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1 RAGGUAGLI MODERNI Momenti d’anteguerra L’epoca Due scrittori, ambiente inglese e tedesco: diversi tra loro; Arthur Conan Doyle; Thomas Mann. I due scritti in esame sono Il suo ultimo saluto; l’altro è l’inizio della Montagna incantata, Zauberberg. Entrambi sono stati scritti dopo il 1914; quello di Conan Doyle è del 1917, e l’altro è degli albori della Repubblica di Weimar. Il racconto di Conan Doyle parla di spionaggio. Doyle, che scrive nel 1917, quando la guerra divampa, afferma che essa è un vento mandato da Dio: passata la tempesta la terra sarà migliore. L’altro testo di Thomas Mann necessita un preambolo. Si deve ricordare la carriera di costui, ricordare che durante la guerra Mann era persuaso della giustezza della causa tedesca; ed ha replicato alla propaganda francese, tedesca, inglese ed americana, con un deciso anti-occidentalismo, con una polemica ideologica, che è racchiusa in uno scritto, Considerazioni di un impolitico. Ma anni dopo dalla fine della guerra nella quale ha parteggiato per la sua patria, e per il suo esercito, Mann sembra più distaccato e si rivolge contro l’Europa post-bellica. La storia si divide in un prima e un poi; e la cesura è il 1914; il romanzo narra la storia, in parte autobiografica, di un giovane, semplice ma non banale, che soggiorna per anni a Davos in un sanatorio. La comunità di Davos diventa folle, si inebetisce, e litiga per un nonnulla. Ernst Nolte, politologo tedesco, nonché studioso del fascismo e del comunismo, ha scritto un libro importante per il nostro argomento: La guerra civile europea. La guerra civile europea è un saggio interessante, la cui tesi fondamentale è la seguente: che la guerra civile europea sarebbe iniziata con la rivoluzione comunista, nell’ottobre e novembre 1917, primo attacco alla vecchia Europa alla quale i fascismi vollero replicare. Fernand Braudel, direttore della rivista storica “Annales”, scrittore di vari best-sellers, tra cui Il Mediterraneo al tempo di Filippo II, ma anche di un altro libro

Ragguagli moderni

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RAGGUAGLI MODERNI

Momenti d’anteguerra

L’epoca

Due scrittori, ambiente inglese e tedesco: diversi tra loro; Arthur Conan Doyle; Thomas Mann. I

due scritti in esame sono Il suo ultimo saluto; l’altro è l’inizio della Montagna incantata,

Zauberberg. Entrambi sono stati scritti dopo il 1914; quello di Conan Doyle è del 1917, e l’altro è

degli albori della Repubblica di Weimar. Il racconto di Conan Doyle parla di spionaggio. Doyle,

che scrive nel 1917, quando la guerra divampa, afferma che essa è un vento mandato da Dio:

passata la tempesta la terra sarà migliore. L’altro testo di Thomas Mann necessita un preambolo. Si

deve ricordare la carriera di costui, ricordare che durante la guerra Mann era persuaso della

giustezza della causa tedesca; ed ha replicato alla propaganda francese, tedesca, inglese ed

americana, con un deciso anti-occidentalismo, con una polemica ideologica, che è racchiusa in uno

scritto, Considerazioni di un impolitico. Ma anni dopo dalla fine della guerra nella quale ha

parteggiato per la sua patria, e per il suo esercito, Mann sembra più distaccato e si rivolge contro

l’Europa post-bellica. La storia si divide in un prima e un poi; e la cesura è il 1914; il romanzo narra

la storia, in parte autobiografica, di un giovane, semplice ma non banale, che soggiorna per anni a

Davos in un sanatorio. La comunità di Davos diventa folle, si inebetisce, e litiga per un nonnulla.

Ernst Nolte, politologo tedesco, nonché studioso del fascismo e del comunismo, ha scritto un libro

importante per il nostro argomento: La guerra civile europea. La guerra civile europea è un saggio

interessante, la cui tesi fondamentale è la seguente: che la guerra civile europea sarebbe iniziata con

la rivoluzione comunista, nell’ottobre e novembre 1917, primo attacco alla vecchia Europa alla

quale i fascismi vollero replicare. Fernand Braudel, direttore della rivista storica “Annales”,

scrittore di vari best-sellers, tra cui Il Mediterraneo al tempo di Filippo II, ma anche di un altro libro

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inerente al nostro argomento, Il mondo attuale. In questo libro, Braudel descrivendo il mondo

attuale, il mondo che Braudel vedeva quando lo stava scrivendo, ricerca una cesura ed afferma che

nel 1914 l’Europa stava per diventare socialista, oltre che stare sull’orlo della guerra; in pochi giorni

cadde nell’abisso. Pagina celebre, questa di Braudel, e anche interessante a livello sintomatico, cioè

che l’Europa, ossia l’Europa franco-tedesco-italica, era pervenuta ad una condizione di

ipersensibilità per la questione sociale, per i problemi delle masse senza che questi mutassero in

rivoluzioni, insomma sfociassero nel socialismo. E mentre l’ascesa dei partiti socialisti si stava

realizzando, si verificò l’alternativa peggiore: si precipitò nell’abisso; questo ricorda una novella di

Jorge Luis Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano, dove con la rappresentazione poetica

dei sentieri che si biforcano, Borges rammenta che ogni avvenimento ha perlomeno due se non tre

possibili futuri contingenti. Nel 1914 è avvenuto questo, secondo Braudel: l’Europa era in procinto

di diventare socialista, ma anche di entrare in guerra, e in pochi giorni precipitò nell’abisso. Un

ragguaglio ora dovrebbe far riflettere: nel 1912 si tennero le elezioni politiche in Germania, il

partito socialista tedesco, ottenne quattro milioni di voti e passò da 43 a 110 deputati, diventando

così il primo partito anche in Parlamento; e il Kronprinz, il principe tedesco, mise la pulce

nell’orecchio al padre sull’eventualità del colpo di stato.

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L’antefatto

Uno storico inglese, Herbert Albert Fisher, la cui Storia d’Europa fu tradotta in italiano negli anni

Trenta, ha scritto una pagina in cui descrive l’antefatto della guerra, ed ha rilevato che un imponente

sciopero degli operai di Pietroburgo l’8 luglio 1914, in cui si eressero barricate, si combatté per

strada, mostrava che, tra guerra e rivoluzione, quest’ultima sarebbe arrivata per prima. Il conflitto

franco-tedesco è una costante della storia europea. Si potrebbe affermare che lo è da quando

l’occupazione, la sottomissione della Germania da parte di Napoleone, ha creato dei regni satelliti

affidati a suoi parenti, che hanno gravitato intorno all’impero francese. Anche il secondo

Napoleone, cioè Napoleone III, il secondo imperatore, il creatore del secondo impero, dopo aver

portato avanti una politica di potenza di portata globale, andò contro la Germania, scontrandocisi in

una guerra nel 1870, e finita tragicamente a Sedan con la cattura dello stesso imperatore dei francesi

caduto prigioniero dei tedeschi. Subito dopo si formava la Comune di Parigi. Terminato tale

esperimento nel sangue, rimane il fatto che la guerra del 1870-71 comporta per la Francia un’onta

irredimibile: la perdita dell’Alsazia- Lorena, e di Strasburgo, che è annessa all’impero tedesco e

genera in Francia la voglia di rivincita e di vendetta, la revanche.

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Bismarck e Guglielmo II

Il filo conduttore della politica estera di Bismarck era l’evitare l’alleanza franco-russa, dato che la

Germania è fra l’impero russo e la Francia, e quindi ogni volta che i due stati si erano alleati tra

loro, per la Germania era sempre andata male. Bismarck, real-politico, l’uomo che prende atto della

realtà, non sogna; egli aveva anche una buona cultura storica oltre che classica, e ben ricordava,

come momento peggiore per la Prussia, l’accordo tra Napoleone e Alessandro di Russia, a Tilsit, nel

1807, in cui l’alleanza franco-russa aveva estromesso la Prussia, paralizzandola. La strada scelta da

Bismarck era una strada che riproponeva un antico scenario, il patto dei tre imperatori: l’imperatore

di Germania, l’imperatore di Russia e l’imperatore dell’Austria-Ungheria. Bismarck, finché è stato

in carica, è stato il motore della politica tedesca, il Kaiser che ha governato con lui gli ha lasciato

carta bianca, e gli ha permesso di fare tale politica, che si è allargata poi all’Italia. L’Italia è stata

coinvolta nella Triplice Alleanza da Bismarck, che tra l’altro è stato anche il motore dello sviluppo

del Risorgimento italiano, durante la terza guerra d’indipendenza, che condusse alla presa di

Venezia. Quello che Bismarck non poteva prevedere era la convivenza col nuovo Kaiser,

Guglielmo II. Con l’ascesa al trono del nuovo Kaiser, Guglielmo II, cambia la musica. Non perché

Guglielmo non creda nel valore di Bismarck, ma perché pensa che l’imperatore debba essere

autonomo politicamente. Su Guglielmo II c’è molta letteratura anche polemica. La storiografia

italiana ne ha accentuato le colpe per l’uscita dell’Italia dalla Triplice Alleanza. Per rendere

persuasivo tale quadro, unitamente al rifiuto dell’Austria di fare concessioni territoriali in cambio

della neutralità italiana, c’è la smania di dominio, il mutevole carattere di Guglielmo II. Insomma,

un Guglielmo II in caricatura. Ma forse Guglielmo II non si muoveva del tutto così. Ogni uomo è

uomo della sua epoca: Bismarck era un uomo ottocentesco, ed era cresciuto in opposizione alla

rivoluzione del 1848. Guglielmo era un uomo del nuovo secolo, un uomo delle guerre imperiali, del

fascino del potere, della guerra al parlamento ed alla democrazia, ma era anche un modernizzatore,

non solo militarmente ma anche nel sistema scolastico. Guglielmo II ha istituito nel 1900 una

conferenza scolastica a cui teneva molto, e in cui coinvolse il meglio dell’Accademia,

dell’università, dell’istruzione superiore, e da tale conferenza, definita conferenza scolastica,

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Schulkonferenz, nel 1900 egli ottenne che fossero modernizzati gli studi della scuola imperiale, che

era il ginnasio umanistico dove crescevano le classi dirigenti. C’è tensione verso l’impero russo: già

Tacito affermava che tra i germani e i sarmati l’unico confine era la paura reciproca, il mutuus

metus. Ci sono molti gruppi di pressione e di interesse intorno al Kaiser. Naturalmente tali gruppi

hanno un nemico, tale nemico era già stato il nemico di Bismarck: era il partito socialdemocratico

tedesco, il movimento operaio tedesco, che con una lotta parlamentare, sindacale ed elettorale, si era

ingrandito, era divenuto un gruppo sociale ampio ed aveva raggiunto una presenza parlamentare

notevole. Si giunge al punto, impensabile solo qualche anno prima, che candidato alla presidenza

della camera, del Reichstag, è un alto dirigente del partito socialista tedesco: August Bebel, che per

poco non diventa presidente della camera. E la cosa fece meraviglia, perché è un’alta istituzione il

presidente della Camera, e quindi l’imperatore avrebbe avuto di fronte, in contesti istituzionali

contingenti, un socialista; è tale ascesa del socialismo nell’impero che preoccupa i circoli

imperialisti del pangermanesimo; ed è chiaro che ciò definirà una tensione e offrirà a Guglielmo un

altro campo d’azione.

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Democrazia ed autocrazia

Il regno di Prussia è il centro da cui si è mossa la riscossa nazionalistica tedesca, già all’epoca di

Napoleone, è anche il motore della rinascita tedesca in epoca bismarckiana ed è il vincitore della

guerra contro i francesi del 1870. L’impero tedesco sarà proclamato da Bismarck a Versailles, dopo

la sconfitta francese, ed esso, nato dominando la Francia, nel trionfo di Sedan, è federale; insieme

alla Prussia c’è il regno di Baviera, c’è il Baden-Wuerttenberg, ciascuno con una sua

organizzazione statale, con un suo parlamento, con il suo principe; il re di Prussia è però imperatore

di Germania. La camera imperiale, il Reichstag, era un luogo dove si discuteva politicamente; e

però era importante per le opposizioni avere una sede così autorevole dove esprimere di fronte alla

nazione le proprie istanze. Va ricordato che inizia da molto lontano e va ben oltre la modernità, che

il nume tutelare del socialismo tedesco, il compagno di lotte di Marx, cioè Engels, alla fine della sua

vita, ha scritto come nume tutelare del movimento operaio europeo, e tedesco in particolare, pagine

non solo a favore della rilevanza della lotta elettorale come mezzo per il successo del movimento

operaio, tedesco e non, ma ha anche notato che la struttura stessa tedesca, in cui l’esercito è

fondamentale, poteva risultare decisivo ad una trasformazione democratica del paese. Engels nota

che i socialisti sono ormai uno su quattro, ma l’elettore è anche soldato, che significa che un soldato

su quattro è socialista; e quindi, se tale progressione va avanti di questo passo per una decina

d’anni, forse ci sarà un momento nel quale la struttura portante del paese, l’esercito, sarà

conquistata da progressisti o da socialisti. E quindi il vecchio Engels prevedeva sorti magnifiche e

progressive per il suo paese, ingenuamente, perché l’altra faccia della medaglia era la durezza del

vivere e della disciplina prussiana, la trasformazione molecolare del soldato in suddito. Ci si arruola

e si termina il servizio militare come un ingranaggio di un meccanismo diabolico. Karl Liebknecht,

ex soldato, è anche il fondatore del movimento Spartakus, e ha descritto gli effetti della disciplina

militare sul carattere, nell’addomesticamento, nello sfibramento morale di coloro che sono stati

ingranaggi di questa macchina militare del consenso. Insomma il vecchio Engels era un uomo

ottocentesco e non era forse capace di comprendere cosa stesse diventando la nuova Germania

imperiale. Tra l’altro nel discorso di Engels torna anche un tratto saliente della cultura, non slo

democratica, tedesca è cioè una specie di russofobia, una specie di ostilità per i russi visti come

degli autocrati. Per cui anche in Engels si fa avanti l’idea che se si farà la guerra contro la Russia,

allora tutta la Germania lotterà, anche i socialisti: addirittura sostiene che si farà come i sanculotti a

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Parigi nel 1793, e cioè l’unione di tutti per combattere i reazionari. Il costume politico inglese era,

da quasi due secoli, orientato verso il liberalismo, ma tale costume conviveva in una struttura

politica e sociale, con un conservatorismo effettivo per cui, secondo Panikkar, storico indiano,

ancora a fine Ottocento la parola democrazia era concepita con tedio e fastidio nel linguaggio

politico. La terza repubblica francese, che è nata sul sangue della Comune, ha rischiato di diventare

una monarchia fintanto che Macmahon è stato presidente. Qualcosa va detto anche sull’Italia, dove

solo Giolitti, nel 1912, ha allargato il suffragio fino a farlo diventare quasi universale, però

escludendo una serie di classi d’età. Per giunta l’Italia è un paese diviso: nel Sud, il giolittismo ha

creato numerose clientele criminali e mafiose, il meridionalista e storico, Gaetano Salvemini,

produsse contro Giolitti i suo famoso pamphlet, in cui lo definiva il ministro della malavita,

Salvemini stesso era stato vittima della malavita giolittiana, e quindi l’Italia non era un modello di

democrazia, era come la Germania o l’Austria, nella quale in alcune parti dell’impero, si esprimeva

la necessità di adottare leggi elettorali di tipo proporzionale.

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Il Daily Telegraph

Torniamo ora a parlare del Kaiser Guglielmo II. Il Kaiser è protagonista nel 1908 di un incidente

che riguarda l’ Inghilterra: egli è nipote della regina Vittoria, quindi è vicino a quel paese, e guarda

all’Inghilterra in maniera doppia: da una parte la voglia di imitazione della prima potenza mondiale:

l’Inghilterra ha la flotta più grande e più potente, ha un impero coloniale smisurato, che va dall’Asia

all’Africa, un impero tenuto insieme da una politica coloniale insuperabile, che unisce repressione e

cooptazione. Egli rilascia un’intervista al Daily Telegraph, importante giornale inglese, sotto forma

di saggio in articoli. Tali articoli, in più puntate, sviluppano svariate considerazioni che avrebbero

dovuto riuscire gradite agli inglesi e al loro governo. Il Kaiser, in questi articoli, afferma che, i russi

e i francesi, nella guerra boera in Sudafrica, quando si rivolsero alla Germania per andare contro

l’Inghilterra, Guglielmo aveva rifiutato tale proposta, e, con una lettera, aveva informato la regina

Vittoria; e quando l’esercito inglese si era trovato in pericolo nell’Africa meridionale, egli, col suo

stato maggiore, aveva elaborato un piano di guerra per sconfiggere i boeri, e quindi per aiutare gli

inglesi: tale piano era stato inviato a Londra e consisteva nelle operazioni che poi effettivamente

Lord Roberts portò avanti per sconfiggere i boeri. Guglielmo spedì tale testo, prima che al giornale,

al suo primo ministro, il principe von Buelow, per fargli controllare se non ci fossero errori. Il

principe von Buelow, o perché era molto deferente verso il Kaiser, o perché era meglio

affaccendato, o perché si fidava molto del ministro degli esteri, passò l’incarico a quest’ultimo.

