei suoi esempi da essere pressoché inimitabile? Del resto, quale discorso ha mai otte­nuto una simile risonanza?

2.3 Analisi e sintesi

Notiamo un’ultima caratteristica della sapienza. A differenza della scienza che, per analiz­zarla, seziona la sua materia nelle sue più piccole parti e si fraziona, nel suo progresso, in spe­cializzazioni sempre più particolari, la sapienza, anche quando raccoglie le molteplici cono­scenze fomite dalle scienze, le riconduce sempre al centro su cui si regge, al livello dello spiri­to, nell’intelligenza del cuore, al di là della ragione ragionante. È in questo luogo interiore che la sapienza si sviluppa con un continuo lavoro di sintesi, paragonabile a una ruminazione e a una digestione, che però si facessero nella luce. La sapienza è attiva per il suo lavoro di rifles­sione e di assimilazione che ha come base l’esperienza, e contemplativa per la sua attenzione alla luce superiore che vi presiede e alle idee ordinatrici che emergono sotto i suoi occhi.

La crescita della sapienza non può realizzarsi, come nelle scienze, attraverso esami, prove, misure e calcoli. Essa progredisce con una maturazione che si inserisce nello spazio della vita, differente dal tempo meccanico; ha le sue tappe e le sue stagioni, come gli organismi viventi, come crescono anche le virtù nel cuore e nella mente. La sapienza si manifesta attraverso la sua fecondità, quando il tempo è venuto, e con l’eccellenza e il sapore dei suoi frutti per chi sa apprezzarli, poiché bisogna avere il gusto formato. «Li riconoscerete dai loro frutti», ci di­ce il Signore.

3. Il progresso della sapienza

«Fondamento della sapienza è il timore di Dio, la scienza del Santo è intelligenza» (Prv 9,10). «Il timore di Dio è una scuola di sapienza, prima della gloria c’è l’umiltà» (15,33). «Co­rona della sapienza è il timore del Signore; fa fiorire la pace e la salute» (Sir 1,16).

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La vita spirituale del cristiano

Possiamo descrivere il progresso della sapienza in relazione con la crescita della carità, da­to che quest’ultima crea in noi una connaturalità con le realtà divine, necessaria per poterle considerare e ordinarci ad esse. Per questo san Tommaso associa il dono di sapienza, che pe­raltro risiede neirintelligenza, alla virtù di carità. Vediamo qui intimamente unite l’azione for­mata dalla carità e la contemplazione. Noi considereremo il progresso della contemplazione secondo le tre tappe che conosciamo: gli incipienti, i profìcienti e i perfetti o adulti.

Nei testi che abbiamo appena citato, il timore di Dio è posto all’inizio e al termine del cammino della sapienza. Il timore non designa soltanto, nella Scrittura, la paura davanti all’onnipotenza divina o alla minaccia del castigo. È un sentimento più ricco, che si sviluppa e si trasforma con il progredire della carità. Si potrebbe definirlo come il sentimento della pre­senza di Dio. Esso implica due aspetti. Da un lato contiene un sacro timore perché questa presenza ci fa prendere coscienza della nostra condizione di creatura, del nostro nulla e an­che del nostro essere peccatori, come Isaia che esclamava, nel momento della sua vocazione, davanti alla santità di Dio: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono» (6,5). Allo stesso modo Simon Pietro, preso da grande stupore per la pesca miracolosa, cade ai piedi di Gesù dicendo: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore» (Le 5,8). Ma da un altro lato la presenza di Dio causa la pace e la gioia, perché egli ci offre la sua mise­ricordia e ci invita alla speranza con le sue promesse. Questo è l’inizio della vita spirituale che depone in noi il seme della contemplazione: un certo incontro con Dio che si manifesta nell’intimo dell’anima facendoci vedere chi Egli è e ciò che noi siamo, molto lontani da Lui e molto vicini, perché Egli viene verso di noi e ci chiama a sé.

3.1 L’apprendistato spirituale

La prima tappa della formazione spirituale consiste nel mettersi alla scuola di un maestro ed esercitarsi nella pratica di una disciplina di vita. Essa avrà come scopo primario la lotta contro i peccati. «Per conoscere la sapienza e la disciplina, per capire i detti profondi..., ascoltate, o figli, l’istruzione di un padre e fate attenzione per conoscere la verità, perché io vi do una buona dottrina» (Prv 1,2; 4,1-2). La ricerca della sapienza inizia perciò con un atto di fede e di fiducia nei confronti di un maestro che Dio ci propone, all’interno di una scuola spi­rituale, diventando discepoli docili e intelligenti. È una forma di noviziato. Per questo ap­prendistato il nostro miglior manuale è la Sacra Scrittura, con i commenti di coloro che se ne sono nutriti e hanno fatto fruttificare la Parola di Dio nella loro vita, talora sotto forma di re­gole e di tradizioni religiose.

Sant’Agostino, commentando le beatitudini in cui vede descritto l’itinerario della vita cri­stiana, pone alla base e all’inizio del cammino spirituale l’umiltà, significata dalla povertà in spirito della prima beatitudine, che ci mette alla scuola dell’umiltà stessa del Verbo incarnato. La seconda beatitudine ci rende miti, cioè docili verso la Scrittura, anche quando essa ci ac­cusa e ci mostra il nostro peccato.

Questa prima tappa comporta anche l’iniziazione al combattimento spirituale, nell’atteg­giamento esteriore prima di tutto, e poi al livello del cuore dove si svolge la lotta principale.

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La vita spirituale del cristiano

franto tra due amori: l’amore di Dio fino alla dimenticanza di sé e l’amore di sé fino al di­sprezzo di Dio.

3.3 La contemplazione del mistero di Cristo

Per squarciare il velo degli eventi, come fa il vescovo di Ippona, occorre aver ricevuto il dono d’intelligenza promesso ai cuori puri, la capacità di «leggere all’interno», di penetrare nella profondità dei fatti e delle coscienze per scoprire la presenza di Dio dietro le sue grazie e i suoi favori, come pure sotto le sofferenze che ci toccano e gli avvenimenti che possono diso­rientarci. Così la sesta beatitudine, che porta la guarigione degli occhi del cuore, ci introduce a una contemplazione superiore, capace di accogliere la luce di Dio nella sua forza, così come di sopportare la tenebra senza cadere in errore. Questa è la caratteristica dei «perfetti», degli «uomini spirituali» che si nutrono della sapienza dello Spirito, secondo le parale di san Paolo.

Quest’ultima tappa associa la maturità della carità alla sapienza, di cui l’Apostolo parla ai Corinzi poco prima di presentare loro l'agape come il dono più grande. Nello stesso senso, Agostino ricollega il dono di sapienza alla beatitudine degli operatori di pace, che sono chia­mati figli di Dio perché risplendono di questa pace che è il frutto diretto della giustizia e della carità e che segna l’apice dell’itinerario spirituale.

È qui che prevale la vita contemplativa secondo le modalità delle diverse vocazioni. San Paolo lo esprime bene quando dichiara ai Filippesi: «Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore... Quanti dunque siamo ‘perfetti’, dobbiamo avere questi sentimenti» (3,8.15). Qui, inoltre, i temi dell’amicizia e dell’amore coniugale, utilizzati dai teologi e dai mistici per parlare della carità, raggiungono la loro pienezza e spesso esplodono sotto la pressione di questo amore superiore.

L’aspirazione che san Paolo nutre di «essere con Cristo» è così forte che sembra mettere in discussione la sua opera apostolica. Egli risolve l’«alternativa» non con l’abbandono del desiderio contemplativo, come si potrebbe credere quando egli conclude che «è più necessa­rio per voi che io rimanga nella carne», ma perché sa che la conoscenza di Cristo è diffusiva e alimenta direttamente la sua opera d’apostolo. Giunta alla sua maturità, la sapienza contem­plativa—come abbiamo visto per la carità—è la più adatta a comunicarsi con la predicazione, con l’insegnamento, con il sostegno spirituale, secondo l’esempio dei Padri e dei santi, come Agostino le cui omelie mettono alla portata dei fedeli i frutti della sua ricerca contemplativa più alta, o come Tommaso d’Aquino che compone per i principianti nella scienza sacra la sua opera teologica più compiuta, secondo l’adagio che egli amava citare per definire la vita apo­stolica: «Contemplata aliis tradere, offrire agli altri ciò che si è contemplato».

