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Le frontiere dell’educazione

Ambienti Di Apprendimento Per La Formazione Continua

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Strategie di apprendimento e riferimenti concettuali per il Life Long Learning

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Le frontiere dell’educazione

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© 2013 Guaraldi srlSede legale, direzione, redazione, magazzino:via Novella, 15, 47922 RiminiTel. 0541/742974 - 742497Fax. 0541/742305www.guaraldi.ite-mail: [email protected]

Grafica: Noël Bessah

Isbn carta 978-88-8049-830-8Isbn pdf 978-88-8049-831-5

Il Libro è corredato di un CD - Progettare formazione continua. Ipertesto per la flessibilità cognitiva - non cedibile separatamente dall’opera cartacea.Per la versione eBook il contenuto del CD è scaricabile come allegato integrante l’opera.

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A cura diGiovanni Marconato

ambIentI dI apprendImento

per la formazIone contInua

Materiali di lavoro del progetto FSE “Modelli organizzativi e didattici per il LLL”

Introduzioni diAndrea Bullara e Peter Litturi

Contributi diGiovanni Bonaiuti, Andrea Bullara,

Francesco Di Cerbo, Enzo Del Fatto, Gabriella Dodero,

Antonio Fini, Peter Litturi, Giovanni MarconatoMarco Perini, Beate Weyland

Guaraldi

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Dedichiamo questo lavoro a David Jonassen che per noi tutti

è stato un ispiratore, un mestro ed un amico

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IndIce - InhaltsverzeIchnIs

premessa .....................................................................11vorwort .....................................................................11Christian Tommasini, Franco Russo

presentazIone ............................................................15vorstellung ...............................................................21Peter Litturi, Giovanni Marconato

IntroduzIone .............................................................27La Formazione continua come elemento moderatore tra le diverse e mutevoli esigenze della società, delle imprese e degli individuieInführung

Die berufliche Weiterbildung als Vermittlung und Ausgleich zwischen den unterschiedlichen und wechselhaften Erfordernissen der Gesellschaft, der Unternehmen und der Individuen am Beispiel SüdtirolAndrea Bullara e Marco Perini

parte prIma

Le strategie DidatticheDIe lehr- unD lernstrategIen ........................................41

Ask System .................................................................43Giovanni Marconato

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Cognitive Flexibility HyperextsIpertesti per la flessibilità cognitivahypertexte zur kognItIven flexIbIlItät ...................43Giovanni Marconato

Ambienti di apprendimento orientati al problem solvingauf problemlösung ausgerIchtete lernumgebungen ........................................................79Beate Weyland

Attività di ApprendimentolernaktIvItäten .........................................................96Giovanni Marconato

Action Learning .........................................................114Vincenzo Del Fatto, Francesco di Cerbo e Gabriella Dodero

Circoli di apprendimentolernkreIse ...................................................................136Antonio Fini

Comunità e Network di pratichegemeInschaften unD netzwerke für DI berufspraxIs .....................................................155Antonio Fini

Database di storie professionaliDatabase für berufsbIographIen ...............................180Giovanni Marconato

Portali professionaliberufsportale .............................................................194Giovanni Marconato

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Supporto on-line ed estensione della formazione in aula on-lIne unterstützung unD extensIoneD .................202Giovanni Marconato

Electronic Performance Support System ..................212Vincenzo Del Fatto, Francesco di Cerbo e Gabriella Dodero

e-Learning - Distribuzione di contenutiverteIlung unD Inhalte .............................................230Giovanni Marconato

Apprendimento autodirettoselbstorganIsIertes lernen ........................................250Beate Weyland

Consulenza sistemicasystemIsche beratung ................................................263Beate Weyland

seconda parte

I modelli concettualikonzepte ..........................................................................277

Ambiente di apprendimentolernumgebung ............................................................279Giovanni Marconato

Apprendimento significativobeDeutsames lernen ...................................................289Giovanni Bonaiuti

Cognizione distribuitaverteIltes wIssen .......................................................305Giovanni Bonaiuti

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Problem Solving .........................................................316Beate Weyland

Apprendimento situatosItuIertes lernen .......................................................332Giovanni Bonaiuti

Case-based Reasoning ................................................343Giovanni Marconato

Case-based Learning ..................................................354Giovanni Marconato

Apprendimento nel processo di lavorolernen Im prozess Der arbeIt ....................................365Giovanni Marconato

Apprendimento espansivoexpansIves lernen ......................................................385Beate Weyland

parte terza

I riferimenti concettuali ed operativibegrIfflIcher unD hanDlung leItenDer bezugsrahmen .................................................395

Apprendere dall’esperienzaerfahrungslernen ......................................................397Giovanni Marconato

Apprendimento autogestito/Self-Directed LearningselbstorganIsIertes lernen ........................................402Giovanni Marconato

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Compiti autenticiechte lern- bzw. arbeItsaufgaben ............................413Giovanni Marconato

ComportamentismobehavIourIsmus ...........................................................417Giovanni Bonaiuti

ConnettivismokonnektIvIsmus socIal networkIng ...........................427Giovanni Marconato

ContenutifachInhalte unD prozesse ..........................................432Giovanni Marconato

CostruttivismokonstruktIvIsmus ........................................................437Giovanni Marconato

Expertise .....................................................................443Giovanni Marconato

Apprendimento naturalenatürlIches lernen ...................................................450Giovanni Marconato

Obiettivi di apprendimento e tassonomie della conoscenzalernzIele unD wIssenstaxonomIen ............................457Giovanni Marconato

Pratica riflessivareflexIve praxIs ........................................................465Giovanni Marconato

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Task Analysis e Cognitive Task Analysis....................468Giovanni Marconato

appendIce ........................................................................481

La Formazione Professionale della Provincia Autonoma di Bolzano ed il Servizio di formazione continua sul LavoroarbeItsgruppe zur förDerung Des leben begleItenDen beruflIchen lernens In süDtIrol….. ...483

Il Gruppo tecnico provinciale per la promozione dell’apprendimento professionale nella prospettiva del Life Long LearningbIlDung unD zIelsetzungen Der arbeItsgruppe .........490

GlI autorI del proGetto fse“modellI orGanIzzatIvI e dIdattIcI per Il lll” .....493

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13Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Premessa

La formazione continua sul lavoro si caratterizza per fo-calizzare la propria attenzio-ne sugli aspetti economico produttivi dei processi di qualificazione delle perso-ne. Ciò non significa che si debba considerare la forma-zione una merce che si può progettare, produrre e ven-dere.La formazione è invece un processo altamente coope-rativo.L’offerta formativa concre-tizza le proprie finalità solo se tutti i destinatari coinvolti nei loro diversi ruoli profes-sionali, lavoratori, tecnici, manager aziendali, condivi-dono obiettivi e percorsi di apprendimento.La formazione professio-nale pubblica ha il compito di contribuire cooperando appunto con le aziende, le agenzie formative e le asso-ciazioni al miglioramento della qualità dei processi

vorwort

Kennzeichnend für die be-rufliche Weiterbildung ist auch die vordergründige, auf-merksame Berücksichtigung der wirtschaftlichen Auswir-kung, die mit den Qualifizie-rungsprozessen von Beschäf-tigten zusammenhängen, was aber nicht heißt, dass es sich bei Bildung um eine Ware handelt, die man ein-fach planen, produzieren und verkaufen kann.Bildung vollzieht sich viel-mehr über komplexe koope-rative Prozesse.Ein Bildungsangebot kann nur Erfolg haben, wenn alle Betroffenen in ihren un-terschiedlichen beruflichen Rollen als Arbeitnehmer, als Techniker, als Betriebsleite-rIn die Zielsetzungen und die Lernwege teilen.Die von der öffentlichen Hand betriebene berufliche Weiterbildung hat die Aufga-be, in Zusammenarbeit mit den Unternehmen, den ande-ren Bildungsträgern und den Fachverbänden beizutragen, dass die Qualität der Bildungs-

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formativi, della loro traspa-renza e del trasferimento operativo dei risultati for-mativi, mettendo al centro le attese di tutti i partecipanti e verificandone il grado di soddisfazione.

I risultati qui presentati del progetto FSE “Modelli or-ganizzativi e didattici per il Long Life Learning” realiz-zato dall´Area Formazione professionale della Provin-cia di Bolzano riguardano un aspetto a volte meno considerato della formazio-ne continua, quello peda-gogico e metodologico, ma importante sia per la moti-vazione dei partecipanti che per i risultati.

La formazione continua si situa in un continuum tra apprendimento informale e apprendimento formale e la riflessione sull’organizzazio-ne didattica può contribuire ed individuare le opportuni-tà di apprendimento nelle si-tuazioni lavorative, il grado di individualizzazione della formazione, la realizzazione ed il consolidamento di reti collaborative. Si riducono in questo modo gli ostacoli che

prozesse steigt, die Transpa-renz der angestrebten Ziele verbessert und der Transfer der Lernergebnisse gefördert wird; im Mittelpunkt dieser Anstrengungen stehen die Er-wartungen aller Beteiligten, deren Zufriedenheit ständig überprüft werden muss.Die hier vorgestellten Ergeb-nisse des ESF-Projektes “Or-ganisatorische und didakti-sche Modelle des Long Life Learnings”, das vom Bereich Berufsbildung der Autono-men Provinz Bozen durchge-führt wurde, betreffen einen oft eher weniger berücksich-tigten Aspekt der beruflichen Weiterbildung, nämlich den pädagogisch-methodischen, der aber für die Motivation der TeilnehmerInnen wie für die Lernerfolge große Bedeu-tung einnehmen kann.Da die berufliche Weiterbil-dung auf einer kontinuierli-chen Linie verortet werden kann, die zwischen dem in-formalem und formalem Ler-nen verläuft, kann die Refle-xion über die didaktische Or-ganisation der von Bildungs-maßnahmen dazu beitragen, die Lernmöglichkeiten in den Arbeitssituationen und in den Arbeitsprozessen zu ermitteln, das Ausmaß der erforderlicher Individualisie-rung des Lernwegs zu bestim-men, kollaborative Netzwer-

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i partecipanti devono supe-rare per accedere e realizza-re il processo formativo.

Siamo convinti che i mate-riali e gli strumenti qui pre-sentati, in particolare il por-tale realizzato con il proget-to “Modelli organizzativi e didattici per il Long Life Le-arning”, potranno promuo-vere la cooperazione tra gli attori pubblici e privati della formazione continua sul la-voro ai fini del miglioramen-to e della crescita dell’ap-prendimento professionale nella nostra Provincia.

ke zu bilden und zu festigen. So werden auch Hindernisse abgebaut, die von den Teil-nehmerInnen überwunden werden müssen, wenn sie sich an Weiterbildung betei-ligen wollen.Wir sind überzeugt, dass die hier vorgestellten Materiali-en und Werkzeuge – beson-ders das im Projekt gestalte-te Berufsportal für das Long Life Learning – die Zusam-menarbeit der öffentlichen und privaten Träger der be-ruflichen Weiterbildung un-terstützen können mit dem Ziel, das berufliche Lernen in unserem Land auszubauen und zu verbessern.

chrIstIan tommasInI,

Vicepresidente della Provincia Autonoma di Bolzano e Assessore all’Istruzione e Formazione Professionale

Vizepräsident der Autonomen Provinz Bozen und zuständiger Landesrat für Schule und Berufsbildung

franco russo,

Coordinatore d’Area Formazione Professionale italiana della Provincia Autonoma di Bolzano

Koordinator des Bereichs Berusbidung in italienischer Sprache der Autonomen Provinz Bozen

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PresentazIonePeter Litturi e Giovanni Marconato

Nel rilasciare una pubblicazione sul tema dell’apprendi-mento lungo tutto l’arco della vita, riteniamo utile definirne la specificità trovandole un posto nel panorama dei lavori su questo tema e cercando di non dire il già detto.

La problematica dell’apprendimento lungo tutto l’arco del-la vita si presenta con il paradosso dell’importanza, sottoli-neata da numerosi punti di vista, dell’imparare sempre ma anche dalla constatazione che solo una percentuale molto limitata di persone intraprende percorsi sistematici di ap-prendimento continuo.

Statistiche italiane ed europee ci dicono che meno di una persona su 10 frequenta attività di formazione e sviluppo professionale in modo continuativo. Su questo dato incide di sicuro l’abitudine dei ricercatori di identificare l’appren-dimento continuo con la formazione strutturata (sia essa formale e non formale) ed in questo modo vengono trascu-rate tante altre forme di apprendimento che le persone na-turalmente adottano nella vita di tutti i giorni per far fronte alle carenze di informazioni, conoscenze e competenze che riscontrano.

E’ probabile che nel futuro non tanto lontano le esigenze di apprendimento di questo particolare ed esteso segmento

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di utenti di apprendimento saranno sempre più soddisfatte attraverso forme non convenzionali o “scolastiche” di for-mazione; questo comporterà la necessità di ideare nuovi ambienti di apprendimento e nuove forme di attivazione e di supporto all’apprendimento.

Le ragioni del problema del basso tasso di partecipazione alle attività di formazione continua degli adulti occupati sono numerose e non sempre riconducibili alle caratteri-stiche dell’offerta di formazione ed alle sue eventuali ca-renze (Il capitolo “La formazione continua: stato, criticità, prospettive”dà ampiamente conto di questa tematica).

Ma non si può, però, ignorare il fatto che le esigenze di formazione che un adulto al lavoro manifesta siano diver-sificate tanto rispetto agli obiettivi di apprendimento da conseguire, alla natura delle conoscenze e delle competenze coinvolte quanto rispetto alle condizioni in cui le persone possono o hanno la necessità di apprendere.

Questa vasta gamma di contesti in cui una persona adulta si trova a domandare formazione ed apprendimento il più delle volte viene servita attraverso formazione basata su atti-vità didattiche in presenza organizzate prevalentemente at-traverso insegnamento diretto condotto anche con tecniche attive. La tradizionale lezione con associata spiegazione è sempre la modalità principale della formazione anche degli adulti. Viene, comunque, da chiedersi la ragione della cen-tralità di questo approccio: lo è perché, quasi in una logi-ca evoluzionistica, questo approccio si è accreditato grazie alla sua maggiore adeguatezza nel rispondere ai bisogni di apprendimento rispetto ad altri approcci o si tratta di una abitudine consolidata ed espressione di una inerzia tanto sul versante dell’offerta e della domanda?

Fosse questa seconda la risposta, ci si potrebbe chiedere se una offerta diversificata per le modalità organizzative e

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per le strategie didattiche non produrrebbe una domanda altrettanto diversificata, un ampliamento degli obiettivi di apprendimento accessibili ad una persona adulta ed un al-largamento della popolazione adulta che si immette in pro-cessi di apprendimento continuo.

A dispetto della centralità, se non dell’esclusività, della le-zione diretta basata sull’aula, quello che si può certamente dire è che tanto in letteratura che nelle pratiche internazio-nali sono presenti numerose strategie didattiche e modelli concettuali da poter utilizzare nella formazione continua.

Sono soprattutto le concettualizzazioni di matrice costrut-tivista ad arricchire il repertorio (operativo e concettuale) di chi si occupa professionalmente di ideare, organizzare e gestire attività formative destinate ad adulti occupati e sono queste concettualizzazioni a mettere nella cassetta degli at-trezzi anche modalità formative che riscoprono e valoriz-zano le modalità naturali di apprendimento delle persone andando oltre gli approcci artificiali quali possono essere visti quelli di ispirazione prettamente scolastica.

La ragione primadi questa pubblicazione è quella di met-tere a disposizione degli operatori del Life Long Learning e della formazione professionale continua un set di stru-menti (concettuali ed operativi) per rendere ancor più ricca la loro cassetta degli attrezzi. I temi qui presenti non sono certamente nuovi agli studiosi dell’apprendimento e della cognizione (sugli stessi argomenti è disponibile eccellente e ampia letteratura), ma per gli operatori della formazio-ne continua, per le persone che sono alle prese con il fare quotidiano, sono tematiche che potrebbero non far parte della strumentazione d’uso corrente e per queste persone una raccolta selezionate e ragionata delle acquisizioni degli ultimi anni della ricerca internazionale sulla cognizione e sull’apprendimento potrebbe essere significativa.

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I temi che sono oggetto della pubblicazione sono stati iden-tificati dagli autori esplorando la letteratura internazionale e le rassegne (nazionali, europee, internazionali) di pratiche di formazione degli adulti. Nella vastità delle concettualiz-zazioni e delle pratiche, si sono compiute delle selezioni ar-bitrarie che hanno portato a dare risalto ad alcuni elemen-ti ma a trascurarne degli altri. La rassegna qui presentata non può quindi dirsi esaustiva di ciò che lo stato dell’arte mette a disposizione ma può manifestare la certezza che le acquisizioni maggiormente accreditate della ricerca sulla cognizione e sull’apprendimento non siano state trascurate. Da questo punto di vista, questo lavoro non può che essere visto come la prima tappa di un work-in-progress pronto a recepire ogni altra novità che si presenterà tanto a livello della ricerca che della pratica.

Una seconda ragione di questo lavoro può essere identifica-ta nel voler dare una risposta alle esigenze di professionalità (che si manifestano già ora ma che ancor più si manifeste-ranno nel futuro) che pone la prospettiva dell’allargamento a tutto lo spazio della vita, dell’apprendimento intenzional-mente sostenuto.

L’aumento quantitativo del bisogno di apprendimento (che non è più solo confinato nella fase preparatoria e giovanile della vita) e la consapevolezza che questo debba essere di qualità, pone la questione della formazione delle figure professionali che do-vranno gestire l’intero ciclo di produzione della formazione.

Questo lavoro assume, quindi, anche la prospettiva dello strumento per la formazione dei nuovi formatori, strumen-to che nella logica dell’imprinting, dovrebbe fornire fin dall’inizio della loro formazione una sguardo ampio ed arti-colato alla tematica.

Siamo consapevoli di quanto sia complesso il ciclo di vita di un prodotto dell’apprendimento, di quanto sia ricco di di-

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mensioni e di variabili per ogni dimensione e, conseguente-mente, di quanto il repertorio degli strumenti del formatore debba essere altrettanto ricco e diversificato, che nessun testo di dimensione ragionevole li potrebbe trattare tutti. Pur tut-tavia si è cercato di rispettare, nella scelta dei temi trattati, la complessità della tematica e la maneggiabilità dei contenuti.

La pubblicazione, che può essere vista come una mappa dei territori maggiormente significativi per chi intenda muo-versi nello spazio della formazione continua, ha la seguente struttura:• una prima parte dove sono contenute 14 schede descrit-

tive di soluzioni operative, ovvero di modelli didattici. Si tratta di modalità di organizzare l’offerta formativa caratterizzate da differenti combinazioni di elementi di-dattici ed organizzativi e sono desunte dalla letteratura internazionale e dall’esperienza degli Autori;

• una seconda parte dove sono contenute 11 schede de-scrittive di teorie e/o di visioni dell’apprendimento, ovvero di modelli concettuali. Si tratta di concetti da assumere come base e riferimento per lo sviluppo di differenti applicazioni didattiche, come quelle presen-tate nella prima parte;

• una terza parte dove sono contenute 12 schede riporta-ti, in modo più sintetico che nella seconda parte, alcuni concetti significativi nel discorso professionale e che possono aiutare a mettere nella giusta luce alcuni degli aspetti che spesso si trascurano nella concezione, nella progettazione e nello sviluppo della formazione ma che determino le soluzioni operative adottate.

Ipertesto per la flessibilità cognitiva “Progettare formazione continua”

Allegato alla pubblicazione cartacea si trova un DVD contente un ambiente di apprendimento digitale problem-

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solving oriented: un “ipertesto per la flessibilità cogniti-va”. Tecnicamente è la resa operativa di uno dei modelli didattici illustrati in questa pubblicazione; concettualmente rappresenta il tentativo, speriamo riuscito, di dare fonda-mento pratico alle ipotesi operative ed alle teorie oggetto della stessa. I contenuti di questa pubblicazione vengono situati all’interno di casi di formazione reali; questi conte-nuti possono favorire tanto una lettura di quei casi, quanto suggerire delle ipotesi per arricchire e differenziare le solu-zioni adottate.

L’ipertesto è, quindi, un vero e proprio ambiente di appren-dimento da utilizzare per arricchire la propria competenza di ideazione e sviluppo di nuove offerte formative per per-sone adulte: si esplora l’ipertesto attraverso una navigazio-ne incrociata di casi, punti di vista e tematiche trasversali e si affrontano nuove situazioni problematiche utilizzando le nuove conoscenze per generare soluzioni organizzative e didattiche, risolvendo i “transfer cases” presenti nell’am-biente stesso.

La pubblicazione è frutto dell’esplorazione della letteratu-ra internazionale sui modelli didattici e sui concetti che il team di lavoro1 ha ritenuto significativi per la concezione e lo sviluppo nuove forme di offerta formativa indirizzata ad adulti occupati.

1 Andrea Bullara, Peter Litturi, Giovanni Marconato, Giovanni Bona-iuti, Francesco Di Cerbo, Gabriella Dodero, Enzo Del Fatto, Anto-nio Fini e Beate Weyland

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23Ambienti di apprendimento per la formazione continua

vorstellung Der arbeItsmaterIalIen

Peter Litturi e Giovanni Marconato

Die Veröffentlichung der Arbeitsmaterialien zum Leben lan-gen Lernen muss auch hinsichtlich ihrer Notwendigkeit und Besonderheit begründet werden. Sie sollte einen Platz unter den vielen Publikationen finden und nach Möglichkeit nicht allzu viel schon Bekanntes wiederholen, oder zumindest eini-ge neue Aspekte beleuchten.

Im Diskurs des LLL zeichnet sich ein Paradoxon ab: einer-seits wird unter mehrfachen Gesichtspunkten die Wichtigkeit und Notwendigkeit des nie aufhörenden Lernens hervorge-hoben, andrerseits muss festgestellt werden, dass nur eine be-schränkte Anzahl von Personen systematisch Weiterbildungs-maßnahmen in Anspruch nimmt.

Aus italienischen und europäischen Statistiken entnehmen wir, dass auf zehn Personen nur eine mit Kontinuität Veran-staltungen zur beruflichen Weiterbildung besucht.

Auf diese Daten wirkt sich sicher auch die Forschungseinstel-lung aus, die Weiterbildung eher mit strukturierter Ausbil-dung (formal wie informal) gleichsetzt; dadurch werden viele andere Lernformen vernachlässigt, die Menschen in ihrem Leben auf natürliche Weise einsetzten, um den erfahrenen Mangel an Informationen, an Wissen oder Kompetenzen wettzumachen.

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Wahrscheinlich wird dieser Lernbedarf in nicht allzu ferner Zukunft nicht mehr mit den gängigen, „schulischen“ Bil-dungsformen abgedeckt werden. Das erfordert die Gestaltung neuer Lernumgebungen und neue Formen der Aktivierung und Unterstützung des Lernens.

Die Gründe für die geringe Beteiligung der Erwachsenen an Weiterbildungsmaßnahmen sind vielfältig und nicht immer können sie auf die Art des Bildungsangebots und auf die Mangelhaftigkeit desselben zurückgeführt werden (Das Ka-pitel „Berufliche Weiterbildung: Zustand, Schwierigkeiten, Ausblicke“ behandelt umfassend auf diese Fragen).

Umgekehrt darf nicht vergessen werden, dass die Bildungsbe-dürfnisse eines Erwachsenen sehr unterschiedlich sein kön-nen, wenn es um die zu erreichenden Bildungs- bzw. Lern-ziele oder um die Art des Wissens bzw. um Wissensformen und um die Art der Kompetenzen geht; sehr unterschiedlich sind weiters auch die Umstände und Notwendigkeiten, die Menschen zum Lernen auffordern.

Erwachsene werden also durch eine Vielfalt von Umständen und Bedingungen dazu veranlasst, Weiterbildung nachzu-fragen; meistens wird diese Nachfrage durch organisierten Präsenzunterricht, mittels direkter Instruktion, wenn auch mit Einsatz handlungsorientierter Methoden beantwortet. Der darbietende Unterricht mit Erklärung und Klärung der Fragen bleibt auch in der Erwachsenenbildung die vor-herrschende Form. Die Gründe, weshalb dieser Ansatz sich immer noch durchsetzt, müssten hinterfragt werden: hat er sich akkreditiert, weil infolge einer fast evolutionären Logik dieser Ansatz im Vergleich zu anderen am besten die Lern-bedürfnisse abdeckt, oder handelt es sich um eine gefestigte Gewohnheit und stellt sich eher als Ausdruck von Trägheit dar, die im Weiterbildungsbereich Angebot wie Nachfrage kennzeichnet?

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Sollte letztere Annahme zutreffen, könnte man der Frage nachgehen, ob ein nach Organisationsform und Lehr/Lern-strategie vielfältig gestaltetes Bildungsangebot nicht auch eine ebenso diversifizierte Bildungsnachfrage bewirken könnte, wo das Spektrum der einer Person zugänglichen und von ihr erreichbaren Lernziele erweitert wird, was zur Fol-ge haben könnte, dass größere Teile der Bevölkerung sich an Weiterbildungsprozesse beteiligen.

Trotz der zentralen, fast ausschließlichen Position des darbie-tenden, oft frontalen Unterrichts, der sich in formal umris-senen Räumen wie dem Klassenraum vollzieht, findet man in der internationalen Bildungspraxis wie in der entspre-chenden pädagogisch didaktischen Literatur zahlreiche Un-terrichtsstrategien und begriffliche Modelle, die Ziel führend und anregend in der beruflichen Weiterbildung eingesetzt werden können.

Wer sich mit der Planung, Organisation und Durchführung von Bildungsmaßnahmen für erwachsene Arbeitnehmer be-schäftigt, findet besonders in konstruktivistischen Begriff-lichkeiten Hinweise, Wege und Mittel, um das eigene Hand-lungsrepertoire zu erweitern; in Bildungsmaßnahmen, die sich darauf beziehen, werden die natürlichen Lernformen des Menschen aufgewertet und zum Teil die künstlichen Unter-richtsansätze der schulischen Tradition überwunden.

Mit der Veröffentlichung dieser Projektmaterialien sollen den WeiterbildnerInnen Werkzeuge (Konzepte und Hand-lungsorientierungen) bereit gestellt werden, die, so hoffen wir, eine zusätzliche Ressource für ihre berufliche Tätigkeit darstellen können. Die hier vorgestellten Themen sind den Lern- und Kognitionsforscher schon bekannt (es gibt dazu eine umfassende und hervorragende Literatur), aber für je-manden, der konkret Tag für Tag berufliche Weiterbildung planen und organisieren muss, kann eine solche zu prakti-schen Zwecken analysierte und mit Verantwortlichen von

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Weiterbildungseinrichtungen diskutierte Auswahl, in der die neueren Ergebnisse der internationalen Lehr/Lernforschung berücksichtigt werden,von Nutzen sein.

Die in den Arbeitsmaterialien erfassten Themen sind das Ergebnis einer Durchforschung der der internationalen und nationalen Literatur zu Lernforschung und beruflicher Wei-terbildungspraxis. Es wurde eine Auswahl getroffen. Die Darstellung der Lehr/Lernmodelle, der Konzepte und der praktischen Umsetzungsmodelle hat deshalb keinen Voll-ständigkeitsanspruch, aber durch die Zusammenarbeit meh-rerer Forscher und der Projektgruppe besteht die Gewähr, die wichtigsten, gefestigten Forschungsergebnisse nicht vernach-lässigt wurden. Es handelt sich eben um Arbeitsmaterialien, die offen sind für die Aufnahme neuer Forschungsergebnisse und Praxismodelle.

Ein weiterer Anlass für dieses Projekt sind die Weiterbil-dungserfordernisse, die mit der schnell sich wandelnden und umbauenden Beruflichkeit auf dem Arbeitsmarkt verbunden sind; dadurch weitet sich die Notwendigkeit eines intentional gestützten Lernens auf fast alle Lebensabschnitte aus.

Aus dem quantitativen Anstieg des Lernbedarfs (der nicht auf die Vorbereitungsphase der ersten Lebensabschnitte be-schränkt bleibt) und im Bewusstsein, dass die Lernergebnisse eine hohe Qualität besitzen sollen ergibt sich, dass auch die Ausbildung der WeiterbildnerInnen,die den gesamten Zyklus der Erstellung von Bildungsmaßnahmen begleiten, neu über-dacht werden muss.

Diese Materialien können deshalb auch der Ausbildung der neuen WeiterbildnerInnen dienen, die so schon von Anfang an einen umfassenderen Überblick der pädagogisch – didakti-schen Themen und Fragen bekommen könnten.

Lernprodukte besitzen einen komplexen Lebenszyklus; wir

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wissen auch um die Mehrdimensionalität des Lernens und um die vielen Einzelvariablen in jeder Lerndimension; im Gegenzug muss auch das Werkzeug- und Handlungsreper-toire des/der WeiterbildnersIn reich ausgestattet und diversi-fiziert sein, aber kein Text sinnvollen Umfangs könnte alles beinhalten. Bei der Gestaltung der Themenwahl waren des-halb die Komplexität des Themas und die Handhabung der Inhalte Richtung gebend.

Die veröffentlichten Materialien wurden so gegliedert, dass der/die an der beruflichen Weiterbildung interessierte Lese-rIn die wichtigen Bereiche übersichtlich einsehen kann:• Der erste Teil umfasst 14 Beschreibungen didaktischer

Modelle. Darin werden Formen analysiert, mit denen di-daktische und organisatorische Aspekte kombiniert wer-den können, um das Bildungsangebot zu gestalten. Diese Modelle wurden der internationalen Literatur entnom-men und auf der Grundlage der Erfahrung der Autoren und in der Diskussion in der Projektgruppe erstellt.

• Der zweite Teil enthält 11 Beschreibungen von Lerntheo-rien, bzw. Sichtweisen des Lernens. Sie können als Bezug für die Erstellung und Entwicklung der im ersten Teil vorgestellten Modelle dienen.

• Die 12 Kurzbeschreibungen des dritten Teils betreffen wichtige Begriffe, die bei der Entwicklung und Planung oft vernachlässigt werden, aber die gewählte Gestaltung der Bildungsmaßnahme ausschlaggebend beeinflussen.

Der Hypertext zur kognitiven Flexibilität “Weiterbildung planen”

Die Materialien enthalten auch eine DVD mit einer Prob-lem orientierten (problem-solving oriented) Lernumgebung: einen „Hypertext zur kognitiven Flexibilität“. Technisch han-delt es sich um die Umsetzung eines der hier veröffentlich-ten didaktischen Modelle. Wir hoffen, dass uns der Versuch gelungen ist, konkret zu zeigen, wie theoretisch dargestell-

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te Modelle eine Bildungsmaßnahme gestalten können. Wir beziehen uns dabei auf wirkliche Bildungsmaßnahmen, die über Interviews erhoben wurden und als „Fälle“ in den Text eingebaut wurden. Diese Fälle können nicht nur „nachgele-sen“ werden, sie bieten sich auch als Handlungsfelder an, zu denen zusätzliche Hypothesen und auch Ergänzungen zu den getroffenen Lösungen formuliert werden können.

Dieser Hypertext stellt also eine wirkliche Lernumgebung dar, die dazu dienen kann, Anregungen zur Verbesserung der Planung und Entwicklung von beruflichen Weiterbildungs-maßnahmen zu erhalten: die Textnavigation geht von den Fällen über die einzelnen Gesichtspunkte und Stellungnah-men zu Grundthemen. Dadurch können neue Erkenntnisse gewonnen werden, um neue organisatorische und didaktische Lösungen zu entwickeln, indem die in der Lernumgebung an-getroffenen „transfer cases“ gelöst werden.

Die veröffentlichten Materialien sind das Ergebnis einer ge-zielten Analyse der einschlägigen internationalen Literatur; bei der Auswahl hat das Arbeitsteam2 das Kriterium der Be-deutsamkeit der einzelnen Theorien und Konzepte für die berufliche Weiterbildung angewandt.

2 Andrea Bullara, Peter Litturi, Giovanni Marconato, Giovanni Bona-iuti, Francesco Di Cerbo, Gabriella Dodero, Enzo Del Fatto, Antonio Fini e Beate Weyland

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29Ambienti di apprendimento per la formazione continua

IntroduzIone La Formazione continua come elemento moderatore tra le diverse e mutevoli esigenze della società, delle imprese e degli individui Andrea Bullara e Marco Perini

Sempre di più in questi ultimi anni, nel nostro Paese, lavo-ratori, cittadini, imprese, sono soggetti a elevate dinamiche di cambiamento sociale ed organizzativo, le stesse che im-pegnano i servizi del lavoro, la scuola e la formazione pro-fessionale a dover fornire alla società adeguate strumenta-zioni e risposte istituzionali.

L’elemento che da sempre modera i rapporti nel mondo del lavoro in un contesto di cambiamenti e di innovazione è la formazione continua; l’aggiornamento costante delle competenze tecniche e sociali di lavoratori e imprese risulta essere condizione indispensabile per il mantenimento e l’a-deguamento delle risorse “produttive” specialmente in un periodo di crisi economica.

Secondo le più recenti rilevazioni dell’ ISFOL la Formazione continua in Italia presenta purtroppo ancora aspetti strutturali che finiscono per posizionare il Paese nel gruppo degli stati eu-ropei tra i meno performanti rispetto agli investimenti formativi.

Queste problematiche sembrano derivare dai seguenti fat-tori:

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• la particolare composizione del mercato del lavoro che vede le aziende orientate ad assumere personale di bas-sa qualificazione in grado di adattarsi con maggiore fa-cilità a condizioni lavorative peculiari;

• le caratteristiche della forza lavoro che presenta un tas-so di titoli di studio di alto livello inferiore rispetto alla media europea;

• il sistema di sostegno e stimolo alla formazione eccessi-vamente frammentato, sia negli strumenti di intervento che nelle fonti di finanziamento.(ISFOL, XII Rapporto sulla Formazione Continua 2010-2011)

Quanto messo in evidenza influisce negativamente sulla qualità e sulla specializzazione dell’offerta formativa e lascia intravedere una consuetudine che tende a sottostimare la centralità delle iniziative di aggiornamento professionale.

Anche le stime rispetto alla quantità di ore di formazione formale e non formale legate al lavoro attese nel ciclo di vita lavorativo confermano quanto appena affermato: mentre nel nord Europa un lavoratore nel suo ciclo di vita lavora-tivo, arriva a dedicare quasi un anno intero ad attività for-mative, i lavoratori italiani, assieme a quelli greci e a quelli turchi, superano di poco un mese di formazione per l’intero ciclo di vita lavorativo.

Non tutti i dati sono però negativi: dal 2004 in poi, le impre-se medio grandi che investono in attività di formazione cre-scono costantemente. Inoltre, come verrà messo in evidenza nei prossimi paragrafi, la crisi economica ha spinto tutti i soggetti coinvolti nella Formazione Continua - FC (istitu-zioni, enti e aziende) a promuovere iniziative formative in-novative al fine di contrastare l’emergenza disoccupazione. In questo nuovo contesto torna al centro dell’attenzione la riqualificazione al lavoro, facendo assumere alla FC un ruolo da co-protagonista nelle azioni di supporto alle fasce

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deboli. L’offerta formativa oggi non può più concentrarsi solamente sulle attività di alta formazione e di specializza-zione, ma deve tornare a proporre anche attività volte allo sviluppo di competenze e conoscenze trasversali, raggiun-gendo tutte le classi sociali e le situazioni occupazionali.

La necessità di muoversi in questa direzione emerge nuo-vamente dal Rapporto ISFOL che anche quest’anno sot-tolinea che i soggetti maggiormente coinvolti in attività di aggiornamento professionale ricoprono posizioni lavorati-ve di livello medio alto (dirigenti, quadri, impiegati e liberi professionisti) e che le imprese che fanno più formazione sono quelle operanti in settori ad elevata specializzazione e contenuto tecnologico. Risulta invece bassa la percentuale delle aziende del settore manifatturiero che effettuano atti-vità di FC per i propri dipendenti.

Un chiaro orientamento in tal senso si ritrova nell’”Intesa tra governo, regioni, provincie autonome e parti sociali” (“Linee guida per la formazione nel 2010”) dove si punta a favorire:• investimenti formativi mirati ai soggetti più esposti all’

esclusione dal mercato del lavoro;• attività formative organizzate in ambienti produttivi o

prossimi da essi;• interventi rispondenti alla domanda di qualificazione e

riqualificazione dei lavoratori coinvolti nelle transizioni occupazionali;

• attività progettate in un ottica volta ad ottimizzare l’in-contro dinamico e flessibile tra domanda e offerta di lavoro.

Esaminando le linee guida proposte nel documento d’intesa sembrano distinguersi due particolari elementi su cui si in-tende concentrare gli interventi: la creazione di un sistema nazionale di competenze e l’ampliamento/diversificazione delle azioni formative in favore degli inoccupati.

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In questi orientamenti riemergono tematiche e contesti ope-rativi già affrontati dalla Formazione Professionale pubblica della provincia di Bolzano rispetto ai quali i Servizi di For-mazione Continua sul Lavoro stanno promuovendo già da anni diverse sperimentazioni atte a promuovere e facilitare l’accesso alla formazione e all’aggiornamento professionale ai lavoratori della micro impresa e a quelli che intendono intraprendere individualmente un loro percorso formativo cercando in questo modo di aumentare i tassi di partecipa-zione all’educazione e alla formazione della persona adulta.

Nelle misure intraprese si possono identificare i seguenti orientamenti:• sviluppo e consolidamento di un catalogo dell’offerta

corsuale pubblica attraverso la costruzione di per/corsi formativi e comunque di una offerta formativa con un elevato standard di qualità di progettazione che per-metta la certificazione delle competenze professionali acquisite in esito alla frequenza dei corsi/moduli offerti

• sviluppo, messa a punto, realizzazione e sperimenta-zione di modelli organizzativi e didattici che consenta-no di cogliere le specificità ed i bisogni dell’individuo che apprende facilitando l’accesso all’apprendimento continuo nella prospettiva del “Life Long Learning”: dall’utilizzo diversificato delle tecnologie didattiche alla formazione a distanza

• promozione di azioni, complementari all’offerta cor-suale a catalogo, che prevedono contributi per la for-mazione continua ad iniziativa individuale. Tale misura consente l’aggiornamento professionale mirato dei la-voratori; la possibilità di adattare la formazione alle esi-genze di differenti tipologie di lavoratori; la possibilità di finanziare direttamente il singolo lavoratore che, di conseguenza, può scegliere liberamente la propria for-mazione

• misure di finanziamento che permettano l’accesso indi-viduale all’aggiornamento professionale di lavoratori di

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33Ambienti di apprendimento per la formazione continua

micro imprese (voucher aziendali), lì dove risulti diffici-le implementare normali piani di formazione aziendale

La Formazione Continua in Alto Adige e i luoghi della formazione

I contesti in cui la FC pubblica si trova ad operare determi-nano di volta in volta strategie generali, finalità e modalità della formazione e le sue tipologie di intervento. I contesti ed i luoghi in questione sono:• la formazione in impresa che realizza l’aggiornamento

professionale dei lavoratori;• l’accesso individuale alla formazione continua e perma-

nente che promuove i per/corsi educativi e formativi degli adulti scelti liberamente in base al proprio proget-to di sviluppo personale e professionale;

• le azioni formative a supporto delle misure di welfare ri-volte a fasce deboli sul mercato del lavoro dove si effet-tua la riqualificazione o l’aggiornamento professionale per il ricollocamento lavorativo

La Formazione continua sul Lavoro della Formazione Pro-fessionale provinciale, in collaborazione con i Servizi pro-vinciali del Lavoro e dell’Orientamento, ha sempre presi-diato tali ambiti mettendo a disposizione dei lavoratori e dei cittadini un repertorio di strumenti ed opportunità formati-ve e di accompagnamento al lavoro.

La formazione in impresa

I Servizi di Formazione Continua della Formazione Profes-sionale provinciale hanno perfezionato negli anni misure di finanziamento per attività formative destinate ai dipendenti delle imprese altoatesine, prestando particolare attenzione alle piccole ed alle micro imprese.

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Il panorama imprenditoriale altoatesino è caratterizzato da una presenza massiccia di piccole imprese e microimprese (oltre il 90%) alle quali, attraverso il sistema dei voucher aziendali, possono venire concessi in breve tempo finanzia-menti per la formazione anche di singoli dipendenti . Attra-verso questa modalità di intervento si consente ai lavoratori delle piccole imprese di poter accedere ad una formazione specifica per particolari esigenze tematiche rilevate dall’a-zienda permettendo di rafforzare il patrimonio di compe-tenze delle imprese locali.

L’attenzione riservata alle piccole/micro imprese risulta essere un elemento caratterizzante della Formazione Pro-fessionale provinciale. Dai dati risulta che la quantità di formazione fatta in azienda è direttamente proporzionale alle sue dimensioni, questo fenomeno lascia intendere che le imprese di piccole dimensioni che rappresentano i tessu-to produttivo della provincia di Bolzano e quello nazionale tendono ad essere escluse e/o ad autoescludersi dall’intra-prendere azioni formative per l’aggiornamento delle pro-prie competenze.

Proprio per contrastare forme di autoesclusione delle mi-croimprese (dove lavora quasi la metà di tutti gli occupa-ti) il servizio di formazione continua in lingua tedesca sta sperimentando forme di consulenza e di accompagnamento dei processi di apprendimento, mirate alla microimpresa. La caratteristica di questo approccio formativo è il dialo-go con tutti gli attori in azienda focalizzato al fabbisogno individuale e a quello emergente in azienda; si apprende partendo da problemi attuali e la formazione si conclude quando il problema ha trovato una soluzione. In questo modo l’azienda, o meglio, il titolare non deve individuare preventivamente argomenti o aree su cui intervenire con la formazione, non avendo peraltro chiarezza su cosa possa davvero essere utile; ci si concentra invece sulla questione più attuale ricostruendo man mano, con il diretto contri-

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buto di tutti, titolare e collaboratori, anche la genesi del problema e le relative diramazioni della catena delle cause. La formazione basata su questo tipo di consulenza dialogi-ca non si configura come consulenza specialistica ma come una formazione continua che fa emergere le capacità pre-senti in azienda e l’autonomia di giudizio degli attori per-mettendo di fare formazione su misura da dove possono, successivamente, prendere avvio anche interventi formativi specialistici riconosciuti utili all’azienda.

L’accesso individuale alla formazione

In Italia, come in altri Paesi dell’Unione Europea, le politi-che attive del lavoro, sia a livello nazionale che territoriale, hanno portato alla riorganizzazione del sistema di formazio-ne continua e permanente, con l’introduzione di nuove mo-dalità di intervento e dispositivi che favoriscono il passaggio verso sistemi di formazione orientati dalla domanda sociale del territorio e dalle esigenze dell’utenza; che rispondono alla domanda individuale di formazione che accompagna l’individuo nei diversi momenti di crescita professionale e che sostengono l’elaborazione e la qualificazione della do-manda individuale. In questa prospettiva la Formazione Professionale provinciale ha predisposto un sistema per l’assegnazione di voucher individuali attraverso i quali i la-voratori o i disoccupati possono sostenere i costi di corsi di formazione scelti in autonomia che mira a consentire:• la valorizzazione dei particolari talenti individuali attra-

verso percorsi differenziati• l’ampliamento delle possibilità di scelta da parte dell’u-

tente in merito al percorso formativo più adatto alle proprie esigenze

• lo sviluppo personale del lavoratore e del cittadino in generale

• lo sviluppo ed il miglioramento della qualità dei servizi formativi

• il sostegno alle categorie sociali più svantaggiate

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La formazione alla sicurezza sul lavoro

Il modello organizzativo delle attività formative in materia di sicurezza sul lavoro della Formazione Professionale ita-liana rappresenta un caso quasi unico nel panorama nazio-nale. Il livello della qualità didattica è noto e riconosciuto, la sua realizzazione ha rappresentato un importante standard di riferimento per il mercato della formazione locale.

Gli investimenti di risorse, non solo finanziarie, realizzati per la formazione ed i servizi correlati sono da considerare particolarmente importanti e rappresentativi per la Forma-zione professionale pubblica, questo ha permesso di garan-tire sempre elevati livelli della qualità didattica dei corsi e la realizzazione di sperimentazioni riguardanti la realizzazione di percorsi formativi modulari capaci di realizzare crediti formativi sia per la formazione normata e obbligatoria che per l’aggiornamento.

L’offerta corsuale per la sicurezza sul lavoro si intreccia for-temente con quella riguardante le tematiche ambientali; i corsi realizzano la formazione specifica di tecnici ed il loro aggiornamento professionale.

Le attività di promozione e di coordinamento territoriale del-le attività istituzionali di formazione ed aggiornamento han-no inoltre portato nel 2007 alla costituzione dei Servizi per la formazione alla sicurezza sul lavoro e tutela ambientale presso la Formazione continua sul lavoro ed il Coordinamento delle Formazioni professionali, istituiti con la delibera provinciale.

Con tale deliberazione si è inteso confermare il ruolo attivo della Formazione professionale pubblica nel promuovere la cultura della prevenzione e sicurezza, definendo:• standard formativi nei termini di competenze da possedere• modalità di verifica e di certificazione finalizzati ad as-

sicurare uniformità e trasparenza alle azioni formative

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37Ambienti di apprendimento per la formazione continua

• condizioni organizzative necessarie per il raggiungi-mento di un adeguato livello di competenza professio-nale in questo ambito specifico.

La delibera provinciale affida inoltre alla struttura di co-ordinamento permanente tra la Formazione professionale tedesca e quella italiana altri compiti di certificazione, mo-nitoraggio e riconoscimento dei crediti formativi.

Il sistema organizzativo e l’offerta corsuale garantiscono in questo modo caratteristiche di integrazione dei percorsi e di accessibilità a crediti formativi, razionalizzando i tempi della formazione e dell’aggiornamento e selezionando at-tentamente i previsti, e necessari, contenuti da svolgere.

Azioni formative a supporto di misure di welfare

I dati riguardanti l’occupazione anche in provincia di Bol-zano riportano numeri sempre più preoccupanti: aumen-tano le richieste di cassa integrazione, aumenta il numero di lavoratori disoccupati e l’erogazione di ammortizzatori sociali in deroga.

La combinazione degli strumenti operativi fino a qui de-scritti mette a disposizione dei cittadini e delle imprese ri-sorse che possono contribuire a far fronte all’attuale preca-rietà del lavoro derivante dalla crisi economica.

In questo caso, una particolare attenzione agli aspetti di-dattici e pedagogici deve accompagnare chi promuove gli interventi formativi che realizzano la riqualificazione pro-fessionale ed il sostegno dei soggetti più deboli. La forma-zione generalmente non basta da sola a colmare il loro gap di competenze professionali e sociali richieste dal mondo del lavoro e dalla società, rendendo necessari interventi di orientamento e accompagnamento lungo tutto il percorso di riqualificazione e ricollocazione

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Un esempio concreto del modello descritto è rappresentato dalle misure messe in atto dalla Formazione professiona-le provinciale a fronte della crisi economica attuale. In tale contesto si è operato su diversi piani, complementari tra loro e ritenuti i più idonei per la facilitazione dell’accesso alla formazione dei lavoratori interessati ed alla promozione della loro professionalità.

Nell’ambito della programmazione formativa delle Scuole Professionali pubbliche e del Servizio Formazione continua sul Lavoro sono state quindi previste tipologie corsuali in grado di contrastare gli effetti della crisi:• corsi specificatamente realizzati per lavoratori di azien-

de in crisi e/o in palese disagio occupazionale (mobilitá, CIG, disoccupazione);

• corsi di aggiornamento e ri/qualificazione professio-nale afferenti alla normale programmazione della For-mazione Professionale opportunamente adattati nella didattica e nell’organizzazione per poter rispondere in modo efficace ad una domanda di formazione da parte di gruppi omogenei di lavoratori fuoriusciti dai processi produttivi;

• misure individuali di consulenza formativa e orienta-mento professionale.

La valorizzazione di tutti i possibili luoghi dell’apprendi-mento, in relazione ai diversi fabbisogni formativi emersi, ha portato la Formazione professionale a promuovere azio-ni di aggiornamento e riqualificazione professionale, di in-centivazione e di accompagnamento nei processi organizza-tivi della formazione tramite:• contributi alle aziende per interventi rivolti a sostenere

l’aggiornamento professionale e la riqualificazione dei lavoratori in mobilità in imprese in fase di riorganizza-zione produttiva;

• contributi per interventi realizzati da Enti formativi di-slocati territorialmente rivolti a lavoratori in CIG o in

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39Ambienti di apprendimento per la formazione continua

stato di disoccupazione che hanno la necessità di riqua-lificarsi per una loro possibile ricollocazione lavorativa;

• erogazione di un assegno di frequenza per i lavoratori in formazione una volta raggiunta la soglia delle ore previ-ste per conseguire l’attestato di frequenza;

• un servizio di assistenza tecnica alle imprese riguardan-te l’analisi del fabbisogno e la progettazione formativa e l’accompagnamento nelle specifiche procedure ammi-nistrative.

La crisi economica ha obbligato il sistema pubblico di for-mazione professionale a ridefinire le sue finalità istituzionali e, soprattutto, ad attrezzarsi di metodologie e strumenti or-ganizzativi e didattici che considerino e permettano• la realizzazione dei processi di riqualificazione dei lavo-

ratori più deboli;• l’innalzamento dell’età lavorativa;• le competenze interculturali e azioni di qualificazione

degli immigrati;• la trasmissione delle competenze professionali dai lavo-

ratori anziani a quelli più giovani (trasmissione genera-zionale delle competenze);

• la valorizzazione di tutti i luoghi dell’apprendimento della persona adulta, apprendimento formale, non for-male, informale (aula, lavoro, società);

• la diversificazione e l’adeguamento continuo delle di-dattiche per l’apprendimento professionale, la valoriz-zazione dei saperi, la certificazione di competenze, il libretto formativo, le misure per facilitare l’accesso in-dividuale ai per/corsi formativi, la consulenza formativa e l’accompagnamento individuale.

Misure di finanziamento e modelli integrati per l’occupabilità

L’avvento della crisi economica sembra mettere progressi-

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vamente in discussione il già frammentato sistema con cui nel nostro paese vengono attualmente realizzate le azioni di formazione continua.

Il sistema della formazione continua risulta alimentato da molteplici forme di finanziamento, dando luogo ad una offerta formativa non sempre concertata territorialmente e talvolta sottoposta più a regole di mercato che ad una logi-ca di servizio pubblico. Questi elementi, se non governati da una rigorosa programmazione territoriale, possono non favorire collaborazioni e sinergie non cogliendo in questo modo l’opportunità di costruire modelli territoriali per la formazione continua in grado di garantire ampie flessibilità di intervento e modelli didattici sempre adeguati alla realiz-zazione delle azioni formative.

Le principali misure di finanziamento pubblico che inter-vengono a supporto della formazione e dell’orientamento professionale sono quelle riferibili al Fondo Sociale Euro-peo (per azioni formative al e sul lavoro ed assistenza tec-nica), ai Fondi Interprofessionali (per la formazione e l’ag-giornamento dei lavoratori in impresa), alla Legge 236/93 (per il finanziamento di piani formativi aziendali, settoriali, territoriali, anche attraverso voucher individuali e azienda-li), alla Legge 53/2000 (per il finanziamento di azioni di con-ciliazione famiglia-lavoro e di aggiornamento professionale individuale), alle specifiche Leggi provinciali e regionali.

L’urgenza di comprendere e contrastare la crisi occupazio-nale ha costretto tutti gli attori pubblici e privati impegnati nella pianificazione delle misure anticrisi ad attivarsi siner-gicamente al fine di realizzare efficaci modelli organizzativi territoriali in grado di garantire servizi dedicati all’orienta-mento e alla ricerca del lavoro.

Questa situazione ha inoltre prodotto un cambio di rotta da parte delle istituzioni, le quali si sono viste costrette ad ela-

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borare nuove strategie per l’erogazione ed il finanziamento di servizi che integrano (con modalità diversa a seconda del-la Regione o Provincia Autonoma) le attività formative per l’aggiornamento professionale, il servizio di orientamento e i sussidi.

Sempre più spesso i sistemi formativi e di orientamento ba-sati sull’offerta di corsi e servizi vengono riorientati a dare concrete risposte ad una domanda sempre più mutevole e diversificata; le misure di finanziamento pubblico che pri-ma supportavano l’offerta di formazione ora supportano la persona che individualmente palesa il suo specifico fabbiso-gno di aggiornamento e ri/collocazione professionale.

Generalmente tutti i modelli territoriali degli interventi che, con modalità diverse, realizzano i processi di riqualifi-cazione e ricollocazione professionale prevedono una stessa scansione operativa:• contatto preventivo con la persona richiedente al fine di

identificare il suo fabbisogno formativo;• intervento di orientamento, analisi delle competenze

possedute e dei bisogni individuali;• elaborazione di un piano di sviluppo/sostegno indivi-

duale all’interno del quale vengono collocati uno o più interventi formativi;

• partecipazione della persona agli interventi formativi concordati e monitoraggio delle competenze acquisite;

• misure di accompagnamento alla ricollocazione profes-sionale.

Da una prima analisi degli elementi raccolti nell’ambito di questi nuovi tipi di intervento, emergono alcuni dati inte-ressanti:• il processo di orientamento alla scelta del corso di for-

mazione sembra essere spesso influenzato dalla dispo-nibilità effettiva delle iniziative corsuali, dalle esigenze/condizioni organizzative della persona, dalle esperienze

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lavorative possedute e, marginalmente, in funzione di nuove e diverse opportunità di reinserimento professio-nale;

• si riscontra una forte richiesta di servizi individualizzati e di breve durata;

• l’esigenza di interventi brevi, rispondenti a fabbisogni formativi diffusi ha spesso indirizzato l’offerta verso at-tività finalizzate al rafforzamento di competenze di base e trasversali (lingua italiana, lingua straniera e compe-tenze digitali e telematiche);

• molte amministrazioni hanno previsto nel loro catalogo di opportunità interventi di autoimprenditorialità.

Il più importante elemento di innovazione che emerge da queste nuove modalità di intervento non consiste però nelle modalità di erogazione dei singoli servizi, ma nella loro ef-fettiva integrazione.

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Parte PrIma Le strategie Didattiche

DIe lehr- unD lernstrategIen

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45Ambienti di apprendimento per la formazione continua

ask systemGiovanni Marconato

Descrizione

Gli Ask System sono ambienti di apprendimento (oggi sem-pre più spesso on-line) progettati per sostenere lo studente nella risoluzione di compiti di apprendimento complessi. L’approccio su si basano è quello del “problem solving, solitamente di quelli che si generano nello svolgimento di attività professionali di una certa complessità cognitiva. Le interfacce presentano tipicamente insiemi strutturati di do-mande e di relative risposte che hanno la forma di narra-zioni fatte da professionisti che raccontano come hanno af-frontato e risolto quel problema quando nel passato si sono dovuti misurare con quella questione.

La strategia di apprendimento che caratterizza questo ap-proccio si basa sull’identificazione delle dimensioni critiche della tematica oggetto dell’apprendimento (attività svolta con esperti di quel lavoro), sulla derivazione da queste di un certo numero di domande a cui chi apprende deve rispon-dere e sulle operazioni cognitive che lo stesso deve fare per rispondere esplorando il materiale correlato alla domanda.

Un Ask System è una semplice applicazione di Intelligen-za Artificiale che simula una conversazione con un esperto (Ferguson, Bareiss, Birnbaum, & Osgood, 1992), conver-sazione che consente all’utilizzatore di accedere a informa-zioni che contengono le risposte alle domande da lui poste.

Interagendo con il sistema attraverso domande predefinite che danno accesso a narrazioni di situazioni professionali, l’utilizzatore, la persona che apprende, può trarre così lo stesso tipo di beneficio che avrebbe tratto da una conversa-zione reale con un esperto (Bareiss & Osgood, 1993).

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Un Ask System è, quindi, un sistema di dialogo in cui chi apprende seleziona una domanda da un insieme strutturato e definito di domande presenti nel sistema e il sistema ri-sponde con risposte pertinenti.

Un Ask System è, anche, un modo di strutturare informazio-ni interrogative e sistemi d’apprendimento che simulano con-versazioni con esperti di diversa provenienza e che affronta-no la problematica secondo una molteplicità di prospettive.

Un Ask System consente a chi apprendere di risolvere un problema incontrato o che incontrerà, di accedere a rispo-ste date da esperti ricreando (in un ambiente di appren-dimento) quanto succede in situazioni in cui si esegue un compito reale e non si dispone di tutte le informazioni ne-cessarie, cioè facendo delle domande (Johnson et al. 1998).

Le domande e le risposte presenti in un Ask System vengo-no generate attraverso interviste con professionisti esperti e vengono presentate in forma di brevi video o in formato testo con integrati elementi multimediali (grafici, diagram-mi, ecc..). Interagendo con tecnici e professionisti esperti, si generano gruppi di domande specifiche per ogni tipo di attività o compito professionale significativo.

Queste domande rispecchiano quelle che un tecnico si pone quando deve fronteggiare una specifica situazione profes-sionale. Seguendo quelle domande, l’Ask System consente a chi studia di accedere alle risposte che un esperto avrebbe dato su quell’evento; chi usa l’Ask System adotta lo stesso comportamento che avrebbe avuto in una situazione di ese-cuzione di un compito reale non disponendo di tutte le in-formazioni necessarie, fa, cioè, delle domande. Lavorando con tutte le domande presenti in un Ask System, lo studente imparerà tutti gli aspetti rilevanti dell’attività in questione e, in aggiunta, imparerà come fare domande appropriate su quella attività per comprenderla meglio.

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47Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Un corso, un curricolo organizzato in forma di Ask System piuttosto che essere organizzato attorno a contenuti disci-plinari e seguire la logica della disciplina, viene organizzato ponendo al centro ciò che le persone fanno realmente nel proprio lavoro; un Ask System viene organizzato attorno a problemi e a casi reali.

Un caso è una descrizione di una situazione attuale, reale, consueta che di solito implica una decisione, una sfida, una opportunità, un problema; può essere, anche, la descrizio-ne di una questione affrontata da una o più persone in una organizzazione.

Porsi in contesti di apprendimento simili è molto impor-tante per qualsiasi operatore che quotidianamente incontra numerosi problemi con clienti, colleghi, superiori gerarchi-ci e altre figure professionali. Questo operatore, per esse-re un vero “professionista” dovrebbe imparare a risolvere problemi risolvendo problemi, non imparare qualcosa sui problemi.

I casi adatti a questo scopo dovrebbero raccontare una sto-ria che sia rilevante per lo studente, che abbia queste carat-teristiche;• Sia reale: non costruita, non di fantasia;• Abbia una struttura chiara e coerente;• Sia focalizzata su un tema che possa suscitare interesse;• Possa creare empatia con il personaggio principale;• Sia di utilità pedagogica, affronti, cioè, obiettivi di ap-

prendimento rilevanti (cosa l’operatore deve saper fare e come fare);

• Contenga questioni conflittuali o controverse;• Forzi decisioni, cioè comprenda un problema da risol-

vere.

I casi sono, di solito, presentati in forma di storie, perché le storie (e l’approccio narrativo) attivano un maggior impe-

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gno cognitivo, sono più agevolmente percepite come rile-vanti e sono più facili da comprendere di una descrizione.

Il potere, la forza di un caso di studio è data dalla sua capa-cità di attivare in chi lo usa una identificazione e un’empatia con le persone che sono presenti nella storia e di forzare che studia a prendere decisioni per risolvere problemi rilevanti.

I casi di studio sono efficaci perché sono autentici, sono basati su scenari di vita reale. Sono, inoltre, efficaci, perché sono pieni di dettagli realistici che sono veicolati in forma narrativa e, infine, sono aperti all’interpretazione.

Ciò che rende i casi di studio tanto efficaci è il pensiero costruttivo e generativo che producono tra chi apprende. Piuttosto che tentare di replicare, nell’esposizione, il pen-siero dell’insegnante, agli studenti dovrebbe essere richiesto di costruire una propria interpretazione del caso.

Fondamenti concettuali

Gli Ask Systems sono sviluppati avendo a riferimento con-cettuale l’approccio didattico case-based learning dove i le teorie, i concetti rilevanti sono inseriti in situazioni reali e veicolati in formato narrativo attraverso storie (CBL) e la teoria della memoria Case-based reasoning (CBR) secondo la quale le nostre esperienze sono memorizzate in forma di storie o casi e che trovandoci a risolvere un problema, ri-chiamiamo dalla nostra memoria casi precedente risolti.

Come già detto, un Ask System è stato descritto metafori-camente come una conversazione con un esperto attraverso la quale viene messo a disposizione dello studente un con-testo di insegnamento uno-a-uno in uno specifico dominio di conoscenza con lo scopo di guidare il pensiero e la com-prensione.

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Per imparare a risolvere problemi, le persone dovrebbero fare pratica a risolvere problemi. Ciò significa che limitarsi a raccontare agli studenti come risolvere problemi e valu-tare la loro comprensione di ciò che è stato loro detto, è insufficiente per imparare e risolvere problemi quotidiani e professionali. La soluzione di problemi è un’attività espe-rienziale. Le lezioni che le persone ricordano e trasferiscono con maggior efficacia arrivano dalla loro esperienza di solu-zione di problema, non da lezioni sui contenuti del dominio di riferimento.

Le esperienze sono abitualmente veicolate in forma di casi. Pertanto, tutto l’apprendimento basato su problemi è, an-che, basato su casi. I problemi da risolvere sono rappre-sentati da casi (esperienze) ed altri casi (esperienze) sono utilizzati didatticamente in diversi modi per supportare la soluzione di problemi. Il mezzo principale del problem-based learning è il caso [Jonassen et. al. 2012].

Nel contesto di questa tematica, un caso è la rappresentazio-ne di un’esperienza o di una situazione. Ciò che rende i casi potenti strumenti per l’apprendimento è che nelle professioni e nei mestieri gli operatori capiscono e ricordano in termini di esperienze (casi). Albert Einstein disse: “Tutto il vero ap-prendimento è esperienza. Ogni altra cosa è informazione”.

Abitualmente, i casi rappresentano l’esperienza in forma di una storia che attiva la memoria episodica (memoria degli eventi autobiografici), una forma di memoria che è molto più resistente ad essere dimenticata della memoria semantica (memoria dei significati, della comprensione, dei concetti). Gli esseri umani sembrano possedere un’abilità innata, una predisposizione naturale ad organizzare ed a rappresentare la propria esperienza in forma di storie. Le storie richiedono uno sforzo cognitivo inferiore per la for-ma narrativa che esse hanno di dare struttura all’esperienza [Bruner 1990].

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Nel cased-based learning, i casi sono i mattoni degli ambien-ti di apprendimento. Piuttosto che insegnare agli studenti astrazioni teoriche del campo di studio, i casi descrivono situazioni o scenari dove le quelle teorie sono applicate

Tra le diverse tassonomie di casi, Jonassen [2006] ne ha svi-luppata una che si basa sulla funzione dei casi, sui modi, cioè, in cui gli studenti utilizzano i casi. I casi possono, quindi, essere usati come problemi da risolvere, come eser-cizi svolti di come risolvere il problema, come esperienze precedenti che forniscono un aiuto su come risolvere un problema e come prospettive alternative sul problema da risolvere. Per lo scopo di questo lavoro riteniamo partico-larmente rilavanti i casi come esperienze precedenti.

Un modo per usare i casi per sostenere il problem solving è di aiutare a risolvere il problema attraverso il ricordo di problemi simili al problema che si sta affrontando.

Questo approccio è noto come Case-Based Reasoning [Schank, 1990; Kolodner, 1993]. Ogni qualvolta ci trovia-mo di fronte ad un problema la cui soluzione non è nota, la prima cosa che facciamo è di provare a ricordare un proble-ma simile che abbiamo risolto in passato. Se abbiamo una caso simile in memoria, richiamiamo gli obiettivi, i detta-gli e la soluzione di quel problema e decidiamo se usare o meno quel caso per aiutarci a risolvere il problema con cui ci stiamo misurando. Di solito ci torna in mente per prima l’esperienza precedente più simile al problema da risolve-re. Se il problema recuperato in memoria e quello attuali sono simili, allora il problema è risolto. Se la soluzione non funziona, la revisioniamo e la testiamo. Se la soluzione revi-sionata funziona, allora la immagazziniamo nella memoria associandoci le caratteristiche del problema per un succes-sivo riuso.

Il case-based reasoning è basato sulla teoria della memoria

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51Ambienti di apprendimento per la formazione continua

secondo la quale le esperienze sono codificate nella memo-ria in forma di storie e recuperate e riusate quando necessa-rio [Schank, 1990; Kolodner, 1993].

L’uso di casi come esperienze precedenti in forma di storie è basato sull’assunto che le storie possono agire in sostitu-zione dell’esperienza diretta che i novizi alle prese con pro-blemi da risolvere non posseggono.

Sostenere chi apprende con le storie può aiutare a fare espe-rienza in modo vicario. Qualche studioso afferma che ascol-tare storie è l’equivalente dell’esperienza diretta del feno-meno. Data la carenza di esperienza pregressa del novizio, ci si aspetta che l’esperienza disponibile attraverso storie sostituisca questa esperienza. La loro esperienza preceden-te serve come base per interpretare le situazioni presenti e future consentendo loro di prevenire potenziali problemi, avendo presente cosa evitare e prevedendo le conseguenze delle nostra future decisioni e azioni.

Al fine di rendere operativo il case-based learning, possia-mo costruire raccolte di storie da mettere a disposizione degli studenti quando imparano a risolvere problemi. Ogni esperienza presente nella raccolta rappresenta le esperienze che altri hanno avuto mentre cercavano di risolvere proble-mi. Ciò che rende le raccolte di casi particolarmente potenti è che queste contengono successi ed insuccessi. Dato che impariamo dai nostri errori come impariamo dai successi, avendo la possibilità di avere accesso all’esperienza che emerge da un insuccesso vissuto da altri, ci aiuta a preve-nire l’errore.

Le raccolte di casi contengono la conoscenza esperienziale di esperti problem solver alle prese con problemi che sono simili al problema che si sta risolvendo. I casi inseriti nella raccolta di casi sono presentati allo studente mentre cerca di risolvere un problema come una forma di consiglio su

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cosa fare. Lo studente può decidere se sia il caso di applicare quella soluzione al problema corrente. Questa analisi aiuta gli studenti a costruire solidi modelli mentali del tipo di pro-blemi che stanno imparando a risolvere.

Casi come esperienze precedenti

Ogni volta che siamo di fronte a un problema vorremmo avere subito a nostra disposizione un esperto o un profes-sionista capace che ci aiuti a risolverlo. Gli Ask System van-no in questa direzione.

Un Ask System è una semplice applicazione di Intelligen-za Artificiale che simula una conversazione con un esperto [Ferguson, Bareiss, Birnbaum, & Osgood, 1992]. Gli esper-ti non sono sempre e facilmente individuabili quando ci servirebbero, ma un sistema ipertestuale multimediale che possa simulare una conversazione con un esperto può esse-re reso disponibile quando serve e dove serve via Internet. Oltre a supportare la nostra prestazione just-in-time, un Ask System ci mette a disposizione utili schemi per studiare qualsiasi cosa sotto la guida di un esperto. Un Ask System può essere usato per apprendere a risolvere problemi che vengono presentati in forma di storie e per situare attività autentiche nel contesto di quelle storie.

Essenzialmente, l’Ask System mette a disposizione un di-spositivo di “apprendistato cognitivo” (cognitive apprenti-ceship) in cui l’allievo assume il ruolo di apprendista e l’Ask System quello di esperto.

Questa conversazione tra chi apprende e il sistema avviene nella forma di un dialogo “esopico” (basato su “storie”), un dialogo in cui chi apprende seleziona una domanda da un insieme strutturato e definito di domande presenti nel siste-ma e il sistema risponde con risposte pertinenti.

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L’Ask System consente a chi apprendere di avere accesso alle risposte date dagli esperti allo stesso modo in cui fa-rebbero nelle situazioni di esecuzione di un compito reale, cioè facendo delle domande [Johnson et al. 1998]. Questa conversazione si sviluppa tra la persona che apprende e il sistema attraverso il dialogo dove chi apprende pone del-le domande selezionandole in un gruppo predeterminato e presenti nel sistema e il sistema replica con risposte per-tinenti collocandole all’interno di storie [Ferguson et al. 1992].

Lo scopo principale di un Ask Systems è di guidare il pen-siero e la comprensione dello studente. Un AskSystems mette a disposizione dello studente un contesto di insegna-mento uno-a-uno in uno specifico dominio di conoscenza [Schank, 1994].

Un Ask Systems può avere differenti strutture e obiettivi come le FAQ (Frequently Asked Questions), il problem sol-ving, la metacognizione e la riflessione, le procedure e tante altre ancora. Questo vuol dire che attraverso un Ask System si potrà imparare a risolvere problemi, a riflettere sul pro-prio apprendimento, a seguire procedure o a focalizzarsi su qualsiasi altra dimensione cognitiva o affettiva che il pro-gettista ha posto ad obiettivo dell’apprendimento. L’unica caratteristica comune a tutte le tipologie di Ask Systems è l’uso esclusivo di domande per accedere alle informazioni.

Perché le domande sono strumenti adeguati per apprende-re contenuti? La struttura retorica domanda-risposta è la forma più comune di dialogo nella conversazione natura-le [Graesser et al, 1996]. Porre domande è, inoltre, la più importante abilità nell’apprendimento. Usare domande per imparare è da tempo riconosciuta come una strategia cogni-tiva di particolare efficacia per rinforzare la comprensione [Palinscar & Brown, 1984].

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Gli studenti devono imparare a porre domande significative quando si trovano a vivere una situazione che non capisco-no. Lavorare con domande è una delle componenti cogniti-ve che guidano il ragionamento umano [Graesser, Baggett, & Williams, 1996]. “E’ possibile sostenere che, virtualmen-te, le domande sono al centro di ogni compito complesso che un adulto esegue” [Graesser & Olde, 2003, p. 524]. Questo è particolarmente vero per il problem solving, situa-zione in cui la risposta o la soluzione è sconosciuta, situa-zione in cui ad una domanda si deve dare una risposta in un contesto definito. Per poter risolvere problemi è importante che chi apprende acquisisca le abilità e le strategie di porre domande come pure quelle di dare risposte.

Le domande vengono poste quando le persone fanno espe-rienza di un disequilibrio cognitivo mentre cercano di ri-solvere un problema che è stato attivato da contraddizioni, anomalie, ostacoli, contrasti significativi e incertezza [Gra-esser & Olde, 2003].

Gli Ask Systems sono stati descritti metaforicamente come una conversazione con un esperto. Cosa significa? Forse, la miglior argomentazione per definire un Ask Systems è che esso rappresenta il processo che Schon [Schon1983] chiama “reflection-in-action”, la riflessione nell’azione. Re-flection-in-action descrive il tipo di pensiero riflessivo che un professionista utilizza nell’esecuzione di un compito. Un Ask System è, in effetti, un tutorial uno-a-uno con un professionista esperto che sta riflettendo su una prestazione mentre la esegue.

Le idee di Schon sulla riflessione sono state influenzate dai suoi studi su John Dewey [Dewey1933], il quale descriveva il pensiero in termini di pratica riflessiva. I professionisti, mentre lavorano, provano diversi stati d’animo come la sor-presa e l’incertezza; questi stati d’animo generano, potremo dire automaticamente, delle domande. In questo modo il

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professionista riflette sulla situazione e sulla conoscenza sviluppata attraverso esperienze precedenti. Quella cono-scenza è spesso chiamata a knowing-in-action, conoscere nell’azione, dove il conoscere non è l’azione ma, piuttosto, la conoscenza che si riflette nell’azione. Il knowing-in-ac-tion è una forma di conoscenza procedurale che può essere sviluppata solo attraverso l’esperienza. Quella conoscenza è spesso tacita, il che vuol dire che non diventa consapevole fintanto che non la si richiama. La conoscenza è implicita nella pratica.

Un Ask Systems rende evidente la riflessione spesso incon-scia o tacita che il professionista fa durante la pratica. La re-flection-in-action è knowing-in-action, conoscere-in-azione, una specie di pensare su due piedi. Questo tipo di riflessio-ne rende espliciti a noi stessi le attività di pianificazione che eseguiamo, i processi su cui stiamo lavorando, le aspettative che abbiamo da quel lavoro, le sorprese che proviamo, le strategie di intervento che mettiamo in atto come reazione a quelle sorprese, ci consente di richiamare alla mente cosa ha funzionato e cosa no. Le azioni dei professionisti non sono casuali. Piuttosto, sono sempre ragionate e guidate da uno scopo in modo che quando qualcosa non funziona (come spesso succede), il professionista riflette su cosa fare all’i-stante. La reflection-in-action è, in una certa misura, un’at-tività conscia, che può essere verbalizzata come no. Questa riflessione rappresenta il modello mentale che la persona ha costruito su come agire in compiti complessi e incerti. Gli Ask Systems sono costruiti per verbalizzare quelle riflessio-ni sotto forma di domande. La reflection-in-action articola i nostri assunti e le sfide che quegli assunti il professionista frequentemente incontra.

Progettare un Ask Systems porta a prendere in considera-zione una combinazione di reflection-in-action e di reflec-tion-on-action. La prima viene “estratta” attraverso osser-vazioni e il pensare ad alta voce [Ericsson & Simon, 1993].

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La seconda attraverso l’analisi critica degli incidenti che si sono verificati nell’esecuzione della prestazione. Per rap-presentare in modo adeguato una prestazione è essenziale ricordare successi ed errori. La parte più difficile in questo lavoro è far descrivere al professionista cosa pensava duran-te l’esecuzione della prestazione.

L’uso di studio di caso consente la contestualizzazione di ciò che gli studenti studiano. L’assunto delle teorie del si-tuated learning è che quando le informazioni vengono date fuori dal proprio contesto, perdono molto del loro signifi-cato. Per questa ragione gli studi di caso presentati in forma narrativa sono quanto di più efficace si possa avere per co-struire un Ask Systems.

Pensiero causale

Il tipo più comune di relazione concettuale che sottostà a tutte le forme di pensiero è quello causale (Carey, 2002).

Le proposizioni causali sono costituita da un insieme di con-dizioni e da un insieme di effetti o conseguenze che sono connesse per mezzo di una relazione causale. Per poter com-prendere il funzionamento delle cose, come risolvere pro-blemi o come prendere decisioni, è necessario comprenderei fattori causali che influenzano quelle attività. Per poter fare previsioni (ipotesi), identificare implicazioni, determinare inferenze (diagnosi) e spiegare come ogni cosa funziona, è necessario comprendere la loro relazione causale.

Le spiegazioni richiedono la conoscenza funzionale (fun-ctional knowledge) dell’entità o del sistema che si deve spiegare. Lo sviluppo di conoscenza funzionale richiede la comprensione della funzione, della struttura delle interrela-zioni tra le componenti in ogni sistema e la relazioni causali esistenti tra di esse (Sembugamoorthy & Chandrasekaran, 1986).

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Per lo sviluppo di questa comprensione, per imparare a prendere decisioni, a risolvere problemi o a spiegare il fun-zionamento delle cose, gli studenti possono usare un Ask System che focalizzi la loro attenzione sui fattori causali presenti all’interno di un problema o di un caso.

Autori maggiormente significativi

Gli Ask System sono stati sviluppati originariamente da Roger Schank e dai suoi colleghi all’Institute for Learning Sciences at Northwestern University [Bareiss & Osgood, 1993; Cleary & Bareiss, 1996; Ferguson, Bareiss, Birnbaum, & Osgood, 1992; Johnson, Birnbaum, Bareiss, & Hinrichs, 1998, 2000].

Lo scopo di questi ricercatori era di identificare metodi alternativi alla lezione diretta per strutturare e utilizzare informazioni in formato ipertestuale e multimediale. Per l’Ask System adottarono la metafora della conversazione con un esperto che consente all’utilizzatore di accedere a informazioni sotto forma di risposte alle sue domande. Questo approccio consente all’utilizzatore di trarre bene-ficio come dalla conversazione con un esperto [Bareiss & Osgood, 1993].

David Jonassen e altri autori hanno sviluppato l’idea origi-naria di Schank per correlare l’approccio con lo sviluppo di processi cognitivi quali il pensiero causale, il problem sol-ving, la metacognizione e per esplorare le opportunità per l’apprendimento significativo dell’uso di storie.

Corsi ed obiettivi di apprendimento per cui la strategia può essere utilizzata

La strategia di apprendimento Ask System è un approccio

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didattico finalizzato alla comprensione autentica delle te-matiche, ad un apprendimento che vada oltre la memoriz-zazione.

Sulla base di questo presupposto, l’approccio può essere utilizzato in una vasta gamma di situazioni e obiettivi di-dattici organizzando, sulla base dell’approccio stesso, o un intero percorso formativo oppure una sua parte focalizzan-dosi o su alcuni contenuti oppure su specifici obiettivi di apprendimento (come lo sviluppo di abilità cognitive e me-tacognitive).

I contesti di apprendimento che meglio possono trarre beneficio, in termini di qualità dell’apprendimento, sono quelli dove è richiesta l’applicazione della conoscenza (oltre la sua mera memorizzazione e ripetizione), il trasferimento dell’apprendimento tra contesti differenti, l’apprendimen-to di compiti che assumono forme differenti a seconda del contesto in cui essi si devono svolgere, la soluzione di pro-blemi aperti.

Attraverso un Ask System, strutturato in modi differenti, si potrà imparare a risolvere problemi, a riflettere sul pro-prio apprendimento, a seguire procedure o a focalizzarsi su qualsiasi altra dimensione cognitiva o affettiva che il proget-tista dell’attività formativa abbia posto ad obiettivo dell’ap-prendimento.

Un Ask System può essere usato come supporto just-in-time alle attività che si stanno svolgendo, per avere a dispo-sizione schemi di apprendimento che possono tornare utili per studiare qualsiasi cosa e per fare tutto questo sotto la guida di un esperto.

Un Ask System si presta a essere usato per apprendere a risolvere problemi che vengono presentati in forma di storie e per situare attività autentiche nel contesto di quelle storie.

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59Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Obiettivi di apprendimento che possono trarre beneficio dall’utilizzo di Ask System sono• Il problem solving: Il Problem solving è spesso consi-

derato come il più significativo risultato dell’appren-dimento ma spesso gli studenti incontrano difficoltà a “lavorare” con un problema: interpretare il problema, trovare soluzioni, comprendere la vera natura del pro-blema. Quando si impara a risolvere problemi, i pro-blemi potrebbero essere presentati in forma di un Ask System

• La comprensione di processi: gli Ask Systems possono essere usati per aiutare gli utenti a comprendere meglio i processi. Questo si ottiene rendendo evidente, attra-verso tecniche adeguate, la struttura del processo in questione.

• Lo sviluppo metacognitivo: un ulteriore uso degli Ask System riguarda la possibilità di inserire nelle domande aiuti metacognitivi. La metacognizione è composta di conoscenza della cognizione (knowledge of cognition) e dalla regolazione della cognizione (Flavell, 1979). La conoscenza della cognizione comprende la conoscen-za delle abilità richieste per l’esecuzione di compiti differenti, conoscenza strategica (conoscenze di stra-tegie alternative di apprendimento e quando usarle) e conoscenza del sé - self-knowledge - conoscenza delle proprie abilità a delle abilità degli altri (Flavell, 1987). La regolazione della cognizione comprende l’abilità di monitorare la propria comprensione e di controllare le proprie attività di apprendimento. Il fattore di auto-regolazione della metacognizione descrive le attività che regolano e supervisionano l’apprendimento come la pianificazione (prevedere i risultati, programmare le strategie) e le attività di monitoraggio dei problemi (monitoraggio, testing, revisione e ri-programmazione durante l’apprendimento).