L’elemento più catastrofico del testo, redatto male e controllato peggio, era la rivelazione che vi era

presente: che cioè la Francia e la Russia, durante la guerra anglo-boera, avevano tramato contro

l’Inghilterra; quindi metteva zizzania tra Francia e Inghilterra e tra Russia e Inghilterra, rivelando

che questi due paesi avevano istigato la Germania contro l’Inghilterra, e il Kaiser era però rimasto

fuori dalla macchinazione. Inoltre aveva rivelato che poteva minacciare il Giappone con la sua

flotta senza che ci fossero stati motivi di ostilità reali se non la smania di ambizione. Poi si era preso

il merito della vittoria inglese sui boeri, cosa non vera. Fu costretto ad umiliante marcia indietro di

dichiarazioni riparatorie. L’anno dopo von Buelow fu congedato, come se fosse lui il redattore di

questo articolo, e lo sostituì il cancelliere, che fu poi cancelliere di guerra, Bethmann-Hollweg.

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Colonie e volontà di guerra

L’incidente di Agadir consistette in questo: un incrociatore francese arrivò ad Agadir, affermando la

sovranità francese su quell’area, e subito la Germania reagì, inviando un cacciatorpediniere, il

Panther, che avrebbe dovuto essere un avvertimento e una protesta contro l’ampliamento

dell’occupazione francese del Marocco verso l’interno. Dopo un’atmosfera tesa tra i due stati venne

fatto l’accordo internazionale per la spartizione del Nord Africa, con Francia e Germania da

protagoniste. Anche alla Spagna fu concesso un pezzo di Marocco e all’Italia fu permessa la

conquista della Libia: così nel 1912 si crea un prodromo della guerra, un atto che è stato visto come

una gita fuori porta dalla storiografia italiana, le cui conseguenze ancora si vedono. L’Italia si

impadronisce della Libia; così come il Belgio si era impadronito del Congo, sulla scia delle

esplorazioni di Stanley. Stanley che risalì il fiume Congo aprì la via alla colonizzazione europea, in

pochi anni il Congo divenne colonia del re dei belgi, dipendenza della corona, e fu una conquista

eccezionale per il Belgio, poiché il Congo era una miniera a cielo aperto. L’idea della guerra si fa

strada anche sul piano culturale. Questa idea criminale per cui la guerra sarebbe l’igiene del mondo,

questo clima si rileva, ad esempio, nelle avanguardie; la guerra igiene del mondo è un’idea costante

di parte del futurismo italiano, Martinetti esalta la guerra, ma è anche nel pensiero di D’Annunzio.

Un importante accademico tedesco dell’Università di Berlino, soprattutto rilevante per cultura

classica, il barone Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, rettore dell’Università di Berlino nel

1915-16, pronuncia un discorso, intitolato L’impero mondiale di Augusto, un discorso che sembra

quasi solo un discorso di storia antica. La tesi centrale è che la pace duratura, la pace augustea, fu

dannosa all’impero romano, che iniziò a decadere per colpa di quella pace; quindi la guerra a volte è

necessaria: discorso che allude al presente, che istiga a fare la guerra, per rafforzare un popolo.

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28 giugno 1914

Il 28 giugno 1914 a Sarajevo, un attentato contro l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando, erede

al trono dell’impero austro-ungarico, cambia il destino del mondo. L’attentato contro l’arciduca

d’Austria è la causa dello scoppio della prima guerra mondiale: in quel mattino del 28 giugno un

attentatore ha assassinato l’erede al trono, scatenando una serie di reazioni a catena che hanno

inevitabilmente condotto alla guerra. Non era molto amato dal vecchio imperatore, il cinquantenne

Francesco Ferdinando: il vecchio imperatore avrebbe voluto un altro erede ma si era ammalato, per

la sua vita dissoluta era compromesso; aveva deluso ed era stato estromesso, il principe Ottone, sul

quale Francesco Giuseppe contava. E invece questo Francesco Ferdinando dopo una giovinezza

cagionevole era diventato un robusto e tenace ufficiale, aveva un alto grado nell’esercito austro-

ungarico; si era sposato contro la volontà del vecchio imperatore; aveva dovuto giurare di rinunciare

alla successione per i propri figli: egli era l’erede al trono, però aveva giurato all’imperatore, al

vecchio imperatore, che i suoi figli non sarebbero stati gli eredi. Quando viaggia, quel giugno in

Bosnia, Francesco Ferdinando, viaggia come erede al trono, e si muove in veste ufficiale, con la

moglie. Accanto all’erede al trono, nell’auto, c’è il commissario di governo, c’è il sindaco della

città, c’è il governatore della Bosnia, Potjorek; mentre l’auto procede, alle 11.30, un colpo di fucile

si sente da lontano. Un piccolo oggetto cade dietro la coppia principesca, sulla parete dell’auto, e

rimbalza, colpendo l’auto successiva: due ufficiali del seguito sono feriti, l’arciduca li fa soccorrere,

e viene fuori che è stata gettata una bomba a mano contro l’auto dell’arciduca, ma ha mancato il

bersaglio, non ha colpito l’auto, è rimbalzata su quella successiva, ha ferito due ufficiali.

L’attentatore è catturato: è un tipografo serbo, ma suddito austro-ungarico, di nome Kabrinovich. Il

conte Harrach chiede al governatore se ha disposto un numero di truppe adeguate per garantire la

sicurezza dell’arciduca; il governatore risponde in modo risentito. Vorrebbe il conte Harrach stare

in piedi sul predellino dell’auto per garantire la sicurezza dell’arciduca, è sconsigliato dal farlo; le

auto ripartono più velocemente, verso l’ospedale. C’era stato un cambio di itinerario per la parata.

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Ma per errore della polizia l’auto imbocca il vecchio tragitto; la seconda auto la segue; il

governatore Potjorek realizza che si sta sbagliando: cioè si sta da una parte contravvenendo alla

richiesta dell’arciduca di cambiare tragitto e dall’altra si rischia di esporsi, non protetti, ad altri

imprevisti; per cui rallenta l’auto e vuole farla tornare indietro, e imboccare il nuovo percorso: per

far ciò deve accostarsi senza protezione al ciglio della strada. Poi due spari. L’arciduca e sua moglie

sono morti. L’attentatore è catturato, è un serbo, Gavrilo Princip. Si apre un’inchiesta. Ma

l’inchiesta è velocissima: in pochi giorni si svolge, segretamente; è un’inchiesta particolare: ci

sarebbe stato da domandarsi perché Potjorek, il governatore, avesse così maldestramente, così

negligentemente gestito la sicurezza; c’era anche da domandarsi come mai avesse così

maldestramente lasciato passare, prima del secondo attentato, le auto lungo la via sbagliata, e avesse

poi lui stesso domandato di tornare indietro, senza realizzare che i due erano già stati colpiti; non fa

interrogare per bene il capo della polizia.

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L’ultimatum

Il governo serbo si è ritrovato in una posizione ambigua: infatti la Serbia, in quel momento, non

solo era sotto l’influenza russa, ma era anche sotto una dinastia, quella del re Pietro, che era nemica

dell’impero austro-ungarico. Nei libri di memorie è attestato che l’ambasciatore russo a Belgrado,

Nicolai von Hartwig, si sia espresso, quando si seppe dell’assassinio dell’arciduca, paventando la

possibilità che fosse stato un serbo a sparare. Il 23 luglio, l’ambasciatore austro-ungarico a

Belgrado, il ministro Giesl, sa di dover trasmettere al governo serbo l’ultimatum dell’impero austro-

ungarico. Mentre è in procinto di portare l’ultimatum, gli arriva un nuovo dispaccio da Vienna, un

telegramma nel quale si dice che dato che il ministro francese Poincaré, che era a Pietroburgo, solo

verso le 11 se ne sarebbe allontanato, era opportuno ritardare la trasmissione dell’ultimatum di

qualche ora e quindi, al più presto, consegnarlo poco prima delle 17. Giesl, conscio del motivo di

tale ritardo, decide di portare l’ultimatum alle 18. Ciò per rendere impossibili dei contatti a caldo

con il ministro Poincaré, ancora a Pietroburgo. Quando si presenta di fronte al ministro serbo, il

ministro delle finanze faceva le veci in quel momento del primo ministro Pasic, si sente rispondere

che è impossibile riunire il Consiglio dei ministri perché parte di loro è in viaggio, e Giesl risponde

con sarcasmo che con l’ausilio delle ferrovie, dei telegrafi e del telefono, e data la piccola

estensione della Serbia, la cosa non sarebbe stata difficile. E l’atteggiamento del governo serbo fu

prudente, determinato oltre che dalla difficoltà di un popolo provato dalle guerre recenti, anche dal

fatto che la Russia tacque, e fintanto che la Russia non diceva niente sul da farsi e non dava segnali,

la Serbia non era capace di intraprendere una guerra di tal fatta. In attesa di un riscontro da

Pietroburgo, Pasic consigliò al suo governo, e ottenne dal suo governo, un atteggiamento remissivo.

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Dubbi ed ottimismo

Il principale latore della tendenza guerrafondaia era il ministro degli esteri austro-ungarico, il conte

Berchtold, che era colui che ha più provocato la sorte, sino ad arrivare alla guerra vera e propria.

Nel governo, nei circoli gravitanti intorno alla corte, tuttavia ci sono anche altre voci: c’è un

vecchio saggio, il conte Tisza, il quale non è persuaso dell’inevitabilità della guerra, e vuole

convincerne il vecchio imperatore. Francesco Giuseppe, che ha sessant’anni di governo sulle spalle,

dal 1848 sul palcoscenico europeo, è sensibile a diverse suggestioni; egli è persuaso che si debba

punire la Serbia, però non può tralasciare gli inviti alla prudenza che provengono da una parte del

suo ambiente, dal suo stesso governo. Il conte Tisza, che è il più saggio del gruppo dirigente, scrive

una missiva e la indirizza all’imperatore. Tisza non vuole associarsi al conte Berchtold nelle sue

smanie di punire la Serbia. Sarebbe un errore fatale: in primo luogo non c’erano dati evidenti di

colpevolezza serba. L’impero austro-ungarico sarebbe considerato perturbatore della pace. In

secondo luogo Romania e Bulgaria non sarebbero state pronte come alleate. Tale lettera, che è un

capolavoro di diplomazia perché tocca tutti i punti nevralgici senza urtare l’imperatore, ma

mettendo in cattiva luce il suo avversario politico, il conte Berchtold, dice qualcosa che smentisce le

verità ufficiali; in particolare il fatto di non avere le prove di colpevolezza serba. Questa è la verità

che proviene dal cuore stesso del vertice austro-ungarico; e qui si nota un fenomeno tipico della

diplomazia di quel momento: il fatto che i governi hanno due verità, una ufficiale e l’altra interna,

una esterna e una vera, che però non si può dire fuori. Francesco Giuseppe si ritrova a dialogare, in

quei giorni, con il suo principale interlocutore, con l’imperatore Guglielmo II. Guglielmo gli ha

scritto esprimendogli le sue condoglianze, esprimendo solidarietà, ma non impegnandosi: tra l’altro

perché non era ancora evidente se la Russia fosse pronta o no a muoversi. L’imperatore risponde a

Guglielmo con un messaggio all’ambasciatore tedesco a Vienna: vedeva il futuro fosco. Quello che

lo preoccupava erano le esercitazioni russe autunnali. Questo vuol dire che, nella mente

dell’imperatore, la Russia era già pronta ad attaccare ben prima dell’attentato, avendo programmato

quelle esercitazioni ben prima. Nella stessa occasione, quasi riproponendo le preoccupazioni del

conte Tisza, Francesco Giuseppe fa anche lui una rassegna delle forze in campo e afferma che se

non ha alcun debole per il re bulgaro tuttavia la Bulgaria è un paese in sviluppo; è il solo stato

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balcanico che non sia in contrasto con l’impero austro-ungarico, quindi vanno curati i rapporti con

tale paese. E ancora: sa che il Kaiser si fida di re Karol, ma egli no. Se solo potesse staccare

l’Inghilterra dai francesi e dai russi, la partita gli sarebbe favorevole. Francesco Giuseppe si volge

verso l’altro schieramento: lo schieramento Germania-Austria-Italia è quello a cui appartiene; lo

schieramento opposto è più complesso, ma consta di tre potenze: c’è l’intesa tra francesi e inglesi e

c’è l’alleanza franco-russa, per cui questi tre paesi hanno un patto a tre, anche se esso consta di due

accordi a due. I piani tedeschi prevedevano una guerra lampo alla Francia, cui sarebbe seguita la

mobilitazione russa, molto lenta, che avrebbe permesso ai tedeschi di far fronte ad est, dopo aver

annientato l’esercito francese. Il piano tedesco traeva il suo nome dal capo di stato maggiore

dell’epoca, Schlieffen. Lo stesso piano è stato riproposto da von Molte che era capo di stato

maggiore nel 1914. Tale piano prevedeva un Blitz in cui la Francia sarebbe caduta in sei settimane,

la mobilitazione russa sarebbe stata lenta, e la guerra sarebbe stata vinta. Guglielmo sperava in

privato ma taceva in pubblico. Ignaro della velocità con cui l’ultimatum è stato ritenuto conclusivo

dagli austro-ungarici, Guglielmo commentava, con i suoi collaboratori, la risposta serba e affermava

che di fronte a tanta remissività la guerra non sarebbe stata necessaria. La cesura tra guerra e pace è

stata incerta fino all’ultimo: colui che fu additato come il principale motore della guerra, il Kaiser,

fu però colui che si espresse sulla reazione serba all’ultimatum in modo possibilista.

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La colpa tedesca

Nel testo della risposta serba, trasmessa in copia a Guglielmo, si legge, scritto di suo pugno, che

cadeva ogni motivo di guerra. Giesl doveva rimanere serenamente a Belgrado: dopo questo non

avrebbe ordinato la mobilitazione. L’assemblea nazionale eletta nel gennaio del 1919, la costituente

tedesca, quella che redigerà la costituzione di Weimar, ha anche creato una Commissione

d’inchiesta sulle responsabilità tedesche, responsabilità per lo scoppio della guerra, oltre che

responsabilità per la condotta di guerra. Da una parte c’è il cancelliere Bethmann-Hollweg , che, è

considerato storiograficamente un moderato, al quale si oppone, durante la guerra, un’ala

oltranzista, annessionista, che cioè ritiene che la guerra debba avere come esito delle annessioni

territoriali, dei vantaggi territoriali per la Germania; Bethmann sarebbe favorevole ad una

conclusione senza annessioni, una conclusione di compromesso più accettabile per gli avversari dei

tedeschi. Distinzione quindi tra due linee politiche: quella buona, di Bethmann-Hollweg, da una

parte, e dall’altra gli annessionisti, oltranzisti, ecc. E dato che Bethmann-Hollweg è il cancelliere

nel momento dello scoppio della guerra, è chiaro che la minore responsabilità tedesca si sposa bene

con l’idea che il cancelliere fosse un moderato, e che quindi non si possa affermare che la Germania

abbia provocato la guerra a tutti i costi. La distinzione tra le due linee è una distinzione che si

accorda con le conclusioni della commissione d’inchiesta, secondo cui la Germania non ebbe una

responsabilità prevalente nello scoppio della guerra. Ma l’idea di una partecipazione di tutti alla

responsabilità, è anche un’idea socialista: Lenin ha scritto saggi sull’argomento, incentrati sulla

nozione secondo la quale l’imperialismo genera scontri inter-imperialistici, e quindi guerra. In un

libro del 1961, Fritz Fischer, storico, intitolato Assalto al potere mondiale, Griff nach der

Weltmacht, tratta dell’assalto al potere mondiale, che è l’assalto che la Germania portò al potere

mondiale con la guerra del 1914. La dimostrazione che Fischer porta avanti verte sull’enucleazione

di un’unica volontà definita come obiettivi di guerra, Kriegsziele, che è condivisa da moderati e

annessionisti. Gli obiettivi di guerra li accomunano; e quindi c’è stata in Germania una volontà di

guerra che ha fatto precipitare il conflitto, che ha condotto alla guerra in modo inevitabile, al di là

del fatto che gli imperialismi in conflitto generino guerre. L’opera di Fischer, mettendo l’accento

sulla responsabilità collettiva della classe dirigente tedesca, sfatava un duplice mito tipico

dell’autoassoluzione degli storici tedeschi, su questa questione: quella sul moderatismo di

Bethmann-Hollweg. Unitamente al mito dell’inizio positivo e idealizzato della guerra come sana

unione di tutte le forze sociali. Friederich Meinecke è portavoce di quest’ultimo mito. Dopo la

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caduta di Hitler, scrive un libro, nel 1948, La catastrofe tedesca, Die deutsche Katastrophe, in cui

tratteggia uno sviluppo della storia tedesca fino alla catastrofe hitleriana, alla quale addebita le

responsabilità, e vede nel hitlerismo l’esito di una destra che era già nei gruppi di pressione

pangermanistici, nonché il partito della patria, e gran parte dell’alto comando. A fronte di tale esito,

di tale continuità che precipita nel hitlerismo, Meinecke vede un momento positivo nel 1914.

L’entusiasmo dell’agosto 1914 sarebbe per tutti coloro che lo hanno vissuto un elemento di valore,

degno di memoria, anche se effimera. Tutte le divisioni del popolo tedesco, sia nella borghesia sia

tra borghesia e classe operaia, sarebbero state superate dal pericolo comune che avrebbe tolto

sicurezza e prosperità. Questo quadro che disegna Meinecke è sintomatico dell’idea oleografica che

si era affermata nella cultura tedesca, anche progressista, tesa ad additare nell’agosto 1914 il

momento positivo della storia tedesca dal quale ci si è allontanati perché la desta annessionista e la

sinistra pacifista hanno rovinato quel sogno. Contro tale rappresentazione Fischer si batte quando

dimostra, documenti alla mano, che tutta la classe dirigente aprì le ostilità con in mente un chiaro

quadro di obiettivi di guerra tedeschi.