3.4 Una contemplazione nella fede

Termineremo questa analisi dell’itinerario della contemplazione cristiana sottolineando una caratteristica unica: essa è uno sguardo che procede dalla fede e prende come oggetto l’invisibile che essa le propone. Perciò la contemplazione deve ritornare continuamente

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La contemplazione nel tempo della scienza

all’umiltà dell’atto di fede, come alla sua sorgente; essa resterà nella fede fino alla fine, poiché la sua luce propria le viene da qualcosa che le sta al di sopra. Essa è uno sguardo rivolto nella notte verso il mistero di Cristo che già l’illumina con un primo raggio, così forte da distoglie­re la sua attenzione dai vivaci bagliori del mondo e innalzarla, con una vigilanza interiore, nella speranza di Colui che viene.

La contemplazione cristiana avanza come un alpinista su uno spigolo vivo; essa deve con­tinuamente seguire il passo della fede per mantenere un equilibrio saldo e andare avanti. Da una parte sentiamo il fascino della Parola di Dio che illumina gli occhi e tocca il cuore, che guida e sostiene; essa però ci fa camminare nell’oscurità della fede, costeggiando il vuoto. Dall’altra parte si impone a noi la massa delle realtà del mondo, che la scienza cerca di chiari­re e di organizzare a suo modo per mezzo della tecnica; essa però ci dà l’impressione che esi­sta solo la materia e che non vi sia altra forma di contemplazione se non la fredda analisi della ragione. Da un lato riceviamo una grande promessa: la speranza e la gioia di conoscere Colui che ci ha amati per primo, anche se per seguirlo occorre accettare la rinuncia a sé significata dalla Croce. Dall’altro lato il presente ci prende con le sue occupazioni e cerca di sedurci con i piaceri e le comodità che ci offre; esso tuttavia è minato dal sentimento della fragilità delle cose e della fuga del tempo. Da un parte il vuoto che prepara la pienezza del cuore, la notte che apre alla luce; dall’altra la pienezza delle cose che conduce al vuoto, il luccichio di un giorno che acceca e oscura l’anima. Viene voglia di dire: da un lato l’essere della materia che non è, e dall’altro il non essere dello Spirito che è e che ci fa essere mediante la fede. Tutto il problema sta nel cuore e nei nostri cuori: da che parte penderà il nostro volere, dove fissere­mo i nostri sguardi? Chi sceglieremo? Che cosa contempleremo? La vita spirituale dipende interamente da questo punto di partenza e dal paziente cammino alla luce della fede che se­guirà, passo dopo passo.

Indicazioni bibliografiche

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1970.R. Garrigou-Lagrange, Perfection chrétienne et contemplation, Saint-Maximin 1923 (tr. it. Per­

fezione cristiana e contemplazione, Torino-Roma 1933).A. Gardeil, La structure de l’àme et l ’expérience mystique, Paris 1927.J. Huby, La mistica di san Paolo e di san Giovanni, Firenze 1954.F.-D. Joret, La contemplation mystique d ’après saint Thomas d ’Aquin, Bruges 1924.

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Capitolo diciassettesimo SANTA MARIA, MADRE DI DIO

La devozione a Maria ha sempre seguito il culto rivolto a suo Figlio nella preghiera e nella vita della Chiesa. Essa perciò è una componente caratteristica della spiritualità cattolica fin dalle origini.

Maria nel Vangelo e nella Tradizione

I Vangeli ci rivelano il ruolo di Maria nei momenti decisivi dell’opera redentrice di Gesù. Nel racconto dell’Annunciazione che ci riporta san Luca. Maria concede alla Parola portata dall’angelo Gabriele il fiat della sua fede che determina l'Incarnazione del Figlio di Dio. Co­me dicono i Padri, ella ha generato Gesù con la sua fede prima di concepirlo nella sua carne. La fede di Maria porta a compimento la fede di Abramo ricevendo il figlio della promessa; el­la diviene il modello e forma la primizia della fede della Chiesa. Per mezzo di Maria il «Fiat» creatore della Genesi si è fatto ri-creatore per produrre l’Uomo nuovo.

San Giovanni ci mostra Maria ai piedi della croce, mentre partecipa in modo unico alla Passione che Gesù subiva nella carne che ella gli aveva dato e mentre riceve da lui una mater­nità nuova nella persona dell’apostolo che Gesù amava.

Ancora san Luca ci descrìve la comunità degli apostoli raccolta in preghiera intorno a Maria per accogliere la pienezza delle grazie dello Spirito nel giorno della Pentecoste. Si può comprendere che fu per lei una grazia di preghiera posta alla sorgente della grazia apostolica, secondo l’esempio di Gesù che passa la notte in preghiera prima di scegliere gli apostoli.

La Tradizione cristiana dei primi secoli ha mantenuto con fermezza, nella sua dottrina e nella sua liturgia, il posto privilegiato di Maria, di fronte alle eresie successive. Nel porre fine ai dibattiti dei grandi concili riguardo all’unione personale dell’umanità e della divinità in Gesù, come Figlio di Dio uguale al Padre, il concilio di Efeso ha riassunto la sua fede in una formula semplice e chiara, accessibile anche ai più umili, attribuendo a Maria il titolo di Theotokos, di «Madre di Dio». Questa invocazione, che ci è così familiare, è in realtà di

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Santa Maria, madre di Dio

gnerà un momento decisivo nella storia e inaugurerà anche una nuova era. Ma san Luca, pur precisando il luogo e le circostanze, vuole introdurci al di là di ciò che percepiscono i sensi, nell’intimità di Maria nel momento in cui la Parola di Dio la raggiunge mediante la voce dell’angelo. Egli ci indica anche quale sia la portata di ciò che è avvenuto richiamando il con­testo spirituale dell’avvenimento con l’aiuto di passi della Scrittura che ne mostrano il radica­mento nella storia del popolo eletto, come pure il suo significato per Maria e per quelli che come lei crederanno.

Il racconto dell’Annunciazione è un quadro offerto alla nostra contemplazione, alla ma­niera dei capolavori del Beato Angelico, ma con un’ispirazione ancora più alta. Esso ha co­me scopo di formare e di mantenere viva in noi una fede simile a quella della Vergine; inol­tre ci chiama all’ascolto e alla preghiera a imitazione di Maria, perché la luce di Dio illumini anche noi.

Secondo la fede di Abramo

La parte finale del Magnificat, che corona il racconto dell’Annunciazione sotto forma di lode, ci fornisce una chiave di lettura situando questi avvenimenti nella linea della Misericor­dia di Dio promessa «ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre». Noi possiamo real­mente ritrovare in Maria le tre tappe della fede e della speranza di Abramo che si apre all’amore divino. Sono proprio le promesse fatte al patriarca che si trasmettono a Maria attra­verso il loro rinnovamento a favore di Davide: «Il Signore ti farà grande... Quando i tuoi giorni saranno compiuti... io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio» (2Sam 7,11-14). Per que­sto l’angelo può evocare nel suo saluto la profezia di Sofonia: «Gioisci, figlia di Sion... e ralle­grati con tutto il cuore! Non temere, Sion!... Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente!» (3,14-17). Maria è proprio la figlia di Sion invitata a rallegrarsi perché Dio è in lei.

Come per Abramo, la promessa dell’angelo: «Concepirai un figlio e lo darai alla luce» ri­spondeva al suo desiderio, naturale per la donna, di avere un figlio, di diventare madre. An­che qui la promessa superava le speranze umane; essa si collegava alla speranza di un Messia suscitata da Dio nel popolo di Israele: «Sarà grande... Il Signore Dio gli darà il trono di Davi­de suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». La promessa acquistava in queste parole come un alone di grandezza infinita che contrastava con l’umiltà di Maria: «Ha guardato l’umiltà della sua serva». Il turbamento provato da Maria al saluto dell’angelo proviene senza dubbio da questo passaggio dall’estrema piccolezza all’estrema grandezza secondo il movimento della grazia che la riempiva. Umile e nascosta, eccola caricata di tutta la speranza di un popolo.

Il momento della prova

All’annuncio dell’angelo la prova appare subito nel cuore di Maria. Essa si manifesta in quella domanda che prolunga il suo turbamento: «Come è possibile? Non conosco uomo».