• Il supporto nello studio di casi: Gli Ask Systems sono usati molto spesso per aiutare gli studenti ad esaminare

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studi di caso interattivi. Gli Ask Systems possono essere usati in un contesto di goal-based scenarios,situazioni basate su obiettivi da raggiungere (vedi scheda dedica-ta), dove gli studenti sono inseriti immersi in situazio-ni orientate ad obiettivi, goal-oriented situatio (ad es. la vendita di pubblicità per le Pagine Gialle, realizza-re nuove pratiche di business). Situazioni didattiche di questo tipo sono necessarie per imparare a eseguire attività autentiche, reali. Queste attività di apprendi-mento sono sostenute attraverso aiuto dati sotto forma di narrazione di storie, storie che sono indicizzate e a cui si accede usando l’approccio case-based reasoning (Schank & Cleary, 1995). Ogni attività è rappresentata da un caso. Ogni caso (scenario) è presentato in forma di una narrazione (storia). Ogni caso presentato contie-ne le risposte a ognuna delle domande poste attraverso l’Ask System. L’uso di studio di casi consente, anche, la contestualizzaione di ciò che gli studenti studiano. L’as-sunto delle teorie del situated learning è che quando le informazioni vengono date fuori dal proprio contesto, perdono molto del loro significato. Per questa ragio-ne gli studi di caso presentati in forma narrativa sono quanto di più efficace si possa avere per costruire un Ask Systems.

Come macro-ambiti di utilizzo identifichiamo:• la formazione iniziale, o al lavoro,• la formazione continua, o sul lavoro,

Nella formazione iniziale, l’Ask System può essere efficace-mente utilizzato:• nel contesto di materia professionali,• per integrare gli argomenti di teoria e quelli di pratica,• nell’ambito di obiettivi didattici comprensione autenti-

ca della pratica professionale,• per il contestuale potenziamento dei processi cognitivi

e meta cognitivi,

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61Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Nella formazione continua quando:• l’oggetto dell’azione formativa sono uno o più compiti

professionali,• l’esecuzione professionale di questi compiti non richie-

de la mera memorizzazione di procedure semplici e/ di routine ma la comprensione di meccanismi di funziona-mento complessi,

• quei compiti richiedono un approccio di problem solving,• si può avere agevole accesso a casi/storie professionali

su quei compiti professionali.

Vantaggi o punti di forza

I vantaggi dell’utilizzo di questa strategia di apprendimento sono:• possibilità di sviluppare un approccio didattico “ricco”

(che va ad agire sui processi cognitivi, sostenendoli e potenziandoli) seguendo semplici “regole” di progetta-zione e sviluppo;

• possibilità di utilizzare un ambiente di apprendimento basato su compiti professionali direttamente correlati con la professione;

• possibilità di attivare processi di apprendimento pro-fondi, stabili, significativi per la professione cui ci si prepara o che si svolge;

• possibilità di essere usata tanto nella formazione inizia-le/al lavoro, che in quella continua/sul lavoro.

Svantaggi o punti di debolezza

Possono essere considerati punti di debolezza di questo ap-proccio:• il tempo necessario a svolgere un’accurata analisi dei

compiti professionali e allo sviluppo delle “storie” pro-fessionali cui sono correlate le domande;

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• la non esistenza di ambienti simili in italiano e di dover, in una fase iniziale, fare riferimento ad esempi in lingua inglese, esempi che si conformano anche alla cultura di quel paese;

• la limitata disponibilità di professionalità adeguate a sviluppare Ask System, professionalità che, comunque, si devono formare facendo;

• la significativa differenza di approccio didattico rispet-to alla didattica tradizionale che potrebbe creare resi-stenza tanto in insegnanti che studenti;

• la probabile non percezione del valore aggiunto, in ter-mini di tipologia e qualità dell’apprendimento, di que-sto approccio e il conseguente non ritenere adeguato il “costo” (materiale e immateriale) dell’intera operazione.

Indicazioni operative (lato erogatori, lato utenti)

L’utilizzabilità di questo approccio è legata:• all’identificazione di una ben specifica e delimitata area

professionale su cui ancorare l’ask system;• la disponibilità dei soggetti coinvolti nella formazione

(organizzatori, progettisti, docenti, utenti) ad adottare un approccio diverso da quelli abitualmente utilizzati.

Lo sviluppo di un Ask System inizia con l’analisi della pro-fessione e/o della prestazione in oggetto. Questa analisi va fatta lavorando con alcuni esperti della professione.

Il primo passaggio è l’identificazione delle attività che l’o-peratore normalmente svolge, attività usuali oppure occa-sionali.

Successivamente queste attività vanno analizzate nelle loro criticità. Un modo per identificare le criticità è identificare, per ciascuna attività, le decisioni che vanno prese nel loro svolgimento e le cose che potrebbero andare male.

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63Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Il terzo passaggio riguarda la scelta delle attività su cui si vuol lavorare che potrebbero essere quelle a maggior cri-ticità.

Il quarto passaggio riguarda la formulazione delle doman-de prestando attenzione ad utilizzare differenti tipologie di domanda

Completata la fase della progettazione inizia quella del suo sviluppo la fase certamente più laboriosa è la raccolta delle storie professionali; questa attività viene realizzata intervi-stando uno o più professionisti esperti del settore. La forma migliore per raccogliere le storie è la videoregistrazione

Una volta raccolte le storie vanno montate associando ad ogni domanda la sua “risposta”

L’utente può utilizzare l’ambiente sviluppato o come pro-pria formazione cliccando su ciascuna domanda ed appren-dendo dall’esperienza dell’esperto ed usando quelle rispo-ste per risolvere casi didattici, oppure come strumento per il supporto alla prestazione cercando, quando necessario, le risposte ai problemi incontrati nel corso del lavoro.

Esempi

Un Ask System in italiano è stato sviluppato presso la Ri-partizione 21, formazione professionale in lingua italiana ed è accessibile in http://www.provincia.bz.it/fp/reception/. Il tema trattato è quello delle tecniche di ricevimento alber-ghiero (figura 1) ed è stato sviluppato per la formazione de-gli studenti del 3^ anno di scuola alberghiera. L’analisi delle attività professionali significative è stata realizzata lavoran-do con tre senior addetti al ricevimento che rappresenta-vano realtà aziendali differenti e due insegnanti di tecnica di ricevimento; le storie sono state raccolte intervistando 4

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addetti al ricevimento. Per numerose domande sono state raccolte due storie per disporre di differenti punti di vista.

In lingua inglese si cita l’esempio del curricolo per la forma-zione alla protezione dalle radiazioni. Il curricolo tradizio-nale è stato convertito completamente in ask system. Nella progettazione di quel curricolo è stata effettuata l’analisi delle attività svolte dei tecnici per la protezione dalle radia-zioni in differenti contesti operativi. Sono state analizzate le attività dei tecnici per la protezione dalle radiazioni, gli strumenti da loro utilizzati nello svolgimento di quelle atti-vità, le relazioni sociali che si creano nello svolgimento di quelle attività, gli obiettivi e le finalità di quelle attività, gli oggetti e i prodotti delle stesse. Osservando e intervistando tecnici esperti in differenti situazioni, esaminando gli stan-dard regolamentari che si sono dati e le specifiche procedu-re e documentazione, gli sviluppatori si sono focalizzati su ciò che i tecnici fanno nel proprio lavoro.

fIGura 1. Ask System per addetto al ricevimento d’albergo

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Piuttosto che organizzare il curricolo attorno ai contenuti disciplinari, hanno organizzato il curricolo attorno a casi che descrivono le attività che quei tecnici svolgono regolarmen-te. Rispetto a quelle attività e interagendo con tecnici esperti, sono state generati gruppi di domande per ogni tipo di at-tività, domande simili a quelle che un tecnico si pone quan-do deve fronteggiare una specifica situazione di protezione dalle radiazioni. La figura 2 illustra l’interfaccia progettata per consentire all’utilizzatore l’accesso alle informazioni in risposta alla domande selezionate.

Gli studenti identificano la domanda “principale” cui ri-spondere e cliccando su quella domanda accedono a do-mande più specifiche.

Quando uno studente seleziona una domanda gli viene pre-sentata una storia o una sua parte che ha dei riferimenti con la domanda. Se la domanda è: “Quali processi sono coinvol-ti nella risposta a questo evento?” allo studente sarà presen-

fIGura 2. Ask System per la formazione alla protezione da radiazioni

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tata la narrazione di come il supervisore e il tecnico hanno affrontato l’evento stesso. Lavorando con tutte le domande, lo studente imparerà tutti gli aspetti rilevanti dell’evento. In aggiunta, imparerà come fare domande appropriate sugli eventi radiologici.

Tecnologie necessarie

Gli Ask Systems sono abitualmente sviluppati in forma di sistemi ipertestuali multimediali e resi accessibili via Inter-net.

I sistemi ipertestuali possono esser scritti in codice html usando un qualsiasi editors di html (per esampio, Dre-amweaver). Ci sono anche programmi autore specializza-ti per ipertesti quali Hyper-Publish (www.hyper-publish.com), HyperText Studio (www.olsonsoft.com), Paper Killer by Visual Vision (www.filesland.com/software/hypertext-authoring.html), e molti altri.

Vedi www.hypertextcentral.com per risorse in italiano.

Questi strumenti sono relativamente facili da imparare. Gli Ask System possono essere gestiti anche attraverso Moodle.

Gli Ask Systems possono anche essere convertiti in formato cartaceo anche se la distribuzione a stampa non attiva le ricche potenzialità dell’ipertestualità interna all’Ask System o verso risorse esterne, attività che sono rese possibili da un sistema ipertestuale basato su pc. La documentazione a stampa, inoltre, non consente all’autore di inserire compo-nenti multimediali, come i video.

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rIferImentI bIblIoGrafIcI

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cognItIve FlexIbIlIty HyPerextsIPertestI Per la FlessIbIlItà cognItIvaGiovanni Marconato

Descrizione

Gli “ipertesti per la flessibilità cognitiva” sono ambienti di apprendimento problem-solving oriented e lavorando con essi è possibile migliorare la comprensione di tematiche (di-sciplinari o interdisciplinari) che fanno riferimento a que-stioni complesse ed a problemi reali (termine usato come contrapposizione a “problemi scolastici”) che non hanno unica soluzione, che presentano una pluralità di punti di vista e per la soluzione dei quali sia necessario riconciliare differenti prospettive.

L’utilizzo didattico di un CFH ha, quindi, impatto sulla comprensione di specifici domini di conoscenza e sullo svi-luppo di processi cognitivi di ordine elevato come il pro-blem solving, la comprensione profonda, l’abilità di transfer degli apprendimenti.

Ad oggetto del CFH viene assunta una tematica di interesse didattico che viene affrontata attraverso casi reali, punti di vista, tematiche trasversali.

I CFH,che possono essere sviluppati in formato testuale o multimediale, possono essere prodotti dai docenti ed essere utilizzati dagli studenti per risolvere casi e problemi didat-tici, oppure essere sviluppati dagli studenti come “compito di apprendimento”.

Gli Ipertesti per la flessibilità cognitiva sono la traduzione della teoria della Flessibilità Cognitiva (Cognitive Flexibility Theory, Spiro & Jehng, 1990). Questa teoria sottolinea, tra l’altro, l’importanza della didattica basata su casi. Piuttosto

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che astrarre idee e teorie dai casi (problemi), è necessario che a chi apprende sia trasmessa la ricchezza contestuale che definisce i casi.

Così, come la maggior parte della concezioni situate dell’ap-prendimento, la teoria della flessibilità cognitiva ritiene che fino a che le idee non saranno presentate nel contesto di situazioni autentiche, gli studenti non saranno in grado di comprendere il significato presente nei problemi e non sa-ranno in grado di muoversi tra le molteplici prospettive pre-senti in ogni problema.

Fondamenti concettuali

Lo scopo della teoria della Flessibilità Cognitiva è chiarire i processi cognitivi che possono facilitare l’acquisizione di cono-scenza di livello avanzato da utilizzare come base per la com-petenza in domini di conoscenza complessi e non strutturati3.

La teoria della flessibilità cognitiva è stata sviluppata per porre rimedio alla comprensione distorta o incompleta che una didattica convenzionale, con l’approccio della “riduzio-ne didattica” induce quando si affrontano tematiche com-plesse e si propone lo scopo di promuovere l’acquisizione di conoscenza di livello avanzato.

Le ragioni della comprensione distorta sono da ricercarsi nella “tendenza riduttiva”, cioè la comprensione iper-sem-plificata di importanti concetti, specialmente in domini di conoscenza che sono concettualmente complessi (Feltovich, Spiro, & Coulson, 1989). Tanta didattica iper-semplifica il contenuto che cerca di trasmettere, perché si ritiene che sia impossibile trasmettere un adeguato livello di complessità concettuale a novizi che posseggono una inadeguata strut-

3 Questo paragrafo è un estratto adattato di Jonassen et. al, 1997

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tura di conoscenza precedente. Attraverso la “riduzione di-dattica” si filtra la complessità esistente nella maggior parte di domini di conoscenza applicata, causando una compren-sione superficiale del dominio di conoscenza in questione.

Questo processo di semplificazione si realizza utilizzando, come prototipi di riferimento, esempi, casi, analogie che sono essi stessi semplificati oppure singoli casi. I casi sem-plificati sono molto più facili da concettualizzare e da imple-mentare nella maggior parte dei contesti di apprendimen-to. I contenuti sono organizzati in strutture di conoscenza preconfezionate che trasmettono l’idea che il contenuto sia sempre regolare ed abbia un significato chiaro, univoco e condiviso. Ma la conoscenza che risulta da questo approc-cio è essa stessa preconfezionata e rigida e, pertanto, non facilmente adattabile a contesti di apprendimento diversi da quello in cui è stata acquisita (Spiro, Vispoel, Schmitz, Sa-marapungavan, & Boerger, 1987).

Un convincimento implicito nella conoscenza preconfezio-nata (pre-packaging knowledge) e nella maggior parte dei modelli tradizionali di didattica è che la conoscenza sia in-dipendente dal contesto e dal contenuto e che conoscenza e abilità, una volta acquisite, siano facilmente trasferibili in contesti differenti.

La teoria della flessibilità cognitiva accentua il ruolo del contesto, in quanto l’informazione acquisita in contesti re-ali è meglio ritenuta, l’apprendimento che ne risulta è più generativo, di ordine elevato, maggiormente significativo e il transfer dell’apprendimento è più ampio e più accurato (Spiro,1989; Spiro et al, 1987).

La progettazione didattica per domini di conoscenza d’or-dine avanzato è difficile perché spesso la conoscenza del domino è essa stessa non strutturata. La conoscenza non strutturata è quella presente in concetti non chiaramen-

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te definiti, quelli con attributi variabili e criteri ambigui. Abitualmente a scuola abbiamo a che fare con categorie e costrutti regolari e ben strutturati, ma nel mondo reale gli eventi ed i fenomeni spesso non sono ben definiti e tendono ad essere caratterizzati solo da pochi principi che possono avere valore generale.

Per questa ragione non è possibile considerare la maggior parte dei casi reali come casi prototipali o come casi che possono rappresentare l’universalità della tematica. Consi-derare specifici casi come “prototipi” di situazioni generali è fuorviante perché anche lo stesso aspetto di un caso può assumere un diverso significato a seconda del contesto in cui quel caso è usato. Un caso, per questa ragione, è sempre un caso “nuovo” proprio per le interazioni che sempre si hanno tra le caratteristiche del caso ed il contesto in cui si pone. (Spiro at al, 1987, 1988).

Per superare le fonti di fraintendimento, equivoco, malin-teso, la teoria della flessibilità cognitiva cerca di evitare una didattica che ipersemplifichi i temi ed i concetti (Spiro et al, 1988).

Gli ipertesti progettati sulla base della teoria della flessi-bilità cognitiva sottolineano l’interrelazione concettuale delle idee e la rendono evidente nella struttura ipertestuale dell’ambiente di apprendimento.

Gli ipertesti per la flessibilità cognitive riflettono la com-plessità delle situazioni che abitualmente incontra un pro-fessionista, piuttosto che considerare i problemi professio-nali come una semplice sequenza lineare di decisioni da prendere.

Al fine di favorire una comprensione autentica, gli ipertesti per la flessibilità cognitiva forniscono una rappresentazione multipla dei contenuti.

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Abitualmente, le pratiche didattiche si basano sull’as-sunto che ci sia un solo modo, il migliore, per trattare le conoscenze, che ci sia un solo schema o un solo concetto che descriva al meglio qualsiasi oggetto o evento. Ma, per comprendere la complessità del mondo reale, lo studente dovrebbe comprendere e riconciliare, a livello personale, differenti interpretazioni di una realtà, di un contenuto.

Il trasferimento delle conoscenze acquisite a nuove situazio-ni, che è un processo cognitivo essenziale nel problem sol-ving, richiede la comprensione di rappresentazioni mentali multiple e queste sono meglio apprese attraverso l’uso di-dattico di analogie multiple (Gick & Holyoak, 1983). “Solo attraverso l’uso di schemi, concetti, prospettive tematiche multiple la natura multisfaccettata di un’area tematica può essere rappresentata e compresa” (Jacobson, 1990, p. 21).

La teoria della flessibilità cognitiva rappresenta intenzional-mente prospettive ed interpretazioni multiple del contenu-to oggetto dell’insegnamento.

Spiro mutua da Ludwig Wittgenstein la ricca metafora “criss-crossing the landscape” (attraversamento incrociato di un territorio) per descrivere fisicamente quel processo. Lo studente attraversa in modo incrociato il territorio intel-lettuale del dominio di contenuto approcciandolo da pro-spettive multiple o attraverso temi multipli.

Come molti approcci costruttivisti all’apprendimento, la teoria della flessibilità cognitiva assegna grande valore alla didattica basata su casi. Ma piuttosto che basare la didattica su un singolo esempio o caso, è importante che per illustrare un dominio di contenuto siano usati una varietà di casi. Più questi casi sono differenti l’uno dall’altro, più ampia sarà la base concettuale che si svilupperà. Questi casi dovreb-bero, anche, essere autentici e richiedere l’attivazione dello stesso ragionamento che viene richiesto nei contesti reali.

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La non strutturazione dei diversi domini di conoscenza è meglio rappresentata attraverso prospettive e temi multipli presenti in più casi. Un’ampia disponibilità di casi multipli crea numerosi contesti applicativi per l’acquisizione di co-noscenza.

Nel processo di riconciliazione di prospettive multiple pre-senti in casi autentici, chi apprende ha la possibilità di co-struire la propria interpretazione della verità. Piuttosto che trasmettere conoscenza oggettiva e chiedere agli studenti di codificare quelle rappresentazioni, questi dovrebbero es-sere responsabili di costruire la propria rappresentazione della conoscenza allo scopo di adattarla ed usarla in nuove situazioni.

Infine, gli ipertesti per la flessibilità cognitiva sostengono la complessità. Piuttosto che trasferire modelli ipersempli-ficati di conoscenza allo studente, sarebbe più utile ai fini dell’apprendimento fare in modo che lo studente sia in gra-do di cogliere la sua complessità, la sua soggettività, le in-congruenze o le ambiguità presenti applicandola in contesti differenti o correlandola a differenti prospettive mentre la sta apprendendo.

La Teoria della flessibilità cognitiva comunica questa com-plessità attraverso la presentazione di rappresentazioni multiple della stessa. Al fine di costruire utili strutture di conoscenza, lo studente ha la necessità di comparare e con-trapporre le similarità e le differenze tra i casi.

Autori maggiormente significativi

La teoria della flessibilità cognitiva è stata messa a punto da Randy Spiro, Paul Feltovich, Michael Jacobson e Richard L. Coulson nel 1988 ed affinata attraverso ricerche succes-sive svolte anche da David Jonassen.

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Corsi ed obiettivi di apprendimento per cui la strategia può essere utilizzata

La strategia didattica può essere utilizzata in tutti i contesti educativi modulando, sulla base delle abilità e delle cono-scenze degli studenti, le modalità di utilizzo didattico, la tipologia di domande che vengono formulate agli studenti ed i problemi da risolvere che vengono loro assegnati. L’ap-proccio può essere, pertanto, utilizzato nell’ambito del si-stema di istruzione e della formazione professionale, tanto iniziale che continua.

I Cognitive Flexibility Hypertext possono essere utilizzati in corsi con oggetto un dominio di conoscenza complesso di cui si intende promuovere una conoscenza autentica e profonda, in cui ci si pone l’obiettivo che la persona che apprende possa rendersi consapevole della complessità in-sita nella questione e possa formulare, rispetto ad essa, una propria argomentata posizione.

L’approccio è utilizzabile anche per sostenere lo sviluppo di abilità di problem solving, di forme di pensiero plurale e di argomentazione.

Vantaggi o punti di forza

Il punto di forza dell’approccio è dato dal contributo che offre allo sviluppo di processi di apprendimento di ordi-ne elevato, come il problem solving, ed è particolarmente utile nell’attivazione e nel sostegno di un apprendimento profondo e nello sviluppo di abilità di transfer dell’appren-dimento.

Il fatto che il CFH possa essere costruito sul web, rende possibile forme di didattica collaborativa.

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Svantaggi o punti di debolezza

Di per sé la strategia non presenta alcuno svantaggio. Nel contesto delle nostre abitudini didattiche (tanto come eroga-tori, che come utenti), l’approccio potrebbe risultare essere impegnativo in termini di tempo necessario per svolgere le attività di apprendimento e di carico cognitivo.

Anche lo sviluppo dell’ambiente di apprendimento potreb-be richiedere tempo ed energie, ma, una volta prodotto, si dispone di una risorsa didattica riutilizzabile in differenti contesti.

Indicazioni operative (lato erogatori, lato utenti)

La fattibilità didattica della strategia didattica è legata, in una prima fase, alle condizioni necessarie allo sviluppo del CFH, operazione che richiede una specifica competenza (la prima volta può essere sviluppato in supervisione di un esperto). Sviluppare un CFH può richiedere abbastanza tempo per la definizione del tema principale, per la ricerca e lo sviluppo dei casi e delle prospettive presenti in essi, per l’estrazione delle tematiche trasversali, per la ricerca degli approfondimenti e per il montaggio informatico del tutto.

Le risorse necessarie allo sviluppo sono determinate, anche, dall’articolazione dell’ambiente stesso, cioè dal numero dei casi che si intendono utilizzare: un buon CFH può com-prendere anche solo 3 casi.

Il CFH può essere sviluppato in formato testuale e/o mul-timediale, comunque con materiali “poveri”, cosa che non richiede particolari competenze tecniche.

In alcuni contesti didattici (tipicamente scolastici) il CFH può essere oggetto di un’attività di apprendimento: il CFH

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può essere sviluppato dagli studenti ed il prodotto fina-le rappresenta la conoscenza costruita dagli studenti. Gli studenti apprendono mentre esplorano la tematica in que-stione alla ricerca dei casi e sviluppano le differenti sezioni dell’ipertesto.

Dal lato “utenti”, l’utilizzabilità dell’approccio è data dalla volontà e dalla motivazione di intraprendere un percorso formativo di un certo impegno cognitivo e, in alcuni casi, anche di tempo. La questione diventa, quindi, cosa si voglia imparare e dalla valutazione che si fa del rapporto costi/benefici.

Dato che la teoria della flessibilità cognitiva viene abitual-mente implementata in ipertesti ad accesso casuale che contengono una molteplicità di casi, prospettive, temi, e/o teorie, questi non devono essere intesi per essere studiati sequenzialmente.

Ciò significa che leggere un Cognitive Flexibility Hypertext dall’inizio alla fine non può fornire alcun beneficio. Piut-tosto, i Cognitive Flexibility Hypertext vanno usati per so-stenere la comparazione analogica di casi, temi, prospettive e/o teorie.

Infatti, la teoria della flessibilità cognitive nasce dalla convinzione che, benché dotate di un certo potere, ana-logie singole sono inadeguate per una comprensione di livello profondo. La soluzione, ovviamente, sta nell’uso di analogie multiple in forma di prospettive, temi, teorie, ecc. Gli studenti dovrebbero comparare e contrapporre i casi in termini di prospettive, temi, ecc. In questo modo gli studenti possono analizzare un singolo caso in termini di differenti prospettive o temi. O possono comparare casi esaminando differenti casi nei termini di uno stesso tema.

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I Cognitive Flexibility Hypertext sono concepiti per essere acceduti in modo non-linearle al fine di supportare diffe-renti tipi di attività di problem solving. Per poter descrive-re come i cognitive flexibility hypertexts potrebbero esser usati, Spiro ha adottato la metafora dell’”attraversamento incrociato del territorio” (“criss-crossing landscape”) creata da Ludwig Wittgenstein per descrivere quel processo. Piut-tosto che leggere dall’inizio alla fine, lo studente attraversa in modo incrociato il territorio intellettuale del dominio di contenuto guardandolo, considerandolo da prospettive multiple o attraverso i temi. Uno studente con un caso può esaminare una prospettiva, vedere quale tema è interrelato con quella prospettiva, o esaminare un altro caso nei termi-ni di quella prospettiva.

Esempi

Il CFH allegato a questa pubblicazione è un esempio con-creto dell’approccio qui sviluppato ed affronta il tema (che è un vero e proprio “problema aperto”) della progettazione della formazione continua. I casi utilizzati sono casi reali e raccolti presso agenzie formative che operano in Alto Adi-ge Suedtirol. L’ipertesto è, anche, un esempio di come si possono situare i “contenuti” teorici all’interno di specifici contesti di utilizzo, cioè i casi.

A questo indirizzo web http://www.giovannimariani.it/teresa/ è accessibile un CFH sviluppato da un gruppo di insegnanti della scuola primaria con lo scopo di affrontare con i loro studenti la tematica del complesso rapporto tra l’uomo e l’ambiente.

La logica dei CFH è stata utilizzata in questo ambiente qui http://www.provincia.bz.it/fp/gutenberg/ per promuovere la consapevolezza del significato della storia invitando gli studenti ad esplorare due epoche storiche molto distanti ma

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caratterizzate da medesime dinamiche sociali, culturali ed economiche e di potere.

Tecnologie necessarie

Gli Ipertesti per la flessibilità cognitiva abitualmente sono implementati in forma di sistemi ipertestuali multimediali e resi accessibili via Internet. I sistemi ipertestuali possono es-sere scritti in codice html usando un qualsiasi editors di html (per esempio, Dreamweaver). Ci sono anche dei programmi autore specializzati per ipertesti quail Hyper-Publish (www.hyper-publish.com), HyperText Studio (www.olsonsoft.com), Paper KillerbyVisual Vision (www.filesland.com/sof-tware/hypertext-authoring.html), e molti altri. Vedi www.hypertextcentral.com per risorse in italiano.

Gli Ipertesti per la flessibilità cognitiva possono anche essere convertiti in formato cartaceo benchè la distribuzione a stam-pa non attivi le ricche potenzialità dell’ipertestualità interna o verso risorse esterne rese possibili da un sistema ipertestuale basato su pc. Così come la documentazione a stampa non consente all’autore di inserire componenti multimediali.

rIferImentI bIblIoGrafIcI

Feltovich, P.J., Spiro, R.J., & Coulson, R.L. (1989). The nature of con-ceptual understanding in biomedicine: The deep structure of complex ideas and the development of misconceptions. In. D. Evans & V. Patel (Eds.), The cognitive sciences in medicine. Cambridge, MA: MIT Press.

Gick, M.L. & Holyoak, K.J. (1983).Schema induction and analogical transfer. Cognitive Psychology, 12, 306-365.

Jonassen, D.H., Dyer, D., Peters, K., Robinson, T., Harvey, D., King, M., & Loughner, P. (1997). Ipertesto per la flessibilità cognitiva sul web: impegnare gli studenti in costruzione di significato In B. Khan (Ed.), Web-based instruction. Englewood Cliffs, NJ: Educational Technology Publications. (pp. 119-134).Traduzione italiana di Giovanni Marconato

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Spiro, R.J., Vispoel, W., Schmitz, J., Samarapungavan, A., & Boerger, A. (1987). Knowledge acquisition for application: Cognitive flexibility and transfer in complex content domains. In B.C. Britton (Ed.), Executive control processes. Hillsdale, NJ: Lawrence Erlbaum Associates.

Spiro, R.J. & Jehng, J.C. (1990). Cognitive flexibility and hypertext: The-ory and technology for the non-linear and multi-dimensional traversal of complex subject matter. In D. Nix & R.J. Spiro (Eds.), Cognition, edu-cation, and multimedia: Explorations in high technology. Hillsdale, NJ: Lawrence Erlbaum.

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ambIentI dI aPPrendImento orIentatI al Problem solvIngBeate Weyland

Descrizione

Un “ambiente di apprendimento” è un luogo (materiale o virtuale) dove viene data la possibilità agli allievi di deter-minare i propri obiettivi di apprendimento, di scegliere le attività da svolgere, dove viene dato accesso a risorse infor-mative (libri, courseware, video ) ed a strumenti (word pro-cessor, e-mail, motori di ricerca, ecc ), con i quali lavorare in autonomia, in gruppo con il supporto consultivo di un docente o senza.

È “ un luogo dove le persone che apprendono possono lavorare assieme e supportarsi l’un l’altro mentre usano una varietà di strumenti e di risorse informative nel loro compito di conseguire gli obiettivi di apprendimento e di risolvere problemi”. (Wilson, 1996)

L’ambiente di apprendimento può essere inteso come luogo fisico o digitale, ma anche come spazio mentale e cultura-le, organizzativo ed emotivo/affettivo che, da una visione incentrata sull’insegnamento (che cosa insegnare) si sposta su una prospettiva focalizzata sul soggetto che apprende e quindi sui suoi processi, con particolare attenzione a come è costruito il contesto di supporto all’apprendimento (come facilitare, come guidare, come accompagnare gli allievi nella costruzione dei loro saperi, e perciò quali situazioni orga-nizzare per favorire l’apprendimento).

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Fondamenti concettuali

Gli ambienti di apprendimento problem-solving oriented hanno l’obiettivo di migliorare la comprensione di temati-che (disciplinari o interdisciplinari) che fanno riferimento a questioni complesse ed a problemi reali (termine usato come contrapposizione a “problemi scolastici”) che non hanno unica soluzione, che presentano una pluralità di pun-ti di vista e per la soluzione dei quali sia necessario riconci-liare differenti prospettive.

Essi facilitano il conseguimento di conoscenze avanzate che supportano performance complesse perché sottolineano il valore e l’incidenza frequente dei compiti di problem sol-ving nei più svariati contesti (personali, professionali, di for-mazione, ecc.) del mondo reale (Jonassen 2010).

Nell’ambiente di apprendimento che si basa su teorie di tipo costruttivista sociale e sull’approccio culturale situato si considerano i concetti di costruzione, contesto e collabora-zione come elementi fondanti di tutti i processi di insegna-mento-apprendimento. Fare con quello che si sa, e rendere vitale quello che si sa, trasforma – secondo il costruttivi-smo – ogni membro dell’ambiente di apprendimento, in “apprendista” della conoscenza, insegnante compreso, che, come con l’antico maestro di bottega, impara “il pensare” e “l’agire” della disciplina, nella progettazione e nella realiz-zazione quotidiana di prodotti complessi (Ellerani, 2007).

Autori maggiormente significativi

Le teorie di riferimento per questi ambienti di apprendi-mento si rifanno in particolare al problem solving (Jonassen 2010),alla teoria della flessibilità cognitiva (Spiro & Jehng, 1990) al case based reasoning (Kolodner 1992) e all’appren-dimento situato (Seely Brown, Collins e Duguid, 1989; Gre-

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eno, 1989), per le quali si rimanda alle schede del presente volume.

Con il libro “Theortetical Foundations of Learning Envi-ronments” (Jonassen, Land 1999, 2012, seconda edizione) è stata inaugurata una nuova concezione degli ambienti di apprendimento a partire dalla convergenza delle teorie che emersero negli anni ‘90 centrate sulla rivoluzione nell’am-bito psicologico accompagnata dal costruttivismo e sulle concezioni legate all’apprendimento situato.

A David Jonassen in particolare si riconosce la riflessione puntuale sulla funzione costruttiva dello studente come “attivo apprendente”, il quale gioca un ruolo centrale nel mediare e controllare l’apprendimento in questi specifici ambienti orientati al problem solving. (D. Jonassen, 1999).Con quella che Duffy e Jonassen (1992) definiscono “rivo-luzione cognitiva” si è fatta strada, infatti, la teoria costrut-tivista che sostiene che la mente umana non contiene sem-plicemente il mondo che conosce, ma lo compone in modo attivo. La mente, dunque, ha un ruolo creativo e costrutti-vo, includendo nel processo generativo le classiche opera-zioni mentali come la percezione e la memoria e dando al contesto (socio-culturale, economico, politico, ecc.) la sua importanza (D. N.Perkins, 1992).

In Italia, il lavoro pionieristico e complesso di B.M. Vari-sco (2002), ha permesso di rintracciare, nella più moderna definizione teorica del costruttivismo, alcuni significativi contributi della cultura psicopedagogica europea - Piaget e Vygotskij in particolare - permettendo di riconsiderare l’incidenza del contesto sull’apprendimento e sullo stesso sviluppo delle intelligenze.

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Corsi ed obiettivi di apprendimento per cui la strategia può essere utilizzata

Gli ambienti di apprendimento orientati al problem solving sono un ottimo supporto fisico e virtuale per la formazione professionale, quella degli adulti e per coloro che intendono continuare la propria formazione sul lavoro.

Gli approcci contemporanei che poggiano sulla flessibili-tà cognitiva, sull’apprendimento a partire dalla domanda e sull’analisi dei casi sono focalizzati principalmente sull’im-portanza del contesto in ciò che viene appreso. Lo stesso Jonassen (1991) ha sottolineato come in generale nell’ap-prendimento “il contesto è tutto”.

L’attività didattica si basa su concreti esempi tratti dai con-testi di vita e/o professionali, perché solo in questo modo l’apprendimento che risulta è maggiormente generativo, di ordine più elevato, maggiormente significativo, il transfer dell’apprendimento è più ampio e accurato (Spiro et al, 1987). È a partire dal contesto dell’esperienza diretta che è possibile, anzi necessario, procedere all’astrazione dei si-gnificati, processo che consente di trasferire le conoscenze acquisite in altri contesti e ad altre esperienze.

L’impiego di strumenti web-based, inoltre, consente una maggiore flessibilità temporale e spaziale nell’organizzazio-ne dei processi e promuove la nascita di comunità di esperti che, attraverso le loro concrete problematiche ed esperien-ze sul lavoro costruiscono un database di profili professio-nali con competenza di reciproca consultazione.

Gli ambienti di apprendimento orientati al problem solving hanno grandi potenzialità per i percorsi di formazione/ag-giornamento professionale. La risoluzione di problemi è un denominatore comune delle più diverse categorie professio-nali: il garante di una organizzazione, il responsabile delle

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relazioni con i dipendenti, lo specialista nelle relazioni con il pubblico, il rappresentante dei consumatori, lo specialista in pubbliche relazioni o il direttore delle risorse umane, per fare solo alcuni esempi, si occupano di risolvere problemi e di “troubleshooting”.

Le persone, nella loro vita di tutti i giorni, fanno esperienze personali di troubleshooting nei momenti in cui sperimen-tano un cambiamento, particolarmente in riferimento ai comportamenti abitudinari (Prochaska et al., 1992).

Nell’ottica della teoria della flessibilità cognitiva, che accen-tua il ruolo del contesto, in questi ambienti le professiona-lità in itinere vengono valorizzate e potenziate (cfr. scheda concettuale sull’apprendimento espansivo) determinando un apprendimento generativo, di ordine elevato, significati-vo con un potenziale transfer dell’apprendimento ampio e accurato (Spiro,1989; Spiro et al, 1987).

Vantaggi o punti di forza

I vantaggi dell’utilizzo di questa strategia per l’apprendi-mento sono:• la possibilità di riconciliare la teoria con la pratica mo-

strando attraverso esempi concreti e casi reali le situa-zioni oggetto di studio (come ci si comporta/non ci si comporta, cosa fare/non fare, i diversi modi di affron-tare un determinato compito, le criticità che si possono presentare, ecc.);

• la possibilità di utilizzare esempi direttamente correlati con compiti concreti della pratica professionale;

• l’opportunità di attivare processi di apprendimento profondi, stabili, significativi per la professione cui ci si prepara o che si svolge;

• la possibilità di essere usata tanto nella formazione ini-ziale/al lavoro, che in quella continua/sul lavoro;

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• il valore motivante derivante da un approccio didattico “ricco” capace di agire sui processi cognitivi sostenen-doli e potenziandoli, così come sulle emozioni e sui vis-suti conseguenti.

Svantaggi o punti di debolezza

Le metodologie didattiche che poggiano sul problem sol-ving funzionano in maniera limitata e soprattutto nei con-testi dell’istruzione formale, ovvero nella scuola e nelle isti-tuzioni formative preposte a offrire percorsi di formazione definiti in base a un programma preciso e predefinito, per-ché si interessano principalmente a problemi strutturati.

Nella maggior parte dei programmi centrati sul compito dell’istruzione (trasmissione di conoscenze, informazioni, competenze) le idee complesse vengono semplificate per-ché in questo modo sono più facili da studiare. Gli elementi delle discipline vengono organizzati per comunicare l’affi-dabilità e la regolarità nel tentativo di mappare contenuti pre-strutturati all’interno delle strutture di conoscenza del-lo studente.

Come indica Jonassen (2010) sfortunatamente il contenuto pre-strutturato è rigido e non facilmente adattabile ed uti-lizzabile in contesti di apprendimento che siano differen-ti da quelli in cui è avvenuta l’istruzione (Spiro, Vispoel, Schmitz, Samarapungavan, & Boerger, 1987). I contenuti semplificati possono aiutare gli studenti ad imparare come risolvere problemi semplici, introduttivi, ma impediscono lo sviluppo delle strutture di conoscenza necessarie alla so-luzione dei problemi più complessi e non-strutturati che pervadono la quotidianità personale e professionale.

Un elemento critico può configurarsi dunque proprio nel concepire e progettare attività didattiche per supportare la

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soluzione di problemi non strutturati. Chi apprende si trova su un percorso che non offre soluzioni certe, chi insegna ne è consapevole e a maggior ragione deve offrire una comu-nicazione chiara sull’evidenza della non strutturazione dei problemi, che non deve essere eliminata. Questo significa che entrambi i soggetti del processo di apprendimento deb-bano considerare diverse prospettive e soluzioni multiple, i più diversi metodi e criteri di soluzione e le prospettive teoretiche e contestuali che circondano il problema. Il pro-cesso di composizione delle risposte che si organizzano in-torno al problema necessita di una continua negoziazione dialogica e conciliativa.

Indicazioni operative (lato erogatori, lato utenti)

Risolvere problemi richiede un supporto didattico che pos-sa ridurre gli effetti della distorsione riduttiva sull’appren-dimento e faciliti l’acquisizione di conoscenze avanzate ne-cessarie per risolvere le situazioni più complesse.

Gli ambienti di apprendimento per il Problem-solving, PSLE (Problem-solving learning environments -PSLE) che supportano l’acquisizione di conoscenza avanzata possono e devono rappresentare la naturale complessità che caratte-rizza la maggior parte dei problemi (Jonassen 2010).

La teoria della flessibilità cognitiva (Spiro & Jehng, 1990; Spiro, Feltovich, Jacobson, & Coulson, 1991; Spiro, Vispo-el, Schmitz, Samarapungavan, & Boerger, 1987) mette a disposizione un modello concettuale per concepire e imple-mentare PSLE a partire dal case based reasoning.

Sulla base della teoria, per ogni caso/problema da risolve-re viene messo a disposizione un insieme di casi quali rap-presentazioni di prospettive alternative. Queste prospettive forniscono punti di vista personali, prospettive tematiche

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e/o disciplinari che chi apprende deve conciliare per poter costruire la propria interpretazione del problema e la relati-va soluzione. Considerato che i casi come prospettive alter-native portano con loro la naturale complessità dei proble-mi, i PSLE non possono essere eccessivamente prescrittivi nel modo in cui quei casi sono presentati o sequenzializzati. Questo significa che l’accesso ai casi come prospettive mul-tiple da parte dello studente deve essere casuale nell’accesso e controllato da chi apprende.

Esempi

Alcuni esempi di questi ambienti d’apprendimento secon-do Jonassen (1999) sono : l’anchored instruction, i cognitive flexibility hypertexts, i goal-based scenarios, i causally mode-led diagnostic cases. Ad essi si collegano strategie didattiche ben ancorate al problem solving quali l’ask system, il trou-bleshooting e il database di storie professionali.

Il punto di partenza è sempre il problema e il percorso che si intende fare per arrivare a risolverlo. La maggior parte dei problemi con cui abbiamo a che fare tutti i giorni nella vita personale o professionale sono complessi e non strutturati i, ovvero non hanno obiettivi di risoluzione chiari e tantome-no vincoli di percorso definiti, ma piuttosto da negoziare. Jonassen e altri studiosi (Frensch & Funke, 1995; Jonassen 2000; Jonassen & Hung, 2008) concordano in questo senso nel delineare tre dimensioni principali che determinano il livello di difficoltà dei problemi e le risorse necessarie per risolverli: struttura, complessità e dinamicità. Quanto meno i problemi sono strutturati e tanto più si configura oppor-tuno un ambiente di apprendimento predisposto per elabo-rarli in un’ottica costruttivista.

Un riferimento concettuale importante per gli ambienti di apprendimento orientati al problem solving è l’ Ask System

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(per gli approfondimenti si rimanda alla scheda specifica su Ask System), che ha lo scopo di guidare e di sostenere i pro-cessi di pensiero e di comprensione attraverso un percorso di apprendimento che si articola attorno a domande.

L’Ask system è una strategia cognitiva e didattica di parti-colare efficacia per rinforzare la comprensione. Infatti “E’ possibile sostenere che le domande, virtualmente, sono al centro di ogni compito complesso che un adulto esegue” (Graesser & Olde, 2003, p. 524).

Questo fatto è evidente nelle attività di problem solving, in cui la risposta o la soluzione è sconosciuta, in cui a una domanda si deve dare una risposta e questa risposta non può essere generica ma riferita a un contesto definito. Per poter risolvere problemi è importante che chi apprende ac-quisisca le abilità e le strategie adeguate per porre domande e per dare risposte.

Le domande vengono poste quando le persone fanno espe-rienza di un disequilibrio cognitivo, quando cercano di ri-solvere un problema che è stato attivato da contraddizioni, anomalie, ostacoli, contrasti significativi e incertezza (Gra-esser & Olde, 2003).

La qualità delle domande che si formulano rispetto a un pro-blema è un potente indicatore di comprensione e predittore del conseguimento della conoscenza di un ambito (domain knowledge) e dell’abilità di problem solving (Graesser & Olde, 2003).Il risultato degli apprendimenti influenzati da-gli Ask Systems è il problem solving. Gli studenti articolano in modo chiaro la natura del problema, pensano a metodi di soluzione alternativi, articolano il ragionamento usato per selezionare i metodi di soluzione, riflettono sull’accuratezza delle risposte.

Quando si parla di ambienti di apprendimento orientati al

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problem solving non si può dimenticare il troubleshooting, una delle tecniche di problem solving più comunemente usate.

Nel linguaggio corrente, “troubleshooting” sta ad indicare il processo di identificazione di un malfunzionamento in un si-stema fisico (meccanico, elettrico, digitale, ...) e l’esecuzione di un intervento che ne ripristina il normale funzionamento.

Esempi di uso di tecniche di troubleshooting sono il ripri-stino di un modem malfunzionante, di un sistema di refrige-razione in un supermercato; secondo i più recenti approcci cognitivisti, si ha anche fare con le dinamiche tipiche del-le operazioni di “troubleshooting” anche quando si fanno interventi su problemi di comunicazione: in questi casi, il troubleshooting consiste nel cercare di isolare situazioni di blocco, di difetto di un sistema e nel riparare o sostituire le componenti difettose per far riprendere il normale funzio-namento del sistema.

Nel continuum dello spettro dei problemi che si riscontra-no nella vita reale, continuum che va dai problemi più strut-turati (algoritmi) ai meno strutturati (analisi e progettazione di sistemi), i problemi di troubleshooting stanno nel mezzo. (Jonassen, 2000).

I problemi di troubleshooting:• sembrano mal definiti perché il risolutore deve deter-

minare quali informazioni servono per diagnosticare il problema (quali dati sul sistema elettrico e sulla carbu-razione sono necessari nel troubleshooting di una mac-china che non parte),

• richiedono la costruzione di un modello concettuale robusto del sistema che si cerca di riparare (come in-teragiscono sistemi elettrici, meccanici e carburazione),

• solitamente possiedono un solo stato di errore, anche se possono accadere contemporaneamente più errori (per esempio, batteria scarica e candele sporche),

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91Ambienti di apprendimento per la formazione continua

• hanno soluzioni note con criteri di successo facilmente comprensibili (la sostituzione della parte fa ripartire il sistema),

• si basano su regole tratte dall’esperienza per diagno-sticare la maggior parte dei casi, rendendo più difficile l’apprendimento dei principianti (i meccanici basano la diagnosi soprattutto sull’esperienza),

• richiedono agli studenti di esprimere giudizi sulla natu-ra del problema,

• variano in modo significativo in termini di complessità e dinamicità del sistema (età, produttore, dimensione del motore, disponibilità di computer di bordo nell’au-tomobile).

Il troubleshooting è soprattutto un compito cognitivo che contempla la ricerca di cause probabili di errore all’interno di uno spazio di possibili cause di errore, spazio che è vastis-simo (Schaafstal et al., 2000).

Un’altra importante strategia didattica per l’implementa-zione di ambienti di apprendimento orientati al problem solving consiste nel database di storie professionali (per la quale si rimanda alla scheda specifica di approfondimento).

Jonassen e Hernandez-Serrano (2002) sostengono che lesto-rie sono la più antica e la più naturale forma di costruzione di senso. Gli esseri umani hanno una propensione ben vali-data a organizzare e a rappresentare la propria esperienza in forma di storie. Secondo Bruner (1991; 1996) il raccontare storie consente di perseguire scopi diversi. La narrazione, che è una modalità analogica di pensare, non necessaria-mente in conflitto con quella logico analitica (anzi con que-sta perfettamente integrabile), ha molte funzioni tra cui la negoziazione dei significati, la contestualizzazione culturale delle esperienze, la condivisione di processi intenzionali, la costruzione delle argomentazioni.

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In particolare secondo Orr (1996) i professionisti utilizzano proprio la narrazione di storie per indagare approfondita-mente i problemi e fronteggiarli con sicurezza e competen-za. I “casi”, in questa prospettiva, sono visti come soluzioni precedentemente date ad un problema da cui estrarre solu-zioni da applicare nuovamente o, comunque, quali risorse in grado di facilitare la comprensione delle nuove situazioni in vista della ricerca di soluzioni diverse (Kolodner, 1992).

Tecnologie necessarie

Il media tecnologico più adatto alla rappresentazione della teoria della flessibilità cognitiva è l’ipertesto (Spiro & Jehng, 1990). L’ipertesto è un testo non-lineare o dinamico dove gli utilizzatori possono esplorare le informazioni e modificarle in modo da rendere quelle informazioni maggiormente com-prensibili. Il termine ipertesto è stato nel tempo sostituito con quello di ipermedia (basato su elementi multimediali) al fine

Attraversamento incrociato di casi, prospettive e temi (Spiro 1990)

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93Ambienti di apprendimento per la formazione continua

di valorizzare e mettere a sistema quella che si considera ormai come la più importante fonte di informazione e conoscenza ipermediale: il World Wide Web. In questo senso i PSLE sono, per natura, ambienti di apprendimento ipermediali.

I cognitive flexibility hypertext sono concepiti per essere acceduti in modo non- lineare al fine di supportare diffe-renti tipi di attività di problem solving. Per poter descri-vere come i cognitive flexibility hypertexts potrebbero esser usati, Spiro (1990) ha adottato la ricca metafora del-l’”attraversamento incrociato del territorio” (“criss-crossing landscape”) creata da Ludwig Wittgenstein per descrivere quel processo. Piuttosto che leggere dall’inizio alla fine, lo studente attraversa in modo incrociato il territorio intellet-tuale del dominio di contenuto guardandolo, consideran-dolo da prospettive multiple o attraverso temi specifici. In particolare, i soggetti in apprendimento con il metodo dei casi possono esaminare una prospettiva, vedere quale tema è interrelato con quel punto di vista, o esaminare un altro caso nei termini di quella stessa prospettiva.

Il cubo di Spiro rappresentato qui sopra indica proprio come i diversi casi, ovvero i problemi concreti possono es-sere analizzati secondo diverse prospettive e in base a te-matiche diverse. Questo incrocio di punti di vista offre una grande ricchezza a coloro che frequentano gli ambienti di apprendimento, perché aprono su visuali più ampie e per-ché consentono una lettura sia puntuale sia di largo spettro sui casi specifici.

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attIvItà dI aPPrendImentoGiovanni Marconato

Descrizione

La formazione, anche la più tradizionale, prevede sia mo-menti di lezione che attività svolte dagli allievi. L’approccio che qui presentiamo si caratterizza per un uso diverso del termine “attività” e per una diversa enfasi che è possibile dare al ruolo del discente quale costruttore attivo delle pro-prie conoscenze. Questo approccio sottolinea l’importanza di strutturare l’intero percorso didattico in una sequenza di attività che consentano a chi apprende di confrontarsi in maniera diversa con l’oggetto di apprendimento. Nel contesto di questa scheda le “attività di apprendimento” rappresentano uno specifico approccio allo sviluppo di un ambiente di apprendimento on-line

L’approccio alla formazione basato su “attività di appren-dimento” è caratterizzato da una sequenza di “attività” che chi apprende è invitato a svolgere utilizzano le risorse pre-senti nell’ambiente di apprendimento allestito per lo scopo. L’identificazione e l’organizzazione delle attività deriva dal-laanalisi del compito professionale oggetto dell’apprendi-mento.

La finalità prima di questo approccio didattico è di offrire opportunità di apprendimento secondo modalità aperte, flessibili, individualizzate e di farlo secondo un dispositivo di insegnamento-apprendimento che assicuri la padronanza dei contenuti e, attraverso questa padronanza, lo sviluppo di nuove competenze.

L’approccio si propone, quindi, come un’opportunità di formazione a distanza di tipo attivo e si viene a delineareun modello didattico che si propone di superare i limiti di quel-

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99Ambienti di apprendimento per la formazione continua

lo che replica la didattica tradizionale d’aula ed in cui sono le “attività” a rappresentare il catalizzatore di un ambiente di apprendimento alternativo a quello organizzato attorno ai “contenuti”.

Con questo approccio:• il processo di apprendimento è strutturato attorno

acompiti autentici;• i contenuti sono presentati nel contesto di attività da

svolgere;• la persona che apprende ha un ruolo attivo di esplora-

zione e costruzione;• le attività vengono svolte attraverso il confronto e lacol-

laborazionecon altre persone;• la contestualizzazione in un problema reale favorisceu-

napprendimento significativo.

Le “attività di apprendimento” sono un modello didattico che: • dal punto di vista degli obiettivi di apprendimento è

funzionale alle esigenze di apprendimento delle perso-ne che hanno l’obiettivo di sviluppare conoscenze su cui basare la pratica professionale;

• dal punto di vista dello sviluppo dell’ambiente stes-so, richiede interventi informatici minimi limitando le competenze informatiche necessarie agli sviluppatori di questi ambienti;

• dal punto di vista organizzativo limita i costi ed i tempi di sviluppo.

• dal punto di vista del ruolo delle tecnologie, queste sono usate per le loro caratteristiche più ricche: facilitare l’e-splorazione e l’investigazione, connettere le persone, sostenere la conversazione, consentire la costruzione collaborativa e negoziata di significato e di conoscenza.

Si tratta, anche, di un approccio minimalista dal punto di vista degli sviluppi informatici e che può, anche, essere vi-

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sto come un’alternativa metodologica ed operativa all’uti-lizzo dei così detti Learning Object (“risorsa” didattica, di entità, cioè, pre-formativa che in quanto tale non è in gra-do di sostenere un processo di apprendimento autentico. L’approccio per Learning Object appartiene più alla sfera dell’editoria didattica che a quella didattica)e che consente di superare tutti i limiti che li caratterizzano in quanto met-tono a disposizione degli utenti della formazione opportu-nità di apprendimento utili per la professione attraverso un “ambiente” di apprendimento ricco di risorse ed in cui le persone che apprendono possono lavorare ed apprendere integrando lavoro individuale e collaborativo.

La strategia didattica denominata “attività di apprendimen-to” rappresenta un modello didattico empirico ad orienta-mento costruttivista che si caratterizza per l’ancoraggio dei “contenuti” alle attività professionali che la persona che ap-prende è chiamata a svolgere. In questo approccio i “conte-nuti” non sono scelti a partire da una o più discipline o cor-pus di conoscenze o ontologie, ma dai “compiti” o “task” professionali che dovrebbero essere appresi.

Un ambiente di apprendimento strutturato per attività di apprendimento è caratterizzato da una sequenza di attività che chi apprende è invitato ad eseguire.

Per apprendere ci si deve misurare con un problema reale, con una questione di cui si percepisca la rilevanza, con cui ci si possa identificare. Meglio se si tratta di una tematica quotidiana, o quasi. Più ci si allontana dalla quotidianità, più il problema diventa astratto, meno se ne percepisce il senso, meno si è disponibili a far fatica per imparare e più diventa improbo il lavoro del formatore. Al limite dell’im-possibile.

Le “attività”, con riferimento al tempo necessario al loro completamento, possono essere di diverse dimensioni; una

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101Ambienti di apprendimento per la formazione continua

sola “attività” può coprire l’intero percorso formativo op-pure un corso può essere organizzato mettendo assieme più “attività” di breve durata.

La scelta della “attività” è determinata, oltre che dal-la sua rilevanza professionale, anche dal tempo ne-cessario a completarla, dalla possibilità di essere rea-lizzata con l’esperienza di ciascun partecipante, dalla possibilità di essere completata con i contenuti pre-senti nel materiale didattico fornito e da ricercare. Se non si riesce ad identificare una o più “attività” signifi-cative da mettere ad oggetto del percorso di formazione, è molto probabile che il corso in questione sia irrilevante per la pratica professionale delle persone a cui è indirizzato.

Soprattutto quando le attività formative si svolgono intera-mente a distanza, è necessario descrive il compito da svol-gere con estrema cura. Per una efficace comunicazione di-dattica, le “attività” dovrebbero essere descritte attraverso i seguenti elementi:• titolo;• basi logiche dell’attività;• scopo dell’attività;• obiettivi;• risorse;• check-list.

Il livello di dettaglio della descrizione va correlato alla com-plessità ed alla durata dell’attività stessa: descrizioni sin-tetiche per attività brevi, descrizioni articolate per attività complesse.

Quella che segue potrebbe essere la sequenza logica del-le azioni d’insegnamento e di apprendimento sulla base di “attività”:1. Va, inizialmente, identificata una macro-attività da ese-

guire durante il percorso formativo;

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2. Successivamente la si suddivide in micro-attività in corrispondenza dei “moduli” o degli “elementi”; ogni attività deve potersi completare con la realizzazione di un “prodotto” visibile. E’ la realizzazione di questi ela-borati che catalizzerà il processo di apprendimento;

3. Va proposta la prima attività indicando i tempi entro i quali dovrà essere completata;

4. Vanno fornite adeguate indicazione delle parti del ma-teriale didattico da studiare per apprendere le cono-scenze necessarie a svolgere la micro-attività;

5. Vanno proposte interazioni tra i partecipanti e tra par-tecipanti e docente/tutor come parte costituente e non accessoria dell’attività e finalizzata alla comprensione dei contenuti ed alla realizzazione dei prodotti;

6. Vanno definite le modalità di esecuzione dell’attività (individuale, di gruppo, di sotto-gruppo) precisando i ruoli, le risorse disponibili, i tempi di completamento, la natura del prodotto che dovrà testimoniare il com-pletamento, allo standard ritenuto accettabile, dell’atti-vità;

7. Si realizzano in sequenza tutte le attività previste;8. Si raccolgono i “prodotti” che vengono valutati e viene

fornito il feedback sul risultato conseguito;9. Viene ripetuto il ciclo per ciascuna “attività” prevista

fino al completamento del processo;10. Il processo si conclude con il riesame dell’intero per-

corso, con un feedback generale e con la valutazione del “portfolio” (la raccolta tutti i “prodotti” realizzati) e per il rilascio dell’attestato di partecipazione e (se rite-nuto opportuno) di profitto.

Fondamenti concettuali

Questo è un approccio di tipo empirico e che tende a ren-dere operativi alcuni dei principi e tecniche operative di matrice costruttivista, come:

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103Ambienti di apprendimento per la formazione continua

• il concetto generale di “apprendimento significativo” per quanto riguarda la tipologia di apprendimento cui tendere e le strategie operative da implementare;

• il concetto di “conoscenza distribuita” per identificare le “risorse” per l’apprendimento;

• i concetti di “apprendere facendo (learning by doing)” e le forme naturali di apprendimento come riferimenti per la messa a punto dell’operatività;

• il modello dei “compiti autentici” come riferimento per l’identificazione delle attività da svolgere;

• gli approcci della Task Analysis come metodi per iden-tificare le attività professionali significative da assumere a “contenuto” dell’attività formativa;

• il significato ed il ruolo dei “contenuti” di dominio per l’utilizzo che viene fatto dagli stessi all’interno dell’ap-proccio.

Tutti questi concetti sono sviluppato nelle schede dei “mo-delli concettuali” contenute in questa pubblicazione.

Autori maggiormente significativi

L’approccio, che a livello internazionale ha visto il contribu-to di numerosi autori, vede nell’esperienza italiana signifi-cative modellizzazioni, in particolare nell’ambito della for-mazione professionale, soprattutto a cura di Giovanni Mar-conato con l’obiettivo di superare il modello di FaD basato su courseware e Learning Object ed in cui le cui “risorse” necessarie a sviluppare l’azione formativa sono sviluppabili a costo limitato e con conoscenze informatiche di base.

Autori citabili sono quelli che hanno sviluppato i concetti teorici sulla cui base è stato messo a punto il modello ope-rativo “attività di apprendimento”. I riferimenti sono quelli della didattica ad orientamento costruttivista e, in modo più mirato quelli citati nella sezione “bibliografia”

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Corsi ed obiettivi di apprendimento per cui la strategia può essere utilizzata

La strategia può essere utilizzata per il perseguimento di un ampio spettro di obiettivi formativi che hanno come ele-mento caratterizzante lo svolgimento di “attività” cognitive (di pensiero, astratte ) e la produzione di un artefatto (pre-valentemente digitale).

Obiettivi formativi possono essere la comprensione e l’uti-lizzo di regole, di procedure, di concetti e un mix di questi.

Più in generale, le concettualizzazioni poste alla base di que-sta strategia e gli aspetti pratici che la caratterizzano fanno capire che la stessa ha come principale ambito di utilizzo le situazioni in cui: • ad obiettivo dell’azione formativa viene posto un saper fare;• che questo saper fare sia correlato ad un corpus di co-

noscenze;

Il “prodotto” (un report, un piano, un progetto; generica-mente, un “elaborato” in formato digitale testuale o mul-timediale) è il risultato del processo di apprendimento; il “prodotto” è il frutto delle attività di apprendimento svolte durante il corso.

Il “prodotto” o i “prodotti” sono i catalizzatori delle attività di apprendimento in cui si struttura il corso; i “prodotti” guidano l’identificazione dei “contenuti” da trattare, la se-quenza delle operazioni da svolgere, le “risorse” da utiliz-zare, le modalità di lavoro individuale e collaborativo che i partecipanti dovranno svolgere.

In questo contesto, per “prodotto” si intende, quindi, un artefatto “cognitivo” in formato digitale che può rappre-sentare una tappa intermedia, di fase, un semilavorato o un prodotto finale.

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105Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Le “attività” che le persone partecipanti all’azione formati-va sono chiamate a svolgere sono di vario tipo:• semplici e complesse;• brevi e lunghe;• individuali e collaborative;• passive e attive;• riproduttive e produttive.

Queste possono essere:• lettura di un testo segnalato;• ricerca on-line di documentazione;• sua valutazione/studio;• studio di casi;• confronto via forum di discussione;• produzione di un elaborato:• riesame, valutazione, feedback.

Le “attività” possono essere:• rigidamente strutturate o aperte;• individuali o collaborative.

Sulla base di questi criteri, le attività formative che si pos-sono avvalere di questa strategia possono essere quelli dove il “prodotto” è l’oggetto diretto e specifico dell’apprendi-mento (imparare a costruire proprio quell’oggetto/artefat-to) oppure, nel caso in cui l’obiettivo dell’apprendimento sia la comprensione di concetti, di principi, il “prodotto” può essere la visualizzazione, la rappresentazione di quanto si è appreso.

Se si adotta un approccio alla progettazione formativa che non sia ancorato o focalizzato su “contenuti” da trasmet-tere (con approcci più o meno trasmissioni e/o attivi) ma sui risultati dell’apprendimento, su cosa il partecipante al corso dovrà saper fare al termine del corso, ci si accorge-rà che sono numerose le occasioni formative che possono essere ricondotte alla tipologia di “prodotti” da costruire

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tramite “attività” da svolgere e trarre beneficio da questo approccio.

Gli ambiti di applicazione elettivi sono tutti quelli in cui è possibile identificare una competenza professionale da svi-luppare, una sua parte, un “compito” (o task) professionale da apprendere e questo “compito” presenta componenti procedurali, cognitive, sociali e dove i “contenuti” sono finalizzati a sostenere lo sviluppo di queste componenti.

E’ una strategia utilizzabile nella formazione a distanza ba-sata su ambienti e applicativi on-line.

Nell’ambito della formazione continua la strategia può es-sere usata per realizzare un intero corso a distanza o per integrare, sempre a distanza, con alcuni moduli un corso svolto in presenza. Queste forme di integrazione possono riguardare la trattazione di contenuti non oggetto della for-mazione in presenza oppure, nella logica dell’esercitazione, il consolidamento di tematiche già trattate in aula.

Nel caso di un’azione formativa a distanza sviluppata con strategie diverse (es: courseware), questo approccio può es-sere utilizzato in moduli con obiettivi di consolidamento, approfondimento e verifica.

Nella formazione iniziale, l’approccio può essere utilizzato per attività individuali o collaborative a supporto di obiet-tivi di sviluppo di abilità trasversali quali l’autonomia, l’au-tosviluppo, il lavoro collaborativo in attività didattiche oltre l’aula (i classici “compiti per casa) e per la valutazione de-gli apprendimenti; in questi casi il “prodotto” rappresenta l’apprendimento realizzato.

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107Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Vantaggi o punti di forza

Sul piano degli apprendimenti, il principale vantaggio dall’uso della strategia è rappresentato dall’ancoraggio della formazione ad un preciso saper fare e non alla mera cono-scenza o padronanza di specifici contenuti.

Attraverso la sequenza delle attività di apprendimento pre-viste si viene accompagnate passo dopo passo al risultato finale.

Sul piano dello sviluppo dell’ambiente di apprendimento, il vantaggio è dato dal limitato sviluppo informatico richiesto: le risorse necessarie possono essere semplici file di testo, slide, fogli di calcolo, link a documenti o a siti web, video; il tutto montato in LMS o gestito attraverso un portale.

Svantaggi o punti di debolezza

Apprendere attraverso attività di apprendimento è un com-pito impegnativo per lo studente tanto per il carico cogni-tivo che tempo da dedicare allo sviluppo del programma.

Non di rado, le attività formative di impostazione conven-zionale sono finalizzate alla trasmissione di informazioni e l’obiettivo che si assume è di memorizzarle e/o di capirle. Se, però, si passa dalla lettura di quelle informazioni al loro uso, quasi fossero “strumenti”, per “costruire” un artefatto, lo sforzo richiesto è significativo anche se il risultato in ter-mini di apprendimento è ben diverso.

Lo “svantaggio” di questa strategia rispetto ad una conven-zionale di tipo trasmissivo è dato anche dall’atteggiamento che spesso si rileva presso gli utenti che, forse per l’abitu-dine a non chiedere troppo alla formazione, non sono di-sponibili a dare troppo alla formazione stessa (in termini di

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tempo e sforzo cognitivo) ed alla stessa si chiede di essere “leggera” e breve quando, invece, perché si abbia appren-dimento autentico è necessario dedicare adeguato tempo ed adeguata energia cognitiva.

Condizioni di fattibilità (lato erogatori, lato utenti)

Sul lato erogatori, la fattibilità è legata al possesso delle competenze necessarie a progettare, sviluppare e gestire attività formativa di impostazione costruttivista. Non sono necessarie particolari competenze informatiche per lo svi-luppo dell’ambiente di apprendimento.

Dal lato utente l’unica condizione di fattibilità, a parte l’ac-cesso ad internet, è il riconoscere un proprio bisogno di for-mazione tale da trovare un rapporto favorevole tra risorse da dedicare alla formazione e benefici ottenibili.

Indicazioni operative (lato erogatori, lato utenti)

Alcune semplici indicazioni operative per gli organizzatori della formazione sono contenute nella sezione “descrizio-ne” e fanno riferimento a come progettare e descrivere le attività di apprendimento e alla sequenza operativa dell’ap-prendimento attraverso “attività di apprendimento”.

Esempi

Le applicazioni della strategia sono limitate: i due esempi qui proposti fanno riferimento, il primo, a moduli svolti ad integrazione di un corso per insegnanti svolto prevalente-mente in presenza, il secondo ad un corso completo in tema di Mobility Management

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109Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Esempio di “attività di apprendimento” come modulo di un corso in presenza.

• L’attività didattica era collegata ad una tematica prece-dentemente trattata in aula e l’obiettivo di apprendi-mento era la riflessione per l’appropriazione e la con-testualizzazione nelle pratiche professionali dei parteci-panti della tematica stessa;

• Il carico di lavoro necessario a completare il modulo era stato stimato, in relazione alla tipologia dell’attività, in 6 - 18 ore;

• Le risorse per l’apprendimento sono state una “conse-gna” in formato testuale (con indicate le finalità dell’at-tività, le modalità di svolgimento, il prodotto finale, gli strumenti di lavoro), un forum per l’interazione tra i partecipanti, alcuni testi in formato digitale contenenti i riferimenti concettuali, lo strumento “compito” di Mo-odle per la consegna dell’elaborato finale (un elaborato individuale in file di testo).

Esempio di un corso a distanza interamente organizzato sulla base di attività di apprendimento.

• Il contesto del corso è la formazione al ruolo di Mobilty Manager di dipendenti di pubbliche amministrazioni e aziende private;

• Gli “oggetti” dell’apprendimento sono normative, pro-cedure, sviluppo di piani conseguenti alla realizzazione di analisi documentale e di raccolta in di informazioni, produzione di strumenti per la comunicazione, realiz-zazione di azioni di monitoraggio di attività sul campo;

• Le risorse didattiche sono consegne, linee-guida, docu-mentazione tecnica di supporto, link a siti web, forum di discussione e supporto on-line da parte di tecnici;

• Le “attività” che avrebbero dovuto coinvolgere i parteci-panti erano analisi di documentazione (normativa, pro-cedure, concettualizzazioni), studio di casi, realizzazione

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di indagini, formulazione di piani, confronto con altri colleghi “studenti” integrando attività “a tavolino” e “sul campo”. Il tutto secondo una sequenza prestabilita;

• Il prodotto finale era la proposta di un “piano di mo-bilità aziendale” la cui redazione avrebbe potuto essere seguita dalla sua validazione nel contesto e la sua imple-mentazione con un supporto formativo simile a quello attivato durante la fase precedente;

Tecnologie necessarie

Questa strategia didattica può essere considerata un ap-proccio minimalistico alla creazione di ambienti di appren-dimento on-line in quanto necessita di applicativi standard e non richiede competenze informatiche specialistiche né per lo sviluppo delle risorse necessarie, né per il loro utilizzo.

Nella versione ultra-minimalista, la strategia è implemen-tabile anche con il solo utilizzo della posta elettronica per l’invio ai partecipanti delle consegne, per la consegna, da parte di questi degli elaborati e per le interazioni tra i par-tecipanti e tra questi e il team didattico. Questa modalità si potrebbe rivelare parecchio farraginosa dal punto di vista organizzativo per la gestione delle e-mail e degli elaborati ma, in condizioni di limitatezza di risorse, l’approccio è co-munque implementabile.

Un passaggio verso una maggior complessità e ricchezza tecnologica e di funzionalità può essere l’utilizzo di un fo-rum eventualmente implementato all’interno di un “grup-po” on-line (Google Groups; Yahoo ). Un “gruppo” offre un ambiente sufficientemente ricco di funzionalità per ge-stire tanto la comunicazione che la documentazione.

Per chi dispone già di un LMS (es. Moodle) può usare que-sta piattaforma che consente lo sviluppo e la gestione più

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111Ambienti di apprendimento per la formazione continua

flessibile e articolata dell’ambiente di apprendimento e l’in-tegrazione di questa azione formativa con le altre, anche di approccio differente, svolte nella piattaforma.

Utilizzando Moodle disponiamo già, con le sue funziona-lità standard, di strumenti utili e sufficienti per sviluppare ambienti didattici basati su attività di apprendimento con estrema facilità e flessibilità.

In Moodle il formato tipico per lo sviluppo degli ambienti è quella perargomenti all’interno di ognuno dei quali potrà essere costruita una attività o una sotto-attività.

Le risorse utilizzabili per lo sviluppo dei diversi oggetti di-dattici sono:• Etichetta:per testi introduttivi, esplicativi, di particolare

rilevanza informativa;• Pagina di testoe/opagina web: per testi descrittivi non par-

ticolarmente lunghi che possono essere letti a monitor;• Link a file: per testi più complessi e lunghi che possono

essere scaricati, salvati in una cartella nel desktop ed even-tualmente stampati; questa risorsa si può rivelare utile per consegnare materiali con cui gli allievi dovranno successi-vamente lavorare, come griglie, schemi, questionari;

• Link a siti web: utili per rimandi a risorse supplementa-ri, materiali di consultazione ed esempi.

Le attività utilizzabili nelle interazioni uno-a-uno e uno-a-molti sono:• Forum: per sostenere il lavoro di sviluppo di un elabo-

rato, per la comprensione e l’approfondimento di una tematica, di un contenuto, per discussioni;

• Compito:per la distribuzione, la ri-consegna ed il com-mento di elaborati;

• Database: per lavorare con elaborati a sviluppo collabo-rativo o da condividere anche solo per “conoscenza” o peer-review;

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Le altreattivitàdisponibili in Moodle (comeWorkshop, Eser-cizio, Lezione, Sondaggio) possono essere usate a fronte di esigenze specifiche tenendo presente la difficoltà che si può introdurre quando si lavora con strumenti complessi.

La struttura formale dell’argomento riferito alla specifica attività viene determinata dal contenuto dell’attività stessa, dagli obiettivi didattici che si propone di conseguire e dalle risorse necessarie ed utili agli allievi per il suo completa-mento.

L’articolazione di un percorso formativo per attività di ap-prendimento non ha una configurazione standard. Questa è determinata dal numero delle attività da svolgere, dall’even-tuale spacchettamento di una attività in sotto-attività, dal contenuto e dalla complessità dell’attività. Queste variabili, includendo in queste le scelte didattiche e le preferenze for-mali dello sviluppatore dell’ambiente, determinano il nu-mero degli argomenti e la loro “lunghezza”.

Criteri generali cui attenersi nello sviluppo degli ambienti sono la massima semplicità formale e la sostenibilità didatti-ca intesa come possibilità per l’allievo di completare il per-corso e per l’organizzazione di offrire il supporto necessario evitando di fare “promesse” di servizio didattico non eroga-bile e di “abbandonare” l’allievo invisibile.

Oltre ad ambienti digitali on-line che potremo definire ge-nerici, la “attività di apprendimento” possono essere svi-luppate e gestite attraverso un applicativo dedicato: LAMS (Learning Activty Management System). Questo applicativo (open source) è abbastanza semplice da utilizzare: LAMS è strutturato in “moduli” da assemblare scegliendoli da un “catalogo” di possibili “attività”; i moduli vanno organizzati nella “sequenza” che deriva dalla progettazione didattica e sviluppati con i contenuti richiesti dalla finalità dell’azione didattica stessa.

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113Ambienti di apprendimento per la formazione continua

La costruzione di una sequenza didattica avviene per drag-and-drop; lo sviluppo del modulo avviene per digitazione di testi nelle sezioni in cui il modulo è articolato; ogni sequen-za è riutilizzabile apportandovi le modifiche necessarie.

Considerato che la sequenza è utilizzata all’interno di un applicativo complesso, la stessa può utilizzare tutte le fun-zionalità gestionali presenti nella piattaforma stessa.

Il vantaggio di usare LAMS per lo sviluppo di attività di apprendimento è di avere già una struttura data che guida e sostiene tanto la progettazione che la gestione della forma-zione. Questa strutturazione è, però, anche uno svantaggio in quanto introduce rigidità considerato che si possono uti-lizzare solo le tipologie di “attività presenti nell’applicativo e che potrebbero anche non essere tutte quelle di cui il pro-gettista ed il formatore hanno bisogno.

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actIon learnIngVincenzo Del Fatto, Francesco di Cerbo e Gabriella Dodero

Descrizione

L’Action Learning è un approccio alla formazione incentra-to sull’integrazione tra lavoro e apprendimento caratteriz-zato da situazioni dove gli utenti sono sottoposti a situazioni problematiche che stimolano al contempo la loro riflessione e le loro azioni. L’approcciò può, inoltre, essere conside-rato come un efficace strumento di Problem Solving; esso permette di costruire simultaneamente situazioni in grado di portare beneficio ai leader, ai team e alle organizzazioni.

I gruppi di Action Learning lavorano sia su problemi indi-viduali che collettivi. È importante che i problemi sui quali si agisce siano importanti, urgenti, significativi e devono ri-entrare all’interno delle responsabilità del gruppo: soprat-tutto, la soluzione del problema dovrebbe rappresentare un’opportunità di apprendimento.

Spesso l’action learning è agevolato dalla presenza di un co-ach, che possiede riconosciute abilità nell’usare l’esperienza dei soggetti per dare luogo a nuove opportunità di appren-dimento. Possiamo quindi affermare che l’Action Learning Coach è il gestore del processo e focalizza il gruppo sui punti chiave per l’apprendimento e per l’ottimizzazione del funzionamento del gruppo.

Per parlare di Action Learning devono sussistere alcune condizioni elementari: deve riguardare progetti definiti e reali e può avvenire sia in contesti di simulazione che reali.

Le basi su cui si fonda l’action learning provengono dal la-

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voro di Reg Revans, un fisico di Cambridge che introdusse il processo in Inghilterra più di 50 anni fa.

Secondo gli studi di Reg Revans (Revans, 1997, 1993) il pro-cesso di apprendimento si estrinseca attraverso l’equazione:

L (Learning) = P+Q

dove la “P” sta ad indicare la conoscenza formale e già co-dificata e “Q” è la capacità di analizzare, comprendere e porre le domande appropriate, dove questo fattore è da considerarsi più importante del dare risposte “giuste”.

La necessità di bilanciare il disordine organizzativo con le regole di cui necessita un’organizzazione, spiega perché l’action learning (con la sua flessibilità, ricerca dell’inno-vazione, chiarezza e stabilità di gestione) trovi interesse e applicazione in un numero sempre maggiore di organizza-zioni.

Obiettivi dell’Action Learning

Secondo Revans, gli obiettivi dell’Action Learning sono la risoluzione del problema e l’apprendimento nel gruppo tra persone di pari livello di importanza:• Migliorare la capacità di apprendimento• Sviluppare capacità di analisi• Sviluppare la capacità di lavorare in team• Gestire i processi di cambiamenti• Valorizzare la conoscenza tacita di un’organizzazione• Migliorare la capacità comunicativa

Dimensioni dell’Action Learning

Secondo Marquardt (Marquardt, 1997, 2000, 2004; Mar-quardt, Revans, & Books24x7, 1999), l’action learning è caratterizzato dalle seguenti dimensioni ognuna con le sue

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caratteristiche e le sue indicazioni operative:• Il problema;• Il gruppo;• Le domande e le riflessioni;• Le strategie di azione;• L’apprendimento individuale, di team e organizzativo;• L’Action learning coach.

Ognuna di queste caratteristiche sarà trattata nelle diverse sezioni della scheda solo per mantere l’omogeneità formale e contenutistica con le altre schede descrittive Il “il proble-ma” viene trattato nella sezione “fondamenti concettuali”; “Il gruppo”, “Domande e riflessioni”, “Strategie d’azione” vengono trattati nella sezione “indicazioni operative”

Apprendimento individuale, di team e organizzativo

L’apprendimento che si ottiene dell’Action Learning rap-presenta per l’organizzazione un valore strategico superiore a quello dell’immediato vantaggio tattico dato dalla soluzio-ne di un problema.

Per il valore attribuito all’apprendimento, viene detto ai membri dei gruppi di action learning, che il loro apprendi-mento sarà importante per il gruppo e per l’organizzazione, quanto la soluzione del problema in sé.

L’impatto maggiore è fornito dall’atmosfera attentamente pianificata, creata e sostenuta dai sei elementi dell’Action Learning soprattutto attraverso l’intervento del coach. Il coach aiuta a predisporre un ambiente di lavoro dove pos-sano avere luogo la riflessione e l’apprendimento e fa in modo che i membri del gruppo acquisiscano maggiore con-sapevolezza e competenza in diverse aree.

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119Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Fondamenti concettuali

Riferimenti concettuali dell’Action Learning possono essere:• Il problem solving• La riflessione e l’apprendimento riflessivo• Il questioning

Questo approccio formativo può essere concettualizzato e visto come una strategia operativa di Problem Solving. Per una trattazione ampia e generale della tematica del Problem Solving si rimanda alla relativa scheda concettuale. Di se-guito, in questa scheda, sono trattati alcuni aspetti del Pro-blem Solving con una contestualizzazione sullo specifico dell’Action Learning. Per la riflessione e il Questioning si rimanda alle rispettive schede concettuali.

Il Problema

Il problema è il cardine di un’azione di action learning ed un presupposto essenziale, irrinunciabile ed imprescindibi-le. Il problema posto ad oggetto di un intervento di Action Learning deve essere stimolante e motivante per i soggetti dell’azione. Per questo motivo, se ne possono indicare alcu-ne caratteristiche di rilievo:• importanza;• urgenza;• significatività.

Importanza

Più il problema è urgente e importante, maggiore sarà il coinvolgimento e l’impegno del gruppo per risolverlo. Se non è importante o è troppo semplice, il gruppo non uti-lizzerà al meglio il tempo e le risorse disponibili, potrebbe avere la sensazione che l’organizzazione, o il singolo, non abbia grande fiducia nelle sue capacità. Il problema deve essere reale, e non di un’altra organizzazione.