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Reazione a catena

Nelle ore in cui è trasmesso l’ultimatum il governo russo ordina la mobilitazione parziale. L’impero

austro-ungarico dichiara guerra alla Serbia e bombarda Belgrado. Si verifica una reazione a catena.

Scatta la Triplice Alleanza, e in 48 ore si passa dalla guerra austro-serba alla guerra europea: lo zar

mobilita tutto l’esercito; la mobilitazione generale è proclamata il 30 luglio: 48 ore dopo il

bombardamento di Belgrado. Bethmann-Hollweg è il cancelliere che dichiara guerra anche alla

Francia, e che consente la mossa a sorpresa della guerra lampo.

18

Inghilterra e Russia

Il prezzo paventato da Bethmann-Hollweg, finto moderato, il quale avrebbe preferito evitare

l’allargamento della guerra, era che l’Inghilterra sarebbe entrata in guerra. Non si dimentichi che la

longa manus che l’Inghilterra aveva con i suoi servizi segreti sulla costa antistante, ad Anversa,

quella città che già Napoleone definiva un pistola puntata contro l’Inghilterra. Il ministro degli

esteri, Lord Grey, che è figura fondamentale per il ruolo che riveste oltre che per le sue capacità, è

contrario alla guerra fino all’ultimo: egli preferirebbe la neutralità ma non una pro-tedesca. Invece il

ministro della marina, Winston Churchill, allora ancora giovane politico spiantato, avventuriero,

eccentrico, Churchill è un fautore convinto della necessità della guerra ed un promotore dei contatti

con i russi, ai quali va offerto qualcosa di concreto perché accettino di entrare in guerra.

L’Inghilterra è da secoli che tentava di evitare a qualsiasi potenza di installarsi sul continente

europeo. In sostanza la ragione dell’ostilità verso Napoleone era questa: Napoleone aveva fatto

progressi per migliorare il carattere rivoluzionario da cui il suo potere era sorto. Non poteva

accettare l’egemonia francese allora e non poteva accettare quella tedesca ora.

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La guerra degli spiriti

Da parte tedesca si disse che c’era stato terrorismo belga, contro cui i tedeschi erano stati costretti a

reagire in modo duro, durante l’invasione. Subito dopo la presa di Gand, città universitaria, fra gli

arrestati ci fu anche lo storico belga Henri Pirenne. Pirenne e altri colleghi dell’Università di Gand

furono messi nei campi di concentramento. Pirenne ha poi raccontato tutto in un libro di memorie.

Uno storico francese, autore di un famoso libro di Storia della Germania contemporanea, Edmond

Vermeil, ha scritto che ben pochi artisti o scrittori resistettero al delirio dell’entusiasmo e

dell’unione sacra. Dei molti testi che si potrebbero ricordare in merito alla guerra degli spiriti,

rilevante è il famoso appello dei 93; l’appello dei 93 professori universitari tedeschi rivolto Al

mondo civile, An die Kulturwelt, in risposta a tutto ciò che si era accumulato, nella propaganda

nemica, dopo l’invasione del Belgio. In America i tedeschi hanno legami interessanti: importanti

accademici hanno insegnato, alla Columbia University c’è stato Eduard Meyer, uno dei principali

storici tedeschi dell’epoca, rettore in seguito dell’Università di Berlino. L’appello dei 93 inizia

dicendo che non è vero che sulla Germania ricada la responsabilità della guerra: nei suoi ventisei

anni di regno Guglielmo II sarebbe stato il paladino della pace mondiale. Non sarebbe vero che la

Germania abbia violato la neutralità belga; la Francia e l’Inghilterra sarebbero state pronte a fare lo

stesso con il consenso belga. Non sarebbe vero che siano stati danneggiati dai tedeschi la vita e i

beni dei cittadini belgi. Sarebbero stati i belgi a fare imboscate ai tedeschi, uccidendo medici; non si

dovrebbero tacere le gesta di tali criminali che mirano ad addebitare ai tedeschi la punizione che a

loro è stata inflitta.

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Propaganda

Data l’importanza che la guerra intellettuale inter-europea ha rivestito dopo il 1914, continuando

per molto tempo anche nel dopoguerra, si deve tornare sul testo del famoso Appello al mondo civile

dei 93 professori universitari berlinesi. L’accusa che essi rifiutano con più veemenza è quella di

calpestare la civiltà; tutta la propaganda dell’Intesa verte sul fatto che i tedeschi calpestino la civiltà,

che sono barbari, selvaggi. C’è una famosa pagina in una Storia universale pubblicata in Germania

in quel periodo, a cura di un importante accademico, Julius von Pflugk-Harttung, in cui si fa un

paragone tra l’Inghilterra e la Russia, il cui sunto è che sembrano paesi europei, ma l’Inghilterra è la

culla di una civiltà indiscutibile, la Russia è il regno del mugik barbaro e ignorante, con una

microscopica élite vagamente europeizzata. Goethe, Beethoven, Kant, nomi che fanno parte del

patrimonio intellettuale mondiale, nemmeno l’Intesa poteva declassarli a barbari; allora si

distingueva: da una parte c’è il militarismo tedesco, però poi c’è dall’altra la cultura, la civiltà

tedesca che va emendata dal militarismo. I professori tedeschi ribattevano che la guerra era

necessaria alla sopravvivenza tedesca. Infatti, se la Prussia delle guerre di liberazione non avesse

avuto l’esercito per contrastare l’egemonia francese, anche quella civiltà sarebbe stata inglobata da

una civiltà, quella francese, più forte e occupante. Quando tuttavia si dice ceto accademico tedesco,

intellettuali tedeschi, si fa una generalizzazione indebita, poiché anche nei periodi più difficili in cui

era difficile distaccarsi dalla canaglia nazionalistica, dal coro emersero voci di dissenso: personalità

che non si fecero trascinare dalla corrente. Ne ricorderemo almeno due: Albert Einstein, che era

professore a Berlino, l’altro è il grecista e studioso di filosofia antica, Hermann Diels, personaggio

importante, pacifista. La documentazione sui maltrattamenti nei campi di concentramento fu usata

dalla macchina propagandistica dell’Intesa e già nel 1914 fu istituita una commissione d’inchiesta

belga su tali crimini e al diciannovesimo rapporto di tale commissione attinge il libro del 1921 di

due giuristi francesi, Mérignhac e Lémonon, intitolato Il diritto delle genti e la guerra del ’14-18.

In uno dei primi discorsi di guerra, intitolato Le cause storiche del conflitto, il Wilamowitz dice che

è possibile dimostrare che la Francia e l’Inghilterra erano pronte a violare la neutralità belga.

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I falsi

Si consideri il Secondo Libro bianco tedesco. Il documento è un materiale propagandistico mirante

ad attestare accordi segreti tra belgi e inglesi. Da parte francese si vuole smentire questa

documentazione. Ma la smentita lascia un po’ a desiderare. Per esempio, la frase sul fatto che

l’entrata degli inglesi in Belgio avverrebbe solo dopo la violazione della neutralità da parte tedesca

nell’originale del documento era segnata sul margine e invece, secondo la parte francese, fa parte

integrante del documento stesso. Se la si considera una notazione marginale, esterna al testo, resta il

fatto che questo comunque prevede un accordo di collaborazione militare anglo-belgica; se invece

fa parte integrante del testo, cioè non è un’osservazione a margine, ma è da inserire nel testo, allora

conferisce al testo un senso diverso: denota che solo al verificarsi dell’attacco tedesco gli inglesi

sarebbero intervenuti in territorio belga. La parola finale del documento è la data; la data è in

tedesco, e le parole sono abgeschlossen September 1906 , cioè concluso nel settembre del 1906; ma

la parola abgeschlossen può voler dire due cose diverse: può voler dire concluso nel senso che è

stato stipulato quanto sopra; o invece concluso nel senso di: le conversazioni sono terminate ma non

è detto che abbiano prodotto un accordo nel settembre 1906. Quindi i tedeschi avrebbero inventato,

creato un falso inserendo una parola, abgeschlossen, che può voler dire sia che i colloqui si erano

verificati ed erano terminati quel giorno, o invece che avevano condotto ad un vero e proprio

accordo. La propaganda, della quale si può dire tutto il male possibile ma che è necessaria per

influenzare l’opinione pubblica e rappresentarsi in modo positivo, usa necessariamente dei falsi.

Conservato ancora in varie collezioni, Die Feldpost, falso francese, fu creato da un propagandista

francese, di cui non si conosce il nome, ma solo lo pseudonimo: una sigla, HANSI. Il misterioso

Hansi , nel 1922 pubblicò un libro, intitolato Attraverso le linee nemiche, a Parigi da Payot.

Contiene la documentazione che Hansi ha voluto rendere pubblica, quasi ostentando come aveva

fatto propaganda, creando falsi e penetrando dietro le linee nemiche con organi di stampa

contraffatti. Tutta l’operazione che costui ha creato, contro il morale delle truppe tedesche, tutta

l’operazione che egli ha creato, nasce da uno scritto anonimo intitolato J’accuse, io accuso, ed è un

atto d’accusa di un anonimo tedesco contro la politica del Reich. Hansi lo presenta come un testo

autentico alla cui diffusione si è dedicato, perché tale libro era così probante delle colpe tedesche

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che, se diffuso dietro le linee, avrebbe devastato il morale delle truppe tedesche colpendole nella

loro principale sicurezza, che cioè la Germania fosse stata aggredita. Sostiene Hansi, nel preambolo

del suo saggio, che la constatazione che aveva tratto dai prigionieri di guerra tedeschi, era che tutti

loro erano convinti che la Germania fosse stata aggredita e che quindi era una guerra giusta di

difesa nazionale quella che essi stavano combattendo. A questo punto compare in scena il libro

J’accuse, un libro che, scritto da un tedesco, smaschera l’imperialismo, la volontà di potenza, le

bramosie di conquista, le annessioni, del Reich e della sua classe dirigente, del suo governo.

Afferma Hansi che tale libro veniva dalla Svizzera. Sostiene di averlo ricevuto dalla Svizzera, libro

scomodo, nel quale le colpe tedesche sono ripetutamente affermate. Il libro è pieno di censure. Ma è

una falsificazione mediocre alla cui imperfezione però il creatore non ha dato rilievo, perché la sua

operazione è stata quella di trasformare tale libro in un opuscolo facile da far passare dietro le linee

nemiche. Già dalle prime battute il libro afferma che se esistesse in Germania una legge sulla

responsabilità dei ministri, come esiste in tutti i paesi a regime parlamentare, il cancelliere

Bethmann-Hollweg dovrebbe essere messo in stato d’accusa e condannato. In questo libro

falsificato ci si imbatteanche in argomentazioni desunte da prese di posizione di un deputato

socialista, il famoso Karl Liebknecht, il quale dopo un iniziale sbandamento, era stato oppositore

della guerra tanto da essere richiamato alle armi e poi sottoposto a detenzione punitiva. Si nota che

già in tale operazione di Hansi si verifica un fenomeno interessante: che cioè la propaganda di

guerra di un paese si serva delle opposizioni e del dissenso che si esprimono con maggior o minor

fatica, nel paese nemico. Liebknecht si oppone alla guerra nel suo paese, ma per la propaganda di

guerra francese è uno strumento da usare nel contesto dell’offensiva contro il morale dell’esercito

nemico.

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Socialpatrioti e socialisti

I partiti socialisti furono messi dalla guerra di fronte ad un’alternativa drammatica: aderire alla

guerra, sostenendone la causa e determinando un paradosso ideologico e pragmatico e quindi

schierare nei campi di battaglia, nelle trincee operai tedeschi contro operai francesi, operai italiani

contro operai austriaci: il contrario dell’Internazionale, il contrario del socialismo europeo; oppure

boicottare, cioè rifiutare la guerra, lottare contro i governi che avevano voluto la guerra e quindi

chiamarsi fuori dal coro dell’unione sacra, in una posizione difficile, con l’obiettivo da una parte di

restare coerenti, dall’altra di evitare la guerra. Anche altre forze politiche tra le quali ad esempio il

centro cattolico, in Germania, avevano problemi simili: l’insegnamento politico-sociale della Chiesa

cattolica era l’opposto della volontà di strage, dell’affermazione nazionalistica con la guerra; quindi

anche per il centro cattolico c’era un simile dilemma. In Germania i socialisti votano in blocco i

crediti di guerra, compreso Liebknecht che solo nella prima ditali votazioni aderisce alla disciplina

di partito e quindi vota anche lui. E comincerà poi a farsi strada un concetto del quale Liebknecht in

particolare, e Rosa Luxemburg sono creatori: che cioè il nemico del popolo tedesco siaq il governo

tedesco; formulazione che rompe la sacra unione, evidenziando un concetto che rasenta il

tradimento passibile di persecuzione giudiziaria, come infatti avvenne. Si ricordi il famoso romanzo

di Heinrich Mann, Der Untertan, Il suddito: serve a comprendere come il cittadino con la scuola,

con l’esercito, con la disciplina civile, sia portato all’obbedienza, al conformismo, a fare quello che

il governo gli dice di fare. Il giornale dei socialisti tedeschi, cioè di un partito ben inserito nella

società, il Vorwaerts, non arrivava nelle trincee, nelle strutture gestite dai militari non circolava. La

tragedia che il partito socialista europeo ha vissuto in quel periodo è il paradosso della mimesi verso

quel soggetto contro il quale si combatteva. C’erano in Francia due partiti socialisti in lotta tra loro,

poi riuniti per iniziativa di Jean Jaurès. In Francia è rilevante la parte sciovinista nel partito

socialista, nonostante proprio Jaurès fosse contro la guerra. Jaurès prova a fermare la caduta

nell’abisso, si fa promotore, settimane dopo l’attentato di Sarajevo, di un incontro internazionale per

mettere d’accordo i socialisti francesi e tedeschi. Haase, un rappresentante dell’SPD, viene a Parigi

per parlare con lui e trovare una linea comune di lotta contro la corsa verso il precipizio; Haase tra

l’altro sarà da lì a tre anni uno dei rappresentanti socialisti che si distaccheranno dalla maggioranza

e creeranno un partito socialista indipendente, contro la guerra. Haase viene a Parigi per incontrare

Jaurès, il loro incontro dovrebbe definire almeno un comunicato comune di opposizione alla guerra.

Ma Jaurès è assassinato da un giovane nazionalista francese che gli spara in piena Parigi, il 31

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luglio del 1914. Decapitato, nella persona di Jaurès, il partito socialista francese, privato dell’unica

personalità rilevante che fosse contraria alla guerra, non ci fu più alcun freno alla corsa dei due

partiti al carro dei rispettivi governi.

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Mussolini

Alcide De Gasperi era stato da giovane deputato al parlamento austriaco, eletto dalla minoranza

italiana di Trento. In Italia non solo i socialisti ma anche Giolitti, cioè il massimo rappresentante

della forza politica egemone, il partito liberale sono contro la guerra. Giolitti riteneva una follia

entrare in guerra, e il presidente del consiglio, conquistatore della Libia nel 1912, l’uomo che ha

segnato un’epoca della storia italiana, è molto influente anche presso il re: il giovane re Vittorio

Emanuele III, salito al trono dopo l’assassinio nel 1900 di suo padre, Umberto I. Il giovane re tiene

in debita considerazione il pensiero di Giolitti, che è molto autorevole, un personaggio molto

famoso a livello mondiale, e in Italia la sua parola è degna di fede. I socialisti italiani si ritrovano in

sintonia con un altro dei protagonisti del movimento socialista europeo e cioè il bolscevichi russi,

con a capo Lenin e Zinovev. Lo zar, il suo governo ha perseguitato il movimento socialista come

responsabile della rivoluzione del 1905, e soprattutto come eversore. I socialisti italiani si ritrovano

in sintonia con Lenin e i bolscevichi i quali anche sono contro la guerra; italiani e russi sono in

sintonia. In particolare un dirigente socialista italiano, in quel periodo, Benito Mussolini, che era

anche stato pochi mesi prima protagonista della settimana rossa, quando l’agitazione sindacale

arrivò fin quasi alla rivoluzione, Mussolini quindi spingeva verso il neutralismo ed il rifiuto di

entrare in guerra. Mussolini è anche dirigente del partito, e direttore dell’Avanti!. A lui ha dedicato

un libro rilevante uno storico, Renzo De Felice, il quale nel primo tomo di tale opera parla di

Mussolini rivoluzionario, del Mussolini della settimana rossa, del Mussolini che preoccupa Nenni

per il suo estremismo. Non appena scoppia la guerra Mussolini pubblica un durissimo articolo

intitolato Abbasso la guerra sull’Avanti!. O il governo accettava tale necessità o il proletariato

gliela avrebbe imposta: era arrivata l’ora delle grandi responsabilità. Bisognava muoversi, agire,

non perdere tempo, mobilitare le forze: dovunque doveva sorgere il grido di abbasso la guerra. Il

proletariato doveva tenere fede alla vecchia parola d’ordine: non un uomo né un soldo per la guerra.

Questa era la posizione del direttore dell’Avanti!, oltre che dirigente di partito, Mussolini, che rende

bene quello che era il sentimento diffuso, il pensiero del partito. Ma cambiò idea. Egli fondò allora

il Popolo d’Italia, come organo di stampa pesonale, e promosse una campagna a favore della

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guerra, insieme a D’Annunzio, col partito nazionalista, con i circoli militari ed economici del paese.