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L’interrogativo sale dal fondo del suo essere di donna ebrea toccata dalla promessa della ma­ternità messianica.

Si è molto discusso sul senso di questa parola. Seguendo sant’Agostino (De sancta virginì- tate, iv), la tradizione teologica latina ha accettato la spiegazione che presuppone un voto di verginità pronunciato da Maria; tuttavia non è facile conciliare l’interpretazione agostiniana con il fidanzamento di cui parla san Luca. A noi sembra che questa ipotesi non sia indispen­sabile e che la domanda posta da Maria sia abbastanza chiara, se la si considera all’interno della scena che ci viene raccontata e alla luce della prova di Abramo.

Come Abramo, Maria si sentiva presa e quasi divisa tra due parole di Dio che non sapeva come conciliare. Vi era all’inizio l’annuncio dell’angelo: ella avrebbe avuto un figlio, nel quale si sarebbero compiute le promesse regali fatte a Davide, e questo bambino era il Figlio dell’Altissimo che avrebbe regnato per sempre sulla casa d’Israele. Notiamo che queste pro­messe contengono già i due titoli che Gesù rivendicherà davanti a Caifa e davanti a Pilato— egli è il Figlio di Dio e il Re dei Giudei—e che saranno la causa della sua condanna. Il rac­conto dell’Annunciazione è in perfetto accordo con l’insieme del vangelo. Così Maria si senti­va invasa e portata dalla grande speranza che avrebbe preso corpo nel suo bambino. Poteva resistere a questo slancio di speranza suscitato da Dio fin dalle orìgini del popolo eletto?

Ma nello stesso tempo dietro l’obiezione: «... non conosco uomo» si può intuire un’altra parola di Dio a Maria, del tutto segreta, rivolta a lei sola, suggerita dal saluto dell’angelo e che si potrebbe esprimere così: come Abramo fu preso dall’amore di Dio che lo chiamava al pun­to da acconsentire di sacrificargli Isacco che Dio stesso chiamava «il tuo unico figlio che ami», in un’obbedienza silenziosa e senza riserve, così Maria, pervasa dalla grazia di Dio che la riempiva, si sente chiamata a darsi totalmente a questo Amore unico che la visitava e a «non conoscere uomo», a rimanere vergine. Maria era penetrata dalla Parola di Dio come da una spada a doppio taglio: da una parte la speranza della maternità la sollevava e, dall’altra, si formava in lei la volontà di consacrarsi all’Amore nella verginità. Secondo la logica umana, non c’era via d’uscita tra queste due parole contrarie: infatti come diventare madre se non co­nosceva uomo, e come darsi a un uomo senza rifiutarsi a quelTAmore che voleva prenderla tutta? Come poteva rispondere alla speranza del suo popolo e, nello stesso tempo, abbando­narsi all’assoluto dell’amore divino che parlava al suo cuore? Questo amore non chiedeva an­che a lei, come ad Abramo, di sacrificare il figlio della promessa nel momento stesso in cui le era annunciato?

Maria era sola davanti a questa domanda, poiché nessuno senza la luce di Dio poteva com­prenderla, né gli uomini della sua stirpe che rifiutavano la verginità proprio a causa della loro speranza in un Messia, né soprattutto Giuseppe, il suo fidanzato, il più diretto interessato.

Maria e il mistero di Gesù

Maria era realmente messa di fronte al mistero stesso di Gesù: come questo bambino po­teva assumere l’umanità nascendo dalla sua carne ed essere nello stesso tempo il Figlio di Dio, nato dal Padre e generato per mezzo dello Spirito? Questo mistero, che ella non poteva

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Santa Maria, madre di Dio

formulare con termini dotti ma che provava più profondamente dell’angelo stesso, si riflette­va direttamente nella scelta che la divideva, tra la maternità e La verginità, tra l’opera dell’Amore e la consacrazione all’Amore, dato che l’una sembrava implicare la rinuncia all’al­tra: «Come è possibile?».

La risposta dell’angelo è molto più che la semplice soluzione di un problema difficile. Es­sa esige da Maria la fede in Dio «a cui nulla è impossibile», abbandonandosi così alla potenza dello Spirito, il solo in grado di conoscere e di realizzare i disegni di Dio che superano i pen­sieri degli uomini, come il cielo sovrasta la terra. Lo Spirito Santo la coprirà con la sua om­bra, come la nube luminosa stava sopra al popolo nel deserto del Sinai, come si stenderà an­che su Gesù e sugli apostoli durante la Trasfigurazione. Lo Spirito d’amore compirà in Maria l’«impossibile» rendendola madre e confermandole la grazia della verginità. Maria non con­cepirà Gesù malgrado la sua verginità, ma grazie ad essa, perché rinunciando a «conoscere uomo» ella si dà allo Spirito che formerà in lei Gesù, il quale non fu generato, dice san Gio­vanni, «né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio» (Gv 1,13).

Con l’umile «sì» della sua fede e con l’audacia della sua speranza, Maria impegna la sua persona e la sua vita nei confronti della Misericordia di Dio che le si è manifestata nella sua potenza e si è abbassata su di lei nella sua benevolenza. Con la sua obbedienza ripara la man­canza di fede e la disobbedienza di Èva e diventa, in modo diverso dalla prima donna, la «Madre dei viventi» grazie al figlio che le è dato come primizia dell’«uomo nuovo», dell’«uo- mo spirituale». Figlia di Abramo, ella è da quel momento il modello della fede in Gesù, come Figlio di Dio e figlio della Vergine.

La beatitudine di Maria pronunciata da Elisabetta: «Beata colei che ha creduto nell’adem­pimento delle parole del Signore» riprende insomma la benedizione dell’angelo data ad Abramo: «Perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione». Il Magnificat esprime in Maria un giubilo simile alla gioia di Abramo quando riceve una seconda volta Isacco dalla mano di Dio: «D’ora in poi tutte le ge­nerazioni mi diranno beata».

La nuova maternità ricevuta ai piedi della Croce di Gesù

Il racconto dell’Annunciazione ci introduce nel tessuto profondo del Vangelo dove tutto ruota attorno alla fede in Gesù e ci invita a riconoscere il Figlio di Dio nel figlio di Maria. Già si profila davanti a noi il culmine del Vangelo, il racconto della Passione, totalmente teso a formare in noi una fede simile a quella di Maria c degli apostoli, a farci scoprire in Gesù umi­liato, sofferente e morente nella sua carne il Figlio unigenito, il Re d’Israele. L’Annunciazione contiene in germe il mistero della Croce, la prova della sofferenza e della separazione che conduce alla gloria della Risurrezione.

È proprio ai piedi della Croce che Maria riceverà da suo figlio il dono di una nuova ma­ternità nei confronti di tutti i discepoli, rappresentati dall’apostolo Giovanni, e della Chiesa che sarebbe nata dal fianco aperto di Cristo.

Padre Braun, nel suo libro La Mère des fidèles (Paris 1954, pp. 113ss.), ha mostrato con

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estrema chiarezza, sulla base dei Padri, il legame che esisteva nel vangelo di Giovanni tra il rac­conto delle nozze di Cana, il primo segno in cui Cristo «manifestò la sua gloria», e la parola da lui rivolta sulla croce a Maria e al discepolo che egli amava: «Ecco tuo figlio... ecco tua madre».

A Cana Gesù dapprima elude la domanda di Maria e mette la sua maternità alla prova della separazione: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora» (2,4). Secondo l’interpretazione di sant’Agostino, l’ora di Gesù sarà quella della sua Passione dove soffrirà nella sua carne e riconoscerà il suo debito filiale verso Maria che gliel’ha data; ma sarà nel dolore del pano spirituale. E infatti nella partecipazione alla Passione del suo figlio, nel momento della separazione suprema dove le è chiesto di rinnovare il suo fiat, che Maria rice­verà il dono di una maternità che si può chiamare risuscitata, poiché si compirà dopo la Ri­surrezione di Gesù, con l’effusione dello Spirito. La parola di Gesù a Maria e a Giovanni li invita già a credere nella Risurrezione, proprio nel momento in cui tutto sembra finire, quan­do la separazione si consuma secondo la profezia delle Scritture.