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Urgenza

Il problema deve essere un problema attuale, per il qua-le al momento delle attività non esista soluzione. Esso non deve essere tuttavia un rompicapo, occorre considerare la fattibilità del problema. Il rischio che si intende minimizza-re è quello di porre una sfida troppo complicata, o troppo articolata nel numero di variabili, tale che possa demotiva-re l’attività del gruppo. Ciascun membro del gruppo potrà proporre soluzioni e strategie differenti.

Significatività

Oltre ad essere reale, il problema deve essere anche signi-ficativo per uno o più membri del gruppo. E’ possibile che in caso di problemi singoli questo criterio non sia rispetta-to, tutto dipende da come i vertici del gruppo comunicano all’interno dell’organizzazione.

I migliori problemi per l’action learning forniscono anche importanti opportunità di apprendimento al gruppo, rela-tivi a criticità e a compiti difficili per l’organizzazione. Per esempio, se lo sviluppo di una leadership o delle capacità di lavorare in team è ciò a cui l’organizzazione sta puntando, si dovrà scegliere un problema che sviluppi queste abitudini. Si può considerare che maggiore è la difficoltà di soluzione del problema e maggiori saranno le opportunità di appren-dimento. Ovviamente, questo dettame deve essere bilancia-to con le considerazioni sull’urgenza e l’attuabilità.

Ciò che risulta inoltre importante al buon fine dell’esperien-za è che il gruppo abbia l’autorità e il potere di risolvere, ma anche di realizzare l’azione progettata, altrimenti la frustra-zione e/o l’apatia potrebbero prendere il sopravvento sui componenti del gruppo i quali potrebbero non presentarsi alle riunioni e non intraprendere le attività concordate.

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121Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Le tipologie dei problemi

Heifetz e Laurie (Heifetz, 1994) fanno una distinzione tra :• problemi tecnici, per i quali esiste già la conoscenza ne-

cessaria a risolverli, codificata in una serie di procedu-re. Per questo tipo di problemi la soluzione è lineare e logica;

• problemi adattivi, per i quali non è ancora stata svilup-pata una risposta soddisfacente e nessuna esperienza di tipo tecnico adeguata. Sono problemi difficili da defini-re e risolvere perché non esistono soluzioni già pronte, richiedono lo sforzo di persone a vari livelli dell’orga-nizzazione. Viene richiesto alle persone di applicare, in modo collettivo, la propria intelligenza e le proprie capacità a un compito che solo loro possono risolvere. Facciamo un’ulteriore distinzione fra problemi singoli e problemi multipli.

Problemi singoli

Nei gruppi preposti alla soluzione di un singolo problema (in-company action learning) tutti i membri concentrano le loro energie per la soluzione di quel problema. L’organizza-zione seleziona il problema ed il gruppo che è responsabile dell’analisi del problema e delle strategie d’azione, ma po-trebbe anche essere incaricato di implementare le soluzioni che ha sviluppato.

Questa tipologia di action learning presenta dei vantaggi ai partecipanti e all’organizzazione, eccone alcuni:• Un problema organizzativo cruciale verrà affrontato ef-

ficacemente con un’ampia gamma di competenze e avrà tutta l’energia focalizzata su di sé;

• Avrà un forte impatto sulla cultura dell’organizzazio-ne, poiché saranno coinvolte un numero di persone, provenienti da diversi settori dell’organizzazione che lavoreranno in gruppo sviluppando le loro capacità,

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impegnandosi a collaborare per risolvere una questione organizzativa critica. Ciò permetterà di far emergere le-gami e collaborazioni nuove e forti;

• I membri del gruppo potranno far emergere capacità a beneficio della loro stessa carriera e delle necessità fu-ture dell’azienda;

• La capacità di lavoro di gruppo sviluppate posso-no essere applicate in occasioni future in cui i singoli membri saranno inseriti in gruppi di lavoro previsti dai programmi quotidiani dell’organizzazione, per esempio le riunioni dello staff. Queste ultime diventeranno più produttive ed efficienti.

Le capacità sviluppate andranno a costituire un patrimonio di notevole valore per l’organizzazione negli anni a seguire. Problemi multipli

Per la soluzione dei problemi multipli ogni individuo porta all’interno del gruppo il proprio problema/attività/proget-to. Ogni persona è, di volta in volta, cliente (colui che pre-senta il problema) e risorsa (colui che esamina il problema) per gli altri membri del gruppo.

All’inizio di ogni sessione di Action Learning, il gruppo,con l’aiuto del coach, stabilisce i tempi di lavoro che vengono equamente divisi tra tutti i membri.

In questo tempo i membri del gruppo si pongono delle domande, si danno sostegno e si confrontano; decidono la frequenza degli incontri, il luogo e la durata del loro lavoro come gruppo.

Il ruolo del coach nell’Action Learning può essere affidato a rotazione ai vari membri del gruppo o, in alternativa,può essere affidato, per tutta la durata della sessione, da un esterno che non presenterà al gruppo il proprio problema.

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123Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Nei gruppi per la soluzione di problemi multipli, nei qua-li i membri vengono da diverse organizzazioni, ci possono essere meno questioni gerarchiche e politiche da affronta-re, perché si lavora reciprocamente per i problemi di tutti. I singoli individui hanno il vantaggio di confrontarsi con prospettive e approcci diversi ai problemi e alle soluzioni. Quando aiutiamo e riceviamo aiuto reciprocamente per ri-spettivi problemi, sviluppiamo una serie di importanti com-petenze professionali e personali, tra cui anche l’essere più coraggiosi e il prendere rischi.

Il Problem Solving

Vi sono due tipi di approcci al Problem Solving:• l’approccio analitico/razionale secondo il quale vi è una

sola soluzione giusta al problema;• l’approccio integrativo secondo il quale vi possono es-

sere più risposte giuste. Il gruppo mira a raccogliere le diverse intuizioni in modo olistico e a integrare le varie possibilità.

Analitico/razionale

Una sola, giusta, soluzione

Il pensiero è separato dall’azione

L’obiettivo è risolvere il problema

Definizione del problema ipo-tesi e casualità lineare

Riduzionismo; eliminazione delle possibilità; domande specifiche; determinismo e sequenzialità

Obiettivo: trovare la soluzione; qualità delle risposte

Integrativo

Possibili soluzioni multiple

Il pensiero richiede l’azione ed esiste nell’azione

L’obiettivo è imparare dalle op-portunità

Definizione ampia del proble-ma ipotesi e casualità multipla

Raccolta delle intuizioni; oli-smo; integrazione delle possibi-lità; domande aperte; associati-vo, intuitivo, sincronico

Obiettivo: scoprire le interrela-zioni; qualità dell’apprendimento

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Il pensiero sistemico nel Problem Solving

Un aspetto chiave della forza dell’Action Learning è l’uti-lizzo del pensiero sistemico il quale si basa su una struttura concettuale che consente di visualizzare i modelli e capire come possono essere modificati in modo efficace. Il pensie-ro sistemico è basato sulla fisica quantistica, fornisce inol-tre un modello mentale che consente di vedere la struttura delle interrelazioni in modo da riconoscere le strutture sog-giacenti invece che soltanto gli eventi, permettendo cosi, la scoperta dei modelli di cambiamento.

Le fasi del processo di Problem Solving dell’Action Learning.

Nell’Action Learning il gruppo passa attraverso quattro fasi, dall’esame del problema all’applicazione delle strate-gie. Le prime due fasi costituiscono la diagnosi, mentre le frasi conclusive sono quelle dell’elaborazione e applicazio-ne della strategia.• Fase 1, comprendere e rielaborare il problema: impor-

tantissimo è comprendere il problema e prendersi del tempo per trovare un accordo sul problema. Il pensiero sistemico e l’approccio da diverse prospettive, tipico dell’Action Learning, consentono al gruppo di elimina-re i veli che nascondono o camuffano il vero problema. Si passa poi alla rielaborazione del problema. Vi sono due tipi di approccio alla rielaborazione: l’approccio al contenuto che da un significato diverso al modo in cui una persona sperimenta una certa situazione, e l’ap-proccio che mira a rielaborare il contesto e che fa per-cepire e formulare l’obiettivo;

• Fase 2, elaborare e formulare l’obiettivo: una volta raggiunto l’accordo sul problema, il gruppo, l’organiz-zazione o il singolo, devono determinare cosa vogliono ottenere con il loro lavoro. Il gruppo deve selezionare l’obiettivo che ritiene essere il più strategico e il più re-sistente e per farlo, il gruppo si muove in tre direzioni:

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125Ambienti di apprendimento per la formazione continua

dalla struttura del problema alla struttura del risultato, dalla struttura dell’impossibile alla struttura del quando e se, e da una struttura fallimentare a una struttura con feedback;

• Fase 3, sviluppare e testare le strategie: i gruppi di ac-tion learning hanno maggiore successo nello sviluppa-re strategie innovative e di forte impatto, che rispon-dono in modo specifico e strategico al problema cui stanno lavorando, perché la maggior parte dei gruppi di Problem Solving, invece, tende a utilizzare solo la conoscenza programmata (quella che i componenti del gruppo portano con sé) quando cominciano a con-siderare e sviluppare le strategie. I piani e le strategie dovrebbero essere testati per verificare il loro impatto e la loro efficacia. Va detto inoltre che le strategie do-vrebbero essere selezionate in base al massimo risultato con il minimo costo sia per il singolo che per il gruppo o l’organizzazione;

• Fase 4, agire e riflettere sull’azione: Revens dice che come non si può imparare il servizio del tennis senza colpire una palla, allo stesso modo un gruppo non può imparare se non ha l’opportunità di mettere in pratica. Per questo motivo,intraprendere l’azione è un elemento importante del lavoro di gruppo di action learning. Alla fine di ogni sessione, il gruppo concorda sulla scelta di azioni concrete e specifiche e dovrebbe registrarle e ri-portarle all’inizio della sezione successiva.

Autori maggiormente significativi

Revans è stato l’ideatore e il principale autore dell’Action Learning. Altri autori significativi sono sicuramente Mar-quardt e Dilworth.

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Corsi ed obiettivi di apprendimento per cui la strategia può essere utilizzata

Dilworth, R., and Boshyk, Y., 2010, affermano che sulla base di molti esempi pratici, l’Action Learning può essere utile, soprattutto nell’istruzione secondaria, nel dare l’op-portunità a chi apprende di far sentire la propria voce, i propri desideri e mettere in mostra le proprie capacità che alcune tipologie più rigide di apprendimento potrebbero reprimere o soffocare.

L’approccio è ampiamente utilizzato anche nella formazio-ne continua in contesti in cui un gruppo condivide un simile problema da risolvere oppure un obiettivo da conseguire ed intende rendere operativi i “contenuti” oggetti dell’azione.

Condizioni di fattibilità

L’approccio è implementabile con successo quando:• I membri del gruppo sono accomunati da motivi reali di

aggregazione, quali ad esempio le comunità di pratica, anche se il contesto aziendale, per costruire una leader-ship o accrescere la capacità di teamwork risulta essere un ottimo esempio pratico;

• Il lavoro è impostato su problemi concreti, realmente conosciuti e motivanti per il gruppo: ad esempio, si pos-sono utilizzare problemi non precisamente definiti, o la cui complessità rende possibili più possibilità di solu-zione;

Vantaggi o punti di forza

L’Action Learning insegna a lavorare insieme in modo ri-flessivo e significativo, e a produrre azioni coordinate.

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127Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Aiuta a sviluppare abilità e competenze di gruppo e un alto livello di cooperazione e collaborazione.

Le capacità sviluppate in gruppo possono costituire un pa-trimonio da applicare in occasioni future che è di notevole valore per l’organizzazione che adotta questo approccio.

Revans, sostiene che gli obiettivi dell’Action Learning, che possono essere considerati come punti di forza, sono: il mi-glioramento delle capacità di apprendimento, lo sviluppo delle capacità di analisi, lo sviluppo delle capacità di lavo-rare in team, la gestione dei processi di cambiamento, la valorizzazione della conoscenza tacita di un’organizzazione e il miglioramento della capacità comunicativa.

Svantaggi o punti di debolezza

L’Action Learning ha normalmente un maggior costo parte-cipante-giorno rispetto ad altri approcci di apprendimento e può essere un’attività impegnativa e ad alta intensità di risorse impiegate.

Un’iniziativa di Action Learning se non adeguatamente progettata e gestita, può essere problematica da gestire ma anche se ben progettata può restituire la sensazione che ri-manga comunque fuori dal controllo di chi la gestisce.

Indicazioni operative (lato erogatori, lato utenti)

Il Gruppo

Il gruppo rappresenta il cuore dell’Action Learning. Il gruppo ideale e costituito da un numero di persone che va da quattro a otto, con un background ed esperienze dif-ferenti. Uno o più membri dovrebbero avere una buona

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conoscenza e comprensione del problema. Avere un grup-po misto, in cui non tutti i membri hanno familiarità con il contesto e con il problema offre dei vantaggi, si evita che le persone che hanno familiarità, che spesso hanno idee pre-concette sulle cause del problema, possano rifiutare le idee originali proposte da i membri del gruppo senza familiarità. Quest’ultimi avranno bisogno di più tempo ma alla fine si otterranno nuove idee e intuizioni che vanno oltre alcuni schemi precostituiti.

Una delle caratteristiche più significative dell’Action Lear-ning è che offre a persone di diverso rango, istruzione ed esperienza, la possibilità di lavorare davvero insieme, ritro-vandosi allo stesso livello.

Weick sostiene che i team e le organizzazioni necessitano del “requisito della varietà” se vogliono riuscire a capire adeguatamente il mondo complesso che li circonda e ad adattarvisi con successo. Più complesso è il problema e più importante è la diversità di pensiero.

La responsabilità principale di ogni membro del gruppo, compreso colui che presenta il problema, è di fare doman-de, siano queste rivolte direttamente a lui o al gruppo in generale, e rispondere alle domande. La fase delle domande risolverà il problema.

In un gruppo di Action Learning si ha bisogno sia delle personalità riflessive, che tendono a porre domande più facilmente, sia di persone predisposte all’azione che sono indispensabili per evitare che il gruppo si si blocchi.

I gruppi di Action Learning presentano sette caratteristiche comuni:• Coesione e attenzione: con il temine coesione si inten-

de quell’attrazione reciproca generale tra tutti i membri del gruppo e il modo in cui restano uniti. Si riferisce

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anche al morale, al lavoro e allo spirito di gruppo. Una forte unità si può creare nei programmi di action lear-ning nel momento in cui le persone si concentrano sulla definizione del problema reale e si fanno coinvolgere dall’attività. Nel gruppo si sviluppano forti legami;

• Chiarezza degli obiettivi e degli scopi da raggiungere, il gruppo potrà scoprire e/o chiarire velocemente quali sono i propri obiettivi rispondendo ad alcune doman-de, come : Che cosa stiamo cercando di realizzare? Quali sono gli ostacoli?

• Comunicazione e dialogo, una comunicazione di qua-lità è fondamentale per il buon funzionamento e le alte prestazioni dei gruppi di lavoro. Il dialogo è importan-te dell’Action Learning, permette ai gruppi di sfruttare meglio la saggezza collettiva dei suoi membri e di vede-re le situazioni nella loro completezza e non in modo frammentato, spinge i membri del gruppo a concen-trarsi sulla ricerca e sull’indagine del come e perché le sensazioni personali influenzano il modo di percepire il problema. Il dialogo incoraggia le situazioni “ non com-petitive “;

• Commitment e impegno nelle attività e responsabilità per i risultati, le persone devono impegnarsi a fondo per aiutarsi reciprocamente, si devono assumere la re-sponsabilità e l’ownership delle proprie azioni.

• Creatività, si utilizzano i gruppi sulla base della convin-zione che le persone sapranno essere molto più creative in gruppo di quanto non lo sarebbero se prese singolar-mente, poiché la condivisione delle idee e delle azioni le spinge ad essere più innovative. L’Action Learning inse-gna a lavorare insieme in modo riflessivo e significativo, e a produrre azioni coordinate.

• Competenza, le abilità e le competenze di gruppo che si sviluppano attraverso la partecipazione all’Action Le-arning sono molte tra cui: la capacità di concentrarsi alternativamente sul processo e sul prodotto, secondo le necessità; abilità di indagine e di Problem Solving;

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capacità di acquisire auto-comprensione e auto-consa-pevolezza dai feedback forniti dagli altri membri del gruppo; saper essere un membro efficiente e stimolante all’interno del gruppo, saper dare sostegno e imparare a lavorare con gli altri; abilità di leadership.

• Cooperazione e collaborazione, i gruppi di Action le-arning non possono funzionare senza un alto livello di cooperazione e collaborazione. L’importanza della co-operazione e della collaborazione è riscontrabile nel fatto che, per definire i membri dei gruppi, spesso si utilizzano espressioni come “fratelli nelle avversità” o “compagni nella ricerca delle opportunità”.

L’apprendimento di gruppo si verifica più velocemente e in modo più completo se ai membri del gruppo, viene rico-nosciuta una ricompensa per il contributo che forniscono all’organizzazione.

Ruoli e membri dell’Action Learning

Nell’Action Learning è sono presenti alcuni ruoli diversi che prevedono responsabilità specifiche:

Il problem presenter

In un gruppo per la soluzione di problemi multipli ogni persona ha, per un periodo di tempo concordato, il com-pito di presentare il problema. Il problem presenter deve voler esser aiutato, essere predisposto ad accettare le do-mande e, soprattutto, avere fiducia nel processo di inda-gine riflessiva dell’Action Learning. Dovrebbe evitare di rispondere a domande che non gli vengono rivolte, e di aggiungere più dettagli di quanti siano richiesti, perché ciò rallenta il gruppo e può condurlo su un binario morto. Ad un certo punto, potrebbe e dovrebbe porre lui stesso delle domande al gruppo. Quando comincia a porre le doman-de, le dinamiche di gruppo cambiano, invece di sentirsi al centro dell’attenzione, avrà la sensazione che per il gruppo,

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il processo sia diventato un’opportunità di condivisione e apprendimento. Il problema è passato nelle mani del grup-po e quindi si può affermare che può incominciare la vera attività del Problem Solving.

l’actIon learnInG coach

E’ un membro del gruppo che concentra la propria atten-zione sulla fase di apprendimento e sviluppo del gruppo stesso, piuttosto che sulla risoluzione del problema. Il suo compito principale è di aiutare il team a lavorare meglio al problema.

L’Action learning coach può avere responsabilità logistiche e orientative, coordinare e gestire i tempi della sessione e delle attività più formali, può tenere i contatti con i dirigen-ti, con lo sponsor e con altri coinvolti nel problema.

lo sponsor

Lo sponsor è una persona che capisce la natura del proble-ma ed è in grado di aiutare il gruppo ad avere accesso alle risorse necessarie.

Le domande nell’Action Learning

Una delle differenze principali tra l’action learning e gli altri approcci al Problem Solving è che l’attenzione si concentra sulle domande piuttosto che sulle soluzioni. Le domande vengono considerate utili anche come base per l’apprendi-mento a livello individuale, di squadra e di organizzazione.

La chiave del potere dell’Action Learning sta nella qualità e quantità del flusso delle domande. Essendo impegnati a porre domande gli uni agli altri, i membri del gruppo rag-giungono passo dopo passo un accordo sulle risposte e sulle strategie, poiché ora riconoscono meglio i rispettivi punti di vista e hanno più chiaro il proprio.

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Dell’Action Learning riconosciamo la presenza di una cor-relazione tra la quantità e qualità delle domande e la qua-lità delle azioni e degli apprendimenti che ne conseguono. Cercare di bilanciare il numero di domande e il numero di affermazioni porta al dialogo.

Le domande portano quattro grandi vantaggi:• Il Problem Solving – dell’Action learning le domande

non servono solo per cercare delle risposte, ma anche per capire, per sensibilizzarci a quanto viene chiesto e per spingerci a pensare. Domande e riflessioni danno alle menti di tutti i membri del gruppo il tempo per en-trare in funzione. Avere la responsabilità di fare buone domande toglie ai singoli il peso di dover risolvere il problema.

• Team building - attraverso le domande si possono co-struire team forti e uniti. Se si chiede a tutti di concen-trare l’attenzione sulle domande e queste sono la forma principale di comunicazione, è molto difficile che una sola persona domini la discussione. I singoli membri sviluppano soluzioni di gruppo.

• Sviluppo della leadership – nell’Action Learning si pen-sa che sia più importante trovare la domanda giusta, piuttosto che rispondere bene alla domanda sbagliata. Secondo Kotter, professore di economia all’Università di Harvard, la differenza principale tra un leader e un manager è che il leader è colui che sa fare buone do-mande, mentre il manager è colui che ha il compito di dare le risposte. Porre le domande giuste ci permette di trovare le risposte giuste e queste ultime ci portano a intraprendere l’azione giusta.

• Aumento dell’apprendimento – l’indagine riflessiva, che rappresenta il processo centrale dell’Action Lear-ning, costituisce il modo migliore per ottimizzare l’ap-prendimento individuale e di gruppo. Con l’Action le-arning non solo si impara quali sono le cause dirette di un problema, quale soluzione può funzionare (ap-

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prendimento adattivo),ma si cerca anche di scoprire ed imparare quali possono essere le cause soggiacenti e le soluzioni (apprendimento generativo), la cultura e l’impostazione mentale che genera queste cause e que-ste soluzioni (apprendimento trasformativo). L’Action Learning aiuta ad imparare anche attraverso l’atmosfera creativa e di sostegno all’interno del gruppo. Quando le persone reagiscono in modo positivo alle tue domande, ti trasmettono fiducia, un senso di auto-riconoscimen-to, di importanza, e ti fanno apprezzare il contesto di apprendimento; tutti aspetti che contribuiscono a una mentalità disponibile a imparare.

Esistono diversi tipi di domande da porre in una sessione di action learning:• domande aperte lasciano alla persona o al gruppo un

alto grado di libertà nel decidere come rispondere (es. quali sarebbero i risultati migliori di questa azione?)

• domande indagatrici –richiedono alla persona o al gruppo di andare più a fondo in una particolare situa-zione (es. perché succede questo?)

• domande chiarificatrici• domande analitiche –esaminano le cause e non solo i

sintomi di un problema• domande chiuse- a queste domande si può rispondere

soltanto con un “si” o un “no

Le domande ritenute non utili dell’Action Learning sono le domande pilotate, in cui la risposta è forzata o incoraggia-ta da chi pone le domande, e le domande multiple, ovvero domande consecutive che confondono chi deve rispondere nonostante siano funzionali per chi le propone.Le grandi domande vengono poste nel momento in cui pos-sono produrre la massima riflessione e il massimo appren-dimento, e questo è uno dei motivi per cui spesso vengono usate domande con il “perchè?”.

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Nell’Action Learning la riflessione è continua e naturale; il gruppo spontaneamente, si ritaglia del tempo e crea le condizioni per riflettere e ascoltare.

La riflessione comprende diverse fasi: ricordare, pensa-re, separare, dare un senso e cercare di capire. Mezirow sottolinea che la riflessione comprende anche il prendere coscienza delle proprie supposizioni, premesse, criteri e schemi, ed essere disposti a criticarli duramente. L’inchie-sta riflessiva dà origine a un sostegno reciproco all’interno del gruppo, poiché tutti sentono la necessità di ascoltarsi attentamente.

Schön descrive così gli elementi che costituiscono la riflessione:• la diagnosi (la capacità di elaborare o dare un senso a

un problema);• il test (sperimentare e valutare soluzioni alternative);• il coraggio di agire e di prendersi la responsabilità delle

proprie azioni

Strategie d’azione

L’azione incrementa l’apprendimento per il singolo e per il gruppo perché fornisce una base e un punto d’appoggio per ulteriori domande e riflessioni. Il momento in cui si passa all’azione rappresenta il momento essenziale per i gruppi di action learning. Se un’azione non viene messa in atto, il gruppo non potrà sapere con certezza se le strategie e le idee elaborate siano efficaci e se i membri del gruppo abbia-no, o meno, imparato qualcosa lavorando insieme.

Lo schema dell’azione

Per assistere i gruppi di action learning, Smith ha sviluppa-to un sistema di prestazioni basato su tre elementi:• il focus - rappresenta la comprensione chiara del pro-

blema e delle prestazioni proposte;

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• la volontà - la forza di mettere in atto la prestazione sta-bilita nel focus;

• la capacità-il mezzo necessario per trasformare in realtà le prestazioni definite nel focus

Esempi

Nel testo (Marquard & Ceriani, 2009) si riportano due esempi industriali, ISTAT Istituto Oncologico Europeo.

Nel testo (Dilworth, R., and Boshyk, Y.,2010) sono riportati svariati esempi in molteplici ambiti applicativi, assistenza sanitaria, ambito militare, ambito aziendale ma anche nell’i-struzione secondaria e superiore.

Uno di questi riguarda il caso di una scuola media di Po-mona, California, datato 15 marzo 2009. L’insegnante sfidò i suoi studenti a scrivere temi sulla crisi economica e sul ruo-lo che questa crisi aveva sulla loro vita. Infatti, avvertiva in classe la tensione derivante dalle pressioni finanziarie sulle famiglie degli studenti, e sentiva che questo poteva essere un modo per incoraggiare gli studenti a dare voce alle loro preoccupazioni. L’insegnante fu stupito e contento dal lavoro dei suoi studenti. Essi riferirono che le loro vite erano forte-mente condizionate dalla crisi e uno studente in particolare riferì che le finanze della famiglia erano così ristrette che si tratteneva nel mangiare a cena, in modo che ci fosse più cibo per i suoi fratelli. Molti degli studenti erano in uno stato di angoscia, dovendo assumersi preoccupazioni e responsabi-lità non adeguate alla loro età. Molte case erano state perse a causa del pignoramento e, in alcuni casi, anche gli alloggi temporanei erano in pericolo. Tutti gli studenti, tranne uno, indicarono che avevano preso una occupazione occasionale, o erano in cerca di tale lavoro per contribuire a sostenere le loro famiglie. L’insegnante sfidò i suoi studenti a condividere le loro storia al di là del scuola, suggerendo di creare un blog.

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Essi seguirono la sua raccomandazione. Il messaggio che essi fornirono fu un racconto che ha finito per attirare l’attenzio-ne a livello nazionale, arrivando fino alla Casa Bianca. Infatti, durante una visita in California, il presidente Barack Obama ha visitato la scuola per parlare con gli studenti. Tuttavia, la storia non si concluse così. Gli studenti si organizzarono per costituire una associazione studentesca per sostenersi l’un l’altro. E’ questa un tipo di opportunità - fornita, in questo caso, da un insegnante molto accorto e intuitivo, e sensibile alla situazione di suoi studenti - che può aprire nuove strade agli studenti per apprendere abilità di vita e fornire soluzioni a problemi. Questo non è un caso di “banking education”: si ha a che fare con reali questioni di vita, che sono al cen-tro dell’Action Learning. Questo esempio si adatta all’Action Learning per diverse ragioni. In primo luogo l’insegnante ha stimolato i suoi studenti a fare quello che ritenevono più opportuno. Il blog era loro, non suo. Tutti gli studenti han-no avuto un ruolo paritario nel processo. I problemi con cui avevano a che fare erano reali, non costruiti, o ripresi da un libro di testo. Gli studenti hanno avuto ampie opportunità di riflettere sul loro personale stato, e la riflessione è una com-ponente chiave dell’Action Learning. Infine, si è trattato di un caso di “Questioning insight”. Le problematiche hanno guidato il processo e la riflessione critica che ne è scaturita.

Tecnologie necessarie

Essendo l’Action Learning essenzialmente basato sul lavoro collaborativo di gruppi di persone su un problema reale, esso si può giovare in alcuni casi di tecnologie che supportano il la-voro collaborativo, come sistemi per teleconferenze, realtà vir-tuale, social networks etc. Ma in generale non esistono tecnolo-gie senza le quali l’Action Learning non possa essere applicato.

A prescindere dagli atteggiamenti e dalle abilità dei parteci-panti ad un azione di Action Learning (che spesso agiscono più come deterrenti che facilitanti) verso l’interazione on-line,

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numerose delle attività che caratterizzano un intervento di Ac-tion Learning potrebbero, quindi, essere sostenute attraverso e svolte in un ambiente on-line che potrebbe fungere da “luogo” di incontro tra i membri del gruppo. L’interazione (l’essenza dell’approccio) se svolta on-line potrebbe perdere qualcosa dello scambio in presenza, ma acquistare valore grazie alla qua-lità che è possibile generare nelle interazioni via forum dove l’”ascolto” del contributo di un membro e la formulazione della nostra “risposta”, potendo essere differiti nel tempo, possono essere di maggior qualità di uno scambio in tempo reale

rIFerImentI bIblIoGrafIcI

Boshyk. Palgrave Macmillan. Palgrave Connect. Palgrave Macmillan.

Dilworth, R., and Boshyk, Y. (2010), Action Learning and its Applica-tions. Eds. Robert Dilworth and Yury

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cIrcolI dI aPPrendImentoAntonio Fini

Descrizione

Un circolo di studio è costituito da un piccolo gruppo di persone (in genere da cinque a quindici) che decidono di riunirsi periodicamente allo scopo di studiare uno specifico argomento o approfondire e dibattere insieme un ambito disciplinare, un qualsiasi tema scelto dal gruppo stesso.

I circoli di studio sono un esempio di attività di apprendi-mento non-formale, in quanto non vi sono limitazioni di ac-cesso (ad esempio legate ai titoli di studio) e non è previsto il rilascio di certificazioni.

Una caratteristica importante dei circoli è la loro estranei-tà al sistema “classico” delle istituzioni formative, orientate tipicamente ai saperi accademici e/o alle competenze neces-sarie per il mondo del lavoro.

I circoli consentono invece l’espressione autonoma dei bi-sogni formativi da parte dei cittadini. Sono essi stessi infat-ti a rispondere in autonomia a tali bisogni, condividendo le proprie risorse, mettendole a disposizione degli altri e aprendosi alla discussione.

Un altro elemento caratterizzante dei circoli è infatti la di-mensione sociale. Nonostante le attività siano solitamente facilitate da un tutor (il quale è normalmente un parteci-pante che ha ricevuto una formazione specifica per la faci-litazione dei gruppi), l’apprendimento è fondamentalmente auto-regolato e gestito in modo autonomo dai partecipanti, i quali operano in regime di parità (non vi sono ruoli pre-costituiti di “docenti” e “allievi”). In alcuni casi tuttavia è

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previsto il ricorso ad esperti esterni, anche se per un tempo e con obiettivi limitati.

In ogni caso, è opportuno sottolineare come né il tutor né gli eventuali esperti ricoprano mai il ruolo di “docenti”. A differenza del docente, infatti, l’esperto che interviene pres-so il circolo di studio è piuttosto un animatore che stimola la riflessione e la discussione dei partecipanti, un narratore che racconta le proprie esperienze, una guida che indirizza il proseguimento del lavoro e indica riferimenti per appro-fondire.

In effetti, il confronto, la discussione, la condivisione sono elementi caratteristici che costituiscono la dimensione so-ciale dell’apprendimento all’interno dei circoli. I learning circles, nella loro forma originaria, prevedono riunioni dei partecipanti in presenza; tuttavia le tecnologie di rete han-no consentito più recentemente la possibilità di costituire circoli virtuali di studio, i quali mantengono comunque le caratteristiche formali originali, come la periodicità e la sin-cronicità (ovvero la presenza simultanea dei partecipanti, attraverso sistemi di comunicazione come le aule virtuali sincrone o web conference system).

La scelta del numero minimo/massimo dei partecipanti non è casuale e deriva dall’osservazione che raramente in gruppi inferiori alle cinque persone si riesce ad instaurare una discussione davvero avvincente e a stimolare processi di apprendimento significativi. All’estremo opposto, grup-pi molto ampi pongono seri problemi nella gestione della comunicazione e per quanto riguarda i processi decisionali.

La pratica dei circoli di studio può vantare una lunga tradi-zione in diverse culture ma si è sviluppata in modo partico-lare in Svezia, agli inizi del XX secolo. Alcune regioni italia-ne hanno sponsorizzato negli ultimi anni la realizzazione di circoli di studio (ad es. la Regione Toscana e la Provincia di

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Genova). Da notare che il ruolo delle istituzioni pubbliche è particolarmente significativo, per quanto riguarda la dif-fusione, l’organizzazione logistica dei circoli (in quest’ambi-to è importante il ruolo degli enti locali) e la formazione dei tutor, alla quale si è fatto riferimento in precedenza.

Esiste anche una diversa declinazione del concetto di le-arning circles, orientata questa volta alla scuola. In questa particolare “versione”, proposta per la prima volta da M. Riel nel 1990, i Learning Circles o Circoli di Apprendimen-to hanno lo scopo di fornire ambienti di apprendimento nei quali gli studenti cooperano con loro pari e con adulti per condividere idee, dibattere questioni e risolvere problemi. Nella struttura proposta dalla Riel, un learning circle è co-stituito da un minimo di quattro classi ad un massimo di otto, riunite in una classe virtuale le cui interazioni avven-gono via rete. Il circolo lavora per un determinato periodo di tempo, durante il quale sviluppa un aspetto particolare del tema prescelto. Ciascun Learning Circle è infatti carat-terizzato da un tema e ogni insegnante sceglie a quale cir-colo iscriversi in base al tema che intende sviluppare con la propria classe. Ogni classe deve raggiungere l’obiettivo di produrre una pubblicazione che contiene il proprio proget-to, sviluppato con la collaborazione delle altre classi.

Il lavoro di coordinamento avviene con l’aiuto di un inse-gnante esperto (Learning Circle Facilitator) che è a stretto contatto con quelli degli altri Circoli e con il Mentor Coor-dinator che è il coordinatore dei Circle Facilitator.

Fondamenti concettuali

Le basi concettuali dei circoli di apprendimento sono da reperire nell’ambito dell’Active Learning, soprattutto per quanto riguarda il fondamentale elemento dell’autoappren-dimento e in particolare la assunzione di responsabilità da

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parte del singolo sui propri bisogni di apprendimento e la loro successiva realizzazione. Questa tematica viene appro-fondita nella scheda “Apprendimento auto-diretto”.

Un altro riferimento importante è costituito dalle teorie di stampo costruttivistico legate all’apprendimento collabora-tivo. Va precisato che i termini “collaborazione” e “coope-razione” sono spesso utilizzati come sinonimi nel discorso comune. Nello specifico relativo all’apprendimento (e so-prattutto nell’ottica della collaborazione negli ambienti vir-tuali), tuttavia, diversi autori hanno proposto tassonomie e framework concettuali più rigorosi. In particolare, Misan-chuk e Anderson (2000) metto in risalto tre livelli denomi-nati comunicazione, cooperazione e collaborazione.

Nel primo livello (comunicazione) i soggetti mantengono una forte connotazione individuale, anche rispetto alle re-sponsabilità e al coinvolgimento nelle attività; nel livello di cooperazione appare l’obiettivo comune ma questo è rag-giunto principalmente attraverso una “divisione dei com-piti”, la responsabilità e i livelli di coinvolgimento restano legati alla dimensione personale; è soltanto nel livello della collaborazione che i soggetti si trovano coinvolti in processi generativi della conoscenza, affrontano i problemi decisio-nali attraverso consenso e negoziazione, la responsabilità e il coinvolgimento sono attribuiti più all’entità collettiva rap-presentata dal gruppo che ai singoli.

La collaborazione pertanto non è considerabile come una giustapposizione di contributi individuali (in questo caso è più corretto parlare di cooperazione) ma come “un’attività coordinata, sincrona, risultato di un sforzo continuo teso a costruire e mantenere una concezione condivisa del proble-ma” (Roschelle e Teasley, 1995). La sincronicità delle attività è naturalmente riferita non tanto alla simultaneità quanto alla consapevolezza dell’impegno comune e delle maggiori poten-zialità offerte dalla dimensione del gruppo, rispetto al singolo.

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Un ulteriore importante riferimento è offerto da Dillenbou-rg (1996), il quale evidenzia soprattutto l’elemento della negoziazione. Per ottenere reale collaborazione, secondo questo autore, è necessario che i partecipanti condividano in modo particolare il committment verso l’”accordo” attra-verso comunicazione, strategie e gestione del gruppo. Una sintesi e una disamina della letteratura relative alle proble-matiche legate alle dinamiche collaborative in rete è dispo-nibile nel volume di Calvani (2005).

Lo sfondo nel quale i circoli trovano la loro ragione d’esse-re è quello della prospettiva del lifelong learning. Questo termine, spesso tradotto in italiano con “educazione con-tinua”, è venuto in primo piano sempre più negli ultimi anni, anche a causa del costante impegno di istituzioni (ad esempio l’Unione Europea che lo ha incluso come elemen-to centrale delle politiche europee di sviluppo delle risorse umane).

Proprio la Commissione Europea ha fornito anche una de-finizione di LLL, precisando che “non si limiti a una vi-sione puramente economica o all’istruzione degli adulti. Al di là dell’enfasi sulla continuità cronologica, da prima della scuola a dopo la pensione, l’apprendimento permanente dovrebbe anche coprire l’intera gamma di modalità d’ap-prendimento formale, non formale e informale.”

L’idea è pertanto di fare emergere una strategia globale di educazione, da realizzare attraverso politiche europee, nazionali e locali. Il tipo di apprendimento a cui si fa ri-ferimento è sia di tipo personale che professionale. La sottolineatura è importante per evitare una facile e comu-ne limitazione, ovvero vedere l’apprendimento continuo come un qualcosa di strumentale, finalizzato esclusivamen-te all’aggiornamento delle conoscenze e competenze nella prospettiva di una vita lavorativa caratterizzata da frequenti cambiamenti. Indubbiamente la motivazione professionale

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resta preponderante nella domanda di formazione, ma non va trascurata la parte relativa alla realizzazione personale. In questo senso il lifelong learning va sempre letto in relazione ai diversi orientamenti dell’autoapprendimento: da quello istruttivo e più legato alla tradizionale prassi autodidattica a quello educativo che vede nell’autoformazione una compo-nente emancipativa, di riflessione e trasformazione interiore (Quaglino, 2004).

Autori maggiormente significativi

Per quanto riguarda in modo specifico i circoli di studio, i principali riferimenti sono autori svedesi e statunitensi. Si segnalano in particolare Blid, Barry e Campbell e, per quan-to l’utilizzo dell’approccio in contesto educativo primario e secondario, Margaret Riel con il progetto Learning Circles.

Corsi ed obiettivi di apprendimento per cui la strategia può essere utilizzata

I circoli di studio sono applicabili a qualunque ambito di-sciplinare. Le loro caratteristiche li rendono tuttavia più adatti per l’apprendimento in età adulta. Nella declinazione proposta dalla Riel, tuttavia, possono essere impiegati an-che in ambito scolastico.

L’aspetto peculiare dei circoli è quello legato alla parteci-pazione attiva dell’individuo nella realizzazione dei propri bisogni formativi. Essi rappresentano infatti un’occasione di responsabilizzazione dell’individuo nella progettazione del proprio percorso di crescita personale. Nell’ottica del li-felong learning, pertanto, i circoli possono funzionare come strumenti per il reinserimento in attività formative dell’in-dividuo, al quale si propone un modello diverso da quello tradizionale del “corso di formazione”.

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L’aspetto partecipativo può essere valutato positivamente anche dal punto di vista delle comunità nei quali si realizza-no i circoli. Essi possono infatti costituire elementi iniziatori o approfondimenti di realtà maggiormente strutturate come comitati di cittadini, centri studi, associazioni.

Blid (2000) ha proposto una classificazione dei possibili obiettivi, definiti come “approcci” o strategie possibili:• approccio tematico. In questo caso, quello forse più sem-

plice, si lavora attorno ad un tema precedentemente scelto dai membri del gruppo. In questo approccio l’o-biettivo è sostanzialmente quello di spingere i parteci-panti a condividere le ragioni per le quali ognuno ritie-ne rilevante il tema scelto, a scoprirne i diversi possibili punti di vista, a seguire approfondimenti, a stimolare l’interesse per ulteriori sviluppi. E’ il modello più tipico di circolo di studio in cui ogni partecipante è portatore di un bagaglio di conoscenze o di esperienze che vanno ad essere messe in comune.

• approccio seminariale. Si riscontra nei casi in cui si la-vora attorno ad un tema nel quale è più debole il con-tributo di conoscenze personali che i partecipanti sono in grado di apportare (ad esempio la gestione del ciclo integrato dell’acqua). Questa tipologia è la più simile ad un “corso” tradizionale, dal quale si differenzia per le modalità esecutive tipiche dei circoli. Questo tipo di circolo di studio è più orientato ai contenuti ed ha lo scopo di far raggiungere ai partecipanti un determinato livello di conoscenza o competenza sullo specifico ar-gomento.

• approccio dialogico. E’ il caso nel quel il circolo di studio ha come obiettivo principale lo sviluppo del dialogo tra i partecipanti. Si già detto come il fondamento dei cir-coli di studio sia il dialogo, la discussione, la condivisio-ne. Questo approccio valorizza in modo particolare gli aspetti dialogici rispetto ai contenuti. Pertanto lo scopo può essere quello di mettere in condizione i partecipan-

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ti di prendere la parola, di esprimersi, di discutere con altri, di confrontare idee diverse, di costruirsi un’idea a partire dalla discussione di gruppo. In questi tipi di circoli di studio il tema può anche essere variabile di volta in volta, dal momento che prevale l’attenzione per il metodo piuttosto che per i contenuti. La pianificazio-ne e la strutturazione della discussione costituiscono in sostanza il vero obiettivo del circolo di studio. Questo approccio è particolarmente utile con particolari sog-getti (ad es. ospiti di comunità residenziali, partecipanti a programmi di reinserimento, ecc.).

• soluzione di un problema. L’approccio orientato alla soluzione di problemi si riscontra nei circoli di studio costituiti da un gruppo che condivide l’interesse a chia-rirsi come affrontare e risolvere un problema comune. Questo approccio si caratterizza per l’adozione di un metodo ispirato a quello “scientifico”, che passa cioè attraverso l’osservazione, l’ipotesi, la verifica. Secondo Blid, in realtà, queste tappe dovrebbero essere presenti in tutti i circoli di studio. Tuttavia, ciò che caratterizza in modo specifico questo approccio è l’esplicita artico-lazione delle fasi di lavoro secondo un percorso che va dalla precisazione del problema all’impostazione dell’a-zione rivolta alla sua soluzione. In particolare, Blid pro-pone un modello basato sulle seguenti sette fasi:• esplorazione, dedicata a comprendere la natura del

problema, a verificare l’effettivo interesse del grup-po, a valutare il tipo di ricerca che il gruppo può intraprendere;

• precisazione e semplificazione del problema, rivol-ta a focalizzare l’aspetto specifico del problema che può essere oggetto di ricerca nel contesto di un cir-colo di studio;

• pianificazione, dedicata a definire i metodi relativi alla raccolta di materiali, alla individuazione delle fonti, alla definizione dei modi e tempi della ricerca;

• raccolta e riorganizzazione delle informazioni dedi-

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cate alla realizzazione dei compiti di ricerca piani-ficati;

• verifica delle informazioni raccolte, dedicata alla elaborazione dei dati, alla loro analisi e interpreta-zione;

• conclusione, dedicata alla redazione del rapporto di ricerca, ovvero alla presentazione degli elementi di conoscenza costruiti dal gruppo;

• valutazione, dedicata alla presentazione dei risultati ai diversi stakeholders e alla predisposizione di pro-poste per l’avvio a soluzione dei problemi affron-tati.

• approccio artigianale o artistico. I circoli basati sull’ap-proccio artigianale e artistico si pongono come obietti-vo lo sviluppo della creatività dei partecipanti. Gli ele-menti caratteristici sono:• lo svolgimento di un lavoro manuale (ceramica,

scultura, falegnameria, etc.), o la partecipazione at-tiva ad una attività culturale (canto, rappresentazio-ne teatrale, etc.);

• la presenza di un esperto è di solito essenziale in quanto è necessaria una figura in possesso di com-petenze specifiche;

• l’utilizzo di materiali specifici per il tipo di attività prescelta dal gruppo;

• l’alto livello di collaborazione richiesta al gruppo, dal momento che in questo approccio si assegna particolare importanza alla realizzazione di un pro-dotto finale.

Come già accennato in precedenza, i circoli di apprendi-mento sono tipicamente utilizzati nel contesto dell’educa-zione permanente degli adulti. I casi d’uso tipici sono per-tanto relativi alla formazione su temi legati al tempo libero, alla realizzazione e alla crescita personale dei partecipanti. Questo non impedisce tuttavia che un’organizzazione possa promuovere e attivare circoli tra i suoi appartenenti.

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In particolare modo un ente pubblico territoriale (Comu-ni, Province, ecc.) potrebbe farsi promotore di circoli non solo tra i cittadini ma anche tra i propri dipendenti. La ge-stione a livello delle comunità locali può anche contribuire ad avvicinare le istituzioni ai cittadini. Ad esempio ove esse facilitino la partecipazione di propri funzionari a circoli di studio proposti dalla società civile, il circolo di studio può rappresentare un mezzo di confronto per un’analisi della comunità e di dialogo con i cittadini.

Vantaggi o punti di forza

I vantaggi dei circoli di studio sono essenzialmente legati alla loro natura informale e alla struttura diversa da quella del tradizionale corso di formazione. Un circolo di studio nasce infatti per rispondere a necessità di apprendimento che possono derivare da molteplici fattori ai quali le modali-tà tradizionali di formazione non riescono a rispondere, per vari motivi. La partecipazione del discente è totale, a par-tire dall’individuazione degli obiettivi di apprendimento. La natura intrinsecamente democratica dei circoli favorisce lo sviluppo di importanti competenze trasversali, come la capacità di intrattenere una discussione tra pari, l’abilità ar-gomentativa, l’abitudine alla partecipazione, il rispetto delle opinioni altrui. Nel caso del tutor/facilitatore (il quale è un componente del circolo, non un docente), ovviamente, an-che la gestione di gruppi.

Alcuni autori pongono l’accento in modo particolare sugli aspetti di democrazia e partecipazione insiti nei circoli di studio, che sono visti soprattutto come uno strumento per la promozione della cittadinanza attiva.

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Svantaggi o punti di debolezza

In qualche modo si può dire che gli stessi punti di forza dei circoli di studio ne costituiscono anche i principali ele-menti di criticità. Ad esempio, la necessità di avere discenti così attivi e capaci di analizzare e guidare i propri bisogni di apprendimento costituisce in molti casi a sua volta una bar-riera per l’accesso. In primo luogo, soltanto persone adulte hanno in genere un tale livello di consapevolezza rispetto alla propria formazione. Inoltre, è necessario che i circoli vengano in qualche modo “promossi” da una istituzione. Nella loro versione tradizionale, ad esempio, serve una sede per gli incontri, nella versione virtuale un’infrastruttura tecnologica. I tutor/facilitatori dovrebbero ricevere poi un (anche minimo) training iniziale.

Un altro punto di criticità è rappresentato dalla eventuale difficoltà di riconoscimento degli apprendimenti che avven-gono nei circoli. Data la natura informale e gli argomenti legati alla vita di tutti i giorni, in molti casi il problema non si pone, nel senso che si tratta dichiaratamente di attività di apprendimento intrinsecamente “non soggette” a valutazio-ne o certificazione. In altri casi, tuttavia, un riconoscimento potrebbe essere richiesto dai partecipanti. Si pone quindi il problema della valutazione degli apprendimenti e delle competenze acquisite in contesti non formali, problema sempre di difficile soluzione.

Indicazioni operative (lato erogatori, lato utenti)

La costituzione di circoli di studio in presenza richiede al-cune precondizioni abilitanti: la presenza di una istituzione che si incarica degli aspetti gestionali è l’elemento fonda-mentale che rende possibile e sostenibile questa strategia. E’ naturalmente necessario disporre di una sede per le ri-unioni dei circoli e deve essere adeguatamente predisposta

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un’azione informativa tra i cittadini. Infine, si deve prov-vedere alla formazione dei tutor/facilitatori dei circoli. La versione virtuale richiede pre-requisiti simili, ove al posto della sede fisica andrà predisposto l’ambiente virtuale (web conference, forum, ecc.).

L’operatività dei circoli è soggetta a particolari condizioni. Tenendo sempre a mente che gli scopi dei circoli sono re-lativi soprattutto all’inserimento (o reinserimento) in for-mazione delle persone, favorendone l’attivazione a livello personale, si rende necessario curare soprattutto la parteci-pazione attiva dei singoli.

In questo senso dovrà essere orientato il lavoro del tutor. Considerando anche che la modalità prevalente sarà l’auto-apprendimento (non sono previste “lezioni frontali” nei cir-coli di studio), il tutor dovrà gestire le probabili differenze all’interno del gruppo, relativamente alla conoscenza delle fonti di informazione, all’abitudine e abilità nello studio e nella ricerca autonomi, oltre che nelle inevitabili diver-se capacità di espressione. Lo scopo sarà naturalmente la creazione e il mantenimento di un ambiente di interazione e comprensibile a tutti, dove ognuno, in base alle proprie capacità e attitudini, possa contribuire in modo attivo. Di solito, l’attività del circolo si avvia con una ricognizione delle risorse utili allo studio dell’argomento: i partecipanti sono chiamati ad indicare le modalità e i mezzi con i quali affrontare i vari aspetti dell’argomento trattato. Il tutor cer-cherà di incoraggiare l’uso di diverse tipologie di fonti: libri, riviste, quotidiani, contributi di esperti, risorse multimedia-li, risorse reperibili in rete. L’utilizzo di internet è di solito irrinunciabile anche da parte dei circoli in presenza mentre diventa, ovviamente, indispensabile per quelli virtuali. An-che per questo motivo, nella preparazione di base del tutor dovrà essere previsto il possesso di buone competenze in-formatiche e di un buon livello di abilità e consapevolezza nelle ricerche in rete, per promuovere l’utilizzo di internet,

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consentire l’accesso alle persone che non lo hanno mai fat-to e accompagnarli nella navigazione. Anche in prospettiva di un eventuale credito riconosciuto ai partecipanti, è op-portuno pensare ad un documento finale che riassuma le attività svolte, compilato a partire dal diario delle attività tenuto dal tutor. Da notare che tale documento potrà anche essere occasione per introdurre i partecipanti alla pratica della scrittura collaborativa, supportata da tecnologie di tipo wiki o simili (ad esempio Google Docs).

Il concetto base dei circoli è costituito dalla condivisione delle esperienze e delle conoscenze dei partecipanti. Il cir-colo opera su un processo di dialogo, basato su principi di democrazia e partecipazione attiva.

Perché un circolo di apprendimento possa funzionare in modo efficace, occorre che siano soddisfatte alcune condi-zioni e vi siano alcuni pre-requisiti:• Partecipazione attiva e ben distribuita tra i partecipanti:

occorre evitare fenomeni di “accaparramento” della di-scussione da parte di alcuni e, all’opposto, atteggiamen-ti passivi da parte di altri. In questo, il ruolo del tutor/facilitatore ha un’importanza decisiva;

• Attività significative: ogni incontro e l’obiettivo del cir-colo stesso devono essere ben individuati e basarsi su attività (anche della vita di tutti i giorni) ma fortemente connotate da significati importanti per i partecipanti;

• Struttura idonea alla gestione del circolo: nel caso di circoli realizzati in presenza, è necessaria una sede ido-nea, attrezzata in modo specifico. Il circolo non è una classe, pertanto anche il setting ambientale deve rispec-chiare l’andamento “circolare” dei flussi informativi. Per quanto riguarda i circoli virtuali, dal momento che le interazioni sincrone sono considerate fondamentali per la buona riuscita del circolo, un buon sistema di web conference appare indispensabile. In questo caso, è necessario che i partecipanti posseggano alcuni pre-

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requisiti per l’accesso a tali tecnologie, a partire dalla connessione internet in banda larga, fino alle compe-tenze informatiche di base necessarie per utilizzare tali software;

• La presenza di un tutor/facilitatore. La denominazione di facilitatore è più idonea a definire questa figura. Si tratta infatti di uno dei partecipanti, il quale si incarica della gestione efficace del gruppo. Di solito l’istituzio-ne che promuove i circoli si occupa anche di fornire ai facilitatori novizi una formazione di base specifica. Il facilitatore non è un docente, ma è soltanto un “primus inter pares” che si occupa del buon andamento e del co-ordinamento delle attività del gruppo, facilita appunto l’instaurarsi di una proficua discussione, propone rego-le e contribuisce al clima positivo che deve caratterizza-re i lavori del circolo.

Il ruolo e il profilo del tutor

Il tutor di un circolo di studio ricopre quattro ruoli fon-damentali. Esso è contemporaneamente un partecipante, il leader, il facilitatore e il segretario. Come membro del cir-colo, egli lavora con il gruppo (non “per” il gruppo): come si è già spiegato i circoli di studio sono strutture reticolari di apprendimento, nelle quali lo scambio dei conoscenze tra partecipanti ricopre un ruolo fondamentale. Il tutor deve condividere con gli altri membri il ruolo di membro e allo stesso tempo deve apportare il proprio specifico contribu-to basato sul possesso di ulteriori competenze nel campo dell´educazione degli adulti che possano favorire il buon funzionamento del gruppo.

Il tutor ha anche il ruolo di leader del gruppo, in particolare nei momenti di avvio e nella fase di sviluppo delle attività del circolo. Le funzioni proprie di un leader di circolo di studio consistono nella convocazione degli incontri, nella direzione metodologica degli incontri, nel supporto nei mo-

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menti di presa delle decisioni, nella scelta delle persone che assumeranno particolari ruoli nella conduzione delle atti-vità, nell´assicurare che il lavoro proceda. A questi compiti vanno aggiunti quelli relativi alle tecnologie utilizzate, in caso di realizzazione del circolo in modo virtuale.

Il ruolo di facilitatore viene esercitato nel corso della con-duzione delle riunioni del circolo di studio. Il compito che il tutor deve assolvere consiste nell´assicurare che le dinami-che ed i processi di apprendimento all´interno del gruppo si sviluppino in modo corretto. Da queste funzioni dipende il benessere del gruppo e il mantenimento della capacità di collaborare e di gestire i conflitti. Il facilitatore ha anche il compito di garantire che il lavoro di gruppo segua una metodologia in qualche modo verificabile e aderente a buo-ne pratiche consolidate dalla letteratura scientifica. Non si tratta di validare i contenuti, ma principalmente del metodo con cui il gruppo lavora per costruire le proprie conoscen-ze e della garanzia rispetto al mantenimento dell´equilibrio all´interno del gruppo stesso, salvaguardando ogni membro da eventuali prevaricazioni di altri.

La funzione di “segretario” del circolo risponde all´esigenza di documentare le attività, a scopo valutativo e auto-valu-tativo. Questa funzione si prevede quindi la compilazione e la raccolta del verbale di ogni incontro da cui risultino sia le discussioni che le decisioni assunte; - la compilazione, durante gli incontri, di sintesi della discussione in corso e la ricostruzione delle diverse posizioni o decisioni prese al fine di una loro definitiva conferma. I sistemi tecnologici eventualmente utilizzati possono facilitare questi compiti, ad esempio mantenendo in modo automatico una storia de-gli incontri e una traccia documentativa può essere implici-tamente presente nei sistemi di condivisione documenti. I sistemi di web conference, a loro volta, consentono di solito la registrazione delle sessioni (vedi il paragrafo “Tecnologie necessarie”).

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Le competenze di base che il tutor deve possedere per assi-curare tali risultati possono essere identificate nelle seguenti (SCRC, 1998):• competenze di tipo riflessivo, ovvero la capacità di ri-

proporre il contenuto ed il senso dei contributi di cia-scuno (“vediamo se ho capito bene quello che intendi con ”);

• chiarificatrici, cioè la capacità di perfezionare le idee proposte dai membri del gruppo (“credo che tu volessi intendere che .”);

• di sintesi, traducibili capacità di riassumere I punti salienti della discussione (“Mi sembra che i principali temi trattati siano .”);

• di aggiustamento del focus della discussione, cioè la ca-pacità di spostare il discorso da un tema o da un parte-cipante ad un altro (“Grazie a X per il tuo contributo, Y, vuoi aggiungere qualcosa?”, “Abbiamo concluso la discussione dei punti 1 e 2. Vi sono altri contributi su questi punti?”;

• di utilizzare i momenti di silenzio e di pausa, accettan-doli e valorizzandoli come momenti di riflessione;

• di utilizzare il linguaggio verbale e non verbale nella co-municazione. Nel caso di circoli gestiti attraverso le tec-nologie di rete, possiamo aggiungere la consapevolezza dei limiti della comunicazione basata su computer e la necessità di tenere conto di tali limitazioni nella gestio-ne delle interazioni;

• di ascolto. L’ascolto comporta la capacità di prestare at-tenzione, comprendere e attribuire importanza ad ogni intervento dei partecipanti al gruppo.

Esempi

Alcuni esempi di realizzazioni di circoli di studio in Italia sono reperibili in rete, soprattutto relativi alle esperienze della Regione Toscana e della Provincia di Genova. In parti-

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colare, il sitowww.circolidistudio.itfornisce esempi interes-santi relativi a circoli attivati fino al 2007 in Toscana, mentre suwww.circolidistudioge.itsono presenti i materiali relativi alle esperienze liguri.

In campo internazionale, sono particolarmente significative le esperienze australiane (http://circles.ala.asn.au).

Per i Learning Circles, concettualizzazioni e pratiche, Mar-garet Riel con il progetto iEARN (International Education and Resource Network) in www.iearn.org/ e l’iniziativa Le-arning Circles in www.iearn.org/circles

Le esperienze della Regione Toscana sono documentate in:Irpet (2005).L’esperienza dei Circoli di Studio in Toscana, Pisa, Edizioni Plus. Sul web all’URL: http://www.rete.to-scana.it/sett/lefp/pubblicazioni/allegati/edu_26.pdf

Relativamente alla proposta dei “learning circles” nelle scuole, si veda anche: https://sites.google.com/site/onlinelearningcircles/Home/learning-circles-defined

Tecnologie necessarie

Come si visto in precedenza, i circoli di studio nascono principalmente come attività formative in presenza, salvo la loro versione “scolastica” proposta dalla Riel, la quale pre-vede invece fin da subito interazioni mediante la rete.

Dal momento che uno degli elementi fondanti dei circoli è costituito dalla discussione, possibilmente realizzata in modalità sincrona, la quale consente uno scambio di idee diretto e più immediato tra i partecipanti, le tecnologie uti-lizzabili per la realizzazione di una versione virtuale di un circolo di studio sono essenzialmente i sistemi di web con-

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ference. E’ da ritenere tuttavia che i circoli debbano avere comunque un avvio in presenza, anche per consentire la conoscenza diretta dei componenti del gruppo. Tuttavia non è da escludere che, ad esempio mediante i social net-work, si possano realizzare via rete anche la composizio-ne e l’avvio delle attività. Per consentire uno sviluppo dei lavori anche svincolato dalla presenza simultanea, si può prevedere l’uso dei tradizionali web forum, come strumen-to di comunicazione asincrono. In sintesi, l’utilizzo di una comune piattaforma LMS (ad esempio Moodle), integrata da un tool di web conference, potrebbe costituire in modo efficace una strumentazione tecnologica per un circolo di studio virtuale.

I moderni sistemi di web conference (a differenza della precedente tecnologia denominata spesso come “videocon-ferenza”) non implicano requisiti tecnici particolarmente elevati, a parte la disponibilità di collegamento Internet in banda larga (ADSL) per tutti i partecipanti. Tale disponibi-lità, peraltro, non è sempre scontata in Italia, soprattutto in territori lontani dai grandi centri urbani. Questa limitazione potrebbe pertanto essere decisiva per la partecipazione.

rIferImentI bIblIoGrafIcI

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comunItà e network dI PratIcHeAntonio Fini

Descrizione

Per “comunità di pratica” si intende generalmente un insie-me di persone che, condividendo una professione, un me-stiere, un interesse, un problema, una passione personale, interagiscono tra loro in modo progressivamente teso alla messa in comune di conoscenze e, appunto “pratiche”.

Le caratteristiche principali delle comunità di pratica sono l’identità, ovvero l’argomento di interesse condiviso dai partecipanti, il senso di appartenenza alla comunità per cui i partecipanti attivano meccanismi di sostegno reciproco, e la condivisione delle pratiche. E’ interessante notare come il termine “pratica” sia qui legato soprattutto alla conoscenza costruita e negoziata all’interno della comunità.

Il concetto di comunità di pratica è strettamente legato alla teoria dell’apprendimento situato proposta da Lave e Wen-ger (1991), i quali a loro volta si rifacevano agli studi sull’ap-prendistato ed ai meccanismi legati alle interazioni tra “ve-terani” e “novizi” all’interno di ambienti di apprendimento.

Successivamente Wenger (1998) ha inquadrato in modo or-ganico concetti ed elementi caratterizzanti delle comunità di pratica.

Con la diffusione delle tecnologie di rete, il concetto di co-munità di pratica si è evoluto verso quello di network. Il termine “Network of practice”, originariamente proposto da John Seely Brown e Paul Duguid (2000), riguarda oggi soprattutto l’uso dei social network disponibili sul web per scopi comunicativi legati allo scambio di informazioni lega-

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te a pratiche professionali. Il tratto distintivo sarebbe per-tanto l’uso “professionale” dei social network i quali sono al contrario spesso connotati come “luoghi virtuali” dedicati soprattutto al tempo libero ed alla socialità fine a se stessa.

Le principali differenza tra Comunità e Reti di pratica sono relative:• alla dimensione presenza (comunità) /distanza (net-

work) per cui i partecipanti ad una comunità si cono-scono di solito personalmente, al contrario dei parteci-panti ad un network;

• al rapporto più o meno stretto con un’organizzazione. Di solito le comunità sono emanazioni di organizzazioni (aziende, enti, ecc.) mentre i network operano ad un livello più ampio;

• alla distribuzione geografica, limitata nel caso delle co-munità e potenzialmente illimitato per i network (in re-altà esistono naturalmente barriere, ad esempio lingui-stiche, che limitano di fatto anche i network);

• alla natura dei legami esistenti tra i “nodi” della rete (ovvero i partecipanti), i quali possono essere più o meno forti. In particolare, nel caso dei network virtuali si osserva come questi legami siano solitamente di tipo “debole”.

Ma la differenza più significativa sta nello scopo che questi “aggregati” si prefiggono• I membri di una “comunità” lavorano per conseguire

un unico risultato (ad esempio: la conduzione in porto di una nave);

• I membri di un network sono accumunati da un inte-resse anche professionale e svolgono tutti la stessa pro-fessione (es: gli insegnanti; i tecnici di radiologia ...) ma ognuno consegue il risultato per proprio conto.

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Fondamenti concettuali

Le comunità di pratica si ispirano ad una teoria dell’appren-dimento che riguarda particolarmente il modo con cui una persona apprende all’interno di un’organizzazione. Lave e Wenger (1991) hanno proposto il modello dell’apprendi-mento situatoche vede l’apprendimento non più come “atto individuale” ma come “attività distribuita” tra i partecipan-ti ad una comunità di pratica.

Emerge pertanto la caratteristica sociale dell’apprendimen-to: l’individuo costruisce conoscenze attraverso la parte-cipazione alle diverse comunità sociali di cui fa parte (la scuola stessa può essere vista come una comunità). Le co-munità di pratica a loro volta condividono valori, credenze, linguaggi, modalità operative.

Da notare che, secondo Lave e Wenger, il processo di ap-prendimento è costituito dall’appartenenza alla comunità, anche senza attività formali di insegnamento/addestra-mento. E’ attraverso un processo che gli autori chiamano “partecipazione periferica legittimata” che i nuovi arrivati, da posizioni “periferiche”, si avvicinano al “centro” del-la comunità, passando dalla semplice “osservazione” e da compiti, conoscenze e competenze elementari ad altri più complessi e “centrali”, secondo un modello che gli autori stessi fanno discendere direttamente dall’apprendistato.

Nel modello della comunità di pratica, infatti, la conoscenza e la competenza (si potrebbe dire la teoria e la pratica) sono strettamente connesse: l’apprendimento “situato” prevede che si “apprenda facendo”.

Il modello delle comunità di pratica è stato ripreso da diver-si autori; in Italia soprattutto da Trentin (2004) e da Calvani (2005) per evidenziare come le tecnologie di rete possano fornire un ottimo supporto allo sviluppo e alla gestione del-

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le comunità che diventano in questo caso “virtuali” o “co-munità professionali in rete” (secondo la denominazione usata da Trentin).

Il modello di apprendimento all’interno delle comunità è basato principalmente sulla collaborazione, si parla infatti di “costruzione collaborativa della conoscenza” per sottoli-neare la dimensione sociale. Nel caso di esperienze di tipo collaborativo realizzate con modalità e-learning sono spes-so utilizzate anche sigle specifiche come CSCW (Computer Supported Cooperative Work) e CSCL (Computer Suppor-ted Collaborative Learning) (Scardamalia e Bereiter, 1993).

I rapporti tra apprendimento e comunità possono essere ri-assunti attraverso i seguenti punti (Trentin, 2004, pag. 31):• Caratterizzazione sociale dell’apprendimento. Il sogget-

to acquisisce conoscenza attraverso le comunità sociali a cui appartiene;

• Integrazione della conoscenza nella vita della comu-nità. Sia la conoscenza esplicita (ovvero quella sostan-zialmente formalizzabile attraverso le diverse forme di linguaggio e facilmente trasmissibile in forma organiz-zata), che quella tacita (di più difficile trasmissione e condivisione perché legata al vissuto del singolo indi-viduo, alle sue azioni e abilità non sempre esprimibili attraverso il linguaggio) sono integrate nelle esperienze della comunità. Il tentativo di esplicitare e condividere anche la conoscenza tacita è uno degli obiettivi della comunità di pratica;

• Apprendimento e appartenenza alla comunità sono in-distinguibili. Si apprende in quanto membri, attraverso le relazioni con gli altri partecipanti;

• Conoscenza e pratica sono inseparabili. E’ un forte ri-chiamo all’apprendimento “attivo”, per cui si apprende “facendo”. La dimensione teorica e quella pratica ven-gono a coincidere.

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Nonostante le comunità di pratica siano in senso stretto sempre “in presenza” e prevedano la condivisione anche fi-sica di ambienti e procedure di lavoro, le tecnologie di rete hanno comunque progressivamente spostato il focus sulle cosiddette “comunità virtuali”.

Il concetto di “comunità virtuale” è stato definito per la pri-ma volta da Rheingold (2001), che attribuisce loro alcune caratteristiche ulteriori, rispetto alle comunità di pratica face-to-face, dovute alleaffordancedella rete (ad esempio il carattere di calore e informalità dovuta ad un certo pote-re disinibente della comunicazione basata su computer). Altri autori hanno poi proceduto a ulteriori classificazioni (Calvani, 2005, pag. 50). Oggi, ovviamente, non si può pre-scindere dallo sviluppo dei social network, ambienti virtuali che, sotto particolari condizioni, possono offrire un sub-strato tecnologico per il supporto di comunità virtuali.

Particolarmente interessante appare la distinzione operata da Dron e Anderson (2007) relativamente alle dimensioni o entità principali che entrano in gioco nelle dinamiche socia-li tipiche della rete.

I tre livelli identificati da questi autori sono il Gruppo, il Network e il Collettivo ai quali, come contributo persona-le, pare del tutto ragionevole aggiungere una dimensione di base, il Soggetto, che è dato per scontato nel modello pro-posto ma che ha comunque caratteristiche peculiari delle quali occorre tenere conto.

Secondo questo modello la dialettica in rete è vista attraver-so una dinamica che coinvolge i seguenti livelli:

1) soGGettIvItà.Alla base c’è la soggettività, a cui corrisponde la necessità di usufruire di spazi ed ambienti di produzione persona-li, luoghi in cui rispecchiare la propri identità. Per secoli

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gli esseri umani si sono avvalsi di diari, epistolari, taccuini: tutti supporti al proprio lavoro e al tempo libero ma an-che qualcosa di più, in definitiva luoghi in cui gli individui hanno rispecchiato la propria identità. Il racconto di sé, a volte pubblico (nel caso di personaggi noti) sotto forma di autobiografia ma più spesso privato, sotto forma di diario personale, ha sempre avuto un ruolo importante nella vita di molte persone.

La diffusione dei blog e di altri tipi di social software ha cambiato la prospettiva del raccontarsi: il privato e il pub-blico si intersecano e si confondono. Il blogger scrive per sé stesso (come in un diario) o per gli altri? E’ difficile distin-guere le due dimensioni, personale e sociale del blog. Se il nome (web log, diario sul web) richiama principalmente la tradizione diaristica, l’esposizione al pubblico sul Web e la possibilità di commentare offerta ai visitatori portano inve-ce verso la dimensione sociale .

Non è solo il blog ad essere espressione tecnologica della soggettività in rete: i vari siti di condivisione di risorse (bo-okmark, fotografie, video, podcast, documenti) sono popo-lati da contenuti personali, che ognuno carica per sé prima che per gli altri. La diffusa pratica del tagging è un esempio di espressività personale: assegno questo particolare tag ad una risorsa perché questo ha senso per me.

Possiamo associare alla dimensione soggettiva anche le istanze relative alla sicurezza e alla privacy, spesso trascurate nella frenesia dei social network: quante fotografie che ri-traggono altre persone oltre all’utente che l’ha inserita sono oggi presenti, ad esempio, su Facebook? E’ una situazione a volte paradossale: la sfera privata, a volte oggetto di for-ti rivendicazioni di privatezza, viene poi esternata in modo estremamente disinvolto in nome di una spesso non così ben consapevole condivisione, al limite (e talvolta oltre) dell’esibizionismo.

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2) Gruppo.Il primo livello (il secondo, considerando la nostra aggiunta del livello soggettivo) del modello è forse quello più cono-sciuto e studiato. Il concetto di gruppo è ben consolidato nella teoria e nella prassi dell’educazione e, soprattutto, del-la psicologia sociale. Nello specifico dell’e-learning, esiste una notevole letteratura sul lavoro collaborativo in rete e sulle sue peculiarità (Calvani, 2005).

Aspetti peculiari dei gruppi sono: la consapevolezza degli individui rispetto all’appartenenza, l’esistenza di un obiet-tivo comune, una struttura precisa rispetto alle norme di ingresso, partecipazione e leadership. Limitandosi alla pro-spettiva dell’apprendimento in rete, i gruppi rispondono a specifiche esigenze ed obiettivi come una classe virtuale in un corso a distanza o un project work collaborativo.

Solitamente il gruppo ha una durata limitata nel tempo, in relazione all’obiettivo da raggiungere. La struttura gruppo è più facilmente reperibile nei setting formativi tipici dell’e-ducazione formale ma sono possibili esempi di formazione di gruppi anche per l’informal learning, assistito o meno dalle tecnologie .

3) network.I network consentono di mettere in connessione individui che condividono, generalmente, un qualche interesse co-mune, anche non precisamente individuato (può essere un tema, un ambito professionale, un hobby) e di solito senza un vero e proprio obiettivo collaborativo dichiarato. Anche il senso di appartenenza è sicuramente più debole, rispetto ai gruppi.

Chi partecipa ha generalmente come obiettivo l’aumen-to della propria reputazione, che può avvenire attraverso meccanismi di “ricompensa” quali l’esplicito apprezzamen-to del contributo. Un elemento di grande importanza nei

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network è il desiderio di condivisione. I network trovano oggi espressione tecnologica nei diversi sistemi di social net-working, da cui emerge chiaramente un’altra caratteristica, ovvero l’appartenenza multipla.

Tipicamente, gli individui fanno parte di diversi network, a causa dei diversi orientamenti e scopi di questi (ad esempio si può appartenere ad un network di amanti dei libri e con-dividere recensioni e commenti e contemporaneamente a network professionali per la ricerca di occasioni lavorative) ma molto spesso si osserva una contaminazione tra questi diversi ambienti, per cui i contatti e gli “amici” conosciuti in un network possono poi riapparire in un altro, ripropo-nendo connessioni in contesti diversi.

4) collettIvo.La partecipazione degli utenti a una multiforme varietà di servizi di condivisione oggi disponibili in rete costituisce una tipologia di aggregazione che non può essere ricondot-ta né ai gruppi, nei quali l’intenzionalità e l’obiettivo sono ben individuati e condivisi, e neanche ai network, nei quali, nonostante il legame sia decisamente più blando, esiste pur sempre un interesse comune, un elemento che in qualche modo fornisce una ragione per rimanere connessi.

Quando un utente scrive un post nel suo blog, o inserisce un commento ad una fotografia su Flickr, o condivide un bookmark su del.icio.us, fornisce un input per la collettività intera, non per un gruppo nè per un network definito di persone. I collettivi sono lo spazio ideale per laserendipi-ty, l’apprendimento per scoperta, l’imbattersi casualmente in qualcosa di interessante mentre si sta cercando qualcosa d’altro: una modalità di acquisizione della conoscenza che, a ben vedere, è in qualche modo legata già alla natura iper-testuale di base della rete e che, oggi, con l’aumentare della disponibilità di contenuti creati dagli utenti, raggiunge il suo apice.

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165Ambienti di apprendimento per la formazione continua

I collettivi sono tuttavia anche il regno dell’information overload: come dominare, selezionare, valutare questa mas-sa di contenuti che chiunque può immettere in rete? Come rapportare questo praticamente infinito flusso di conoscen-za con il proprio vissuto, le proprie necessità, gli obiettivi del momento?

L’ipotesi che suggeriamo è che i tre livelli descritti possa-no interagire nella vita quotidiana, rispondendo al meglio, ognuno per le proprie caratteristiche, alle diverse istanze che l’individuo avanza nel corso del suo percorso di ap-prendimento continuo.

autorI maGGIormente sIGnIfIcatIvI

Il concetto di comunità di pratica è stato introdotto da Etienne Wenger (1998) che rimane pertanto l’autore di riferimento, anche grazie al prece-dente lavoro sulla teoria dell’apprendimento situato, sviluppato con Jean Lave (Lave e Wenger, 1991).

Brown e Duguid (2000) hanno evidenziato gli aspetti reticolari, propo-nendo il concetto di “network di pratiche”.

Rheingold (1994) ha invece introdotto il termine “comunità virtuale”, attorno al quale negli anni si sono sono moltiplicati i contributi.

Per quanto riguarda autori italiani, i lavori maggiormente significativi in questo campo sono quelli di Trentin (2004) e Calvani (2005).

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Corsi ed obiettivi di apprendimento per cui la strategia può essere utilizzata

Un tipico campo di applicazione per una comunità di prati-ca è quello degli ex-partecipanti ad un corso di formazione. Sia che il corso si sia svolto in presenza o a distanza, è espe-rienza comune di molti partecipanti il senso di “interru-zione” dei contatti (e, in fin dei conti) dell’apprendimento che si verifica al termine di un’iniziativa di apprendimento formale. Questo disagio è tanto più avvertito quanto più efficace e soddisfacente è stata avvertita l’iniziativa.

La costituzione di una comunità di pratica può offrire con-tinuità all’azione formativa, oltre il momento di svolgimen-to del corso. E’ un caso nel quale la costituzione della co-munità è abbastanza facilitato da alcuni elementi, quali la conoscenza personale dei partecipanti (in caso di corso in presenza) o comunque la familiarità instaurata nel gruppo attraverso le attività virtuali (in caso di corso online). Le istituzioni che promuovo la formazione potrebbero a loro volta farsi carico dell’assistenza all’avvio duna una comunità del genere, anche offrendo supporto tecnologico.

Nell’ambito dell’online, ad esempio, nei corsi è ormai con-solidato l’uso delle cosiddette piattaforme e-learning. Que-sti sistemi svolgono egregiamente il loro compito durante la fase di svolgimento del corso, ma, una volta terminato, le classi virtuali, i forum e gli altri ambienti predisposti si “spengono” progressivamente: gli ex-corsisti non hanno più “motivo” di collegarsi, i docenti hanno da pensare alla nuova edizione del corso, ecc. Il ruolo della piattaforma ap-pare pertanto rigidamente limitato nel tempo, al solo perio-do di vita dei corsi. Non solo, normalmente all’interno di una piattaforma e-learning gli studenti hanno solo limita-te possibilità di personalizzazione: nella maggior parte dei casi il ruolo “propositivo” è riservato ai docenti ed ai tutor, mentre gli studenti si limitano di solito alla consultazione

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dei materiali ed alla partecipazione alle attività predisposte dallo staff.

Il “trasferimento” degli ex-corsisti verso sistemi tecnologi-ci più idonei alla dimensione informale e collaborativa può essere un elemento importante del quale l’istituzione po-trebbe farsi carico in vista della costituzione della comunità (vedi il paragrafo “Tecnologie”).

Un altro caso è quello delle comunità professionali (si veda anche la scheda “Portali Professionali”). Va rilevato tuttavia che non è sufficiente l’appartenenza ad un gruppo profes-sionale perché si possa parlare di comunità, o network, di pratica. Non è infatti scontato che vi sia in tutti i gruppi quella tensione verso la condivisione della conoscenza e la collaborazione che rendono di fatto attiva e possibile una comunità o un network di pratiche. Gli elementi di criticità relativi alle comunità di pratica professionali (in particolare supportate da sistemi tecnologici del cosiddetto Web 2.0) sono stati affrontati da Fini (2009).

Sinteticamente possiamo qui indicare i principali punti:• familiarità tecnologica. Le applicazioni di rete sono più

adatte a soggetti con particolare attitudine e curiosità nel settore tecnologico;

• capacità di autoapprendimento;• disposizione alla condivisione;• livello di expertise. Come ogni altro ambiente o espe-

rienza basata su forme di collaborazione, rimane valido il principio che tanto più i soggetti che interagiscono sono già esperti, tanto maggiori saranno le probabilità che le interazioni siano reciprocamente proficue;

• dominio professionale ben delineato ma anche etero-geneo ed aperto all’interno. Azioni virtuose possono verificarsi ai confini del dominio e negli spazi in cui questo può riconfigurarsi o incrociarsi con altri settori. Le competenze dovrebbero poter dar luogo a possibili

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integrazioni e complementarità, al formarsi e differen-ziarsi di nuove competenze;

• ambiti orientati alla progettualità e innovazione. Sono preferibili domini nei quali si possano affiorare nuove ipotesi e progetti, nei quali siano assenti vincoli di riser-vatezza o limitazione alla diffusione delle informazioni;

• presenza di un basso livello di antagonismo;• presenza di un legame istituzionale. Sembra utile (an-

che se non del tutto indispensabile) un qualche rappor-to istituzionale per garantire un buon livello di fiducia e per mantenere alta l’attenzione e la partecipazione con un minimo di animatori costantemente coinvolti;

• possibilità di conversione da attività informali in formali;• dimensione sufficiente. Deve consentire nel dominio in

questione, processi di serendipity ed incontri e colla-borazioni proficue. Questo non è possibile al di sotto di una massa critica minima, ipotizzabile ad un livello di 400-500 soggetti (tenuto conto che i realmente attivi sono stimabili a circa 1/10 o anche meno ) per garantire una soglia di interazioni significative;

• momenti critici di passaggio nella identità professiona-le. Un ruolo particolare potrebbe riguardare fasi pecu-liari di transizione (uscita dalla istituzione, primo avvio professionale).