Si è a lungo discusso sulla causa del suo mutamento repentino di idee. Una vicenda si sa però da

una persona che era stata molto vicina a Mussolini, un’anarchica di nome Maria Rygier, la quale ha

pubblicato nel 1926 uno scritto polemico, Mussolini confidente della polizia francese. In sostanza la

Rygier documentava il fatto che durante un soggiorno di Mussolini, esule dall’Italia per motivi

politici, era stato avvicinato e comprato dai servizi segreti francesi, e dato che la Francia aveva

bisogno che l’Italia si distaccasse dalla Triplice Alleanza, la conversione repentina dell’ultra-

internazionalista e socialista Mussolini alla causa bellica, è forse dovuta al fatto che i suoi referenti

francesi hanno trovato in lui in quel momento l’uomo che avrebbe dovuto portare l’opinione

pubblica verso la guerra. Il partito laburista inglese si ritrovava anch’esso nello stesso dilemma dei

movimenti socialisti europei, con una variante: il partito laburista non è marxista, è un partito con

una sua tradizione, e oltretutto si ritrovava, nell’ambito della politica inglese di quel periodo, ad

affrontare un governo di coalizione a guida liberale, con la partecipazione di un ex laburista, il quale

non era un rinnegato: si era allontanato dal suo partito assumendo una posizione indipendente

conservando molto della sua personalità pubblica, della sua visione del mondo, ed era entrato nel

governo. Inoltre c’era un fattore particolare nello scacchiere inglese ed era il fatto che l’Inghilterra

affrontava una strisciante guerra coloniale interna contro l’Irlanda.

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Lenin

Un opuscolo, pubblicato in Francia e diffuso in tutta Europa da un giurista, un giurista democratico,

con qualche simpatia per l’anarchia, Edmond Laskine, di origine russa, un opuscolo scritto di suo

pugno, un pamphlet, diffuso in quel periodo, intitolato I socialisti del Kaiser. Sulla copertina

dell’edizione italiana c’è una caricatura: Guglielmo II al centro con in mano il bastone di comando e

intorno tutti i vari Scheidemann, Ebert, ecc., i capi della socialdemocrazia tedesca che gli fanno

corona con deferenza. I socialisti avevano due strade, come Eracle nell’apologo famoso di

Senofonte: una era quella di accodarsi, l’altra era quella di boicottare. Sul primo conflitto mondiale

c’è un film di un notevole regista, Stanley Kubrick, che s’intitola Orizzonti di gloria e riguarda un

episodio di crudele decimazione, sul fronte francese. La decimazione era prevista contro le truppe

che non si erano lanciate all’assalto con sufficiente ardore nella guerra di trincea; il film di Kubrick

è una tragedia greca per bellezza e semplicità, e rende più di qualsiasi spiegazione, di qualsiasi

rievocazione storica, quale fu il risultato della scelta irresponsabile che i socialisti fecero allora, i

tedeschi prima di tutti. Il perché di tale scelta lo spiega Laskine nel libro succitato. Laskine cita, tra

l’altro, una dichiarazione di Suedekum all’Avanti!, una lunga dichiarazione in cui Suedekum prova

in tutti i modi a sviluppare l’argomentazione della colpa altrui, la tesi della guerra difensiva, simile

alla dichiarazione dei 93 professori dell’Università di Berlino, i quali però erano tutti

ultraconservatori. Tale sintonia tra Suedekum e io professori berlinesi è sintomatica; ma al di là

delle citazioni, c’è poi la riflessione. Laskine vede le cose così come sono: era una scelta

imperialistica, perché speravano in un grande vantaggio economico dalla vittoria, un miglioramento

delle condizioni di vita dell’impero tedesco, del popolo dell’impero tedesco. Dal 5 all’8 settembre

del 1915 si tenne una conferenza a Zimmerwald, in Svizzera, ma fallì: si presentarono per il partito

russo sia Lenin che Zinovev, per i menscevichi Martov e Axelrod, per il partito tedesco solo la

minoranza. Il principale protagonista della riunione che avrebbe dovuto spingere per fermare la

guerra inviò rappresentanti minoritari, rappresentanti che come singoli assentivano alle

argomentazioni della controparte, ma che non avevano alcun peso nel proprio partito. I russi, in

questa e nella conferenza di Kienthal, sempre in Svizzera, furono osservatori notevoli perché

avevano inviato entrambe le volte un’ottima delegazione: per il partito russo sia Lenin che Zinovev,

e per i menscevichi Martov e Axelrod. Ma la posizione dei russi, di Lenin in particolare, non era

pacifista per principio. Al contrario Lenin ebbe subito un’intuizione che si rivelò felice

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pragmaticamente: il partito russo non poteva vincere legalmente nel proprio paese; non voleva

appoggiare la guerra dello zar perché non poteva ricavarcene nulla, nessun addolcimento della

situazione in cambio di una tale scelta.

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La strage

In questo periodo in Francia la Chiesa si separava dallo Stato, su iniziativa di governi radicali, che

affermavano il bisogno di cancellare il concordato che Napoleone aveva stabilito un secolo prima, e

che durava ancora. Ciò aveva determinato una freddezza politica tra la Francia repubblicana, in

particolare nella sua parte radicale, e il Vaticano che nella lotta con i modernisti e in dissidio con

tale separazione aveva rivelato la sua anima conservatrice. Avviene che quasi insieme allo scoppio

della guerra, salga sul trono papale, il 3 settembre del 1914, il nuovo pontefice, Benedetto XV.

Benedetto XV fin da subito ebbe un atteggiamento lungimirante, non fazioso rispetto al conflitto.

Un gesto di Benedetto XV, molto efficace, di pacificazione, di apertura verso la Francia, fu che

l’annuncio al presidente della Repubblica francese della propria elezione a pontefice Benedetto XV

lo volle scrivere di suo pugno: inviò un messaggio personale al presidente della Repubblica

francese, presidente di uno stato in guerra con tedeschi ed austro-ungarici, e questo fu un segnale di

equanimità. Benedetto XV si rese conto della necessità per la Chiesa di non essere faziosa.

Benedetto XV si spinse nell’agosto del 1917 a compiere un passo ufficiale. Nell’agosto 1917

Benedetto XV di fronte all’aggravarsi della situazione militare, che la rivoluzione di febbraio

lasciava intravedere, lancia un appello, l’appello contro l’inutile strage. Inutile strage voleva dire ai

paesi in guerra, voi perseguite degli obiettivi politici, o politico-militari, attraverso uno strumento

vano, la guerra non produrrà i risultati che voi vi ripromettete. Ma Benedetto XV andò anche oltre.

Elaborò un piano d’uscita dalla guerra; un piano in pochi punti, sei, che fu offuscato dai 14 punti di

Wilson, il presidente americano il quale aveva promosso in 14 punti l’uscita dalla guerra, la

pacificazione e il riordino mondiale. I 14 punti di Wilson furono famosi e in parte assunti come base

per le intese internazionali del dopoguerra, i sei punti di Benedetto XV erano di più corto respiro,

ma concreti, prevedevano l’uscita dalla guerra. Nella Francia della prima guerra mondiale c’è

un’organizzazione cattolica, che si presenta come un’organizzazione umanitaria,e che è diretta da

una personalità famosa ed autorevole del clero francese, il futuro cardinale Alfred Baudrillard,

discendente da una grande famiglia, legato al sistema di potere, autorevole rappresentante dell’

Institut Catholique. Baudrillard ha lasciato un diario, fonte preziosa per la storia contemporanea. Il

2 agosto 1914 scrive della sepoltura di Jaurès e aggiunge che anche lui è uno dei colpevoli della

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tristezza del presente. Per il bene comune era stato meglio che fosse scomparso alla vigilia del

conflitto. Il 5 maggio 1918 scrive che l’audacia criminale di parte dei socialisti francesi vorrebbe

celebrare il centenario della nascita di Marx e la depreca solo perché è tedesco; i socialisti, scrive

ancora Baudrillard, sostenevano che i loro compagni tedeschi avevano pianto per Jaurès: con

sarcasmo nota che lo crede bene perché avrebbe paralizzato con la sua azione la difesa nazionale

francese. Questa è una voce del tutto diversa da quella saggia, ma inascoltata, di Benedetto XV.

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Fine

L’alto comando tedesco è caratterizzato da personalità di rilievo,il generale Ludendorff, il

maresciallo Hindenburg, tra gli altri. Ludendorff sarà il nume tutelare, l’ispiratore del Putsch

hitleriano del 1924; Hindenburg sarà presidente della Germania, della Repubblica tedesca, che darà

a Hitler l’incarico di formare il governo nel gennaio 1933, anche senza maggioranza parlamentare.

Il governo del periodo della guerra è affidato al cancelliere Bethmann-Hollweg, il quale è stato

sempre coinvolto nel progetto bellico. Nell’illusione di Guglielmo II la flotta tedesca avrebbe

dovuto contrastare la flotta inglese: invece non ne era capace, aveva ottime corazzate ma

nell’insieme non poteva contrastare la flotta inglese. C’era invece un’arma segreta. Nella prima

guerra mondiale furono i sottomarini: con la guerra sottomarina indiscriminata si sarebbe colpita

l’Inghilterra, e le navi americane che portavano in Inghilterra aiuti cospicui che consentivano agli

inglesi di resistere ad una guerra terribile e logorante. Colpire le navi americane con la guerra

sottomarina indiscriminata, che cioè non considerasse che erano navi di un paese neutrale, fu un

altro passo verso l’abisso. Bethmann-Hollweg era contrario a tale idea, e sosteneva che questa

guerra sottomarina era la loro spedizione in Sicilia, alludendo chiaramente a un episodio della

guerra del Peloponneso, fra Atene e Sparta, quando Atene attaccò la Sicilia credendo con questo di

migliorare le sue posizioni e andando invece rovinosamente verso il disastro e la sconfitta. Ciò che

non appariva chiaro, ma che era invece un tarlo profondo nella realtà della guerra, sotto la cappa

della dittatura di Ludendorff nelle ultime fasi della guerra, era il frantumarsi del fronte interno. Il

partito socialista tedesco si divide: una parte si allontana dalla dirigenza ufficiale e crea il Partito

socialista indipendente, di cui sarà leader quel Haase che abbiamo già citato per la sfortunata visita

a Jaurès nell’imminenza dell’attentato contro Jaurès. Il partito socialista indipendente ha un atto di

nascita parallelo ad un’altra, opposta, forza politica tedesca: il partito della patria, Vaterlandspartei.

Il maresciallo Hindenburg capeggia questo partito, essendone il presidente, che presiede le adunate

pubbliche, che governa, accanto all’alto comando, in dispregio dell’autorità parlamentare. Sorge il

mito del colpo di pugnale, la Dolchstosslegende, secondo cui l’esercito era in campo, era capace di

reggere e di invertire le sorti della guerra, ma la pugnalata alle spalle dei socialisti filo-bolscevichi,

imitatori di ciò che stava avvenendo in Russia con la rivoluzione dopo l’ottobre 1917, abbia causato

la sconfitta. La leggenda del colpo di pugnale ha avuto nome e cognome, nel senso che i principali

assertori di essa sono stati quei personaggi, quei Ludendorff, quegli Hindenburg, e soprattutto tutta

la marea giornalistica della destra tedesca. Quando Lenin prende il potere ed apre gli archivi dello

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zar, ne tira fuori un dossier su un aspetto particolare: il libro paga dello zar, dove i giornalisti

francesi dei più diversi giornali sono presenti poiché hanno ricevuto molti soldi per orientare, con le

loro corrispondenze nei maggiori giornali, l’opinione pubblica, in conformità ai desiderata dello zar

e della sua corte.

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La prigionia degli italiani

Guerra e deserto

I primi soldati italiani caduti prigionieri furono il tenente Marco Giovannini e il sergente Salvatore

Caputo, della divisione libica Cirene, presi in uno scontro di pattuglie la sera del 10 giugno 1940.

La pattuglia comandata dal tenente Giovannini, formata oltre che dal sergente da otto libici, fu

attaccata dalla pattuglia inglese, comparsa all’improvviso dalle dune con due camionette Bren

Carriers. Il tenente Giovannini e il sergente Caputo furono portati ad Alessandria d’Egitto e messi in

caserma. Furono raggiunti da cinque connazionali ai quali si aggiunsero, lo studente Mario

Ramperti, figlio ventenne del medico personale del re Fuad d’Egitto e arrestato ad Alessandria

mentre cercava di tornare in Italia per essere arruolato. Il pieno della caserma-prigione di

Alessandria si raggiunse a fine luglio, con l’arrivo di 545 naufraghi dell’incrociatore Colleoni,

ripescati in mare dopo lo scontro navale di Capo Spada del 19 luglio 1940. Il Colleoni, col gemello

Bande Nere, aveva affrontato in battaglia quattro cacciatorpediniere inglesi che, con un’ottima

manovra, avevano portato gli italiani a distanza di tiro dell’incrociatore Sydney, che le aveva

colpite. Grazie alla velocità, il Bande Nere si era distaccato, ma il Colleoni, colpito da due siluri, era

affondato. Mentre in Costa Azzurra i soldati italiani facevano il bagno, a Parigi gli ufficiali tedeschi

facevano la bella vita e, a Calais, i carristi prendevano il sole, guardando i bombardieri della

Luftwaffe che volavano sulla Manica per preparare il terreno per la campagna finale inglese. Hitler

aveva offerto a Mussolini una corazzata da spedire in Libia. Ma Mussolini, che sperava di condurre

una guerra parallela, cioè autonoma, aveva rifiutato l’offerta su consiglio di Badoglio, capo di stato

maggiore generale, per il quale i tedeschi non erano preparati a combattere in Africa. Lungo il

confine tunisino era schierata la V Armata del generale Italo Gariboldi composta da otto divisioni

che aveva 90 carri, 500 cannoni e 2200 veicoli. Sul fronte egiziano c’era la X Armata del generale

Mario Berti con cinque divisioni composta di 194 carri, 1600 cannoni e 1000 veicoli. Anche se il

governo collaborazionista francese di Vichy non aveva molta influenza sulle truppe coloniali che

già si erano divise tra i fedeli al governo e i simpatizzanti dei generali ribelli De Gaulle e Giraud, i

francesi erano ancora storditi dalla sconfitta per provare a riaversi dalla pugnalata alla schiena,

inferta da Mussolini quando la Francia era prostrata. Il maresciallo Italo Balbo, governatore della

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Libia, aveva il coraggio per condurre un’operazione in Egitto. Aggressivo, guascone, ma

coraggioso, fin da subito aveva sostenuto l’autorizzazione di Badoglio a marciare verso Suez. Ma

quell’ordine era arrivato a Tripoli solo il 28 giugno, quando Balbo era morto da un’ora. Era stato

abbattuto per errore dalla contraerea dell’incrociatore San Giorgio mentre tornava a Tobruk dopo

una ricognizione in territorio nemico. Nel suo dispaccio a Balbo, Badoglio, dopo aver evidenziato

che la resa della Francia aveva disinnescato ogni minaccia tunisina, lo invitava ad andare ad est

approntandosi per il 15 luglio. La perdita di Balbo fu un duro colpo per le operazioni in Africa.

Dopo una serie di consultazioni, Badoglio aveva optato di inviare il maresciallo Rodolfo Graziani,

ma non fu una buona scelta. Graziani era il nemico di Badoglio e la loro dialettica aveva generato

divisioni fra gli alti gradi delle forze armate. Entrambi avevano il titolo di Maresciallo d’Italia per la

guerra d’Etiopia, ma Badoglio era il capo di stato maggiore generale, mentre Graziani era il suo

subalterno, essendo capo di stato maggiore dell’esercito. Inviando il collega in Africa, Badoglio

forse sperava di sostituirlo nello stato maggiore, ma Graziani non ne voleva sapere, cosicché ne era

venuto fuori un pasticcio: Graziani aveva mantenuto l’incarico aggiungendovi il governatorato

libico e il comando dell’esercito coloniale. Graziani era stato scelto perché era ritenuto esperto in

guerre coloniali, avendo combattuto contro i ribelli libici nel primo dopoguerra e quindi in Etiopia

contro le truppe di Hailé Selassié. I muli e i cammelli erano stati sostituiti dai carri armati e dalle

autoblindo che percorrevano il deserto senza necessità di piste, definendo nuovi criteri strategici e

nuovi metodi di lotta, di cui Graziani non ne sapeva niente. Ovviamente, dopo la morte di Balbo,

l’offensiva del 15 luglio era stata rinviata ed era cominciato il dissidio tra Badoglio e Graziani, col

primo che invitava ad avanzare e l’altro che temporeggiava, con vari pretesti. Solo dopo due mesi di

pretesti un ordine di Mussolini, nel quale era presente una velata minaccia di destituzione, portò

Graziani a muoversi. Per alcuni giorni l’avanzata del XXIII Corpo d’Armata del generale Annibale

Bergonzoli, un coraggioso ufficiale che i soldati chiamavano barba elettrica per il suo dinamismo,

avanzò senza intoppi, per poi fermarsi, su ordine di Graziani, nel villaggio egiziano di Sidi el

Barrani, sgomberato dagli inglesi. A Graziani ciò bastava. Presa Sidi el Barrani, Graziani era

soddisfatto. Nonostante le proteste di Mussolini, egli ordinò una pausa e armò di pale e picconi i

soldati per prolungare fino a Sidi el Barrani la via Balbia, cioè la litoranea costruita da Balbo che

collega ancora adesso il confine tunisino con quello egiziano.

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Rommel

Due generali erano morti in battaglia e altri diciannove, compresi i generali Bergonzoli e Tellera,

erano stati catturati. Mussolini entrò in crisi, essendo già deluso per il fallimento del suo tentativo di

condurre una guerra lampo contro la Grecia il 28 ottobre 1940. Il dado era tratto e a Mussolini non

restava che rinunciare al suo progetto di guerra parallela e rassegnarsi a chiedere aiuto a Hitler.