Padre Braun nota anche che, da Cana alla Croce, Maria è stata sottomessa a quella che il Cardinal Journet chiama «la volontà separante di Dio che disgiunge la Madre dal Figlio, co­me disgiungerà il Figlio dal Padre». Ella subisce la prova delle separazioni dolorose nel suo affetto materno, come testimonia la domanda angosciata a suo figlio ritrovato nel tempio: «Figlio, perché ci hai fatto così?» (Le 2,48). Più tardi gli sentirà dire, quando lo cercava in mezzo alla folla: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?» (Mt 12,48). Ma anziché stac­carla da Gesù, la prova compie in lei «l’identificazione dei voleri mediante la carità trasfor­mante». Maria è così condotta dall’Annunciazione alla Croce, dove appaiono le due facce contrastanti del mistero della fede e dell’amore. «Maria non era mai stata separata da Gesù più di quanto lo fu sul Calvario, poiché Gesù in quel momento le era corporalmente strap­pato; e tuttavia non le fu mai tanto unita quanto nella partecipazione al suo sacrifìcio». Da­vanti alla Croce di Gesù la maternità di Maria, pur restando carnale, è divenuta spirituale, come—per così dire—preassociata al corpo risuscitato di suo figlio e al Corpo della Chiesa che nascerà dalla Pentecoste.

L’unione della maternità e della verginità in Maria

Nonostante la loro relativa discrezione riguardo alla madre di Gesù, gli evangelisti ci han­no fornito una materia sufficiente per nutrire la meditazione della Chiesa e dare a Maria un posto di primo piano, subito dopo suo figlio, nella spiritualità cattolica. La devozione a Maria è un segno di autenticità spirituale, poiché dopo l’Annunciazione lo Spirito Santo continua ad agire per il suo tramite. Senza dubbio occorre badare alla natura di una tale devozione per evitare che essa non inclini al sentimentalismo; dobbiamo restituirle il suo pieno tenore evan­gelico e mantenere accuratamente requilibrio della sua subordinazione alla fede in Cristo. Tuttavia il calo, e talora la scomparsa della devozione a Maria, è sempre indice di una grave crisi della vita spirituale e della fede stessa.

Uno dei segni più rivelatori dell’azione dello Spirito Santo sta nell’unione in Maria della maternità e della verginità che ci porta a chiamarla «la Vergine Maria». È più che un fatto mi-

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Santa Maria, madre di Dio

racoloso e un privilegio unico: è l’avvenimento di una grazia plenaria destinata a tutta la Chiesa; essa manifesta la natura dell’amore che ha agito in Maria e che continua la sua opera nei credenti.

La maternità e la verginità procedono entrambe dall’amore di Dio che si è rivelato in Gesù. La maternità mostra la potenza e la fecondità di questo amore; la verginità ne esprime la purez­za, la santità, e dimostra che esso ha un’altra origine rispetto all’amore carnale e la sua sorgente è a un’altezza—o a una profondità—accessibile alla sola fede attraverso la prova del distacco e del superamento. La verginità è un segno probante della trascendenza dell 'agape di\ina.

In Maria la maternità e la verginità non si oppongono più come il positivo e il negativo, la produzione e la privazione, ma diventano le condizioni di un unico amore: la verginità assicura la qualità spirituale e la maturazione dell 'agape, e quest'ultima con la sua fecondità moltiplica «coloro che sono nati da Dio», ri-nati a immagine di Cristo. Perciò si può considerare la vergi­nità di Maria come una fonte privilegiata della vocazione alla castità consacrata nella Chiesa. Maria non offre in questo caso soltanto un esempio: essa procura una grazia che fa vivere.

L’unione della maternità e della verginità in Maria mostra, a chi vuole ben intenderlo, che l’ideale cristiano della verginità non deriva al suo fondo, quali che siano le influenze subite nel corso della storia, da un dualismo che opporrebbe l’anima al corpo e condurrebbe al di­sprezzo di quest’ultimo, né da un timore sospetto della sessualità. Anzi, è proprio nel dono della sua carne e del suo sangue che Maria diviene l’ancella dell'agape divina che la incita alla verginità. Allo stesso modo coloro che sono chiamati dallo Spirito a una vita nella verginità la realizzano con l’offerta continua del loro corpo al servizio di questo amore che li ha sedotti, nella lotta contro la carne macchiata dal peccato in vista della carne purificata, che impegna tutti i sensi.

Esiste una filiazione diretta tra l’azione dello Spirito Santo e la verginità per Cristo. Essa si rivela per la prima volta e in un modo unico in Maria. Essa appare anche nella chiamata al­la castità consacrata, segno e strumento della purezza essenziale dell’amore di Cristo. Solo la grazia può compiere in noi quest’opera di scelta e farle produrre i suoi frutti di santificazione. Essa porta la firma dello Spirito Santo.

Notiamo infine che la verginità e il matrimonio non si oppongono più nell’opera dello Spirito, perché procedono da uno stesso amore che li riunisce e li coordina. Mediante la gra­zia dello Spirito, il matrimonio assume una dimensione nuova significata dalla partecipazione all'amore di Cristo e della Chiesa, che gli conferisce una fecondità spirituale (Ef 5,29-31). Questo è precisamente l’amore di Cristo Sposo che nutre anche la vita nella verginità. Una ta­le vocazione testimonia davanti a quanti sono sposati la superiorità dell’amore spirituale che penetra anche in loro per approfondire e purificare il loro affetto. A sua volta, il matrimonio cristiano implica un messaggio per quelli che vi hanno rinunciato: il richiamo che la vita data a Cristo esige il dono della persona intera, corpo c anima, e deve essere spiritualmente fecon­da nella Chiesa grazie a una generosità senza calcolo. Tra questi due modi di vita, matrimonio e verginità, regnano gli stessi profondi legami che esistono tra i carismi, di cui parla san Pao­lo: guidati dalla carità, sono sottomessi alla legge della dedizione che li dispone per il bene di tutti, come una misura di sovrabbondanza che dipende dall’essenza del vero amore.

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Capitolo diciottesimo SCHIZZO DI UNA STORIA DELLA

SPIRITUALITÀ CRISTIANA

Non possiamo esporre qui in tutta la sua ampiezza la storia della spiritualità cristiana. Lo hanno già fatto alcune pregevoli opere e ad esse rimanderemo il lettore. Il nostro intento è piuttosto di descrivere i principali tipi di spiritualità che permettono di raggruppare gli autori e le opere da un’epoca all’altra.

La storia della Chiesa può infatti dividersi in cinque periodi secondo le forme predomi­nanti della spiritualità. Distingueremo l’età dei Padri della Chiesa che arriva fino alla fine dell’impero romano; il periodo monastico la cui origine risale al ni secolo e che durerà fino al xn; segue un’epoca in cui l’impulso spirituale è dato soprattutto dagli Ordini mendicanti, dal xm al xvi secolo; viene poi il periodo post-tridentino in cui predomina l’influsso della Com­pagnia di Gesù; il concilio Vaticano il apre infine una nuova era nella quale anche noi oggi siamo impegnati.

Questo schema abbastanza semplice ci potrebbe tuttavia indurre in errore se non tenessi­mo conto di una prerogativa della storia spirituale che la differenzia dalla cronaca degli even­ti. Potremmo infatti pensare che i periodi sopra indicati si succedano l’un l’altro respingendo i precedenti nel passato, dove conserverebbero soltanto un interesse storico. A questa stregua il Vangelo stesso non sarebbe altro che un imponente vestigio di un’epoca lontana.

In realtà le diverse età della spiritualità cristiana si inscrivono in uno spazio di tempo che ha la capacità di mantenere in vita le esperienze acquisite dei periodi precedenti, come cia­scuno di noi conserva vivamente il meglio di ciò che si è formato nella propria intimità perso­nale, fin dalla prima infanzia. Questa è la proprietà dello spirito: mantenere in noi, sotto l’ap­parenza dei ricordi del passato, la fonte originaria della vita. Similmente la storia della spiri­tualità ha come scopo, al di là dell’informazione sulle opere giunte fino a noi, di metterci in contatto con le fonti spirituali che sussistono e continuano ad agire nella vita della Chiesa per impulso dello Spirito Santo.

Nulla ci impedisce dunque di cercare oggi il nostro nutrimento presso i Padri della Chie­sa, nei sermoni di san Bernardo, nella spiritualità di san Francesco o di sant’Ignazio. Non per

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questo però diventiamo uomini del passato, se ci accostiamo alle opere di questi autori con la fede che ci lega ad essi e con la carità che vivifica.