Le comunità e i network di pratiche sono legate strettamen-te all’ambito dell’apprendimento in età adulta. Il riferimen-to agli ambienti tipici delle organizzazioni lavorative. In re-altà anche l’ambiente scolastico può essere a tutti gli effetti una comunità di apprendimento, soprattutto se in esso sono coltivati gli aspetti più legati alla condivisione ed alla co-costruzione della conoscenza.

Si è accennato in precedenza a situazioni tipiche per le co-munità di pratiche (ex-corsisti, comunità professionale). Tuttavia ogni organizzazione può dare vita a una o più co-munità di pratiche tra i suoi appartenenti, nell’ottica della

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costituzione di quella che viene indicata spesso come “lear-ning organization”, ovvero un approccio ispirato alle teorie dell’apprendimento organizzativo.

Le tecnologie del web 2.0 ultimamente hanno dato la pos-sibilità di costituire network di pratiche distribuiti e non più legati strettamente a singole organizzazioni (anche se in alcuni casi possono essere proprio le istituzioni a promuo-verli). Viene così assolutamente in primo piano uno dei due fattori chiave evidenziati da Trentin (2004, pag. 55), ovvero il ruolo delle comunità di pratica (anche se in questo caso la denominazione “network” appare decisamente più appro-priata) come strumenti di connessione tra le persone.

Vantaggi o punti di forza

I vantaggi delle comunità di pratiche sono essenzialmente legati alla loro natura informale e connessa ad una modalità di apprendimento “immersivo” che consente di superare ostacoli che impediscono o limitano la partecipazione a ini-ziative di apprendimento formale. I singoli possono inoltre beneficiare di aiuto per lo sviluppo di abilità e competenze relative al proprio lavoro.

Le comunità e i network di pratiche consentono una parte-cipazione attiva ad un numero elevato di persone che con-divide un interesse comune. I vantaggi non sono soltanto diretti ai singoli ma si allargano all’organizzazione. Stretta-mente legato alle comunità di pratica vi è infatti il cosid-detto Knowledge Management per cui la “gestione della conoscenza” all’interno delle organizzazioni è elemento cruciale, soprattutto per quanto riguarda le dinamiche che ne regolano la creazione e la disseminazione. Le comunità di pratica contribuiscono alla costituzione di nuclei solidi di capacità e competenze interne e alla creazione di opportu-nità di innovazione.

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Infine, come si è già accennato in precedenza, le comunità di pratiche possono anche svolgere un ruolo di raccordo tra le esperienze educative formali (soprattutto di alta forma-zione) e il passaggio al mondo del lavoro.

Svantaggi o punti di debolezza

Più che di svantaggi veri e propri, si può parlare di criticità. Oltre agli elementi già esposti nel paragrafo “Corsi ed obiet-tivi..” si possono individuare come elementi di criticità:• la scarsa attitudine di molte persone alla condivisione

della conoscenza. E’ ancora abbastanza frequente, in molti ambiti professionali, l’abitudine a considerare l’informazione come elemento di potere, da non condi-videre con altri per paura di vedere sminuita il proprio ruolo;

• la consuetudine legata alle modalità formali di appren-dimento, per cui alcuni trovano difficile operare in si-tuazioni di apprendimento informale;

• per quanto riguarda i network sostenuti da tecnologia:• una certa riluttanza (o diffidenza), soprattutto per i

meno giovani, verso l’uso dei servizi web 2.0 e dei social networking in particolare;

• collegato alla precedente, la necessità di possedere un certo livello di competenza nell’uso dei sistemi infor-matici e di rete;

• l’esistenza di limitazioni o difficoltà nell’accesso alla rete (digital divide).

Indicazioni operative (lato erogatori, lato utenti)

“Usando una metafora possiamo dire che la genesi di una comunità di pratica può essere paragonata alla crescita di una piantina in un terreno non coltivato” (Trentin, 2004, pag. 106).

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Questa riuscita metafora coglie uno degli elementi di cui tene-re maggiormente conto nel processo di attivazione e manteni-mento di una comunità. La “piantina” può svilupparsi spon-taneamente o essere intenzionalmente piantata, in ogni caso avrà bisogno di particolari cure per svilupparsi e crescere.

In particolare le comunità e i network necessitano soprat-tutto di meccanismi di auto-produzione e auto-direzione che ne consentono il mantenimento nel tempo.

Le comunità e i network possono essere aperti, semi-aperti o chiusi, a seconda dei livelli di regolamentazione dell’ac-cesso. Ad esempio un network professionale che si sviluppa attraverso un sistema di social networking potrebbe consen-tire l’iscrizione libera a chiunque lo desideri oppure potreb-be stabilire una politica di accesso basata sulla co-optazione (inviti da parte dei membri) o ancora demandare agli am-ministratori il potere di valutare le richieste di ammissione.

Un elemento di grande importanza per lo sviluppo dei net-work è il “clima”. E’ necessario che i partecipanti siano in qualche modo gratificati per l’appartenenza, attraverso meccanismi di remunerazione, non necessariamente di tipo economico (peraltro difficilmente praticabili in network non collegati ad istituzioni) ma basati sul riconoscimento del prestigio dei membri che si distinguono per la qualità degli apporti.

In ogni caso all’interno della comunità si verrà a formare una leadership, che potrà fare capo al soggetto che ha lan-ciato l’iniziativa o potrà anche emergere progressivamente.

Wenger (2001) ha elencato un certo numero di fattori che contribuiscono a determinare il successo di una Comunità di pratiche. Possiamo riproporre sinteticamente l’elenco ri-visitato da Trentin (2004) e declinato sul versante delle tec-nologie utilizzate:

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• Presenza e visibilità. E’ necessario favorire la visibilità reciproca dei partecipanti attraverso meccanismi quali elenchi, indicazioni di “presenza “ online;

• Periodicità. La cadenza di eventi è un fattore importan-te per riaffermare i valori e i legami. Calendari condivi-si, sistemi di agenda condivisa, di votazioni (ad es.www.doodle.com) e di sondaggi online.

• Varietà delle interazioni. Può essere realizzata preve-dendo una varietà di sistemi di comunicazione, sincro-na e asincrona.

• Facilità di coinvolgimento. E’ necessario favorire l’in-serimento dei membri nelle attività online, facendo in modo che tutti conoscano l’assortimento tecnologico previsto. Per quanto riguarda la tecnologia utilizzata, si dovranno privilegiare sistemi di facile utilizzo, con una particolare attenzione all’accessibilità.

• Valori a breve termine. La ricerca di informazioni “rapi-de”, utili nell’immediato può essere facilitata da sistemi di FAQ, condivisione di bookmark e altri sistemi sociali di condivisione.

• Valori a lungo termine. La gestione della base di cono-scenza della comunità che si può accumula nel tempo può essere effettuata attraverso repository documentali e sistemi di mapping (ad es. mappe concettuali).

• Collegamenti. Il collegamento con il mondo esterno è realizzabile facilmente mediante l’intersecazione dei si-stemi utilizzati per la comunità o il network con i sistemi di social networking. Ad esempio un “gruppo” di Face-book può essere l’eco esterna di un network privato.

• Identità personale. I social networking hanno partico-larmente insistito sul concetto di “profilo” dell’utente: uno spazio nel quale ognuno può descriversi in modo da esporre quanto ritiene più interessante che gli altri conoscano di sé.

• Identità comune. Se le comunità di pratica in presenza hanno naturalmente anche degli spazi fisici di riferi-mento, le comunità online e i network faranno ricorso a

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spazi virtuali (ad esempio i sistemi di web conference) e cercheranno di proporre una facciata pubblica attra-verso siti web, marchi, loghi, diffusione di notizie sui media, ecc.

• Appartenenza e interrelazioni. E’ un punto di difficile attuazione nelle comunità online, laddove l’interazione in presenza è invece il modo migliore per conoscersi re-ciprocamente e instaurare rapporti di fiducia e senso di appartenenza.

• Diversificazione dell’appartenenza. I sistemi di social networking prevedono di solito livelli diversi di accesso o meccanismi di visibilità differenziata di contenuti e contatti

• Evoluzione. I sistemi tecnologici devono ovviamente essere sufficientemente flessibili per adattarsi agli ine-vitabili (e desiderati) processi evolutivi.

• Attiva partecipazione. E’ ben noto come negli ambien-ti di interazioni online la maggior parte dei contributi derivi da un piccolo numero di partecipanti. Nielsen (2006), ha proposto la cosiddetta “teoria 1-9-90” se-condo la quale nella maggior parte delle comunità si osserva una tripartizione degli utenti nelle proporzioni indicate, ovvero circa un 1% di utenti effettivamente at-tivi e produttivi, circa un 9% di utenti occasionalmente attivi e il restante 90% di fruitori passivi (tenendo conto che i numeri 1-9-90, non sono da intendersi come cifre assolute ma piuttosto come tendenze).

Esempi

Un esempio di comunità virtuale dedicata ad ex-corsisti è offerta dal network gestito dal Laboratorio di Tecnologie dell’Educazione dell’Università di Firenze. Nel gennaio 2007, è partita l’iniziativa denominata LTEver, ovvero la co-stituzione di una comunità virtuale di LTE, nella quale far confluire studenti ed ex-studenti dei corsi, oltre che lo staff,

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i collaboratori e i docenti dei corsi stessi. Il nome stesso, giocato sul suffisso “ever” (for ever), suggerisce la continui-tà nel tempo, una volta terminati i corsi (www.lte-unifi.net). LTEver è realizzata con Elgg (vedi il paragrafo “Tecnologie necessarie”).

Esempi di network professionale sono “Classroom 2.0” (www.classroom20.com) e “La Scuola che Funziona” (www.lascuolachefunziona.it), entrambi costituiti da inse-gnanti, interessati nel primo caso alle tecnologie educative e nel secondo alla condivisione di pratiche didattiche efficaci. Entrambi questi sistemi sono basati su Ning (vedi il para-grafo “Tecnologie necessarie”).

Tecnologie necessarie

Le tecnologie utilizzate per il supporto alle comunità virtua-li si sono naturalmente molto evolute nel tempo. Nel 2004 Trentin nel suo libro elencava sistemi eterogenei come mai-ling list, newsgroup, chat e videoconferenza. Certamente, una comunità virtuale può utilmente avvalersi ancora oggi di una vasta gamma di sistemi tecnologici, sia diretti alla comunicazione sincrona (chat, VoIP, web conferencing) o asincrona (web forum, email, ecc.), alla condivisione di ri-sorse (wiki, social bookmarking, documenti condivisi), o al supporto dei processi (calendari, sondaggi).

Le tecnologie sopra elencate sono oggi disponibili sotto for-ma di servizi web, in buona parte anche gratuiti (si pensi alle applicazioni Google Docs o a Skype per la comunicazione VoiP o a sistemi come delicious per il social bookmarking), tuttavia negli ultimi anni sono emerse soluzioni specializza-te per la gestione di comunità e di network, ai quali sembra più idoneo, in questa sede, dedicare un approfondimento.

Il panorama dei sistemi software esistenti, pensati per la

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gestione di social networking personalizzati, di tipo profes-sionale e in particolare diretti al supporto di comunità di apprendimento include un certo numero di piattaforme di social networking, nella maggior parte dei casi utilizzabi-li gratuitamente e dirette alla gestione dei rapporti inter-personali tout-court, ma anche a scopi specifici. Nel primo gruppo rientrano gli ormai ben noti MySpace e Facebook, nel secondo i network professionali come LinkedIn e Xing. Oltre ai sistemi citati, ne esistono molti altri, diffusi spes-so solo in alcune aree geografiche o esplicitamente diretti a particolari fasce di pubblico.

Se tuttavia una istituzione formativa o un semplice grup-po di persone che si auto-organizza in gruppo di appren-dimento volessero realizzare un social network “privato”, destinato in modo esclusivo agli scopi dell’istituzione o del gruppo, quali alternative tecnologiche potrebbero avere a disposizione?

L’elenco dei software più specificamente orientati verso questo tipo di operatività è sorprendentemente lungo: nel 2007, TechCrunch, un sito specializzato in rassegne e re-censioni di tecnologie Web, proponeva una lista di nove soluzioni di tipo service4, ovvero utilizzabili direttamente sul sito web del produttore, senza necessità di scaricare e/o installare nulla su propri server5, e ben 35 software da in-stallare.

In questa sede può essere interessante fare un rapido con-fronto fra tre soluzioni, che rappresentano tre diverse possi-bilità in qualche modo tipiche nel mondo del software per il Web: una soluzione basata interamente su un servizio Web

4 http://www.techcrunch.com/2007/07/24/9-ways-to-build-your-own-social-network/

5 http://www.techcrunch.com/2007/08/14/34-more-ways-to-build-your-own-social-network/

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(Ning), una soluzione da installare rilasciata con licenza Open Source (Elgg) e una soluzione installabile rilasciata con licenza di tipo ibrido, tra l’Open Source e il commer-ciale (Dolphin).

E’ bene prima di tutto chiarire bene la differenza fonda-mentale tra servizi offerti direttamente sul Web e software da scaricare e installare. Nel primo caso, la semplicità d’uso è massima, in quanto l’utente non deve preoccuparsi dei problemi di tipo sistemistico (server Web, database, ecc.). Di norma è sufficiente attivare un account sul sito che of-fre il servizio e procedere con l’impostazione del profilo e dell’area di lavoro. Il servizio può essere offerto gratuita-mente o con forme a pagamento (ad esempio sono comuni le soluzioni “gratuito ma con pubblicità” oppure “a paga-mento senza pubblicità”). Nel secondo caso il software va installato a cura dell’utente su un proprio server Web. Tec-nicamente vi sono pertanto difficoltà aggiuntive ma le pos-sibilità di personalizzazione sono molto più ampie, soprat-tutto se il software è di tipo Open Source, potendo infatti intervenire direttamente sul codice. Anche la possibilità di utilizzare un proprio dominio Internet (peraltro in alcuni casi possibile anche con le soluzioni service) e il maggiore controllo sulle informazioni inserite nel sito sono elementi a favore della soluzione con software installabile.

Le principali funzioni, tipiche di un social network perso-nalizzabile sono:• Possibilità di gestire comunità/sotto-comunità/gruppi

ad accesso libero o controllato;• Profilatura degli utenti;• Gestione dei collegamenti tra gli utenti (“amicizia”,

”contatti”, ecc.);• Gestione di categorie e/o tag per i contenuti;• Blog personali degli utenti e/o multi-utente;• Repository di file, personale e condiviso per comunità-

sottocomunità;

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• Disponibilità di tool vari per la collaborazione (forum, wiki, sondaggi, ecc.);

• Condivisione di elementi multimediali (audio, foto, video);• Sistemi di rating per contenuti/utenti.

Oltre a queste, generalmente presenti in tutti i software di que-sto tipo, possono essere disponibili altre funzioni, a volte sotto forma di moduli aggiuntivi (plug-in) installabili e/o attraverso collegamenti ad altri servizi tramite API (web service).

Ning (www.ning.com) è un servizio web, attivo dal 2005, pen-sato per ospitare social network personalizzabili. Ning è in pra-tica un meta-social network in quanto i suoi “contenuti” sono a loro volta social network. Il motto del sito è infatti “crea il tuo social network personale”. L’idea di base è che gli utenti non si limitino a partecipare al social network offerto dal sito (come avviene, ad esempio, nei grandi social network generalisti come Facebook) ma che costruiscano social network personali.

Ning è stato ideato da Marc Andreessen, un personaggio molto noto nel mondo di Internet: è l’autore del primo browser (Mosaic) nonché fondatore di Netscape. Ogni utente di Ning può pertanto creare la propria community decidendo quali funzionalità e tipologie di contenuti inclu-dere ed offrire ai partecipanti: blog, video, forum, gallerie fotografiche ed altro ancora. I siti basati su Ning possono essere pubblici (ad accesso libero per tutti gli utenti di Ning) o privati (il creatore della comunità deve invitare o approvare l’iscrizione di nuovi utenti). Originariamente di-sponibile anche in versione gratuita, dal 2010 i servizi di Ning sono unicamente a pagamento. Il creatore del sito può personalizzare la grafica e la struttura stessa della commu-nity, ad un livello molto avanzato, simile a quanto possibile con un software installato direttamente su un server web di proprietà. Tuttavia, essendo un servizio Web, non è ne-cessario che l’utente abbia particolari competenze tecniche. Esempi di network dedicati all’educazione, ospitati in Ning,

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sono Classroom 2.0 (vedi figura 1) o La Scuola che funziona (http://lascuolachefunziona.ning.com).

Esempio di un social network ospitato da Ning. Nel caso specifico si tratta di Classroom 2.0, un network internazio-nale di educatori interessati alle tecnologie. In alto, accanto al logo di Ning, si nota il link “Create your own Social Net-work”, attraverso il quale ogni utente può creare il proprio network personalizzato. Classroom 2.0 è gestito con la ver-sione a pagamento di Ning. Lo si può dedurre dall’assen-za di pubblicità e dall’utilizzo del nome di dominio (www.classroom20.com).

Per chi preferisce avere un controllo assoluto sia sul softwa-re che sui dati inseriti, Elgg offre una soluzione installabile su un proprio server, basata su software Open Source e per-tanto completamente modificabile.

Naturalmente, in questo caso sono necessarie competenze tecniche superiori, essendo necessario scaricare il software dal sito del produttore e caricarlo via FTP sul proprio ser-ver, impostare il database, eseguire l’installazione e le neces-sarie personalizzazioni (ad esempio il tema grafico).

Elgg è attualmente disponibile in due versioni, una deno-minata “classic” e la nuova versione 1.x, rilasciata nel 2008 dopo una completa riscrittura del software.

Elgg è un progetto Open Source, partito nel 2004 per ini-ziativa di Dave Tosh (http://classic.elgg.org/dave/) e di Ben Werdmuller (http://classic.elgg.org/bwerdmuller/), all’e-poca studenti di dottorato presso l’Università di Edimbur-go. Installando Elgg su un server, è possibile fornire ad ogni utente un ambiente costituito da un blog, un repository di file, un profilo personale e un aggregatore RSS. Tutte le in-formazioni inserite possono essere corredate da tag in modo da consentire la connessione con altri utenti mediante un

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sistema di social networking. Gli utenti possono inoltre creare liberamente aggregazioni interne, denominate comu-nità. La principale caratteristiche di Elgg e gli altri social software è la presenza di un capillare sistema di controllo: l’utente può impostare restrizioni di accesso ad ogni singo-lo elemento informativo del profilo, ad ogni post del blog, ad ogni singolo file, stabilendo per ognuno di essi se a chi è consentito l’accesso (si va un accesso pubblico, aperto a tutti gli utenti del Web, fino all’accesso riservato al solo au-tore, passando per gradi intermedi come gli utenti registrati del sito o gli appartenenti alla stessa comunità). Dal punto di vista tecnico, Elgg è basato sull’ormai classica suite di tecnologia Open Source LAMP (Linux, Apache, MySQL, PHP) e si caratterizza per un’architettura aperta e orienta-ta sia agli standard consolidati come XML, RSS e LDAP, sia ad alcuni potenziali standard emergenti come OpenID (www.openid.org) per l’autenticazione degli utenti, e, nella versione 1.x, la proposta di uno standard per l’interscambio di informazioni tra social software eterogenei, denominata Open Data Definition (www.opendd.net).

c4lpt.Net (http://www.c4lpt.net/) è un social network basa-to su Elgg (versione 1.x), dedicato proprio a all’uso di que-sto software in ambito educativo.

Dolphin (http://www.boonex.com/products/dolphin/) è una soluzione software ibrida, a metà tra Open Source e commerciale, installabile su propri server. Dal punto di vista della filosofia d’uso è pertanto molto simile a Elgg, tuttavia Dolphin è un software a pagamento (disponibile anche in versione freeware, con pubblicità sulle pagine de-gli utenti). Dolphin è prodotto e commercializzato da Boo-nex (www.boonex.com), una giovane società australiana. Il software è rilasciato sotto una licenza Creative Commons, soluzione poco usuale nel campo del software. Rispetto a Elgg, Dolphin offre una varietà molto più ampia di funzio-nalità. Oltre al blog, sono presenti molti moduli aggiuntivi

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quali forum, gallerie audio/video, annunci personali e com-merciali, calendari, sondaggi ecc. Tecnicamente, è anch’es-so basato su PHP e MySQL e, in virtù della licenza CC è possibile modificare il codice sorgente per la massima per-sonalizzazione.

In sintesi, la scelta di un sistema per la creazione di un social network personalizzato passa da alcune scelte fondamentali:

1) skIlls tecnoloGIcI. Se non si dispone di personale tecnico esperto, è meglio affidarsi a servizi Web come Ning, tenendo conto però che è necessario comunque affrontare dei costi per l’abbona-mento al servizio.

2) budGet

Se si può contare su un supporto tecnico ma si dispone di budget molto limitato e non si desiderano moltissime fun-zionalità (oppure si può fare affidamento su programmatori interni), la soluzione Open Source rappresentata da Elgg può essere l’opzione preferibile.

3) completezza delle funzIonalItà

Se si ha a disposizione supporto tecnico, si desidera un si-stema il più possibile completo e si può disporre di un bud-get superiore, si può pensare ad una soluzione commerciale come Dolphin.

rIferImentI bIblIoGrafIcI

Brown, J.S., & Duguid, P. (2000).The Social Life of Information. Boston USA: Harvard Business School Press.

Calvani A. (2005).Rete, comunità e conoscenze: costruire e gestire dinami-che collaborative, Erickson, Trento

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181Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Dron J., & Anderson, T. (2009).Lost in social space: Information retrieval issues in Web 1.5in Journal of Digital Information, 10(2). URL: http://journals.tdl.org/jodi/article/view/443/280

Fini A. (2009).Il mondo 2.0 e la formazionein Fini A. e Cigognini M.E. (2009) (a cura di), Web 2.0 e Social Networking, nuovi paradigmi per la formazione, Erickson, Trento.

Lave, J., & Wenger, E. (2004).L’apprendimento situato, Erickson, Trento(ed. orig. Situated Learning. Legitimate peripheral participation, Cambridge University Press, Cambridge MA 1991).

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Rheingold H. (1994).Comunità virtuali - parlare, incontrarsi, vivere nel cyberspazio, Sperling & Kupfer, Milano

Scardamalia, M. & Bereiter, C. (1993).Knowledge building: Theory, peda-gogy, and technology. In Sawyer, K. (Eds.), Cambridge Handbook of the Learning Sciences (pp. 97-118). Cambridge University Press, New York

Trentin G. (2004).Apprendimento in rete e condivisione delle conoscenze, F.Angeli, Milano

Wenger E.C. (1998).Communities of practice. Learning,meaning, and identity, Cambridge University Press, Cambridge MA

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database dI storIe ProFessIonalI

Giovanni Marconato

Descrizione

I “contenuti” oggetto di un’attività didattica possono essere organizzati, oltre che secondo consuetudine sulla base della struttura della disciplina o del dominio di conoscenza, an-che secondo modalità narrative e in forma di storie o di casi.

Tra le numerose funzioni dei casi (vedi scheda “Case-ba-sed Learning), il loro uso come “esperienze precedenti” in forma di storie, magari organizzate in modo sistematico all’interno di un repertorio (database), può rappresentare un’alternativa alla didattica di impronta tipicamente scola-stica. Questo approccio è basato sull’assunto che le storie possono agire in sostituzione dell’esperienza diretta che i novizi alle prese con problemi da risolvere non posseggono: sostenere chi apprende con le storie può aiutare a fare espe-rienza in modo vicario.

Quando si ricordano storie, è molto probabile che una par-te consistente delle stesse ci sia stata raccontata da qualcu-no. Queste storie non rappresentano la nostra esperienza diretta.

Al fine di rendere operativo il case-based learning, possia-mo costruire raccolte di storie da mettere a disposizione de-gli studenti quando imparano a risolvere problemi.

Ogni esperienza presente nella raccolta rappresenta le espe-rienze che altri hanno avuto mentre cercavano di risolvere problemi. Ciò che rende le raccolte di casi particolarmen-te potenti è che queste contengono successi ed insuccessi. Dato che impariamo dai nostri errori come impariamo dai successi, avendo la possibilità di avere accesso all’esperien-

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za che emerge da un insuccesso vissuto da altri, ci aiuta a prevenire l’errore.

Le raccolte di casi contengono la conoscenza esperienziale di esperti problem solver alle prese con problemi che sono simili al problema che si sta risolvendo. I casi inseriti nella raccolta di casi sono presentati allo studente mentre cerca di risolvere un problema come una forma di consiglio su cosa fare. Lo studente può decidere se sia il caso di appli-care quella soluzione al problema corrente. Questa analisi aiuta gli studenti a costruire solidi modelli mentali del tipo di problemi che stanno imparando a risolvere. Quando si estraggono le storie, il professionista arricchisce spontane-amente le proprie storie con informazioni di contesto, so-luzioni pratiche e di buon senso e considerazioni personali (Jonassen & Henning, 1999; Schön, 1993).

Come Jonassen and Hernandez-Serrano (2002) sostengo-no, lestorie sono la più antica e la più naturale forma di costruzione di senso. Gli esseri umani hanno una propen-sione ben validata a organizzare e a rappresentare la propria esperienza in forma di storie. Secondo Bruner (1991; 1996) il raccontare storie consente di perseguire scopi diversi. La narrazione, che è una modalità analogica di pensare, non necessariamente in conflitto con quella logico analitica (anzi con questa perfettamente integrabile), ha molte funzioni:• consente di fare esperienze in modo vicario e di esten-

dere le proprie conoscenze;• permette di negoziare e rinegoziare il significato;• aiuta a riconoscere uno spazio dei concetti, valori ed

esperienze all’interno della cultura;• favorisce la condivisione di idee come pure il riconosci-

mento e l’accettazione delle diversità;• permette di imparare e ricordare;• consente di spiegare i fenomeni, comprendere le azioni

umane, indagare l’intenzionalità;• aiuta a costruire argomenti persuasivi;

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• consente di articolare la nostra identità in modo da po-ter spiegare ad altri che noi siamo.

Quando cercano di risolvere un nuovo problema, i profes-sionisti per prima cosa cercano di richiamare alla propria mente un problema simile e cercano di riutilizzare la so-luzione allora adottata per risolvere anche questo proble-ma. Qualora fallisse questo approccio, si metterebbero in contatto con altri professionisti, descrivendo loro il proble-ma; questa loro richiesta porterà i colleghi a ricordare e a raccontare esperienze simili. Dopo aver ascoltato i racconti dei colleghi, il professionista cercherà di riusare la lezione appresa applicandola al proprio problema.

I professionisti utilizzano la narrazione di storie per (Orr, 1996):• inquadrare e fronteggiare problemi; • spiegare fallimenti;• capire;• spiegare e per arrivare a una diagnosi;• insegnare e imparare nuovi metodi di lavoro;• far fronte all’incertezza;• cambiare prospettive nel guardare un problema; • mettere in guardia contro errori; • dare soluzioni;• approfondire il problema;• identificare le cause dei problemi;• acquisire sicurezza come problem solvers;• anticipare futuri problemi).

Anche se nelle discipline accademiche dominano forme logiche di esposizione, la persona comune, per negoziare significati e per risolvere problemi usa, nella sua vita di tutti i giorni, una modalità narrativa di spiegazione.

La modalità narrativa sembra veicolare i messaggi in una dimensione tipicamente umana, dimensione che viene ine-sorabilmente perduta in una esposizione logica.

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185Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Le storie sonola forma più naturale di comunicazione e di apprendimento tra gli esseri umani,la più vecchia e lafor-mapiù naturaledi costruire significato tra di essi,il mezzo attraverso il quale le persone iniziano a dare un significato alle proprie esperienze.

Piuttosto che cercare di spiegare fenomeni in forme scien-tifiche e rigorose, attualmente, le discipline umanistiche (es. psicologia cognitiva, linguistica, filosofia, educazione, studi sociali, antropologia, storia, ) cercano di lavorare con il “meaning making” (Bruner 1999), con il modo naturale delle persone di costruire e negoziare significati.Ma, sempre più spesso, anche in domini di conoscenza di tipo scienti-fico, si utilizzano casi e storie che rappresentano contesti realiin cui quelle teorie, quei principi prendono forma.

Secondo Bruner, il raccontare storie ha molte funzioni:• sono un metodo di negoziare e rinegoziare il significato;• ci aiutano a trovare un posto nella cultura;• ci assistono nel condividere le nostre diversità di esseri

umani;• ci aiutano ad imparare, a conservare memoria, a modi-

ficare il passato;• ci consentono di spiegare i fenomeni;• ci aiutano nella comprensione delle azioni umane,

dell’intenzionalità;• ci rendono capaci di ricordare l’inusuale;• ci aiutano a costruire argomenti persuasivi;• ci aiutano a fare esperienze in modo vicario;• ci consentono di articolare la nostra identità in modo da

poter spiegare ad altri che noi siamo.

Il principale valore didattico delle storie è il loro essere otti-mi sostituti dell’esperienza diretta: quando, secondo la pro-spettiva del C-bR (vedi scheda dedicata), a fronte di una si-tuazione da affrontare non disponiamo di una storia nostra da richiamare dalla memoria, possiamo ricorrere ad una

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“memoria” esterna, ad un’esperienza esterna per trovare in essa quegli “insegnamenti” che ci potrebbero essere utili.

Secondo Jonassen, in contesti didattici le storie possono es-sere utilizzate:• come esempi di concetti, principi o teorie che devono

essere insegnati attraverso didattica diretta: le storie rappresentano gli esempi più ricchi con potenti collega-menti nella memoria narrativa;

• come casi problematici da dover essere risolti dagli stu-denti: storie che presentano particolari “lezioni” da es-sere apprese;

• come casi di aiuto agli studenti per risolvere problemi: storie da esaminare per costruire significati da utilizzare nella soluzione del problema corrente.

La ragione di tutto questo viene spiegata dalla teoria del Case-based Reasoning (CBR) - oggetto di specifica scheda concet-tuale - con il fatto che larga parte di ciò che le persone cono-scono, come pure il modo con cui queste prendono decisioni ed agiscono, si basi sulla rielaborazione delle esperienze.

Fondamenti concettuali

L’utilizzo di storie come modalità di insegnamento e di ap-prendimento si basa sulla teoria del case-based reasoning, una teoria della memoria secondo la quale le esperienze sono codificate nella memoria in forma di storie e recupe-rate e riusate quando necessario (Schank, 1990; Kolodner, 1993).

Per risolvere problemi personali o professionali, molto spesso facciamo ricorso a storie.

I professionisti comunicano tra di loro attraverso storie. Schön (1993) ha trovato che i professionisti delle discipline

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da lui studiate, architetti, ingegneri e psicoterapeuti, mol-to spesso codificano la loro esperienza in forma narrativa usando casi basati su storie e spiegazioni narrative. Il lavoro di questi professionisti è spesso ancorato attorno alla nar-razione di storie come rappresentazione o sostituti di espe-rienza di prima mano. La loro comprensione dei problemi non è supportata da spiegazioni tecniche tanto quanto non sia supportata da storie di esperienze.

Orr (1996) ha trovato che tra i tecnici riparatori di macchine per fotocopie, le storie sono l’elemento principale di queste pratiche. Questi tecnici narrano storie per inquadrare e per fronteggiare i problemi, per ricercare le cause del proble-ma (diagnosi), per mettere in guardia dagli insuccessi o per fornire soluzioni, per insegnare e per imparare nuovi meto-di e per anticipare futuri problemi (Orr, 1996). Per questi tecnici, le storie sono un’importante fonte di informazioni che servono come memoria comune del mestiere e in que-sto modo preservano e comunicano quanto hanno appreso.

Lave e Wenger (1991) hanno trovato che le storie sono anche importanti per iniziare nuovi membri alle pratiche della comunità. Studiando gli apprendisti nei loro posti di lavoro, hanno trovato che “l’apprendimento in apprendi-stato è supportato dalla conversazione e da storie su casi problematici e casi particolarmente difficili” (p. 108). In questi contesti, le storie sono usate come “forme comuni di memoria e riflessione” (p. 109).

Ross (1986, 1989) ha trovato che le persone imparano nuo-ve abilità usando in modo naturale cosa hanno imparato ri-solvendo un problema precedente ed applicandolo ad uno nuovo. Per esempio, i meccanici d’auto usano frequente-mente la loro esperienza e quella degli altri quando sono alle prese con un nuovi problemi (Lancaster & Kolodner, 1988). Il riuso di casi è essenziale per imparare a svolgere un compito.

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Le storie sono, quindi, il principale mezzo per risolvere pro-blemi. Se le storie giocano un ruolo così importante nella quotidiana attività di soluzione di problemi dei meccanici, potrebbero avere anche un ruolo importante anche nella loro formazione.

Bruner fa notare che quando le persone intendono com-prendere il senso delle proprie esperienze non trovano ri-sposte nelle verità assiomatiche e nelle conoscenze verifica-te (le così dette “conoscenze scientifiche”) e che non dob-biamo dimenticare che noi viviamo la maggior parte della nostra vita in un mondo costruito secondo le regole della narrazione.

L’abilità non è una “teoria” che informa l’azione. E’ un modo di trattare le cose, non una derivazione della teoria. La competenza può essere migliorata attraverso la teoria ma solo quando “scende nelle abitudini.

Ecco perché la forma tipica di strutturazione dell’esperienza è narrativa. Ciò che non viene strutturato in forma narrativa non viene ricordato (Jean Mandler p. 65); la strutturazione fa proseguire l’esperienza nella memoria.

I “casi”, in questa prospettiva, sono visti come soluzioni precedentemente date ad un problema da cui estrarre solu-zioni da applicare nuovamente o, comunque, quali risorse in grado di facilitare la comprensione delle nuove situazioni in vista della ricerca di soluzioni diverse (Kolodner, 1992).

Il significato dell’utilizzo di storie nell’apprendimento e nella soluzione di problemi è descritto analiticamente nella scheda concettuale “Case-based Reasoning”, un paradigma di ricerca e di lavoro che nasce nell’ambito di ricerca dell’in-telligenza artificiale (AI), ma che rispetto ad altri modelli dell’AI non si concentra sulla formalizzazione di modelli conoscitivi di ordine generale, ma ricorre all’uso di specifi-

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che e concrete esperienze precedentemente acquisite (casi).

Autori maggiormente significativi

L’approccio narrativo alla rappresentazione ed alla comu-nicazione dell’esperienza e della conoscenza ha in Jerome Bruner (1991) il principale autore contemporaneo.

Il Case-based Reasoning si sviluppa a partire dagli studi di Roger Schank nei primi anni 80 e successivamente ripreso ed ampliato da Kolodner Lebowitz e Spiro.

Jonassen ha recentemente riproposto il CbR come strumen-to per lo sviluppo della capacità di comprendere, affrontare e risolvere i problemi in domini caratterizzati da situazioni complesse.

Corsi ed obiettivi di apprendimento per cui la strategia può essere utilizzata

L’utilizzo dell’approccio narrativo, tanto come metodo di approccio alla conoscenza, quanto come metodo del suo utilizzo per finalità formative (in contesti formali ed infor-mali) non fa parte delle pratiche consolidate perché secon-do l’approccio “scientifico” le storie non costituiscono il materiale realistico della scienza e ciò che è prodotto in for-ma narrativa o viene evitato o trasformato in proposizioni verificabili, ma utilizzare narrazioni e repertori di casi siste-matici è particolarmente utile nei contesti della formazione professionale e nello sviluppo di competenze strategiche e operative.

Sul piano didattico la raccolta di “casi” rappresenta un ot-timo sostituto dell’esperienza diretta. I casi sono usati come modelli, come esempi, come problemi da risolvere, analo-

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gie, oggetti da studiare o su cui ragionare. L’apprendimento è, in questa prospettiva, visto come un processo di riflessio-ne critica sui problemi.

Grazie alla raccolta sistematica di casi, siano essi basati su storie autentiche o verosimili, gli studenti possono confron-tarsi con la variabilità delle situazioni, con le loro criticità ed esigenze, con le peculiarità dei diversi ambiti.

Il modello narrativo fornisce agli insegnanti uno strumen-to prezioso per superare uno dei principali problemi che caratterizzano la scuola, ovvero la trasferibilità delle cono-scenze formali ai contesti operativi, il passaggio dalla teoria alla pratica.

La strategia di apprendimento basata sul ragionamento a partire dai casi consente un approccio didattico finalizzato alla comprensione autentica delle tematiche, ad un appren-dimento che vada oltre la memorizzazione.

Sulla base di questo presupposto, l’approccio può essere utilizzato in una vasta gamma di situazioni e obiettivi di-dattici organizzando, sulla base dell’approccio stesso, o un intero percorso formativo oppure una sua parte focalizzan-dosi o su alcuni contenuti oppure su specifici obiettivi di apprendimento (come lo sviluppo di abilità cognitive e me-tacognitive).

I contesti di apprendimento che meglio possono trarre beneficio, in termini di qualità dell’apprendimento, sono quelli dove è richiesta l’applicazione della conoscenza e il suo trasferimento tra contesti differenti, l’apprendimento di compiti che assumono forme differenti a seconda del con-testo in cui essi si devono svolgere, la soluzione di problemi aperti.

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Vantaggi o punti di forza

I vantaggi dell’utilizzo di questa strategia per l’apprendi-mento sono:• la possibilità di riconciliare la teoria con la pratica mo-

strando attraverso esempi concreti e casi reali le situa-zioni oggetto di studio (come ci si comporta/non ci si comporta, cosa fare/non fare, i diversi modi di affron-tare un determinato compito, le criticità che si possono presentare, ecc.);

• la possibilità di utilizzare esempi direttamente correlati con compiti concreti della pratica professionale;

• l’opportunità di attivare processi di apprendimento profondi, stabili, significativi per la professione cui ci si prepara o che si svolge;

• la possibilità di essere usata tanto nella formazione ini-ziale/al lavoro, che in quella continua/sul lavoro;

• il valore motivante derivante da un approccio didattico “ricco” capace di agire sui processi cognitivi sostenen-doli e potenziandoli, così come sulle emozioni e sui vis-suti conseguenti.

Svantaggi o punti di debolezza

Punti di debolezza potrebbero essere;• il tempo necessario a cercare, raccogliere ed organiz-

zare i “casi” o le “storie” professionali su cui lavorare;• la scarsa disponibilità di archivi, in lingua italiana, di

materiali disponibili (video, schede, ecc.).

Indicazioni operative (lato erogatori e lato utenti)

Il processo di costruzione di raccolte di casi inizia con l’e-strazione e l’organizzazione di storie su problemi rilevanti risolti in precedenza.

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I professionisti (operatori senior) coinvolti in questa attività non devono necessariamente essere dei super-esperti, ma essere sufficientemente abili nel loro mestiere, anche operai specializzati. L’obiettivo della raccolta di storie è di mettere insieme delle storie che siano rilevanti nel dominio del pro-blema e quante più informazioni possibili che siano rilevan-ti per la soluzione del problema stesso. Le storie presenti nella raccolta forniscono allo studente quelle lezioni che lo aiuteranno a risolvere il problema.

Per poter raccogliere storie dai professionisti si dovrebbero svolger queste attività:1. Identificare professionisti qualificati nella loro profes-

sione. I professionisti qualificati sono quelli che hanno qualche anno di esperienza nella soluzione di problemi simili a quelli che si stanno analizzando;

2. Illustrare al professionista il problema per il quale si sta cercando supporto, cioè, il problema che si vuole che i nostri studenti imparino a risolvere. Si presenti un problema alla volta. La rappresentazione del problema dovrebbe comprendere tutte le componenti importanti della situazione-problema, comprese le informazioni di contesto. In alternativa si può chiedere al professionista di raccontare storie di problemi incontrati al lavoro e cercare di correlarle con i problemi da insegnare;

3. Chiedere al professionista di ricordare problemi simili che ha risolto in precedenza e fargli raccontare una sto-ria su quel problema senza interruzione. Registrare il racconto della storia. Seguendo il filo del suo racconto della storia, analizzare la storia con il professionista per:• identificare gli obietti presenti nel problema e cosa

ci si aspetta con la sua soluzione;• descrivere il contesto in cui il problema si è verifi-

cato;• descrivere la soluzione scelta;• descrivere il prodotto della soluzione. Ha avuto

successo? Insuccesso? Perché?;

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• identificare le lezioni che la storia può insegnare. E’ importante stimolare il professionista per assicurar-si che tutte le informazioni necessarie siano presenti nella storia.

4. Una volta raccolte le storie, si deve identificare cosa quelle storie ci insegnano. Il passo finale nel processo di analisi è, infatti, l’indicizzazione delle storie. Indicizzare storie è la principale attività analitica del processo del case-based reasoning.

Benché le storie ci mettano a disposizione descrizioni basa-te sull’attività piuttosto che descrizioni di contenuti, è facile collegare questa storie con i contenuti. Selezionando ogni indice e chiedendo perché è stata fatta quell’azione, si ot-tengono collegamenti immediati ai principi, ai modelli ed alle teorie collegate all’azione.

Esempi

Questo è un approccio nato negli Stati Uniti dove gli esem-pi sono numerosi in differenti contesti professionali. Un’im-portante database professionale è quella sviluppata dall’u-niversità del Missouri per le professioni educative KITE, Knowledge Innovations for Technology in Education, in http://kite.missouri.edu/.

Nello stesso ambito professionale, in Italia possiamo citare il progetto “Storie di Didattica” promosso dal social net-work di insegnanti “La scuola che funziona”; qui il database di narrazioni di didattica www.storiedidiattica.it/blog.

In un contesto professionale, addetti al ricevimento d’alber-go, è stato sviluppato un database di storie professionali in forma di Ask System, accessibile in http://www.provincia.bz.it/fp/reception/.

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Tecnologie necessarie

I casi possono essere documentati attraverso registrazioni audio o video, schede descrittive, ask system. Più che ri-sorse tecnologiche questo approccio richiede un lavoro di analisi e raccolta di materiali di documentazione dei casi.

Sono cioè necessarie attività di progettazione delle situa-zioni di apprendimento basate su un’attenta analisi delle situazioni tipiche e/o particolari attorno a cui ruota la pre-stazione esperta. Il lavoro può poi essere promosso sia in aula che online.

Nel caso di attività online sarà necessario allestire spazi di discussione (forum) e di interazione tra discenti e tra questi e gli esperti.

rIferImentI bIblIoGrafIcI

Bruner, J. (1991). Acts of meaning. Cambridge, MA: Harvard University Press.

Bruner, J. (1996). The culture of education. Cambridge, MA: Harvard University Press.

Lave, J. & Wenger, E. (1991). Situated Learning, Legitimate Peripheral Participation. New York: Cambridge University Press.

Jonassen, D.H. & Hernandez-Serrano, J. (2002). Case-based reasoning and instructional design: Using stories to support problem solving. Edu-cational Technology: Research and Development, 50 (2), 65-77.

Jonassen D. (2006), Typology of case-based learning: the content, form and function of cases, in Educational Technology, 46, 4 (11 – 15)

Jonassen D. ed al. (2003), Applications of a Case Library of Technol-ogy Integration Stories for Teachers, Journal of Technology and Teacher Education Vol. 11

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195Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Jonassen, D., Ambruso, D . & Olesen, J. (1992). Designing hypertext on transfusion medicine using cognitive flexibility theory. Journal of Educa-tional Multimedia and Hypermedia, 1(3), 309-322.

Kolodner, J. (1992). An introduction to case-based reasoning. Artificial Intelligence Review, 6 (1), 3-34.

Kolodner, J. (1993). Case-based reasoning. New York: Morgan Kaufman.

Kolodner, J. L. & Guzdial, M. (2000). Theory and Practice of Case-based Learning Aids. In Lebowitz M. (1983), Memory-Based Parsing, in Artifi-cial Intelligence, 21 (1983), 363-404.

Orr, J. E. (1996). Talking About Machines: an Ethnography of a Modern Job. Ithaca, NY: Cornell University Press.

Ross, B.H. (1986). Remindings in learning: Objects and tools. In S. Vosniadou & A. Ortony

Ross, B.H. (1989). Some psychological results on case-based reasoning. In K.J. Hammond. (Ed.) Proceedings: Second Workshop on Case-Based Reasoning

Schank R. (1982), Dynamic Memory. A Theory of Learning in Comput-ers and People (New York: Cambridge University Press.

Schank R. (1990), Tell me e story: Narrative and intelligence, Northwest University Press

Schön, D.A. (1993). The Reflective Practitioner – How Professionals Think in Action. New York: Basic Books.

Spiro, R.J., Coulson, R.L., Feltovich, P.J., & Anderson, D. (1988). Cogni-tive flexibility theory: Advanced knowledge acquisition in ill-structured domains. In V. Patel (ed.), Proceedings of the 10th Annual Conference of the Cognitive Science Society. Hillsdale, NJ: Erlbaum.

Spiro, R.J., Feltovich, P.J., Jacobson, M.J., & Coulson, R.L. (1992). Cog-nitive flexibility, constructivism and hypertext: Random access instruc-tion for advanced knowledge acquisition in ill-structured domains. In T. Duffy & D. Jonassen (Eds.), Constructivism and the Technology of Instruction. Hillsdale, NJ: Erlbaum

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PortalI ProFessIonalIGiovanni Marconato

Descrizione

I portali professionali sono uno dei luoghi della formazio-ne continua non formale a cui il “professionista” può acce-dere per rispondere alle proprie esigenze di formazione e aggiornamento professionale. La formazione continua, oggi sempre più necessaria, trova in questi spazi online un modo concreto per garantire un sostegno efficace, disinteressato e rapido alle esigenze dei professionisti. Il portale può avere natura trasversale alla professione e considerare i diversi aspetti della stessa, oppure avere natu-ra specialistica focalizzandosi solo su una tematica partico-larmente significativa.

Sul piano formale il portale contiene risorse digitali organizza-bili in modo aperto utilizzando le capacità della rete e caratte-rizzarsi come nodo (locale) di una rete ad estensione più ampia.

Indipendentemente dal contenuto o dai contenuti di cui si dovrà occupare, le “risorse” presenti nel portale possono essere di diversa natura ma, concettualmente, possono ap-partenere ad una delle seguenti tipologie:• Risorse statiche proprietarie originali e presenti nel

portale stesso (documenti testuali, multimediali, iper-testuali…);

• Link a risorse esterne selezionate e annotate;• Risorse costruite dai membri della comunità.

Quelle che sono state definite “risorse statiche proprieta-rie” sono una raccolta di documenti significativi per la pro-fessione e di cui chi gestisce il portale detiene la proprietà o l’autorizzazione a pubblicarli o documenti diffusi con licen-

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za aperta. Possono essere materiali didattici usati nei corsi, documentazione tecnica prodotta in diverse occasioni

Per tutto questo materiale si pone la questione di una adeguata catalogazione per un agevole recupero da parte dell’utilizzatore. Per questa ragione ciascun documento do-vrebbe essere inserito nel database del portale corredato da tag significativi.

La documentazione denominata “link a risorse esterne” è documentazione che non è presente nel server del portale o perché si tratta di singolo materiale di cui non si dispone della “proprietà” e può entrare a far parte del portale solo attraverso un link o di ambienti web (siti o parte di essi) cui rilevanti per la professione. Per le risorse di questa tipologia la questione gestionale maggiormente critica è rappresen-tata dalla loro accurata selezione e valutazione per evitare di affollare il portale di risorse presenti in rete di limitata significatività. Le diverse risorse dovrebbero essere adegua-tamente e sinteticamente illustrate.

Le risorse costruite dai membri della comunità sono la par-te più significativa di un portale di “comunità”.

Un “prodotto” semplice di una comunità è rappresentato dalle discussioni che possono avvenire tra i suoi membri. Una discussione è sempre un confronto tra esperienze, tra problemi che si pongono e soluzioni che si identificano. At-traverso le discussioni la risorsa che si attiva è l’esperienza individuale e il valore aggiunto che ne deriva è il confronto tra esperienze e l’utilizzo dell’esperienza altrui per affron-tare e risolvere problemi. Le discussioni possono attivarsi spontaneamente o essere guidate da una “redazione” che porta l’attenzione della comunità su tematiche critiche.

Altre risorse costruite dalla comunità possono essere la re-alizzazione di progetti e micro-progetti tra alcuni membri

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della comunità e l’arricchimento del portale con i prodotti di questa attività. Attraverso la realizzazione di quest’ulti-ma tipologia di attività il portale professionale si connota come social network di una comunità professionale su base territoriale connettendo ed integrando la dimensione loca-le con quella globale. Il portale diventa, anche, un vero e proprio repository di conoscenza professionale organizzata sulla base delle pratiche professionali più che su quella delle diverse discipline di riferimento.

Il portale è implementabile gradualmente contando tanto sull’intervento mirato di addetti allo sviluppo, quanto dai membri stessi della comunità.

La finalità dell’approccio all’apprendimento attraverso il “portale professionale” è di favorire lo sviluppo continuo del-la professionalità utilizzando modalità “naturali” di appren-dimento, approcci, cioè, che non sono basati su formazione strutturata (in aula e a distanza) ma sulla condivisione di espe-rienze e conoscenze, sulla soluzione di problemi, sull’impegno comune per la realizzazione di una attività. Questa caratteriz-zazione non esclude che tra le attività della comunità ci possa-no essere anche momenti di formazione strutturata.

Fondamenti concettuali

Questa strategia formativa può essere ricondotta ad una pluralità di concettualizzazioni presenti in letteratura e cioè:• apprendimento naturale• comunità di pratica e apprendimento situato• cognizione distribuita• apprendimento esperienziale • connettivismo e social network

Questi concetti saranno approfonditi in altrettante schede “pillole di teoria”

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Corsi ed obiettivi di apprendimento per cui la strategia può essere utilizzata

L’approccio qui proposto può essere utilizzato come “infra-struttura” permanente per un sistema di formazione conti-nua per una specifica categoria professionale: più che una specifica “azione formativa”, l’approccio è funzionale al “coordinamento” di più attività formative formali e la loro integrazione con modalità non formali di apprendimento professionale.

Vantaggi o punti di forza

I principali vantaggi associati con questo approccio sono:• creare le condizioni per un autentico approccio alla for-

mazione continua a livello individuale;• utilizzare tutte le modalità di apprendimento professio-

nale possibili;• focalizzarsi su di una specifica professione;• attivare una rete professionale locale connettendola ad

una rete globale.

Svantaggi o punti di debolezza

Gli svantaggi di un simile approccio possono essere:• non abitudine delle persone ad apprendere secondo

modalità non formali e preferenza per modalità “diret-tive” di formazione;

• resistenza, soprattutto per le persone meno giovani, alle pratiche del social networking e della condivisione limi-tata alfabetizzazione digitale;

• difficoltoso o limitato accesso alle tecnologie necessarie per svolgere attività in rete.

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Condizioni di fattibilità (lato erogatori, lato utenti)

L’attivazione di questo approccio richiede, sul lato “eroga-tori”, di poter sostenere organizzativamente e finanziaria-mente la gestione del sistema per un periodo di tempo signi-ficativo prima di poter apprezzare i primi risultati in termini di numeri di partecipanti e di qualità e quantità dell’attività svolta. Inoltre, considerato che difficilmente si raggiungerà un punto di totale autogestione del dispositivo da parte dei membri della comunità professionale, il supporto organiz-zativo potrebbe essere necessario in modo continuativo.

Se il “portale” è ben concettualizzato e risponde a bisogni reali della comunità, dopo un significativo investimento iniziale, il mantenimento della stessa potrebbe richiedere risorse limitate.

Contesti d’Uso

Questo ambiente di apprendimento, prevalentemente in-formale, ha il proprio focus su di uno specifico contesto professionale, su un mestiere o un suo settore. Tutte le pro-fessioni possono, in linea di principio, trarre vantaggio dalla creazione di un ambiente di apprendimento aperto e ricco come quello qui descritto.

In pratica, il meccanismo della condivisione - nella logica del social network - può funzionare bene solo al raggiungimen-to di una massa critica di membri, massa critica a sua volta correlata al numero di soggetti che esercitano quella profes-sione che sono presenti nel territorio oggetto dell’intervento.

Indicazioni operative (lato erogatori, lato utenti)

L’allestimento di un portale professionale può essere fatta utilizzando o uno dei tanti CMS, anche Open Source, svi-

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luppandolo con i moduli necessari per attivare le funziona-lità statiche e dinamiche ed interattive di cui si necessita, oppure utilizzando una piattaforma per il social networ-king. In ogni caso è auspicabile poter contare su compe-tenze informatiche adeguate per assicurare al sistema un buono standard di performance.

Per il funzionamento del portale si dovranno, inoltre, at-tivare competenze per l’implementazione e la gestione dei contenuti e per la promozione del portale stesso e per la gestione dei rapporti con i membri della comunità.

Per la partecipazione alle attività del portale, i membri della comunità non devono possedere particolari competenze in-formatiche dando per acquisito che operazioni come saper navigare in rete, gestire file e funzionalità di comunicazione digitale siano oramai diventate delle “competenze di base” e possedute da tutti gli adulti.

Esempi

Un esempio di “portale professionale” orientato al social networking è quello per insegnanti “La scuola che funzio-na” (www.lascuolachefunziona.it) sviluppato su NING in cui sono stati collegati altri ambienti per lo svolgimento di specifiche attività come il wiki, l’aula virtuale, le mappe online con collegamenti su Facebook, Delicious, YouTube (canale dedicato).

Sempre per insegnanti, ma la logica vale per qualsiasi grup-po professionale, è il portale Pionieri (www.copernicus-bz-pionieri.it). Questo è stato sviluppato su Joomla ed è ca-ratterizzato come un ambiente statico e punto di accesso a risorse professionali e informazioni.

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Tecnologie necessarie

A prescindere dalla dotazione HW e di rete di base, l’attivi-tà qui descritta richiede l’utilizzo di software che consenta-no l’esecuzione delle seguenti attività:• gestione dei membri, meglio se con pagina personale;• gestione di documentazione (upload, tagging, ricerca

avanzata ..);• gestione avanzata di discussioni;• gestione di gruppi;• scrittura collaborativa;• messaging privato e pubblico; • chat;• gestione della privacy dell’intero ambiente.

Piattaforme specifiche per il social networking che ne sono parecchie; alcune a pagamento anche per le funzioni base, altre free con un numero limitato di funzionalità ed a paga-mento per servizi avanzati.

La piattaforma storica per il social networking NING (www.ning.com) è dall’estate 2010 a pagamento.

Simili nelle funzionalità sono anche wall.f (http://wall.fm/), MIXXT (http://www.mixxt.de/), Grou.ps (http://grou.ps/).

Queste tre hanno una versione base con limitazione di fun-zioni, membri e attività gratuita, mentre a pagamento (po-che centinaia di euro l’anno) per un set di funzionalità più ampio e per una maggiore capienza.

Queste piattaforme sono gestire attraverso server proprie-tari dove il creatore del network apre un proprio account.Un applicativo da utilizzare in self hosting (quindi con maggiori oneri a carico del gestore ma, anche, con maggior libertà e controllo) è BuddyPress (http://www.buddypress-

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203Ambienti di apprendimento per la formazione continua

it.it/), un estensione della nota piattaforma di blogging WordPress.

Oltre a piattaforme specifiche per il social networking, si può usare anche un sito web, sviluppato con un CMS, ad esempio Joomla (http://www.joomla.it/), dotato dei moduli necessari, oppure una piattaforma nata come e-portfolio e sviluppatasi come ambiente adatto anche al social networ-king come ELGG (http://elgg.org/) o Mahara (http://ma-hara.org/).

Tutte queste soluzioni possono hanno il pregio di poter es-sere gestite in self hosting.

rIferImentI bIblIoGrafIcI

Jay Cross, (2006), Informal Learning: Rediscovering the Natural Path-ways That Inspire Innovation and Performance (Essential Knowledge Resource

Tony Bingham, Marcia Conner, Daniel H. Pink (2010), The New Social Learning: A Guide to Transforming Organizations Through Social Me-dia (ASTD)

Rena M. Palloff and Keith Pratt (2004), Collaborating Online: Learning Together in Community (Jossey-Bass)

Jos Boys (2011), Towards Creative Learning Spaces: Re-thinking the Ar-chitecture of Post-Compulsory Education (Routledge)

Rena M. Palloff and Keith Pratt, (2009), Building Online Learning Com-munities: Effective Strategies for the Virtual Classroom (Jossey Bass)

Rita-Marie Conrad and J. Ana Donaldson, (2011), Engaging the Online Learner: Activities and Resources for Creative Instruction (Jossey-Bass)

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suPPorto on-lIne ed estensIone della FormazIone In aulaGiovanni Marconato

Descrizione

L’idea cardine di questa proposta è che la formazione svolta secondo modalità convenzionali (aula/presenza) possa es-sere arricchita con modalità “a distanza” utilizzando sup-porti tecnologici. Adottando questo approccio si utilizzano pienamente le potenzialità di una didattica sincronica (in-segnamento e apprendimento che si svolgono simultanea-mente) e si ovvia ai limiti della sua rigidità con risorse ed attività accessibili “on-demand”.

L’approccio può essere visto, anche, come un avvicinamen-to “morbido” a modalità flessibili, aperte, autogestire, a di-stanza che per la loro natura innovativa (rispetto alle prati-che consolidate) potrebbero incontrare resistenza ad essere immediatamente accettate da parte dell’utenza.

La formazione continua (anche sul lavoro) assume preva-lentemente la forma di un “corso” che viene svolto “in pre-senza” utilizzando, a volte, un mix di tecniche didattiche che vanno dalla didattica trasmissiva a quella attiva. Pur potendo utilizzare un’ampia gamma di strategie di appren-dimento che vadano oltre l’aula (questa stessa pubblicazio-ne ne presenta alcune) perseguendo una vasta gamma di obiettivi di apprendimento e rispondendo alle esigenze pre-senti in differenti scenari, la formazione in presenza (o “in aula”) può essere posta alla base di una strategia didattica che “allunga” la formazione oltre l’aula e la rende aperta e flessibile.

Il modello didattico qui trattato rappresenta, prima di tutto, una visione sociale della formazione, un modo di intendere l’accesso all’apprendimento continuo, un modo di offrire

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205Ambienti di apprendimento per la formazione continua

formazione che rende operativo il concetto di “persona-lizzazione dell’accesso all’apprendimento”. Tutto questo viene conseguito integrando ed arricchendo gli approcci convenzionali alla formazione con le tecnologie digitali e di internet.

Le tecnologie digitali e di internet mettono a disposizione strumenti per allestire l’infrastruttura “logistica” necessaria ad organizzare ed a gestire l’attività; le concettualizzazioni evidenziate di seguito offrono metodologie didattiche ade-guate al conseguimento degli obiettivi di apprendimento.

Dal punto di vista operativo, questo approccio è implemen-tabile attraverso un ambiente on-line basato, ad esempio su Moodle, da utilizzare in parallelo ed in modo integrato con un corso in presenza in modo da poter sostenere le atti-vità organizzative e didattiche riferite al corso stesso e di ampliarlo e arricchirlo con l’offerta di ulteriori risorse ed opportunità di apprendimento.

Le attività organizzative supportabili attraverso questo am-biente si possono svolgere prima, durante e dopo il corso, mentre quelle didattiche si possono svolgere parallelamente al corso in aula tra un incontro in presenza e il successivo, oppure al termine del corso stesso.

Per attività a carattere organizzativo si intendono, in questo senso, l’orientamento, la gestione di informazioni, le proce-dure di iscrizione ai corsi, lo svolgimento di test preliminari e di autovalutazione, l’accesso ai materiali didattici, la ge-stione degli allievi, le attività di documentazione, ricerca e organizzazione svolte dagli insegnanti.

Per attività didattiche online si possono intendere le eserci-tazioni, la disponibilità dei materiali utilizzati in classe (sli-de, registrazione delle lezioni, testi scannerizzati) o di risor-se integrative (letture opzionali, video, link a risorse in rete).

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L’ambiente on-line potrebbe essere utilizzato anche per svolgere parte delle attività didattiche a distanza.Le finalità conseguibili sono: • Prolungare le attività formative “in presenza” con atti-

vità di follow-up per il transfer dell’apprendimento dal corso alla pratica professionale.

• Creare un “ponte” tra due successive attività formative “in presenza” realizzando un’effettiva azione di forma-zione continua;

• Consentire “recuperi” a persone non presenti ad alcune lezioni;

• Creare una “comunità” professionale a partire e attorno ad un corso “in presenza”.

Questo approccio è, pertanto, funzionale all’allungamento, all’allargamento, all’arricchimento, alla flessibilizzazione e alla personalizzazione della formazione centrata su attività formative d’aula proponendo:• micro attività di formazione a distanza di approfondi-

mento e di integrazione della formazione svolta in pre-senza;

• scambi/confronti tra partecipanti e tra questi ed i do-centi;

• risorse da consultare.

Fondamenti concettuali

Questo approccio ha fondamenti concettuali riferiti, ad aree e tematiche di natura sociologica quali l’occupabilità (emplojability) delle persone, l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita, l’individualizzazione dei percorsi di for-mazione e di sviluppo personale e professionale nonché a motivazioni politico-economiche quali la competitività dei sistemi economici.

Nella prospettiva dell’integrazione della formazione in pre-

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senza (o d’aula) con la formazione a distanza (basata su web) possono tornare utili anche tutte le concettualizzazio-ni classiche della formazione a distanza e della formazione “aperta” in quanto i sistemi formativi contemporanei hanno una sola prospettiva di sviluppo, quella di considerare azio-ni di insegnamento e apprendimento che: • Siano gestite dal soggetto che apprende;

Vadano oltre la formazione d’aula.

Queste prospettive sono riferibili a due concettualizzazioni: l’apprendimento autogestito e la formazione a distanza (FaD).

La prima concettualizzazione viene svolta nella scheda con-cettuale “Apprendimento autodiretto” la seconda viene svolta nella scheda “distribuzione di contenuti – e-learning. Le due concettualizzazioni sono tra di loro strettamente correlate in quanto la FaD, pur con tutti i servizi di sup-porto, è sostanzialmente una forma di apprendimento auto-gestito dove la gestione di un percorso di formazione è più nelle mani della persona che apprende che in quelle dell’i-stituzione formativa (come invece avviene nelle modalità convenzionali e consolidate di formazione).

Ed è proprio su questa capacità di autodirigere il proprio apprendimento che una moderna istituzione formativa do-vrebbe concentrare i propri sforzi didattici.

Autori maggiormente significativi

L’approccio in quanto tale non presenta alcun “autore” si-gnificativo; si tratta, infatti di una modalità di concepire, di allestire e di erogare la formazione che rappresenta l’evo-luzione della tradizionale offerta formativa basate esclusi-vamente su didattica in presenza (lezioni d’aula) ed il suo “incontro” con le tecnologie digitali e di internet. Si tratta di un approccio che in alcuni contesti viene chiamato anche

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“blended learning” intendendo una modalità di organizza-re l’offerta formativa parte in presenza e parte a distanza. Nella nostra accezione il modello è più ricco di significato ed operatività.

Corsi ed obiettivi di apprendimento per cui la strategia può essere utilizzata

L’approccio, essendo sostanzialmente correlato ad una mo-dalità di concezione e di organizzazione di un’offerta for-mativa può essere utilizzato in qualsiasi tipologia di offerta formativa indipendentemente dai suoi contenuti, dai suoi obiettivi didattici, dai suoi utenti.

Può essere un approccio utilizzato per arricchire e/o diffe-renziare un’offerta originariamente concepita come attività formativa in presenza o come una modalità per integrare l’offerta di corsi on-line.

La sua utilità potrebbe essere meglio percepita in corsi di lunga durata e/o con partecipanti che provengono da aree distanti dalla sede del corso o in corsi che si svolgono attra-verso moduli temporalmente distanziati tra di loro.

Trattandosi, inoltre, di un modello-quadro di concepire l’offerta formativa, i suoi utilizzi sono limitati solo dalla cre-atività e dallo spirito di innovazione di chi offre formazione.

Vantaggi o punti di forza

La specificità di questo approccio consiste nel rendere ope-rativo il principio della formazione individualizzata, aperta, flessibile e di offrire un modello organizzativo e concettua-le per rendere effettivo l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita.

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Svantaggi o punti di debolezza

Un punto di debolezza potrebbe essere identificato nella non prescrittività del modello: per le sue stesse caratteri-stiche, il modello non può essere enunciato in modo strut-turato per offrire precise indicazioni operative a chi deve ideare e organizzare offerte formative. Offrendo “solo” dei principi e dei criteri guida, la traduzione operativa nei con-testi specifici (la contestualizzazione) è compito del singolo operatore/progettista.

Condizioni di fattibilità (lato erogatori, lato utenti)

La fattibilità dell’approccio è legata alla disponibilità dell’infrastruttura tecnologica tanto per gli erogatori che per gli utilizzatori.

Per gli organizzatori l’infrastruttura è caratterizzata da un server connesso alla rete e dalla presenza in questo di un applicativo che consenta la gestione di attività on-line. Un LMS tipo Moodle offre una gamma sufficientemente ampia di applicazioni adeguate allo scopo.

Per gli utilizzatori è necessario un pc ed un collegamento ADSL ad internet ed il possesso di un minimo di conoscen-ze ed abilità nell’uso del pc e della navigazione in rete.

Informazioni per l’utilizzo dell’applicativo di supporto pos-sono essere date all’inizio delle attività attraverso un tuto-rial, meglio se tenuto in presenza, se si ha come destinataria un’utenza poco “tecnologica”.

Contesti d’Uso

Il contesto d’elezione di questo approccio è la formazione

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e l’educazione permanente tanto che questa sia organizzata da strutture educativo/formative che aziendali con destina-tario l’adulto. L’obiettivo della formazione potrebbe esse-re la competenza professionale, quindi tematiche legate in modo diretto alla professione oppure un interesse perso-nale di natura culturale, sociale, hobbistica o legata ad uno dei tanti ruoli che una persona agisce nella propria vita non professionale.

L’approccio può, secondariamente, essere utilizzato nella formazione iniziale e nei diversi percorsi di istruzione per integrare le attività didattiche realizzate in aula con attività didattiche “fuori dall’aula” (“progetti”) e attività “a casa” (compiti, recuperi, approfondimenti svolti con metodi non convenzionali).

Indicazioni operative (lato erogatori, lato utenti)

La principale indicazione operativa da fornire agli erogatori di formazione rappresentata dall’invito a non considerare la formazione in presenza come l’unica soluzione possibile per organizzare un’azione formativa e di prendere in conside-razione anche tutte le opportunità offerte dalle tecnologie di rete.

Per passare dalle potenzialità di un approccio alla sua resa pratica è necessario considerare le risorse ed i vincoli del contesto in cui si svolge l’azione formativa.

La principale risorsa (che, per contro, potrebbe essere il principale vincolo) da prendere in considerazione è l’at-teggiamento dei partecipanti verso la propria formazione. Non di rado i partecipanti chiedono una formazione breve e facile da sostenere, richiesta a volte in conflitto con la do-manda di una formazione solida, significativa, che incida sulle pratiche professionali. Le cause di questa contraddi-

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211Ambienti di apprendimento per la formazione continua

zione vanno ricercate anche nelle esperienze precedenti di formazione che potrebbero non essere state delle più felici e che potrebbero avere sedimentato il convincimento che a fronte di risultati deboli sia opportuno dedicare limitate energie alla formazione stessa. Se questa è la ragione degli atteggiamenti non del tutto favorevoli ad un significativo impegno per la formazione, si potrebbe sperare che offren-do e facendo apprezzare una formazione maggiormente im-pegnativa si possano avere riscontri positivi per una offerta formativa “ricca”.

Con riferimento a questa tematica si ritiene che le persone che hanno già frequentato formazione possano essere più disponibili a proposte innovative: la proposta potrebbe es-sere, pertanto, rivolta a soggetti che hanno già frequentato attività di formazione.

La fattibilità di questo approccio formativo è determinata anche dalle “risorse” disponibili per essere usate on-line, in primis corsi o moduli di corsi acquisibili a pagamento (pres-so aziende) ma anche gratuitamente (presso enti pubblici che ne hanno finanziato lo sviluppo con fondi pubblici). Ad esempio, il Progetto TRIO della Regione Toscana mette gratuitamente a disposizione più di 1000 titoli su una vasta gamma di contenuti professionali, da quelli trasversali (es: informatica, lingue, sicurezza, gestione aziendale...) a quelli di settore (Sanità, terzo settore, agricoltura, turismo...). Uti-lizzando i corsi TRIO si può facilmente integrare un corso in presenza con un modulo on-line.

Risorse da utilizzare on-line possono essere anche semplici file di testo, link a siti web .... la rete è piena di risorse legge-re e gratuite utilizzabili a scopi formativi.

La fattibilità è, anche, legata alla disponibilità di una infra-struttura tecnologica di base. Per iniziare, svolgendo co-munque attività formative “ricche”, bastano anche risorse

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tecniche reperibili gratuitamente in rete ma, considerato che una presenza on-line di ogni scuola e/o ente di forma-zione sarà sempre più spesso tra le condizione minime per poter esercitare la propria attività, è opportuno che ogni ente di formazione tracci una propria road-map per svilup-pare una propria infrastruttura tecnologica e si doti delle professionalità necessarie a gestirla.

Esempi

Sono sempre più numerosi i casi di arricchimento della for-mazione tenuta prevalentemente in presenza con attività a distanza (on-line).

Caso “Corsi di abilitazione all’insegnamento” tenuti dalla Provincia Autonoma di Bolzano, Ripartizione 21 in vari anni.

Si tratta di formazione svolta prevalentemente in presen-za e con integrazioni on-line basata su Moodle. L’ambiente on-line è stato utilizzato per la gestione della formazione in presenza (calendari, comunicazioni, repository di materiali) e per lo svolgimento di attività di apprendimento collabo-rativo online (approfondimento di alcuni dei temi trattati in aula, contestualizzazione degli stessi, secondo l’approccio descritto nella scheda “attività di apprendimento”).

Caso “Corsi universitari a Scienze della Formazione (Pado-va e Verona)”.

I corsi erano, come tutti corsi universitari convenzionali, in aula. Il docente, considerando che i corsi in questione erano focalizzati sulle tecnologie didattiche, ha attivato ambienti on-line basati su Moodle utilizzati per reposito-ry di documentazione dei corsi e per sostenere “attività di apprendimento”(vedi la scheda omonima). Queste “attivi-

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213Ambienti di apprendimento per la formazione continua

tà di apprendimento” hanno coinvolto tanto studenti fre-quentati che non frequentati ed il lavoro svolto collabora-tivamente on-line è stato valorizzato ai fini dell’esame con l’approccio “portfolio”.

Tecnologie necessarie

Sul lato “erogatori” di formazione: server e connessione a banda larga a internet e applicativo per la gestione delle at-tività on-line (es: LMS Moodle)

Sul lato “utenti” pc e connessione a banda larga.

rIferImentI bIblIoGrafIcI

Per il self-directed learningMerriam, S. B., & Caffarella, R. S. (1991). Learning in adulthood: A com-prehensive guide. San Francisco, Jossey-Bass Publishers.

Per l’apprendimento negli adultiCross, K. P. Adults As Learners. San Francisco: Jossey-Bass, 1981.M. Knowles et al Quando l’adulto impara. Andragogia e sviluppo della persona,F. Angeli, 2010

M. Knowles, The Adult Learner: The definitive classic in adult education and human resource development. A Butterworth-Heinemann Title; 7 edition (24 Mar 2011)

Per le teorie della formazione distanzaD. Keegan, Foundations of Distance Education, Routeledge, London and New York, 1990.

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electronIc PerFormance suPPort systemVincenzo Del Fatto, Francesco di Cerbo e Gabriella Dodero

Descrizione

In Electronic Performance Support Systems (Gery 1991), Gloria Gery definisce un EPSS come un ambiente elettro-nico integrato che è disponibile e facilmente accessibile da ogni membro di una organizzazione ed è strutturato per fornire un accesso in linea immediato e personalizzato per l’intera gamma a informazioni per consentire prestazioni la-vorative con minimo supporto e intervento da parte di altri.

L’obiettivo di un EPSS è proprio quello di supportare la performance di un utente, anche in scenari fortemente cri-tici, dove esistano carenze in termini di conoscenze pregres-se, di esperienza, di formazione nell’attività specifica. Un EPSS deve essere in grado di rispondere alle domande di un utente che si trova in quella condizione, fornendogli indica-zioni sulle strategie e le risorse da utilizzare.

Il funzionamento di un EPSS può essere illustrato seguendo la metafora dell’apprendista e dell’esperto. Un apprendista cerca, attraverso una serie di domande, di comprendere la situazione attorno a lui, quali siano i processi e le attività da svolgere. Man mano che cresce la sua consapevolezza sulle variabili in gioco e sulle procedure, cerca di aumentare il livello di conoscenza sulle regole concettuali e sui principi.

Esistono però diversi approcci possibili per questi per-corsi, ma tutti passano per una serie di domande, poste dall’apprendista ad una figura esperta nel campo. Proprio quest’ultimo dovrà a sua volta utilizzare differenti strategie per spiegarsi, variando la tipologia delle risposte, talvolta

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descrivendo a parole, altre volte con supporti quali dia-grammi o immagini ciò che è necessario che l’apprendista acquisisca.

La comunicazione tra apprendista ed esperto si regola di-namicamente sulla base delle situazioni e dei bisogni e delle capacità di ciascuno. Nelle situazioni migliori, questo scam-bio è fluido e dinamico. Nelle situazioni peggiori, può però essere frustrante, demoralizzante ed improduttivo, portan-do all’abbandono di uno dei due attori.

Un EPSS può aiutare l’organizzazione a ridurre i costi di formazione del personale, aumentando la produttività e le prestazioni.

Utilizzando questo tipo di sistema un dipendente, in parti-colare se appena assunto, non solo sarà in grado di comple-tare il suo lavoro in modo più rapido e preciso, ma anche di formarsi sul contesto operativo nel quale si colloca, e sulle motivazioni delle azioni che gli vengono richieste.

Lecinquecaratteristiche chiave di un EPSS sono:• Essere computerizzato;• Fornire un facile accesso alle informazioni quando è

necessario;• Essere disponibile al posto di lavoro del lavoratore;• Essere controllato dal lavoratore;• Ridurre la necessità di formazione preliminare.

L’obiettivo di un EPSS

Gery afferma che un EPSS deve fornire ogni elemento sia necessario a sostenere sia la performance che l’apprendi-mento nel momento del bisogno. Un EPSS, proprio come la figura esperta, deve fornire i mezzi per modellare, rap-presentare, strutturare le conoscenze necessarie ed erogarli su richiesta in ogni momento, situazione e luogo si rendano

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necessari, senza intervento umano. Un punto focale di un EPSS è proprio nella capacità di integrare per l’utente tutti gli elementi necessari a lui necessari:• informazioni;• strumenti;• metodologie.

Un EPSS, osservato rispetto alle tipologie di risposte e ser-vizi offerti alle domande degli utenti, sembra condividere alcuni approcci di gestione del sapere e di instructional de-sign con software specificamente orientati al training (com-puter-based training o CBT).

In realtà però, le due entità sono profondamente differen-ti, proprio ad iniziare nella tipologia di organizzazione del sapere e nel supporto al discente, nel mondo in cui egli possa strutturare la propria esperienza di apprendimento, ed il supporto all’utilizzo “in linea” sul posto di lavoro: so-prattutto quest’ultimo punto diventa di importanza cruciale in un EPSS, che deve fornire un sistema di consultazione (advisory), la possibilità di accettare e manipolare dati pro-posti dall’utente, e offrire funzionalità di monitoraggio dei processi.

I contenuti di un EPSS

Per descrivere i contenuti offerti da un EPSS, Gery conia un nuovo termine, “infobase”, ad indicare il repository di informazioni che l’utente interrogherà per compiere il pro-prio lavoro. Esso può essere composto da un certo numero di database, e un sistema di knowledge base che includa un sistema esperto.

L’organizzazione dell’infobase sarà differente ed adattata ai processi, al software ed alle attività a cui esso fornirà sup-porto, come anche alla natura delle informazioni necessarie.

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217Ambienti di apprendimento per la formazione continua

La considerazione fondamentale da ricordare nel design dell’infobase è che la sovrabbondanza di informazioni non necessarie o irrilevanti è spesso la causa fondamentale che spinge gli utenti a non utilizzare la documentazione tradi-zionale: spesso quest’ultima risulta non adeguata a soddisfa-re i bisogni dell’utente nel momento nel quale esso si verifi-ca, nascondendo i contenuti cercati assieme a molte altre in-formazioni e quindi rendendole di difficile individuazione.Una buona regola, quindi è strutturare un infobase in modo che contenga le informazioni necessarie, e solo queste.

Esistono differenti tipologie di informazioni necessarie, quali:• concetti; • fatti; • esempi;• procedure.

Per ciascuno di essi, potrebbe essere necessario adattare la sua presentazione in modo opportuno, in relazione al for-mato dell’informazione, ed ai media utilizzati, ad esempio un testo, un’immagine o un video.

È necessario uno sforzo di organizzazione dell’infobase che tenga strettamente conto delle tipologie di informazione come anche della loro modalità di presentazione all’utente finale. Esso deve porsi come obiettivo quello di rendere il processo di presentazione strutturato, comprensibile ed ap-propriato rispetto ai requisiti dell’utente e dei processi nei quali è coinvolto.

Proprio la presentazione dell’informazione è un aspetto cri-tico del design del sistema: ogni informazione potrà essere presentata in maniera differente, utilizzando un approccio descrittivo, una foto, un video oppure una loro combina-zione.

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È necessario che il designer scelga la modalità più imme-diata per incontrare l’esigenza dell’utente in relazione alla specifica informazione, e che quindi il sistema sia in grado di presentare i contenuti in maniera strutturata ed effica-ce. Potrebbe essere utile, ad esempio, creare viste distinte sull’infobase, dove utenti con esigenze diverse potrebbero avere accesso alle infomazioni mediante una diversa forma di presentazione, od un diverso livello di dettaglio, proprio in relazione alle loro esigenze on-the-job.

Il sistema di supporto

Accanto all’infobase, ovvero all’insieme di strumenti per l’organizzazione e la presentazione strutturata delle infor-mazioni, in un EPSS è presente un sistema per l’utente di supporto al raggiungimento della performance. Il successo di una performance è determinato dall’applicazione della conoscenza, del processo o della procedura, e delle regole che si applicano in una certa situazione in un certo contesto.

È necessario, quindi, che il sistema di supporto sia in grado di tenere conto di tutte queste variabili, per essere effettiva-mente in grado di aiutare l’utente, proprio come un esperto potrebbe fare con un apprendista in un dato momento, allo scaturire di una esigenza specifica.

Il design di un EPSS

Il design di un EPSS, per come è strutturato, organizzato ed integrato è una materia delicata. Oltre alle linee guida necessarie per l’organizzazione dei repository di informa-zione, è necessario curare l’interfaccia utente, per renderla semplice ed efficace, soprattutto ergonomica alle strategie di proposizione degli aiuti e delle informazioni in relazione all’accesso just-in-time.

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219Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Gloria Gery fornisce una serie di casi d’uso, analizzandoli nella loro strutturazione in relazione al contesto di riferi-mento. Una serie di elementi da tenere in considerazione, nella progettazione degli EPSS, è il seguente:• determinare le tipologie degli strumenti di supporto e

delle risorse che dovrà contenere, come ad esempio ap-plicazioni software, alberi decisionali, advisory service e knowledge base;

• determinare l’organizzazione e la strutturazione effica-ce degli strumenti identificati;

• determinare se dovrà interfacciarsi con elementi ester-ni, per acquisire informazioni di contesto sui processi e le attività;

• determinare quali input utente accettare;• determinare quali dati ed informazioni poter modifica-

re, sulla base ad esempio del monitoring delle azioni degli utenti

Barker e Banerji (1995) identificano una serie di linee guida per il design, articolando e raffinando la checklist presenta-ta da Gery.