Hitler non si era arreso e ancor prima del fallimento africano aveva insistito sul suo progetto,

inviando a Roma il generale Wilhelm Ritter von Thoma, esperto di corazzate, con il compito di

persuadere lo stato maggiore italiano ad accettare l’utilizzo di una corazzata della Wehrmacht sul

fronte africano. Graziani, appena arrivato in Africa, si era detto contrario, persuaso di non aver

bisogno dell’aiuto tedesco. Tutto ciò era successo nell’ottobre 1940, prima della controffensiva

inglese, quando Graziani, borioso e non pago della inutile conquista di Sidi el Barrani, sperava in

altri successi, come affermò lui stesso in un messaggio a Mussolini subito dopo la conquista del

villaggio. Nove giorni dopo, il 28 ottobre, un Mussolini euforico per gli scarni successi africani, con

un colpo di teatro aveva annunciato di voler spezzare le reni alla Grecia dichiarandole guerra e

mobilitando le divisioni in Albania. L’attacco alla Grecia era stato deciso all’insaputa di Hitler e

con la contrarietà di Badoglio, che si dimise per protesta, da un euforico Mussolini, mosso da un

impeto emulativo verso i tedeschi. Sperava di mostrare al mondo che non solo i tedeschi avevano il

monopolio della guerra lampo. Era infatti sua convinzione che, come sosteneva Galeazzo Ciano,

suo genero, ministro degli esteri e ispiratore dell’impresa, tutto si sarebbe risolto in un lampo.

L’unico problema per Ciano era quello di avere il carburante per arrivare in 24 ore a Salonicco. La

notte del 12 novembre, la portaerei inglese Illustrious, scortata dalla Mediterranean Fleet aveva

violato il blocco navale ed era arrivata senza problemi vicino Taranto dove, per supportare l’attacco

alla Grecia, era stato radunato il meglio della squadra navale italiana. In poche ore, senza resistenze,

venti aerosiluranti inglesi, con due incursioni, avevano annientato tre corazzate: la Littorio, la

Duilio e la Cavour, perdendo un solo aereo. Lo strabiliante e insperato successo fu un toccasana per

il morale inglese e portò Churchill a correre alla Camera dei Comuni per annunciare la prima

vittoria inglese dall’inizio della guerra. I naufraghi di alcuni sommergibili, come il Berillo, il

Rubino, il Galvani e l’Uebi Sceseli, affondati nel Mediterraneo, nel Golfo Persico e nel Mar Rosso,

erano stati imprigionati a Geneifa. Poi arrivarono anche i sopravvissuti del sommergibile Gondar,

che trasportava i primi maiali, cioè i siluri umani impiegati nel primo tentativo di forzare la base

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navale di Alessandria. L’impresa fu ripetuta con successo il 19 dicembre 1941 dai tenenti di

vascello Luigi Durand de la Penne, Vincenzo Martellotta, Antonio Marceglia e dai loro secondi

Emilio Bianchi, Mario Marino e Spartaco Schergat. Tra i naufraghi del Gondar c’erano anche due

ufficiali: Gustavo Stefanini, futuro direttore della Oto Melara, e Elios Toschi,l’inventore, con Teseo

Tesei, dei succitati SLC a guida umana, chiamati maiali. Toschi, con Camillo Milesi, comandante

del Berillo, durante la prigionia fu protagonista di fughe avventurose dal deserto all’Himalaya.

Furono catturati Beppe Pegolotti, Chino Alessi e Marco Pranzetti, tutti membri di un gruppo di

corrispondenti di guerra, comandati dal colonnello Amedeo Tosti. Del gruppo facevano parte anche

altri inviati speciali, come Virgilio Lilli, Max David, Enrico Emanuelli, Lamberti Sorrentino e Gian

Gaspare Napolitano, che però non furono catturati. Nel 1942 il regista Goffredo Alessandrini dedicò

un film di propaganda agli eroici difensori di Giarabub. Il loro colonnello si chiamava Salvatore

Castagna. Dopo varie sconfitte, Graziani fu richiamato in Italia e sostituito dal generale Italo

Gariboldi, mentre a Tripoli arrivavano i primi panzer dell’Afrika Korps, la corazzata tedesca che

stavolta Mussolini non solo accettò ma addirittura implorò. L’Africa Korps era comandata da un

generale di notevole bravura: Erwin Rommel. I prigionieri italiani erano nei primi tempi di

prigionia col morale saldo perché avevano assistito ai “successi” del fascismo: le trasvolate

atlantiche di Balbo, la battaglia del grano, la lotta contro le inique sanzioni, la conquista

dell’impero, le imprese sportive. Semmai, erano delusi dai loro comandanti, che non si erano fatti

valere, ma quando arrivò nei campi di prigionia la notizia dell’arrivo in Libia dell’Afrika Korps e

dei primi successi di Rommel, le speranze si riaccesero. Applaudivano la comparsa in cielo degli

Stuka e cantavano “Rommel, Rommel, portami via con te” parafrasando il ritornello di La mia

canzone al vento, molto famosa in Italia. I carcerieri divisero i prigionieri in due categorie: i Coman

e i Noncoman. I Coman erano quelli che, col morale a terra, si erano arresi senza reagire obbedendo

al come on !, l’ordine umiliante inglese di mettersi subito in riga. I Noncoman erano invece quelli

che, costretti ad arrendersi, avevano ancora voglia di lottare e si ribellavano agli ordini dei

carcerieri. Ma non sarebbe giusto definire i primi antifascisti e i secondi fascisti, perché i primi

erano dei menefreghisti, mentre tra i Non, anche se c’erano molti ufficiali e soldati delle Camicie

nere della MVSN, non mancavano gli ufficiali e i soldati del Regio Esercito che, pur non essendo

fascisti, o per rivalsa o per dignità, non volevano umiliarsi di fronte ai vincitori arroganti.

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La fine dell’impero

Badoglio aveva dato ordine di mantenere un contegno difensivo, lo stesso Badoglio che cinque anni

prima aveva conquistato l’Etiopia permettendo a Vittorio Emanuele III di proclamarsene imperatore

e a Mussolini di annunciare il ritorno dell’impero sui colli fatali di Roma. Sarebbe bastato un

migliaio di morti, come affermò Mussolini, per partecipare al banchetto dei vincitori. Anche

Badoglio, capo dello stato maggiore, si era ricreduto e, dopo aver invitato Graziani ad avanzare in

Libia, il 5 agosto 1940 aveva inviato al duca Amedeo d’Aosta, viceré dell’Etiopia, un messaggio di

sprone a portare al tavolo della pace un pegno coloniale. L’impero aveva un esercito forte sulla

carta: 93000 soldati nella divisione Granatieri di Savoia e in ottanta battaglioni di Camicie nere,

rinforzati da 200000 soldati coloniali fra ascari, zaptiè e dubat. I confini dell’impero erano enormi:

circa 8700 chilometri, ma dall’altra parte gli inglesi avevano poche migliaia di dilettanti della

guerra, cioè coloni richiamati alle armi, nonché un paio di brigate, oltre una divisione di indiani

punjab e alcune formazioni composte di kikuyu e bantù. Il 26 febbraio 1941 era caduta Mogadiscio,

il 31 marzo Asmara, il 7 aprile Massaua e il 5 maggio, sei anni dopo la proclamazione dell’impero,

il Negus Hailé Selassié era tornato ad Addis Abeba, città dalla quale aveva fatto un nobile appello ai

suoi sudditi di non trattare male i prigionieri italiani. A Gondar, a nord del lago Tana, resisteva

ancora un presidio italiano comandato dal generale Guglielmo Nasi. La conquista della costa

etiopica aveva permesso al presidente Roosevelt di dichiarare il Mar Rosso navigabile anche per le

navi americane, che lo risalirono per rifornire le truppe inglesi impiegate in Africa del Nord. In

quello stesso periodo il generale Rommel si accingeva a portare avanti la controffensiva che si

sarebbe conclusa tragicamente a El Alamein nell’autunno 1942. Gli italiani avevano combattuto

eroicamente a Debra Tabor, a Cheren e a Culqualber in pessime condizioni. Un sommergibile

giapponese silurò il Nova Scotia con seicento prigionieri italiani a bordo. I campi erano solo delle

aree sabbiose senza tende, baracche e qualsiasi attrezzatura necessaria, recintati da reticolati di filo

spinato e sorvegliati da kikuyu, che sparavano per un nonnulla. Il duca d’Aosta all’inizio erastato

alloggiato vicino Nairobi, nella casa di campagna della signora Nelly MacMillan, un’americana che

viveva da anni in Kenya. In seguito, causa il peggioramento delle sue condizioni di salute, era stato

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trasferito nella Camberry Nursing Home di Nairobi, dove aveva a disposizione tutto il primo piano

della struttura con camere riservate per il suo medico personale, Gustavo Borra, per il suo staff e per

il suo cuoco. L’illustre prigioniero riceveva attenzioni dalla buona società inglese di Nairobi, la

signora MacMillan gli faceva visita tutti i giorni portandogli giornali e altri si impegnavano molto a

tenerlo su di morale. Ad esempio, quando si seppe che in Italia era stata assegnata la medaglia d’oro

al difensore dell’Amba Alagi, il generale William Platt, cioè colui che lo aveva catturato, volle lui

stesso appuntargliela sul petto. Per decorare il prigioniero, Platt salì su due gradini e la medaglia fu

prestata da un anonimo alpino che se l’era guadagnata in altre occasioni. Durante la cerimonia, dato

che era obbligatorio parlare inglese, il duca, che lo parlava molto bene, fece da interprete per i

generali Nasi, Sabatini, Scala-Martini, Daodiace e Torre, suoi compagni di prigionia. Dopo la morte

del duca, il generale Nasi diventò guida morale dei prigionieri italiani in Kenya. Il compromesso

concordato da Nasi elencava i lavori che i prigionieri potevano svolgere secondo le regole ginevrino

e così, fino all’8 settembre 1943, tutti poterono lavorare senza ritorsioni. In caso di contrasto i

capocampo italiani dovevano appellarsi direttamente a Nasi, la cui decisione era inappellabile anche

per gli inglesi. Molti si rifiutarono di svolgere lavori stradali, considerandoli collaborazionismo, e

Nasi dovette convincere i ribelli che si trattava di opere civili. Gli inglesi temendo che, se Rommel

fosse arrivato ad Alessandria, nei campi sarebbe scoppiata una ribellione, rafforzarono le misure di

sicurezza. Eccetto i Noncoman, che furono messi in campi speciali e torturati, per gli altri

prigionieri in Kenya le cose non andavano così male. Se qualcuno provava ad evadere, al di là del

rischio di essere ucciso dai kikuyu, non se la vedeva così male: 28 giorni di prigione, come stabilito

dalle regole ginevrine.

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Speranze di primavera

I prigionieri in India speravano di essere liberati dai giapponesi, ma i più fantasiosi arrivavano a

sperare un congiungimento delle armate dell’Asse provenienti dal Caucaso e dall’Africa con quelle

giapponesi che avanzavano dall’Estremo Oriente. In Libia, l’arrivo dell’Afrika Korps comandato da

Rommel aveva rivoluzionato la situazione. Rommel era un generale atipico. Dopo una serie di

attacchi e contrattacchi pieni di colpi di mano e sorprese tattiche nelle quali Rommel era geniale, il

3 aprile 1941 l’armata italo-tedesca era passata all’offensiva. Rommel respingeva gli attacchi con

colpi di genio. Aveva ordinato, ad esempio, alla FLAK, la contraerea tedesca, di intervenire nella

battaglia con i suoi 88, un tipo di cannone molto efficace, ma che non era mai stato usato nei

combattimenti terrestri. Un uovo di Colombo, comportamento sleale per gli inglesi, ma nessuno ci

aveva mai pensato prima. Gli inglesi, comandati dal generale Alan Cunningham, avevano 740 carri

di prima linea e 250 di riserva. Rommel aveva 260 carri dell’Afrika Korps e 160 della divisione

Ariete. Un reparto italiano difendeva Bir el Gobi, due battaglioni di Giovani Fascisti, circa duemila

volontari giovanissimi, dai diciassette anni in su, che gli inglesi, ammirati, chiamarono Mussolini’s

boys. Li comandava il maggiore Fulvio Balisti, un veterano superdecorato della Grande guerra. Il 5

dicembre gli inglesi attaccarono per sette volte e sette volte furono respinti. Finalmente, arrivarono i

panzer tedeschi e i carri dell’Ariete a ristabilire la situazione e gli inglesi si ritirarono. Ammirato per

l’eroica resistenza dei Mussolini’s boys, Rommel si recò personalmente a Bir el Gobi per

congratularsi con loro. La situazione era tornata favorevole su tutti i fronti e il 29 aprile 1942 Hitler

aveva ricevuto al Berchtesgaden un Mussolini umiliato che aveva fatto ringiovanire di dieci anni,

come poi si vanterà. Mussolini sperava di ottenere da Hitler una finestra sull’Atlantico, cioè un

corridoio che dalla Provenza, già occupata dagli italiani, si spingesse fino a Bordeaux, dove era sta

costruita la base Betasom per i sommergibili. Ma Hitler sognava in grande. Un progetto

napoleonico o, meglio, alessandrino, si dipanava nella sua mente. Un’ottimistica intuizione

dell’ammiraglio Erich Raeder, comandante della Reichsmarine, lo aveva galvanizzato così tanto che

la sua immaginazione era andata molto in avanti. In Russia la Wehrmacht, cui si era unita l’Armir,

marciava verso il Caucaso, mentre in Africa del Nord la Panzerarmee italo-tedesca comandata da

Rommel, il 21 giugno aveva riconquistato Tobruk. I soldati italiani, abituati al ruvido grigioverde, si

cambiarono con uniformi kaki e sostituirono gli scarponi di vacchetta imbullettati con scarpe

scamosciate dalla suola di para. Quello stesso giorno Hitler, soddisfatto, aveva promosso il generale

Rommel al grado massimo, cioè feldmaresciallo. Il generale sudafricano, Henry Koppler, si rivolse

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a Rommel per chiedere che i soldati bianchi fossero separati dai soldati di colore. Ma la risposta di

Rommel lo raggelò perché i soldati sono tutti uguali. I due eserciti si scambiarono prigionieri e

feriti. Per il trasferimento furono usate la nave-ospedale italiana Gradisca, salpata da Bari e la

omologa inglese Llandovery Castle, salpata da Alessandria. In tale periodo, i tentativi inglesi di

dividere e contrapporre Coman e Noncoman fallirono, salvo eccezioni.

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El Alamein

“Io prendo ordini solo dal mio Fuehrer!” aveva sbraitato Rommel mollando i generali italiani. Presa

Tobruk, Rommel voleva avanzare verso il Canale di Suez senza perdere tempo, ma gli italiani erano

contrari. Per aiutare il maresciallo Ettore Bastico, il suo parigrado italiano che era contrario, si erano

mossi da Roma persino il feldmaresciallo Kesselring, comandante delle forze tedesche nel

Mediterraneo, e il maresciallo Ugo Cavallero, nuovo capo di stato maggiore generale dopo le

dimissioni di Badoglio. Cavallero era portatore di un ordine di Mussolini che imponeva a Rommel

di fermarsi. Ma Rommel non ne voleva sapere. L’ VIII Armata inglese si stava ritirando,ma non era

in rotta come Rommel riteneva. Il generale Claude Auchinleck, che la comandava, retrocedeva, ma

in modo ordinato. Per gli inglesi, d’altra parte, perdere qualche centinaio di chilometri di deserto

non era rilevante anche se Auchinleck ne voleva perdere anche seicento. Imposta la sua decisione

agli italiani, Rommel, il 26 giugno 1942, si era rimesso in marcia con l’intera Panzerarmee.

L’attacco contro Malta, già pianificato, era stato rinviato, ma era stato in realtà abbandonato e i parà

della Folgore, addestrati per il lancio sull’isola, erano stati trasferiti in Libia, al seguito di Rommel.

I soldati marciavano con entusiasmo: l’appuntamento al Cairo promesso da Rommel li aveva

galvanizzati. Mussolini, calmato da un Hitler entusiasta della decisione di Rommel, aveva

perdonato l’insubordinazione e il maresciallo Bastico si era placato dopo che Rommel lo aveva reso

edotto del suo piano. L’avanzata proseguì senza intoppi e Mussolini, ringalluzzito, era entusiasta.

Mussolini andò in Libia per essere presente all’appuntamento di Rommel e per partecipare, in sella

al suo cavallo bianco, al trionfo al Cairo. A metà luglio Rommel modificò il suo ruolino di marcia

perché costretto a fermarsi di fronte a El Alamein, dove si erano trincerati gli inglesi. La situazione

era capovolta: Rommel era caduto nella trappola di Auchinleck. Rommel aveva perso l’ottimismo.