Notiamo anche che questi diversi periodi dipendono dal Vangelo come dalla loro fonte primaria e costante. È infatti lo Spirito Santo che crea, nel profondo del tempo della Chiesa, la durata della vita spirituale attualizzandovi la parola di Cristo. Esso ne determina le stagio­ni c suscita le varie correnti secondo ogni epoca e ogni personalità, come mostrano tutti i rin­novamenti che si sono prodotti mediante un ritorno diretto al Vangelo. Perciò non dobbia­mo immaginare la storia della spiritualità sotto forma di un semplice grafico, con curve ascendenti e discendenti. L'insieme è dominato dal rapporto con la Parola di Dio come a una fonte superiore e ovunque presente. Le diverse spiritualità ne derivano come dei canali, o meglio come delle sorgenti secondarie. Grazie al loro legame con il Vangelo e con lo Spirito che le ha prodotte, esse conservano la loro vitalità nel corso dei secoli, con la capacità di rin­novarsi e di nutrire coloro che si accostano ad esse. Così l'ideale del martirio, che ha prevalso durante i primi tre secoli, e la spiritualità monastica che gli è succeduta non hanno per nulla perduto la loro attualità, al di là della varietà delle circostanze e degli adattamenti necessari nei modi di vita.

È opportuno infine applicare alle scuole di spiritualità la dottrina di san Paolo sulla Chie­sa, che forma il Corpo di Cristo dalle molteplici membra, e sui carismi. Ogni spiritualità ha la sua funzione nella vita della Chiesa e deve rendere la sua testimonianza in vista del bene di tutto l’insieme, secondo il genere di vita particolare in cui essa si realizza concretamente. Sen­za dubbio, per esempio, ogni cristiano non può diventare monaco; ciascuno però può ricava­re dalla considerazione di questo tipo di vita religiosa la testimonianza che Dio è l'Unico, che «Dio solo basta», che l’amore di Cristo è tanto forte da colmare una vita di uomo o di donna. Nulla ci impedisce dunque di alimentare la nostra propria vocazione con gli apporti delle di­verse scuole spirituali che ci sembrano proficui. Perciò conviene insistere, all’interno della spiritualità, più sulla comunione e sulla convergenza che sulle differenze che troppo spesso creano delle opposizioni. I.

I. L’epoca dei Padri della Chiesa

L’età dei Padri della Chiesa ha un primo tratto caratteristico: è dominata dalla figura del vescovo, come pastore della Chiesa secondo la successione apostolica, come presidente della liturgia e predicatore della Parola di Dio, come «modello del gregge» che gli è affidato (lP t 5,1-15). Si potrebbe così parlare di una spiritualità episcopale che caratterizza in generale tut­to questo periodo. Essa si esprime mediante l’insegnamento del vescovo, in particolare nell’ambito della liturgia, sotto la forma dell’omelia che spiega la Scrittura in modo continuo o in relazione alle feste celebrate. Si possono citare come modelli san Giovanni Crisostomo, sant'Agostino e san Leone Magno.

11 tempo dei Padri della Chiesa si divide in due periodi: l’epoca delle persecuzioni fino all'editto pacificatore di Costantino, seguita dal periodo di espansione e di fioritura della Chiesa.

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1.1 La spiritualità del martirio

I tre primi secoli cristiani possono essere contraddistinti dal predominio della spiritualità del martirio. Questo ideale trova la sua fonte nel Nuovo Testamento che gli fornisce i testi di cui si alimenta: l’ultima beatitudine che costituisce il coronamento della serie in san Matteo, il discorso apostolico che predice la persecuzione ai missionari del Regno (Mt 10), le esortazio­ni ai cristiani perseguitati nelle lettere apostoliche, in particolare nella prima di Pietro: «Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito di Dio riposa su di voi» (4,14), e l’esempio di Paolo (Rm 835-39; ICor 4,12-13; 2Cor 4,9ss.; 2Tm 3,11-12). Il primo modello è descritto dagli Atti degli Apostoli nel racconto della morte del diacono Stefano (6-7).

In questa luce il martirio, conformemente al senso originario del termine in greco, appare come una testimonianza di Cristo davanti agli uomini, specialmente al momento di comparire davanti ai tribunali, sotto la tortura e fino alla condanna a morte. In questa forma, il martirio è la riproduzione e l’imitazione della Passione del Signore raccontata dai Vangeli, la ripresa della «bella testimonianza» che Gesù ha dato «davanti a Ponzio Pilato» (lTm 6,13): la testi­monianza sulla sua persona divina, che egli è il Cristo, il Figlio di Dio, il Re d’Israele, portato davanti a Caifa, al sinedrio, al popolo dei Giudei, e davanti al governatore romano, che rap­presenta il popolo delle nazioni. Questo fu il motivo della condanna di Gesù e questo è da quel momento l’oggetto della confessione di fede dei cristiani e anche la causa dell’offerta della salvezza a tutti gli uomini.

Così inteso, il martirio mantiene una stretta relazione con l’Eucaristia. Questo sacramen­to, istituito in vista della Passione, è il nutrimento appropriato per sostenere i testimoni di Cristo. Mettendoli in comunione con il corpo e con il sangue del Signore, Io rende loro così intimamente presente che è lui da quel momento che soffre con essi e in essi. Il martirio pro­lunga l’Eucaristia e diventa una liturgia sacrificale; esso compie nel modo più concreto il mi­stero della Passione e il culto spirituale che consiste ncll’«offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1).

II martirio cementa in modo speciale la comunione dei cristiani con la forza delVagape di Cristo. Esso riunisce, al di là di ogni distinzione, vescovi, come Clemente Romano e Cipriano, diaconi, come Stefano e Lorenzo, e semplici cristiani, uomini e donne, come la giovane Blan- dina che diede la testimonianza più coraggiosa tra i martiri di Lione.

Il martirio fu la prima forma della santità che la Chiesa associò alla celebrazione liturgica, come ancora testimonia la lista dei martiri posta subito dopo gli Apostoli nel canone romano.

La spiritualità del manirio ha conservato la sua attualità in tutti i periodi della storia della Chiesa, a causa del rinnovarsi delle persecuzioni o, assumendo altre forme, per rappresentare l’ideale di un amore per Cristo fino al dono della vita.

La letteratura del martirio è stata tanto feconda da creare un genere di romanzo, delle «leggende» in cui prevale una fervente immaginazione. Conviene raccomandare i racconti con maggiore fondamento storico: gli A tti che riproducono i verbali ufficiali dei processi, co­me gli Atti di Giustino e dei suoi compagni, a Roma, nel 163; gli Atti proconsolari di Cipria­no, a Cartagine, nel 238. Lo stesso vale per le Passioni, che sono dei racconti redatti da testi­

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moni oculari e da contemporanei ben informati, come il martirio di Policarpo di Smime, nel 156 (cfr. SCh 10); la Lettera delle Chiese di Vienne e di Lione (177 o 178), riportata da Euse­bio di Cesarea (SCh 41); la Passione di Perpetua e Felicita, a Cartagine, nel 203.

Tra gli scritti dedicati al martirio il primo posto spetta alle Lettere di sant’Igna2Ìo di An­tiochia (SCh 10). Citiamo anche YAd martyras di Tertulliano e le Esortazioni al martirio di Origene e di Cipriano, infine i Sermoni di Agostino per le feste dei martiri.

1.2 La sapienza contemplativa

Il secondo periodo dell’età dei Padri, dopo le persecuzioni, assiste al passaggio dall’ideale del martirio alla ricerca della sapienza contemplativa, come scopo e vertice della vita spiritua­le. Anche questa corrente trova la sua fonte nel Nuovo Testamento, in particolare nell’inse­gnamento di san Paolo ai Corinzi sulla sapienza secondo lo Spirito, che deriva dalla fede in Cristo e dall 'agape e che si oppone alla sapienza umana, viziata dall’orgoglio dei sapienti.