Fondamenti concettuali

I sistemi EPSS sono al centro di molte attività di ricerca, una larga parte delle quali sono orientate al design ed alla metodologia d’uso più efficace in contesti produttivi. In questa accezione si possono collocare anche molti degli stu-di iniziali a partire proprio dal testo fondamentale di Gloria Gery.

Alcuni di questi autori (Cole et al. 1997; L. A. Brown 1996) sviluppano modelli di valutazione che partono proprio dal principio che una classificazione rigorosa di un EPSS, per la grande varietà di funzionalità offerte, la generale aderen-za a specifici contesti di business, e la tendenza marcata

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al supporto della performance. In particolare Cole et al., sottolineano come un EPSS possa essere un “just-in-time performance support system”, enfatizzando il ruolo dell’av-verbio “just”. “in just in time carries the dual semantics of the word just. Knowledge delivery takes place soon enough that it is applied to the appropriate situation, and late enough that the user does not have to go through training or information overload.”

Quindi, obiettivo primario dell’EPSS in ambito corporate è la performance, alla quale seguirà una fase di apprendimen-to quando adeguatamente sostenuta.

Altri autori intervengono proprio nella progettazione di strumenti di sostegno all’apprendimento, basandosi soprat-tutto sui fondamenti dell’apprendimento situato e dell’ap-prendimento significativo. Uno di essi in particolare propo-ne un modello teorico fondamentale per l’apprendimento negli EPSS (Bayram 2004), che risulta non particolarmente seguito, ma interessante per quanto riguarda gli spunti pre-sentati.

I concetti di Apprendimento Situato e di Apprendimento Significativo sono approfonditi nelle due schede concettua-li omonime.

Autori maggiormente significativi

Sicuramente Gloria Gery, per la paternità ed anche la rea-lizzazione di questi strumenti.Barker, P., Banerji, A., Brown, Bandahari R. per quanto riguarda le indicazioni sul design degli strumenti.

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221Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Corsi ed obiettivi di apprendimento per cui la strategia può essere utilizzata

Gli EPSS sono nati nella industria del software per fare formazione di conoscenze complesse e attività specifiche, procedurali, o skill-based, ed in particolare quando il patri-monio di conoscenze aziendali sono troppo ingombranti o troppo complicate per essere insegnate in un unico evento di formazione.

L’adozione di un EPSS consente di ridurre i costi della for-mazione del personale coinvolto nell’uso di sistemi software incrementandone la produttività e le prestazioni, permet-tendo ai suoi fruitori di svolgere le attività legate al sistema software con il minimo intervento di supporto esterno (ad esempio help desk ) o di formazione.

Un EPSS si impiega normalmente per l’addestramento e la formazione di nuove risorse che devono essere operative immediatamente, in situazioni in cui il normale addestra-mento non è praticabile o non è disponibile, oppure quan-do l’addestramento è relativo a processi ed attività acurva di apprendimentomolto bassa o di complessità tale da non poter essere memorizzate dagli utenti in tempi brevi.

Un EPSS è particolarmente utile per luoghi di lavoro in cui devono essere completati compiti time-sensitive o com-plessi, o in cui gli utenti accedono a sistemi molteplici. Ad esempio:• Ambienti fortemente regolamentati, come le banche, le

assicurazioni e l’assistenza sanitaria;• Le grandi e medie aziende con sistemi finanziari;• Ambienti che richiedono un elevato grado di precisione

o competenza;• Organizzazioni con un gran numero di nuovi assunti

che richiedono un rapido raggiungimento di competen-za.

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• Le organizzazioni che soffrono in maniera significativa del fatto di dover mandarelontanoi propriimpiegatiper completare la formazione.

Vantaggi o punti di forza

I vantaggi dell’utilizzo di questo tipo si sistema sono:• La possibilità di utilizzarlo con una vasta gamma di tec-

nologie;• La disponibilità di un Computer BasedTrainingmini-

mizza le limitazioni degli aiuti di lavoro;• La formazione può essere effettuata al momento del bi-

sogno;• Una riduzione del sovraccarico cognitivo nel gestire più

di un tipo di sistema;• Una riduzione della complessità e/o del numero di pas-

si richiesti per svolgere un task;• La possibilità di individuare informazioni sulle presta-

zioni di cui un impiegato necessita per svolgere un task;• La possibilità di fornire un sistema di supporto alle deci-

sioni che abilita un impiegato ad identificare l’azione che è più appropriata per un particolare insieme di condizioni.

Svantaggi o punti di debolezza

Gli svantaggi dell’utilizzo di questo tipo si sistema sono:• Chi apprende potrebbe non avere cognizione del qua-

dro generale del dominio;• Chi apprende potrebbe non essere la persona indicata

per decidere ciò che dovrebbe imparare;• Poca ricerca è stata effettuata su come strumenti auto-

matizzati influiscono sulle prestazioni;• E’ difficile giustificare il costo del tradizionale Compu-

ter BasedTraining, è quindi ancora più difficile giustifi-carloper un sistema più complesso come unEPSS.

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223Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Indicazioni operative (lato erogatori, lato utenti)

Per rendere operativo un EPSS Gery elenca 7 dimensioni principali da sviluppare; a queste andranno aggiunti tutti gli elementi che si reputano necessari per l’ottenimento della performance di un utente. Queste le dimensioni.

1. un sIstema dI advIsory o sIstema esperto

Un sistema esperto è un elemento decisivo per poter affron-tare e fornire:• la strutturazione di un problema;• il supporto alle decisioni;• il supporto all’analisi;• il supporto alla diagnosi.

Spesso l’obiettivo di performance è complesso e difficile da ottenere, per questo è un sistema in grado di aiutare l’utente con servizi mirati ed adattabili al contesto di invocazione. Un sistema esperto è un software che tenta di fornire una risposta a un problema, o chiarire le incertezze cui, di nor-ma uno o più esperti umani dovrebbero essere consultati.

Una vasta gamma di metodi possono essere usati per simu-lare le prestazioni dell’esperto, e si basano su tecniche di intelligenza artificiale basate su strumenti di rappresenta-zione di conoscenza (knowledge representation) o di inge-gnerizzazione della conoscenza (knowledge engineering), a seconda dell’approccio seguito.

A seconda della loro organizzazione, possono essere impie-gati dall’utente in diverse modalità, su sua diretta richie-sta, oppure automaticamente sulla base delle azioni e degli input da lui inseriti. In una operazione di (risoluzione di problemi) troubleshooting, ad esempio, il sistema esperto, per risolvere il problema sulla base delle ultime azioni effet-tuate dall’utente, può raccomandare un’azione ed assistere l’utente in una procedura complessa.

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I sistemi auto-attivanti possono rappresentare una grande risorsa per un EPSS quando motivati dal contesto e da un uso che permetta di tracciare tutte le azioni di un utente in una determinata situazione, e quindi di ricostruirne il ra-gionamento al fine di aiutare la rielaborazione su una pro-cedura o su una situazione. È possibile infatti introdurre delle regole di monitoraggio delle azioni di un utente, che attivino il sistema di advisory automaticamente, fornendo spiegazioni sulla situazione e suggerimenti.

2. software dI produttIvItà personale

In questa categoria sono compresi i fogli di calcolo (spre-adsheet), i word processor e tutti i supporti interattivi a so-stegno di task specifici, che possono essere supportati in un EPSS. Gery presenta alcuni casi d’uso dove gli utenti possono accedere a questi tipi di software mentre svolgono attività di riorganizzazione dei flussi di lavoro in un dato contesto, utilizzando anche strumenti grafici per la rappre-sentazione di diagrammi di flusso e schemi concettuali, al fine di integrare in maniera semplice diversi servizi a loro necessari in un unico sistema, integrato ed ergonomico ai loro bisogni.

3. applIcazIonI software specIfIche

In questa categoria sono contenuti tutti i software utili ad eseguire compiti particolari, specifici per le attività lavorati-ve dell’utenza. Spesso un EPSS può venire integrato all’in-terno di un software di questo tipo, quando questo software è decisivo per la gestione dei flussi di lavoro.

4. sIstemI dI assIstenza (help)Questi sistemi possono essere avviati sia dall’utente che dal sistema stesso, possono essere dipendenti dal contesto o dalle richieste, o addirittura intelligenti. Possono includere spiegazioni, dimostrazioni, consigli o alternative su come operare con un certo software.

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225Ambienti di apprendimento per la formazione continua

5. sequenze dI traInInG InterattIve

Si possono introdurre nel sistema queste sequenze per per-mettere di effettuare esperienze di apprendimento su ini-ziativa dell’utente o strutturate, che siano specifiche per le attività di riferimento e soprattutto flessibili. Possono essere impostate per un avviamento automatico o su richiesta, di solito la loro granularità è sulle singole attività e task, ma possono anche essere utilizzate in forma aggregata, per for-nire un servizio più tradizionale di computer-based training.

6. sIstemI dI valutazIone

Questi sistemi permettono di valutare la conoscenza o le capacità di un utente prima dell’esecuzione di un’attività, oppure di valutarne le competenze; la loro finalità può es-sere soltanto a beneficio dell’utente, oppure possono essere utilizzati come base per un percorso di certificazione, di ac-certamento del livello di esperienza, a seconda del contesto di impiego.

7. sIstemI dI monItoraGGIo, valutazIone e feedback

Questi sistemi sono utilizzati per osservare le attività degli utenti, per informarli dell’adeguatezza delle loro azioni con il software (per presentare ad esempio accanto ad un mes-saggio di errore una serie di istruzioni per ovviare ad esso), oppure per capire se e quando ad un utente sia necessa-ria una certa informazione. Questi sistemi di monitoraggio possono essere basati su regole fisse, oppure su metodi di tracking che osservano le azioni di un utente e vi reagiscono tenendo conto dello stato del sistema, dell’attività e così via.

La praticabilità di questo approccio è determinata dal veri-ficarsi delle seguenti condizioni:• Il numero di utenti deve essere sufficientemente alto

da giustificare i consistenti costi iniziali di attivazione dell’infrastruttura;

• Gli obiettivi e la tipologia dei contenuti sono coerenti con i contesti d’uso presentati;

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• Ci si trovi in scenari fortemente critici, dove esistano ca-renze in termini di conoscenze pregresse, di esperienza, di formazione nell’attività specifica;

• Esista un’adeguata dotazione tecnologica utilizzabile dall’utente, in particolare nel supporto all’utilizzo “in linea” sul posto di lavoro;

• il patrimonio di conoscenze è troppo ingombranti o troppo complesso per essere insegnato in un unico evento di formazione.

Esempi

Nel 1999, il National Park Service (NPS), agenzia statuni-tense incaricata della gestione dei parchi nazionali, ha ri-chiesto che i singoli parchi producessero dei business plan sollecitare i fondi per il funzionamento dei parchi e per in-coraggiare i contributi a sostegno delle attività dei parchi. Prima del 1999, la creazione di un business plan era un pro-cesso manuale che richiedeva la compilazione di prospetti standard, strumenti come Excel e Word, e spesso contratti per consulenti professionali. Dal 1999 al 2002, i business plan venivanoprodottidurante il periodo estivo da stagisti con Master in Business Administration. Utilizzando il si-stema basato sugli stagisti, il NPS riusciva a generare circa 12-13 piani aziendali per 380 parchi nazionali. Tali piani spesso venivano creati durante le stagioni più impegnati-ve per i parchi piuttosto che durante la bassa stagione, ed erano spesso lasciati incompleti,poichégli stagisti dovevano tornare a scuola e il personale dei parchi viveva il periodo piùimpegnativodi lavoro.

Di conseguenza, il NPS ha stabilito che una soluzione miglio-re sarebbe stata quella di avere personale dei parchi addetto a scrivere i business plan. Il problema era come preparare il personale NPS con le competenze e le conoscenze giuste per fareciò. La risposta è stata il Business PlanDeveloper, un si-

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227Ambienti di apprendimento per la formazione continua

stema creato da SI International Inc. per il NPS, per consen-tire al personale dei parchi di produrre ipropribusiness plan.

Tale sistema utilizza strumenti per guidare il personale ine-sperto attraverso il processo di raccolta delle informazio-ni per il business plan fino alla scrittura vera e propria del plan, attraverso l’uso dimetodi di raccoltadi dati elettronici. Dopo aver effettuato l’analisi del front-end, la SIinternatio-nalha determinato il processo di lavoro per creare un bu-siness plan. Usando due applicazioni software, una per la raccolta di dati e uno per contribuire a produrre il business plan, la SI internazionale ha creato due sistemi che sono stati integrati all’interno di un EPSS che avrebbe dovuto istruire e dare suggerimenti all’utente durante il processo di scrittura del business plan, ponendo domande efornen-dosuggerimenti. Il Business Plan Editor, la seconda appli-cazione all’interno dell’ EPSS, è la parte in cui il documen-to del business plan viene prodotto scritto. Con l’uso del BusinessPlan Developer, il NPS ha scoperto di riuscire ad orientare e formare personale del parco in un giorno, con-tro i cinque richiesti per il processo manuale.

Attraverso l’uso del Developer, i seguenti risultati sono stati raggiunti:• Per la formazione era sufficiente un giorno rispetto ai

cinque richiesti per il processo manuale;• La scrittura del plan richiedeva solo il tempo dedicato

dal personale dello staff più coinvolto nel progetto. A causa dei livelli di personale del NPS, i piani non sono stati completati. Per far fronte a questa carenza di “ma-nodopera”, il NPS è tornato al suo piano originale di usare gli stagisti per produrre i plan durante l’estate. Utilizzando il Business PlanDeveloper, 25 stagisti han-no completato il 100% dei business plan a loro assegna-ti, per 12 parchi. Il NPSsostieneche il miglioramento nella qualità della determinazione di priorità e strategie per il parco (fase quattro del Business PlanDeveloper) è

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stato un risultato importante derivante dall’uso di que-sto strumento.

Tecnologie necessarie

Secondo Sleight, D. A. (1993), per descrivere la gamma di tecnologie che possono essere classificate come EPSS, biso-gna prendere in considerazione sia quante e quali caratte-ristiche dei sistemi EPSS vengono utilizzate, siaquanto del design è nuovo e quanto si basa su sistemi esistenti.

Secondo Gery (Gery, 1993), riguardo quest’ultima caratteri-stica gli EPSS possono essere suddivisi in quattro categorie:• front-end ad un sistema esistente;• integrazionecon un sistema esistente;• strumenti stand-alone per compiti specifici;• nuovi sistemi con supportoalle prestazioniintegrato.

Utilizzando tale sistema di categorizzazione gli EPSS posso-no essere divisi in tre gruppi:

EPSS minimale, dovrebbe avere il più basso grado di pro-gettazione e presentare solo le caratteristiche chiave di un EPSS. Un esempio può essere un front-end computerizzato ad un databaseche supporta l’utente a trovare le informa-zioni necessarie più facilmente e rapidamente, oppure una interfaccia ad un Help System che rende piu facile l’utilizzo dell’Help System.

EPSSdi livellomedio, dovrebbe presentarein misura mag-giorecaratteristichedi design aggiuntivi rispetto alle carat-teristiche principali,anchese non presenta tutte le caratte-ristiche necessarie a supportare le attività. Un esempio può essere una integrazione ad un database, che aggiunge dei link ipertestuali che consentono a chi lo usa divisualizzare-piùfacilmente le informazioni correlate.

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229Ambienti di apprendimento per la formazione continua

EPSS ottimale, dovrebbe avereil più alto grado di design e tutte le caratteristiche di un EPSS necessarie per sostenere le attività. Un esempio può essere unEPSS ottimale per un database, che dovrebbe essere computerizzato, e consentire un facile accesso alle informazioni quando chi ci lavora ne ha bisogno, essere disponibile sul posto di lavoro del lavora-tore e ridurre la necessità di formazione prima di utilizzare il database. Inoltre, il database potrebbe fornire accesso ad altri softwarecome ad esempio fogli di calcolo e software di elaborazione testi,per aiutare il lavoratore con il suo lavoro

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e-learnIngdIstrIbuzIone dI contenutIGiovanni Marconato

Spray and pray“In breve, in molte aziende oggi si usa internet per il mero

scopo di aumentare il ritmo al quale si “spruzza” formazione ai dipendenti e si “prega” che il risultato sia il miglioramento

della performance organizzativa.Per molte aziende, internet è semplicemente un enorme tubo

attraverso il quale distribuire formazione”.Tony O’Driscoll,

IBM’s Institute for Knowledge Management

Descrizione

L’uso, oggi dominante, delle tecnologie nella formazione a distanza è noto con il nome di e-learninged è prevalente-mente caratterizzato dalla distribuzione via internet di con-tenuti didattici in formato digitale, anche se il termine sta sempre più caratterizzando l’insieme degli utilizzi didattici delle tecnologie in ambienti on-line, indipendentemente dalla piattaforma utilizzata (ad esempio Learning Manage-ment System oppure videoconferenza) e dal formati degli “oggetti” di studio (testi, multimedia, learning object) e dal-la strategia didattica implementata (distribuzione di conte-nuti, simulazioni, apprendimento collaborativo).

Nella sua denominazione, concettualizzazione ed imple-mentazione, l’e-learning è soprattutto una pratica formativa di derivazione commerciale ed informatica. Gli strumenti che vengono utilizzati sono importati da altre e più gene-rali applicazioni informatiche e l’assetto didattico che lo caratterizza rispecchia le logiche di funzionamento delle

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applicazioni informatiche più che quelle dell’insegnamento e dell’apprendimento.

Gli strumenti e i metodi di intervento didattico implemen-tati negli strumenti per l’e-learning non sono stati concepi-ti da pedagogisti anche se, una volta resi disponibili, tante persone del modo dell’educazione li hanno adottati.

La possibilità di distribuire attraverso la rete contenuti di-dattici, multimediali o meno, è stata una delle prime e più sentite esigenze a cui hanno lavorato le aziende e le organiz-zazioni impegnate nella realizzazione di strumenti (piatta-forme) per l’e-learning.

Partendo dall’idea che il “contenuto” rappresenti la parte più importante di ogni processo formativo, si è data molta importanza a realizzare strumenti standard per consentire ad editori e autori di contenuti multimediali la possibilità di realizzare “pacchetti” capaci di funzionare all’interno di ambienti tecnologici diversi. La “distribuzione di contenu-ti” è stata intesa come la modalità più importante per mo-dernizzare, arricchire, cambiare la formazione, attraverso le tecnologie digitali e la rete.

Quelli che in un corso svolto in aula da un insegnante sono i “contenuti” didattici, in un corso a distanza on-line diven-tano contenuti digitalizzati che vengono sviluppati con un grado maggiore o minore di elaborazione digitale, multime-diale e ipertestuale.

Normalmente, un contenuto didattico digitalizzato consen-te a chi lo utilizza un certo grado di libertà nella scelta dei argomenti da studiare e nel percorso da compiere. I conte-nuti sono quasi sempre integrati con delle attività che chi studia dovrebbe eseguire; queste attività sono, nella gran parte dei casi, dei test di valutazione dell’apprendimento.

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I percorsi, detti anche di autoapprendimento, possono esse-re “assistiti” in diverso modo attraverso servizi di tutoraggio e docenza a distanza.

La digitalizzazione dei contenuti e la loro distribuzione via internet hanno lo scopo di offrire opportunità di accesso alla formazione in modo individualizzato, aperto e flessi-bile. Chi apprende può scegliere di farlo quando vuole, scegliendo i contenuti che più gli interessano, progredendo nel percorso al ritmo che ritiene più congeniale alle proprie esigenze.

Lo scopo principale di questo approccio è di mettere a disposizione formazione anytime, anywhere facilitando in questo modo l’accesso e rendendolo meno costoso.

Un sistema di e-learning si poggia su di una infrastrut-tura tecnologica il cui perno è il Learning Management System, LMS, una piattaforma multi-strumenti che met-te a disposizione degli organizzatori e degli utilizzatori tutte le funzionalità necessarie a gestire un’azione for-mativa a distanza. Attraverso il LMS, oltre a gestire l’e-rogazione e l’utilizzo i materiali didattici, si possono ge-stire le iscrizione dei singoli corsisti, le “classi”, i docen-ti, i pagamenti, le valutazioni, il rilascio degli attestati.

Gli LMS oggi disponibili sul mercato sono di due tipolo-gie: quelli “proprietari” richiedono il pagamento di costose licenze d’uso, e quelli “open source” che non comportano costi di licenza.Anche se una piattaforma open source non comporta costi di licenza, non significa che il suo utilizzo avvenga a costo zero in quanto è, comunque, presente il costo dell’infrastruttura tecnologica che lo ospita e della sua manutenzione.

Il LMS è certamente la soluzione “principe” per un’attività di FAD on-line, ma anche senza LMS si può gestire eccel-

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lente formazione a distanza o utilizzando le numerose ap-plicazioni gratuite presenti in rete (ad esempio i “gruppi”, il blog, il wiki, Facebook che consente di integrare alcuni applicativi Education) o integrando in un sito web esistente alcuni moduli che rendono possibile la realizzazione delle attività su cui si incardina la FAD: la condivisione di mate-riali digitali e la comunicazione.

Uno degli elementi centrali dell’approccio basato sulla di-stribuzione dei contenuti è rappresentato da quelli che in gergo tecnico vengono chiamati Learning Object (LO), cioè il sistema di organizzazione logico e tecnologico dei conte-nuti digitali per poter essere utilizzati in corsi on-line.

I concetti di base sui quali si appoggiano i LO sono:• La scomposizione dei contenuti didattici di un corso in

unità di più piccola dimensione (granularità),• La possibilità di ricomporre queste unità elementari in

sequenze più consistenti in relazione ai contesti d’uso (riusabilità),

• Essere associato ad un singolo obiettivo didattico e con-sentirne il perseguimento in modo autonomo, cioè, in modo indipendente dagli altri LO (auto consistenza),

• differenti (trasportabilità),• La possibilità di monitorare i percorsi individuali di stu-

dio (tracciabilità),• Lo sviluppo sulla base di specifiche tecniche condivise

(standardizzazione).

Sulla base di questa caratteristiche tecniche i contenuti di-gitali (e la formazione basata su distribuzione e accesso via web) dovrebbero consentire un risparmio sui costi di ero-gazione della formazione e una sua agevole “produzione”.

Nonostante dal punto di vista logico un LO possa essere sviluppato in formati e con strumenti diversi e, conseguen-temente essere costituito da una semplice pagina HTML

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contenente magari immagini, audio, video o test di verifica, col tempo si è venuta ad affermare l’esigenza di sviluppare una modalità standard di “incapsulare” tecnicamente i con-tenuti digitali. Questo ha portato alla nascita di molteplici modelli tra cui, il più noto, è lo SCORM (Sharable Content Object Reference Model). SCORM, che è una specificazio-ne dell’iniziativa del segretariato alla Difesa degli Stati Uni-ti, rappresenta un insieme di specifiche per impacchettare i materiali con cui sono composti i contenuti (file di diverso tipo contenuti in un file ZIP) in maniera da poter essere trasferibile e interoperabile all’interno di strumenti diversi. Per la realizzazione di Learning Object SCORM sono stati realizzati strumenti specifici o degli add-on da aggiungere a strumenti standard (come Power Point) per renderli capaci di generare questo tipo di file. Un LO può essere sviluppato in diverso formato, da pagina HTML, animazione 2D o 3D, audio, video simulazioni, esercitazioni, test: in ogni caso si tratta sempre di contenuti multimediali e correlati tra di loro secondo una logica didattica.

Nello sviluppo dei LO sono coinvolte differenti figure pro-fessionali, non necessariamente afferenti a persone fisiche differenti. Le principali sono• instructional designer (approssimativamente “progetti-

sta didattico”, in italiano) il cui compito è di elaborare la strategia didattica per conseguire gli obiettivi forma-tivi;

• content designer, l’esperto di contenuto e interviene nella definizione e nella realizzazione di un adeguato approccio ai temi oggetto del corso/modulo/LO;

• progettista multimediale, esperto di comunicazione multimediale che cura l’utilizzo adeguato ed efficace di tutti i linguaggi e gli strumenti a disposizione. Progetta l’interfaccia multimediale e la navigazione;

• storyboarder (sceneggiatore multimediale), sulla base delle specifiche didattiche stabilite dall’instructional designer, scrive la sceneggiatura del corso, rielaborando

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i testi scritti dal content developer;• software developer, sviluppa materialmente il materiale

informatico e ne assembla i diversi elementi stabilendo l’ordine di presentazione e la sequenza nelle attività.

La terza componente di un sistema di e-learning è rappre-sentata dai servizi didattici, ovvero dalle risorse umane de-putate a gestire il servizio formativo

Il ruolo che nella formazione in presenza è svolto dall’inse-gnante e dai supporti didattici che lo stesso utilizza, nell’e-learning viene svolto da risorse materiali e umane aggregate in diversa misura e in relazione agli obiettivi di apprendi-mento che si intendono perseguire e della tecnica didattica che si vuole implementare.

Ai materiali didattici è assegnato il compito di “insegnare”, di organizzare il percorso formativo, di mettere a disposi-zione i contenuti da apprendere e le attività da svolgere per apprenderli.

L’utilizzo dei materiali didattici da parte dello studente a distanza può essere supportato e facilitato attraverso un ser-vizio didattico gestito da una o più persone. Questo servizio didattico può avere la forma del “docente on-line” o del “tutor on-line”.

Il “docente on-line” è, al pari del docente in presenza, un esperto dei contenuti e dei processi di insegnamento e di apprendimento. Suo compito è di intervenire o di sua pro-pria iniziativa e/o su chiamata dell’utente per assicurare il corretto svolgimento delle attività formative. Può interve-nire tanto su questioni legate alla comprensione e all’appli-cazione dei contenuti, che su quelle legate allo sviluppo del percorso.

Nell’e-learning è presente anche la figura del tutor on-line,

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una persona non necessariamente esperta di contenuti il cui intervento è focalizzato sulla problematiche connesse con il funzionamento del processo formativo. Interviene, per-tanto, su questioni connesse con il funzionamento tecnico della piattaforma tecnologica, per sostenere la motivazione e l’impegno dell’utente, per l’adempimento degli eventua-li obblighi amministrativi, per facilitare le interazioni tra utenti e docenti.

Fondamenti concettuali

L’e-learning e la sua natura di approccio didattico caratteriz-zato dalla distribuzione di contenuti, trova uno dei princi-pali fondamenti concettuali nelle teorie dell’apprendimento di derivazione comportamentistica e nella sua traduzione didattica dell’Instructional Design.

Il paradigma di apprendimento che ha modellato i sistemi educativi fin dagli inizi del ventesimo secolo, lo concettua-lizza come l’acquisizione di nuovi comportamenti. Questa visione ha forti radici nella psicologia behaviorista nord-americana secondo la quale il comportamento di un essere vivente (animale o persona) è la risposta ad uno stimolo. Se, poi, la risposta è seguita dalla ricompensa (altra azione esterna all’individuo che valida la risposta attraverso il suo apprezzamento, la “ricompensa”, appunto), questa non è più casuale ma sistematica ed ha molte probabilità di essere data nel futuro: l’organismo ha appreso.

Maggiori dettagli sul comportamentismo sono presenti nel-la scheda dedicata nella sezione “pillole di teoria”.

Autori maggiormente significativi

L’approccio e-learning è di derivazione informatica e com-

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merciale ed è stato adottato dal mondo della formazione come soluzione digitale coerente con il sistema formativo consolidato basato sul trasferimento di informazioni in con-testi d’aula e su pratiche didattiche che hanno la loro base sull’esecuzione di compiti e sulla loro scomposizione in uni-tà elementari nella presunzione che l’insieme sia nient’altro che l’aggregazione delle parti.

Autori di riferimento per l’e-learning possono essere:

Per i fondamenti concettuali e operativi:• B.F. Skinner per il condizionamento operante;• B. Bloom per lo sviluppo della tassonomia degli obiet-

tivi nei tre domini dell’apprendimento cognitivo, psico-motorio e affettivo;

• R. Mager per la metodologia di definizione degli obiet-tivi didattici;

• D. Merril per la teoria Component Display Theory, uno sviluppo della teoria base dell’ID;

• W. Dick e L. Carey per il Systems Approach Model, altro significativo approccio all’IDù

• Reigeluth, per l’Instructinnal Design• R.Mayer per il Multimedia learning,• Sweller per la cognitive load theory

Per l’e-learning (distribuzione di contenuti)• W.D. Graziadei (1993) cui si deve il primo report noto

su un caso di lezione distribuita via internet• B. Luskin, uno dei pionieri• R. Koper per il Learning Design• M. Rosenberg, influente autore contemporaneo• Elliot Masie, R.C. Clark, William Horton in generale

sull’e-learning

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Corsi ed obiettivi di apprendimento per cui la strategia può essere utilizzata

Relativamente ai contenuti, praticamente ogni disciplina e tematica oggetto di formazione in presenza può essere adattata e trasformata per essere approcciata in modalità “a distanza” e “on-line”. Ogni argomento ha la sua specifici-tà contenutistica per cui le tecniche mediali, multimediali e ipertestuali utilizzate per lo sviluppo del courseware dovran-no essere quelle che meglio si adattano al contenuto stesso.

Per stabilire quali “contenuti” rendere oggetto di un corso on-line secondo il modello “trasmissioni di informazioni”, una riflessione andrebbe fatta anche considerando la tipo-logia di “conoscenza” oggetto dell’intervento. Infatti, le “conoscenze” oggetto di un intervento formativo sono di differente tipologia e non per tutte, anzi, per una quantità limitata, la “trasmissione di informazioni” (o “distribuzio-ne di contenuti”) può essere un approccio efficace. Questa tematica sarà affrontata in una scheda nella sezione “pillole di teoria”.

Con riferimento alla tassonomia delle conoscenze citata si potrebbe affermare che le conoscenze che potrebbero trar-re il maggior vantaggio da questa modalità didattica sono le conoscenze dichiarative (conoscenze statiche su fatti, con-cetti principi) e procedurali (conoscenze richieste per rea-lizzare un compito/attività). Forse, questa, è una modalità meno adatta per conoscenze strutturali, concettuali, situa-zionali, strategiche, tacite, socioculturali, esperienziali.

Vantaggi o punti di forza

I vantaggi di questo approccio sono sostanzialmente ricon-ducibili alla flessibilizzazione e alla personalizzazione dei percorsi formativi.

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Trattandosi di materiali didattici che vanno utilizzati in au-toistruzione e che sono accessibili via internet, il corso può essere “frequentato” con la massima flessibilità di:• Date• Orario• Luogo di “frequenza”• Ritmo di studio• Contenuti del percorso• Con queste flessibilità ci si può formare:• Quando serve• Sui contenuti che servono• Sulla base delle preferenze organizzative personali• Con risparmio sui tempi e sui costi della mobilità.

Svantaggi o punti di debolezza

Le criticità di questo approccio formativo sono riconduci-bili sostanzialmente a:• Gli obiettivi di apprendimento conseguibili• La gestione del percorso formativo in regime di autoi-

struzione

Come già evidenziato nel capitolo relativo agli obiettivi di apprendimento perseguibili con questo approccio in-tercettano la fascia base/iniziale delle tipologie di appren-dimento e rimangono scoperti ambiti molto importanti per lo sviluppo cognitivo, personale ed affettivo (ambiti importanti nella formazione iniziale) e per l’esecuzione di prestazioni professionali non routinarie che caratterizzano molte della posizioni lavorative contemporanee (formazio-ne continua).

Per quanto riguarda la gestione del percorso formativo, va rilevato come apprendere a distanza, in autoapprendimento sia, normalmente, più difficile che farlo in presenza.

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Paradossalmente, quello che è il più evidente punto di forza dell’e-learning, la sua apertura, la sua flessibilità, il suo esse-re limitatamente, o del tutto, strutturato diventa, anche, la sua maggior criticità.

L’assenza “istituzionale” di struttura obbliga chi studia a dare lui stesso una struttura al proprio lavoro: programma-re le attività di studio, gestire il programma fatto, monito-rarne gli sviluppi, apportare correttivi . rappresentano del-le forze ostacolanti che non di rado portano all’insuccesso dell’impresa.

La struttura offerta da un percorso chiuso, come un tradi-zionale corso in presenza, può essere d’aiuto, soprattutto a persone che hanno difficoltà ad auto-gestire un impegno qualitativamente e quantitativamente significativo.

A supporto di queste affermazioni, si riportano di seguito alcuni dei risultati di studi sulle condizioni in cui si svolgo-no i corsi on-line e sul “profilo” dell’studente on-line ideale.

La ricerca “Online Learning Contexts from Self-Regulated Le-arning Perspectives” evidenzia le seguenti caratteristiche dello studente capace di autoregoazione del percorso di studio:• Ha elevate abilità di gestione del tempo;• E’ fortemente motivati al proprio apprendimento; • Possiede abilità di autogestione; • E’ consapevoli del proprio essere studenti;• Conosce strategie di apprendimento efficaci; • Ha la capacità di formulare un proprio piano di lavoro

per conseguire l’obiettivo una volta che un compito di-dattico è stato assegnato;

• Intraprende un processo di apprendimento profondo usando una varietà di efficaci strategie di apprendimen-to;

• Monitorizza costantemente il proprio processo di ap-prendimento;

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243Ambienti di apprendimento per la formazione continua

• E’ capace di auto-feedback;• Valuta il grado del proprio livello di conseguimento de-

gli obiettivi;• Riflette costantemente sul proprio processo di appren-

dimento; • Partecipa attivamente ai processi decisionali; • Agisce proattivamente nel ricercare informazioni ed

aiuto;• Ha elevata sicurezza su loro stessi e sulle proprie pre-

stazioni;• Mette uno sforzo straordinario nel compito d’appren-

dimento e persistono diligentemente nel perseguire l’o-biettivo.

Questi, invece, i dati che emergono dalla ricerca “The Onli-ne Learner: Characteristics and Pedagogical Implications”, Nada Dabbagh,George Mason University. Gli studenti on-line “ideali”:• Sanno usare correntemente le tecnologie;• Hanno abilità interpersonali e di comunicazione;• Comprendono e danno valore all’interazione ed all’ap-

prendimento collaborativo; • Hanno il locus of control interno;• Manifestano un bisogno di affiliazione;• Posseggono o sanno sviluppare abilità di apprendimen-

to collaborativo; • Posseggono abilità di apprendimento sociale, discorsi-

ve o dialogiche, auto ed etero valutazione, riflessione.

Condizioni di fattibilità (lato erogatori, lato utenti)

La praticabilità di questo approccio didattico è determinata dal verificarsi delle seguenti condizioni:• Gli obiettivi di apprendimento e la tipologia dei conte-

nuti sono coerenti con i contesti d’uso d’elezione prece-dentemente descritti;

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244

• Il numero di utenti è sufficiente ampio da giustificare i consistenti costi iniziali di attivazione dell’infrastrut-tura;

• Si è valutata la soluzione adeguata agli obiettivi da con-seguire per quanto riguarda le modalità di approvvigio-namento/sviluppo dei materiali didattici considerando costi e tempi di sviluppo;

• E’ stata fatta un’attenta valutazione di quali risorse sia opportuno sviluppare in house e quali acquisire in ser-vice;

• Sono presenti risorse professionali di tipo tecnologico, organizzativo e didattico di numero e competenza ade-guati al numero di utenti che si ritiene di servire;

• Si sono valutati adeguatamente l’atteggiamento e le competenze dei potenziali utenti verso l’autoapprendi-mento on-line;

• Si è verificata l’adeguatezza della dotazione tecnologica utilizzabile dall’utente alle richieste dei materiali didat-tici che saranno utilizzati.

Contesti d’Uso

Relativamente ai contesti d’uso, la “distribuzione di conte-nuti” può essere utilizzata tanto nella formazione al lavoro o “iniziale”, quanto in quella sul lavoro o “continua” anche se l’uso cui si assiste in prevalenza è riferita al secondo caso.

Nella formazione iniziale, i courseware o loro moduli, pos-sono essere utilizzati:• In sostituzione o in integrazione dei libri di testo;• Come percorsi individuali di approfondimento e recu-

pero di parte di discipline;• Come modalità di apprendimento per favorire le abilità

di studio autoguidato e lo sviluppo di atteggiamenti fa-vorevoli al life long learning.

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245Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Nella formazione continua attraverso questo approccio si può:• Organizzare un intero corso; • Integrare con alcuni moduli a distanza un percorso di

formazione fatto in presenza;• Essere una forma di approfondimento e/o di recupero

per formazione fatta in presenza;• Allestire una “passerella” tra due corsi in presenza.

Indicazioni operative (lato erogatori, lato utenti)

Esempi

Di seguito una breve presentazione di un corso TRIO, il sistema di formazione a distanza della Regione Toscana che, al di là dei tema specifico, è esemplificativo di un approc-cio standard alla “distribuzione di contenuti” via web (e-learning).

Un corso si presenta con un interfaccia come in figura1

fIGura 1

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Le 3 barre (superiore, inferiore, laterale) contengono infor-mazioni che si ripetono per tutta la durata del corso. Nella barra superiore ci sono gli accessi al glossario, alla biblio-grafia e ad altre risorse; in quella laterale è sempre presente l’indice ad albero del corso che consente di scegliere il mo-dulo da studiare o le attività di verifica da svolgere; nella barra inferiore è indicato in quale punto del corso ci si trovi.

In questa figura (nella parte centrale dello schermo) è visua-lizzata la schermata finale della presentazione del corso fat-ta attraverso la voce del presentatore (la figura sulla sinistra) e con i testi che si compongono attraverso un’animazione.

Nella figura 2 è presentato un test. In questo caso si tratta del test di ingresso che consente a chi si appresta a studiare di verificare il livello della propria conoscenza del tema og-getto del corso.

Simili test sono normalmente presenti al termine di ogni modulo e del corso. Al termine di ogni batteria di test viene

fIGura 2

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247Ambienti di apprendimento per la formazione continua

dato un feedback sul risultato ottenuto e con suggerimenti su quali unità approfondire nei casi di risposte errate. In alcuni casi, su scelta dei progettisti, il passaggio al modulo successivo è condizionato al superamento del test.

In figura 3 è riportata l’immagine finale della prima pagina dell’unità “definizione” della lezione 1 (informazioni desu-mibili tanto dalla barra inferiore che da quella di sinistra).

Questa prima parte della lezione è stata sviluppata attra-verso la voce narrante dell’insegnante e l’animazione che sintetizza graficamente la lezione stessa. Le parti successive sono sviluppate attraverso una soluzione tecnica differente (simile a quella presentata in figura 4).

In figura 4 è illustrata una soluzione differente che è stata adottata per la trattazione dell’unità “le metodologie” del-la stessa lezione . In questo caso il contenuto è presentato attraverso un testo statico da leggere ed un immagine evo-

fIGura 3

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cativa (in alcuni casi l’immagine è un grafico che riepiloga il testo).

Altre soluzioni tecniche adottate per presentare il contenu-to sono dei video, delle slide, diverse forme di animazione, esercizi applicativi, simulazioni.

Nel caso di corsi di lingua, il materiale di studio può com-prendere attività di ascolto di brevi audio clip ed esercitazio-ni di pronuncia e lettura a riconoscimento vocale. Si tratta, però, di piattaforme didattiche ad elevato costo di sviluppo.

In ogni caso, i progettisti a volte utilizzano soluzioni tecni-che scelte senza alcun criterio didattico tra quelle possibili; altre volte la soluzione è determinata dalla natura del con-tenuto da apprendere e dell’obiettivo di apprendimento da conseguire.

fIGura 4

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249Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Tecnologie necessarie

Qui va precisato meglio. Se la scheda è sulla produzione dei contenuti non ce la si può sbrigare con la presentazione di una generica infrastruttura per l’erogazione. Mi aspetterei piuttosto strumenti per la produzione di contenuti multi-mediali.

Per quanto riguarda chi eroga formazione, le risorse di cui si deve dotare nel caso voglia essere autosufficiente per l’e-rogazione, sono:Infrastruttura tecnologica fatta di:• Server• Collegamento a internet a banda larga• LMS, Learning Management System

Per chi non intendesse attivare un proprio servizio indipen-dente, anche in previsione di un limitato utilizzo dell’infra-struttura, è possibile acquisire la necessaria infrastruttura tecnologica in service e concentrarsi, così, sul servizio di-dattico.

Per la produzione di contenuti digitali sono disponibili nu-merosi strumenti come, ad esempio, LearnExact, Lectora trivantis Macromedia e-learning suite, eXe learning.

Per l’utente di formazione on-line l’infrastruttura tecnolo-gica personale potrebbe rappresentare una criticità. Infatti i materiali di studio presentano un contenuto di multimedia-lità sempre più importante il che richiede di essere dotati di un collegamento ad internet di standard ADSL e di un pc con adeguata RAM, scheda e software di gestione audio e video. Un PC scarsamente performante potrebbe rendere la frequenza di un corso online ancor più difficoltoso di quan-to già non lo sia per la sua stessa natura.

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250

rIferImentI bIblIoGrafIcI

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aPPrendImento autodIrettoBeate Weyland

Descrizione

L’apprendimento autodiretto, in ambito tedesco Selbstge-steuertes Lernen (SGL), consiste in una serie di metodolo-gie che si rifanno all’organizzazione autonoma del processo di apprendimento nata negli ambiti della formazione degli adulti, della pedagogia del lavoro e negli ultimi anni anche della pedagogia della scuola,. A questo concetto si affianca-no termini come apprendimento auto-organizzato e auto-didattico (Dietering 2001).

È un paradigma fondamentale della nuova cultura dell’ap-prendimento, che risponde alle trasformazioni sociali e al conseguente dal cambiamento della prospettiva scientifica che si è allontanata dal modello behaviorista dirigendosi verso quelli di matrice cognitivista e costruttivista.

Non è il docente che decide come, dove, quando, cosa e perché si impara qualcosa, ma è il discente stesso a farlo.

Intorno a questo concetto si organizzano una serie di strate-gie di apprendimento secondo le quali colui che apprende, rispetto alle metodologie tradizionali, ha un grande spazio decisionale nel processo di selezione dei contenuti e dei percorsi didattici. Il suo ruolo sempre più attivo viene in-fatti assunto come fondamentale soprattutto nella cultura tecnologica, per destreggiarsi abilmente tra le possibilità offerte dai multimedia e da Internet.

A partire dagli anni ‘80 l’apprendimento autodiretto ha tro-vato molto riscontro nell’andragogia (formazione manage-riale, attività formative in ambito sindacale ecc.) e dagli anni

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253Ambienti di apprendimento per la formazione continua

‘90 questo approccio viene menzionato pubblicamente nei manifesti dell’Unione Europea, dell’UNESCO, nelle ini-ziative mondiali sul Life Long Learning e in generale nelle manifestazioni internazionali sulla formazione degli adulti (Herold, Landherr 2003).

Fondamenti concettuali

I modelli dell’apprendimento autodiretto sono nati alla fine degli anni ‘60 come reazione alla discussione sulla politica formativa indottrinante soprattutto in ambito accademico, promuovendo modalità di apprendimento alternative ac-compagnate a una democratizzazione e a una partecipazio-ne più attiva alla vita della scuola e dell’università.

È a partire da queste sollecitazioni che sono nati modelli di didattica aperta, orientati alla scoperta e con lo studente al centro del proprio processo di apprendimento negli anni ‘70. Le origini dell’apprendimento autodiretto si possono quindi trovare nei fondamenti teorici della pedagogia uma-nistica con Hugo Gaudig (l’autonomia dell’alunno), Maria Montessori (educazione auto-diretta nella prima infanzia), Cèlestin Freinet (la cooperazione in classe) Carl Rogers (la considerazione della persona nella sua interezza che basa sull’apprendimento autodiretto), Alexander S. Nell e Paulo Freire (modelli alternativi di educare che si basano sull’auto-nomia personale). I riferimenti teorici più attuali sono quelli della didattica e delle metodologie costruttiviste. Alla base dell’apprendimento autodiretto vi è inoltre anche la critica di Klaus Holzkamp alla scuola che denuncia un ritardo in-giustificato delle istituzioni formative che ancora sostengo-no curricoli didattici, obiettivi di insegnamento e prove di rendimento troppo determinate dall’esterno e troppo poco centrate sull’autonomia del soggetto (Bönsch 2006).

In ambito tedesco al SGL l’apprendimento autodiretto si

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avvicina molto il concettoapprendimento auto-organizzato.

Mentre con il primo termine di apprendimento autodiretto si affida al bambino o all’adulto la decisione autonoma sugli obiettivi e i contenuti, sulle modalità e le strategie, i tem-pi e i luoghi del proprio processo di apprendimento, con l’apprendimento auto-organizzato i contenuti e gli obiettivi dell’apprendimento sono predeterminati, mentre il discente decide liberamente sulle modalità con cui organizzare i pro-cessi per raggiungerli. Nella prima concezione l’accento si pone sull’autonomia e la responsabilità del soggetto nell’in-dividuare i propri obiettivi di apprendimento e nell’orga-nizzare in piena libertà le attività adeguate a raggiungerli.

Horst Siebert (2001) ha identificato tre possibili modalità di apprendimento autodiretto:• Elaborazione autonoma dei contenuti o con alcuni col-

leghi/compagni per decidere quali aspetti considerare come più o meno importanti. A questo livello si tratta ancora di un apprendimento recettivo in quanto le sol-lecitazioni provengono ancora dall’esterno.

• Individuazione di modalità autonome per approfondi-re i contenuti. L’attività si basa su racconti, esempi o citazioni da discutere con altri compagni/colleghi per comprendere meglio gli argomenti, oppure al fine di cercare autonomamente altro materiale (online o car-taceo) per approfondire le tematiche. Con questo pro-cesso la comprensione diventa attiva e approfondita. I soggetti deboli o socialmente isolati possono perdere il filo delle cose.

• Presentazione al piccolo gruppo o plenaria di argo-menti approfonditi di propria iniziativa, si parla di te-matiche, criteri o tesi che vengono discusse in gruppo passando dal modello learning by teaching al modello learning circle (vedi scheda “circoli di apprendimento) e alla disputazione.

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Autori maggiormente significativi

Malcom Knowles (1975) è uno dei primi che ha utilizzato il termine “self directed learning” (un approfondimento di questa tematica dal punto di vista della letteratura anglofo-na è presente nella scheda “self-directed learning). Lo stu-dioso intende con esso un processo nel quale l’individuo prende iniziative personali, diagnostica i propri bisogni di apprendimento, formula i suoi obiettivi, organizza le risor-se, sceglie le strategie di apprendimento appropriate e valu-ta il proprio processo.

Trattandosi di una nuova cultura dell’apprendimento, è difficile attribuire a singoli autori la paternità di questo ap-proccio. Nel contesto di lingua tedesca è noto lo psicope-dagogista Fraz Emanuel Weinert, che ha posto tra i primi la tematica in ambito scolastico, sostenendo che l’apprendi-mento autodiretto è una modalità con la quale il discente “ può influenzare pesantemente le decisioni fondamentali su cosa, quando, come e dove impara” (Weinert, 1998).

Un altro autore tra i maggiormente citati è Franz Deitering che, con iltestoSelbstgesteuertes Lernen(2001), ha offerto una visione ad ampio spettro sulla tematica.

Si deve a Horst Siebert la riflessione pedagogica sul passag-gio dai modelli centrati sull’insegnamento a quelli centrati sull’apprendimento nella scuola e nella formazione degli adulti, con una conseguente ampia trattazione delle meto-dologie e tecniche per stimolare l’organizzazione autonoma dei processi conoscitivi.

A Martin Herold e Brigitte Landherr (2003) si ascrive il me-rito di avere messo a sistema il modello dell’apprendimento auto-organizzato e di avere per primi scritto un manuale, ormai diffuso nei contesti di lingua tedesco, per diffondere una nuova cultura dell’apprendimento sia nella scuola che

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nell’ambito della formazione continua, con tanto di esempi concreti e strategie metodologiche.

Corsi ed obiettivi di apprendimento per cui la strategia può essere utilizzata

L’apprendimento autodiretto o auto-organizzato si realizza al meglio al di fuori degli ambiti scolastici e lavorativi, dove è più facile decidere liberamente sugli obiettivi e i contenu-ti, le modalità e le strategie, i risultati, i tempi e i luoghi del proprio apprendimento.

In contesto scolastico l’apprendimento autodiretto è limi-tato, e avviene solamente quando l’alunno può decidere e valutare a proposito di questioni rilevanti che riguardano gli obiettivi di studio e di apprendimento prendendosi la responsabilità delle proprie scelte.

Nelle scuole statali esistono strategie di insegnamento indi-retto che sono propedeutiche a un futuro apprendimento autodiretto: • nei modelli della didattica perstazioni di apprendimen-

togli alunni si muovono liberamente tra un materiale predisposto e si organizzano nei tempi e nei modi in cui rispondere a compiti predefiniti;

• nelladidattica per progetti o temi di approfondimento, i bambini possono scegliere autonomamente le tema-tiche e i materiali da approfondire e da presentare alla classe (Bannach 2002);

• nelmetodo dell’attività libera (freie Arbeit), nato con l’approccio montessoriano, i bambini tra i materiali e le risorse a disposizione scelgono liberamente i contenuti e gli obiettivi di apprendimento al fine di conquistare una autonomia e responsabilità personale nei propri processi di sviluppo e di scoperta.

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A questi modelli se ne aggiungono diversi altri, in cui si sti-mola un coinvolgimento sempre più attivo dell’alunno nella organizzazione dei proprio processi conoscitivi e in ambi-to tedesco vi sono già scuole pilota, come la Laborschule a Bielefeld e la Helene-Lange-Schule a Wiesbaden che spe-rimentano ampiamente le potenzialità dell’apprendimento auto-organizzato.

Nella formazione e aggiornamento professionale le poten-zialità dell’apprendimento autodiretto sono state studiate e confermate già dalla fine degli anni ‘90. Questa strategia si applica soprattutto nella consulenza ai processi di ap-prendimento nelle organizzazioni, un modello sviluppato dal gruppo QUEM[1] un gruppo di ricerca che lavora sui temi della formazione e aggiornamento professionale nelle imprese finanziato dallo Stato tedesco e con fondi sociali europei.

Con la “consulenza ai processi di apprendimento” (PLBPro-zessbegleitende Lernberatung) si intende offrire un sup-porto pedagogico-didattico alle sfide sociali e professionali dell’apprendimento autodiretto o auto-organizzato (SOL). La consulenza ha generalmente luogo in specifici setting so-ciali, istituzionali o professionali costituiti da persone che hanno l’obiettivo di crescere e che sono determinate a vo-ler guidare i propri processi di autoapprendimento. Essa si basa su una pedagogia attiva e sull’apprendimento riflessivo al fine di raggiungere la produttività e l’innovazione dei si-stemi.

Vantaggi punti di forza

Questa strategia didattica potenzia le competenze personali del soggetto e ne valorizza le innate capacità di autodeter-minazione.

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Nell’ottica della piramide dei bisogni di Abraham Maslow (1982), che descrive un modello di crescita motivazionale in cui i bisogni umani sono il motore dei processi conoscitivi e di appropriazione del mondo, è una tipologia di appren-dimento che colma in particolare il bisogno di autorealizza-zione, posto al vertice della piramide. L’uomo, direzionan-dosi autonomamente, infatti, procede attraverso la cono-scenza di sé e del mondo verso la piena realizzazione della sua persona, con i suoi personali interessi e i collegamenti socio-culturali, con le sue possibilità socio-economiche, con le sue qualità e predisposizioni specifiche.

Svantaggi punti di debolezza

L’apprendimento autodiretto può realizzarsi pienamente soprattutto con persone adulte che hanno obiettivi forma-tivi e professionali già abbastanza delineati. Necessita di grande preparazione metodologica da parte degli insegnan-ti con le persone che non hanno ancora una chiara direzione e che non dispongono di una buona competenza di base sia rispetto agli strumenti che ai contenuti.

Nella scuola tale tipo di apprendimento può avvenire dietro una predisposizione accurata dell’ambiente didattico e dei materiali da parte del docente. In questo contesto più che di apprendimento autodiretto, quindi, si potrebbe parlare di insegnamento indiretto, ovvero di una modalità didattica che stimola l’autonomia dell’alunno nel guidare il proprio percorso di apprendimento all’interno di un contesto ben definito e predisposto, con stazioni, strumenti e materiali a scelta che, stimolando le diverse “intelligenze cognitive” conducono tutti a un predefinito obiettivo.

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259Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Indicazioni operative

Ci sono diverse tecniche impiegate nell’apprendimento au-todiretto, si elencano di seguito le più note:• Testi guida: essi consistono in indicazioni scritte per

orientare l’apprendimento. I soggetti vengono guidati con domande e compiti alla ricerca autonoma delle in-formazioni, all’attività con i multimedia, in direzione di fonti e materiali utili. Questa metodologia si usa pre-valentemente nei contesti professionali dove, a fronte delle competenze e conoscenze già in possesso, si for-niscono indicazioni e informazioni utili ad affrontare problemi complessi o a realizzare specifici progetti. I testi guida non offrono direttamente i contenuti ben-sì le indicazioni per il reperimento delle risorse neces-sarie o richieste per rispondere al bisogno formativo, professionale, di cambiamento. Compito dei soggetti è quello di informarsi, pianificare, decidere, svolgere controllare e valutare il proprio percorso. Con questa tecnica riescono a farsi un quadro ampio della tematica/problematica in oggetto e a costruire una rete semantica nella quale sono collegate tra loro le esperienze, le co-noscenze (già a disposizione e nuove), le posizioni e le competenze del gruppo in apprendimento.

• Contratti di apprendimento:consistono in documenti nel quali colui che apprende stabilisce insieme al do-cente/consulente/coach gli obiettivi, i contenuti e le modalità del proprio percorso di apprendimento. I contratti di apprendimento possono essere paragona-ti ai piani di studio accademici, nei quali gli studenti definiscono il loro percorso e documentano il raggiun-gimento degli obiettivi attraverso il superamento degli esami. I docenti di contro hanno l’obbligo di descrivere chiaramente gli obiettivi del corso, l’oggetto, i tempi e i metodi impiegati, l’outcome desiderato, i criteri per valutare il raggiungimento degli obiettivi (Blom, 2000).

• Laboratorio di apprendimento: è una nota strategia di

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apprendimento impiegata nella formazione sul lavoro. Si tratta di un’attività di gruppo basata sul principio della moderazione autonoma. “Come testimoniano le esperienze, la particolarità di questa strategia consiste soprattutto nello stimolare i collaboratori/dipendenti a definire insieme, sulla base di precise e condivise regole comunicative, il bisogno formativo e di assolverlo sul posto di lavoro o a partire dal posto di lavoro, secondo percorsi autonomamente individuati” (Nickel 2005). Gli obiettivi consistono dunque nell’individuazione dei deficit formativi, nella condivisione dei bisogni di apprendimento, nella compensazione dei deficit attra-verso lo scambio di esperienze e conoscenze in gruppo, il rafforzamento della responsabilità dei collaboratori nella gestione dei mezzi produttivi, nel riconoscimen-to precoce delle problematiche, nello sviluppo e nella sperimentazione di possibili soluzioni, nell’utilizzo del potenziale ideativo dei componenti del gruppo, nella conquista di competenze specifiche, metodologiche e sociali, nello sviluppo personale.

• Circoli di qualità:gruppi composti da 8-10 collaborato-ri, seguiti da un coordinatore di gruppo, si incontrano regolarmente (una volta alla settimana circa) per un’o-ra o due per discutere sulle problematiche insorte sul lavoro e per ricercare sistematicamente le motivazioni e le possibilità risolutive. Le proposte di miglioramen-to e soluzione elaborate in gruppo vengono proposte all’impresa/ente e quelle accettate vengono applicate e valutate in primo luogo dai membri del gruppo. I cir-coli qualità sono strategie di apprendimento applicate soprattutto nei contesti professionali e aziendali con l’obiettivo di sfruttare al meglio il potenziale creativo e innovativo dei collaboratori. I circoli hanno l’obiet-tivo di migliorare l’efficacia e la qualità dell’attività la-vorativa e di sostenere la motivazione professionale. I collaboratori imparano a riconoscere una serie di colle-gamenti tra ambiti e tematiche della propria attività, a

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261Ambienti di apprendimento per la formazione continua

prendersi nuove responsabilità, ad analizzare i proble-mi e a risolverli e a lavorare in gruppo. Partecipando ai circoli qualità i singoli ne guadagnano sviluppando competenze non solo professionali specifiche, ma anche metodologiche e sociali.

• Study circle:nato nei paesi scandinavi, è da tempo or-mai nota una pratica democratica e partecipativa di ap-prendere dove i partecipanti si incontrano regolarmen-te al fine di elaborare insieme conoscenze intorno a un tema comunemente scelto. Sono invitati anche esperti e moderatori che sostengono le attività.

Per essere in grado di organizzare in piena autonomia il pro-prio processo di apprendimento gli studiosi (Bannac 2002, Dietering 2001, Bönisch 2006) convengono nel delineare le seguenti competenze: • Competenza disciplinare: le basi delle discipline devo-

no essere note in modo da poter svolgere le opportune inferenze, gli approfondimenti e i collegamenti tra le tematiche;

• Competenza sociale: è necessario essere capaci di con-dividere, comunicare e lavorare insieme ad altri;

• Competenza metodologica: capacità di recuperare le informazioni in autonomia;

• Competenza morale: capacità di valutare l’eticità delle proprie azioni;

• Competenza mediale: capacità di utilizzare i media per recuperare materiali e informazioni e capacità di de-streggiarsi nel Web;

• Competenza riflessiva e meta cognizione: al fine di ela-borare i contenuti, di valutarli e migliorarli per raggiun-gere i propri obiettivi;

Dal punto di vista degli erogatori, il compito fondamenta-le ha un carattere consultivo, organizzativo, di supporto e osservativo. Ciò comporta il possesso delle seguenti carat-teristiche:

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• Capacità di stabilire contratti didattici e reciproche re-sponsabilità con l’organizzazione e con soggetti in ap-prendimento;

• Capacità di cogliere e valorizzare competenze e poten-zialità già in essere;

• Capacità di dialogo e scambio costruttivo;• Attenzione agli interessi, i bisogni e gli obiettivi con-

creti;• Capacità di coinvolgere gli apprendenti nella definizio-

ne dei processi formativi;• Capacità di riflessione, analisi, definizione dello status

quo e di offrire visioni per il futuro;• Competenza nella promozione della comunicazione e

della cooperazione.

La valutazione degli apprendimenti autodiretti, inoltre, deve tenere conto di diversi fattori. Il prodotto di appren-dimento deve avere riferimenti oggettivi agli obiettivi di ap-prendimento delle diverse discipline da una parte e deve tenere conto della configurazione individuale di ciascuno dall’altra. Uno strumento efficace che documenta e valuta le attività di apprendimento autodiretto è il portfolio didat-tico.

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265Ambienti di apprendimento per la formazione continua

consulenza sIstemIca

Beate Weyland

Descrizione

La consulenza sistemica è una specifica strategia di suppor-to e di sviluppo della persona che considera il cliente come “esperto delle proprie cose”. Si basa dunque sull’accetta-zione, sull’empatia, sulla sospensione del giudizio e sulla valorizzazione dell’altro.

Il punto di partenza è quello di considerare che ognuno può sviluppare soluzioni e risposte adeguate nel momento in cui sia in grado di valutare adeguatamente le risorse e le compe-tenze che ha a disposizione. I desideri e i bisogni del cliente sono in primo piano.

Attraverso il dialogo si ricercano le condizioni entro le quali il cliente può attivare le sue risorse in modo da raggiungere autonomamente i propri obiettivi.

La consulenza sistemica è richiesta spesso presso le orga-nizzazioni e ha lo scopo di individuare nuove modalità per lo sviluppo dei collaboratori e per la formazione continua attraverso la promozione di un apprendimento auto-orga-nizzato. Si tratta quindi di una modalità che permette alle organizzazioni di sviluppare propri modelli e metodi per consentire uno sviluppo del personale e dell’organizzazione stessa.

Fondamenti concettuali

Le radici teoriche del modello sistemico fanno riferimento alle teorie dei sistemi sociali (Luhman 1990, Willke 1982),

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al costruttivismo radicale (von Glasersfeld 1995), al model-lo auto poietico (Maturana 1991, Varela 1987), alla ciberne-tica di seconda generazione (Foerester), alla comunicazione delle patologie (Bateson 1997) e alla terapia della famiglia sistemica (Selvini-Palazzoli 1989, Boscolo et al. 1975).

La consulenza sistemica è nata a partire dagli approcci del-la terapia della famiglia degli anni cinquanta, con Virginia Satir e dai modelli sistemici che fanno capo a Gregory Ba-teson, Salvado Minuchin, Paul Watzlawick e Helm Stierlin. Ad essi si aggiungono i contributi indiretti di Jakob Levy Moreno, Fritz Perls e di Carl Rogers, il fondatore della te-rapia centrata sul cliente, oggi punto di riferimento per la conduzione dei colloqui consultivi e terapeutici.

Boos, Heitger, Hummer (2005) descrivono tra le caratte-ristiche della teoria sistemica la soggettività del reale come importante per l’organizzazione della consulenza e dell’ac-compagnamento sistemico: poiché la realtà non è oggettiva, ma frutto di una costruzione del soggetto, anche lo sviluppo delle competenze del personale corrisponde a un processo nel quale la realtà e la conoscenza sono costruite attraverso un lavoro di sistema, che tiene conto primariamente degli accordi sociali e dei modi condivisi di intendere la situazio-ne reale e il futuro dell’organizzazione.

Alla consulenza sistemica si collega strettamente il concetto di coaching sistemico (systemischen Coaching), utilizzato per la prima volta nel contesto tedesco da Peter W. Gester. I fondamenti di questo approccio si rifanno sempre alla te-oria sistemica (in particolare Niklas Luhmann), alla filosofia del costruttivismo radicale (Heinz von Foester, Humberto Maturana e Ernst von Glaserseld) e alla terapia sistemica (steve de Shaezer, Insoo Kim Berg, Kurt Ludewig).

Tra i termini di consulenza e coaching sistemico c’è spesso confusione, soprattutto per quanto riguarda la formazione

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professionale e l’educazione degli adulti, vengono impiegati spesso e volentieri quasi come sinonimi.

Autori maggiormente significativi

A partire dalla teoria sistemica e dall’originaria terapia siste-mica della famiglia sono nati una serie di modelli di consu-lenza e coaching sistemico che si applicano nei più diversi contesti professionali e personali.

Uwe Grau negli anni ‘80 ha sviluppato conJens Möller,Jürgen HargenseJóhann Ingi Gunnarssonil “Kieler Beratungsmo-dell. Questo modello sostiene lo sviluppo mirato dei singoli e dei gruppi attraverso l’ottimizzazione delle loro compe-tenze. L’approccio si orienta alla ricerca di soluzioni e di criteri di valutazione per il raggiungimento di obiettivi con-creti contando sull’individuo, come fondamentale fattore decisionale, sul mutuo aiuto e sulla visione positiva delle possibili soluzioni. Il pensiero orientato agli obiettivi e alle soluzioni si collega all’attenzione alle risorse e alla valoriz-zazione dell’intera organizzazione (Grau, Hargens, 1991).

Il setting del modello Kieler è composto da due consulenti che insieme al cliente costruiscono un circolo di consulta-zione, che con un “meta-dialogo” si scambiano pubblica-mente le idee; ad essi si aggiunge un reflecting-team, che osserva nella stanza il processo consultivo e che quindi commenta. La soluzione procede dal cliente e viene quindi elaborata e sviluppata.

Il modello è orientato alla soluzione piuttosto che al pro-blema, alle competenze piuttosto che ai deficit. Pone par-ticolare attenzione alle relazioni tra le persone; impiega specifiche tecniche domanda-intervento; stimola il ricono-scimento dei successi del cliente; adotta il metodo dell’aiuto all’auto-aiuto.

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Fondamentalmente si basa su quattro elementi:• la cooperazione, come presupposto per individuare le

risorse comuni;• la riflessione, condivisa perché i cambiamenti possano

essere efficaci a tutti i livelli;• l’esternazione in pubblico, per sciogliere i nodi negativi

dell’interazione comunicativa;• il rispettodell’unicità e originalità dell’altro (per ciò che

è e per come è) come fondamento di ogni relazione.

Altri autori importanti sono Eckhard König e Gerda Vol-mer che hanno sviluppato il modello della consulenza siste-mica alle organizzazioni (1998). Secondo questo modello è possibile comprendere un sistema sociale, come un’azienda, un dipartimento o un gruppo, solamente se si conoscono le regole in base alle quali si organizzano i comportamenti del-le persone che sono in questo sistema. Su queste basi, i pro-blemi si considerano fondamentalmente collegati al sistema sociale che li genera e necessitano di cambiamenti: in rela-zione alle singole persone e alle posizioni di ciascuno, circa le regole di comportamento e le considerazioni condivise in merito, rispetto alle strutture di interazione, considerando l’ambiente del sistema e rispetto agli sviluppi futuri e/o alla velocità di tali sviluppi (König, 1998, pag.39).

A Vienna Tom Hansmann ha sviluppato il modello di con-sulenza sistemica orientato alle soluzioni definito come „Wiener T-A-Z-A”. Le lettere sono le iniziali delle quattro fasi del processo ideato dallo studioso:• Thema,o definizione della tematica da parte del cliente

al consulente;• Anliegen, o auspici, visioni positive;• Ziele, o obiettivi dell’attività per le quali si è richiesto

l’intervento del consulente, o smart;• Auftrag, o compito, ovvero le modalità con le quali il

consulente può essere d’aiuto al gruppo.

Ciascuna di queste fasi si sviluppa in una serie di dettagliate

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indicazioni per il consulente, perché guidi il cliente all’indi-viduazione del problema e delle soluzioni.

Un altro modello di consulenza noto nei contesti di lingua tedesca è quello post-sistemico, il cosiddetto MATRIX – Coaching,nel quale al centro dei processi di consulenza si pongono le analisi biografiche. A partire dalle storie di vita, si sviluppano le autoriflessioni e si innesca il processo di interpretazione dei significati per individuare i dati rilevanti della propria esperienza.

Corsi e obiettivi di apprendimento per cui la strategia può essere utilizzata

La consulenza sistemica si realizza non solo nelle organiz-zazioni ma anche nelle aziende sanitarie, nelle scuole ne-gli enti del sistema extra scolastico. Domenico Simeonein particolare ha descritto le caratteristiche della consulenza sistemica nei contesti educativi:• segue la logica educativa del prendersi cura (caring);• opera in situazioni di crisi psico sociale;• si sviluppa in contesto non sanitario;• ha uno spessore educativo nel processo;• è rivolta a persone momentaneamente disorientate o

bloccate da un problema contingente, che crea incer-tezza e incapacità di azione (crisis counseling) e/o tur-bate da naturali dinamiche evolutive (developmental counselling);

• ha obiettivi educativi legati a processi decisionali;• non punta a ristrutturazioni della personalità;• ha un setting tendenzialmente poco strutturato;• ha un numero di incontri limitato;• l’enfasi è posta sulla prevenzione e sul benessere.

Anche in ambito scolastico la necessità di rispondere a problematiche sempre più articolate ha portato alcuni inse-

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gnanti a doversi specializzare sempre di più, ad avere com-petenze via via più complesse non solo sul piano pedagogico e didattico, ma anche su quello relazionale e comunicativo. Sono nate le figure di sistema con competenze nel counse-ling per rispondere ai bisogni di prevenzione, informazione, sostegno e di consulenza dei docenti finalizzate:• alla promozione del benessere psico-fisico della comu-

nità scolastica;• al miglioramento della qualità della vita nella scuola e

nel contesto familiare degli alunni;• all’accrescimento della fiducia e della solidarietà nella

scuola;• allafacilitazione del dialogo e alla costruzione di rappor-

ti positivi tra docenti, alunni e genitori.

La consulenza sistemica e il coaching sistemico hanno come ambiente di applicazione privilegiato le organizzazioni pro-fessionali. Lo spettro d’azione va dalle consultazioni para-terapeutiche ai singoli soggetti che conducono il sistema, al coaching d’impresa e nei servizi, per gruppi e team nei diversi contesti professionali.

Recentemente la cura del benessere sul luogo di lavoro ha ricevuto notevoli attenzioni ed è stata oggetto di numerose ricerche. Gli studi della psicologia del lavoro, ad esempio, hanno messo in evidenza che questa è una modalità effica-ce per promuovere la comunicazione di qualità e diminuire l’insorgere di conflitti relazionali.

Gli interventi di consulenza sistemica si inseriscono in que-sto panorama di studi non solo con l’intento di aiutare i clienti nel riposizionamento professionale, nel prendere de-cisioni gratificanti circa la loro professione e nel risolvere conflitti emotivi inerenti la sfera lavorativa (Brown, 2002), ma soprattutto con l’obiettivo di costruire nuovi e più effi-caci setting professionali all’interno delle organizzazioni .

Le aziende che hanno molto a cuore lo sviluppo delle ri-

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sorse umane hanno iniziato ad investire sulla consulenza sistemica per aiutare i lavoratori in momenti di forte stress ad affrontare situazioni di conflitto con i colleghi, sostenere la crescita lavorativa all’interno dell’organizzazione, aiutare nella fase di innovazione e cambiamento all’interno delle strutture.

Anche nella scuola si riscontra una sempre più diffusa prati-ca della consulenza sistemica. Giá nel 1990 su iniziativa del Ministro della Pubblica Istruzione, che chiese alle scuole di aprire i Centri di Informazione e Consulenza (lo sportel-lo C.I.C.) e di affidarne la gestione agli stessi insegnanti, si sono creati i primi spazi a tale tipo di strategia. Le aree di in-tervento sono due: quella scolastica inerente il rapporto con gli insegnanti, con gli alunni, le difficoltà di apprendimento e l’orientamento; e quella psico-socio-personale relativa al counseling scolastico. Tali interventi di consulenza hanno lo scopo di: • individuare risorse; • gestire i problemi; • cercare soluzioni e strategie adeguate; • fornire suggerimenti volti ad aumentare l’efficacia e l’ef-

ficienza dei processi formativi; • sviluppare la collaborazione scuola-famiglia; • sviluppare una rete sul territorio per potenziare i mo-

menti di confronto e di mutuo aiuto con i servizi socio-sanitari, le agenzie socio-economiche, ricreative, cultu-rali e del privato sociale.

Vantaggi o punti di forza

Le organizzazioni spesso non si riconoscono come sistemi e la consulenza sistemica può aiutarli a riconoscere i rapporti di reciproca influenza che esistono tra gruppi di persone, figure professionali di vario livello, aree di lavoro ecc..

La consulenza sistemica può condurre allo scioglimento di

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problematiche comunicative, di relazione, legate alla gestio-ne del potere ecc. che non consentono né ai singoli né alla struttura d’insieme di stare bene e quindi di progredire.

Questo tipo di intervento dunque ha un carattere sia pre-ventivo, di rinforzo e consapevolizzazione dell’organizza-zione, sia di supporto-intervento in caso della rilevazione di problematiche più o meno specifiche.

Svantaggi o punti di debolezza

La consulenza sistemica è un intervento su richiesta che presuppone la volontà di un’organizzazione o istituzione che sia di mettersi in discussione e di orientarsi a un proces-so di sviluppo che coinvolge tutti i soggetti di cui fa parte.

Perché possa essere efficace, richiede processi trasparenti e partecipativi che siano guidati da una figura di riferimento interna all’organizzazione che faccia da portavoce per l’e-splicitazione dei bisogni e per la definizione del contratto di consulenza.

Nelle istituzioni educative e formative pubbliche, come ad esempio la scuola, ciò non sembra sempre possibile. La collegialità non è sempre sinonimo di visioni unitarie e condivise, gli obiettivi di sviluppo spesso sono determinati dall’alto, e non solo dalle figure direttive interne ma da indi-cazioni di politica scolastica dettate dal Ministero.

I processi consultivi dovrebbero dunque tenere conto di una serie di fattori socio-politici che influenzano a priori questi sistemi organizzativi.

In generali le organizzazioni possono beneficiare di questo approccio se hanno di per sé una struttura compatta o co-munque una figura direttiva all’interno che ha assunto una leadership legittimata e che si assume la responsabilità del

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processo di cambiamento e di sviluppo del gruppo dei col-laboratori.

Indicazioni operative

La visione sistemica è stata impiegata innanzitutto in am-bito terapeutico. Steve de Shazer ha trasposto i metodi si-stemici alla consulenza e ha sviluppato insieme alla moglie, Inss Kim Ber, il modello della “Lösungsorientierten Kurz-zeittherapie” ovvero modello della terapia breve orientata alla risoluzione dei problemi (de Shazer 2005). Secondo questo approccio non si discute il problema e la sua nascita, ma piuttosto le possibili risposte che gli si possono dare. Le domande chiave di questo processo sono: in quali situazio-ni il problema non è emerso? Cosa è quindi diverso? Cosa può fare il cliente perché il problema emerga con minor fre-quenza? Su questa base il cliente va alla ricerca e individua le proprie vie per rispondere alla situazione difficile.

La consulenza sistemica avviene generalmente da parte di una figura esterna che può di volta in volta avere le seguenti caratteristiche:• figura di intervento: tematizza i problemi e i punti di

debolezza in modo tale da restituirli per la discussione ed elaborazione ai dipendenti e ai dirigenti. In questo ruolo ha il compito di operare un cambio di prospettiva circa i punti caldi sui quali c’è spesso tensione offrendo elementi di provocazione;

• esperto: si occupa di trasmettere non solo know how, ma di stimolare processi di discussione e di riflessione per un’attivitá orientata alla ricerca di risorse e soluzioni;

• figura specchio: ha il compito di dare feedback su quan-to accade nell’organizzazione, su ciò che è stato appreso e sulle azioni e su ciò che non è stato consapevolizzato;

• moderatore neutrale: sostiene le discussioni e la ricerca di soluzioni durante gli incontri e nelle fasi progettuali;

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• coach: sostiene in particolare le figure direttive nel processo di sviluppo della collaborazione all’interno dell’organizzazione, finalizzata al raggiungimento degli obiettivi;

• partner: opera in modo cooperativo nel processo di svi-luppo dei progetti di autoapprendimento.

Le strategie impiegate vanno dai questionari anonimi, alle interviste, e alle osservazioni per la raccolta dati sullo status quo dell’organizzazione.

Proseguono con attività mirate finalizzate alla discussione su quanto emerso a partire dalle quali si strutturano percor-si ad hoc per lo sviluppo di progetto di formazione interni finalizzati allo sviluppo dell’organizzazione.

La consulenza sistemica si occupa di rispondere a domande riguardanti specifici contesti professionali e ha l’obiettivo di risolvere un problema attraverso una conversazione co-struttiva o costruttivista (Tomaschek 2003). Si tratta dun-que di una consulenza sui processi orientata alla ricerca di risorse e di soluzioni: il cliente è l’esperto dei suoi proble-mi e delle risposte da individuare. Il consulente lo sostiene nell’individuare le soluzioni più adeguate senza offrire ri-sposte preconfezionate.

Questo processo avviene attraverso diverse modalità di in-tervento (generalmente attraverso tecniche basate sulla do-manda, le metafore, l’esternalizazione, lo scioglimento del pensiero, il tetralemma ecc.) che sono orientate all’obiettivo e tese ad elaborare insieme al cliente criteri di raggiungi-mento degli obiettivi valutabili.

Il cliente analizza il suo “contributo” e le sue potenziali-tà nel processo di interazione. Quindi sviluppa alterna-tive rispetto al comportamento problematico o rispetto al suo punto di vista (modello orientato alle soluzioni e

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alle risorse).

I cambiamenti si misurano rispetto a questi due aspetti e per rilevarli sono d’aiuto le “domande circolari” che con-ducono il cliente a rispondere e a riflettere sulla situazione in un’altra prospettiva o attraverso le cosiddette “domande miracolose”, dove si descrivono le possibili/auspicate solu-zioni e si analizzano i fattori necessari a una loro realizzazio-ne. Da questa presa di coscienza il cliente può pianificare il suo (nuovo) comportamento e /o cambia posizione (la sua costruzione) rispetto al problema.

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seconda ParteI modelli concettuali

konzepte

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ambIente dI aPPrendImentoGiovanni Marconato

Finalità

La metafora “ambiente di apprendimento” viene usata in contrapposizione alla metafora “corso” per designare un contesto di insegnamento e di apprendimento che è svi-luppato sulla base dell’epistemologia costruttivista, anche se non di rado questa espressione viene utilizzata come si-nonimo alla moda di “corso”, smarrendo il suo significato originario e la sua potenza concettuale e di guida.

Ognuno di noi vive in un proprio ambiente (fisico, geografi-co, culturale, sociale ) e cerca di dare ad esso un significato personale esplorandolo nei sui molteplici aspetti, nelle sue numerose risorse, nelle relazioni tra di esse, con lo scopo di correlarsi efficacemente con esso, di sodisfare i propri bisogni, in poche parole, di padroneggiarlo. Utilizzare la metafora “ambiente” per designare un contesto in cui l’ap-prendimento viene attivato, supportato e costruito significa voler creare un contesto in cui ciascuno sia in grado di attri-buire al dominio di conoscenza in questione un significato (che non può essere che personale anche se socialmente e culturalmente mediato) e sia messo nelle condizioni di uti-lizzare quella conoscenza.

La condizione prima perché sia possibile generare questo apprendimento è che l’ambiente sia ricco di risorse e che a ciascuna persona che è impegnata in compiti di appren-dimento sia data la possibilità di attraversare lo stesso in modo non vincolato da una strutturazione didattica rigida. Un contesto improntato, invece, alla metafora “corso” è di tipo minimalista (risorse limitate) ed il percorso è fortemen-te vincolato dalla pianificazione didattica. Un ambiente di apprendimento, diversamente dall’ambiente fisico che ci

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circonda dove spesso si è liberi anche di farsi del male, pre-senta un supporto didattico dosato, con funzione anche di stimolo e con compiti di apprendimento organizzati perché possano essere accessibili e realizzabili da chi apprende.

Un ambiente d’apprendimento è, quindi, un luogo o uno spazio dove l’apprendimento ha luogo ed è composto dal soggetto che apprende e da un “luogo” dove chi apprende agisce, usa strumenti, raccoglie ed interpreta informazioni, interagisce con altre persone (Wilson, 1996).

Il concetto di “ambiente di apprendimento” nasce nell’am-bito del costruttivismo e ne rappresenta la traduzione ope-rativa ovvero, lo sviluppo didattico.