Il progetto tedesco di serrare la tenaglia nel Medio Oriente vacillava. Rommel, dimentico di aver

impedito la conquista di Malta che avrebbe liberato la via ai convogli italiani, ora inveiva contro gli

italiani, che non gli inviavano rifornimenti. Per contrasti tra generali, Auchinleck era stato destituito

da Churchill che, dopo scelte sbagliate, aveva messo al suo posto Bernard Montgomery, un generale

di ben altra risma. Misogino, astemio, puritano e pignolo, Montgomery, era un generale formidabile

ma insopportabile. Montgomery, a giudizio di Patton, si preoccupava più di non perdere che di

vincere. Montgomery aveva adottato lo stesso piano di Auchinleck, ma aveva allungato i tempi per

logorare il nemico e anche, soprattutto, per avere superiorità assoluta sul nemico. A metà ottobre,

l’armata inglese aveva 220 mila uomini contro i 108 mila di Rommel, aveva il dominio dell’aria e

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contro i 400 carri avversari ne schierava 1100, fra i quali 300 Sherman americani nuovi di zecca, di

ottimo livello. A indurre Montgomery all’azione, oltre gli inviti di Churchill, avevano contribuito

altri fattori. Stavano arrivando i Tigre, ottimi carri. Cosicché, oltre il timore di affrontare i Tigre,

Montgomery rischiava di dover dividere il merito della vittoria con gli americani, che stavano

arrivando. Incredibilmente, il 23 ottobre, giorno della battaglia, Rommel non c’era. Le divisioni

italiane, Trento, Bologna, 28 Ottobre, Brescia, Pavia e Folgore, furono travolte, i carri dell’Ariete e

della Littorio furono massacrati. Cadde anche l’Afrika Korps e il suo comandante von Thoma si

rese protagonista di un episodio disonorevole: si arrese senza combattere e si fece addirittura

intervistare e fotografare dai giornalisti. Le vicende finali di quella battaglia vollero che fossero i

carri dell’Ariete e i parà della Folgore a cadere per ultimi. I parà della Folgore, comandati dal

generale Enrico Frattini, avevano combattuto fino alla fine. Poi, gli inglesi avevano offerto la resa

con l’onore delle armi e il colonnello Luigi Camosso, dopo averla accettata, aveva ordinato l’attenti

ai sopravvissuti. Dopo la resa, il generale Hugues, comandante del reparto che aveva catturato i

folgorini, aveva voluto conoscere il loro comandante generale Frattini. In Tunisia era stata

ricostituita una nuova Panzerarmee comandata dal generale Hans von Arnim e dal generale italiano

Giovanni Messe, la quale si trovava su due fronti: a est gli inglesi, a ovest gli americani che stavano

sbarcando in Algeria comandati dal generale Dwight Eisenhower. Hitler sottovalutava gli

americani. Anche Mussolini. Si racconta che il 7 dicembre 1941, quando l’Italia dichiarò guerra agli

Stati Uniti, il giornalista Giovanni Ansaldo disse a Ciano che Mussolini doveva preoccuparsi

dell’enorme popolazione americana in guerra suggerendo di controllare l’elenco telefonico di New

York. Il governo francese di Vichy, alleato dei tedeschi, aveva ordinato alle truppe coloniali di

resistere agli invasori, ma da Londra, il generale De Gaulle, capo di France Libre, le aveva invitate

a schierarsi con gli Alleati. Von Arnim, il 12 maggio 1943, si era già arreso, ma Messe, seppur

accerchiato, aveva resistito.

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I sorridenti

Il generale Messe, prima di arrendersi, aveva posto come condizione che i suoi soldati non fossero

consegnati ai francesi. Fu De Gaulle a pretendere la consegna di una quota di prigionieri italiani

catturati in Tunisia dagli Alleati e purtroppo fu accontentato. Affidati alla sorveglianza dei goumiers

marocchini, gli italiani furono trattati in modo bestiale, derubati di tutto, insultati, picchiati, persino

violentati sessualmente e spesso uccisi per un nonnulla. Non a caso,quando comincerà dopo l8

settembre la campagna di arruolamento dei cooperatori, la minaccia di essere consegnati ai francesi

indurrà anche i più irriducibili Noncoman a diventare volenterosi Coman. Nell’estate 1943 era

arrivata in Algeria l’ultima “infornata” di prigionieri italiani catturati in Sicilia. Fra questi c’era

anche Fausto Coppi che pochi mesi prima, il 7 novembre 1942, aveva stabilito il record dell’ora al

velodromo Vigorelli di Milano. Coppi rientrò in Italia come cooperatore-autista di un ufficiale

aeronautico inglese. Prima dello sbarco americano in Sicilia, l’isola era sta sommersa da una

pioggia di volantini con immagini di prigionieri italiani sorridenti impegnati in giochi sportivi. Le

scritte invitavano a scegliere se si voleva morire per Mussolini o Hitler osi voleva vivere per l’Italia

e la civiltà. Ma le cose non stavano così. C’è una ignorata pagina nera della storia militare

americana, che solo negli anni Ottanta è venuta fuori grazie a due studiosi americani di origine

italiana: Carlo d’Este e Joseph Salemi. Il generale americano Gorge Patton, comandante della

quarantacinquesima divisione Thunderbirds che sbarcò per prima in Sicilia, si rese infatti colpevole

di una serie di inutili stragi di prigionieri italiani. Arrogante e buffone, con la Colt dall’impugnatura

d’avorio che penzolava dalla fondina come un cowboy hollywoodiano, Patton non era un

comandante ortodosso. A Biscari 73 soldati che si erano arresi al capitano John Compton, furono

radunati in un piazzale e poi uccisi. Mentre il sergente Horace West condusse un’altra colonna di

prigionieri fuori dall’abitato e dopo aver detto ai suoi uomini di non guardare così da assumersi da

solo la colpa, li uccise tutti, dopo aver ricaricato tre volte il suo Thompson. Successivamente, il

generale Patton andrà sotto inchiesta, ma se la caverà sostenendo che i soldati italiani uccisi non

erano prigionieri, ma franchi tiratori. Nei campi di prigionia americani i carcerieri più colti facevano

anche una propaganda maliziosa per mettere i soldati contro gli ufficiali, insinuando chequelli erano

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tutti fascisti, mentre loro erano solo povera gente ingannata da Mussolini. L’odio dei carcerieri, in

gran parte italoamericani, era rivolto contro i giapponesi, dato che quasi tutti si erano arruolati

volontari dopo il giorno dell’ignominia, come il presidente Roosevelt aveva definito il 7 dicembre

1941, cioè quello dell’attacco a sorpresa alla base navale di Pearl Harbor. Dopo l’armistizio dell’8

settembre più di un terzo dei prigionieri italiani si rifiutò di collaborare. Perciò, come successe

altrove, i Noncoman furono divisi dai Coman e questi ultimi ebbero un trattamento migliore.

Successivamente, i non collaboratori furono trasferiti nel Fascist Criminal Camp di Hereford, in

Texas, gli altri furono divisi in unità di lavoro guidate da ufficiali italiani e trasferiti in varie località

americane.

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Zonderwater

A Malta, a giugno 1940, era rimasto solo un modesto presidio inglese, nonché i pezzi smontati di tre

aerei da caccia che la portaerei Illustrious aveva lasciato a terra prima di salpare. Ricompattati e

ribattezzati Faith, Hope e Charity, saranno per qualche mese i soli aerei ad opporsi ai bombardieri

italiani. Le offensive lampo di Mussolini si erano trasformate in fallimenti: Malta era di nuovo una

spina nel fianco dell’attività marittima italiana e gli inglesi si erano ritrovati ad affrontare un

problema nuovo, quello di ospitare le migliaia di prigionieri italiani rimasti sul campo. Nei campi di

prigionia australiani il cibo era così tanto che, come riferisce Flavio Conti, che ha scritto un saggio

sulla prigionia degli italiani, si verificarono degli episodi particolari, come il rogo degli avanzi per

boicottare gli inglesi. In lingua afrikaans, Zonderwater significa senz’acqua e già tale nome dà

un’idea del luogo. Una particolare città dei prigionieri con oltre centomila abitanti che, come

racconta Carlo Annese, autore del libro I diavoli di Zonderwater, era percorsa da trentanove

chilometri di strade, divisa in quattro rioni e fornita di due ospedali con tremila posti letto, in cui

lavoravano ufficiali medici italiani, nonché di quindici scuole dove novemila analfabeti impararono

a leggere e a scrivere, di teatri, di campi da calcio, di palestre, di laboratori artistici ed artigianali, di

un paio di chiese, di alcune biblioteche e anche di una rivista settimanale. Anche a Zonderwater,

dopo l’8 settembre, era stata fatta la divisione tra Coman e Noncoman. Due irriducibili, Mario

Gazzini e Mario Vacchi, decisero di raccontare in un libro le testimonianze dei loro compagni.

Molti anni dopo il rimpatrio, Vacchi, da solo, avrebbe stampato il libro. Lo intitolò Prigionieri nel

Sud. I prigionieri disputavano un campionato di calcio a dieci squadre. Fra i giocatori più bravi

c’era l’ex calciatore del Torino Giovanni Taglietti, capitano dei Diavoli neri, la squadra più seguita.

Grande successo ebbe l’incontro di pugilato tra due noti campioni: Gino Verdinelli e Giovanni

Manca, romano, campione dell’impero, che nel dopoguerra contenderà invano il titolo mondiale a

Marcel Cerdan e a Tiberio Mitri. Ma fu anche un match politico perché Manca era badogliano,

mentre Verdinelli era irriducibile. Vinse Manca e la giornata fu indimenticabile anche perché era l’8

settembre 1943. Nacquero molte relazioni con donne del luogo e anche decine di figli, in gran parte

meticci, che violavano la legge razzista in vigore a quei tempi in Sudafrica, l’apartheid. Per la

religione calvinista i rapporti promiscui erano peccato in passato. Poi, quel peccato era stato

codificato e punito ed era per questo che gli afrikaner non vedevano di buon occhio il libertinaggio

multirazziale degli italiani.

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I dimenticati

Nel testo del cosiddetto armistizio breve firmato il 3 settembre 1943 a Cassibile, in Sicilia, dal

generale Giuseppe Castellano per conto del governo italiano, non si fa cenno alla restituzione dei

prigionieri italiani detenuti dagli Alleati, mentre sono sottolineate le modalità di consegna dei

prigionieri alleati detenuti nei campi di prigionia italiani. L’armistizio fu concordato in fretta e furia.

Non si può non tener conto della situazione in cui il re, Badoglio e il suo governo si trovavano, un si

salvi chi può. Infatti, il 9 settembre gli attori della vicenda fuggirono da Roma per Brindisi. Eppure,

nonostante la situazione così inusuale, Badoglio e il re si erano portati a Brindisi anche la vecchia

arroganza, e persino una certa impudenza, tipica di chi è uso al comando. Avvenne che

l’ammiraglio inglese Peters impedisse con la forza la partenza di alcune unità italiane che volevano

raggiungere Cefalonia per soccorrere la divisione Acqui, che stava combattendo disperatamente

contro i tedeschi. Ma successe anche che, come se nulla fosse, Radio Bari, ora prima emittente

ufficiale italiana, quando si riferiva al re lo presentasse con la vecchia formula, cioè Sua Maestà

Vittorio Emanuele III, re d’Italia e d’Albania e imperatore d’Etiopia. Il primo chiarimento sulla

situazione italiana si ebbe il 28 settembre 1943 a bordo della corazzata Nelson, dove Badoglio fu

convocato dal generale americano Eisenhower e dal generale inglese Alexander, rispettivamente

comandante e vice comandante delle forze alleate in Europa, per la firma del trattato di resa.

Badoglio vi si era recato speranzoso di poter modificare le dure condizioni di resa per il fatto che

ciò che restava delle forze armate italiane fosse pronto ad allearsi alle forze anglo-americane.

Eisenhower si rivelò irremovibile e ricordò brutalmente, a Badoglio, che l’Italia si era arresa senza

condizioni e che lui era stato convocato a bordo della Nelson solo per firmare il testo definitivo

dell’armistizio. Deluso e rassegnato, Badoglio firmò. Alcuni giorni dopo, Badoglioinformò

Eisenhower che il suo governo voleva dichiarare guerra alla Germania per schierarsi ufficialmente

con gli Alleati. La risposta fu no. Ma Badoglio insistette ancora per poter fare la guerra alla

Germania e alfine il consenso gli fu dato. Il Regno del Sud era in guerra contro Hitler. E i

prigionieri italiani? Chi firmava le schede di adesione otteneva dei privilegi ed era arruolato nelle

unità di lavoro, chi rifiutava era trasferito nei Fascist Criminal Camps. Allo sviluppo di tale

campagna di arruolamento contribuì lo stesso Badoglio col suo famoso proclama dell’11 ottobre

1943. Dopo di allora, in risposta al proclama di Badoglio, gran parte dei prigionieri rinunciò alle

regole ginevrine e collaborò in ogni modo con l’ex nemico. L’unico riferimento era il

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radiomessaggio di Badoglio. In Kenya, il generale Nasi, che dopo la morte del duca d’Aosta era la

guida morale dei circa 50000 prigionieri nella colonia, riuscì ad ottenere un compromesso con gli

inglesi e a mettere d’accordo i prigionieri sui lavori da fare. Poi, dopo l’8 settembre, quelli che

obbedirono all’appello di Badoglio furono messi nelle unità di lavoro comandate da ufficiali

italiani. In caso di contrasti con i carcerieri, i prigionieri potevano rivolgersi al generale Nasi, le cui

decisioni erano rispettate anche dagli inglesi. I ribelli Non, furono trasferiti nei campi speciali di

triste memoria, per evitare contrasti tra i prigionieri. Curiosamente, all’appello radiofonico di

Badoglio aveva corrisposto un altro appello di Graziani, diventato ministro della guerra della

Repubblica sociale italiana. Temendo che queste unità potessero essere usate come forze

combattenti, inviò anche lui un appello ai prigionieri italiani invitandoli a non cedere alle lusinghe

del traditore Badoglio. Il generale Messe, promosso maresciallo da Mussolini dopo la resa della

Tunisia, il quale, tornato in Italia, fu nominato capo di stato maggiore generale; il colonnello

Emanuele Buscaglia, l’eroe degli aerosiluranti, nonché gli eroi dei maiali Durand de la Penne,

Martellotta, Marceglia, ecc.: tutti costoro tornarono a combattere per gli Alleati. Nelle prime fasi,

coloro che rifiutarono di firmare la scheda di adesione furono moltissimi, che però scemarono per

rassegnazione, per opportunismo e anche per pressioni fisiche e morali cui i Non furono spesso

sottoposti. Fra i Non c’erano molti fascisti irriducibili. In Sudafrica i Non strinsero forti legami con i

prigionieri boeri dell’Ossewabrandwag, il partito sudafricano filonazista che era stato sciolto dagli

inglesi e i suoi militanti imprigionati. In India successe lo stesso con i seguaci di Chandra Bose che

aspettavano la liberazione dai giapponesi. C’erano anche molti prigionieri che avevano risposto no

per dignità, spesso pronunciando il motto inglese Right or Wrong, my country. Tra costoro c’erano

il capo manipolo delle camicie nere Giuseppe Berto, uno scrittore autore de Il cielo è rosso che

scrisse nel Fascist Criminal Camp di Hereford, in Texas. Tra i detenuti di Hereford diventarono

famosi per meriti personali i seguenti: gli scrittori Dante Troisi e Gaetano Tumiati; i pittori Alberto

Burri, Ervedo Fioravanti, Dino Gambetti; i matematici Mario Baldassare e Alfredo Tizzoni; il

musicista Mario Medici; i commediografi Giuseppe Cimento e Corrado Tavanti; i giornalisti

Vincenzo Buonassisi, Armando Boscolo, Nello Candin, Nino Mazzucato, Giosuè Ravajoli, Gabriele

Salomoni, Francesco Baghino, Beppe Pegolotti, Nino Nutrizio; i politici Nino De Totto, Roberto

Mieville, Giuseppe Niccolai, Giovanni Dello Jacovo, futuro parlamentare del PCI.

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L’aborto

Gli inglesi volevano creare un movimento antifascista chiamato Italia libera che, organizzato

militarmente, avrebbe potuto unirsi agli Alleati per liberare l’Italia. Qualcosa di simile, del resto, gli

inglesi l’avevano già creato appoggiando il generale De Gaulle che aveva fondato France Libre,

trasformandolo in un corpo volontario che aveva già combattuto in Tunisia contro i soldati italiani.