La contemplazione dei Padri si nutre della Scrittura: privilegia il senso spirituale che la ordina al mistero di Cristo e del quale Origene fu il grande promotore. Di fronte alla sapienza filosofica, il pensiero dei Padri si svolge in due tappe. Innanzitutto viene l’affermazione che la sapienza secondo lo Spirito supera le conquiste dell’intelligenza umana e ha come centro il mistero di Dio rivelato in Cristo; non vi si può accedere se non mediante la fede e l’amore. I Padri si oppongono così alla pretesa della sapienza filosofica di spiegare la Rivelazione e di misurarla con le idee e le categorie da essa elaborate. È il caso della «gnosi» che i Padri com­batteranno nei loro scritti, sulla scia di san Giovanni, come fece per esempio sant'lreneo (ca. 130-202) nel suo capolavoro Adversus haereses. Questo sarà anche il tema dei grandi concili nella loro difesa del mistero della Trinità e della persona di Cristo, così come le Confessioni di fede che non sono unicamente di ordine dogmatico, ma possiedono anche una dimensione mistica, in quanto verità determinanti per la contemplazione e la vita cristiana. E ciò che si può chiamare con san Paolo la epignosis, la «sovraconoscenza» del mistero di Dio in Cristo: «Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo... vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza (epignosin)...» (Ef 1,17; Col 2,2).

Poi, dopo aver solidamente stabilito la superiorità della conoscenza nata dalla fede, i Pa­dri non esitano ad assumere e a mettere al servizio della sapienza spirituale tutto ciò che tro­vano di buono, di vero, di conveniente nelle filosofìe del loro tempo, presso i platonici, gli stoici, i peripatetici. Così si realizzerà una sintesi sapienziale, originale e multiforme secondo le sue ispirazioni, che formerà la teologia cristiana1. Citiamo come esempi i Padri Cappadoci, san Basilio, san Gregorio di Nazianzo e san Gregorio di Nissa, il più mistico tra loro. Sul ver­sante latino sant*Agostino merita una menzione speciale: il suo De Trinitate costituisce uno dei vertici della contemplazione cristiana: tuttavia la sua interpretazione delle beatitudini è già significativa: l’itinerario che esse descrivono porta al dono della sapienza associato alla beatitudine degli operatori di pace, e non più alla beatitudine dei perseguitati che è più prò-

1 Cfr. L. Cerfaux, Urte Église charismatique: C orin tie, Paris 1946, pp. 35-49.

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priamente legata alla spiritualità del martirio, come nell’interpretazione di sant’Ambrogio, che sembra più conforme al testo evangelico.

Sant’Agostino è anche l’iniziatore della spiritualità canonicale che si è particolarmente svi­luppata nel Medioevo attorno alle cattedrali, fino a costituire in seguito degli Ordini distinti, come i Canonici del San Bernardo e i Premostratensi. Il vescovo di Ippona offre il modello riu­nendo i suoi preti intorno a sé per condurre la vita comune, a imitazione della prima comu­nità di Gerusalemme, al servizio della Chiesa locale. Con la sua Regola, scritta originariamen­te per delle monache, procurò al movimento canonicale i suoi principi ispiratori.

Va infine sottolineato che non si trovano assolutamente nei Padri quelle separazioni che più tardi diventeranno abituali tra teologia e mistica, tra dogma, morale e spiritualità. La sa­pienza che essi insegnano è nello stesso tempo teologica e spirituale, contemplativa e riflessi­va; essa unisce il desiderio di conoscere all’agape, l’esperienza mistica allo sforzo ascetico. Con loro ci troviamo di fronte a una sintesi vivente, che è un modello per ogni rinnovamento spirituale cristiano.

Schizzo di una storia della spiritualità cristiana

1.3 San Leone Magno, una spiritualità liturgica

San Leone Magno (ca. 390-461) merita una citazione speciale. Lo si può considerare co­me un tipico rappresentante dell’età dei Padri. Egli espone la sua dottrina spirituale nella sua qualità di vescovo di Roma, successore di Pietro, che ha il compito per la sua funzione e, si può dire, per vocazione, di predicare il Vangelo al popolo all’interno della liturgia. Egli dun­que insegnerà per mezzo delle omelie, ma la sua particolarità consisterà nel prendere sistema­ticamente come tema i misteri di Cristo celebrati e attualizzati nel ciclo liturgico: la Natività e l’Epifania, la Passione e la Risurrezione con la preparazione della Quaresima, l’Ascensione e la Pentecoste. Il legame della sua predicazione con la liturgia si può definire sostanziale. Sarà infatti proprio san Leone a formulare, alla scuola di san Paolo e dei Vangeli, la teologia che ispira e sostiene la liturgia latina; egli le darà il suo stile caratteristico, riconoscibile per la sua densità, soprattutto nelle orazioni. Alla base del suo insegnamento porrà il mistero dell’Incar­nazione che realizza nella persona di Gesù l’unione dell’umanità e della divinità, così come l’ha proclamata il concilio di Calcedonia di cui egli stesso ha fornito la formula nel suo Tomus ad Flavianum. La comunicazione tra la natura umana e divina in Gesù spiega la potenza re­dentrice della sua Passione e il sorgere della gloria nelle sue sofferenze e nella sua umiliazio­ne; essa si manifesta mediante il dono della grazia a tutte le membra del Corpo, di cui Cristo è il capo, nell’«oggi» della celebrazione dei suoi misteri. «La festa di oggi rinnova per noi la santa venuta di Gesù, nato dalla Vergine Maria, e adorando la natività del nostro Salvatore fe­steggiamo le nostre proprie origini» (vi Sertnone per Natale).

Da questa unione liturgica con Cristo deriva la spiritualità che deve ispirare la condotta dei cristiani in conformità con quella di Cristo, secondo quella formula che collega intima­mente la fede all’agire: nella partecipazione ai suoi «misteri», Cristo ci procura «il sacramento e l’esempio», il dono della sua grazia che ci porta all’imitazione della sua condotta. San Leone riassumerà questa spiritualità nel dono della pace che è proprio dei figli di Dio, secondo la

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settima beatitudine, e che contiene tutte le virtù, poiché la pace realizza l’unione d’amore alla volontà di Dio, come l’amicizia umana già esige l’identità dei sentimenti e delle volontà (vi Sermone per Natale, 3),

2. Il periodo monastico

Il monacheSimo inizia nella Chiesa fin dal ili secolo ed è già fiorente all’epoca dei Padri, durante la quale sostituisce la spiritualità del martirio dopo la fine delle grandi persecuzioni. Tuttavia gli assegniamo un periodo speciale perché esso è divenuto, dopo la caduta dell’Im­pero romano e fino al xui secolo, la principale fonte di irradiamento spirituale, missionario e culturale in Occidente. Nella società feudale i monasteri sono divenuti le roccaforti della vita evangelica e hanno avuto un ruolo di promotori in tutti i campi. L’Ordine di san Benedetto, in particolare, nella sua forma cluniacense e poi cisterciense, ha conosciuto nel xii secolo una straordinaria diffusione e ha esercitato un influsso preponderante nella Chiesa, e anche sul piano artistico con l’arte romanica.

Menzioniamo anche i legami del monacheSimo con l'ideale della verginità che trae la sua origine dall’insegnamento di Gesù (Mt 19,10-12) e di san Paolo (lC or 7); esso fu praticato e onorato nella Chiesa dei primi secoli. Nel v secolo la spiritualità della verginità fu presenta­ta, attorno al tema di Cristo Sposo legato al Cantico dei Cantici, da numerosi autori, quali Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo e Ambrogio. Nel prendere come modelli Gesù stesso e la Vergine Maria, questa forma di vita, interamente consacrata a Dio, ha portato nel­la Chiesa la testimonianza della forza e della purezza dell’amore spirituale e manifestato il suo benefico influsso. Questo ideale è l’ispiratore della disciplina del celibato per i sacerdoti nella Chiesa cattolica.

Il monacheSimo riprenderà l’ideale della castità consacrata e ne assicurerà l’espansione istituzionalizzandolo in un ambito di vita comunitaria.