Di “ambienti di apprendimento” (learner centred o pro-blem solving oriented) ne sono stati concepiti e sviluppati numerosi6 che si differenziano per la focalizzazione concet-tuale (ad esempio, alcuni rendono operativa a “flessibilità cognitiva”, altri l’”apprendimento situato”) ma che condi-vidono lo stesso insieme di riferimenti epistemologici: l’ap-prendimento non è un processo trasmissivo ma una pratica intenzionale, premeditata, attiva, cosciente, costruttiva che comprende reciproche attività di azione e riflessione; l’ap-prendimento è un processo attivo e l’azione è integrazioni di percezione e pensiero cosciente (Jonassen e Land, 2012).La metafora del “corso” ci descrive un sistema statico di

6 Nella prima edizione di Theoretical Foundations of Learning Envi-ronments (Jonassen and Land, 2000) descrivono ambienti di appren-dimento centrati sullo studente. Nella seconda edizione (Jonassen e Land 2012) viene dato conto degli sviluppi di questo ultimo decen-nio in cui sono state elaborato numerose altre prospettive costruttivi-ste e situate dell’apprendimento. Infatti, in questa seconda edizione viene fornita una visione aggiornata dei fondamenti teoretici che ora comprendono la metacognizione, il model-based reasoning, il cam-biamento concettuale, l’argomentazione, la cognizione incorporata (embodied cognition), le comunità di apprendimento, le comunità di pratica.

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(scarse) risorse messe a disposizione di coloro che appren-dono: uno o più docenti, dei materiali didattici, un program-ma ben definito. E’ un sistema strutturato attorno ai prin-cipi di apprendimento della disciplina e predeterminato in sede di progettazione con poche possibilità di cambiamento se le condizioni reali in cui si svilupperà l’azione formativa saranno differenti da quelle ipotizzate dai progettisti.

La metafora dell’ “ambiente d’apprendimento” rappresen-ta un sistema dinamico, aperto, forse caotico, in cui le per-sone che apprendono hanno la possibilità di vivere una vera e propria “esperienza di apprendimento”. Un “ambiente” è ricco e ridondante di risorse in modo da poter essere funzionale alle differenti situazioni reali in cui si sviluppe-rà il processo formativo. Gli “obiettivi d’apprendimento” rappresentano più la direzione del percorso che la meta da raggiungere. I “contenuti” non sono pre-strutturati e sono presentati da una pluralità di prospettive; non tutti devono essere appresi ma rappresentano una “banca dati” cui attin-gere al bisogno.

Descrizione

Organizzare contesti di insegnamento e di apprendimento improntati alla logica degli ambienti di apprendimento si-gnifica ritenere che la conoscenza si “costruisce” e non si “trasmette” e significa, tra l’altro, che (adattato da: Jonassen et al. 1999 pag. 2-6):• la costruzione di conoscenza avviene attraverso l’atti-

vità: così la conoscenza è “inserita” nell’attività stessa;• la conoscenza è ancorata nel contesto in cui le attività si

sviluppano ed è da questo indirizzata;• il significato si sviluppa ed è presente nella mente di chi

conosce e nelle sue relazioni con il contesto;• una realtà è approcciabile da una molteplicità di pro-

spettive;

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• la costruzione di significato è indotta da un problema, da una domanda, da un pensiero confuso, da un disac-cordo, da una dissonanza e, per questo, richiede lo svi-luppo della padronanza di quel problema;

• la costruzione di conoscenza richiede articolazione, espressione e rappresentazione di cosa si sta appren-dendo, del significato che si sta costruendo;

• la costruzione di significato deve essere condivisa con altri: la costruzione di significato è determinata dalla conversazione.

Un contesto di insegnamento e di apprendimento sviluppa-to coerentemente con queste implicazioni non può essere strutturato rigidamente nel suo modo di essere utilizzato e nelle risorse disponibili.

La natura così complessa del processo di costruzione di co-noscenza (apprendimento) richiede che la persona che si impegna in una esperienza di apprendimento abbia la pos-sibilità di agire in un contesto altrettanto complesso fatto di una ricca varietà di opportunità, di stimoli, di risorse. Infat-ti un ambiente di apprendimento non ha la configurazione (anche materiale) di un “corso”, ma di un insieme di risorse che supportano il compito di apprendimento, “ un luogo dove le persone possono lavorare assieme e supportarsi l’un l’altro mentre usano una varietà di strumenti e di risorse informative nel loro compito di conseguire gli obiettivi di apprendimento e di risolvere problemi” (Wilson, 1996).

Secondo Perkins (1991), un “ambiente di apprendimento” è un luogo dove agli allievi viene data la possibilità di:• determinare i propri obiettivi di apprendimento;• scegliere le attività da svolgere;• accedere a risorse informative ed a strumenti;• è possibile lavorare con supporto e guida.

In questa prospettiva progettare l’insegnamento significa

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creare le condizioni per poter fare esperienze di apprendi-mento.

Chi apprende in un “ambiente d’apprendimento” autentico è impegnato a svolgere una molteplicità di attività differenti con lo scopo di perseguire molteplici obiettivi di appren-dimento; qui il formatore è chiamato a svolgere il ruolo di allenatore (coach) e di facilitatore (Perkins,1991).

In questo contesto, l’apprendimento è sostenuto, ma non controllato e diretto; un “ambiente d’apprendimento” è, così, un luogo dove l’apprendimento è stimolato e suppor-tato (Wilson, 1996).

Un “ambiente di apprendimento” è, quindi, un luogo (vir-tuale o materiale) dove viene data la possibilità agli allievi di determinare i propri obiettivi di apprendimento, di sceglie-re le attività da svolgere, dove viene dato accesso a risorse informative (libri, courseware, video ) ed a strumenti (word processor, e-mail, motori di ricerca, ecc), dove è possibile lavorare con supporto e guida.

La natura di un “ambiente d’apprendimento” implica che, inizialmente, lo stesso non venga completamente definito ed impacchettato: se l’allievo deve godere di una certa liber-tà di scelta, un certo livello di incertezza e di non-controllo deve essere messo nel conto. Infatti, chi apprende è la per-sona migliore a decidere cosa è significativo per lui. Avere un ambiente di apprendimento libero da costrizioni di tempo e di spazio è fondamentale per costruire e condividere cono-scenza. (Conceição-Rumble, S., Daley B., J., 1998, pag 3).

Perché un simile contesto non sia caotico (anche se tale potrebbe apparire all’esterno ed a chi studia), è necessario che chi governa il processo sia continuamente presente alle dinamiche, come in un perenne stato di allerta. Un “am-biente d’apprendimento” aperto potrebbe corre seriamente

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il rischio di precipitare nel caos ed implodere, se non è ben progettato e supportato.

Ambienti d’apprendimento adeguatamente concettualizzati e realizzati facilitano il conseguimento di conoscenze avan-zate che supportano performance complesse (Jonassen, D.H. 1995).

Compito di un progettista di “ambienti d’apprendimento” dovrebbe essere quello di creare le condizioni per attivare e supportare un ciclo di attività cognitive che iniziano con la raccolta, registrazione e analisi di dati, proseguono con la formulazione e testing di ipotesi nonché riflessione sui propri livelli di comprensione e di apprendimento, per concludersi con la costruzione di senso personale delle informazioni con le quali si viene a contatto che è la dimostrazione dell’aver conseguito un apprendimento autentico (Crotty 1994).

Ambiti di applicazione

Un contesto di insegnamento e di apprendimento svilup-pato in forma di ambiente di apprendimento può assumere differenti forme, alcune molto ben concettualizzate, svilup-pate e baste sulla ricerca (anchored instruction, cognitive flexibility hypertexts, goal-based scenarios, causally mo-deled diagnostic cases e vedi Jonassen e Land 2012) che possono rappresentare prototipi sulla base dei quali avviare ulteriori applicazioni.

Alcune di queste tipologie sono descritte nelle schede “am-bienti di apprendimento orientati al problem solving “, “Ask System” e “Ipertesti per la flessibilità cognitiva”.

Applicazioni sviluppate in Italia sono presenti tra gli esempi nelle schede dedicate agli Ask System ed agli Ipertesti per la flessibilità cognitiva.

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Oltre a queste tipologie che potremo definire “formalizza-te”, è possibile attivare anche ambienti di apprendimento che potremo chiamare di tipo “empirico”, ambienti, cioè, che prendono le mosse dai principi generali qui enunciati e li rendano operativi nel contesto in cui si rende necessario attivare un’opportunità di apprendimento tanto in presenza che a distanza; tanto nei sistemi di istruzione che di forma-zione inziale e continua.

Costruire e gestire ambienti d’apprendimento è qualco-sa di più mettere a disposizione informazioni (Conceição-Rumble, Daley, 1998): infatti l’informazione non è cono-scenza (D. Merril, 1992).

Un ambiente d’apprendimento è costituito da un insieme di risorse materiali ed immateriali che consentono lo svol-gimento delle attività d’insegnamento e di apprendimento funzionali al conseguimento, nel contesto reale, della finali-tà dell’azione. Queste attività sono svolte all’interno di clas-si o “comunità” (anche virtuali, ovvero on-line) di appren-dimento e l’apprendimento che in esse si sviluppa è basato sulla collaborazione tra i membri della comunità.

Un “ambiente di apprendimento” è caratterizzato dalla ric-chezza e dalla differenziazione di risorse in modo che tutti i membri di quella comunità possano identificare modali-tà operative loro congeniali, punti di vista differenti con cui misurarsi e che sfidano le conoscenze presenti nella propria struttura cognitiva, contenuti che attivano il pensiero per con-seguire rappresentazioni più evolute di quella conoscenza.

Quando parliamo di “istruzione/formazione” ci riferiamo ad un contesto in cui l’apprendimento è intenzionalmente sostenuto attraverso “strategie di apprendimento”.

Un contesto definibile di “istruzione/formazione” si dif-ferenzia da uno definibile di “informazione” proprio per

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la presenza dell’intenzionalità pedagogica che si estrinse-ca, anche, nell’intervento dei tecnici dell’insegnamento e dell’apprendimento (nessuno nega il potere formativo di un buon libro, ma è difficile sostenere che una biblioteca o una libreria siano assimilabili ad una scuola o ad un centro di formazione).

In un contesto formativo, l’informazione si trasforma in conoscenza con il supporto facilitante di una istituzione educativa; in un contesto informativo lo stesso processo di trasformazione è lasciato nelle mani della persona che apprende. E’ facilmente intuibile come nelle due situazioni indicate il grado di difficoltà che incontra una persona per costruire conoscenza, può variare significativamente.

Riferendoci, quindi, a contesti in cui il processo di appren-dimento è facilitato formalmente, nell’online education, come nell’istruzione in presenza, un ruolo centrale viene giocato da quelli che potremo denominare “insegnanti” se non rischiassimo di veicolare un’immagine convenzionale e riduttiva della figura incaricata di governare il delicato pro-cesso di insegnamento e di apprendimento.

Se la conoscenza non si trasmette ma si costruisce, se con-cettualizziamo il processo come “costruzione guidata” (l’apprendimento è attivo, individuale, autoregolato, cumu-lativo e orientato ad un risultato - Goodyear P, 2001), se il centro motore dell’apprendimento è rappresentato dalle at-tività svolte dalle persone che apprendono, se, nella sostan-za, affermiamo la centralità del soggetto che apprende, non depotenziamo in alcun modo il ruolo dell’ “insegnante” e dei contenuti delle diverse “materie”, ma ne proiettiamo la finalità e le modalità operative in un nuovo universo.

L’insegnante da “esperto della disciplina” diventa “esperto dell’apprendimento”; da organizzatore e trasmettitore di informazioni a facilitatore dell’apprendimento.

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Questa formulazione, tanto usata quanto (soprattutto) abu-sata, trova la sua (obbligata) concretizzazione in ambienti d’apprendimento, anche facilitati dalle tecnologie, che de-vono perseguire la finalità di promuovere lo sviluppo di ap-prendimenti significativi per la persona che apprende.

autorI pIù sIGnIfIcatIvI e rIferImentI bIblIoGrafIcI

Il concetto di “ambiente di apprendimento” compare in letteratura all’i-nizio degli anni ’90 nell’ambito dell’epistemologia costruttivista. Molti autori contemporanei riconosco, comunque, un debito al pensiero di John Dewey,ovvero al pragmatismo Dewejiano.

Possiamo citare come autorevoli referenti, ad esempio, il Cognition and Technology Group at Vanderbilt University con l’Anchored Instruction ed i Generative Learning Environments; Rogers Shank con gli ask sy-stems ed i goal-based scenarios; Randy Spiro con gli ipertesti per la fles-sibilità cognitive e David Jonassen con gli ambienti di apprendimento orientati al problem solving.

Ottimi saggi sulla tematica degli ambienti di apprendimento sono quelli ci-tati di seguito in bibliografia, Jonassen e Land ,2000 e 2012, e Wilson 1996.

Cognition and Technology group at Vanderbilt University (1992), Tech-nology and the design of generative learning environment. In Duffy, T. M, e Jonassen, D. H. (1992).

Cognition and Technology group at Vanderbilt University; Jasper Wood-bury Series. Web: http://jasper.vueinnovations.com/adventures-of-ja-sper-woodbury

Conceição-Rumble, S., Daley B., J., (1998) Constructivist Learning Theory to Web-based Course Design: an Instructional Design Approac. Paper presentato alla 17th Annual Midwest Research-to-Practice Con-ference in Adult, Continuing & Community Education. Web www.bsu.edu/teachers/departments/edld/conf/constructionism.html

Crotty, T. (1994). Citato da Maggie McVay Lynch (1998), Integrating distance learning activities to enhance teacher education toward the constructivist paradigm of teaching and learning. In Distance Learning Research Conference Proceedings, 31-37. College Station, TX: Depart-ment of Education and Human Resource Development, Texas A&M University.

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Jonassen, D. H, Land, S.M. (eds), 2000, Theoretical Foundations of Learning Environment. New Jersey: Lawrence Erlbaum Associates.

Jonassen, D. H, Land, S.M. (eds), 2012, Theoretical Foundations of Learning Environment. New York, Routlegde

Jonassen, D.H, Peck K.L.; Wilson G.B. (1999). Learning with technol-ogy. A constructivist perspective. Merril

Jonassen, D.H. (1995) Operationalizing mental models: Strategies for assessing mental models to support meaningful learning and design sup-portive learning environments. Paper presentato alla conferenza Com-puter Support for Collaborative Learning 95, Indiana University Bloom-ington, In www.ittheory.com/jonassen2.htm

Goodyear P. (2001). Effective networked learning in higher educations: notes and guidelines. Rapporto JISC-CAL. Web http://csalt.lancs.ac.uk/jisc/guidelines_final.doc

Merril. D. (1992) Constructivism and Instructional Design. In: Duffy T.M, Jonassen. D.H, (1992) Constructivism and the technology of in-struction. A conversation. New Jersey: Lawrence Erlbaum Associates

Perkins, D. N. (1991). Technology meets constructivism: Do they make a marriage? Educational Technology, 18-23 (presente anche in Duffy, T.M, Jonassen, D.H, (eds) (1992).

Schank, R.C, Cleary C. (1995) Engines for education, New Jersey: Law-rence Erlbaum Associates.

Spiro J. R et al (1992), Cognitive flexibility, Construcivism,and hyper-text: random access instruction for advanced knowledge acquisition in ill-structured domains, in Duffy, T.M e Jonassen, D. H, 1992

Wilson G.B. (Ed.),(1996) Constructivist learning environments: Case studies in instructional design. Englewood Cliffs NJ: Educational Tech-nology Publications. Sintesi in http://www.cudenver.edu/~bwilson

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aPPrendImento sIgnIFIcatIvoGiovanni Bonaiuti

Finalità

L’apprendimento significativo è quel tipo di apprendimen-to che consente di dare un senso alle conoscenze, permet-tendo l’integrazione delle nuove informazioni con quelle già possedute e l’utilizzo delle stesse in contesti e situazioni differenti, sviluppando la capacità di problem solving, di pensiero critico, di metariflessione e trasformando le co-noscenze in vere e proprie competenze. Il concetto di ap-prendimento significativo nasce all’interno del paradigma costruttivista della conoscenza e si sviluppa in molteplici correnti teoretiche, tra cui il costruttivismo socio-culturale. Il costruttivismo, come noto, immagina che la conoscenza sia il frutto di un processo di costruzione di significato da parte del soggetto, che definisce e rielabora interagendo con gli altri in un contesto, i propri saperi. Gli autori che si sono occupati di definire l’apprendimento significativo, in particolare, hanno sottolineato come sia necessario, al fine di dare significatività all’apprendimento, rendere il sogget-to che apprende, oltre che autonomo, anche consapevole dei propri processi conoscitivi. In questo senso, il costrut-tivismo eredita e valorizza strumenti (si pensi alle “mappe concettuali”) e costrutti teorici (si pensi all’idea di “metaco-gnizione”) messi a punto all’interno del cognitivismo. L’ap-prendimento significativo è diametralmente opposto all’ap-prendimento meccanico che utilizza la memorizzazione per produrre conoscenza “inerte”, ovvero incapace di essere integrata, vissuta ed utilizzata. In linea con gli assunti del costruttivismo, per avere un apprendimento significativo è necessario che la conoscenza:• sia il prodotto di una costruzione attiva da parte del

soggetto;

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• sia strettamente collegata alla situazione concreta in cui avviene l’apprendimento;

• nasca dalla collaborazione sociale e dalla comunicazio-ne interpersonale.

Un apprendimento è significativo quando ha determinato lo sviluppo di modelli mentali elastici capaci di favorire l’u-so, il riuso e la negoziazione con gli altri, in modi e conte-sti diversi, delle conoscenze sia all’interno che al di fuori del contesto specifico in cui queste sono state maturate. La caratteristica dell’apprendimento significativo non è tanto l’acquisizione completa ed esatta di contenuti predetermi-nati e stabili (interiorizzazione di concetti vuoti), bensì allo sviluppo di quella capacità e flessibilità cognitiva necessarie alla risoluzione di ampie classi di problemi conoscitivi.

L’apprendimento significativo produce lo sviluppo di com-petenze di “ordine superiore” quali la capacità di individua-re e risolvere problemi, di osservare ed operare con spirito critico, di agire in maniera riflessiva, di adattarsi a contesti mutevoli, di imparare a migliorarsi.

Descrizione

La domanda che ogni docente si pone: come posso rendere significativo ciò che mi trovo ad insegnare?, che può ave-re come corollari interrogativi quali: come mai, nonostante tutti i miei sforzi, non riesco ad interessare gli studenti? Da cosa dipende il fatto che ragazzi vitali, indubbiamente ca-paci di imparare in fretta ciò che a loro interessa (come, ad esempio, utilizzare un nuovo videogame), non sembra possibile interessarli alle cose della scuola?

Le risposte che i diversi autori hanno dato alla questione sono, in parte, differenti anche se ci sono molti punti in comune. In generale tutti concordano nel riconoscere una

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distinzione tra apprendimento meccanico, ovvero quello basato sulla acquisizione passiva delle conoscenze (solita-mente attraverso la memorizzazione di nozioni) da quello significativo che è, invece, capace di mobilitare interessi vi-tali nel soggetto portandolo quindi alla modifica profonda della sua esperienza personale. Carl Rogers pone al centro dell’apprendimento significativo la motivazione ad appren-dere e l’esigenza che l’insegnante riconsideri il proprio ruolo preoccupandosi di facilitare l’apprendimento attraverso il coinvolgimento e la motivazione dell’alunno; “è necessario” infatti “che lo studente venga posto di fronte a un problema da lui sentito come reale” (Rogers, 2000). David Ausubel ha sviluppato il concetto di apprendimento significativo spo-stando l’attenzione dai metodi (che, a seconda degli obiettivi possono anche essere diversi) alle condizioni che rendono possibile o ostacolano l’apprendimento. Per Ausbel è deter-minante l’esistenza di adeguate “preconoscenze” al fine di consentire una strutturazione efficace delle nuove conoscen-ze (Ausubel, 1995). Novak, elaborando le idee di Ausbel, sottolinea l’importanza di non distinguere tanto tra metodo-logie didattiche attive (come la scoperta guidata) da quelle passive (quali l’insegnamento ex-cathedra), individuando sia nel primo che nel secondo caso il rischio di apprendimenti meccanici o casuali (si pensi allo studente che arriva a ri-solvere un problema lavorando solo per tentativi). Ausbel suggerisce, piuttosto, l’impiego di tecniche (come le mappe concettuali) per favorire la riflessione da parte degli studenti e quindi l’apprendimento significativo (Novak, 2001).

Il contributo di David Jonassen al concetto di apprendimen-to significativo, prevede il riconoscimento dell’importanza di una pluralità di fattori - contestuali, sociali, metodologi-ci e strumentali - che assieme consentono agli individui di dare senso a ciò che apprendono.

In particolare è possibile definire l’apprendimento signifi-cativo come un processo caratterizzato da cinque diversi

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attributi: è attivo, costruttivo, cooperativo, autentico, inten-zionale (Jonassen et Al., 2007).

Caratteristiche dell’apprendimento significativo

Seguendo la prospettiva delineata da Jonassen (2007), per chi apprende è necessario comprendere il senso dello sforzo investito nel completamento di un compito o di una attività. In questo senso è soprattutto la natura del compito che vie-ne posto agli studenti a determinare il risultato.

Gli studenti, per imparare in modo significativo, devono essere impegnati volontariamente in un compito significati-vo. Le caratteristiche di un compito significativo richiedono che questo sia attivo, costruttivo, intenzionale, autentico e cooperativo (vedi figura).

È attivoperché prevede un impegno soggettivo, anche con-creto, tale da consentire al soggetto di sperimentare gli ef-fetti delle sue azioni sugli oggetti presenti in un ambiente o, comunque, tale da vedere un coinvolgimento pieno dell’in-dividuo. L’apprendimento è un processo naturale. Gli esseri umani di tutte le età, senza l’intervento di istruzione forma-le, sviluppano quotidianamente conoscenze e competenze sofisticate sul mondo intorno a loro. Il concetto deweyano

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del “learning by doing” ricorda che gli esseri umani appren-dono spontaneamente interagiscono con il loro ambiente, manipolano gli oggetti, osservando gli effetti dei loro inter-venti e costruendo le loro interpretazioni dei fenomeni e dei risultati delle loro manipolazioni. Le condizioni per un apprendimento significativo sono quelle che vedono gli stu-denti impegnati attivamente in un compito in cui, ad esem-pio, si manipolano cose - siano questi oggetti fisici o i para-metri di un software - e, alla fine, si osservano e si riflette sui risultati delle manipolazioni.

È costruttivoperché richiede di articolare cosa è stato fatto e di riflettere sulle attività e sulle osservazioni. L’attività è con-dizione necessaria, ma non sufficiente per l’apprendimento significativo. Essenziale è il fatto che gli studenti riflettano in maniera compiuta sulle proprie attività. È dal processo di riflessione che si costruiscono significati. Le nuove espe-rienze possono causare una discrepanza tra ciò che i discenti osservano e ciò che essi comprendono. Questo, per Jonas-sen, è il momento di inizio dell’apprendimento significati-vo. Creare le condizioni per questa dissonanza che rende perplessi e stimola la curiosità. È riflettendo sull’esperienza che causa disorientamento che i discenti possono andare avanti, integrando le nuove esperienze con le loro preceden-ti conoscenza sul mondo. Secondo Piaget, l’apprendimento umano è costantemente caratterizzato dalla costruzione di nuovi schemi mentali. L’assimilazione e l’accomodamento, secondo lo psicopedagogista svizzero, sono i due principali processi che caratterizzano l’apprendimento ed è soprattut-to l’accomodamento a richiedere la modifica della struttura cognitiva (o dello schema comportamentale) a seguito di una esperienza caratterizzata da elementi fino ad allora ignoti. Se l’assimilazione rappresenta il processo mediante il quale una nuova conoscenza viene a collocarsi nella struttura menta-le ampliandola ed arricchendola, l’accomodamento richie-de una qualche ristrutturazione dal momento che la nuova esperienza stimola l’individuo ad adattarsi a nuove esigenze.

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Se guardiamo dunque al processo di apprendimento come ad un processo di costruzione attiva di conoscenze è necessa-rio valorizzare soprattutto il momento della “scoperta” che discende dalla manipolazione e dall’osservazione diretta.

È cooperativo, ovvero prevede una dimensione conversa-zionale e collaborativa: la comprensione si ottiene attraverso il confronto con gli altri e i saperi sono sempre un processo di negoziazione sociale). Gli esseri umani naturalmente vi-vono, lavorano e cambiano insieme. L’apprendimento è, per certi versi, un continuo processo di costruzione reciproca di conoscenze. Quotidianamente le persone interagiscono con gli altri, aiutano e sono aiutate, approvano e dissentono, sfi-dano e sono sfidate, condividono come pure si appropriano delle conoscenze altrui. Sono ormai diversi gli studiosi che si sono occupati di metodi di insegnamento capaci di va-lorizzare l’apprendimento cooperativo (Johnson, Johnson, 1989; Slavin, 1987; Sharon e Sharon, 1997; Kagan, 1990; Camoglio, Cardoso, 1996). Tuttavia, nonostante pratiche di lavoro collaborativo e cooperativo siano entrate in molte scuole, non è ancora del tutto accettata l’idea che la dimen-sione cooperativa possa rappresentare qualcosa di più di un espediente a cui ricorrere estemporaneamente, magari con l’intento di far fare un po’ di pratica. Se ciò è vero per l’insegnamento, dove molti insegnanti continuano a confi-dare soprattutto sui metodi tradizionali come la lezione, a maggior ragione ciò accade per la valutazione dell’appren-dimento che resta, inesorabilmente, di tipo individuale. Il problema, come suggerisce Jonassen, è che se non si intro-duce anche una valutazione di gruppo, piuttosto che indivi-duale, l’attività collaborativa è destinata a fallire perché gli studenti sono i primi a comprendere che l’attività di gruppo non è abbastanza importante per l’insegnante. Quando in-vece gli studenti diventano parte di una comunità finalizza-ta alla costruzione di conoscenza (sia in classe che al di fuori della scuola), del tutto legittimata da parte degli insegnanti, di verifica il completo recupero del modo più naturale di

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apprendere: farlo assieme agli altri, nell’interazione con le sfide poste dai problemi della vita.

Èautenticoperché, come le cose del mondo reale, è caratte-rizzato da complessità ed è fortemente contestualizzato. La maggior parte di ciò che si insegna nelle scuole fa perno su principi generali o teorie che possono essere usati per spie-gare i fenomeni di cui facciamo esperienza. Questo proces-so di astrazione viene fatto per rendere il più possibile gene-rale e trasferibile il sapere. Purtroppo, come conseguenza, si ha la rimozione dei riferimenti concreti, ai contesi reali, da cui quei principi derivano e in cui diventano significativi. I corsi di fisica sono un esempio lampante. Gli insegnanti possono anche partire dalla presentazione di un problema esemplificativo, ma subito dopo si passa a rappresentarlo in maniera astratta e a chiedere di risolverlo attraverso formu-le. Anche nel caso in cui gli studenti imparino a risolvere problemi di questo tipo perdono il contatto con il senso di ciò che stanno imparando. L’apprendimento non è signi-ficativo se gli studenti imparano a risolvere algoritmi al di fuori di ogni contesto, perché così non avranno mai idea di come mettere in relazione le idee ai casi reali che potranno incontrare nel mondo reale. L’apprendimento della fisica dovrebbe avvenire nel mondo a partire dall’osservazione dei processi fisici nei contesti di tutti i giorni. Gran parte della ricerca contemporanea sull’apprendimento ha dimo-strato che i compiti di apprendimento che sono connessi a compiti significativi nel mondo reale (o virtuale) non solo sono meglio compresi e ricordati, ma anche più facilmente trasferiti alle nuove situazioni. Piuttosto che insegnare re-gole da memorizzare e applicare a problemi fittizi, è pre-feribile lavorare sui problemi della vita reale a partire dal coinvolgimento pratico degli studenti nei contesti concreti.

È intenzionaleperché è diretto ad un obiettivo, e quin-di capace di autogiustificare l’impegno con uno scopo da raggiungere e perseguire (goal-directed).Dal momento che

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tutto ciò che facciamo nasce per soddisfare bisogni (che siano quelli primari come dissetarsi o più complessi come migliorare il proprio status sociale) è utile recuperare que-sto principio antropologico. Gli studenti ottengono infatti risultati migliori quando si attivamente volontariamente per raggiungere un obiettivo cognitivo (Scardamalia & Bereiter, 1994). Pensano e apprendono di più, perché sono coinvolti in un processo che li coinvolge profondamente. Il rendere i problemi interessanti al punto da sollecitare gli studenti a farsene carico è, probabilmente, il compito più difficile per un insegnante. In questo, come nelle altre cinque dimensio-ni, possono avere un ruolo le tecnologie.

In estrema sintesi, secondo Jonassen, per innescare proces-si di apprendimento significativo è necessario che gli inse-gnanti provvedano all’allestimento di ambienti di apprendi-mento caratterizzati dalla capacità di:• dare enfasi alla costruzione della conoscenza e non alla

sua riproduzione;• presentare compiti autentici (contestualizzare piuttosto

che astrarre);• evitare eccessive semplificazioni nel rappresentare la

complessità delle situazioni reali;• offrire ambienti di apprendimento derivati dal mondo

reale, basati su casi, piuttosto che sequenze istruttive predeterminate;

• offrire rappresentazioni multiple della realtà;• favorire la riflessione e il ragionamento;• permettere costruzioni di conoscenze dipendenti dal

contesto e dal contenuto;• favorire la costruzione della conoscenza, attraverso la

collaborazione con altri.

Le tecnologie possono essere felicemente impiegate come strumenti determinanti di questo “setting” dal momento che possono facilitare, sostenere e promuovere sia la com-prensione che l’apprendimento. Le tecnologie, in questa

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prospettiva, devono cioè diventare degli strumenti per pen-sare (mindtools).

Il ruolo delle tecnologie

Nella storia dell’utilizzo delle tecnologie nell’educazione ha prevalso l’idea che queste, similmente agli insegnanti, doves-sero essere utilizzate per trasferire ai discenti le conoscenze.

La ricerca si è per lungo tempo interrogata sul modo mi-gliore per proporre i contenuti. La multimedialità e l’inte-rattività hanno finito per nascondere quello che di fatto era lo stesso paradigma: fornire stimoli suggestivi affinché lo studente potesse capire dalle spiegazioni e memorizzare.

Per rendere le tecnologie educative strumenti per l’appren-dimento significativo è necessario operare un cambio di pa-radigma: non più macchine da cui apprendere (learn from), ma tecnologie con cui apprendere (learn with). Gli studenti imparano, come abbiamo visto, quando sono “sfidati” da una attività che non è solo interessante, ma anche capace di farli pensare autonomamente o in gruppo. Le tecnolo-gie non facilitano l’apprendimento solo perché offrono un ricco insieme di effetti speciali multimediali, piuttosto se diventano partner nei processi di apprendimento attivo. Jo-nassen (2007) suggerisce cinque diverse dimensioni su cui le “tecnologie per apprendere” possono diventare strumen-ti efficaci: causale, analogica, espressiva, esperenziale e di problem solving.

La dimensione causale è relativa ad un utilizzo degli stru-menti tecnologici finalizzati allo sviluppo del pensiero de-duttivo di cui il meccanismo di causalità rappresenta un ca-posaldo. Ogni attività che consenta lo sviluppo di un ragio-namento sulle condizioni connesse agli effetti di un evento è un’attività altamente positiva. La previsione, come pure la diagnosi, parte dalla capacità di leggere dai fatti (siano essi

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sintomi, fattori storici, variabili numeriche o altri dati) alla ricerca delle cause. Molte attività professionali esperte ri-chiedono questo tipo di competenza. Insegnare agli studen-ti, attraverso l’uso delle tecnologie, a cercare e identificare le connessioni causali tra le cose richiede lo sviluppo della capacità di quantificare gli attributi di una relazione causa-le (direzione, forza, probabilità e durata), nonché essere in grado di spiegare i meccanismi alla base del fenomeno. Sof-tware per le simulazioni come SimQuest, metodologie di la-voro finalizzate alla ricerca investigativa come il WebQuest, ambienti per la strutturazione di mappe concettuali o stru-menti di discussione in rete come i forum sono tutti stru-menti capaci di favorire lo sviluppo della dimensione

La dimensione analogica è connessa alla possibilità di tra-sferire le conoscenze tra contesti diversi. Si lega quindi sia alla flessibilità cognitiva, che al concetto di costruzione di conoscenze a partire da ciò che è già conosciuto. Ausubel sosteneva: “se dovessi condensare in un unico principio l’intera psicologia dell’educazione direi che il singolo fat-tore più importante che influenza l’apprendimento sono le conoscenze che lo studente già possiede. Accertatele e comportatevi in conformità col vostro insegnamento” (Au-subel, 1995). Non è cioè possibile insegnare niente se non si potessero utilizzare analogie per comunicare e capire le nuove idee. Comprendere una nuova idea è, in qualche modo, facilitato dal confronto e dalla contrapposizione ad un’idea che è già stata compresa. Nell’utilizzo dell’analogia, le proprietà o gli attributi di una idea iniziale sono mappati o trasferiti ad altri concetti. Ci sono vari modi di utilizzare le tecnologie per sfruttare le potenzialità delle analogie ed esercitare dinamiche di “confronto” e “contrasto” neces-sarie per strutturare la mappa degli attributi di una o più idee. Non si tratta, in questo caso, di individuare il softwa-re, quanto immaginare esperienze didatticamente idonee a lavorare sulle analogie quali mediatori della comprensione. Nella prospettiva più semplice, ma allo stesso tempo più

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potente, sono gli stessi studenti - ad esempio lavorando alla costruzione di un glossario mediante un wiki - che possono “stressare” le potenzialità dell’analogia al fine di produrre conoscenza.

La dimensione espressiva ha a che fare con l’uso delle tec-nologie come strumenti per esprimere ciò che gli studenti conoscono e stanno imparando. Il modo migliore per ap-prendere, a ben vedere, è quello di mettersi nei panni di chi insegna. Produrre un video, realizzare un ipertesto, costru-ire una simulazione o allestire un micromondo richiedono di confrontarsi ed analizzare il materiale di studio coinvol-gendo.

La dimensione esperienziale richiama l’importanza del coinvolgimento diretto. Lo strumento metodologico con cui lavorare è prevalentemente quello della narrazione. Le storie rappresentano il più antico e naturale modo di dare un senso alle esperienze e comunicarle attraverso il tempo. Ogni cultura affida la propria identità a storie di diverso tipo. Gli esseri umani hanno una innata capacità e predi-sposizione per organizzare e rappresentare le loro esperien-ze in forma di storie. Le tecnologie possono impegnare su questo piano in molteplici modi i cui due estremi sono il cercare storie e il costruirle direttamente.

La dimensione del problem solving, vede le tecnologie come “partner” da utilizzare nella soluzione di problemi, come pure nella strutturazione della rappresentazione. La risoluzione dei problemi è un’attività cognitiva di alto livel-lo, un’attività cioè capace di mobilitare le risorse mentali più significative. Chiamare gli studenti a confrontarsi con la risoluzione di un problema significa porli nelle condizioni di apprendere anche gli elementi concettuali che sono alla base del compito. Le tecnologie possono fornire molteplici possibilità di utilizzo spostando più o meno sullo studen-te il compito. Sarà il docente a decidere quali informazioni

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includere e quali escludere, come strutturare il dato e quali processi decisionali affidare alla tecnologia.

Criticità nell’applicazione di questa prospettiva

La prospettiva dell’apprendimento significativo non si pone come una ricetta predefinita da prendere e applica-re. Il docente che desideri perseguire risultati elevati con i propri studenti è chiamato a svolgere un lavoro non bana-le di ristrutturazione delle proprie conoscenze disciplinari. Questo è il primo e il più complesso limite posto da questa suggestiva prospettiva. Come sottolinea Petter (2006) per insegnare in maniera efficace non è necessario conoscere la propria disciplina nella maniera dell’erudito che conosce moltissime cose, ma tende a collocarle un po’ tutte sullo stesso piano, bensì della persona colta che ha saputo indivi-duare certi nuclei rilevanti ed è capace di collegarli tra loro in maniera organica facendo raccordi con la dimensione epistemica, ovvero con i mezzi attraverso i quali si giunge, in quell’ambito, a produrre conoscenza. Solo così sarà pos-sibile proporre agli studenti la propria disciplina in modo problemico e non nozionistico.

L’insegnante deve cioè pensare non tanto al ripetere ciò che a suo tempo ha appreso all’università o quello che il programma e i libri di testo gli suggeriscono. Deve piut-tosto porsi alla ricerca, per ogni tema, qualche problema capace di destare l’interesse e coinvolgere gli allievi. “Porre un problema, infatti, può avere come effetto (quand’esso sia accettato, come facilmente accade se su di esso viene avviata una discussione) di destare negli allievi il bisogno di acquisire certe conoscenze che ancora non posseggono e che, nel momento in cui verranno introdotte, costituiranno una risposta al problema” (Petter, 2006, p. 24).

Per sviluppare questo tipo di competenza gli insegnanti do-vrebbero impegnarsi a prepararsi le attività didattiche guar-

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dando ai metodi che sono alla base dell’avanzamento delle co-noscenze nella propria disciplina, piuttosto che al condensato finale di tali acquisizioni. Quali sono i problemi che si sono posti gli studiosi siano essi storici, fisici, filosofi o matematici? Com’è possibile riproporre le loro domande agli studenti?

Accanto ad un problema connesso all’esigenza di rivede-re, copernicanamente, il proprio modo di insegnare sono recentemente stati evidenziati ulteriori elementi di criticità che devono essere tenuti in adeguata considerazione. Cal-vani (2009) riprendendo gli studi svolti nell’ambito della teoria del carico cognitivo, ad esempio, ricorda come sia opportuno fare attenzione soprattutto alla capacità degli allievi e regolare di conseguenza le consegne. In partico-lare, riprendendo le conclusioni a cui giungono alcune ri-cerche sperimentali (Kirschner, Sweller, Clark, 2006) teso ad evidenziare i limiti degli approcci costruttivisti, emerge come siano soprattutto i soggetti più esperti a beneficiare di modalità di lavoro “sfidanti”, mentre per quelli più deboli o inesperti sia in agguato il rischio dell’overload cognitivo e, conseguentemente, dell’incomprensione. L’insegnante dovrà quindi valutare attentamente quali strategie e quali compiti selezionare sulla base delle preconoscenze e delle capacità dei propri allievi.

Ambiti di applicazione

L’adozione della prospettiva dell’apprendimento significati-vo implica, nella maggior parte delle nostre realtà educative e formative, un “cambiamento concettuale” dei propri mo-delli mentali relativi a cosa significhi apprendere, su come si attivi e si sostenga l’apprendimento e su quale debba essere lo scopo della scuola.

Assumere, infatti, questa prospettiva significa considera-re l’apprendimento di una nuova tematica (“contenuto”)

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come la comprensione autentica della stessa, cioè la con-sapevolezza e la comprensione di tutta la sua complessità e delle sue relazioni concettuali con altre tematiche “vicine”. Significa, anche, valutare l’apprendimento come la capaci-tà di utilizzare quella conoscenza in contesti differenti da quelli in cui è stata originariamente appresa (conoscenza concettuale - Jonassen; knowledge in action - de Jong).

Se, per contro, si considera l’apprendimento come la me-morizzazione e la ripetizione (ma anche la “comprensione”) di fatti, concetti, procedure ma in isolamento tra di loro o senza un loro utilizzo, allora la prospettiva dell’apprendi-mento significativo potrebbe non essere rilevante.

Quando, invece, lo è, allora questo modello concettuale ha la capacità di guidare la nostra pratica di ideatori e progetti-sti di ambienti di apprendimento, nonché di docenti in tutti i contesti in cui l’apprendimento sia la mission principale, dall’istruzione di base a quella secondaria e terziaria, alla formazione professionale iniziale e continua.

Considerato che, nella prospettiva dell’apprendimento significativo, si pone l’enfasi sulla “comprensione” e sull’ ”applicazione” della conoscenza, possiamo considerare questa concettualizzazione e le tecniche didattiche correla-te, di grande utilità in tutti i contesti di formazione continua sul lavoro.

autorI pIù sIGnIfIcatIvI e rIferImentI bIblIoGrafIcI

Il tema dell’apprendimento “significativo” è stato affrontato da una serie di autori, in particolare nell’ambito delle così dette teorie dell’apprendi-mento di orientamento cognitivista e costruttivista.

Ausbel, Rogers, Novak, Duffy, Seely Brown, Jonassen - solo per fare alcu-ni nomi - hanno provato a dare risposte alla domanda che ogni docente, ad un qualche punto della propria carriera, si pone: come posso rendere significativo ciò che mi trovo ad insegnare?

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305Ambienti di apprendimento per la formazione continua

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Rogers, C. R. (2000) La terapia centrata sul cliente, Firenze, Psycho (ed. orig. 1951)

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Wilson B.G. (1996) Costructivist learning environments. Case studies in instructional design, Educational Technology Publications, Englewood Cliffs, N.J.

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cognIzIone dIstrIbuItaGiovanni Bonaiuti

Caratteristiche

All’interno della cornice teorica del costruttivismo trova-no una loro specifica collocazione posizioni esplicitamente impegnate a sottolineare il carattere contestuale della co-noscenza. Tra queste vanno indicate la prospettiva della “cognizione situata” (vedi) e quella della “cognizione distri-buita”.

La prospettiva della “cognizione situata” è interessata ad indicare gli stretti legami che uniscono ogni conoscenza al contesto specifico in cui questa si sviluppa, la posizione del-la “cognizione distribuita”, invece, si preoccupa di sottoli-neare che le conoscenze, proprio perché situate in contesti socioculturali, risiedono soprattutto fuori dalla mente delle persone.

Chi conosce, infatti, conosce “in relazione a” ed entra conti-nuamente “in contatto con” entità che sono ad esso esterne. Entrambi gli orientamenti (cognizione “situata” e “distri-buita”) partono dall’esigenza di includere il contesto (fisico, sociale e culturale) nelle riflessioni riguardanti i processi co-gnitivi e le dinamiche apprenditive, ma mentre la cognizio-ne situata si pone nella logica di comprendere le influenze esercitate da tutto ciò che è esterno alla mente umana, la prospettiva distribuita si preoccupa piuttosto di indagare come il contesto possa rappresentare un’estensione della mente umana.

Secondo la visione della “cognizione distribuita” (Salomon, 1993; Hutchins, 1995; Norman, 1997) l’intelligenza non è una proprietà eminentemente soggettiva e localizzabile nel-

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la mente degli individui, trovando infatti collocazione an-che nel “mondo” esterno (Pea, 1993). Le risorse informa-tive necessarie all’esecuzione delle attività possono essere rappresentate internamente, nella mente dell’individuo, ma sono in buona parte anche nell’ambiente sociale o fisico.

Per inviare un SMS non è necessario ricordarsi a memo-ria l’esatta configurazione e il posizionamento dei tasti sul telefonino: è sufficiente un semplice colpo d’occhio per localizzare le lettere. La conoscenza è “variamente distri-buita: parte nel mondo, parte dentro la testa, parte nei vin-coli operativi che il mondo ci impone” (Norman, 1997). Le prestazioni finali di un impegno cognitivo sono il risultato di un’organica interazione tra la mente individuale e il con-testo ambientale, strumentale e sociale. Secondo Norman (1997), una prestazione competente può emergere da una conoscenza mnemonica tutt’altro che precisa per diverse ragioni:“Le informazioni sono nel mondo. Molta dell’informazione che ci serve per eseguire un compito può risiedere nel mondo esterno. Il comportamento si determina combinando l’infor-mazione in memoria (nella nostra testa) con quella presen-te nel mondo. Non è richiesta grande precisione. Precisione, esattezza e completezza della conoscenza sono richieste di rado. Per avere un comportamento perfetto è sufficiente che la conoscenza descriva l’informazione o il comportamento quanto basta per distinguere l’alternativa giusta da tutte le altre. Sono presenti vincoli naturali. Il mondo limita i com-portamenti permessi. Le proprietà fisiche degli oggetti circo-scrivono le operazioni possibili: l’ordine con cui le parti si pos-sono combinare, i modi in cui un oggetto può essere spostato, raccolto o comunque manipolato [ ]. Sono presenti vincoli culturali. Oltre ai limiti fisici, naturali, la società ha sviluppa-to numerose convenzioni culturali che devono essere apprese, ma una volta apprese si applicano a un ampio ventaglio di circostanze” (Norman, 1997, p. 66-67).

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Questa prospettiva fornisce dunque una cornice teorica - unframework –(non un metodo), in grado di rendere evi-dente la fitta interazione che esiste tra individui, artefatti e ambiente e che si basa su assunti quali:• le informazioni sono incorporate, ovvero sono inserite

all’interno delle relazioni, delle interazioni, delle rap-presentazioni sociali come pure negli oggetti;

• è necessario considerare la conoscenza come una sorta di “ecosistema cognitivo” ed è pertanto necessario lavo-rare ad ottimizzare il coordinamento tra tutti gli agenti implicati nel processo.

Finalità

Dal momento che, secondo questa visione, tutte le attività umane non costituiscono forme di realtà stabili e perma-nenti ma, piuttosto, realtà in costante evoluzione e trasfor-mazione in rapporto ai contesti in cui vengono a situarsi è necessario che insegnanti e progettisti di formazione pren-dano coscienza del ruolo giocato dal contesto.

Dal momento che nelle situazioni di ogni giorno il compor-tamento è guidato dalla combinazione sia di conoscenze fissate internamente, sia da informazioni e vincoli esistenti esternamente all’individuo è necessario rivedere gli obietti-vi dell’insegnamento in maniera da considerare il fatto che, ogni persona, sia che nella vita svolga un lavoro manuale che intellettuale, opera intrecciando continuamente risorse interne ed esterne.

La scienza cognitiva suffraga con evidenze sperimentali tali assunti. Ballard e colleghi, ad esempio, hanno mostrato come siano numerose le situazioni in cui gli individui inter-connettono informazioni interne esterne della mente. Gli individui sottoposti ad un loro esperimento che richiedeva di copiare una certa configurazione di figure geometriche,

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come due piramidi sopra a tre cubi accanto ad una sfera e davanti ad un parallelepipedo (Ballard, Hayhoe, Pelz, 1995) mostra inequivocabilmente come in casi di questo genere sia più utile utilizzare le informazioni esterne, piuttosto che ricorrere alla memoria. In questa situazione i soggetti pre-feriscono tornare più volte a visualizzare il modello da ri-produrre piuttosto che utilizzare la memoria per fissarne la descrizione. Risulta cioè meno faticoso consultare il mondo al di fuori del cervello piuttosto che costruire una accurata rappresentazione interna della realtà esterna. Gibson (1977) nella sua teoria “ecologica” della percezione, introduce il concetto di “affordance” per indicare le proprietà percepi-bili dall’ambiente circostante che regolano e determinano il comportamento del soggetto. Le affordance si presentano come “caratteristiche oggettive” delle cose presenti nello spazio operativo e che, una volta percepite, costituiscono dei suggerimenti (vincoli/inviti) per lo sviluppo di azioni appropriate in quell’ambiente: un’affordance è cioè un’op-portunità di azione o di inibizione fornita dall’ambiente all’individuo. In questa prospettiva, nel riconoscere al con-testo una sua centralità, si ridefiniscono in maniera diversa anche le capacità della mente umana di ritenere nozioni, dettagli o passaggi operativi, rispetto - ad esempio - a quel-le di sviluppare abilità attentive, discriminatorie, intuitive e ricostruttive necessarie all’estrazione dal contesto delle in-formazioni utili alla risoluzione dei compiti.

Di converso assume un valore primario la “buona” proget-tazione degli artefatti e dei contesti che contribuiscono allo svolgimento delle attività. Nel caso delle tecnologie infor-matiche, ad esempio, non è infrequente imbattersi in stru-menti, o in “ambienti artificiali”, progettati male, quindi incapaci di offrire indicazioni informative complete e non ambigue circa il loro utilizzo. Strumenti tecnologici mal progettati sono infatti responsabili di aumentare la varia-bilità nelle prestazioni soggettive, rendendo a molti pro-blematico - se non addirittura impossibile - lo svolgimento

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delle attività, oltre a determinare continui rischi di “errore”.

Perkins (1993) nel definire “person-plus” il sistema com-posito formato dalla persona più il contesto circostante - costituito dagli strumenti, dall’ambiente e delle altre perso-ne impegnate nel processo - asserisce che l’apprendimento dipende dalle “caratteristiche d’accesso” alla conoscenza significativa: non è importante se la conoscenza sia interna o esterna al soggetto, ma quale tipo di conoscenza è rap-presentata, come è rappresentata, come prontamente può essere recuperata e rielaborata. La posizione di Perkins è particolarmente utile a comprendere quale ruolo possano giocare le tecnologie, anche quelle telematiche, quali parti integranti del sistema cognitivo, e ci torneremo quindi an-che in seguito. Secondo Perkins la cognizione e l’appren-dimento di un individuo non coinvolgono la persona sola (person-solo), ma la persona più il sistema composito che la circonda (person-plus). Ciò che circonda la persona, l’im-mediato contesto fisico e sociale, partecipano nella cogni-zione non solo come sorgenti di input o ricettori di output, ma come veicoli del pensiero: infatti il “residuo” lasciato dal pensiero, quello che è stato imparato, risiede non solo nella mente dello studente, ma anche nell’allestimento del conte-sto. L’ipotesi dell’accesso equivalente sostenuta dall’autore asserisce che l’apprendimento dipende dalle caratteristiche d’accesso alla conoscenza significativa: non è importante se la conoscenza sia interna o esterna al soggetto, ma quale tipo di conoscenza è rappresentata, come è rappresentata, come prontamente può essere recuperata e tutte le temati-che connesse. In questo senso viene tratteggiata una moda-lità di analisi del sistema di conoscenza basata su quattro categorie (esplicative della capacità del sistema di fornire accesso equivalente):• Conoscenza (knowledge): riguarda quale tipo di cono-

scenza è disponibile, inclusa la conoscenza dichiarativa e procedurale, i fatti, le strategie, e le procedure esperte: in altre parole la conoscenza nel senso più ampio;

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• Rappresentazione (representation): riguarda come la conoscenza è rappresentata, in particolare in quale modo questa può essere “presa”, trasportata nel “siste-ma” e registrata.

• Recupero (retrival): riguarda in quale modo il sistema può trovare la rappresentazione della conoscenza in questione e con quale efficienza;

• Costruzione (construction): riguarda la capacità del si-stema di assemblare pezzi di conoscenza recuperata in nuove strutture; ovvero la capacità di generare nuova conoscenza.

Ambiti di applicazione

L’importanza di una progettazione che tenga conto del ruolo esercitato (ed esercitabile) dal contesto è oggi impre-scindibile in ogni campo del sapere e, in modo particola-re, in quelle situazioni in cui l’insegnamento riguarda l’in-terazione tra individuo e ambiente come nella formazione professionale. Le tecnologie, inoltre, hanno completamente ridefinito i modi di rapportarsi alle conoscenze. Il sapere, oggi, circola molto più liberamente di un tempo e non ri-siede solo nei libri. Internet rappresenta una insesauribile risorsa accessibile, grazie ai “dispositivi mobili”, in qualsiasi situazione. La rete, inoltre, permette di entrare in relazione - grazie ai social network - con esperti e colleghi. La capaci-tà di affrontare le situazioni della vita, risolvere i problemi e svolgere compiti astratti o attività concrete richiede oggi la capacità di integrare in maniera rapida ed efficace quanto il contesto esterno può offrire. Il contesto può fornire un supporto completo alla cognizione fornendo:• la conoscenza necessaria,• rappresentazioni accessibili,• percorsi efficienti di recupero e• arene per la costruzione che aiutano a strutturare il pen-

siero e le idee.

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Ma è importante essere consapevoli che l’uso del contesto è un’arte, il semplice uso degli strumenti non abilita all’ac-quisizione di strategie per il loro consapevole ed efficace sfruttamento e che, in molte situazioni di apprendimento, non vengono forniti supporti adeguati per l’accesso e l’uti-lizzo di queste risorse. Se i contesti sono parte integrante e spesso cruciale del contesto cognitivo individuale, è infatti importante verificare che ci sia adeguata competenza nel loro utilizzo.

Nella prospettiva della cognizione situata, non sono impor-tanti solo le risorse strumentali esterne. Svolgere un lavoro, progettare o studiare qualcosa sono azioni che richiedono anche il coordinamento e il confronto con gli altri. “Ciò che rende un individuo competente non è solo ciò che conosce, ma anche come la sua conoscenza si accorda con quella de-gli altri individui con i quali l’attività deve essere coordinata [ ] La natura distribuita della prestazione competente signi-fica che la competenza è altamente specifica della situazio-ne. Si deve essere capaci di comportarsi in una particolare situazione, con strumenti particolari e con particolari altre persone.” (Resnick, 1995, p. 75-76).

In questa prospettiva “il sociale pervade in modo invisibile anche situazione che appaiono costituite da individui im-pegnati in una attività cognitiva privata. Le interpretazioni sociali della situazione (per esempio, quali sono le regole del gioco? Chi ha la responsabilità? Qual è la posta in gio-co?) influenzano la natura e il corso del pensiero” (Resnick, 1995). Quindi non solo gli strumenti fisici, ma anche “i me-todi del pensiero”, hanno un ruolo di primo piano in quan-to “incorporano la storia intellettuale di una cultura. Gli strumenti hanno teorie costruite al loro interno e i fruitori le accettano - sebbene spesso inconsapevolmente - quando li usano. [ ] Come la struttura predisposta biologicamente, gli strumenti che si usano non solo rendono possibile il pensie-ro e il progresso intellettuale ma anche vincolano e limitano

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la gamma di ciò che può essere pensato” (Resnick, 1995).

Il carattere socialmente mediato della conoscenza è bene evidenziato da Moll, Tapia e Whitmore (1993) che descri-vono, nella presentazione di due diversi casi (una comunità di messicani ed un gruppo di studenti in Tucson, Arizona) con quale ricchezza fenomenologica e complessità rituale la conoscenza viene costruita, scambiata, e vivificata nei con-testi della vita reale. Le modalità con cui le risorse conosciti-ve di una cultura (“funds of knowledge”) vengono possedu-te, riprodotte e sviluppate (o rimosse) sono costantemente e dinamicamente vivificate in molteplici modalità, molte delle quali tacite: scambi sociali, rituali, conversazioni, rapporti rituali, piccole strategie, momentanei affidamenti di figli e favori reciproci tra famiglie, trasmissione di conoscenze am-pie alle giovani generazioni, ecc.

Un aspetto cruciale è che le conoscenze distribuite all’inter-no di una specifica cultura determinano, al pari di altri fat-tori, anche i modi con cui gli individui entrano in contatto anche con ogni nuova conoscenza. “Le teorie, implicite ed esplicite, allo stesso tempo rendono possibile e veicolano il pensiero, proprio come fanno gli strumenti materiali. [ ] Ciò su cui gli individui ragionano, la conoscenza che essi porta-no in un compito cognitivo, fornisce i frame interpretativi o schemi che permettono al ragionamento e al problem sol-ving di procedere. Queste credenze, schemi degli individui per il ragionamento, non sono costruzioni puramente indi-viduali; al contrario sono pesantemente influenzati dai tipi di credenze e schemi di ragionamento disponibili nella cul-tura che circonda gli individui. Non solo le teorie ma pure gli stessi modi del ragionamento sono determinati social-mente. Gli strumenti cognitivi includono anche le forme di ragionamento e di argomentazione che sono accettate come normative nelle date culture” (Resnick, 1995, p. 76).

Una conseguenza diretta, per chi si occupa di formazione, è

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quindi rappresentata dalla necessità di analizzare il “conte-sto cognitivo esteso”: ovvero comprendere le caratteristiche ambientali, situazionali e culturali all’interno delle quali si svolgono le dinamiche apprenditive. Con l’aumentare del-la disponibilità di strumenti di comunicazione ed elabora-zione delle informazioni, grazie alle loro potenzialità nel mediare ed interconnettere risorse e persone, è sempre più importante guardare alla conoscenza come ad un sistema composito ed all’intelligenza come ad una capacità di utiliz-zarlo in maniera adeguata. La “cognizione distribuita”, che secondo Pea “non è una teoria della mente, ma piuttosto una infrastruttura euristica per sollevare ed indirizzare que-stioni teoretiche ed empiriche” (Pea, 1993, p.48), suggeri-sce di guardare non solo ad un piano intraindividuale ma, piuttosto, su un piano interindividuale ed interattivo ad un apprendimento come prodotto composito e collettivo. Se l’apprendimento viene inteso come una realtà “distribuita” esso lo sarà, quindi, anche tra i diversi soggetti in forma-zione ed i formatori il cui ruolo, in quanto agenti cognitivi riveste un’ importanza centrale.

Paternità della strategia

La prospettiva dell’apprendimento distribuito è una teoria psicologica che si sviluppa, a partire dalla metà degli anni ‘80 del secolo scorso, con una serie di lavori che rielabora-no intuizioni già presenti nel pensiero di Vygotskij e della scuola storico culturale sovietica. Tali lavori si arricchiscono quindi nell’incontro con linee di ricerca ispirate alle scienze socio-etnografiche e ad altre di derivazione cognitivistica e della psicologia culturale.

Autori come Gavriel Salomon, Edwin Hutchins, Roy Pea, Ann Brown, Barbara Rogoff e Barbara Resnick concentra-no la loro attenzione sullo studio delle dinamiche cognitive e l’innovazione dei sistemi educativi.

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In questa prospettiva si inseriscono, inoltre, con l’avvento delle reti telematiche le applicazioni connesse all’uso del computer per l’apprendimento collaborativo a distanza. La prospettiva del CSCL,computer supported collaborative lear-ning, in particolare con i lavori di Bereiter e Scardmalia fa ri-ferimento in maniera esplicita alla visione della conoscenza distribuita. Autori come Donald Norman e Lucy Suchman, infine, sono interessati soprattutto a sottolineare l’impor-tanza della buona progettazione degli artefatti tecnologici. Senza un buon design, infatti, le tecnologie non consentono di realizzare felici dinamiche di apprendimento.

Oggi molte delle idee della cognizione distribuita sono ri-prese e rielaborate alla luce delle disponibilità offerte dalle reti telematiche dal così detto “connettivismo”. Si veda il capitolo “Connettivismo e social networking”.

bIblIoGrafIa

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317Ambienti di apprendimento per la formazione continua

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Suchman L.A. (1987), Plans and Situated Actions : The Problem of Hu-man-Machine Communication, Cambridge University Press, Cambridge NY

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Problem solvIngBeate Weyland

Finalità

Karl Popper nel 1999 scrisse un libro di saggi intitolato “all life is problem solving”. In effetti ogni giorno, nei più diver-si contesti personali e professionali le persone sono costan-temente alle prese con la risoluzione di problemi.

Si può dire che il problem solving sia uno tra le competen-ze del 21°secolo (http://www.21stcenturyskills.org) se con questo si intendono le abilità di risolvere differenti tipolo-gie di problemi non familiari sia con metodi convenzionali, sia con metodi innovativi, la capacità di identificare e porre domande significative e pregnanti che chiariscono i diversi punti di vista e guidano verso la migliore soluzione.

Come ben descritto da Jonassen (2010 a) il problem solving è l’attività di apprendimento più autentica, e quindi la più rilevante che l’individuo possa fare.

Il problem solving inteso come processo richiede innanzi-tutto la costruzione di una rappresentazione mentale della situazione problema così come si è presentata. Essa descrive la comprensione del problema e quindi l’abilità di definirne la tipologia. Il risolutore del problema, attraverso la rappre-sentazione, riesce ad individuare gli elementi necessari per avere un quadro più chiaro della situazione e a orientarsi in direzione della soluzione più congrua. Questa rappresenta-zione mentale si chiama anche spazio del problema. (Jonas-sen 2010)

Il problem solving di solito coinvolge schemi di problemi pregressi che assistono la persona nel processo risolutivo.

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Le esperienze di risoluzione di problemi sono accumulate e salvate nella memoria e sono organizzate in forma di model-li mentali o schemi (Rumelhart & Norman, 1988). Questi schemi di problema consistono in rappresentazioni seman-tiche degli oggetti o delle situazioni legate ai problemi, sono rappresentazioni delle loro relazioni strutturali, come an-che dei processi per trovare la soluzione all’ignoto in quelle determinate situazioni. Lo schema di problema consente a chi apprende di procedere direttamente alla soluzione del problema (Gick & Holyoak, 1983) cercando le risposte già incluse nello schema stesso.

D’altra parte gli schemi problema dovrebbero essere con-siderati come modelli formali che si appoggiano al linguag-gio, alle visualizzazioni o a altri sistemi di modellamento. Tra gli scopi dell’istruzione vi è spesso quello di delinea-re una rappresentazione esterna del processo del problem solving nella memoria degli alunni. L’insegnamento invece dovrebbe facilitare la formazione delle basi degli schemi dei problemi, ovvero una costruzione mentale attiva e dinami-ca dello spazio problema come spazio critico per riuscire a risolvere problemi.

Descrizione

Il problem solving è un processo di interpretazione, artico-lazione e di risoluzione di qualcosa di ignoto in un determi-nato contesto, ovvero di una situazione in cui non è nota la differenza tra un obiettivo atteso e una situazione data. Ge-neralmente la ricerca e l’individuazione delle soluzioni all’i-gnoto hanno un valore sociale, culturale e/o intellettuale. Il problem solving corrisponde dunque alla percezione dell’i-gnoto e alla necessità di determinarlo. La ricerca dell’ignoto significa il processo del problem solving (Jonassen 2010).

Lo schema riportato qui sotto riassume il contributo di Da-

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vid Jonassen al problem solving. L’ambiente di apprendi-mento si organizza intorno a una persona e a un problema legati insieme da tre caratteristiche principali: il contesto, le rappresentazioni mentali, la manipolazione del problema.

Natura del problema. Il problem solving ha molti significati da diversi punti di vista. Dal punto di vista dell’elaborazio-ne delle informazioni, la soluzione dei problemi consiste in stati iniziali, obiettivi, stati e vincoli di percorso (Wood, 1983). Risolvere un problema è trovare un percorso attra-verso lo spazio del problema che, da un momento iniziale, passa lungo i sentieri che soddisfano i vincoli di percorso e termina nello stato obiettivo.

La gran parte delle prime ricerche sul problem solving si è basata su questa definizione lineare e quindi si è concentra-ta su problemi semplici, statici, ben strutturati. I problemi logici o di storia a scuola sono esempi di problem solving

David Jonassen, Modello di progettazione di un ambiente di apprendimen-to costruttivista, 1999.

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strutturato. Questa definizione lineare può funzionare per questo genere di problemi, tuttavia, è difficile da applicare a problemi non strutturati, in cui gli stati obiettivo ei vincoli di percorso spesso sono sconosciuti o sono da negoziare. Pertanto, per problemi non strutturati, diventa impossibile stabilire percorsi dati.

La maggior parte dei problemi con cui abbiamo a che fare tutti i giorni nella vita personale o professionale sono non strutturati e complessi. Jonassen e altri studiosi (Frensch & Funke, 1995; Jonassen 2000; Jonassen & Hung, 2008) arti-colano in tre dimensioni principali la natura dei problemi non strutturati così come i processi per risolverli: struttura, complessità e dinamicità. Esse determinano il livello di dif-ficoltà dei problemi e le risorse necessarie per risolverli.

Natura della rappresentazione del problema. La rappresenta-zione esterna ed interna dei problemi è oggetto di diverse ricerche. Alcune ricerche hanno esaminato la rappresenta-zione dei problemi della storia, concentrandosi sugli esempi pratici e sulle rappresentazioni a matrice. Jonassen (2010) ha delineato le caratteristiche degli ambienti di apprendi-mento basati sui problemi, sostenendo l’importanza di uti-lizzare come strategie didattiche gli esempi pratici, i casi di studio, le esperienze precedenti, le prospettive alternative, e i problemi analoghi. L’elemento sul quale porre maggiore attenzione riguarda l’abilità nella definizione dello spazio interno ed esterno del problema. Per agevolare la costru-zione dello spazio problema stati impiegati diversi stru-menti cognitivi, come le mappe concettuali, i diagrammi schematici, i diagrammi di influenza e la modellazioni del sistema. Gli effetti specifici di questi strumenti cognitivi sui vari aspetti e sulle fasi del problem solving non sono ancora pienamente compresi.

Natura del problem solver. Il problem solving è influenzato dalle caratteristiche cognitive, sociali, culturali della per-

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sona che si trova di fronte a un problema. Le conoscenze del risolutore del problema, l’esperienza precedente, le po-sizioni epistemologiche, la capacità di ragionamento e una miriade di altre sfumature individuali hanno un impatto si-gnificativo non solo sulle competenze nel problem solving della persona, ma anche su quelle che saranno le priorità, le preoccupazioni, e le prospettive nella risoluzione delle più varie tipologie di problemi in contesti diversi. Inoltre, le modalità dell’interazione sociale e le regole dei diversi ambienti sociali possono anche facilitare o ostacolare la so-luzione dei problemi. Quanto più queste favoriscono una visione multiprospettica, tanto più contribuiscono all’am-pliamento della ricerca e al confronto sulle possibili solu-zioni ai problemi e sono il presupposto per sviluppare la creatività nel problem solving.

Natura del contesto del problem solving. I problemi variano anche a seconda del contesto. In situazioni e ambiti diversi, le persone risolvono diversi tipi di problemi. Lehman, Lem-pert, e Nisbett (1988) trovarono che gli studenti universitari sviluppano nelle varie discipline diversi tipi di ragionamen-to in base alle tipologie di problemi che risolvono. Gli stu-denti di psicologia e di medicina danno prestazioni migliori sui problemi di ragionamento statistico, metodologico, e ipotetico rispetto agli studenti di diritto e di chimica, che non imparano tali forme di ragionamento. Lo stesso dicasi per il personale di organizzazioni diverse che risolvono pro-blemi a partire dagli aspetti sociali, storici e culturali che definiscono l’organizzazione. Pochissime ricerche tuttavia hanno affrontato la tematica dei problemi complessi, non strutturati che emergono in contesti quotidiani (Sinnott, 1989): il contributo di Jonassen risulta quindi determinante perché indaga su come il contesto influisce sullo sviluppo delle competenze del problem solving.

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Ambiti di applicazione

I modelli tradizionali del problem solving, noti come phase models (Bransford & Stein, 1994) postulano che tutti i pro-blemi possono essere risolti se (1) identifichiamo il problema (2)generiamo soluzioni alternative, (3) valutiamo queste pos-sibili soluzioni, (4) implementiamo la soluzione scelta, e (5) valutiamo l’efficacia di tale soluzione. Tuttavia il problem sol-ving varia caso per caso, a seconda delle competenze ed abi-lità del problem solver, della natura del problema stesso, del contesto nel quale si presenta il problema e del modo in cui il problem solver si rappresenta il problema (Jonassen 2007).

Nel prossimo schema si descrive il continuum (vedi Figura 1) tra i problemi ben strutturati e mal o non strutturati (Jo-nassen, 1997, 2000; Voss & Post, 1988). La maggior parte dei problemi incontrati nei contesti dell’istruzione formale, sono ben strutturati: presentano tutti gli elementi del pro-blema, coinvolgono un numero limitato di regole e principi,

fIGura 1

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sono organizzati in una disposizione predittiva e prescritti-va, in possesso di risposte corrette, convergenti, e hanno un processo risolutivo ben definito.

I cosiddetti problemi “mal strutturati” o ill-structured pro-blems, invece, sono proprio quei problemi che si incontra-no nella pratica quotidiana. Essi presentano molte soluzioni alternative, obiettivi vagamente definiti o poco chiari e vin-colanti, percorsi risolutivi multipli e criteri multipli per la valutazione delle possibili soluzioni, sono quindi più diffici-li da risolvere. Imparare a gestire sistemi complessi, impara-re a prendere decisioni politiche, e imparare a padroneggia-re la contabilità, tutti questi sono problemi non strutturati.

Jonassen (2000) ha identificato undici tipi di problemi, tra cui: algoritmi, problemi di tipo scolastico, problemi regola-tivi, la presa di decisioni (decision making), diagnosi-solu-zione dei problemi (troubleshooting), prestazioni strategi-ca, problemi di analisi delle politiche, problemi di proget-tazione, e dilemmi. I diversi tipi di problemi variano princi-palmente lungo il continuum well-structured/ill-structured, semplice/ complesso e statico/dinamico. La descrizione delle diverse tipologie di problemi si lega in modo specifico ai vari contesti d’uso e professionali.

Problemi scolastici (story problems)

In quasi tutti i libri scolastici afferenti alle scienze, alla mate-matica e all’ingegneria, questo tipo di problemi sono costi-tuiti da un numero limitato di elementi del problema che di solito sono correlati tra loro matematicamente e incorporati in una descrizione (storia). La risoluzione dei problemi di tipo scolastico richiede:(1) di rappresentare le incognite con lettere, (2) tradurre le relazioni tra le incognite in equazioni, (3) risolvere le equazioni per trovare il valore delle incognite, e (4) verificare i valori trovati per vedere se risolvono il pro-blema originale (Rich, 1960). Purtroppo, i risolutori di pro-

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blemi che falliscono basano la loro soluzione solamente sui numeri e sulle parole chiave che si selezionano dal problema (Hegarty, Mayer, e Monk, 1995). Questo processo lineare im-plica che il problem solving venga letto come una procedura da memorizzare, una pratica, e un’abitudine e che enfatizza l’individuazione di risposte e non la ricerca di significati (Wil-son, Fernandez, e Hadaway, 2001). Così il processo di trasfe-rimento in nuovi contesti è molto difficile perché ci si focaliz-za eccessivamente sulla caratteristiche superficiali del proble-ma o si tende a richiamare le soluzioni familiari di problemi precedentemente risolti (Woods, Hrymak, Marshall, Legno, Crowe, Hoffman, Wright, Taylor, Woodhouse, e Bouchard, 1997). Risulta difficile comprendere i principi e le applica-zioni concettuali alla base delle prestazioni, per trasferire la capacità di risolvere un tipo di problema a problemi con la stessa struttura, ma con caratteristiche dissimili.

Problemi regolativi

Molti problemi hanno percorsi risolutivi multipli o più regole che disciplinano il percorso senza una procedura specifica o un metodo predefinito. L’utilizzo di un sistema di ricerca online per trovare una determinata letteratura scientifica, o di un motore di ricerca per trovare informa-zioni specifiche sono esempi di role using problems, ovvero di problemi che fanno riferimento a specifiche regole. Lo scopo è chiaro: trovare le fonti di informazione più rilevanti nel minor tempo possibile. Questo richiede la selezione dei termini di ricerca, la costruzione di argomenti di ricerca ef-ficaci, l’attuazione di una strategia di ricerca, e la valutazio-ne dell’utilità e della credibilità delle informazioni trovate. Questa è la regola essenziale della ricerca. Dato che ci sono le strategie di ricerca più diverse, anche i role using pro-blems possono categorizzarsi tra quelli non strutturati.Molti problemi richiedono che si comprenda la regola che li sottende, al fine di risolverli. Un esempio può essere quello di capire le modalità di funzionamento di un nuovo dispositivo.

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Problemi di decisione

Le teorie normative del processo decisionale affermano che i risolutori di problemi individuano quante più soluzioni possibili rispetto a una serie di alternative che si basano su criteri di selezione ponderati. Si tratta di comparare e con-frontare i vantaggi e gli svantaggi delle soluzioni alternative.

Tali criteri possono essere predeterminati oppure è il risolu-tore che deve individuare quelli più pertinenti. Le imprese scientifiche risolvono quotidianamente molti problemi de-cisionali, come ad esempio la selezione di un materiale da utilizzare per una progettazione meccanica, la determina-zione di livelli di inventario appropriati, o la selezione dei candidati per l’assunzione. Una recente ricerca ha messo in discussione questa concezione normativa del processo de-cisionale, preferendo invece un approccio più personale e attraverso la costruzione di storie (vedi Jonassen, 2010).

Troubleshooting

Sebbene il troubleshooting (diagnosi di un “malfunziona-mento” ed implementazione della soluzione), o la risoluzio-ne dei problemi, sia più comunemente associato ai lavori tec-nici (ad es. il mantenimento di comunicazioni e attrezzature complesse, la riparazione di apparecchiature informatiche), anche i professionisti vi si confrontano soprattutto quando si tratta di sistemi difettosi (ad esempio, gli ingegneri iden-tificano gli errori in certi processi chimici, i medici o psico-terapeuti diagnosticano i problemi di salute o psicologici).

La risoluzione dei problemi richiede una combinazione di co-noscenza della tematica e del sistema (modelli concettuali del si-stema, componenti del sistema e interazioni, controllo di flusso, stati di errore, caratteristiche delle anomalie, sintomi, informa-zioni contestuali, e probabilità di occorrenza). Ad esse si unisco-no le la ricerca e la sostituzione di parti difettose, la divisione del-

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lo spazio e procedure di controllo dell’errore. Tali competenze sono integrate e organizzate dalle esperienze dei risolutori.

La competenza dei problem solvers si struttura più a partire dall’esperienza nella risoluzione dei problemi che sui mo-delli concettuali teorici nel campo. Jonassen e Hung (2006) hanno svolto una ricerca per la progettazione di ambienti di apprendimento basata sul problemshooting a partire da: un modello concettuale variegato del sistema, un simulatore per la generazione di ipotesi e per testarle, una biblioteca di storie di caso di risoluzione dei problemi di altri.

Problemi di politica

I problemi politici sono problemi decisionali complessi non strutturati. Essi di solito coinvolgono urbanisti, analisti politi-ci, dirigenti di comunità, locali, statali, nazionali e legislatori, cittadini, dirigenti di agenzie e molte altre parti interessate, la maggior parte delle quali assumono posizioni fondamental-mente diverse tra loro, supportate da riferimenti altrettanto diversi. Essi sono più legati al contesto che qualsiasi altro tipo di problema considerato finora. I classici problemi di casi si-tuati esistono anche nelle relazioni internazionali, come ad esempio “.... un dato basso di produttività delle colture in Unione Sovietica, come potrebbe essere risolto, se il risoluto-re fosse il Direttore del Ministero delle Politiche Agricole nel Soviet Union? “(Voss e post, 1988, p. 273).

Problemi di progettazione

Forse il genere meno strutturato di problemi è il design (Jo-nassen, 2000). Che si tratti di un circuito elettronico, di una parte meccanica, o di un nuovo sistema di produzione, un dipinto o una canzone, il progetto richiede l’applicazione di una grande quantità di conoscenza di riferimento e una serie di conoscenze strategiche per arrivare a un design ori-ginale.

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Nonostante l’apparente obiettivo di trovare una soluzione ottimale entro limiti determinati, di solito gli obiettivi sono poco chiari e vagamente delineati, mentre i vincoli riman-gono poco definiti. Le possibili soluzioni e i percorsi per arrivarvi sono molteplici. Forse la parte più difficile dei problemi di progettazione è che essi possiedono moltissi-mi criteri per la valutazione delle soluzioni. Questi criteri, inoltre, sono spesso sconosciuti. In definitiva, il progetti-sta deve soddisfare le esigenze del cliente, tuttavia i criteri per un design accettabile di solito non vengono dichiarati. I problemi di progettazione spesso richiedono al progetti-sta di esprimere giudizi sul problema e di difenderli o di esprimere opinioni personali o convinzioni sul problema. Ciò evidenzia che i problemi non strutturati consistono uni-camente in complesse attività umane interpersonali (Mea-cham & Emont, 1989).

Dilemmi

Scienziati e ingegneri spesso vengono coinvolti in dilem-mi sociali o etici. La creazione di un prodotto biochimico redditizio, ma dannoso per l’ambiente, rappresenta un di-lemma. Essi possono essere estremamente poco struttura-ti e imprevedibili, spesso perché non esiste una soluzione accettabile per una parte significativa delle popolazioni colpite dal problema. Di solito ci sono molte prospettive importanti sulla situazione (economica, politica, sociale, etico, ecc.), ma nessuna abbastanza convincente per offri-re una soluzione accettabile alla crisi. La situazione è così complessa e imprevedibile, che a volte non esiste nessuna soluzione migliore. Ciò non significa che non ci siano molte soluzioni, che possono essere tentate con gradi variabili di successo, tuttavia, queste non potranno mai soddisfare le esigenze della maggior parte delle persone o sfuggire alle prospettive di catastrofe.

La capacità dei singoli e dei gruppi di lavoro nell’affrontare

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329Ambienti di apprendimento per la formazione continua

efficacemente tutti questi tipi di problemi è fondamentale per la sopravvivenza delle organizzazioni e per una buona gestione. I passi principali sono:• problem finding, rendersi conto del problema• problem setting, definire e inquadrare il problema in

uno specifico contesto• problem analysis, analizzare il problema, e porre le giu-

ste domande• problem solving, ridurre la distanza tra situazione at-

tuale e ideale,• decision making, scegliere le linee di azione più adeguate.

autorI pIù sIGnIfIcatIvI e rIferImentI bIblIoGrafIcI

Questo modello concettuale fa soprattutto riferimento agli studi di Da-vid Jonassen, che ha offerto alla comunità scientifica e al mondo della formazione una lettura costruttivista sui processi conoscitivi con indi-cazioni che hanno fatto scuola nell’ambito della progettazione degli am-bienti di apprendimento sia online che offline. In particolare gli elementi apprezzati del suo pensiero si concentrano sui seguenti aspetti: approccio problem-based, nel senso che l’apprendimento ruota attorno a situazioni problematiche di vario tipo che colui che apprende si trova ad affronta-re; costruzione delle conoscenze in base alla personale interpretazione dell’esperienza; importanza del contesto (fisico, organizzativo, socio-cul-turale) come punto di riferimento fondamentale per risolvere problemi; centralità della motivazione e dell’interesse nel processo risolutivo (da cui si aprono poi tutte le riflessioni sull’apprendimento significativo); va-lorizzazione delle problematiche complesse, non strutturate, come fon-damentali per costruire competenze risolutive trasferibili nei più diversi contesti personali e professionali, impiego dei “casi” intese come “storie” narrate in forma critica, a partire dalle quali può essere impostato un processo di problem solving.

Le teorie sul problem solving hanno avuto varie fasi durante le quali si sono sviluppati diversi modelli, come ad esempio il classico General Pro-blem Solver (Newell & Simon, 1972). Questo modello si concentra so-prattutto su due momenti del processo di pensiero associato al problem solving: il momento della comprensione e quello della ricerca.

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Un altro modello molto noto è quello chiamato “IDEAL” (Bransford & Stein, 1984) inteso come un processo di: Identificazione di potenziali problemi, Definizione e rappresentazione del problema, Esplorazione di possibili strategie, Azione sulla base di queste strategie e Lungimiranza, come osservazione degli effetti delle azioni che si sono intraprese.

Gick e Hlyoak (1993) sintetizzano questo e altri modelli di problem solving in un modello semplificato in cui sono determinanti: il processo della costruzione della rappresentazione di un problema, la ricerca di soluzione, l’implementazione della soluzione e il monitoraggio.

La posizione di Jonassen rispetto a questi modelli è critica, perché ri-tiene che pur essendo utili dal punto di vista descrittivo, concepiscono i problemi tutti alla stessa maniera, assumendo che tipologie diverse di problemi in differenti contesti vengono risolti in modo simile (Jonassen 2010). Il problem solving, infatti, è un processo incredibilmente com-plesso del quale sappiamo ancora molto poco. Nelle prime ricerche il problem solving era concepito come un processo unidimensionale e line-are per la ricerca di soluzioni. Negli anni più recenti, la ricerca è passa-ta a un modello multidimensionale che include in particolare i seguenti aspetti: natura del problema, tipologie di rappresentazione del problema, natura del problem solver e i contesti.