Ma France Libre era sta creata grazie al fatto che gli inglesi disponevano di un leader importante,

cioè il generale De Gaulle che, con il suo carisma, aveva radunato intorno a sé tutti i francesi liberi

che volevano la liberazione dai tedeschi. Mancava un De Gaulle italiano. L’inconsapevole

candidato era il duca Amedeo d’Aosta, il viceré d’Etiopia che dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel

1940 era rimasto isolato. Risulta infatti che nei mesi che precedettero l’offensiva inglese in Etiopia,

alcuni ufficiali inglesi, tutti agenti dei servizi segreti, ma anche tutti ex compagni di scuola del duca,

apparvero all’improvviso ai confini del paese africano ed ebbero contatti con lui. Sembra anche che,

il suo antifascismo aristocratico, nonché le aspirazioni degli Aosta al trono, qualcuno avesse

prospettato al viceré la possibilità che, a guerra finita e persa, la dinastia Savoia sarebbe andata in

rovina. Il 15 dicembre 1940, dopo che gli inglesi avevano invaso la Somalia senza avere problemi,

il viceré aveva convocato ad Addis Abeba, per avere spiegazioni, il generale Gustavo Pesenti,

governatore del paese e colpevole del disastro. Ma Pesenti, invece di difendersi, aveva

contrattaccato, mettendo le carte in tavola, cioè mettersi d’accordo con gli inglesi. Amedeo d’Aosta

aveva l’occasione di diventare un De Gaulle italiano. Ma il duca rispose con fermezza dicendo che

entrambi avrebbero meritato la fucilazione per quel discorso. Ma, il generale Pesenti non fu rimosso

dall’incarico: rimase in servizio e tornò addirittura a Roma prima della caduta dell’impero, evitando

la cattura. Non va escluso che sia stato poi l’aggravarsi delle sue condizioni di salute a far

naufragare tale progetto inglese che stava a cuore anche a Churchill, deciso a voler cacciare Vittorio

Emanuele III, conservando però la monarchia. Il generale Pesenti, tornato a Roma, non ebbe

problemi e non smise di fare intrighi. Risulta, ad esempio, che nel dicembre 1942, in sintonia con

Badoglio, trattò con i servizi segreti inglesi e con France Libre il suo trasferimento clandestino in

Algeria, con il compito di organizzare una formazione di Italia libera reclutando volontari tra i

prigionieri italiani nei campi inglesi. L’impresa fallì perché il complotto fu scoperto dal

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controspionaggio italiano e Pesenti fu arrestato in sordina, senza clamori. Il dossier che lo

riguardava è sparito dagli archivi del ministero degli Interni, come la tante altre carte

compromettenti che Badoglio fece sparire dopo il 25 luglio 1943. Il governo italiano, come ricorda

Flavio Conti nel suo libro, considerò patrioti e non traditori coloro che collaborarono con il nemico

prima dell’8 settembre e manifestò la sua soddisfazione per l’opera patriottica da essi svolta in

quegli anni difficili. Nel campo di Yol i Coman si erano divisi in vari partiti, così come succedeva

in Italia, mentre sfilavano inquadrati lungo i recinti senza guardare i badogliani, i quali facevano

altrettanto. In realtà, nonostante le apparenze, anche a Yol, come in tutti gli altri campi, si erano

formati anche tra i Non i gruppi più vari. Nel Campo 25 si è fatto ricorso al latino, ad opera del

tenente Marino Bolla, che ha messo sui tavoli della mensa degli ufficiali inglesi un’invettiva che

formava l’acronimo MURDERS, omicidi, cioè Memento Universi Romano Detestatio Exterminatio

Ruinaque Supremae, dopo l’uccisione a sangue freddo dei capitani Pio Viale ed Ercole Rossi da

parte del colonnello Wilson e del sergente maggiore Beatson. Il colonnello Carlo Ristagno diresse a

Yol corsi universitari. L’ingegnere Stefanini, un incursore della marina che diventerà direttore

dell’Oto Melara, imparò a memoria tutta la Divina Commedia. Alle dieci di sera c’era però il

blackout, tutte le luci si spegnevano e dopo la vuota giornata non veniva sonno. Gli ufficiali inglesi

snobbavano i prigionieri italiani: annoiati, taciturni, impassibili, avevano la febbre del filo spinato,

la barbed wire fever. In tutti quegli anni si erano palesati una sola volta, quando avevano cantato

per tutta la notte Rule, Britannia! Una volta alla settimana c’era il cinema, quasi sempre americano.

Si vedevano film con attrici come Shirley Temple, Deanna Durbin, Greta Garbo, ecc. La promessa

di Mussolini del 1942, che a primavera sarebbe venuto il bello, era caduta a El Alamein, poi i

tedeschi avevano perso a Stalingrado, ma Hitler non era come Mussolini. Poi, nei discorsi tra

prigionieri fascisti, c’era la famigerata arma segreta tedesca che era un mistero. Qualcuno si

appellava alla leggendaria arma segreta che Marconi aveva consegnato a Mussolini prima di morire.

Altri si affidavano alla promessa di apocalisse hitleriana. Ma lo scoramento era la realtà. Firmare la

scheda di adesione I promise era ancora possibile.

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Fuga

Il primo tentativo, il più famoso perché ne parlò anche la stampa, fu quello compiuto nell’aprile

1941 dal capitano Compagnoni, prigioniero in un campo della Palestina. All’alba arrivò il momento

propizio e Compagnoni, a forza di gomiti, spingendo avanti il fagotto, passò il recinto e si nascose

in un boschetto. Un poliziotto inglese, a Tel Aviv, sospettò dello sconosciuto con un pacco di

stracci, legato con una cordicella bianca e lo riconobbe perché era identica a quelle usate per le

tende militari inglesi. La fuga di Compagnoni si concluse lì. Col passare del tempo e con

l’evoluzione del conflitto, le fughe dai campi di prigionia scemarono. L’ultima si ebbe a Yol a

luglio 1943. Due tenenti dalle generalità incerte, sorpresi mentre cercavano di fuggire, furono uccisi

a colpi di pistola da un caporale inglese. Non scemarono invece le fughe dai Fascist Criminal

Camps dove, infatti, proseguirono, anche dopo la fine della guerra. Di una di queste fu protagonista

il ventenne guardiamarina Luigi Montalbetti. Era stato ripescato nell’Atlantico con altri naufraghi

del suo sommergibile da una nave corsara tedesca, il Burgenland, che proveniva da Singapore con

un carico di gomma destinato a Bordeaux. Sfortuna volle che lo stesso Burgenland fosse poi

attaccato dal cacciatorpediniere Wilson dell’US Navy e che il comandante tedesco, invece di

arrendersi, preferisse autoaffondarsi. Fu portato a Hereford. Dopo qualche mese, quando si ritenne

capace di poter marciare lungo il Texas, Montalbetti mise in atto la sua fuga dopo aver elaborato un

piano originale. Saltò con l’asta il recinto che separava gli ufficiali dai militari di truppa.

Nascondersi tra loro non fu difficile: i carcerieri si curavano più delle assenze che delle presenze e

in quel momento davano tutti la caccia a Montalbetti all’esterno dei campi. Dopo qualche settimana,

il prigioniero rimescolò ai marinai che uscivano a gruppi di 80, per andare a lavorare nelle fattorie.

Quella mattina gli uscenti erano 81, ma il guardiano non se ne avvide, grazie ad un marinaio

napoletano che, mentre lui contava, lo distrasse cantando ‘O sole mio. Il gruppo fu poi trasferito sul

luogo di lavoro in un enorme campo di mais e per tutto il giorno Montalbetti raccolse pannocchie,

dopo di che si nascose tra i covoni e aspettò che i suoi compagni salissero sui camion per tornare al

campo. Fuggì quando cantarono Il tamburo della banda d’Affori. Per giorni Montalbetti percorse il

Texas, dove c’è una fattoria ogni quaranta o cinquanta chilometri, tra praterie enormi, mandrie

selvagge e cowboy. Fu anche fortunato a trovare un fattore che aveva combattuto in Francia durante

la Grande guerra, che lo ospitò per un mese assumendolo come bracciante. In un’altra fattoria trovò

una bella bionda che gli chiese se le ragazze di Foggia erano belle, perché lì c’era il suo fidanzato.

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Di fattoria in fattoria, il francese, perché così si spacciava, giunse a Pecos e poi a El Paso dove finì

la sua avventura per un banale incidente. A uno sceriffo sospettoso, Montalbetti, aveva dato false

generalità dicendo di essere sbarcato a New Orleans dal vaporetto Edison il 5 marzo 1944. La nave

era sbagliata. Lui vi era sbarcato con la Weserland, un’unità che trasportava prigionieri di guerra

italiani e tedeschi, ma aveva mentito, temendo di insospettire lo sceriffo. Lo sceriffo era però molto

pignolo, fece un controllo e scoprì che l’Edison esisteva davvero, ma che era stata affondata da un

sommergibile tedesco nel 1941. La fuga era finita. Montalbetti tornò tristemente a Hereford dove il

colonnello Joseph Carwolth, comandante del campo, si congratulò con lui per l’impresa e volle

sapere come aveva fatto. Lui disse di essere campione di salto con l’asta. Montalbetti scontò la fuga

con i 28 giorni di arresto secondo le regole ginevrine. Le altre fughe a Hereford fallirono. Andò così

per il colonnello Mariconda, il capitano Agonigi, il capitano Ghisi, il tenente Pandolfini e il tenente

Armenia. Tentarono la fuga anche i capitani Brighenti e Salomone, il tenente di vascello Masina e il

tenente Ottone Sponza. Quest’ultimo, grazie all’aiuto di alcuni parà della Nembo, era riuscito ad

impossessarsi di un bombardiere Blenheim, ma quando stava per decollare un motore si inceppò e

la fuga fallì. I quattro si nascosero in un treno merci. Sfortuna volle che il freddo delle Montagne

Rocciose li mettesse in difficoltà provocando a Sponza dei principi di congelamento che lo

costrinsero a consegnarsi alla polizia. Un tentativo che, se fosse riuscito, avrebbe ottenuto esiti

memorabili fu quello cui partecipò anche il generale Scattaglia, il più alto in grado a Hereford.

Scattaglia era uno dei due generali che rifiutarono di collaborare. L’altro, il generale Bergonzoli,

ebbe la stessa sorte che toccò in Italia al poeta americano Ezra Pound, che si dichiarò fascista. Fu

dichiarato pazzo. Scattaglia, con i subalterni Munizzi, Della Casa, Belardo, Parente, Turrini e altri,

voleva fuggire lungo un tunnel che, partendo da sotto la branda del tenente Munizzi, doveva poi

sboccare oltre il reticolato. Furono scoperti. L’ultimo tentativo di fuga fu del sottotenente Busia, nel

novembre 1945, a guerra finita e con i rimpatri imminenti. Il tentativo più incredibile fu compiuto a

Yol a 1200 metri di quota. Ne furono protagonisti il tenente di vascello Camillo Milesi Ferretti,

comandante del sommergibile Berillo, il capitano delle armi navali Elios Toschi e il tenente di

vascello Luigi Faggioni. Lo stesso Toschi racconterà la sua avventura nell’autobiografia In fuga

oltre l’Himalaya. Milesi e Toschi erano due vecchi camerati che avevano già tentato altre volte la

fuga: prima da Geneifa e poi dalla stessa Yol, da dove avevano raggiunto Bombay sperando di

potersi rifugiare nell’ambasciata giapponese. Finalmente i due amici, cui si era unito Faggioni,

fecero il colpo grosso. Travestiti da indiani e pratichi del urdu, i tre fuggitivi vissero un paio di mesi

con i pastori locali, dormendo in capanne e mangiando rane. I tre litigarono. Milesi, infatti, decise di

abbandonare i compagni per andare verso Goa, la colonia portoghese neutrale. I due trovarono

riparo presso un indù ma la combinarono grossa. Gli fecero mangiare carne di vacca. Gli sforzi di

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Faggioni per persuadere l’ospite non furono fruttuosi e furono cacciati di casa. Infine, non solo la

guida indù, per non compromettersi, era fuggita, ma anche i musulmani locali erano venuti a

conoscenza della loro situazione e della taglia di cinquanta rupie: qualcuno avvertì la polizia e i due

dovettero vedersela con un barbuto ispettore che li arrestò e li rimandò a Yol. In Italia, lo spezzino

Faggioni era stato decorato con la medaglia d’oro alla memoria per un’impresa compiuta il 26

marzo 1941 a Suda, a Creta, dove aveva affondato un incrociatore inglese, gettandosi contro di esso

con un barchino esplosivo. I barchini erano dei mezzi d’assalto, insidiosi come i maiali, usati dagli

incursori della Decima MAS comandata dal principe Valerio Borghese. Il rischio era così grande

che la medaglia a Faggioni era stata data alla memoria, perché in patria si escludeva che lui si fosse

salvato. Toschi,invece, fu informato che il 23 aprile 1942, pochi giorni dopo la loro partenza,

Churchill aveva rivelato al Parlamento inglese che gli incursori della marina italiana, dopo aver

violato il porto di Alessandria, avevano colpito duramente la Mediterranean Fleet, usando dei siluri

umani dal funzionamento misterioso. Persino in Italia l’annuncio di Churchill aveva destato stupore

perché non era ancora conosciuto l’esito di tale impresa straordinaria, essendo stati catturati tutti i

suoi protagonisti. Toschi non tardò a capire che quegli oggetti misteriosi menzionati da Churchill

erano i maiali che lui stesso aveva creato con Tesei. Ribelle e stanco della prigionia, Toschi ritentò

la fuga da Yol qualche mese dopo, con il tenente di vascello Mario Anastasio. Stavolta ebbe fortuna

e dopo una serie di avventure riuscì a raggiungere Goa, dove Milesi Ferretti lo aveva preceduto

dopo essersi staccato dai compagni nel tentativo di fuga precedente. La Domenica del Corriere

dedicò una pagina a colori, disegnata da Achille Beltrame, che raffigurava tre soldati italiani in

divisa coloniale, intenti a conficcare su una vetta rocciosa un palo sul quale sventolava il tricolore.

Erano Felice Benuzzi, triestino, Giovanni Balletto, genovese e Vincenzo Barsotti, viareggino, tre

ufficiali coloniali, catturati in Etiopia e detenuti nel 354 POW Camp del Kenya. Le informazioni

più utili per l’impresa, sia climatiche che geografiche, furono desunte da un libro scritto anni prima

da un missionario italiano, padre Costanzo Cagnolo, della missione della Santissima Consolata, che

si vantava di aver posizionato una croce dedicata a Pio XI sopra i 4000 metri. Padre Cagnolo aveva

compiuto l’escursione a gennaio e i tre aspiranti scalatori attesero pazientemente quel mese. Il

territorio che volevano percorrere non destava preoccupazioni perché i kikuyu erano tranquilli e non

c’era da curarsi delle belve feroci: tranne elefanti e rinoceronti, i leoni e i leopardi erano assenti

dalla montagna poiché si nutrivano di antilopi che pascolano in pianura. Oltre allo zaino, Benuzzi

portò anche un tricolore, avvolgendoselo alla vita per usarlo in caso di riuscita. Solo altri tre

prigionieri italiani tentarono di ripetere l’impresa di Benuzzi, Balletto e Barsotti, ma furono respinti,

sotto la cresta di uno strapiombo di ghiaccio, da una tempesta. Cinque prigionieri, poi, nel maggio

1942, tentarono l’impresa. Quattro di loro si impiccarono per la disperazione. Il quinto, Onesto

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Tossi, fu salvato da un pastore. Fu lo stesso Tossi a raccontare la sua avventura a The Sunday Post,

il quotidiano di Nairobi. Dopo l’8 settembre le fughe dai campi dei cooperatori finirono, ma non nel

campo di Londiani, dove erano detenuti i Non. I tenenti Aldo Bai e Amedeo Costatino, travestiti da

arabi, tentarono la fuga cinque o sei volte e, scontata la punizione, ci riprovavano. Il tenente pilota

Funai, dopo l’ennesima cattura, all’ufficiale inglese che lo rimproverava rispose che in 48 ore

sarebbe riscappato e mantenne la parola. I tenenti Favilla e Porqueddu, ufficiali dei Cavalieri di

Neghelli, in uniforme con stivali e speroni, rubarono i cavalli del colonnello comandante del campo

sperando di arrivare chissà dove. Un’altra fuga fu quella del centurione Ferretti, portata avanti con

due prigionieri tedeschi. Memorabile fu anche la fuga del tenente di vascello Tommasuolo dal

campo di Geneifa. Si travestì da ufficiale medico. Ancora più leggendario il tentativo realizzato dal

tenente di cavalleria Amedeo Guillet. Riorganizzò i suoi ascari e fece la guerriglia agli inglesi e

rientrò alla fine in patria. Andò male invece al maggiore Nino Pasti che, fuggito dal campo di

Eldoret, in Kenya, nascosto su un treno merci, attraversò l’Uganda e il Congo Belga. Fu catturato. Il

più clamoroso tentativo di fuga dai campi di prigionia in Inghilterra fu quello dell’ufficiale Fiorenzo

Capriotti, medaglia d’oro dei mezzi d’assalto della marina. Capriotti coinvolse nel tentativo quattro

colleghi piloti e cinque marinai dei mezzi d’assalto. Tentarono di scavare un tunnel ma sbagliarono

i calcoli e furono poi catturati.

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Gli irriducibili

Hereford, prima dell’8 settembre, era popolato di prigionieri italiani promiscui, Coman e

Noncoman, ma dopo l’armistizio gli americani avevano deciso di mettervi solo quelli che

rifiutavano di collaborare. A Corsaro, in Arizona, furono trasferiti gli irriducibili che non foseero

ufficiali o sottufficiali. I mille di Corsaro, come furono chiamati, resistettero alle lusinghe e alle

repressioni cui furono sottoposti, incoraggiati dal loro cappellano, padre Daniele del Sasso, che era

la guida morale del gruppo. I Non prigionieri in America erano, all’incirca, il dieci per cento su

circa cinquantamila prigionieri italiani presenti. Nazzareno Scattaglia, eroico comandante della

divisione Pavia annientata dagli inglesi a El Alamein e Annibale Bergonzoli, comandante del

ventitreesimo corpo d’Armata, travolto dalla prima controffensiva inglese si erano rifiutati di

firmare la scheda di adesione. La decisione di mettere solo gli irriducibili a Hereford era stata presa

dagli americani dopo una tremenda scazzottata fra Coman e Noncoman che si era verificata a

Hereford il 28 ottobre 1943, nel primo anniversario della marcia su Roma dopo il crollo del regime

fascista. A Hereford le mazze da baseball erano adoperate spesso per punire i prigionieri, ma ciò

accadeva anche nei campi dei Coman, dove c’erano le stesse condizioni. Ovviamente, era proibito

cantare Giovinezza, gridare “viva il duce” e così via, ma non erano proibite le altre espressioni di

stile fascista. Ai Non gli americani avevano concesso lo stesso trattamento dei prigionieri di guerra

tedeschi e di tale similitudine qualcuno era fiero. Tra i nuovi arrivati a Hereford c’erano gli studenti

Alessandro Tognoloni e Leonardo Ortelli, entrambi del battaglione Barbarigo. Arrivò anche un

gruppo di sommergibilisti naufraghi del Cappellini, che erano stati protagonisti di una strabiliante

avventura. Il Cappellini, comandato dal tenente di vascello Walter Auconi, con altri due

sommergibili della Regia Marina, erano salpati da Bordeaux il 15 luglio 1943, con un carico di

mercurio e chinino destinato ai giapponesi della base di Singapore. I giapponesi non erano

chiaramente più loro alleati quando arrivarono. Gli fu chiesto se stessero con il duce o il re. I

comandanti degli altri due sommergibili si erano dichiarati fedeli al re e in seguito furono

rimpatriati con una nave ospedale, mentre il comandante Auconi e tutti e tre gli equipaggi avevano

aderito alla RSI. Dopo di allora, i tre sommergibili, ribattezzati U-It.23, U-It.24 e U-It.25, avevano

continuato la guerra nel Pacifico con un equipaggio misto italo-tedesco. Il Giuliani, ora U-It.23, era

stato affondato nel Canale di Malacca il 14 febbraio 1944 da un sottomarino americano, gli altri due

avevano continuato a operare con i tedeschi fino all’8 maggio 1945, quando la Germania si arrese.