L’opera più rappresentativa e più influente della spiritualità monastica è senza dubbio la Vita di sant’Antonio, scritta da sant’Atanasio e diffusasi rapidamente in tutto llm pero roma­no. Dopo aver sentito proclamare la chiamata evangelica rivolta da Gesù al giovane ricco, Antonio distribuisce i suoi beni ai poveri e si impegna generosamente in un cammino spiri­tuale che gli farà percorrere tre grandi tappe esemplari. Egli si mette dapprima alla scuola de­gli asceti dei dintorni, sforzandosi di imitare le loro virtù. Poi, alla maniera del profeta Elia nel suo cammino verso l’Oreb, si immerge nella solitudine del deserto, per andare incontro a Dio. Nel suo ritiro in un vecchio fortino abbandonato, dove resterà per vent’anni, combatte vigorosamente contro il demonio che cerca con i suoi sotterfugi di fermarlo nel suo cammino spirituale. Guidato dalla meditazione continua della Scrittura che rimane incisa nella sua me­moria, Antonio si appoggia solo sulla fede in Cristo, che gli rivela la debolezza dei demoni e gli fa vincere tutte le tentazioni. L’amore di Cristo che abita nel suo cuore gli insegna le virtù evangeliche e anche quelle che ricercavano invano i filosofi: la serenità, la moderazione, il controllo delle passioni, la benevolenza verso tutti, la conformità alla ragione e alla natura

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profonda, arricchita dall’azione dello Spirito. Tale appare Antonio ai suoi discepoli, quando lo costrìngono a uscire dal suo ritiro.

Da quel momento comincia la tappa della fecondità: Antonio forma numerosi discepoli che popoleranno il deserto attorno a lui e diventa il «medico» dell’Egitto, che riceve, consi­glia e guarisce tutti quelli che si rivolgono a lui. La sua vita dunque si dividerà tra due poli, e sarà la terza tappa: tra Dio che lo attira verso il «deserto interiore» dove egli si ritira total­mente in disparte, e il prossimo, quando ritorna verso il «deserto esteriore» dove ritrova i suoi discepoli e si tiene a disposizione di tutti.

La vita di Antonio è il modello della vita monastica nella sua forma eremitica. Essa si im­pernia sulla chiamata a cercare Dio come TUnico nel deserto interiore dove risuona la sua Pa­rola, a seguire Cristo nella fede con un amore senza riserve, spogliandosi di tutto. Così zam­pilla nella solitudine intima la fonte dello Spirito alimentata dal Vangelo; essa procura a que­sta vocazione una fecondità che si estenderà alla Chiesa intera.

Malgrado le apparenze, il monacheSimo non costituisce un mondo separato. Imitando la permanenza del popolo ebraico nel deserto dove lo attende il Dio del Sinai, esso testimonia davanti alla Chiesa e anche davanti a ogni uomo che ciascuno è invitato, secondo il proprio stato e la propria vocazione, a entrare nella solitudine del rapporto spirituale con Dio, guida­to dalla fede in Cristo, il quale ci ha aperto personalmente questo cammino, quando fu spinto dallo Spirito nel deserto della tentazione e nell’abbandono della sua Passione, perché fosse feconda per noi la gloria della sua Risurrezione. Il monacheSimo dà una risposta alla solitudi­ne dell’uomo davanti a Dio, davanti alla vita, davanti alla morte. Esso è il testimone dell’asso­luto dell’Amore divino. Qui sta il segreto del suo influsso.

Dopo Antonio, con san Pacomio, san Basilio e san Benedetto, il monacheSimo assumerà una forma cenobitica. Così si accorderà, come osserva san Basilio, con la natura socievole dell’uomo, con i bisogni dell’educazione alla carità e del suo esercizio. In tal modo potrà me­glio integrarsi nella vita della Chiesa e compiervi il suo servizio di fermento spirituale. Esso realizzerà, in una forma tutta particolare e con una grande varietà, l’ideale di comunità dedite alla pratica del Vangelo. Le Conlationes di Giovanni Cassiano (ca. 360-465) saranno un classi­co della letteratura monastica.

Diversi elementi compongono questo genere di vita. Il monastero è una scuola di vita evangelica posta sotto la direzione di un abate, considerato come un Padre spirituale che esercita la sua autorità secondo una Regola, in particolare la Regola di san Benedetto, la più seguita in Occidente. Dato che lega i monaci al loro monastero per mezzo dei voti, il monacheSimo ha costituito la prima forma della vita religiosa. L’attività principale del mo­nastero sarà la preghiera nella forma della liturgia e dell’ufficio divino, chiamati Yopus Dei, l’opera di Dio, che completa la lettura della Scrittura, la lectio divina. Questo impe­gno sarà equilibrato dal lavoro manuale, che ha fatto dei monaci i pionieri dell’Occidente, e dal lavoro intellettuale che ha garantito la salvaguardia della cultura, sia cristiana che pagana. Inseriti nella società feudale, i monasteri hanno goduto di una larga autonomia; tuttavia, grazie alla pratica dell’ospitalità, essi hanno assicurato efficacemente l’aiuto e la protezione alle popolazioni secondo le necessità del tempo. Inoltre hanno risposto ai bi-

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sogni della Chiesa fornendo papi e vescovi, e anche facendosi carico della pastorale sulle loro terre.

Al di là dei cambiamenti avvenuti nelle epoche successive, il monacheSimo costituisce una forma permanente e ben precisa della vita religiosa, come una scuola di vita comunitaria, de­dicata specialmente alla celebrazione della liturgia e alla meditazione della Parola di Dio e che si avvale di una propria tradizione. Questa è l’origine delle ricchezze spirituali accumula­te dal monacheSimo: citiamo gli scritti di san Bernardo (1090-1153), le opere teologiche e mi­stiche di Ugo (1096-1141) e di Riccardo di San Vittore (f 1173) e, all’interno dell’esperienza monastica femminile, gli scritti di santa Ildegarda di Bingen (1098-1178) e di santa Gertrude di Helfta (1256-1302).

3. Il periodo degli Ordini mendicanti

Il xiii secolo ha portato profondi mutamenti nella Chiesa e nella vita religiosa, in osmosi con l’evoluzione della società: la formazione dei comuni mercantili e della borghesia, l’esten­sione e la moltiplicazione delle relazioni commerciali e culturali, la creazione delle università, dove si elabora la teologia scolastica, e dell’arte gotica. All’interno della Chiesa si sviluppa un movimento spirituale così potente che si è potuto parlare di un’era dello Spirito Santo; esso ha dato origine ad Ordini religiosi di nuovo tipo, in particolare ai Francescani e ai Domenica­ni, che furono i promotori più attivi del rinnovamento e contribuirono alla riorganizzazione della Chiesa sotto l’egida del papato. Le figure di Francesco e di Domenico sono le più rap­presentative di questo periodo.

3.1 Francesco e Domenico

Ecco le principali caratteristiche di questo vasto movimento religioso, di ispirazione più canonicale che monastica. Alla ricchezza della borghesia in fase di sviluppo, san Francesco (ca. 1182-1226) oppone l’amore mistico per «Donna Povertà». Egli riunisce intorno a sé pic­cole comunità fraterne e riproduce nella sua vita il mistero della Passione del Signore fino a ricevere le stimmate. Francesco dimostra una sensibilità nuova verso la natura, da lui cantata ed esaltata nel Cantico delle creature, e verso l’umanità di Cristo, verso la sua infanzia, che egli onora con l’invenzione del presepio. La sua devozione si rivolgerà anche aU’Eucaristia e ai sa­cerdoti che ne sono i ministri. Il fervore dell’amore di Cristo e lo spirito profetico, si potreb­be dire carismatico, che animano Francesco contraddistingueranno il suo Ordine. I racconti della sua vita e i Fioretti diffonderanno ovunque il fascino e comunicheranno l’ardore della spiritualità francescana. Malgrado i dissensi sull’ideale di povertà e sull’interpretazione della Regola, l’Ordine del Poverello conoscerà una rapida espansione ed eserciterà un influsso che ancora permane. Esso parteciperà attivamente al movimento universitario e alla creazione della teologia scolastica dove costituirà una delle principali scuole, riconoscibile dall’accento posto sull’amore, sulla volontà e sulla libertà, sulla singolarità individuale. San Bonaventura

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(1221-1274) vi si distinguerà per le sue opere mistiche, in particolare il suo Itinerarium mentis ad Deum, ed eserciterà un influsso vasto e duraturo.