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aPPrendImento sItuatoGiovanni Bonaiuti

Finalità

Gli autori interessati alla prospettiva della “cognizione si-tuata” rilevano che il fallimento dell’insegnamento scolasti-co si verifica soprattutto a causa dell’incolmabile distanza tra le modalità e le motivazioni che portano scienziati ed esperti allo sviluppo delle conoscenze (pratiche, scientifiche o disciplinari che siano) e le modalità e i metodi di trasferi-mento di questi saperi in un ambito completamente diver-so come è quello della scuola. Gli insegnanti e gli studenti sono impegnati a ricevere e rielaborare conoscenze prodot-te altrove, prese solitamente come “dato acquisito”, senza tenere conto che ogni conoscenza è invece eminentemente “situata”. Per lo studente, in particolare, ricevere nozioni decontestualizzate, astratte e, spesso, incomplete determina incomprensione, disinteresse e superficialità dell’apprendi-mento.

La “crisi dell’apprendimento”, di cui hanno dato conto più autori nel corso degli ultimi anni, “è stata evidenziata nel momento in cui si sono cominciate a studiare le pratiche di apprendimento in contesti non esplicitamente e intenzio-nalmente educativi. Si è cioè evidenziata proprio nel con-fronto con quei contesti lavorativi e di vita quotidiana nei quali l’apprendere non è un’attività separata e ad hoc, ma parte integrante ed essenziale nello svolgimento di attività significative” (Zucchermaglio, 1996, p.45).

Molti degli autori impegnati nel sottolineare lo stretto le-game tra conoscenze e contesto in cui queste si generano iniziano le proprie analisi confrontando l’apprendimen-to spontaneo, ad esempio della lingua orale da parte dei

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bambini (Gardner, 1993) o della matematica (Lave, 1995), e l’apprendimento formale nel contesto scolastico (ad esem-pio della lingua scritta o l’algebra). I problemi che si veri-ficano nella risoluzione dei compiti scolastici (astratti e de-contestualizzati) coinvolgono e riguardano anche gli stessi bambini che dimostrano, invece, una robusta capacità di apprendere prima e fuori dalla scuola. “La natura distribu-ita della prestazione competente significa che la competenza è altamente specifica della situazione. Si deve essere capaci di comportarsi in una particolare situazione, con strumenti par-ticolari e con particolari altre persone. [ ] La prospettiva della cognizione situata, allora, tende ad allontanare dalla ricerca delle strutture generali della conoscenza e a portare verso lo studio degli ambienti particolari dell’attività cognitiva e verso la conoscenza che si accorda con questi ambienti. Allo stesso tempo sottolinea la natura sociale dell’attività e dello svilup-po cognitivi” (Resnick, 1995b, p.76).

Da queste ricerche, sulla scorta di una prospettiva che vede quindi prioritaria la “partecipazione” (Lave, Wenger, 1991), l’esserci, il fare esperienza diretta, derivano modelli didatti-ci che rivalutano forme d’insegnamento antiche come l’imi-tazione o l’apprendistato in quanto maggiormente capaci di includere nel processo apprenditivo tutti i fattori in gioco: sia quelli espliciti (il come si fa), che quelli meno evidenti e difficilmente comunicabili come l’insieme delle conoscenze interrelate con quel contesto (perché lo si fa, quando, con quali convinzioni, ecc.).

In questa prospettiva la conoscenza non può quindi essere “trasferita”, ma solo acquisita, o meglio: “rubata” (Brown, Duguid, 1993). Rubata, nel senso di sottratta con la forza del desiderio da parte di chi apprende. Forza che si sviluppa solo quando lo studente è immerso e partecipa alle pratiche che giustificano e rendono significativo l’apprendimento.

Assieme ad una revisione concettuale, si assiste quindi – in

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questa prospettiva – ad una ridefinizione terminologica e prassica.

L’istruzione lascia il posto all’apprendimento: inteso come “possibilità” in mano allo studente, ma che in larga parte non dipende neppure dalla sua volontà, in quanto deter-minato dalla condizione di adeguatezza tra le conoscenze esterne, le sue e il sistema di valori e credenze derivanti dal-la sua appartenenza culturale.

L’attenzione all’implicito piuttosto che all’esplicito: la gran parte delle conoscenze (siano esse formalizzate in un libro, o presenti all’interno delle pratiche organizzative di un’a-zienda) sono tacite, non espresse. La possibilità di rendere esplicito l’implicito, che è una delle ambizioni della “cogni-zione situata”, non è semplice ma è una sfida indispensabile a cui devono guardare insegnanti ed educatori. Le difficol-tà, infatti, nascono dalla stretta interrelazione tra “noto” e “ignoto”, tra il concreto e l’astratto. Le informazioni si in-terrelano tra loro ed è oggettivamente difficoltoso descrive-re tutto, ma non si può prescindere dal rendere “trasparen-te” ciò che è sottinteso per chi conosce (come l’insegnante), ma è invece “ignoto” per chi non ha mai fatto esperienza.

Una delle difficoltà maggiori sta proprio nel processo di descrizione (sia dell’esplicito, sia dell’implicito) essendo l’esplicazione stessa un’attività sociale situata che mira a trasporre una pratica in una di diverso tipo attraverso il linguaggio. Brown e Duguid (1993) mettono quindi in evi-denza la supportività del contesto sociale in cui le pratiche avvengono. Il contesto sociale, spesso ignorato dalle pro-spettive tradizionali, fornisce invece un’ampia intelaiatura di conoscenze a supporto, attraverso reti dinamiche che si attivano all’emergere dell’esigenza. È quindi necessario ri-conoscere che quanto circonda il soggetto (le risorse fisiche e sociali che ha intorno a sé) “partecipa” intrinsecamente ai processi apprenditivi e cognitivi, non solo in quanto fonte

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e/o destinatario di input cognitivi, ma in quanto vero e pro-prio “veicolo” cognitivo.

Caratteristiche

La prospettiva teorica della cognizione situata (situated co-gnition) pone l’accento sull’inseparabilità della conoscenza dall’azione (Seely Brown, Collins e Duguid, 1989; Greeno, 1989).

La conoscenza si definisce in attività legate a contesti socia-li, culturali e fisici e non può essere separata dal contesto in cui questa si produce senza che si generino fraintendimenti, incomprensioni o acquisizioni parziali e superficiali.

Dal punto di vista dei processi di insegnamento e appren-dimento questo significa tenere conto del fatto che la co-noscenza non è una “merce” facilmente trasferibile. Dal momento che la conoscenza si produce sempre in specifici contesti (sociali, storici, culturali, ecc.) e che, come tale, ri-sente di attribuzioni valoriali, motivazionali, relazionali ed affettive proprie delle persone che prendono parte al pro-cesso di produzione negoziale della stessa, i teorici di que-sta prospettiva sostengono - in contrapposizione con una visione della conoscenza come “dato” trasferibile, memo-rizzabile e recuperabile all’occorrenza - che non sia facile immaginare un processo conoscitivo che non si collochi nel contesto di produzione della conoscenza. Apprendere è, in buona sostanza, partecipare alle pratiche di quelle comuni-tà all’interno delle quali si sviluppano le conoscenze (Lave, Wenger, 1991).

Quest’area di ricerca, che nasce dall’incrocio di prospettive teoriche diverse – come quella fenomenologica, antropolo-gica, sociolinguistica e psicologica – prende le distanze da quanti, concependo la conoscenza come dato oggettivabi-

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le, ipotizzano che la conoscenza possa essere generalizzata, astratta e trasferita da un soggetto all’altro attraverso pro-cessi di insegnamento e apprendimento decontestualizzati (questoquanto normalmente avviene nella scuola, non solo italiana).

Il termine “situata” è utilizzato proprio per sottolineare come ogni conoscenza sia strutturalmente dipendente dalle circostanze materiali e sociali in cui si è sviluppata e che pertanto abbia valore ed un significato solo se esperita in tali contesti. Le stesse parole che usiamo per esprimerci de-nunciano spesso questa dipendenza con il contesto in cui si svolge l’azione comunicativa. Pensiamo all’uso di termini come “questo”, “il prossimo”, “ora”, parole che rimandano a specifiche situazioni: “il significato comunicativo di una espressione linguistica è sempre dipendente dalle circostan-ze del suo uso. In questo senso il linguaggio è una forma di azione situata che presuppone e implica l’esistenza di molti fatti che non è necessario esplicitare e che devono essere dati per conosciuti” (Zucchermaglio, 1996, p. 36). Analoga-mente al linguaggio, che in larga parte consente e struttura la conoscenza, anche la conoscenza stessa è costituita da parti interconnesse ed “indicizzare” inestricabilmente con il mondo delle situazioni in cui è stata prodotta (Brown, Collins, Duguid, 1989).

Sono molti gli esempi, tratti dalla vita quotidiana, che po-trebbero essere fatti per mostrare questo fatto. Molte delle azioni più ricorrenti che svolgiamo si avvalgono di strumen-ti per il cui utilizzo sono necessarie competenze frutto di co-noscenze situazionali. Non ci accorgiamo delle implicazioni del contesto fintanto che si rimane immersi nella normalità della consuetudine ed è solo quando ci troviamo a fronteg-giare situazioni inedite che questi aspetti emergono con una certa evidenza.

Brown e colleghi (1989), nel chiarire la differenza tra la

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mera acquisizione di conoscenze inerti e lo sviluppo di ro-buste ed utili conoscenze, presentano l’esempio di uno stru-mento inconsueto, tra i molti disponibili, presente in alcuni coltelli a serramanico in vendita negli Stati Uniti. Si tratta di uno strumento per togliere i sassi dagli zoccoli dei caval-li, che essendo diventato desueto non solo è sconosciuto ai più, ma anche coloro che ne conoscono la funzione sicura-mente non saprebbero come utilizzarlo nella realtà. È solo nella pratica, nell’appartenenza ad una determinata cultura, in uno specifico contesto storico (in questo caso nello stesso paese, solo un centinaio di anni fa...), che le conoscenze as-sumono un significato e diventano parte attiva ed integrante degli individui.

Ambiti di applicazione

Non ci sono ambiti in cui questa prospettiva non possa tro-vare collocazione. La scuola in quanto luogo dove si im-magina di poter “piazzare” conoscenze maturate altrove è, ovviamente, il luogo che maggiormente può beneficiare dall’applicazione di queste idee. Dal momento che l’approc-cio della cognizione situata suggerisce che l’apprendimento è possibile attraverso la partecipazione e l’interazione diret-ta con un contesto capace di suscitare un autentico interesse nel discente è facile immaginare quali siano le conseguenze operative più indicate: esperienze dirette, laboratori, utiliz-zo di video, impiego di simulazioni e ogni altra modalità che consenta di promuovere la pratica.

Apprendere significa sostanzialmente acquisire la capacità di utilizzare in maniera competente gli strumenti, materiali e concettuali, disponibili in un determinato contesto. Se per apprendere è necessario fare esperienza, essere coinvolti, partecipare praticamente, è ovvio che la scuola così com’è non possa funzionare. La sfida che questa visione pone a formatori, educatori ed insegnanti è dunque quella di riflet-

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tere sul proprio compito a partire dalla ricerca di connes-sioni con situazioni concrete e delle opportunità in grado di interfacciare i contesti operativi e permettere lo svolgi-mento di attività “autentiche” dal momento che è molto più complicato e meno efficace apprendere attraverso attività innaturali. L’apprendimento situato incoraggia gli educatori ad inserire gli studenti in ambienti che siano il più possibile vicino ai contesti nei quali le nove conoscenze e comporta-menti dovranno poi essere applicati (Schell & Black, 1997).

Ci sono ambiti, come quello sportivo o della pratica pro-fessionale, dove tutto ciò è più semplice da applicare - e ciò nonostante è anche in questi contesti forte la tentazione di separare teoria e pratica, azione educativa da esperienza diretta.

Tra i modelli applicativi più noti è necessario menzionare l’apprendistato cognitivo (Cognitive Apprenticeships) pro-posto da Collins, Browne Newman(1995) che recupera e valorizza il modello delle “botteghe artigiane”, attraverso l’assimilazione dell’allievo ad un apprendista chiamato a svolgere, in modo funzionale, le pratiche osservate dall’in-segnante visto come esperto. Gli autori, nel proporre que-sto modello, si rifanno all’apprendistato tradizionale che, per promuovere la competenza esperta, si avvale di quat-tro momenti principali: ilmodelling(l’apprendista osserva ed imita il maestro che dimostra come fare), ilcoaching(il maestro assiste continuamente secondo le necessità: dirige l’attenzione su un aspetto, dà feedback, agevola il lavoro), loscaffolding(il maestro fornisce un appoggio all’appren-dista, uno stimolo, pre-imposta il lavoro, ecc.) e ilfading(il maestro elimina gradualmente il supporto, in modo da dare a chi apprende uno spazio progressivamente maggiore di responsabilità). L’apprendistato cognitivo, che si differenzia dall’apprendistato tradizionale per la maggiore attenzione alla risoluzione di una generalità non definita di situazio-ni, quindi trasferibili in contesti diversi da quello inizia-

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le, introduce ulteriori strategie (cfr. Calvani, 1995), quali: l’articolazione(si incoraggiano gli studenti a verbalizzare la loro esperienza), lariflessione(si spinge a confrontare i pro-pri problemi con quelli di un esperto) e l’esplorazione(si spinge a porre e risolvere problemi in forma nuova).

Lave e Wenger (1991), descrivendo l’apprendimento come parte integrale di un processo di partecipazione alle pratiche sociali sottolineano alcune caratteristiche che dovrebbero essere sempre tenute in considerazione nell’allestimento di situazioni didatticamente significative. L’apprendimento è, e deve essere, generativo. Ciò significa che essendo un atto di creazione e ri-creazione di conoscenze richiede di essere praticato, esercitato concretamente.

L’apprendimento è un processo sociale, ciò suggerisce che almeno una porzione di ciò che si apprende debba avvenire a stretto contatto, in collaborazione, con gli altri e, comun-que, in contesti socialmente collocati. L’apprendimento è strettamente connesso con il mondo reale in cui si vive, le conoscenze che risultano più rilevanti, significative, utili (e quindi trasferibili) sono quelle che si sviluppano in contesti concreti.

Da questo punto di vista piuttosto che impegnare gli stu-denti in sterili esercizi di ripetizione o astratti problemi da risolvere carta e penna è più interessate offrire occasioni per applicare e praticare concretamente le conoscenze acqui-site. Si pensi, solo per fare un esempio, alla differenza che corre tra l’apprendimento di una lingua straniera attraverso lo studio delle regole della grammatica rispetto all’offrire conversazioni e attività che portino a diretto contatto con la complessità, la variabilità e la ricchezza delle situazioni espressive della nuova lingua.

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autorI pIù sIGnIfIcatIvI e rIferImentI concettualI

Sono molti gli autori che hanno contribuito al dibattito in questo senso. Tra questi è necessario fare riferimento almeno a John Seeley Brown, Alan Collins, Susan Newmann, Paul Duguid, James Greeno, Jane Lave, Etienne Wenger, Barbara Resnick, Patricia Greenfield, Barbara Rogoff, Gavriel Salomon, Michael Cole

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343Ambienti di apprendimento per la formazione continua

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345Ambienti di apprendimento per la formazione continua

case-based reasonIng

Giovanni Marconato

Finalità

Il Case-based Reasoning è il processo che porta alla solu-zione di un nuovo problema sulla base delle soluzioni date in precedenza a problemi simili; è il processo che si attiva quando un medico, un avvocato o un meccanico fanno af-fidamento sulla propria esperienza per porre rimedio ad un problema che stanno affrontando.

Rispetto a sistemi basati su regole (come i sistemi esperti), che sono utili solo quando rispetto ad un problema sono possibili una o un numero limitato di soluzioni, i sistemi ba-sati su casi sono utili quando si tratta di risolvere problemi complessi con molte soluzioni alternative possibili.

Il Case-based Reasoning è, anche, una teoria della memoria che spiega come apprendiamo organizzando le nostre espe-rienze in forma di narrazione e recuperando, adattandoli quando serve, quegli apprendimenti quando si devono riu-sare le nostre conoscenze.

L’aver dato conto in modo rigoroso e convincente di come avvengono i processi di apprendimento e di soluzione di problemi (secondo analogia) in situazioni di vita reale, non di laboratorio, consente agli organizzatori di formazione di attivare ambienti di apprendimento straordinariamente ef-ficaci quando si perseguono finalità di apprendimento pro-fessionale e quando l’utenza è poco allenata ad utilizzare il pensiero astratto ed il ragionamento deduttivo.

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Descrizione

Il case-based reasoning è un approccio descrittivo dell’ap-prendimento umano basato sulla teoria della memoria se-condo la quale le esperienze sono codificate nella memoria in forma di storie e recuperate e riusate quando necessario (Schank, 1990; Kolodner, 1993).

Le culture si sono mantenute in vita attraverso la trasmis-sione di differenti tipi di storie, come i miti, le leggende, i racconti, le fiabe.

Gli esseri umani sembrano avere un’abilità innata ed una predisposizione ad organizzare ed a rappresentare la pro-pria esperienza in forma di storie. Raccontare storie ci aiuta nella comprensione delle azioni umane attraverso la com-prensione degli eventi passati (Polkinghorne, 1988) e ci aiu-ta a dare forma all’identità personale.

Il case-based reasoning (CBR) nasce dagli studi di Roger Schank nei primi anni 1980 ed ha origine negli studi sull’in-telligenza artificiale; si tratta di una concettualizzazione im-piegabile in numerose situazioni al fine di promuovere il ra-gionamento e la risoluzione di problemi. Il modello prevede che le vecchie esperienze, o “casi”, dopo essere state sele-zionate da parte di un soggetto pensante (umano o macchi-na) a partire dalla similitudine con una nuova situazione da affrontare, siano impiegati per comprenderla o risolverla.

Dopo Schanck, le ricerche in questo ambito sono state svi-luppate all’inizio degli anni Novanta da J. Kolodner (1983, 1992). L’obiettivo di questi lavori era, in particolare, fina-lizzato allo sviluppo di sistemi software capaci di riprodur-re comportamenti analoghi a quelli attivati dalle persone quando si trovano a dovere affrontare e risolvere i problemi nei diversi contesti della vita quotidiana.

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347Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Secondo Kolodner (1983, 1992) ci sono due principali mo-dalità di impiego del CBR: finalizzato al problem solving e finalizzato all’interpretazione.

Nella modalità problem solving i “casi” sono utilizzati come esempi su cui basare i ragionamenti in vista della soluzioni di nuovi problemi. I casi sono cioè intesi come “vecchie so-luzioni” in grado di facilitare l’individuazione di strategie di intervento e di segnalare pericoli, errori o criticità che potrebbero ostacolare la risoluzione del nuovo problema.

Nella modalità interpretativa, invece, l’obiettivo del CBR non è necessariamente la risoluzione di un problema, quan-to la comprensione e l’interpretazione di una situazione si-mile ad altre precedentemente accadute. È il caso, ad esem-pio, di quando un avvocato studia gli argomenti usati in contenziosi precedenti al fine di interpretarne uno nuovo.

Nell’approccio alla conoscenza, si possono intraprendere due vie (Leake, 1995), quella tipica dei sistemi basti sulla logica, cioè su regole che sono instabili, che richiedono una comprensione profonda e completa, che sono difficili da approcciare da parte del “senso comune, e quella proposta dal Case-based Reasoning, che è caratterizzato da esempi e non da regole, presenta una certa flessibilità, consente di operare anche sulla base di una comprensione incompleta, il senso comune viene recuperato in quanto inserito negli esempi.

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L’apprendimento nella prospettiva del ragionamento at-traverso il ricordo postulato dal CbR, presenta le seguen-ti componenti e si sviluppa lungo questo ciclo (da Leake 1995):

Il sistema C-bR è imperniato su di un Case Base, un databa-se di casi (un caso è una esperienza passata, la codifica di un problema e della sua soluzione).

Dovendo risolvere un nuovo problema, la persona recupera dalla propria case-base i casi in cui sono codificati problemi simili a quello che si trova a dover risolvere: qui entra in azione il meccanismo della similarità.

La passata esperienza viene riusata per costruire la soluzio-ne al nuovo problema ed attraverso un processo di adatta-mento si genera la revisione della soluzione ipotizzata per tenere in considerazione le differenze tra il nuovo problema rispetto a quello recuperato in precedenza.

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Una volta messa a punto la nuova soluzione, il caso e la soluzione messa a punto, se ottenuto un esito positivo, sono conservate e vanno ad implementare la case-base.

In questo processo hanno rilevanza le caratteristiche o gli attributi dei casi, la loro similarità o la distanza e la differen-za. Il nuovo problema viene risolto sulla base dell’ipotesi che problemi simili abbiamo una soluzione simile. Le dif-ferenze tra i problemi attivano meccanismi di adattamen-to, cioè attivano cambiamenti della soluzione suggerita dal caso recuperato sulla base di conoscenze addizionali.

Il nuovo caso viene inserito nella case-base personale solo dopo un processo di valutazione del funzionamento della soluzione: se la soluzione ha avuto l’effetto desiderato, il si-stema ha appreso e la coppia problema – soluzione entra a far parte del sistema cognitivo della persona in forma di nuovo caso disponibile per futuri recuperi.

Il processo del Case-based Reasoning è composto da quat-tro contenitori di conoscenza la cui interazione rende possi-bile lo sviluppo dell’apprendimento• le specifiche delle caratteristiche dei casi;• le misure della similarità;• la case-base;• i piani d’azione per l’adattamento.

L’intero sistema funziona sulla base dei seguenti assunti:• problemi simili hanno soluzioni simili:• il dominio del problema è regolare: ciò che è vero oggi,

probabilmente sarà vero domani:• le situazioni si ripetono, altrimenti non c’è alcun bene-

ficio nel ricordarle.

Dal punto di vista didattico la tematica dell’indicizzazione dei casi assume un ruolo critico. Gli indici associati ai casi ci dicono quali siamo le lezioni che quel caso insegna, ovvero

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cosa si possa imparare da quel caso.

Schank (1990) afferma che “ tutto ciò che passa per intel-ligenza altro non è che un imponente schema di indicizza-zione e recupero che consente ad un entità intelligente di determinare quali delle informazioni presenti in memoria sono rilevanti per la situazione presente per poterle ricerca-re e trovare (pp. 84-85).

Data una situazione di problem solving, raccontiamo storie con un qualche scopo in mente, così il processo di indiciz-zazione cerca di chiarire quale sia quello scopo del’azione. Schank (1990) ritiene che oggetto degli indici dovrebbero essere l’esperienza, i temi, gli obiettivi, i piani, i risultati e le lezioni che sono state apprese nello svolgimento di quella attività e che è possibile che un terzo apprenda dalla stessa.

I temi sono i contenuti di cui si parla, gli obiettivi sono la ra-gione dell’esperienza, i piani sono gli approcci personali per conseguire quegli obiettivi. I risultati descrivono i prodotti dell’esperienza. La lezione è la morale della storia, la cosa più importante che ci portiamo via dal caso.

L’indicizzazione è il processo di attribuzione di etichette ai casi quando li inseriamo nella raccolta dei casi (Kolodner, 1993). Questi indici sono usati per recuperare le storie quando è necessario comparando problemi nuovi con quel-li depositati nella raccolta di casi.

Le storie possono essere indicizzate in due modi. Il metodo più comune è attraverso un input diretto da parte dell’uti-lizzatore umano che può attribuire l’indice più appropriato per rendere quel caso nuovamente accessibile nella raccolta di casi. Le storie possono anche essere indicizzate adattan-do e re-indicizzando casi esistenti a nuove situazioni (Ko-lodner & Guzdial, 2000; Kolodner, 1992). Per ogni caso è necessario identificare gli indici rilevanti che consentiranno

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ai casi di essere richiamati in ogni situazione.

Le raccolte di casi sono organizzate in forma di database. Gli indici che sono stati scelti per la raccolta di casi diventa-no i campi del database. Ogni storia è un record del databa-se. Ogni indice definisce un campo del database. In questo modo, il contenuto di ogni cella del database contiene le in-formazioni su ogni caso che esemplifica il campo dell’indice

Al CBR sono state mosse alcune critiche, una di queste è che si tratta di un approccio che accetta “prove anedotti-che” quale principale principio di funzionamento. Le “pro-ve anedottiche” sono dei limitati esempi di casi più generali e per questo potrebbero essere limitatamente affidabili per una generalizzazione corrette. Comunque, ogni ragiona-mento induttivo (ricavare principi generali da esempi spe-cifici) dove i dati sono scarsi per avere rilevanza statistica è basato su prove anedottiche. Altre critiche riguardano la possibilità che i casi presenti nella case-base siano scadenti, che possano contenere delle distorsioni, che casi significati-vi possano non essere recuperati ed usati e che sia comun-que necessaria una specifica conoscenza anche per le attivi-tà di recupero ed adattamento.

I vantaggi sono, comunque quelli di avere, attraverso i casi presenti nella case-base, soluzioni rapidamente accessibili, che non siano implementate soluzioni improvvisate, che il dominio di conoscenza non sia necessariamente e comple-tamente compreso per implementare una soluzione, che sia un approccio utile per affrontare problemi e concetti aperti e non strutturati e che i casi mettano in risalto caratteristi-che importanti del problema.

Ambiti di applicazione

Considerato che, come il CbR ha dimostrato, le persone

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basano la gran parte delle proprie decisioni e delle proprie azioni sui ricordi di situazioni simili esperite direttamente o di cui si è venuti a conoscenza e che attraverso l’azione e l’osservazione degli altri o l’ascolto di narrazioni e storie di casi si impara a “stare al mondo”, è provato che in questo modo si apprendono conoscenze pratiche, ma anche com-petenze sociali, affettive e relazionali.

Poter far riferimento a casi e ad esperienze concrete, anche quando queste non siano state esperite direttamente dallo studente, rappresenta infatti uno stimolante pretesto per fa-vorire l’apprendimento in molti ambiti del sapere.

Imparare dai fatti, dalle esperienze, dalle cose concrete, esperite direttamente o acquisite attraverso la visione o il racconto, in quanto modo innato, naturale, ergonomico di capire e conoscere, è meno faticoso rispetto a modalità qua-li lo studio di concetti generali e formali. Gli studenti si sen-tono più motivati e coinvolti quando possono confrontarsi con casi concreti, piuttosto che con lontane e complesse astrazioni.

La vita, anche professionale, ci pone davanti a situazioni “ill-structured”, ovvero scarsamente strutturate. Tali situa-zioni, che di fatto rappresentano la gran parte di quelle che ognuno di noi si trova a sperimentare nella propria vita, si pongono come problematiche, contraddittorie, capaci di accogliere molteplici soluzioni e per fronteggiarle adegua-tamente si richiede di ricorrere, con flessibilità, alla propria esperienza, mobilitando sia capacità di analisi che di valu-tazione.

La scuola non sempre è in grado, attraverso i metodi tra-dizionali, di promuovere questo tipo di approcci e compe-tenze.

Nell’insegnamento scolastico è possibile andare incontro a

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353Ambienti di apprendimento per la formazione continua

due diversi problemi: da una parte l’offerta di concettua-lizzazioni molto astratte e generali, e come tali capaci di adattarsi (in teoria) a numerose situazioni pratiche, ma che poi nei fatti falliscono proprio nell’applicazione pratica o, al contrario, l’offerta di istruzioni semplici e circostanziate in grado di fornire anche ai novizi la possibilità di compren-derle e metterle in pratica, ma solo in contesti molto spe-cifici. Nel primo caso si assiste all’impossibilità per molti studenti di comprendere e, quasi per tutti, alla difficoltà di trasferire tali conoscenze astratte nella pratica. Nel secondo caso si aiutano gli studenti ad imparare a risolvere “proble-mi prototipali”, ma non si forniscono gli strumenti per lo sviluppo di strutture conoscitive ampie indispensabili per risolvere i casi più complessi e variabilità che pervadono la vita professionale.

Il case-based reasoning, può essere un riferimento concet-tuale impiegabile in qualunque ambito disciplinare e, in par-ticolare, in tutti quei settori dove sia importante il passaggio dalla teoria alla pratica e lo sviluppo del pensiero riflessivo e si pone come strategia per fornire una rappresentazione ampia e sfaccettata dei contenuti di apprendimento, faci-litando la comprensione della complessità senza incorrere nel rischio dell’iper-semplificazione.

autorI pIù sIGnIfIcatIvI e rIferImentI bIblIoGrafIcI

I primi lavori sul CBR si trovano nei lavori di Roger Schank e dei suoi studenti alla Yale University nei primi anni 1980.

Il modello della memoria dinamica di Schank è stato poi alla base di altri modelli e lavori tra cui quelli di Janet Kolodner (CYRUS) di Michael Lebowitz (IPP) di Rand Spiro e colleghi (CFT).

Dave Jonassen ha recentemente riproposto il CBR come strumento per lo sviluppo della capacità di comprendere, affrontare e risolvere i pro-blemi in domini caratterizzati da situazioni concettualmente complesse.

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Spiro, R.J., Coulson, R.L., Feltovich, P.J., & Anderson, D. (1988). Cogni-tive flexibility theory: Advanced knowledge acquisition in ill-structured domains. In V. Patel (ed.), Proceedings of the 10th Annual Conference of the Cognitive Science Society. Hillsdale, NJ: Erlbaum.

Spiro, R.J., Feltovich, P.J., Jacobson, M.J., & Coulson, R.L. (1992). Cog-nitive flexibility, constructivism and hypertext: Random access instruc-tion for advanced knowledge acquisition in ill-structured domains. In T. Duffy & D. Jonassen (Eds.), Constructivism and the Technology of Instruction. Hillsdale, NJ: Erlbaum.

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case-based learnIngGiovanni Marconato

Finalità

Il Case-based Learning è prima di tutto un modello concet-tuale che ispira la progettazione didattica ed è caratteriz-zato dal utilizzare dei “casi” come risorsa didattica invece di utilizzare “contenuti”. Ovvero, un approccio didattico in cui i “contenuti” disciplinari, i concetti, le teorie sono presentati attraverso casi che rappresentano delle applica-zioni contestualizzate di quei contenuti, di quei concetti, di quelle teorie.

La finalità di questo approccio è di facilitare l’apprendi-mento, la comprensione autentica dei “contenuti” messi ad oggetto dell’azione didattica, tanto in contesti di formazio-ne di adulti che di istruzione e formazione.

Caratteristiche

Tipicamente, gli interventi formativi, anche quando sono rivolti a giovani ed adulti e finalizzati allo sviluppo di com-petenze pratiche o alla maturazione di atteggiamenti socio-relazionali, si focalizzano principalmente sui “contenuti” da insegnare e apprendere.

I progettisti, come pure i formatori, trovano cioè più age-vole e produttivo sintetizzare quanto si immagina debba essere appreso sotto forma di conoscenze codificate. Que-sta impostazione, che produce in aula il modello classico di lezione con i tipici momenti della spiegazione e della successiva verifica, risulta essere in molti casi poco efficace. Scarsa motivazione, noia, insofferenza, mancanza di senso, incomprensione delle connessioni con la realtà e difficoltà

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a mettere in pratica quanto appreso sono solo alcune delle conseguenze di questo approccio.

Molto è stato detto, negli anni, sui problemi legati al dare centralità dei contenuti e molte soluzioni sono state avanza-te. Un approccio particolarmente interessante risulta essere quello che rimette al centro “i casi” concreti da cui le cono-scenze si sviluppano.

Piuttosto che strutturare un curricolo attorno a contenuti, per facilitare la comprensione e l’utilizzo di quei concetti, di quelle teorie, lo si dovrebbe strutturare attorno a problemi, a casi, ad esperienze. Questo non significa che i contenuti siano irrilevanti ma che si dovrebbero identificare problemi o casi che affrontino tutti i contenuti rilevanti.

E’ possibile passare da una didattica basata su “contenuti” ad una didattica basata su ”casi”? Se si, in quale misura e come si potrebbe fare?

Il fondamento logico della didattica attraverso i casi è che i casi rappresentano esperienze e che queste sono meglio comprese e ricordate dei contenuti.

Il case-based learning, come viene denominato questo ap-proccio, si basa sul principio che la focalizzazione dell’inse-gnamento dovrebbe essere sui casi (cioè su esperienze) che illustrano i contenuti.

Quando un curricolo è organizzato attorno a “contenuti”, la domanda più che giustificata che un progettista di for-mazione o un formatore possono farsi è: “come è possibile passare da una didattica basata su contenuti ad una basata su casi?”.

I casi si possono ottenere lavorando con più esperti o pro-fessionisti, persone con parecchi anni di esperienza ed una

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volta descritto loro il contenuto o la teoria che si vorrebbe insegnare, va chiesto di ricordare un’esperienza che esem-plifichi quel concetto o quella teoria. Le narrazioni vanno indicizzate e con questi indici si pianifica la didattica.

Utilizzare “casi” al posto di “contenuti” non significa ri-nunciare ai classici contenuti ma significa rappresentare quei contenuti in formato differente che non è quello della “descrizione” formalizzata ed astratta delle discipline, ma quello della “narrazione” di situazioni specifiche e conte-stualizzate in cui quei contenuti sono rinvenibili. Possia-mo dire che il “caso” presenta un “contenuto” così come esso prende forma nel mondo reale (qui varrebbe la pena considerare come i “contenuti” disciplinari altro non sono che la formalizzazione, la generalizzazione, l’astrazione di fenomeni presenti nel mondo reale; lavorare con “casi” può significare, quindi, ritornare alle origini della conoscenza). Con questo approccio, ciò che deve essere appreso (una “conoscenza”) viene trattato didatticamente in un formato differente, formato che per le ragioni espresse più avanti in questa scheda, dovrebbe facilitare l’apprendimento. Quando si pianifica la didattica, si possono inserire casi come problemi da risolvere, casi come esperienze prece-denti, come prospettive alternative.

La conversione di contenuti in casi o problemi è un lavoro che può rivelarsi, almeno all’inizio anche impegnativo, dal momento che può richiedere una consistente interazione tra lo staff educativo e i professionisti del settore per trovare la correlazione tra contenuti didattici e pratica professionale.

Tale sforzo non è però mal riposto perché, oltre a dare vita ad interventi più interessanti e ad apprendimenti più stabili, contribuisce a creare un patrimonio di risorse che potranno essere re-impiegate negli anni.

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Il principio di favorire lo sviluppo di conoscenza da utiliz-zare in contesti reali per risolvere problemi o per realizzare delle attività vale tanto per le discipline professionali che per quelle generali come storia o lingua italiana anche se per le materie pratico - professionali il suo utilizzo è più agevole ed efficace. In linea di principio, non tutti i metodi possono andare bene in tutte le situazioni didattiche ma il case-based learning è un approccio decisamente robusto ed utilizzabile estensivamente, anche se qui in Italia è poco utilizzato.

La formazione ha la finalità di sviluppare abilità finalizzate all’esecuzione di procedure ed al riconoscimento ed al fron-teggiamento di differenti situazioni professionali, la forma-zione ha lo scopo di aiutare a risolvere problemi.

Per questo, la formazione, anche degli adulti, dovrebbe es-sere organizzata attorno a problemi,Piuttosto che strutturare la formazione su “contenuti” i, l’insegnamento dovrebbe impegnare gli studenti nella solu-zione di problemi perché questi:• sono autentici: nella vita di tutti i giorni e nel lavoro,

i lavoratori risolvono di continuo problemi che sono non-strutturati (soluzioni non convergenti, metodi di soluzione non predeterminate),

• sono intenzionali: i problemi danno una scopo per l’ap-prendimento attivando motivazione intrinseca,

• offrono ancoraggio concettuale: ciò che le persone im-parano mentre risolvono problemi è più significativo, più integrato, meglio ritenuto, e maggiormente trasfe-ribile di quello sviluppato apprendendo attraverso la memorizzazione di contenuti,

• sono organizzati secondo ontologie: la conoscenza che risulta dalla soluzione di problemi è maggiormente si-gnificativa, meglio organizzata, maggiormente applica-bile.

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Centralità dei casi

Uno degli obiettivi della formazione potrebbe essere quello di favorire lo sviluppo di abilità di probem solving.

Una volta assunto questo obiettivo dovremo interrogarci sui i metodi più efficaci per aiutare gli studenti ad imparare a risolvere problemi. Per imparare a risolvere problemi nella loro carriera professionale, i partecipanti alla formazione do-vrebbero fare pratica a risolvere problemi. Ciò significa che per imparare e risolvere problemi quotidiani e professionali è insufficiente raccontare semplicemente come risolvere pro-blemi e valutare la comprensione di ciò che è stato loro detto.

La soluzione di problemi è un’attività esperienziale. Le cono-scenze che le persone ricordano e trasferiscono con maggior efficacia arrivano dalla loro esperienza di soluzione di proble-ma, non da lezioni sui contenuti del dominio di riferimento.

Il mezzo principale del problem-based learning è il caso. Le esperienze sono abitualmente veicolate in forma di casi. Pertanto, tutto l’apprendimento basato su problemi è, an-che, basato su casi. I problemi da risolvere sono rappre-sentati da casi (esperienze) ed altri casi (esperienze) sono utilizzati didatticamente in diversi modi per supportare la soluzione di problemi.

Come esistono differenti tipi di problemi, ci sono anche differen-ti tipi di casi e questi si differenziano per i modi in cui sono usati.

Cosa sono i casi?

Per il nostro scopo, un caso è la rappresentazione di un’e-sperienza o di una situazione.

I casi aziendali, come quelli della Harward University, la prima università ad aver utilizzato in modo estensivo il me-

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todo dello studio di caso, normalmente consistono di una descrizione narrativa di problemi aziendali complessi. Nel metodo di apprendimento noto come “studio di casi”, gli studenti studiano quei casi ed analizzano le decisioni e le azioni che vennero prese.

Ciò che rende i casi potenti strumenti per l’apprendimento è che nelle professioni e nei mestieri gli operatori capiscono e ricordano in termini di esperienze (casi). Albert Einstein disse: “tutto il vero apprendimento è esperienza. Ogni altra cosa è informazione”.

Abitualmente, i casi rappresentano l’esperienza in forma di una storia che attiva la memoria episodica (memoria degli eventi autobiografici), forma di memoria che è molto più resistente ad essere dimenticata della memoria semantica (memoria dei significati, della comprensione, dei concetti).

Gli esseri umani sembrano possedere un’abilità innata, una predisposizione naturale ad organizzare ed a rappresentare la propria esperienza in forma di storie. Le storie richiedo-no uno sforzo cognitivo inferiore per la forma narrativa che esse hanno di dare struttura all’esperienza (Bruner 1990).

In cosa consistono i casi?

Nella formazione, un caso consiste nella presentazione di una situazione problematica che richiede una soluzione da parte di un operatore. Può trattarsi di una storia su un even-to passato. La storia descrive il contenuto, il problema, i tentativi di soluzione ed i risultati degli sforzi fatti per far fronte alla questione.

Molti casi sono rappresentati come la storia di un’esperienza o di una situazione problematica. La storia può essere integra-ta ed arricchita con grafici o video. Il caso può avere associato della documentazione che descrive il contesto dell’esperienza.

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In quale modo i casi supportano l’apprendimento?Nel cased-based learning, i casi sono i mattoni degli ambienti di apprendimento. Questi ambienti comprendono una com-binazione di casi necessari ad aiutare gli studenti ad imparare come risolvere problemi. Piuttosto che insegnare agli studenti astrazioni teoriche del campo di studio, i casi abitualmente de-scrivono situazioni o scenari dove quelle teorie sono applicate.

In realtà i casi sono esempi di principi e teorie. Senza esem-plificazioni, le teorie non acquisiscono significato.

Una utile tipologia di casi (Jonassen 2006) si basa sulla fun-zione dei casi, sui modi, cioè, in cui gli studenti utilizzano i casi. I casi possono essere usati come problemi da risolve-re, come esercizi svolti di come risolvere il problema, come esperienze precedenti che forniscono un aiuto su come risolvere un problema, e come prospettive alternative sul problema da risolvere. Va notato che queste classi descrivo-no il modo in cui i casi sono usati, non la struttura, la forma o la rappresentazione dei casi.

Casi come problemi da risolvere

I casi possono essere usati per presentare problemi che gli studenti dovrebbero imparare a risolvere. I casi come pro-blemi da risolvere forniscono informazioni di sfondo ed in-formazioni di contesto che aiutano a definire ed a descrivere il problema. I casi come problemi da risolvere hanno molte applicazioni nelle pratiche didattiche, come l’anchored in-struction, i goal-based scenarios, il problem-based learning.

Casi come esperienze precedenti

Quando si incontra un nuovo problema, la maggior parte di noi tenta di recuperare dalla propria memoria casi di pro-blemi risolti in precedenza allo scopo di riusare i vecchi casi. Se la soluzione suggerita dal caso precedente non funziona,

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quel caso deve essere revisionato. Quando nessuna soluzio-ne torna utile, quel caso viene messo da parte per un utilizzo successivo. Il C-BR è basato sulla teoria della memoria in cui gli eventi (episodi, esperienze) vengono codificati in forma di script (sceneggiatura). Questi script di uso comune, sono codificati nella memoria e recuperati e riusati quando ne-cessario. Il Case-based Reasoning e le raccolte di casi sono ampiamente descritte nella scheda “Case-based reasoning”

Nella vita reale, le lezioni che impariamo meglio sono quel-le che sono basate su esperienze in cui abbiamo applicato, anche senza saperlo, una teoria o un principio. Quelle espe-rienze sono esempi delle teorie e dei principi che abbiamo studiato. Piuttosto che insegnare teorie senza esempi (per-ché non hanno significato), nel case-based learning vengo-no presentati casi che sono degli esempi delle teorie. Quei casi sono di maggior significato per gli studenti.

I casi come prospettive alternative

I problemi non strutturati tendono ad essere più complessi di quelli strutturati. Nei domini di conoscenza complessa o nei problemi complessi, la loro implicita complessità do-vrebbe essere evidenziata allo studente portandolo a con-siderare le prospettive alternative presenti nel problema al fine di costruire un significato personale del problema stesso. La teoria della flessibilità cognitiva (vedi scheda su-gli Ipertesti per la flessibilità cognitiva) propone l’uso di ipertesti per mettere a disposizione degli studenti un ac-cesso casuale a prospettive ed a rappresentazioni tematiche multiple dei contenuti. Gli ipertesti rendono possibile agli studenti di attraversare in modo incrociato i casi che stanno studiando attraverso l’uso di rappresentazioni concettuali multiple, di collegare i concetti astratti a casi differenti, di evidenziare la natura correlata della conoscenza attraverso relazioni tematiche tra i casi ed incoraggiano gli studenti ad organizzare ciò che sanno nei termini dei casi, delle prospet-

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tive e dei temi presenti nell’ipertesto. L’interconnessione di casi concreti e prospettive con temi astratti, consente agli studenti di sviluppare una base di conoscenza più comples-sa e coerente. La maggior parte dei problemi non strutturati richiede l’uso di casi come prospettive alternative. La teoria della flessibilità cognitiva e l’uso di casi come prospettiva alternativa sono descritti in maggior dettaglio nella scheda “Ipertesti per la flessibilità cognitiva”

I professionisti dei diversi mestieri risolvono problemi. Ogni problema che risolvono rappresenta un’esperien-za. Le esperienze di soluzione di problemi sono ricordate e riusate con maggior efficacia della maggior parte dell’i-struzione fatta attraverso metodi convenzionali. Per questa ragione, la formazione dovrebbe svilupparsi attorno a casi che raccontano differenti tipi di problemi. Questi casi assol-vono a differenti funzioni durante la formazione: casi come problemi da risolvere, casi come esercizi svolti, casi come esperienza precedente e casi come prospettive alternative. Domande specifiche oppure organizzate in forma di ask sy-stem (vedi scheda dedicata) possono essere usate per guida-re lo studente alla comprensione di quei casi.

Ambiti di applicazione

Questo approccio, avendo declinazioni operative differenti anche con riferimento alla funzione dei casi (vedi paragra-fo precedente), può essere utilizzato in un’ampia gamma di contesti formativi, di obiettivi di apprendimento, di domi-nio di conoscenza.

Sulla base di casi si possono organizzare interi ambienti di apprendimento (ad esempio ask system, ipertesti per la flessibilità, case-based scenarios) oppure utilizzare casi in un contesto didattico caratterizzato da approcci basati su contenuti.

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Utilizzando casi come esperienze precedenti o come pro-spettive alternative, si possono attivare ambienti di appren-dimento orientati al problem solving tanto per sostenere il processo di soluzione di specifici problemi (es: come posso progettare formazione continua?), che per favorire, nel con-testo dell’apprendimento di specifici contenuti, lo sviluppo delle forme di pensiero che stanno alla base dell’abilità di problem solving .

La didattica basata su casi può essere utilizzata tanto nell’i-struzione e nella formazione iniziale che nella formazione continua.

autorI pIù sIGnIfIcatIvI e rIferImentI bIblIoGrafIcI

Nell’accezione qui usata, il Case-based Learning, come concettualizza-zione che comprende differenti soluzioni operative, ha come autori più significativi J. Kolodner, R. Schank e D. Jonassen. Kolodner e Schank per la teoria della memoria Case-based reasoning secondo cui le nostre espe-rienze vengono memorizzate in forma di storie (casi); Schank per il Case-based scenarios; Jonassen per numerose applicazioni sperimentali e per l’utilizzo di casi nel problem solving; il Cognition and Technology Group at Vanderbilt per l’anchored instruction e Spiro, Feltovich e Coulson per i Cognitive Flexibility Hypertexts.

Atkinson, R., Derry, S. J., Renkl, A. & Wortham, D. (2001). Learning from examples: Instructional principles from the worked examples re-search. Review of Educational Research, 70, 181-215.

Cognition and Technology Group at Vanderbilt. (1991). Anchored In-struction and situated cognition revisited. Educational Technology, 33, 52-70.

Herreid, C.F. (2007). Start with a story: The case study method of teach-ing college science. Arlington, VA: NSTA Press.

Jonassen, D.H. & Hernandez-Serrano, J. (2002). Case-based reasoning and instructional design: Using stories to support problem solving. Edu-cational Technology: Research and Development, 50 (2), 65-77.

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Jonassen, D. H (2006). Tipology of Case-based Learning.The content, form and function of cases. In Educational Technology, July – August 2006

Kolodner, J. (1992). An introduction to case-based reasoning. Artificial Intelligence Review, 6 (1), 3-34.

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Merseth, K.K. (1994). Cases, case methods, and the professional devel-opment of teachers. Washington, DC: ERIC Clearingghous on Teaching and Teacher Education.

Schank, R. C. (1990). Tell me a story: Narrative and intelligence. Evan-ston, IL: Northwestern University Press.

Schank, R.C. (1994). Goal-based scenarios. In R.C. Schank & E. Langer (eds.), Beliefs, reasoning, and decision making: Psycho-logic in honor of Bob Abelson. Hillsdale, NJ: Lawrence Erlbaum.

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367Ambienti di apprendimento per la formazione continua

aPPrendImento nel Processo dI lavoroGiovanni Marconato

Finalità

Apprendere mentre si è impegnati in attività lavorative è un dato empirico ed universalmente riconosciuto, come è rico-nosciuto che si apprende non solo lungo tutto l’arco della vita, cioè oltre il periodo di istruzione formale, ma anche in tutti i luoghi dove le persone svolgono attività.

La questione non è, quindi, se si apprenda svolgendo atti-vità lavorative, ma cosa si apprende in quei contesti e come sia possibile massimizzare quel apprendimento. Associate a queste, rilevante è anche la questione del come si appren-da nei processi lavorativi, cioè di quali siano i processi ed i contesti che caratterizzano la trasformazione dell’attività e dell’esperienza in apprendimento.

Il tema dell’apprendimento nel processo di lavoro pone, in-fine, la questione del “cosa” si apprenda, ai fini dello svilup-po dell’expertise lavorativa (vedi scheda dedicata) in conte-sti di istruzione formale e cosa in altri contesti, compreso il lavoro (conoscenza, processi cognitivi, abilità ). Ovvero, quale possa essere una utile interazione ed integrazione tra la conoscenza che è possibile sviluppare in contesti di istru-zione formale e quella che si sviluppa svolgendo attività e facendo esperienza.

Anticipando alcune tematiche che saranno sviluppate ampiamente nelle sezioni successive, possiamo assume-re a riferimento concettuale di carattere generale quan-to Dehnbostel (2007) sostiene nella prospettiva dell’ap-prendimento professionale fornendo un quadro organico delle differenti forme e dei differenti luoghi dell’appren-dimento:

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• l’apprendimento può avvenire per via formale e per via informale;

• la via informale può assumere la forma dell’apprendi-mento riflessivo (esperienza) e di quello implicito (in-conscio, non riflettuto);

• l’apprendimento formale è correlato al sapere teorico;• l’apprendimento implicito è alla base del sapere espe-

rienziale;• sapere esperienziale e sapere teorico generano saper

fare e capacità riflessiva.

Valorizzare l’apprendimento nel processo di lavoro, lungo tutta la sua filiera dall’attivazione al riconoscimento, signifi-ca, quindi, cogliere quante più possibili opportunità di ap-prendimento che ognuno di noi ha senza pensare che l’unico apprendimento di valore sia quello che avviene in contesti formalmente deputati ed attraverso forme dirette di insegna-mento. D’altro canto è decisamente insufficiente ritenere che la semplice esposizione ad attività (anche lavorative) possa generare apprendimento se queste non sono delle vere e proprie esperienze di apprendimento. La questione è, allora, cosa fa del lavoro un’opportunità, anche, di apprendimento.

La tematica dell’apprendimento nel processo di lavoro è stata oggetto di un progetto europeo Leonardo nel periodo 1998 - 2000 7che nei tre anni di attività, ed in un periodo ed in un contesto il cui si iniziava ad avere consapevolezza della tematica, è stato definito il campo di interesse, si è ri-esaminata la letteratura allora disponibile e potenzialmente significativa per un fondamento teoretico della tematica in questione e si sono identificate le dimensioni maggiormente rilevanti per l’implementazione di un sistema di WPL.

7 Progetto WPL – Work Process Learning coordinato dalla Riparti-zione 21 della Provincia Autonoma di Bolzano, con partner italiani: Confartigianato, CISL, Irecoop Sardegna e Agenzia del Lavoro di Trento, la Leeds Metropolitan University (GB); l’ITB Bremen Uni-versity (DE) e la Chambre de Meties de Vacluse (FR).

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Negli anni successivi al progetto, la tematica è stata oggetto di consistente attività di ricerca internazionale con la messa a punto di strategie e strumenti di intervento per sostenere i processi di lavoro e di apprendimento.

In questi anni l’ideazione e la realizzazione di “strumenta-zione” operativa ha avuto un notevole sviluppo grazie alle tecnologie digitali che hanno messo a disposizione degli operatori strumenti per il knowledge management, per la costruzione collaborativa e la condivisione di conoscenza, per il supporto della prestazione. Alcuni di questi sono descritti in questa pubblicazione nelle schede operative di approfondimento dedicate ad Ask Systems, Electronic Per-formance Support Systems, Database di Storie Professionali, Network di pratica, mentre i presupposti concettuali sono trattati nelle schede cognizione distribuita, apprendimento situato, expertise, connettivismo e social networking, case-based reasoning, apprendere dall’esperienza, pratica riflessi-va, obiettivi di apprendimento e tassonomia delle conoscenze, apprendimento naturale.

Descrizione

Una “tesi” da cui partire per definire le motivazioni della rilevanza dell’apprendimento che si sviluppa in contesti la-vorativi è la seguente8:

Nelle situazioni di lavoro si realizzano importanti processi d’apprendimento e innovazione.

Di fronte ai cambiamenti in atto nei sistemi sociali ed econo-mici ed alla conseguente qualità e quantità della domanda di conoscenza e competenza che emerge dalle organizzazioni e

8 La prima parte di questa sezione riprende alcuni dei risultati del pro-getto citato, risultati che anche più di dieci anni dopo essere stati sviluppati sono di grande attualità.

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dagli individui, si devono identificare modalità nuove di for-mazione che valorizzino e integrino questo patrimonio.

Si tratta di un’innovazione che, includendo in maniera siste-matica l’apprendimento nel contesto lavorativo e l’apprendi-mento basato sul lavoro, condurrà a modificare tanto il con-cetto d’apprendimento, quanto le modalità di organizzazione e di erogazione dell’insegnamento.

A partire da questa tesi è possibile definire l’oggetto di interes-se, definizione che per la complessità della tematica non può che essere plurale. L’apprendimento nel processo di lavoro:• è una forma di apprendimento che può essere suppor-

tato con misure organizzative, tecniche e giuridico-formali ma che non e preformato, se non in minima misura, attraverso processi didattici, e caratterizzato principalmente dalla spontaneità dell’apprendimento e da risultati estremamente aperti;

• porta a riconoscere l’impresa come organizzazione di-scente, che fa partecipare tutti i suoi membri a un’ac-cresciuta efficacia dell’organizzazione e dell’individuo riflettendo sul modo in cui i compiti strategici e quelli quotidiani vengono gestiti in seno all’impresa;

• persegue questi: per l’individuo, valorizzare il grado di autonomia personale, aiutare le persone a collocare i propri compiti professionali in un’ottica di apprendi-mento e sviluppo di competenze; per l’organizzazione, osservare e analizzare le situazioni lavorative, affinare il profilo dei sistemi di valutazione, convalidare le compe-tenze definite, migliorare le proprie prestazioni, raffor-zare le competenze con l’aiuto della formazione;

• riguarda l’apprendimento nel processo di lavoro che preveda un riconoscimento di quanto appreso;

• considera il lavoro come una risorsa per migliorare le competenze dell’individuo funzionali alla specifica real-tà aziendale e/o allo sviluppo personale e professionale;

• può integrarsi con l’apprendimento che avviene in con-testi formali, per l’ulteriore sviluppo della competenza

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professionale. Gli apprendimenti acquisiti dall’indivi-duo possono essere identificati e certificati.

La focalizzazione sull’apprendimento che si genera nei processi di lavoro porta necessariamente a considerare le interazioni e le integrazioni con l’apprendimento formale nell’ottica di identificare la mutua concorrenza allo svilup-po della “competenza professionale”: la competenza esper-ta è, infatti, determinata dalla padronanza delle basi scien-tifiche e tecniche della professione e dall’esperienza delle condizioni di lavoro. Ai sistemi formativi formali spetta il compito di sviluppare le “basi scientifiche e tecniche della professione” ed ai sistemi informali consentire “l’esperienza delle condizioni di lavoro”. Una delle principali questioni che ci si trova ad affrontare occupandosi di wpl è se l’apprendimento che si sviluppa, non governato, nel processo di lavoro, in forma incidenta-le e casuale, possa produrre apprendimenti maggiormente significativi se governato da intenzionalità e sistematicità. Ovvero, come sia possibile far si che le attività lavorative esprimano tutte le loro potenzialità nell’attivazione, soste-gno e sviluppo del processo d’apprendimento.

E’, infatti, dimostrato che il lavoro così come viene orga-nizzato a fini produttivi non consente, necessariamente, lo sviluppo di apprendimento, anzi, in molti casi lo inibisce.

Un contesto di lavoro non è, quindi, in ogni caso un conte-sto di apprendimento: lo diventa se permette una genuina partecipazione alle sue attività e se assicura un pieno ac-cesso a tutti gli aspetti rilevanti della stessa, includendo in essa le attività, gli artefatti, i posti e le persone. Da questa considerazione deriva la questione di come organizzare e strutturare queste risorse per sostenere, e non inibire, l’ap-prendere nel contesto di lavoro passando dall’incidentalità e casualità, all’intenzionalità e sistematicità e di come, at-

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traverso il governo dei contesti e dei processi, sia possibile perseguire specifici obiettivi.

L’attivazione, il supporto e la valorizzare dell’apprendi-mento nel processo di lavoro sono processi complessi in quanto sono implicate differenti dimensioni, da quelle più propriamente pedagogico-didattiche, a quelle istituzionali, ed ognuna con propri contenuti. Questo complesso sistema necessita, infine di essere governato attraverso l’attivazione di alcuni ruoli operativi cui fanno capo specifici compiti.

Queste le dimensioni maggiormente significative che sono coinvolte in un sistema di WPL: • La dimensione pedagogica, ove si considerano i mec-

canismi che rendono le attività lavorative autentiche risorse per l’apprendimento e che identifica, sul piano teorico, metodologico ed operativo le caratteristiche dell’ambiente che stimola, attiva, facilita, sostiene l’ap-prendimento e, tra queste, le modalità di diagnosi, va-lutazione e certificazione delle competenze acquisite, le modalità attraverso cui impartire l’insegnamento ed at-tivare e sostenere l’apprendimento, l’utilizzo di media;

• La dimensione tecnica, dove si identificano i supporti che la tecnica, principalmente le tecnologie dell’infor-mazione, mette a disposizione per attivare e sostenere l’apprendimento, per sistematizzare la conoscenza pro-dotta, per sviluppare nuova conoscenza;

• La dimensione dello sviluppo organizzativo, dove si identificano le caratteristiche dell’organizzazione azien-dale ed interaziendale che hanno un impatto sulla crea-zione di opportunità per l’apprendimento nel processo lavorativo;

• La dimensione sociale, dove si identificano e si dà con-tenuto agli strumenti negoziali e di comunicazione che rendono possibile l’esecuzione delle attività connesse alla realizzazione e valorizzazione dell’apprendimento nel processo lavorativo e ne favoriscono il riconosci-

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mento sociale;• La dimensione istituzionale, dove si identifica e si dà

contenuto agli strumenti normativi che rendono pos-sibile l’esecuzione di tutte le attività connesse alla rea-lizzazione e valorizzazione dell’apprendimento nel pro-cesso lavorativo.

Analizzando queste dimensioni possiamo identificare per ognuna i contenuti da prendere in considerazione.

Per la dimensione pedagogica si dovrebbero prendere in considerazione:• le teorie dell’apprendimento;• l’organizzazione del lavoro e dell’apprendimento;• i ruoli di supporto all’apprendimento;• la certificazione delle competenze;• la metodologia dell’apprendimento nel processo di la-

voro;• l’integrazione dell’apprendimento che si sviluppa in

contesti educativi e formativi scolastici con l’apprendi-mento che viene generato nella partecipazione autenti-ca ai processi di lavoro.

Per la dimensione tecnica si dovrebbero considerare:• i sistemi tecnici di supporto ai processi di lavoro;• i sistemi tecnici di supporto ai processi di insegnamento

e di apprendimento;

Relativamente alla dimensione dello sviluppo organizzativo, le questioni rilevanti dovrebbero essere:• l’organizzazione del lavoro;• lo sviluppo delle risorse umane;• la cooperazione tra aziende e reti.

Per la dimensione sociale dovrebbero essere considerate come dinamiche rilevanti:• la concertazione sociale;

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• la contrattazione collettiva di lavoro;• la promozione e la visibilità sociale del wpl.

Per la dimensione istituzionale si dovrebbero promuovere:• normative per la facilitazione ed il riconoscimento di

processi di wpl;• programmi di ricerca e di attività formativa;• politiche del mercato del lavoro.

Il presidio di queste dimensioni è assicurato dall’attivazione di tre funzioni: • Il facilitatore del WPL, la cui mission è di creare e man-

tenere le condizioni di “ambientali” (istituzionali, socia-li, culturali..) affinché il wpl possa essere agito, finanzia-to, promosso, apprezzato;

• Il WPL – researcher & developer,il cui ruolo è lo studio dell’apprendimento in contesti non formali e la messa a punto di metodi e strumenti per l’apprendimento non formale nel processo di lavoro;

• Il WPL – tutor, il cui intervento si esplica attraverso l’attivazione ed il sostegno di processi d’insegnamento ed apprendimento nelle realtà lavorative.

Queste tre funzioni portano a definire tre ruoli per la gestio-ne di un sistema di WPL:

Il wpl-learning environment architect, che realizza studi teorici ed empirici per identificare le condizioni per pe-dagogiche ed organizzative alle quali viene massimizzato l’apprendimento spontaneo nel processo lavorativo ed idea, sviluppa e sperimenta metodi e strumenti coerenti con le condizioni di lavoro ed apprendimento.

Il wpl-facilitator, il cui compito è di creare un ambiente favo-revole allo sviluppo di attività di wpl. Per conseguire questo obiettivo deve attivare e far crescere un atteggiamento politi-co e sociale verso l’apprendimento che si realizza nel proces-so lavorativo, promuove leggi per il finanziamento di attività

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di wpl, promuove studi e ricerche pedagogiche e di organiz-zazione del lavoro per lo sviluppo dell’efficacia del wpl.

Il wpl-tutor che facilita l’apprendimento che si sviluppa nel processo di lavoro implementando strategie ed utilizzando metodi e strumenti sviluppati del wpl-architect, supporta le persone che apprendono e ne valuta le competenze acquisite.

Esplorando il ruolo del wpl-tutor,definiamo la sua missione come massimizzare le risorse per l’apprendimento presenti nel processo lavorativo, ed i sui compiti sono: • l’identificazione delle opportunità di apprendimento

presenti nel processo di lavoro in termini di contenuto delle attività lavorative da eseguire, modalità di esecu-zione delle stesse, attività integrative da svolgere rin-forzare ed estendere l’apprendimento collegato all’ese-cuzione delle attività lavorative intervenendo, quando necessario, anche nelle modalità in cui il lavoro è orga-nizzato ed eseguito,

• l’identificazione delle conoscenze formalizzate di cui fa-vorire l’apprendimento e delle modalità di gestione del processo stesso.

La sua azione ha i seguenti obiettivi:• analizzare i modi in cui sono organizzate le attività lavo-

rative per identificare le possibili risorse per apprendere (la struttura delle attività, la presenza di spazi di attività, le modalità di circolazione di competenze, i percorsi di accesso alle attività, la trasparenza e visibilità delle tec-nologie, le diverse forme dell’attività);

• identificare le attività lavorative a più elevato contenuto d’apprendimento e farle svolgere;

• organizzare le attività di lavoro ed apprendimento in modo da lasciar partecipare alle attività anche i membri meno esperti e di farli partecipare direttamente ad atti-vità reali, non ad un loro succedaneo;

• assistere chi deve apprendere, tramite supporto e con-

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trollo, attraverso un intervento che progressivamente si riduce mantenendo, cioè, costante il compito ma sem-plificando il ruolo giocato dal soggetto;

• dare accesso a informazioni, connessioni ed opportu-nità, persone, luoghi, strumenti ed attività necessari a diventare “partecipanti” non periferici di quella comu-nità.

Esplorate le tematiche operative che caratterizzano un siste-ma di apprendimento nel processo di lavoro, pare opportu-no comprendere le dinamiche che presiedono l’apprendi-mento stesso.

La principale categoria esplicativa dell’apprendimento nel processo di lavoro è l’esperienza (Fischer, 2000). A questa ne vanno collegate altre, quali la competenza professionale (Le Boterf), l’apprendimento situato (Lave), la conoscenza “per-sonale” e “tacita” (Polanyi), l’apprendimento riflessivo (Kolb).

La conoscenza implicata nei processi di lavoro è molto spes-so una conoscenza esperienziale: la conoscenza delle cose, del perché delle cose e del funzionamento (o non funziona-mento) delle cose non sta solo nella conoscenza formalizza-ta del dominio di riferimento (teorie, regole ) ma anche nel sapere tacito o inespresso che si sviluppa nell’attività con quelle cose e nel fare esperienza in situazioni in cui le cose accadono. La competenza relativamente al processo lavo-rativo non può essere ricavata semplicemente dalla scienza corrispondente (Fischer 2000).

In un contesto di prestazione, anche professionale, ciò che conta non è tanto il processo di apprendimento in sé o la sua verbalizzazione, quanto piuttosto il superamento prati-co di un compito in cui in parte entrano in gioco gli effetti taciti, spesso inconsapevoli dell’apprendimento. Ciò che è rilevante non è la conoscenza in sé, quanto la mobilitazio-ne e la finalizzazione della stessa (conoscenza concettuale, knowledge-in-action, vedi scheda “obiettivi dell’apprendi-

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mento e tassonomia delle conoscenze), lo sviluppo degli schemi di pensiero e d’azione.

Se la “conoscenza ingegneristica” non basta da sola a spie-gare la prestazione esperta e l’esperienza è la categoria espli-cativa maggiormente utile, che ruolo ricopre l’esperienza per l’apprendimento nel processo lavorativo? L’importan-za dell’esperienza va vista in una duplice prospettiva: come avere-esperienza (la base di esperienze da cui si attinge lavo-rando) e come fare-esperienza, cioè il processo di formazio-ne dell’esperienza stessa (Fischer, 2000).

Quando si parla di conoscenza empirica si intende che la persona in questione ha fatto delle esperienze che ora, nell’esecuzione di un incarico lavorativo, gli sono d’aiuto. L’esperienza corrisponde, quindi, al ricordo dell’idea ogget-to dell’esperienza.

Secondo il concetto di esperienza qui presupposto (cfr. Fi-scher 1995, 1996) il confronto pratico con il mondo esterno è costitutivo per la formazione di esperienza. L’esperienza non è però il semplice prodotto di scarto dell’azione prati-ca, ma presuppone invece un’attività stabile e organizzatri-ce dell’individuo.

Con ciò si dimostra che il fare-esperienza è legato al vivere personalmente una cosa e compre un momento soggettivo. La conoscenza sviluppata attraverso l’esperienza non va vista necessariamente in contrapposizione alla conoscenza oggettivata, bensì piuttosto come una sorta di rapporto dia-logico nell’accumulo e nell’integrazione di esperienze (Mül-ler 1991; Fischer/ Müller 1992; Waibel/Wehner 1994).

L’esperienza rende possibile un’appropriata e necessaria contestualizzazione e correlazione della conoscenza stessa alla situazione della conoscenza, ed è questo che caratteriz-za l’agire degli esperti (Lave/Wenger 1991).

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Va tenuto, però, presente che ci sono delle situazioni di cui non si può avere esperienza; per queste situazioni può veni-re in aiuto la conoscenza scolastica che, in un contesto pro-fessionale, viene trasformata in una competenza rilevante ai fini della professione proprio attraverso l’esperienza: in questa prospettiva il lavoro viene usato anche come luogo di arricchimento dell’apprendimento attraverso il mediato-re rappresentato dall’esperienza.

L’esperienza lavorativa non porta automaticamente e senza presupposti ad un’azione lavorativa competente, in quanto nella stessa sono presenti tanto delle nozioni teoriche (ben-ché talvolta rudimentali) che delle regole che è possibile verbalizzare e generalizzare ed anche la conoscenza implici-ta (tacit knowledge).

La conoscenza professionale si connota, quindi, come una forma di conoscenza ampia, non limitata al compito o al processo presidiato, ma è una forma di conoscenza legata al contesto, alla situazione specifica del ciclo produttivo; è una forma di conoscenza legata al come le diverse dimen-sioni del lavoro sono collegate tra di loro in uno specifico contesto di lavoro. In questa prospettiva, la conoscenza professionale del processo di lavoro non è più una cono-scenza secondaria, derivata dal sapere scientifico (acca-demico) per riduzione didattica, ma possiede una qualità autonoma. E’ una forma di conoscenza che trasmette la connessione tra i modelli concettuali dell’organizzazione del lavoro e del mondo aziendale, tra i manufatti costruiti su base ingegneristica e le loro effettive peculiarità nel pro-cesso produttivo9.

Per padroneggiare una situazione professionale è, perciò, necessaria la “percezione del contesto” (Fleig/Schneider

9 Work Process Knowledge Nicholas Charles Boreham,Martin Fischer Psychology Press, 2002 - 244

http://www.cedefop.europa.eu/en/Files/3033_EN.PDF)

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379Ambienti di apprendimento per la formazione continua

1995, p. 8), ossia la “comprensione del contesto” (Laur-Ernst 1990, p. 14) che è determinata da:• il meccanismo di funzionamento dell’azienda, in cui

sono inclusi il processo lavorativo e quello tecnico;• le qualità specifiche dei materiali, degli impianti e delle

apparecchiature utilizzate nell’azienda; • le peculiarità interne presenti nel carattere stesso del

processo meccanico, energetico e chimico;• le conseguenze concrete che si possono verificare a se-

guito di determinate azioni.

L’apprendimento che spesso si sviluppa al di fuori del ciclo lavorativo è poco orientato al lavoro stesso, cioè segue prin-cipi e leggi astratte, ordinati secondo un sistema scientifico, che devono essere trasformati dalla persona che apprende in conoscenze e competenze rilevanti per il lavoro attra-verso un consistente sforzo cognitivo. A questo proposito, Fischer (2000) introduce il concetto di “conoscenza del processo di lavoro” come obiettivo dell’azione congiunta tra organizzazione formativa e situazione lavorativa per fa-vorire la riconciliazione di apprendimento teorico ed azione pratica.

Wehner et al. (1996; p. 83) ma anche Lave/Wenger (1991; p. 94) descrivono la “competenza” professionale come un concetto relazionale: la maestria professionale non è pre-sente solo nella competenza della persona, ma anche nella comunità pratica di cui l’operatore fa parte.

Una prima sintesi potrebbe essere che l’apprendimento nel processo può avvenire anche spontaneamente, ma che que-sto potrebbe riguardare nella maggior parte di casi, l’adde-stramento allo svolgimento di azioni routinarie e su compiti limitati e con limitata, o improbabile, capacità di transfer in situazioni differenti. L’apprendimento a far fronte a mal-funzionamenti e/o alla gestione di situazioni critiche e non routinarie, implica la possibilità di fare esperienza autentica

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del contesto e del processo di lavoro in tutte le sue dimen-sioni rilevanti,perché la “maestria” professionale, la “com-petenza” non è un attributo individuale, ma della comunità nel suo insieme (Le Boterf: non si è competenti da soli, ma in relazione con gli altri).

Potendo tentare una seconda sintesi, la tematica dell’ap-prendimento nel processo di lavoro si focalizza:• nella definizione di cosa si debba intendere, nel conte-

sto attuale, per “apprendimento”,• nella comprensione dei meccanismi dell’apprendimento

considerando i differenti “luoghi” in cui essi si sviluppa,• nella creazione delle condizioni per le quali si possa

apprendere in azienda attraverso “compiti di appren-dimento”,

• nell’attivazione di funzioni di attivazione e supporto dell’apprendimento nel contesto lavorativo

Un significativo contributo alla questione ci viene offer-to da una recente ricerca10 nella quale viene investigata la questione della configurazione del lavoro orientata all’ap-prendimento; questo lavoro (svolto attraverso l’analisi della letteratura e rilevazioni sul campo) ha messo in evidenza quali sono i fattori critici dell’organizzazione del lavoro che facilitano oppure ostacolano l’apprendimento nel processo di lavoro.

La configurazione del lavoro orientata all‘apprendimento dovrebbe prevedere:• l’esecuzione di compiti fatti di singole attività intercon-

nesse nel senso di un integralità (programmazione, ese-cuzione, controllo) e orientati ad un progetto;

• l’esecuzione di attività autogestite con diverse possibili-tà di agire in modo competente;

• l’esecuzione di attività che deve richiedere processi in-

10 AFI/IPL

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381Ambienti di apprendimento per la formazione continua

tellettuali e prevedere il presidio di ambiti di responsa-bilità;

• la possibilità di comunicare con e attraverso colleghi/colleghe e preposti;

• la possibilità di riflessione.

Il processo lavorativo per essere luogo anche di apprendi-mento dovrebbe: • consentire al singolo operatore dei margini d’azione ri-

spetto a tempi, procedure, pianificazione;• dare la possibilità di autocontrollo e correzione; • mettere a disposizione mezzi di lavoro adeguati;• rendere possibile l’accesso al sapere;• consentire l’esercizio di controllo sul processo e sul

prodotto.

Un contesto di lavoro che facilita l’apprendimento dovreb-be prendere in considerazione anche questi fattori di quali-tà. Le attività da svolgere dovrebbero:• essere variate e con elementi di pianificazione, svolgi-

mento e controllo: gli errori sono motivi per migliora-menti continui;

• contenere una problematica: l’ autocontrollo dovrebbe poter intervenire prima del controllo di terzi;

• prevedere l’estensione dell’autonomia: lavoro è pensie-ro e curiosità;

• favorire la responsabilizzazione: le esperienze vengono riflettute e elaborate,

• attribuire fiducia anticipata;• consentire la partecipazione alle decisioni: esiste un

tempo per imparare;• prevedere una configurazione del lavoro e dei proces-

si che favorisca il management del sapere con accesso semplice;

• promuovere ed incentivare le iniziative individuali an-che attraverso la costituzione di team eterogeni

• attribuire fiducia anticipata.

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La tematica dell’apprendimento nel processo di lavoro e del lavoro come risorsa, e non solo luogo, per l’apprendimento è alquanto complessa.

Pastore (2012, pp. 14, 15) identifica gli aspetti più rilevanti dello scenario che si apre se si vuole prendere in considera-zione il connubio tra apprendimento e lavoro (ma, a parere di chi scrive, anche a proposito dell’apprendimento conti-nuo tout court); • la riduzione del ruolo dell’insegnante;• la centralità riconosciuta al soggetto che apprende;• l’enfasi posta sugli aspetti della negoziazione e della

partecipazione;• l’attenzione alle impostazioni metodologiche; • il ridimensionamento del peso attribuito ai contenuti da

apprendere.

Sono, tutti, aspetti che delineano concetti e pratiche che si di-staccano significativamente dalle modalità consolidate di in-tendere lo sviluppo della conoscenza di una persona adulta.

Per avere un aggiornamento sulle questioni che, rispetto al rapporto apprendimento e lavoro, si stanno ponendo ricer-catori e pratici, è stata compiuta un’analisi� degli ultimi 15 anni dei lavori pubblicati su un’importante rivista scientifi-ca internazionale, il Journal of Workplace Learning11. Le te-matiche trattate nei contributi analizzati evidenziano come al centro degli interessi degli studiosi ci sia la questione della dimensione sistemica e situata dei processi di appren-dimento che si generano in contesti di lavoro: la comunità che apprende, l’apprendimento organizzativo oltre quello individuale, la comunità di pratica.

11 La ricerca è stata condotta da Marco Perini che ha analizzato gli ab-stract di quasi 300 numeri della rivista. http://www.emeraldinsight.com/products/journals/journals.htm?id=jwl

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383Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Altro focus dei lavori riguarda la specificità delle dinamiche che caratterizzano il lavoro come contesto e risorse d’ap-prendimento: la sua dimensione incidentale, l’esperienza, la riflessione. Su tutti, l’utilizzo delle “nuove” tecnologie a supporto della costruzione di conoscenza.

Questi i temi considerati, in ordine dalla più frequente alla meno frequente:• ICT / e-learning / nuove tecnologie;• Comunicazione / interazione / network;• Organizzazione dell’apprendimento;• Rapporto tra WPL e contesto di apprendimento;• Knowledge management;• Sviluppo di competenze;• Informal - incidental learning;• Apprendistato / tirocinio;• Comunità di pratica;• Transfer della conoscenza;• Riflessione;• Gestione delle risorse umane;• Valutazione;• Valorizzazione dell’ esperienza;• Socializzazione;• Autoefficacia;• Mentoring / coaching;• Leadership.

Il tema delle tecnologie è spesso presente all’interno delle ricerche (è quello più frequente), ma sembra avere avuto un forte calo di interesse negli ultimi anni. Questo potreb-be essere dovuto al fatto che dopo un boom iniziale, l’e-learning e le nuove tecnologie hanno preso a far parte della consuetudine lavorativa di molte persone e sono passate dall’essere “oggetto di curiosità” da parte dei ricercatori ad essere considerate strumenti lavoro e di apprendimento consuetudinari.

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Molti degli studi presi in esame si concentra anche su temi che vanno oltre il processo di apprendimento individuale, come la comunicazione, il rapporto tra processo e contesto, la gestione dell’apprendimento a livello organizzativo. Ad emergere con forza tra questi sembra essere in particola-re il concetto di rete (network) intesa come l’intreccio di relazioni, interazioni, connessioni presenti in un contesto organizzativo all’interno del quale si instaura un processo di apprendimento.

Dall’analisi degli studi è emerso anche un altro fattore in-teressante: quasi la metà delle ricerche si focalizza sull’ap-prendimento individuale. Le altre sono invece centrate sull’apprendimento organizzativo, sull’apprendimento di gruppo e in modo particolare sulle dinamiche trasversali del processo di apprendimento. I contributi facenti parte di quest’ultimo gruppo non si limitano a studiare il processo di apprendimento rispetto ad una singola dimensione (indi-viduale, gruppale, organizzativa), ma si pongono in un’ot-tica sistemica al fine di mettere in luce i rapporti esistenti tra i diversi tipi di apprendimento all’interno delle organiz-zazioni, per cercare di capire su quali dimensioni agire per ottenere un cambiamento e/o uno sviluppo organizzativo.

Ambiti di applicazione

La concettualizzazione dell’apprendimento nel processo di lavoro e del lavoro come contesto e risorsa di apprendimen-to è rilevante praticamente in ogni contesto potendo esse-re utilizzata per cogliere le opportunità di apprendimento presenti ovunque le persone svolgano attività professiona-le. Facendo ricorso ad opportune tecniche operative per la messa a punto di compiti di lavoro ed apprendimento, per condivisione della conoscenza, per sostenere la riflessione.

Nello scenario italiano attuale, le applicazioni del WPL

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sembrano particolarmente significative nell’ambito dell’ap-prendistato che la nuova normativa recentemente varata12 allarga in modo consistente la potenziale utenza assegnando all’impresa un importante compito formativo e di sviluppo e di certificazione di competenza professionale. Lo sviluppo di processi di apprendimento reali e significativi nei percor-si di apprendistato implica un efficace presidio delle inte-razioni tra lavoro ed apprendimento perché quest’ultimo si sviluppa in modo limitato per qualità e quantità se lasciato ad uno sviluppo spontaneo.

autorI pIù sIGnIfIcatIvI e rIferImentI bIblIoGrafIcI

A prescindere dagli studiosi che hanno approfondito le tematiche di base,come l’utilizzo della riflessione, il ruolo dell’esperienza, la costru-zione (sociale) di conoscenza, il ruolo delle attività, l’apprendimento ne-gli adulti ed il life long learning, l’apprendimento naturale, incidentale, informale, distribuito , possiamo citare come persone che hanno estesa-mente studiato e riflettuto sulla specificità del rapporto tra apprendimen-to e lavoro: Ronald Barnett, Stephen Billett, Nicholas Boreham, David Boud e Martin Fisher.

Barnett, R (1999), Learnin g to Work and Working to Learn, in Boud, D, Garrick J (eds), Understanding Learning at work, Sage, London

Billet, S., Harties C., Etelapelto, A. (2008) (eds), Emerging Perspectives of learning trough work, Sense Publishing, Rotterdam

Billet, S. (2010), Learning through Practice, springer, Dorecht

Boud, D., Garrick J. (1999), Understanding Learning at work, Rout-ledge, London

Fischer, M. (1995), Jungeblut, R.; Römmermann, E. Jede Maschine hat ihre eigenen, Marotten“, Bremen.