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Ma se la guerra era finita in Europa, il Giappone continuava a combattere e i due battelli, ancora

efficienti, erano stati incorporati nella marina giapponese con la sigla J.504 il Torelli e J.505 il

Cappellini, con un equipaggio misto italo-giapponese. Successivamente, il Torelli era stato

affondato nel Pacifico da un cacciatorpediniere americano. Tra i naufraghi c’era anche il

guardiamarina Montalbetti del quale abbiamo già descritto la fuga da Hereford. Il Cappellini aveva

partecipato ad altre operazioni di guerra fino ai giorni di Hiroshima e alla resa del Giappone del 2

settembre 1945. A Hereford si stava abbastanza bene. Poi la musica cambiò e fu fame. Fame nella

ricca America, ma ciò successe per le pressioni della stampa, che aveva denunciato il pessimo

trattamento che i tedeschi riservavano ai prigionieri alleati. La ritorsione fu durissima e per i Non

italiani l’essere equiparati ai prigionieri tedeschi non fu più qualcosa di cui essere fieri. Ci fu un

incendio a Hereford. Forse appiccato ad arte da alcuni soldati americani per depistare le indagini su

alcuni furti da loro stessi perpetrati. Era forse la versione giusta, ma sta di fatto che con tale scusa

un tenente italoamericano di nome Russo organizzò una spedizione punitiva contro i prigionieri

italiani, prendendoli nel sonno con le mazze da baseball. Il generale Scattaglia, diventato la guida

morale dei POW di Hereford, essendo il più alto in grado, si sforzò per mantenere la compattezza

degli uomini. Il giornale più letto era “Il Poviere”. Era redatto dal capitano Cellentani e dai tenenti

Lelio Attanasio e Giovanni Rizzoni. Il tenente Rizzoni ebbe anche l’idea di creare dei quaderni,

cioè dei fascicoli o riviste specializzate, scritte a mano. La più diffusa era “Argomenti”, periodico

letterario e politico diretto dal capitano Giosuè Ravajoli, un giornalista romagnolo non fascista.

Ravajoli era infatti il leader dei collettivisti, il quale, come altri suoi compagni, dopo essere tornato

in patria diventerà comunista, essendone poi espulso per estremismo di sinistra. “Argomenti” era

molto ricercata nel campo per i suoi contenuti, ma anche per la presenza di tre firme destinate a

diventare famose: quelle di Giuseppe Berto, di Dante Troisi e di Gaetano Tumiati. Berto,

ventottenne di Mogliano Veneto, ufficiale della milizia, aveva partecipato come volontario alla

guerra d’Abissinia e alla seconda guerra mondiale. Su “Argomenti”, Berto dissacrava gli autori

classici e, da lettore di Hemingway e Steinbeck, scriveva racconti in stile americano. Aveva

intitolato il suo primo romanzo La perduta gente e durante la stesura lo leggeva ai suoi amici

prigionieri. In quel libro, Berto, seppe descrivere cosa stava accadendo in Italia e nella sua città: i

bombardamenti, la fame, la miseria, la disperazione, l’amore e la rabbia. Tornato in patria, Berto

presentò il suo manoscritto a Leo Longanesi, che lo giudicò un capolavoro. Gli propose però un

titolo diverso: Il cielo è rosso in riferimento al colore del cielo del Texas durante i tifoni. Il cielo è

rosso è stato il primo best seller del dopoguerra, eccetto, ovviamente, a Cristo si è fermato a Eboli

di Carlo Levi. Con la differenza che essendo Levi, diversamente da Berto, un noto antifascista,

incontrò una critica più favorevole. Il cielo è rosso non vinse premi letterari, ma fu tradotto in

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dodici lingue, persino nella Cina di Mao e vendette milioni di copie. Successivamente Berto scrisse

molti altri libri di successo, tuttavia la sua pecca di irriducibile lo marchiò a vita. Tumiati, classe

1918, ferrarese, sottotenente carrista decorato al valor militare e fratello di un partigiano ucciso dai

tedeschi, dopo il rimpatrio diventò un famoso giornalista. Socialista, editorialista dell’Avanti!,

collaboratore del Corriere della Sera, della Stampa e vicedirettore di Panorama, vincitore di un

Premio Campiello con Il busto di gesso, scrisse altri libri, come Prigionieri nel Texas, nonché

Questione di statura, il racconto autobiografico di un ragazzo cresciuto troppo in altezza e costretto

a fare la guerra infilato scomodamente nei piccoli carri armati italiani definiti scatole di sardine.

Troisi, classe 1920, avellinese, sottotenente di fanteria, a Hereford apparteneva al gruppo degli

intellettuali, con Berto, Tumiati, Burri, Fioravanti, Bevilacqua, Feligetti, Ravajoli, Baldassari,

Rizzoni, ecc. Da magistrato, Troisi scrisse vari libri, uno dei quali, Diario di un giudice, fece

scalpore, perché descriveva i dubbi, gli errori, le debolezze e le pigrizie della magistratura

immobilistica. Per tale libro irriverente, Troisi fu anche sottoposto a procedimento disciplinare dal

CSM e censurato, nonostante la difesa di Galante Garrone.

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Banzai!

C’era una volta in America anche un altro Fascist Criminal Camp di cui non si è mai parlato forse

perché, diversamente da quello di Hereford, tra i cinquemila prigionieri detenuti non c’erano

letterati come Berto, pittori come Burri o giornalisti come Tumiati, Buonassisi, Boscolo e Nutrizio

che, con la loro notorietà, gli avrebbero dato visibilità. A Seattle i prigionieri italiani si erano

ribellati al trasferimento nelle Hawaii e, capeggiati da padre Mario Salsa, un ex ufficiale degli arditi

diventato cappellano, erano passati ai fatti, tanto da rendere necessario l’intervento della polizia che,

con manganelli e getti di acqua gelata, aveva sedato la rivolta. Tutto questo non aveva provocato

ravvedimenti: il governo americano aveva ignorato la rivolta e i prigionieri erano stati imbarcati e

inviati a Honolulu, mentre padre Salsa fu denunciato al vescovo cattolico della diocesi locale, che lo

sospese a divinis. Nell’estate 1944 i Non italiani erano stati divisi in due gruppi: i militari del Regio

Esercito catturati prima dell’8 settembre e i soldati dell’esercito della RSI. Il comandante del campo

era il colonnello americano Howell che, avendo sposato una fiorentina, parlava italiano. Il gruppo

dirigente dei prigionieri italiani era composto da alcuni ufficiali di cui si conoscono solo i cognomi:

Martinuzzi, Martucci, Della Casa, Gatti, Enrico, Stupenengo, Martinetti, Bini e Dogliotti. Il campo

confinava con quello destinato ai prigionieri giapponesi. Ogni sera i giapponesi si mettevano nella

parte più alta del campo per cantare l’inno nazionale, poi pregavano per l’imperatore Hirohito

inchinandosi con rispetto ogni volta che era pronunciato il suo nome. Da parte loro gli italiani, che

si mettevano nella parte più alta del loro campo, un punto dal quale si poteva assistere alla

cerimonia giapponese, quando i giapponesi finivano di cantare rispondevano con Giovinezza o con

altri inni, concludendo la serata con il saluto romano. I giapponesi dicevano “Italia Banzai!” e gli

italiani rispondevano “Nippon Banzai!”. I giapponesi erano di meno. I sopravvissuti, infatti, si

vergognavano della loro umiliante condizione, cosicché i tardivi harakiri erano molto frequenti

come i tentativi di fuga. C’erano anche coreani nel campo dei giapponesi. I coreani erano stati

invitati a collaborare con gli Alleati con appelli, opuscoli e giornali. Con la differenza che gli

appelli, invece di essere firmati da Badoglio, lo erano da Syngman Rhee, il capo della resistenza

antigiapponese, che governerà la Corea del Sud dopo la divisione del paese tra Stati Uniti e Unione

Sovietica. Radio Tokyo trasmetteva anche un notiziario in lingua italiana gestito dai diplomatici

della RSI. Cominciava con Giovinezza e dava notizie sugli eventi italiani, permettendo ai prigionieri

di verificare l’attendibilità dei comunicati diffusi dai media americani. Lo speaker era il colonnello

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Principini, di cui non si sa molto. Tale radio clandestina funzionò per molto tempo nel Fascist

Criminal Camp delle Hawaii, ma fu scoperta e soppressa dal colonnello Howell, che punì

duramente i membri dell’improvvisata redazione. Erano i tenenti Martucci, Rivenni, Lubrano e

Lovadino, che furono anche trovati in possesso di materiale propagandistico italiano e giapponese.

Per tale reato, il colonnello Howell minacciò di deferirli con l’accusa di tradimento a una corte

marziale italiana dopo il rimpatrio. In precedenza, quando avevano iniziato rimpatriare gli

irriducibili di Hereford e le autorità erano andate ad accoglierli con la banda che suonava l’Inno di

Mameli, i reduci non si erano neppure alzati in piedi e le note erano state accolte con fischi.

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A casa

In mano inglese c’erano 398000 prigionieri italiani, tra l’Inghilterra e il Commonwealth; 125000

erano in mano americana, di cui 51000 negli USA e gli altri in Nordafrica. Altri 38000 erano in

mano francese ai quali, tra l’altro, non era stata data la possibilità di scegliere, cosicché dovrebbero

figurare tra i Non. Nel gennaio 1944 gli italiani in mano inglese, nel Commonwealth, erano 37000.

Analogamente negli USA dove i Non si ridussero a 4800. Nell’ultimo anno di guerra i Non

detenutinei campi anglo-americani erano circa 100000, cui vanno aggiunti anche i 30-40 mila

prigionieri in mano francese. Togliatti, segretario del PCI, fece il possibile per ritardare il ritorno

degli italiani dalla Russia ma, inspiegabilmente, Mosca li rimpatriò, anticipando di molto gli

Alleati. I monarchici, stretti intorno al trono traballante di Umberto II, trattavano segretamente con

gli inglesi, favorevoli alla monarchia, per far ritardare i rimpatri di quei prigionieri repubblicani

segnalati nelle liste azzurre fornite dai prigionieri filomonarchici. Insomma, l’unico a reclamare il

ritorno dei reduci era il movimento dell’Uomo Qualunque fondato da Guglielmo Giannini, che

infatti raccoglierà molti voti tra i reduci, i nostalgici e gli scontenti. De Gasperi era preoccupato per

l’orientamento politico dei prigionieri. Capitava che i reduci fossero accolti da un picchetto di

militari con una strana divisa che suscitava risate e commenti ironici tra loro, nonché da una banda

militare che suonava una fischiatissima Marcia Reale prima del referendum e poi un improvvisato

Inno di Mameli diventato l’inno nazionale provvisorio della Repubblica appena nata. Anche i Non

giunsero a scaglioni. Il picchetto d’accoglienza era deriso, gli ufficiali sbeffeggiati e lo sconosciuto

Inno di Mameli fischiato, mentre da una parte si gridava traditori e dall’altra fascisti, con saluti

romani e pugni chiusi. Sperando di calmare le acque, la banda aveva sostituito l’inno nazionale con

la Canzone del Piave, ma era inutile: le urla erano proseguite finché l’accoglienza musicale fu

abolita e il picchetto ritirato. Nel 1952, dopo essersi laureato in chimica, a ventisei anni, Mario

Tavella fu chiamato alle armi per la leva obbligatoria dato che la leva nella RSI non valeva. Gli

ufficiali non cooperatori furono convocati a Roma per essere interrogati da una commissione

militare composta da un colonnello, un maggiore e un capitano che, come racconta Tumiati,

volevano sapere come e perché si fossero arresi, se avessero fatto fino all’ultimo il proprio dovere,

se, prima di arrendersi, avessero distrutto cannoni e fucili, sorvolando però sui motivi per cui

avevano rifiutato di collaborare.

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Modernità

Umanesimo e modernità

I grandi filosofi, Platone e Aristotele, e i due millenni dell’era cristiana che il messaggio di salvezza

cristiano ha forgiato grazie agli strumenti concettuali della filosofia greca, hanno formato la storia

del pensiero occidentale. Pascal, animo preoccupato e sensibile, ha celebrato l’impeto intuitivo della

conoscenza umana come strumento del nuovo spirito scientifico. Isaac Newton, colui che

perfezionò il metodo galileiano, fu un teologo che in quanto tale seppe inserire la sua nuova

conoscenza della natura nella concezione cristiana del mondo. Rousseau fu la voce della critica

culturale alla società e trovò adesioni in particolare nella gioventù tedesca nel periodo

rivoluzionario. L’universo teologico, arrivato con il superamento socratico della crisi sofistica a

intendere per la prima volta in modo unitario fisica e metafisica secondo il contributo di Aristotele,

fu sostituito nel XVII secolo con un tipo di filosofia per la quale l’universo è tecnologico. Tecnica

in senso moderno ci fu anche nell’antichità con Archimede. Galileo con una caricatura perfetta della

scolastica della conoscenza racconta che il suo assistente dall’eloquente nome di Simplicio si rifiuta

di guardare attraverso il cannocchiale e il microscopio. Goethe invece ancora diffidava degli

strumenti tecnologici come protesi delle percezioni naturali e fu polemico contro la teoria dei colori

di Newton. Il trasporto con il quale un fisico odierno parla della semplicità delle equazioni di

Maxwell o delle equazioni simmetriche dell’interpretazione di Copenaghen della fisica quantistica

può indirettamente confermare che si sia preservato qualcosa della tradizione pitagorica e

dell’ideale greco teoretico, anche se nella scienza naturale moderna la funzione matematica è

diventata solo strumentale. Si ricerca un equilibrio tra la tecnologia e le forze stabilizzatrici della

società in cui si vive. Concetto quest’ultimo sviluppato da una parola molto esplicativa, creata e

introdotta per la prima volta dalla fenomenologia di Husserl: Lebenswelt, mondo in cui l’uomo vive.

In relazione a questo si deve vedere anche Kant e la sua posizione fondamentale nella filosofia

moderna, proprio perché egli ha gettato le basi dell’equilibrio tra l’illuminismo scientifico e il

mondo etico del fare umano, e perché, così facendo, ha dato legittimità alla metafisica umanistico-

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cristiana. Né si può negare che l’idealismo tedesco, soprattutto con Fichte e Hegel, sia andato nella

stessa direzione. Tuttavia l’autorità, che in particolare Kant ebbe anche nei secoli XIX e XX, non fu

mai in relazione effettiva con il mondo in cui l’uomo vive e la sua indipendenza. Il particolare

avvicendamento che si ebbe con Schopenhauer dopo Kant forse ha influenzato il dissidio moderno

tra determinismo e indeterminismo. Una lunga serie di pensatori che comincia con Rousseau e,

attraverso Kant ed il romanticismo tedesco, arriva ai sogni di conoscenza di Novalis e alla scoperta

del mitico mago Merlino, rappresenta la critica al determinismo moderno. Così sorse una tradizione

di critica culturale. Ne furono rappresentanti Jakob Burkhardt e Friedrich Nietzsche che la diffusero

ai posteri. Nel mondo moderno la coscienza si evolve continuamente, è sempre in divenire. Così se

ancora pochi decenni fa, mentre la diffusione dell’energia nucleare e la minaccia della guerra

atomica erano presenti, si parlava con serenità di età atomica, allo stesso tempo si è cominciato a

parlare di età digitale nella convinzione che con tali nuovi strumenti di comunicazione sarebbero

mutati gli stili di vita e i rapporti esistenziali tra gli uomini. Dopo la seconda guerra mondiale, per la

prima volta, nella nuova rivoluzione tecnologica, fu introdotto il concetto di qualità della vita. Sulle

prime esso sembrò un retaggio umanistico dell’ammonimento socratico ai suoi concittadini quando

ricordava loro che non si tratta di vivere, quanto piuttosto di vivere bene, eu zen. Solo alla lontana,

in realtà, quando si considera il concetto socratico del vivere bene, si avverte qualcosa che ci dice

che la bontà della vita non sta nel progresso crescente degli stili di vita ma in qualcos’altro, si

avverte tutto questo in modo tale che la coscienza dovrebbe essere innalzata a una distanza critica

rispetto al cammino della cultura. La disumanizzazione delle relazioni umane che si stabilisce negli

automatismi degli apparati che curano la nostra esistenza, ci rende consci del fatto che la fine

dell’eredità umanistica e dell’umanità tra gli uomini è il grande interrogativo sul progresso.

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Bibliografia

LUCIANO CANFORA, 1914, Sellerio, Palermo, 2006

ARRIGO PETACCO, Quelli che dissero no. 8 settembre 1943: la scelta degli italiani nei campi di

prigionia inglesi e americani, Mondatori, Milano, 2011

HANS-GEORG GADAMER, La filosofia nella crisi del moderno, a cura di G. FIGAL e H.

SCHWILK, Herrenhaus, Seregno, 2000

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Indice

Momenti d’anteguerra pp. 1-32

La prigionia degli italiani pp. 33-59

Modernità pp. 61-62

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