L’opera di san Domenico (ca. 1170-1221) ha come scopo principale quello di collaborare alla salvezza di tutti con la predicazione del Vangelo e, come carisma proprio, l’amore della verità nell’intelligenza della fede. Prendendo come esempio il modo di vita degli Apostoli, Domenico organizza il suo Ordine come una comunità di fratelli che vivono nella povertà, e che è animata da uno zelo apostolico nutrito dallo studio della Scrittura e dalla preghiera, comune e personale, della quale Domenico stesso dà l’esempio pregando lungamente du­rante la notte o in cammino, secondo le circostanze. La vita conventuale riceve un nuovo equilibrio: lo studio organizzato sostituisce il lavoro manuale dei monaci, l’ufficio corale è alleggerito, le osservanze rese più elastiche dalla possibilità della dispensa. I conventi si in­sediano nelle città, e di preferenza in centri universitari. La mobilità dei fratelli è garantita per le esigenze della predicazione o dello studio. Approfittando del rinnovamento del dirit­to nella Chiesa, l’Ordine si dà una struttura generale per mezzo di Costituzioni caratterizza­te dalla partecipazione di tutti i fratelli alla legislazione, alla nomina dei superiori e alla ge­stione, a tutti i livelli, sotto forma di Capitoli e di Consigli. Queste Costituzioni serviranno da modello agli Ordini religiosi non monastici e ispireranno il diritto della Chiesa fino al concilio di Trento.

L’Ordine di san Domenico si è particolarmente distinto per la sua partecipazione, con sant’Alberto Magno e san Tommaso d’Aquino, alla fioritura della teologia scolastica, ancora ca­rica di una linfa spirituale vigorosa grazie alla familiarità con la Scrittura e all’uso metodico dei Padri della Chiesa. Le opere mistiche di Dionigi l’Areopagita vi svolgeranno un ruolo prepon­derante, accanto a san Gregorio Magno, nella presentazione della vita contemplativa. La scuo­la domenicana si distingue per l’accento posto sull’intelligenza, nella sua funzione razionale e contemplativa, per la ricerca di una sapienza che deriva dalla fede e che anima la carità, per la sollecitudine nel far comprendere il Vangelo a tutti gli uomini secondo la loro capacità.

3.2 Monache e terziari«

Gli Ordini mendicanti avranno anche una ramificazione femminile, le Clarisse e le Dome- nicane. Pur conservando una vita claustrale, questi conventi assumeranno un ruolo importan­te grazie all’esperienza spirituale e mistica che si svilupperà in essi e al sostegno della preghie­ra contemplativa e apostolica che garantiranno ai predicatori del Vangelo. Lo testimonierà in particolare la mistica renana che avrà la sua fonte nei monasteri delle Domenicane dell’Alsa- zia e della Svizzera.

L’influsso dei mendicanti penetrerà nel popolo cristiano con l’istituzione dei Terz’Ordini che, in sintonia con lo spirito corporativo dell’epoca, manifesteranno una grande vitalità che si esprime, tra l’altro, nel Memoriale di sant’Angela da Foligno (1249-1309), nei Dialoghi e nelle Lettere di santa Caterina da Siena (1347-1380).

Notiamo infine un certo spostamento nell’ordine della preghiera in san Domenico, così co­me in san Francesco. La loro preghiera non è più concentrata sulla celebrazione dell’ufficio

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II

un’imitazione materiale dei suoi esempi quanto con un’assimilazione del suo spirito, in rela­zione con l’esperienza propria c con la pratica della vita spirituale. Seguendo la logica della carità più che quella della ragione sistematica, Xlmitazione propone e descrìve il cammino dell’interiorità, che distoglie l’uomo dalla vanità dei beni esteriori e dalle illusioni dell’amor proprio con il distacco e l’umiltà, per condurlo, attraverso le graduali e continue prove che lo fanno partecipare al mistero della Croce, all’unione d’amore con Cristo. Quest’ultimo si ma­nifesta al suo discepolo come l’Amico fedele con il sostegno della sua grazia nel dialogo inti­mo della preghiera, e più specialmente nel mistero dell’Eucaristia, che è il sacramento centra­le della fede, il luogo privilegiato in cui l’amore divino si dona. Si potrebbe riassumere tutta l’opera in questa parola attribuita a Cristo: «Figliolo, nella misura che sai uscire da te stesso, ti farai capace di entrare in me» (in, 56,1). Ora, solo un ricorso costante alla grazia può farci uscire da noi stessi e aprirci a questo amore in cui si compie l’imitazione di Gesù. Così si è potuto scrìvere dell’autore: «Questo grande praticante dell'ascesi cristiana diventa un grande esperto in amore divino».

La chiarezza dello stile, la semplicità della dottrina e la profondità dell’esperienza descrìt­ta hanno fatto dell’Imitazione uno dei libri più letti dopo i Vangeli. La via spirituale che esso propone si è rivelata accessibile sia ai laici sia ai religiosi e resta valida nelle sue linee essenzia­li per chi sa adattarla.

Questa grande opera ha tuttavia i suoi limiti, dovuti a un’esperienza che è circoscrìtta al suo autore e alla sua epoca. Le si è rimproverato di favorire una pietà individualistica, contra­ria all’azione nel mondo. D’altronde, se è vero che il distacco che essa raccomanda conduce all’esperienza dell’amore di Cristo, i suoi effetti potrebbero essere più positivi, più aperti e più vasti di quanto si pensi. L’Imitazione richiede di essere letta con uno spirito simile al suo, assetato del Vangelo. Solo così quest’opera può produrre i suoi frutti ed essere per noi util­mente completata.

Notiamo infine che, nel solco tracciato dalla Devotio moderna, più attenta alla vita asceti­ca, si elaboreranno dei metodi di meditazione, più o meno complessi, che formeranno una tecnica di preghiera per aiutare i fedeli a entrare nelle vie dell’orazione.

Schizzo di una storia della spiritualità cristiana

4. Il periodo moderno

Caratterizzato dall’umanesimo del Rinascimento, dalla crisi protestante e dall’opera del concilio di Trento, il periodo moderno ha conosciuto una fioritura di correnti spirituali. E il tempo in cui il termine «spiritualità» acquista il suo significato attuale, che implica un certo particolarismo causato dalla moltiplicazione delle scuole.

Si può dire che sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), con i suoi Esercizi spirituali, e la Com­pagnia di Gesù, con la sua organizzazione e con la sua azione apostolica, formino la corrente predominante e più caratteristica del periodo post-tridentino. In sintonia con lo spirito e i bi­sogni del tempo, la Compagnia elabora un nuovo tipo di vita religiosa che servirà da modello alle altre istituzioni e influenzerà la riorganizzazione e la legislazione della Chiesa. Léo Mou-

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A - M * A * T * E * C * ALA VITA SPIRITUALE DEL CRISTIANO

Questo nuovo libro di Servais Pinckaers su «La Vita secondo lo Spirito», si situa nella stessa traiettoria morale della felicità e delle virtù esposta in Le fon ti della morale cristiana. La vita spirituale non è riservata ad un’éli­te; essa riguarda tutti i cristiani. È l’opera dello Spirito Santo in noi. Essa si alimenta alle migliori fonti: il Vangelo, i Padri della Chiesa e i grandi spiritualisti. Ha come scopo la conformità a Cristo, come perno lo svilup-' po della carità e, come ambito, la vita della Chiesa oggi. In tempi come il nostro, in cui molti aspirano a un rinnovamento spirituale, questo libro offre una dottrina solida e profonda.

SERVAIS PINCKAERS

Servais (Théodore) Pinckaers, domenicano, è nato a Liegi nel 1925. Dopo aver ottenuto il dottorato in teologia aU’Angelicum di Roma (1954) ha inse­gnato Teologia morale in Belgio fino al 1965. Dal 1973 è professore di Morale fondamentale all'università di Friburgo (Svizzera). Tra le molte pubblicazioni si segnalano: Le Renouveau de la Morale, Tournai 1964 (trad. it. Il rinnovamento della morale, Torino 1968); Les Sources de la Morale chrétienne, Fribourg 1985 (trad. it. Le fonti della morale cristiana, Milano 1992); Ce qu’on ne peut jamais fairc. La question des actes intrin- sèquement mauvais, Fribourg 1986; L’E vangile et la morale, Fribourg 1990 (trad. it. La parola e la coscienza, Torino 1991); La morale catholique, Paris 1991 (trad. it. La morale cattolica, Milano 1993).

ISBN 8 8 - 16 - 4 0 4 0 0 - 0

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