Fischer, M. (1995 b), Technikverständnis von Facharbeitern im Span-

12 D.Lgs. n. 167/2011

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nungsfeld von beruflicher Bildung und

Arbeitserfahrung. Untersucht anhand einer Erprobung rechnergestütz-ter Arbeitsplanungs- und -steuerungssysteme. Schriftenreihe Berufliche Bildung - Wandel von Arbeit und Technik. Donat Verlag, Bremen

Fischer, M. (1996), Überlegungen zu einem arbeitspädagogischen und -psychologischen Erfahrungsbegriff. In: ZBW - Zeitschrift für Berufs- und Wirtschaftspädagogik. Heft 3.Stuttgart: Franz Steiner Verlag, 1996, S. 227-244.

Fischer, M. (2000), Apprendere nel processo lavorativo: forme e con-tenuti dell’apprendimento. Documento interno, progetto Work Process Learning, Provincia Autonoma di Bolzano, 1998 - 2000 Fischer M, Boreham N, Nyhan B, (2004) (eds) European perspectives on learning at work:the acquisition of work process knowledge, Cedefop Reference Series; 56. Luxembourg: Office for Official Publications of the European Communities

Lave, J./,Wenger, E. (191), Situated learning. Legitimate peripheral par-ticipation. Cambridge University Press, Polanyi, M.: The Tacit Dimen-sion. New York, 1966

Waibel, M. and Wehner, Th. (1994). Über den Dialog zwischen Wissen und Erfahrung in der betrieblichen

Lebenswelt. Teil I: Kognitive Umstrukturierung der planerischen Vorga-ben zur Bewältigung des Fertigungsalltags. Harburger Beiträge zur Psy-chologie und Soziologie der Arbeit. Hamburg-Harburg (TU).

Wehner, T., Clases, C., Endres, E.(1996): Situiertes Lernen und koopera-tives Handeln in Praxisgemeinschaften. In: E. Endres/ T. Wehner (Hg.): Zwischenbetriebliche Kooperation. Die Gestaltung von Lieferbeziehun-gen. Weinheim: Beltz-Verlag,

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387Ambienti di apprendimento per la formazione continua

aPPrendImento esPansIvoBeate Weyland

Finalità

Le finalità dell’apprendimento espansivo si ritrovano in due importanti differenziazioni: la motivazione espansiva e la motivazione difensiva all’apprendimento. La prima si pone come obiettivo l’ampliamento/innalzamento della quali-tà di vita, la seconda invece il semplice superamento degli ostacoli che sono di impedimento o di intralcio ad una certa condizione di vita.

Mentre l’apprendimento espansivo si concentra sulla riso-luzione di un problema, l’apprendimento difensivo si con-centra sulle risposte che si devono mettere in azione. Con quest’ultimo termine si intende fondamentalmente caratte-rizzare una tipologia di apprendimento dettato dall’esterno, fatto di apprendimenti meccanici e mnemonici che condu-cono generalmente a dimenticare quanto imparato.

Secondo Klaus Holzkamp (2004, p. 29), a cui si deve la paternità della strategia, l’apprendimento intenzionale, supervisionato e pianificato funziona solamente quando il soggetto che apprende ha delle precise ragioni per farlo. E proprio qui sta il cambio di paradigma che rende il con-cetto di apprendimento espansivo così interessante: questo processo non parte dagli insegnanti e non migliora se questi sono più bravi.

Rimane sempre compito di colui che apprende, di “cambia-re” o trasformare i propri pensieri, di aprirsi al nuovo, allo sconosciuto per farlo proprio. Così l’apprendimento anche come prospettiva di ricerca scientifica è sempre qualcosa che appartiene al soggetto.

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Caratteristiche

Per apprendimento espansivo si intende un processo cono-scitivo che si connette direttamente agli interessi personali del soggetto. In particolare le condizioni entro le quali si promuove un tale tipo di apprendimento, si contrappon-gono in parte a quello più specificamente disciplinare per i seguenti aspetti:• rilevanza delle tematiche per i soggetti in apprendimen-

to;• garanzia di libertà nell’organizzazione dei tempi;• certificati intesi non come un controllo ma come una

conferma dei progressi raggiunti;• partecipazione dei soggetti alla pianificazione, realizza-

zione e valutazione di corsi e programmi.

L’apprendimento espansivo presuppone un grado elevato di autonomia nel porsi gli obiettivi conoscitivi e spesso si determina a partire da un apprendimento incidentale. Si colloca dunque in un punto di snodo tra l’apprendimento informale e quello istituzionale. L’apprendimento informale sul lavoro o nelle situazioni di vita specifiche, pur rimanen-do condizionato dalla casualità, dalla selettività e dall’erro-re, ha il vantaggio del collegamento di senso diretto con l’e-sperienza. L’apprendimento istituzionale, di contro, è sciol-to dalla pressione delle attività professionali,ha struttura e maggiore spazio di azione, ma richiede tempi più lunghi.

Rispetto all’apprendimento espansivo, acquisisce un’im-portanza fondamentale il management dell’apprendimento, la ragione fondamentale di esistenza delle istituzioni forma-tive. Si tratta, infatti, di una tipologia di apprendimento che richiede strutture di appoggio e di supporto per la gestione di tutti gli elementi che entrano in gioco nel processo co-noscitivo e/o di elaborazione dell’esperienza. Non stiamo, infatti, parlando di autodidassi, ovvero un processo di auto istruzione o di apprendimento auto-determinato, non è

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quindi una delle tante modalità possibili dell’apprendimen-to attivo. L’apprendimento espansivo fa riferimento al bi-sogno generativo dell’io in un continuo processo che tende allo sviluppo delle proprie potenzialità (Holzkamp 1995). In questo processo il soggetto ha bisogno di una guida per confrontarsi sugli obiettivi del proprio personale percorso di apprendimento. L’espansione dell’io entra in gioco rispetto alle diverse ti-pologie di cambiamento cui si tende: dal singolo atto di apprendere, alle sequenze di apprendimento, fino alla co-struzione di sistemi di conoscenza. Si riconosce in un atto di autodeterminazione personale, ovvero di gestione dell’equi-librio tra iniziativa iniziale, organizzativa e di controllo del proprio personale apprendimento.

Un elemento di specificità di questo approccio conosciti-vo consiste nel legame forte che si stabilisce tra l’apprendi-mento espansivo e la cultura organizzativa dell’istituzione in cui si è inseriti. Tutti i soggetti, e non solo coloro a cui sono destinati specifici percorsi di apprendimento, devono essere disponibili a questo approccio, perché coinvolge sia le dimensioni personali, i principi e i valori di riferimento, i modi di pensare e di agire, come anche le strutture di inte-razione, lo stile direttivo, le modalità di collaborare, di ela-borare i conflitti, le forme di partecipazione e di selezione dei collaboratori.

L’apprendimento espansivo, presupponendo un apprendi-mento autodeterminato, diventa la cifra per la promozio-ne dell’innovazione, alla quale bisogna essere interessati e aperti (Dietrich,Fuchs-Brüninghoff, 1999, 10). Con tale tipo di apprendimento quindi cambiano i connotati delle istituzioni per la formazione continua, che diventano qual-cosa di più e di diverso di semplici erogatori di formazione.

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Autori maggiormente significativi e riferimenti bibliografici

L’apprendimento espansivo (Expansives Lernen) fa riferi-mento a una specifica teoria dell’apprendimento diKlaus Holzkamp (1995), noto esponente della psicologia criti-ca nei Paesi di lingua tedesca che tematizza l’importanza dell’espansione individuale e della partecipazione sociale di chi apprende ai processi di costruzione del senso. L’espansi-vità è una caratteristica dell’individuo che apprende, inteso come centro di intenzionalità, con le sue debolezze e i suoi condizionamenti sociali.Holzkamp, introducendo un nuovo paradigma dell’appren-dimento orientato al soggetto come centro di interesse e motore fondamentale dei processi conoscitivi, mette a fuo-co l’importanza dell’interesse e della motivazione intrinseca dell’individuo ad apprendere e critica apertamente le pro-spettive di organizzazione dell’apprendimento dall’esterno.

Questa posizione soggettivistica intende l’individuo come “centro di intenzionalità”, che si apre al mondo e ne esplora autonomamente le potenzialità al fine di migliorare la quali-tà della sua vita. Al soggetto come agente di cambiamento, dunque, è affidata la capacità dideterminare autonomamen-te le esigenze del suo apprendimento a partire dal ricono-scimento di un problema legato alla propria vita reale nel confronto con le condizioni necessarie all’azione (sapere, attitudini, saper fare) e valorizzando le competenze e pos-sibilità personali, nonché mettendo in gioco strategie ade-guate per acquisire nuovi skills (Langemeyer, 2005, cap. 3).

Tralasciando l’apprendimento naturale, che avviene con l’a-zione, la collaborazione, il gioco, il lavoro ecc., Holzkamp (2004) pone in particolare l’attenzione sull’”apprendimento intenzionale”. Il soggetto quando si scontra con dei limiti nel suo agire quotidiano, per esempio con l’impossibilità di comprendere una lingua straniera, avverte il bisogno di

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apprendere, dettato dall’interesse di superare questo limite e di espandere il proprio patrimonio conoscitivo. Una vol-ta colmato il gap conoscitivo, il soggetto che apprende ha conquistato anche una competenza d’azione, ampliando le proprie potenzialità.

Un autore direttamente collegato a questa teoria è il peda-gogista finlandese Yrjö Engeström,docente di Educazione degli Adulti e Direttore delCenter for Activity Theory and Developmental Work Researchpresso l’Università di Hel-sinki.Egli sostiene che l’apprendimento non avviene sola-mente a partire da specifici bisogni del soggetto, ma anche attraverso i costanti cambiamenti della sua vita e dell’am-biente che lo circonda (Engeström 2005).

Secondo questo autore non c’è una unica singola spiega-zione dell’apprendimento. Sulla base dei “livelli di appren-dimento” proposti da Gregory Bateson13 - è sul livello di

13 Bateson identificò nel 1973 quattro livelli base di apprendimento e di cambiamento. Ogni livello presentava un livello maggiore di astra-zione rispetto al precedente, ma anche un maggiore impatto sulla persona.

• Apprendimento 0: non comporta nessun cambiamento. É legato a comportamenti abitudinari, tanto da diventare istintivi e inconsci. L’apprendimento zero è uno stato comune a molte persone, orga-nizzazioni e gruppi imbrigliati in routine che rendono difficile l’a-dattamento ai cambiamenti del mondo che li circonda. Questo porta spesso all’inattività, alla resistenza, all’inefficienza e all’inerzia.

• Apprendimento I: riguarda fondamentalmente la flessibilità compor-tamentale. Si tratta di cambiamenti correttivi graduali e progressivi riguardanti particolari comportamenti già esistenti nelle persone e nelle organizzazioni. L’apprendimento I viene facilitato quando si aiutano le persone a prendere consapevolezza delle proprie azioni, dell’esperienza interna e dei processi di pensiero.

• Apprendimento II: comporta un cambiamento rapido e discontinuo che coinvolge processi a livello di condotta, di valori e di priorità. Ad esempio, un passaggio brusco da un comportamento di tipo aggressi-vo ad un comportamento di tipo amichevole ed esplorativo; oppure il passaggio di un’azienda di produzione all’essere orientata più sui servizi.

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apprendimento III, come cambiamento evolutivo dell’in-dividuo che si colloca l’apprendimento espansivo, o per espansione. In un’intervista14 Engeström spiega che questo tipo di apprendimento emerge soprattutto in situazioni alta-mente contraddittorie dove le richieste sono in conflitto con le competenze o le situazioni specifiche. In tali situazioni le persone qualche volta intraprendono quello che Bateson chiama apprendimento 3, si allontanano dalla superficie e dal contesto per costruire una immagine più grande, per “espandere” il loro contesto di vita e di azione.

L’apprendimento espansivo consiste dunque nell’andare ol-tre l’informazione data per costruire un nuovo set di criteri, riguarda molto l’apprendere qualcosa che non è ancora, che si crea mentre si costruisce una nuova attività, un’occasione rara, che necessita di strategie di supporto e di reti sociali alle quali ancorarsi per non rimanere una sorta di devianza dalla norma, contornata da semplici interrogativi.

Sia la teoria dell’apprendimento di Holzkamp, sia quella di Engeströms si riferiscono alle teorie dell’azione degli anni venti a partire dagli studi di Vygotsky. Mentre il modello di Engeström si focalizza sull’ottimizzazione di azioni esistenti all’interno o tra diversi sistemi e si indirizza verso l’appren-dimento nelle organizzazioni, la teoria di Holzkamp ha un obiettivo critico-sociale che poggia sull’emancipazione del singolo rispetto alle indicazioni di insegnamento-apprendi-mento definite da estranei.

Anche le teorie che tematizzano l’importanza dell’interes-

• Apprendimento III: comporta un cambiamento evolutivo a livello dell’identità della persona, del gruppo e dell’organizzazione. Questo significa cambiare interi sistemi di comportamento, che esulano dalle alternative comportamentali da cui, normalmente, si attinge.

14 http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/e2c3c8cd88ff8747c1256e2a002fccb7/7563e618c7f520a0c1256e900035fba3/$FILE/Tecnolo-gia,%20reti,%20apprendimento.pdf

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393Ambienti di apprendimento per la formazione continua

se e della motivazione all’apprendimento come quelle di Jean Leave e Etienne Wenger (Leave,Wenger 1991, Wenger 1998) si collegano all’apprendimento espansivo, mettendo il soggetto al centro dei processi di apprendimento. Il modello è anche tenuto in considerazione nel dibattito sulla qualità dell’apprendimento nell’e-learning15 e permea diversi studi e ricerche promosse dagli enti per la formazione permanente tedeschi in ambito internazionale. Tra questi si ricorda per esempio ArtSet16 ad Hannover, dove si sta cercando di svi-luppare un strumento di valutazione della qualità della for-mazione dal punto di vista di colui che apprende.

Ambiti di applicazione

Obiettivo dell’apprendimento espansivo è quello di libe-rare il soggetto dalle costrizioni dell’insegnamento istitu-zionalizzato e di stimolare in lui la ricerca di obiettivi di apprendimento significativi per l’espansione delle proprie potenzialità.

Lo scopo delle attività formative è dunque quello di risve-gliare le capacità intrinseche di ciascuno per consapevoliz-zarsi e rafforzarsi per rispondere alle urgenze quotidiane e professionali.

Secondo questo approccio l’apprendimento individuale deve essere liberato dagli obblighi della formazione isti-tuzionalizzata e non può avvenire senza riferirsi ai bisogni soggettivi e alle specifiche problematiche del singolo.

Le contraddizioni che la scuola produce ignorando questi

15 Si veda il contributo di Ulf Ehlers nell’Europäischen Zeitschrift Be-rufsbildung nr. 29.

16 Si veda il contributo di Ulf Ehlers nell’Europäischen Zeitschrift Be-rufsbildung nr. 29.

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presupposti devono venire superate attraverso didattiche centrate sull’alunno e sulla soggettività.

Il pensiero di Holzkamp ha avuto grande risonanza e popo-larità forse anche grazie alle forti critiche all’apprendimento direttivo imposto dal sistema scolastico17.I processi di razio-nalizzazione dell’apprendimento sostenuti dalle tecnologie verso la fine degli anni ‘80, infatti, trovano in ambito germa-nofono un loro fondamento teorico nella prospettiva espan-siva centrata sul soggetto con grande risonanza soprattutto in campo lavorativo dove al patrimonio di conoscenze, pre-sto obsolete o prima o poi dimenticate si predilige un pa-trimonio di competenze sociali, metodologiche e d’azione.

Il modello di Holzkamp, centrato sulla “problematica dell’apprendimento soggettivo”, diventa un interessante punto di riferimento pragmatico circa le modalità con le quali si può imparare dall’esperienza e dalle azioni concrete.All’apprendimento espansivo si collegano alcuni interventi formativi orientati all’azione nelle organizzazioni come le istituzioni pubbliche o le imprese (Engeström 2005, p.84). L’obiettivo formativo è quello di ridefinire il loro “sistema d’azione”,consapevolizzando i soggetti sulla loro possibilità di influenzare e quindi cambiare la realtà, tenendo conto che non sono individui isolati, ma componenti di una co-munità specifica che ha le sue regole e le sue strutture. Il percorso di apprendimento espansivo proposto si compone di otto fasi (Engeström 2005, p.84):

• Definizione delle domande (questioning, need state);• Analisi del passato;• Analisi della situazione attuale;• Modellizzazione di soluzioni comuni;• Verifica del nuovo modello;• Discussione degli ulteriori elementi di tensione;

17 Ines Langemayer http://www-user.tu-cottbus.de/~lanines/Lange-meyer-LC.pdf

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395Ambienti di apprendimento per la formazione continua

• Riflessione condivisa sui processi;• Consolidamento delle nuove pratiche.

rIferImentI bIblIoGrafIcI

Bannach Michael,Selbstbestimmtes Lernen, Baltmannsweiler 2002.

Bateson Gregory,Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi 1977.

de Cuvry Andrea, Heberlin Friedrich, Michl Werner, Breß Harmut (a cura di),Erlebnis Erwachsenenbildung, Luchterhand, Neuwied, 2000.

Stephan Dietrich, Elisabeth Fuchs-Brüninghoff, Selbstgesteuertes Ler-nen Auf dem Weg zu einer neuen Lernkultur, Deutsches Institut für Er-wachsenenbildung, Frankfurt/M, 1999

Engeström Yrjö,Lernen durch ExpansionInternationale Studien zur Tä-tigkeitstheorie. BdWi-Verlag, Marburg, 1999.

Engeström Yrjö,Developmental Work Research.Expanding Activity Theo-ry In Practice,ICHS, Berlino 2005.

Engeström Yrjö,Entwickelnde Arbeitsforschung. Die Tätigkeitstheorie in der Praxis,ICHS, Berlino 2008.

Faulstich Peter, Ludwig Joachim,Expansives Lernen. Grundlagen der Be-rufs- und Erwachsenenbildung, Band 39. Schneider Verlag Hohengehren GmbH, Baltmannsweiler 2004.

Funke, Edmund H./Rihm, Thomas (a cura di),Subjektsein in der Schu-le? Eine Auseinandersetzung mit dem Lernbegriff Klaus Holzkamps, Bad Heilbrunn, Klinkhardt, 2000.

Heuer Ulrike, Tatjana Botzat, Klaus Meisel (a cura di), Neue Lehr und Lernkulturen in der Weiterbildung, Bertelsmann, Bielefeld 2001.

Holzkamp, Klaus,Wider den Lehr-Lern-Kurzschluß.Interview zum The-ma >Lernen<. Zuerst erschienen in Rolf Arnold (a cura di) Lebendiges Lernen. Hohengehren 1996. Aus: Faulstich, Peter; Ludwig, Joachim (a cura di): Expansives Lernen. Baltmannsweiler 2004. p. 29-38.

Holzkamp, Klaus,Lernen. Subjektwisssen- schaftliche Grundlagen, Fran-coforte/New York, Campus 1995

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396

Langemeyer Ines,Kompetenzentwicklung zwischen Selbst- und Fremdbe-stimmung. Arbeitsprozessintegriertes Lernen in der Fachinformatik. Eine Fallstudie.Waxmann Verlag, Münster 2005.

Langemeyer Ines,Contradictions in expansive learning. Towards a critical analysis of self-dependent forms of learning in relation to contemporary socio-technological change.Forum Qualitative Sozialforschung, Vol. 7, Nr. 1, Art. 12, 2006: “Learning at Risk”

Rihm, Thomas (a cura di).Teilhaben an Schule: Über den wirksamen Ein-fluss auf Schulentwicklung. 2. Auflage. Vs-Verlag, Wiesbaden 2010.

Rihm, Thomas (a cura di),Schulentwicklung. Vom Subjektstandpunkt aus-gehen, VS-Verlag, Wiesbaden 2006.

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Parte terzaI riferimenti concettuali ed operativi

begrIfflIcher unD hanDlung leItenDer bezugsrahmen

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399Ambienti di apprendimento per la formazione continua

aPPrendere dall’esPerIenzaGiovanni Marconato

Il contesto

Ogni processo di apprendimento è attivato e sostenuto da “risorse”. Le risorse abitualmente utilizzate sono gli inse-gnanti e le conoscenze da loro possedute che vengono pas-sate a chi deve apprendere oppure i “contenuti” organizzati in libri di testo, dispense ed altre forme di aggregazione e di presentazione delle informazioni.

Considerare solo queste come risorse per l’apprendimento porta a trascurare un’ulteriore risorsa per l’apprendimento molto importante, specie nella formazione degli adulti: la conoscenza che ciascuna persona possiede e che ha accu-mulato attraverso la propria esperienza. Questa forma di conoscenza, se opportunamente esplicitata e rielaborata, genera nuova conoscenza e facilita l’integrazione nella strut-tura cognitiva individuale delle nuove informazioni prove-nienti dall’esterno. Soprattutto nella formazione degli adul-ti l’esperienza dovrebbe essere una imprescindibile risorsa per l’apprendimento.

Descrizione

La tematica dell’apprendimento attraverso l’esperienza en-tra nel lessico pedagogico e didattico con il lavoro di Dewey (Experience and Education, 1938, learning by doing), Lewin (T. group, 1946, “apprendere nel qui e ora”) e Piaget (1920, l’intelligenza si forma attraverso l’esperienza). Kolb identifica “debiti” dell’apprendimento esperienziale anche verso Carl Joung, Erik Erikson e Carl Rogers (psicoanali-sti di diverso orientamento), Fritz Perls (gestalt therapy) e Abram Maslow.

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Più sul versante educativo, sempre Kolb, segnala Paulo Freire e Ivan Illich. Significativo il ruolo-ponte tra i rife-rimenti storici (le citazioni precedenti) e contemporanei il lavoro di Jerome Bruner sul ruolo della cultura nei proces-si cognitivi e per la definitiva consacrazione dell’approccio narrativo tra i metodi capaci di dar conto in modo rigoroso (qualcuno direbbe “scientifico”) dei fatti reali contrappo-nendolo all’approccio descrittivo tipico della scienza così come noi la conosciamo.

Tra gli autori contemporanei che stanno offrendo signifi-cative e innovative prospettive alla questione, troviamo lo stesso Kolb per la sistematizzazione dell’approccio, Schon per l’enfasi sulla riflessione, Schank, Kolodner, Jonassen per il ruolo dei “casi”, delle “storie” nei processi cognitivi, nonché tutta la letteratura che legge l’apprendimento quale processo sociale, situato, distribuito�

L’apprendimento attraverso l’esperienza, ovvero l’appren-dere usando come metodo e risorsa l’esperienza propria e altrui, si caratterizza come alternativa all’apprendimento basato su “istruzione” o “istruzione diretta”. E’ proprio il ruolo dell’esperienza nei processi di apprendimento che differenzia questo approccio da quelli tradizionali frutto delle teorie dell’apprendimento razionaliste, dell’epistemo-logia idealista, teorie che assegnano un ruolo preminente all’acquisizione, manipolazione e ricordo di rappresenta-zioni simboliche astratte e delle teorie comportamentisti-che che negano ogni ruolo ai processi coscienti e soggettivi nell’apprendimento18.

18 Per non estremizzare questo concetto, va notato che l’apprendere per esperienza non è capace, come neppure gli altri approcci, di rap-presentare - da solo - il modello sufficiente all’acquisizione di co-noscenze complesse. Si pensi allo studio della chimica, della mate-matica, delle scienze. Non tutto si può scoprirlo o narrarlo. Ci sono leggi, dati e formule da leggere e comprendere. L’esperienza media la pratica, aiuta a contestualizzare.

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401Ambienti di apprendimento per la formazione continua

L’apprendimento esperienziale non va visto, secondo Kolb (uno dei principali autori contemporanei),come una terza via tra comportamentismo e cognitivismo, ma nella pro-spettiva di un approccio olistico e integrativo all’apprendi-mento, vanno considerati e combinati esperienza, percezio-ne, cognizione e comportamento.

L’esperienza (propria e, successivamente, anche quella al-trui) diventa così una “risorsa” per l’apprendimento così come “risorsa” è nell’istruzione diretta l’insegnante, il libro di testo, il contenuto didattico.

Apprendimento attraverso l’esperienza è, anche, apprende-re attraverso la riflessione su ciò che viene fatto; in questo senso l’apprendimento esperienziale può essere ritenuto l’opposto della memorizzazione, di quell’apprendimento che viene definito anche “meccanico”.

L’apprendimento esperienziale è una forma di apprendimen-to “senza insegnamento” in quanto la sua essenza sta nel pro-cesso di costruzione di significato di un esperienza vissuta direttamente dalla persona. Si tratta, quindi, di un processo naturale, di un processo non necessariamente governato.

Non si può, però, ritenere che l’apprendimento sia una di-retta conseguenza dell’esperienza (come non lo è dell’inse-gnamento diretto). Affinché si verifichi un’esperienza ge-nuina di apprendimento, secondo Kolb, la persona che è in grado di apprendere dall’esperienza deve possedere alcune abilità e atteggiamenti:• deve volersi coinvolgere attivamente nell’esperienza;• deve essere capace di riflettere sull’esperienza;• deve possedere e utilizzare abilità analitiche per concet-

tualizzare l’esperienza;• deve possedere abilità di presa di decisione e di pro-

blem solving per poter utilizzare le nuove idee generate dall’esperienza.

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Considerate le caratteristiche dell’apprendimento attraver-so l’esperienza, Kolb identifica, in una prospettiva integrata tra le diverse concettualizzazioni dell’apprendimento, le se-guenti sue caratteristiche:• L’apprendimento va concepito come un processo piut-

tosto che come un prodotto;• L’apprendimento è un processo continuo fondato

sull’esperienza;• Il processo dell’apprendimento richiede la risoluzione

di conflitti tra modi dialetticamente opposti di adattarsi al mondo;

• L’apprendimento è un processo olistico di adattamento al mondo;

• L’apprendimento coinvolge transazioni tra la persona e l’ambiente;

• L’apprendimento è il processo di creazione di cono-scenza;

Kolb sintetizza il tutto attraverso questa definizione “L’ap-prendimento è il processo per il quale la conoscenza viene creata attraverso la trasformazione dell’esperienza” (Kolb 1984).

Un approccio contemporaneo all’utilizzo dell’esperienza nei processi di apprendimento è l’utilizzo di “storie”, di casi reali; “storie” vissute dalla persona coinvolta nell’ap-prendimento e storie vissute da terze persone e utilizzabili, comunque, per il proprio apprendimento. In questo conte-sto sono rilevanti anche le concettualizzazioni dell’approc-cio narrativo all’interpretazione della realtà sistematizzata da Bruner e il modello teoricocase-based reasoningmesso a punto da Jannette Klodner e Rogers Schank.

L’idea di fondo di questi due approcci è che per attivare e sostenere l’apprendimento le storie sono molto più efficaci dei metodi tradizionali di spiegazione (Jonassen). Per l’ap-profondimento della tematica dell’approccio narrativo e

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403Ambienti di apprendimento per la formazione continua

dell’uso di storie nell’apprendimento si veda anche la sche-da relativa al Case-based Reasoning.

rIferImentI bIblIoGrafIcI

D. Kolb, Experiential Learning. Experience as the source of learning and development. 1984. Prentice Hall

J. L. Kolodner, (1993), Case-based Reasoning,Morgan Kaufman Publish-ers

J. A. Moon, (1999) Reflection in Learning & professional development, Routledge Falmer Publishers,

R. C. Schank e C. Clear, (1995), Engines for Education, LEA Publishers

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aPPrendImento autogestItoselF-dIrected learnIngGiovanni Marconato

Il contesto

I percorsi scolastici che ognuno di noi ha frequentato sono stati, in un certo senso, dei percorsi obbligati.

Anche quando la forza che ci ha guidati alla partecipazio-ne scolastica non è stata il così detto “obbligo scolastico”, siamo stati direzionati a partecipare da pressioni sociali e familiari. Raramente la partecipazione ad attività educative e formative è stata una nostra scelta; raramente abbiamo deciso di prendervi parte perché abbiamo diagnosticato una carenza (culturale, di competenza, di conoscenza) ed abbiamo identificato un’opportunità educativa o formativa adeguata. Anche quando ci siamo immessi nel percorso è stata l’istituzione educativa stessa a guidarci, attraverso al sua struttura, i suoi obblighi, verso l’obiettivo finale.

Non così, però, avviene da adulti: nessuno diagnostica le nostre carenze rispetto agli obiettivi da conseguire, nessuno ci dice cosa dovremo fare, nessuno ci obbliga a proseguire gli studi e a trarne profitto.

Da adulti ogni nostro percorso formativo (formale, non for-male, informale) è auto-gestito: dalla diagnosi del bisogno, all’identificazione delle modalità per soddisfarlo, allo svi-luppo.

Il contesto dell’apprendimento auto-gestito è radicalmente diverso da quello etero-gestito per quanto riguarda gli at-teggiamenti e le competenze necessarie.

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405Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Persone abituate ad essere, con gradi diversi, autodirette nell’apprendimento potrebbero incontrare grosse difficol-tà ad auto-dirigersi; ecco perché è compito delle istituzio-ni educative e formative favorire fin dai percorsi educati-vi “obbligati” e per questo etero-diretti, lo sviluppo delle abilità, delle competenze, degli atteggiamenti funzionali ad essere, da adulto, un efficace self-directed learner.

Caratteristiche

E’ opinione diffusa che l’adulto che necessita o che vuole sviluppare nuove conoscenze lo debba fare in un contesto di “apprendimento autodiretto” (self-directed learning): chi apprende da adulto è uno studente che autogestisce il suo apprendimento, cioè è responsabile del suo apprendi-mento.

Cross19 già 20 anni fa affermava che il 70% di ciò che un adulto conosce è frutto di un apprendimento auto-diretto.

Secondo Leslie Dickinson (Crapel - Centre de Recherches et d’Applications Pédagogiques en Langues20 nell’Universi-tà di Nancy II in Francia) il termine “autogestione” descrive un atteggiamento verso l’apprendimento in cui l’allievo ac-cetta la responsabilità riguardo al medesimo ma non esclu-de affatto la possibilità, per lo studente, di seguire un corso convenzionale. L’autogestione dell’apprendimento è più una questione di atteggiamento personale che di tipologia di contesto educativo e formativo.

Lo studente che si autogestisce ha maggiori probabilità di portare avanti con successo il suo apprendimento che non uno studente che delega la gestione del percorso esclusi-

19 Cross, K. P. Adults As Learners.San Francisco: Jossey-Bass, 1981.

20 http://www.apprenditori.com/Index.asp

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vamente all’insegnante e al corso che frequenta. In questo modo il suo apprendimento sarà, anche, più profondo e so-lido (Knowles).

La Dickinson afferma che questa nuova figura di studente responsabile non è né idealistica né poco realistica perché, al di fuori del contesto dell’educazione, ogni persona adulta assume su di sé la responsabilità di una vasta gamma di cose da imparare anche quando, sul tema, non ne sa molto. La situazione dell’apprendimento autogestito è simile. L’allie-vo autogestito si assume la responsabilità di tutti gli aspetti della gestione del suo apprendimento e, tra questi, quello del cercare l’aiuto di un esperto quando necessario.

Knowles21 , che ha estesamente trattato sul piano della ri-cerca, della concettualizzazione e della pratica la tematica dell’apprendimento negli adulti, propone questa definizio-ne di “self-directed learning” contrapponendolo all’appren-dimento guidato da un insegnante (vedi tabella a pag. 411):

Knowles descrive, quindi, ilSelf-Directed learning (SDL) come un processo nel quale la persona, da sola o con l’aiuto di altri, prende l’iniziativa di diagnosticare i propri bisogni di apprendimento, formula gli obiettivi di apprendimento, identifica le risorse adeguate a conseguire quegli obiettivi, seleziona e attiva adeguate strategie per apprendere e valuta i risultati conseguiti.

Abdullah (2001)22 , ripercorrendo la letteratura sul Self Di-rected Learner (SDLr) ne evidenzia le seguenti caratteristi-che:• Il SDLr vede chi apprende come un proprietario e ma-

21 http://team6.metiri.wikispaces.net/file/view/Self-Directed+Learning+-+Malcom+Knowles.pdf/83317293/Self-Di-rected%20Learning%20-%20Malcom%20Knowles.pdf

22 http://www.ericdigests.org/2002-3/self.htm

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407Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Teacher Directed Learning

Chi apprende è essenzialmen-te una persona dipendente e il docente ha la responsabilità di cosa e come gli si debba inse-gnare;

L’esperienza di chi apprende, come risorsa per l’apprendi-mento ha meno valore di quella di chi insegna, dei libri di testo, degli autori dei libri di testo e pertanto l’insegnante ha la re-sponsabilità di veicolare a chi apprende quelle risorse;

Gli studenti si avvicinano alla loro istruzione formale con un orientamento ad apprendere basato sulla disciplina/conte-nuti (vedono l’apprendimento come una questione di accu-mulazione di contenuti e, per-tanto, l’esperienza di apprendi-mento deve essere organizzata sulla base di unità di contenu-to);

Gli studenti sono motivati ad apprendere in risposta a ricom-pense e punizioni esterne come voti, diplomi, lauree e alla pau-ra del fallimento.

Self Directed Learning

La capacità e il bisogno delle persone di essere autodirette è una componente essenziale della maturazione e questa ca-pacità dovrebbe essere alimen-tata per potersi sviluppare il più rapidamente possibile;

L’esperienza di chi apprende è una risorsa sempre più ricca per l’apprendimento e come tale deve essere utilizzata assie-me alle risorse degli esperti;

L’orientamento naturale all’ap-prendimento ha una centra-tura su compiti o problemi e per questo l’esperienza di ap-prendimento dovrebbe essere organizzata come compiti da portare a termine o progetti di apprendimento orientati a pro-blemi da risolvere;

Gli studenti sono motivati da incentivi interni, come il biso-gno di autostima, il desiderio di ottenere risultati, la necessi-tà di crescere, la soddisfazione di conseguire un risultato, la curiosità.

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nager responsabile del proprio processo di apprendi-mento; sono, quindi, componenti della sua competenza l’autogestione e l’automonitoraggio;

• Il SDLr riconosce l’esistenza di un ruolo significativo della motivazione e della volontà nell’iniziare e nel man-tenere lo sforzo necessario all’apprendimento;

• Nel SDL il controllo si sposta dall’insegnante allo stu-dente;

• Gli insegnanti supportano l’apprendimento facendo in modo che l’apprendimento conseguito sia visibile;

• Nel SDL viene sviluppata tanto la conoscenza di domi-nio che l’abilità di trasferire la conoscenze conseguita in nuove situazioni.

Merriam and Caffarella (1991)23 descrivono il processo del SDL riferendosi ai lavori di Tough, Knowles e Spear e Mocker. Tough, consapevole che le persone sono dotate di ampie capacità per pianificare e guidare le proprie attività di apprendimento, elenca 13 decisioni chiave per scegliere cosa, dove e come imparare• Decidere in modo preciso quali conoscenze o abilità

apprendere;• Decidere le attività, i metodi, le risorse e gli strumenti

necessari ad apprendere;• Decidere dove apprendere;• Stabilire una data di termine del percorso con alcuni

obiettivi intermedi;• Decidere quando iniziare un’attività di apprendimento;• Decidere il ritmo a cui procedere;• Stimare il proprio livello attuale di conoscenza e i pro-

gressi da compiere per ottenere il risultato previsto;• Identificare i fattori che stanno intralciando l’apprendi-

mento o scoprire le inefficienze presenti nell’approccio adottato;

• Procurarsi le necessarie risorse;

23 Merriam, S. B., & Caffarella, R. S. (1991).Learning in adulthood: A comprehensive guide. San Francisco, Jossey-Bass Publishers

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409Ambienti di apprendimento per la formazione continua

• Allestire il luogo dove si apprenderà o organizzare le condizioni fisiche necessarie per svolgere le proprie at-tività di apprendimento;

• Procurarsi le necessarie risorse finanziarie;• Trovare il tempo per studiare;• Adottare le misure necessarie per aumentare la motiva-

zione nel corso delle attività di apprendimento.

Knowles ha messo a punto un suo modello a cinque fasi del SDL:• Diagnosticare i bisogni di apprendimento;• Formulare gli obiettivi di apprendimento;• Identificare risorse umane e materiali;• Scegliere ed implementare appropriate strategie d’ap-

prendimento;• Valutare i risultati.

Knowles identifica pure gli atteggiamenti funzionali ad atti-vare e sostenere il SDL:• Creare un clima che dimostri che chi apprende è accet-

tato, rispettato e supportato;• Prestare attenzione all’autodiagnosi dei bisogni d’ap-

prendimento;• Coinvolgere chi apprende nella pianificazione del pro-

gramma individuale;• Agire come una risorsa a disposizione di chi apprende,

come uno specialista di procedure, un co-esploratore e non una persona che spinge l’altro ad apprendere;

• Aiutare chi apprende nel processo di auto-valutazione;• Porre grande enfasi sulle tecniche che consentono di

attingere all’esperienza di chi apprende.

Il fatto che l’apprendimento sia o no autoguidato non di-pende dal contenuto che deve essere appreso o dai metodi che un’organizzazione formativa adotta: la gestione autodi-retta dell’apprendimento dipende da chi si fa carico, da chi decide:

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• Cosa dovrebbe essere appreso;• Chi dovrebbe apprendere;• Quali metodi e risorse dovrebbero essere utilizzate;• Come dovrebbe essere misurato il risultato;• Nella misura in cui di tutto questo si fa carico la persona

che apprende, l’apprendimento può essere considerato autodiretto.

L’apprendimento auto-diretto può avvenire in isolamento (studio autonomo) o in contesti di interazione e collabora-zione. La comunicazione tra studenti e “sistema didattico” e tra studenti è ora facilitata dalla diffusione delle tecnologie della comunicazione via internet. Con il supporto di queste tecnologie è teoricamente possibile ricreare in un contesto di SDL il clima interattivo e collaborativo tipico della for-mazione convenzionale basata su attività d’aula.

Benché ci siano evidenze di enormi quantità di apprendi-mento autodiretto tra gli adulti e benché dal punto di vista teorico non ci sia via d’uscita all’apprendimento lungo tutto l’arco della vita se non nella prospettiva dell’auto-direzione dello stesso, è ampiamente provato che numerose persone adulte non sono in grado di impegnarsi in percorsi di ap-prendimento autoguidato o perché mancano di sufficiente spirito di indipendenza, di sicurezza in nelle loro capacità di autogestione o di risorse.

Decidere di iniziare un percorso di apprendimento autogui-dato e portarlo a compimentorichiede non solo adeguati at-teggiamenti ma anche specifiche abilità; se questi non sono presenti, possono e devono essere sviluppati attraverso ade-guati servizi “formativi” finalizzati proprio a promuovere lo sviluppo:• di un atteggiamento favorevole al SDL,• della necessaria sicurezza in sé come persona capace di

autodirigersi;• delle competenze “tecniche” necessarie a gestire il SDL.

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411Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Da evidenziare: l’orientamento al SDL non significa che ogni forma di apprendimento sia indipendente e svincola-ta da ogni forma di formazione formale; la vera natura del SDL sta nella capacità di identificare una propria carenza di conoscenza e/o competenza, nel definire, a fronte di questa, degli obiettivi di sviluppo e, infine, di identificare il modo o i modi per conseguire gli obiettivi. Tra questi, perché no, anche uno o più corsi formali.

Lowry24 considerando il lavoro di diversi autori, ha identifi-cato alcune dimensioni rispetto alle quali le organizzazioni educative potrebbero facilitare il SDL:• Aiutare le persone ad identificare il punto di partenza

per un “progetto di apprendimento”;• Incoraggiare l’adulto a vedere gli effetti pratici ed i

vantaggi della nuova conoscenza che potrebbe essere acquisita;

• Creare una partnership con chi apprende negoziando un “contratto di apprendimento” ed i suoi obiettivi, le strategie didattiche, i criteri di valutazione;

• Agire come un facilitatore dell’esperienza di apprendi-mento più che come un fornitore di informazioni;

• Aiutare chi apprende ad acquisire le necessarie tecni-che di valutazione per poter scoprire quali obiettivi può definire;

• Incoraggiare a definire obiettivi che possano essere conseguiti in modo differente e mettere a disposizione differenti possibilità di dare prova di risultati positivi;

• Fornire esempi di prodotti di adeguato standard realiz-zati da altre persone;

• Accertarsi che, una volta stabiliti, chi apprende sia con-sapevole degli obiettivi, delle strategie di apprendimen-to, delle risorse e dei criteri di valutazione;

• Favorire lo sviluppo di tecniche di indagine, di presa di decisione, di sviluppo personale e di autovalutazione

24 http://www.ntlf.com/html/lib/bib/89dig.htm

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del proprio lavoro;• Favorire l’incontro tra le risorse ed i bisogni di chi ap-

prende;• Aiutare chi apprende a localizzare le risorse necessarie;• Aiutare chi apprende a sviluppare un atteggiamen-

to positivo e sentimenti di indipendenza in relazione all’apprendimento;

• Riconoscere e valorizzare i diversi tipi di personalità e di stile di apprendimento;

• Utilizzare tecniche di esperienza sul campo e di pro-blem solving che si possono avvantaggiare della ric-chezza dell’esperienza dell’adulto;

• Sviluppare guide allo studio di elevata qualità;• Incoraggiare lo sviluppo di abilità di pensiero critico;• Creare un’atmosfera di apertura e fiducia per promuo-

vere migliori risultati;• Aiutare a proteggere chi studia da manipolazioni pro-

muovendo un codice etico;• Comportarsi in modo etico e, tra l’altro, non raccoman-

dare l’approccio SDL se non è coerente con i bisogni di chi apprende.

Self-directed learning e autosviluppo

Altri elementi utili a definire il contesto dell’apprendimento auto-guidato sono quelli che sono stati sviluppati nella pro-spettiva dell’autosviluppo, ritenuta una delle cinque compe-tenza chiave di cui favorire lo sviluppo negli studenti della formazione professionale25. Se le competenze per l’appren-dimento auto-diretto si possono sviluppare, quale momento migliore per farlo non è quello della formazione iniziale?

Possedere la competenza dell’autosviluppo significa:• monitorare le proprie risorse professionali e personali

ed identificare i punti di forza e le carenze;

25 Progetto Key Skills della Ripartizione 21, 1998 - 2001

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413Ambienti di apprendimento per la formazione continua

• identificare gli obiettivi del proprio sviluppo;• ricercare, valutare, selezionare le opportunità per il pro-

prio sviluppo;• pianificare ed organizzare il proprio lavoro di autosvi-

luppo;• realizzare attività/piani di sviluppo professionale e per-

sonale;• valutare gli esiti del piano di autosviluppo;

La competenza di autosviluppo riguarda le attività svolte:• per mantenere integro il proprio patrimonio professio-

nale;• per migliorare la propria posizione professionale;• per cambiare la propria posizione professionale;• fronteggiare le diverse situazioni extra-professionali;• per obiettivi di breve (medio, lungo) periodo;• per obiettivi identificati da sé (e/o da altri).

Il possesso della competenza viene valutato sulla base dei seguenti criteri: l’allievo deve poter dimostrare la capacità di:• saper identificare i propri punti di forza e di debolezza;• concordare e/o identificare obiettivi realistici;• riesaminare ed aggiustare gli obiettivi, se e quando ne-

cessario;• lavorare anche senza supervisione;• richiedere aiuto per superare le difficoltà;• comprendere gli obiettivi fissati da altri;• eseguire i programmi di attività concordati;• segnalare prontamente le difficoltà incontrate;• conseguire gli obiettivi concordati;• usare il feedback dato in modo costruttivo;• cercare feedback sulla propria azione in modo attivo e

regolare;• fornire prove dei risultati conseguiti.

La persona dotata di competenze di autosviluppo deve pos-

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414

sedere le seguenti conoscenze, abilità ed atteggiamenti:• abilità di studio;• abilità di pianificazione;• abilità di organizzazione;• pensiero creativo;• assunzione di responsabilità;• presa di decisione;• lavoro in autonomia/autogestione;• assunzione di responsabilità;• superamento di frustrazione e stress;• flessibilità;• disponibilità ad accettare situazioni nuove;• riconoscimento e fronteggiamento delle proprie carenze.

Questa abbastanza ampia rassegna concettuale sull’appren-dimento autogestito ci rende consapevoli della strategicità dell’assunzione della prospettiva dell’apprendimento auto-gestito e dell’autosviluppo. Nella vita adulta le persone ap-prendono prevalentemente secondo queste due dinamiche, dinamiche non facili da attivare e gestire ma, pur sempre, dimensioni coi cui misurarsi. Ogni programma formativo, fin dal periodo della scuola, dovrebbe, quindi, favorire lo sviluppo degli atteggiamenti e delle abilità che stanno alla base della possibilità di apprendere sempre.

Le dinamiche dell’apprendimento autogestito offrono, infi-ne, utili indicazioni a chi propone formazione continua per l’attivazione di adeguati servizi di supporto all’apprendere in auto-gestione, servizi che dovrebbero andare oltre quelli più direttamente didattici.

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415Ambienti di apprendimento per la formazione continua

comPItI autentIcIGiovanni Marconato

Il contesto

Secondo l’approccio costruttivista, una delle ragioni della limitata efficacia dei sistemi educativi tradizionali è rappre-sentata dalla tipologia delle attività didattiche che gli inse-gnanti propongono agli studenti.

Queste attività, o “compiti” presentano situazioni, proble-mi, contesti che esistono solo a scuola e non sono presenti nel mondo reale. Questi “compiti” rappresentano, per la loro natura “scolastica”, una iper semplificazione della real-tà e questo impedisce agli studenti di comprende il “proble-ma” nella sua vera natura, nelle sue componenti, nella sua articolazione e, di conseguenza, impedisce loro di compren-dere la questione che attraverso quel compito l’insegnante vuole insegnare (ad esempio una legge della fisica, una pro-cedura matematica...).

Lavorando con compiti scolastici gli studenti potranno, nel migliore dei casi, comprendere la versione scolastica di un problema reale ma non il problema. Non lavorando con un problema reale, gli studenti non solo non possono comprendere la questione oggetto della didattica ma non riescono a dare alla stessa neppure un significato con il ri-schio che l’attività proposta non sia motivante, non attivi impegno cognitivo elevato e si limiti alla memorizzazione di una procedura, di una regola con l’effetto che quei conte-nuti saranno presto dimenticati e non saranno riutilizzati in situazioni diverse da quelle presentate attraverso il proble-ma scolastico.

Quindi, mancata comprensione, mancato transfer, manca-to apprendimento. Uno degli approcci a questi problemi

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potrebbe essere l’utilizzo didattico di “compiti autentici”, approccio particolarmente utile quando si tratta di forma-zione destinata ad adulti.

Descrizione

Il compito autenticoè il contesto all’interno del quale si veri-fica l’apprendimento significativo.

Cosa rende i compiti autenticie pertantosignificativi? Nu-merose sono le possibili accezioni.

Alcuni autori (Herrington, Oliver, Reeves 2003) ne hanno repertoriato più di una decina che enfatizzano, con diffe-renti pesi, la realisticità del compito, l’applicazione di cono-scenze concettuali (conceptual knowledge), l’esercizio del pensiero critico ed il problem solving.

In precedenza gli stessi autori avevano formulato un decalo-go (adattato da: Reeves, Herrington, Oliver, 2002) che può essere assunto a riferimento.I compiti autentici:• hanno rilevanza nel mondo reale;• non sono ben definiti (ill-defined) e richiedono allo stu-

dente di definire i compiti ed i sotto-compiti necessari a completare l’attività;

• comprendono compiti complessi che devono essere esplorati dagli studenti in un periodo di tempo soste-nibile;

• consentono soluzioni alternative e portare a prodotti differenti;

• offrono la possibilità di collaborare;• offrono la possibilità di riflettere;• devono poter essere integrati ed utilizzati in differenti

aree tematiche e portare a risultati che non siano riferi-bili a specifici domini di conoscenza;

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417Ambienti di apprendimento per la formazione continua

• sono integrati nella valutazione;• portano alla realizzazione di un prodotto finito, valido

di per sé, non a qualcosa di intermedio e funzionale ad altro;

• offrono agli studenti l’opportunità di esaminare il com-pito da differenti prospettive usando una varietà di ri-sorse.

La tematica dei “compiti autentici” ci ricollega alla separa-zione tra il conoscere ed il fare, la superiorità del conoscere sul fare e l’antecedenza del conoscere sul fare, tutti concetti tipici di tanta scuola anche contemporanea.

La tematica si ricollega, anche, alla questione dell’auto-sufficienza della conoscenza, del suo esistere ed acquisire significato indipendentemente dalla situazione (Brown, Collins, Duguid. 1989).

La ricerca contemporanea sull’apprendimento da Lave e Wenger (1991) a Jonassen, da Brown, Collins, Duguid a Branford e Spiro (tanto per fare alcuni nomi) che ha ante-cedente nobili in Wijgotskij, ha evidenziato che i processi di conoscenza e le attività sono intimamente correlate: si apprende nel fare, non si può fare senza apprendere, “la conoscenza, il significato e la comprensione non avvengono se non all’interno di attività significative ed intenzionali...” (Jonassen 2003).

Il compito significativo è, quindi, il contesto didattico in cui le conoscenze rilevanti non solo sono comprese e ricordate meglio ma anche “trasferite in modo coerente in altre situa-zioni” (Jonassen et al. 2007) e questo ha a che fare non solo con la stabilità degli apprendimenti, ma, anche, con la loro utilizzabilità in contesti diversi da quello in cui sono stati sviluppati.

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rIferImentI bIblIoGrafIcI

Brown J. S, Collins A e Duguid P, (1989 b), Situated Cognition and the Culture of Learning, in Educational Researcher; 18-1, pp. 32-42, Jan-Feb 1989

Herrington J, Oliver R, Reeves T. (2003), Patterns of engagement in au-thentic online learning environments, Australian Journal of Educational Technology, 19,1, p. 59-71

Jonassen D. et al. (2007) Meaningful Learning with Technology, Pearson, Merrill, Prentice Hall, Upper Saddle River

Lave J, Wenger E, (1991), Situated Learning: Legitimate Peripheral Par-ticipation, Cambridge University Press,

Reeves T, Herrington J, Oliver R., (2002). Authentic activities and online learning, atti della conferenza HERSDA 2002 “Quality Conversation, in http://www.ecu.edu.au/conferences/herdsa/main/papers/ref/pdf/Reeves.pdf

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419Ambienti di apprendimento per la formazione continua

comPortamentIsmoGiovanni Bonaiuti

Il contesto

Ogni nostra decisione su come organizzare e progettare siste-mi educativi e formativi e su come insegnare è determinata, tra l’altro, dalle nostre convinzioni su cosa significhi imparare e su come si possa attivare, facilitare e sostenere l’apprendi-mento attraverso pratiche didattiche. Non sempre i presup-posti teorici che stanno alla base di queste pratiche sono con-sapevoli ed espliciti e, conseguentemente, siamo spesso diret-ti dalle nostre teorie implicite che facciamo nostre attraverso comportamenti imitativi (di pratiche esse stesse imitate).

Frequentemente chi concepisce e gestisce sistemi formativi ed insegna lo fa proseguendo nel solco di ciò che ha vissu-to quando era studente. I nostri sistemi educativi sono, da secoli, ispirati ad una visione “istruzionistica” dell’appren-dimento. Si immagina cioè che l’apprendimento, in partico-lare quello scolastico, richieda la presenza di un insegnante impegnato ad insegnare, ovvero a presidiare il processo di “trasferimento” delle conoscenze selezionate dalla società nella mente del discente.

La concezione della conoscenza che vede gli studenti come “scatole vuote” da riempire di contenuti ha una lunga tradi-zione. L’idea della mente come tabula rasa è già presente negli scritti di Aristotele, ma è soprattutto con John Locke che il concetto viene ad assumere connotati precisi. La storia della scuola e delle istituzioni educative, salvo sporadiche eccezioni, è largamente contrassegnata da pratiche didattiche incentrate sulla disparità dei ruoli tra docente e studenti, sulla netta sepa-razione di insegnamento e apprendimento, sull’importanza dei contenuti. Fino al secolo scorso questa prospettiva epistemolo-

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420

gica, accompagnata dall’insensibilità nei confronti del discente e dalle scarse conoscenze relative ai processi psicologici impli-cati nell’apprendimento, ha autorizzato pratiche deteriori ca-ratterizzate da nozionismo, verbalismo, autoritarismo, studio passivo e recitativo. Il comportamentismo (behaviourismo), che si sviluppa nel Novecento a partire dagli studi della psico-logia sperimentale americana, si inserisce sulla scia di questa vi-sione epistemologica - ovvero sull’idea della conoscenza come “oggetto” centrale del processo di insegnamento - proponen-do però una radicale trasformazione nell’approccio didattico. In particolare, grazie alle ricerche sperimentali svolte anche in laboratorio (e non solo con gli uomini), si comprende il ruolo della (buona) progettazione dei materiali didattici, l’importan-za delle modalità di somministrazione dei compiti, l’influenza del “rinforzo” come strategia per favorire l’apprendimento.

Descrizione

Il comportamentismo considera la mente una sorta di “black box”, una scatola nera il cui funzionamento interno è inco-noscibile e, per certi aspetti, irrilevante ai fini dell’apprendi-mento. Il contenuto e i processi della mente non sono rile-vanti, ma lo sono gli input che vengono forniti e gli output in uscita. Il comportamentismo, sviluppando i concetti del condizionamento classico identificati da Pavlov (il cane che inizia a salivare al solo suono della campanella, dopo che questo era stata precedentemente associato la presentazione di cibo), ha elaborato un’approfondita comprensione em-pirica e sperimentale delle relazioni tra stimoli (ambientali) e risposte (comportamentali). All’interno di questo ampio approccio è centrale l’idea che il meccanismo sottostante all’apprendimento umano ci sia - come nel condizionamen-to - l’associazione ripetuta di uno stimolo con una risposta all’interno di un setting operativo rigorosamente strutturato.

Questo approccio all’istruzione vede cioè l’apprendimento

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421Ambienti di apprendimento per la formazione continua

di ogni essere vivente (animale o persona) come associazione della “risposta corretta” ad uno stimolo. Se la risposta è se-guita dalla ricompensa (altra azione esterna all’individuo che valida la risposta attraverso il suo apprezzamento, o il “rin-forzo”), questa non è più casuale ma sistematica ed ha molte probabilità di essere data nel futuro: l’organismo ha appreso. Secondo il comportamentismo, l’apprendimento altro non è che l’acquisizione ed il rinforzo di risposte. Sul piano peda-gogico e didattico, i presupposti comportamentistici hanno portato a dare valore solo a ciò che è visibile, osservabile, mi-surabile oggettivamente non assegnando alcun valore teorico e pratico a ciò che è “mentale”. Principi dell’apprendimento sono la contiguità, la ripetizione ed il rinforzo perché “ una delle loro eccezionali caratteristiche è che si riferiscono ad even-ti formativi controllabili” (Gagnè et al. 1974).

Il comportamentismo, in particolare con il contributo di Skinner uno dei suoi principali esponenti, ha consentito di sottolineare l’importanza (precedentemente ignorata) di aspetti quali l’esigenza di definire con esattezza il contenu-to da insegnare facendo attenzione ad individuare una ge-rarchia e un ordine nella proposta degli argomenti (dal più semplice al più complesso), di selezionare adeguatamente i termini da usare sulla base della loro comprensibilità (il docente ottocentesco si accontentava del suo sapere e del-la sua abilità oratoria), di sostenere il discente con rinforzi continui (approvazione del comportamento corretto), di evitare le punizioni perché controproducenti per l’appren-dimento. L’idea di fondo resta cioè quella classica, ovvero che apprendere significhi, in buona sostanza, acquisire no-zioni e quindi memorizzare. Secondo il comportamentismo: • l’oggetto dell’apprendimento e, conseguentemente,

dell’insegnamento, è rappresentato dai contenuti in cui sono strutturate le “discipline”;

• i contenuti (ed il loro significato) sono definiti dalle di-scipline stesse;

• compito della didattica è trovare le modalità più effi-

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ciente ed efficace per trasferire questi contenuti agli stu-denti (riduzione, segmentazione e parcellizzazione delle informazioni e loro strutturazione in percorsi didattici lineari caratterizzati dall’intensivo utilizzo dei meccani-smi classici dello stimolo-risposta-rinforzo);

• compito degli studenti è imparare nel modo “giusto” (cioè come definito dalla “disciplina”) i contenuti grazie alla ripeti-zione ed al continuo rinforzo positivo dello sforzo compiuto,

Applicazioni e sviluppi del comportamentismo

Il contributo del comportamentismo, innovativo per l’epo-ca, resta tuttora alla base di numerosi approcci alla proget-tazione didattica e, nonostante abbia incontrato notevoli resistenze (non va dimenticato che in America, il compor-tamentismo, si sviluppa negli anni di espansione dell’atti-vismo), non ha mai perso la propria forza propulsiva. Un rinnovato interesse per alcuni capisaldi del comportamen-tismo è oggi riscontrabile in ambiti quali la progettazione di software didattici interattivi, nello sviluppo di learning object (gli oggetti didattici per l’e-learning) e di contenuti editoriali per le lavagne interattive multimediali (LIM). Idee come quelle di strutturazione dei percorsi, di gradualità dei processi di erogazione dei contenuti, di impiego dei test quali strumenti di studio e verifica, dell’uso di meccanismi di rinforzo (o “premio”) sono infatti variamente impiegati in tutte quelle esperienze che vedono il discente impegnato in un processo di apprendimento di contenuti strutturati.

Le teorie dell’apprendimento di derivazione comporta-mentistica concettualizzano l’apprendimento come l’ac-quisizione di nuovi comportamenti hanno, in particolare, influenzato la progettazione e la gestione della didattica. Uno degli ambiti principali di applicazione è (ed è stato) quello dell’Instructional Design. Il comportamentismo, che in seguito sarà recuperato ed assorbito dal cognitivismo, ha infatti contribuito alla messa a punto di numerosi strumen-

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423Ambienti di apprendimento per la formazione continua

ti per la progettazione e la strutturazione dei curricula. In particolare nei primi anni Sessanta del secolo scorso, anche come reazione ad una non sempre produttiva applicazione dell’attivismo spesso troppo incline ad assecondare gli in-teressi del bambino (puerocentrismo), sotto la spinta della Guerra Fredda si fece forte negli Stati Uniti l’esigenza di dare risposte scientifiche al problema della progettazione didattica e curricolare (lasciata incontrollata nelle mani di insegnanti non formati a questo). Bloom, Mager e Gagné sono tra gli autori che, recuperando variamente alcune istanze del comportamentismo, hanno contribuito alla mes-sa a punto di criteri progettuali in particolare attraverso l’a-nalisi del compito (task analysis) mediante le tassonomie e la conseguente organizzazione dei percorsi di insegnamento.

Mager (1978, 1983, 1987) suggerisce di definire gli obietti-vi (i risultati attesi) dell’apprendimento in termini di com-portamenti chiaramente osservabili in modo che quando si vedono siano riconoscibili e più persone messe a valutare, lo possano fare senza equivoci e soggettività. “Per obiettivo s’intende la descrizione di una performance che gli studenti devono essere in grado di mostrare per essere considera-ti competenti; descrive, cioè, il risultato che l’istruzione si prefigge piuttosto che il metodo didattico” dove, sempre secondo Mager (1978), la descrizione efficace di un obietti-vo formativo deve contenere queste tre componenti:• Performance: l’obiettivo deve indicare sempre ciò che

l’allievo deve essere in grado di fare. La performance dovrebbe essere osservabile e misurabile (es. «calcolare la somma relativa ai valori inseriti»).

• Condizione: è l’insieme delle circostanze nelle quali la performance deve essere eseguita, come i materiali e gli strumenti utilizzabili (es. «dato un foglio di calcolo»).

• Criterio: specifica con quanta abilità l’allievo dovrà ese-guire la sua performance per essere considerato idoneo (ad esempio in quanto tempo deve eseguire il compito, con quanta precisione ).

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Pietra portante di questo approccio è l’analisi del compito. Il compito, che di solito è un’attività complessa, va scom-posto in sotto-compiti o attività elementari che sono più fa-cilmente gestibili e rispetto ai quali si può più agevolmente provare la competenza. Identificate queste entità minime del comportamento, si devono determinare le conoscenze e le abilità ad esse associate che vanno trasmesse al soggetto con una strategia che va dal semplice al complesso, dove l’insieme è la risultante della sommatoria delle parti.

Sviluppi successivi del comportamentismo, integrati con apporti del cognitivismo, portano a riconoscere l’esistenza di differenti tipi di apprendimento e il fatto che ciascuno di questi si realizza al verificarsi di ben definite condizioni (Gagnè, 1975). Compito del docente diventa dunque quello di creare le condizioni migliori per apprendere. Le condi-zioni dell’apprendimento, che devono essere ottimizzate, sono determinate dai contenuti del materiale da apprende-re, quindi, dalla disciplina di riferimento e dagli obiettivi di apprendimento.Secondo questo approccio:• la conoscenza è un dato oggettivo: il significato delle

cose è incorporato in esse ed è quel significato univoco che costituisce l’oggetto dell’apprendimento;

• la conoscenza, i processi ed i risultati dell’apprendi-mento sono sempre determinabili con precisione;

• la padronanza (mastery) della conoscenza in un deter-minato dominio è la finalità dell’apprendimento;

• il processo d’apprendimento è una azione causa-effetto: ad un input corrisponde sempre lo stesso output:

• il processo d’apprendimento è largamente nelle mani dell’insegnante: da lui e dal suo lavoro dipende il risul-tato che sarà possibile conseguire;

• l’apprendimento è un processo additivo: le singole parti messe assieme danno forma al tutto;

• il criterio regolatore dell’insegnamento è la disciplina da apprendere: da questa deriva la strategia ottimale per attivare l’apprendimento.

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425Ambienti di apprendimento per la formazione continua

I processi interni e gli eventi didattici che portano all’ap-prendimento sono i seguenti (adattamento da Gagnè et. al., 1974)

Processi interni

Ricezione degli stimoli attra-verso i recettori

Registrazione delle informazio-ni attraverso registri sensori

Percezione selettiva per l’im-magazzinamento nelle memo-ria a breve termine

Trattare il materiale per mante-nere le informazioni nella me-moria a breve termine

Codifica semantica per l’imma-gazzinamento nella memoria a lungo termine

Ricupero dalla memoria a lun-go termine nella memoria ope-rativa (memoria a breve termi-ne)

Generazione di risposte per ot-tenere risultati

Prestazione nell’ambiente di chi apprende

Controllo del processo attra-verso strategie di esecuzione

Eventi didattici

Stimolare per ottenere l’atten-zione la quale assicura la rice-zione dello stimolo

Informare chi apprende degli obiettivi didattici in modo da creare appropriate aspettative

Stimolare il richiamo degli ap-prendimenti precedentemente realizzati in modo che siano estratti dalla memoria a lungo termine

Presentare i materiali in modo chiaro e distinto in modo da assicurare una percezione se-lettiva

Orientare l’apprendimento at-traverso una codifica semantica appropriata

Attivare prestazioni coinvol-gendo la generazione di rispo-ste

Fornire feedback sulla presta-zione

Valutare la prestazione com-prendendo occasioni aggiunti-ve di feedback

Far svolgere una varietà di atti-vità per aiutare futuri ricuperi e trasferimenti di conoscenza

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L’Instructional Design (ID)che, pur rappresentando un’area di ricerca aperta anche ad altri approcci, si è negli anni lar-gamente ispirata ai capisaldi del comportamentismo. L’ID si pone l’obiettivo primario di prescrivere i diversi aspetti dell’insegnamento identificando le soluzioni (“strategie”) didattiche capaci di rendere massimo l’apprendimento con il minor consumo di risorse possibile (Merril, 1992).

L’Instructional Design, come precisato in uno dei testi più noti (Dick, Carey e Carey, 2001) suggerisce di prestare at-tenzione alle seguenti componenti poste in sequenza:• valutazione dei bisogni per identificare gli obiettivi

dell’istruzione;• analisi degli obiettivi;• identificazione delle abilità subordinate e del compor-

tamento d’entrata;• analisi degli allievi e dei contesti;• scrittura degli obiettivi di prestazione;• sviluppo degli strumenti di valutazione;• sviluppo della strategia d’istruzione;• sviluppo dei materiali d’istruzione;• progettazione e realizzazione della valutazione forma-

tiva;• revisione dei materiali d’istruzione;• progettazione e realizzazione della valutazione sommativa.

Uno dei processi di “produzione” della formazione più noti, messi a punto nell’ambito dell’ID, è il Modello AD-DIE, dalle iniziali di Analysis, Design, Development, Im-plementation, Evaluation.• Analisi: si analizzano i problemi didattici, gli obiettivi e

i risultati dell’apprendimento, le conoscenze di parten-za che devono essere possedute dagli studenti

• Progettazione: si specificando gli obiettivi di apprendi-mento, le tecniche di valutazione, le attività didattiche, i contenuti, la pianificazione delle sequenze didattiche, i media da utilizzare

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427Ambienti di apprendimento per la formazione continua

• Sviluppo: si creano e si assemblano gli oggetti progettati nella fase precedente

• Implementazione: si realizza l’azione formativa• Valutazione: si valutano i risultati conseguiti nelle diver-

se fasi (valutazione formativa) e nell’insieme dell’azione (valutazione sommativa)

L’idea di tradurre questi principi in “pratiche” mettendo a disposizione di formatori e insegnanti un modello sem-plice e di tipo prescrittivo (fai così ed opererai bene) rap-presentano la soluzione “cost-effective”, ovvero dal buon rapporto tra costi e risultati su cui si basano le soluzioni neo-comportamentiste. Ciò che rende il comportamenti-smo inadatto a rispondere alle richieste del sistema sociale e culturale contemporaneo è l’incapacità di rispondere ad apprendimenti significativi (vedi capitolo “apprendimen-to significativo”) ovvero capaci di strutturarsi in maniera profonda nel vissuto e nelle pratiche delle persone e di ri-spondere con flessibilità alle variegate e mutevoli esigenze sociali prima ancora che a quelle del mercato e della sistema produttivo e industriale.

Oggi la società e l’economia chiedono ai sistemi educativi e formativi il perseguimento di obiettivi di apprendimento di ordine più elevato (es: comprensione, transfer, problem solving) e quei sistemi sono chiamati ad adottare differenti paradigmi dell’apprendimento e differenti pratiche di ap-prendimento.

La ricerca “scientifica” contemporanea sulla cognizione e sull’apprendimento ha sviluppato concettualizzazioni e pratiche avanzate anche se i sistemi educativi e formativi rimangono sostanzialmente ancorati a concettualizzazioni e pratiche obsolete, quelle comportamentistiche, appunto.

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rIferImentI bIblIoGrafIcI

Bloom, B. S. (1986). Tassonomia degli obiettivi educativi. La classifica-zione delle mete dell’educazione. Area cognitiva. Teramo: Giunti & Li-sciani Editori.

Briggs, L. J. (ed. 1991). Instructional design: principles and applications (2nd ed.). Englewood Cliffs, N.J: Educational Technology Publications.

Dick, W., Carey, L, Carey J. O. (2001, V. ed). The systematic design of Instruction. New York, LongmanGagnè R. M, Briggs L. J, Wager W.W. (1974, VI ed. 1999) Principles of Instructional Design. Fort Worth, Hartcourt Brace College Publisher.

Gagné, R. M. (1975). Le condizioni dell’apprendimento. Roma: Arman-do (ed orig. 1965).

Gagné, R. M., & Briggs, L. G. (1998). Fondamenti di progettazione di-dattica. Torino: SEI.

Mager, R. F. (1978). Gli obiettivi didattici. Teramo: Lisciani & Zampetti editori (ed orig. 1962).

Mager, R. F. (1983). L’ analisi degli obiettivi. Teramo: Giunti & Lisciani (ed orig. 1983).

Mager, R. F. (1987). Come misurare i risultati dell’istruzione. Teramo: Giunti & Lisciani.

Merril. D. (1992) Constructivism and Instructional Design.In: Duffy T.M, Jonassen.D.H, (1992) Constructivism and the technology of in-struction. A conversation. New Jersey: Lawrence Erlbaum Associates.

Seels, B. (1995). Instructional Design Fundamentals. A reconsideration. New Jersey: Lawrence Erlbaum Associates.

Skinner, B. F. (1970). La tecnologia dell’insegnamento. Brescia: La Scuola.

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429Ambienti di apprendimento per la formazione continua

connettIvIsmo e socIal networkIngGiovanni Marconato

Il contesto

L’apprendimento, storicamente, è stato concepito come un processo individuale: ciò che una persona conosce si costru-isce ed è presente nella mente della singola persona.

Questa visione dell’apprendimento può essere considerata come la diretta conseguenza dell’atteggiamento sociale e culturale di considerare la conoscenza valida in quanto tale: più cose conosci più vali (vedi il valore sociale attribuito alla persona dotta, colta, istruita).

Le ricerche cognitive e sull’apprendimento sviluppatasi in questi ultimi decenni hanno dimostrato che la conoscenza si sviluppa, invece, in un contesto sociale, che si apprende interagendo con altre persone.

La conoscenza non è più, quindi, un’entità di cui una sin-gola persona si è appropriata ma un’entità che la singola persona condivide con altri dopo aver negoziato e costruito un comune significato. Questa visione dell’apprendimen-to è anch’essa costruita socialmente: ora non si è portati a dare più tanto valore al conoscere per il conoscere ma al conoscere per fare (conceptual knoledge; knowledge in ac-tion) e, considerato che il fare è sempre un fatto sociale, che viene visto e valutato in funzione di ciò che più persone fanno interagendo ed in interdipendenza, i significati (ciò che è “giusto” o “vero”) non possono che essere generati socialmente connettendosi autenticamente con altre perso-ne. L’ampia disponibilità odierna delle tecnologie digitali e di rete facilita la connessione e costruzione condivisa di conoscenza.

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Descrizione

Le pratiche culturali e sociali di accesso alla conoscenza che si sono imposte in modo non guidato o intenzionale con lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie digitali e di internet possono essere ritenute una conferma empirica delle cono-scenze sviluppate in questi due ultimi decenni su come le persone apprendono, cioè in un contesto sociale, nell’inte-razione, nella condivisione, in modo situato.

L’esplosione del social networking, certamente favorito dal-le tecnologie di rete, dal loro basso costo, dalle loro perfor-mance, dalla loro diffusione, sta a testimoniare l’esistenza di una tendenza che potremo definire “spontanea” dell’agire umano che porta a fare uso della rete e delle tecnologie ad essa associate per stabilire relazioni, anche per apprende-re, in modo del tutto nuovo rispetto quanto esistente nelle epoche pre-digitali. E, non a caso, questi comportamenti provano, se ancora ce ne fosse il bisogno, la plausibilità del-le “scoperte” fatte da antropologi, etnologi, psicologi co-gnitivisti su come le persone apprendono in situazioni reali.

Una delle concettualizzazione più in voga di queste evi-denze è stata fatta dai canadesi George Siemens e Stephen Downes: il connettivismo.

Come detto dagli autori stessi, il connettivismo è una te-oria dell’apprendimento per l’era del digitale ed è basata sulle loro analisi dei limiti delle teorie sull’apprendimen-to maggiormente accreditate come il comportamentismo, il cognitivismo e il costruttivismo nello spiegare gli effetti delle tecnologie su comportamenti umani come il modo di comunicare e di imparare.

D. G. Perrin afferma che quella teoria mette assieme degli elementi di numerose teorie dell’apprendimento, elementi delle strutture sociali e usi delle tecnologie per generare un

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431Ambienti di apprendimento per la formazione continua

adeguato costrutto teorico per l’apprendimento nell’era del digitale.

Secondo gli autori, l’apprendimento è il processo di creare connessioni e costruire reti.

Il Connettivismo è, anche, l’integrazione di principi esplo-rati dalle teorie del caos, del networking, della complessità e dell’auto-organizzazione.

I classici “know-how” e “know-what” (conoscere come e cosa) vanno integrati con il “know where”, la comprensione di dove trovare la conoscenza quando serve e l’imparare ad imparare è più importante dell’apprendimento in quanto tale.

Principi del connettivismo sono:• L’apprendimento e la conoscenza vengono generati in

un contesto di diversità di opinioni;• L’apprendimento è il processo di connettere nodi o sor-

genti di informazione specializzati;• L’apprendimento può risiedere anche in apparecchiatu-

re non umane;• La capacità di imparare cose nuove è più importante di

ciò che è già conosciuto;• Per facilitare l’apprendimento continuo è necessario

alimentare e mantenere connessioni;• L’abilità fondamentale è quella di vedere connessioni

tra campi, idee e concetti;• Lo scopo delle attività di apprendimento connettiviste è

di mantenere aggiornata la conoscenza.

In questi “principi” ritroviamo le concettualizzazioni del costruttivismo sociale, delladistribuite cognition, della co-munità di pratiche, della conceptual knowledge, della fles-sibilità cognitiva, oltre che l’intero approccio del Life Long Learning.

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Il Connettivismo, più che una vera e propria teoria dell’ap-prendimento può essere considerato un quadro concettuale organico che mette assieme differenti teorie dell’apprendi-mento “pre-tecnologiche” per descrivere il contesto sociale, cognitivo e tecnico in cui avviene l’apprendimento nell’era del digitale. Pløn Verhagen parla del Connettivismo come di “visione pedagogica” più che di teoria dell’apprendi-mento mentre per Bill Kerr le teorie dell’apprendimento esistenti sono in grado di spiegare da sole ed adeguatamente l’apprendimento nell’era digitale.

Dire che le persone apprendono, oggi, in modo diverso che nel passato (grazie alle tecnologie) non sta a significare che i meccanismi dell’apprendere siano, oggi, diversi da ieri; vuol semplicemente dire che:• con le tecnologie “apprendere in rete” (di persone) è

più agevole che nel passato perché alla rete materiale si è affiancata la rete virtuale;

• in questo modo la “rete di apprendimento” è più ampia e ricca e può includere persone che vanno oltre la rete geografica accessibile alle normali persone;

• le “conoscenze” cui si può accedere sono maggiori e diversificate;

• l’ “esplorazione” di risorse è facilitata e che le risorse stesse sono maggiori;

• le forme di apprendimento utilizzabili sono sempre più spesso informali, “naturali”, cognitivamente ergonomi-che;

• tutto questo mette in azione un apprendimento nel con-testo dell’esecuzione delle pratiche sociali e professio-nali generando un “apprendimento utile”;

• questo “apprendimento dinamico” è funzionale alla re-altà contemporanea.

Le tecnologie digitali e di internet rendono, quindi, l’ap-prendimento più agevole e più utile.

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433Ambienti di apprendimento per la formazione continua

rIferImentI bIblIoGrafIcI

S. Downes, Connectivism and Connective Knowledge. Essays on mean-ing and learning networks, on-line http://www.downes.ca/files/Connec-tive_Knowledge-19May2012.pdf

B. Kerr http://tinyurl.com/37a22ge http://learningevolves.wikispaces.com/kerr

G. Siemens, Il connettivismo http://www.elearnspace.org/Articles/con-nectivism.htm

P. Verhagen http://elearning.surf.nl/e-learning/english/3793

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contenutIGiovanni Marconato

Il contesto

Una delle dicotomie presenti nel dibattito contemporaneo sull’educazione riguarda il ruolo dei contenuti. L’imposta-zione più tradizionale vede la centralità dei “contenuti” e, conseguentemente, immagina il processo educativo come una loro trasmissione da chi li conosce (un insegnante, un libro) a chi non li conosce (lo studente). Una posizione più recente, ispirata alle idee del costruttivismo, sottolinea inve-ce come il ruolo dell’insegnante debba cambiare abbando-nando la funzione di trasmettitore di informazioni/conte-nuti per passare a quella di facilitatore dell’apprendimento.

Nel dibattito, a volte anche acceso, la crociata dei costrut-tivisti contro i contenuti è vista da alcuni come un voler negare il ruolo dei contenuti a favore dei processi di ap-prendimento.

Nulla di più sbagliato: anche le posizioni costruttiviste più radicali (quelle note come “costruttivismo WIG, Without Information Given, Von Glaserferld, 1995 ) non nega la necessità di usare “informazioni” nei processi di appren-dimento, si limita ad assegnare loro uno specifico ruolo. Anche il costruttivismo “moderato” quello BIG, Beyond Information Given (Bruner, 1973), non nega un ruolo per le informazioni.

La questione, allora è: quale è il ruolo dei contenuti nei pro-cessi di apprendimento dato che non ne viene negata una funzione?

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435Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Descrizione

Rispetto all’approccio tradizionale per “contenuti da stu-diare”, gli approcci educativi contemporanei evidenziano un ruolo specifico per icontenutiche fanno parte dei proces-si formativi riassumibile nell’affermazione che i contenuti altro non sono che strumenti necessari ad eseguire attività, a risolvere problemi.

In questa prospettiva, il contenuto non è più lo scopo dell’i-struzione ma uno strumento al servizio di un obiettivo da conseguire e non è la struttura formalizzata di una disci-plina (Agrusti, 1992) a determinare quali siano i contenu-ti da insegnare e da imparare (e la loro sequenza) ma lo scopo per il quale i contenuti sono presi in considerazione.

La prima implicazione di questa prospettiva riguarda la se-lezione dei contenuti: vanno considerati “utili” ed utilizza-bili nel percorso didattico solo quelli che sono finalizzati a consentire alla persona che apprende di eseguire le attività oggetto dell’apprendimento.

Questo approccio evidenzia bene un tema spesso ignorato nella progettazione didattica: non tutti i contenuti che fanno riferi-mento ad una stessa tematica o ambito disciplinare hanno lo stesso grado di importanza; esiste una gerarchia di significati-vità determinata dal grado di importanza di ognuno di questi contenuti nel raggiungimento degli obiettivi di apprendimento.

A titolo di orientamento, identifichiamo la seguente tipolo-gia empirica:• contenuti che devono essere forniti: sono essenziali al

raggiungimento dell’obiettivo, non si possono e non si devono tralasciare;

• contenuti che dovrebbero essere forniti: aiutano a con-testualizzare l’apprendimento, hanno spazio solo dopo aver trattato i primi, se c’è tempo;

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• contenuti che potrebbero essere forniti: danno utili ed interessanti informazioni di sfondo.

I contenuti del primo livello - quelli che “devono essere forniti” - possono essere trattati attraverso elaborazioni di-dattiche e/o informatiche; i contenuti degli altri due livelli, soprattutto quelli del terzo, potranno entrare a far parte di un repertorio di materiali di studio in forma di materiali “grezzi”, che non hanno subito, cioè, alcuna rielaborazione didattica e che fanno parte della letteratura sulla tematica.

La seconda implicazione dell’approccio aicontenutico-mestrumenti, riguarda la sequenza di presentazione de-gli stessi che deve seguire la logica del loro uso, più che quella intrinseca della disciplina. Un esempio di que-sto approccio ai contenuti è il loro utilizzo nella stra-tegia “attività di apprendimento” dove sono le attività da svolgere, i prodotti da realizzare, i problemi da ri-solvere a determinare quali siano i contenuti da mette-re ad oggetto dell’attività formativa e la loro sequenza.

Altra questione rilevante per i contenuti e la loro contestua-lizzazione.

L’approccio più comune alla progettazione di un curriculo è l’identificazione dei temi che dovrebbero essere insegna-ti. Questi temi, che spesso comprendono teorie e principi fondamentali, sono normalmente organizzati in sequenza logica.

Tradizionalmente la distribuzione dei contenuti trasmette le idee come se queste fossero indipendenti dal contesto e dal contenuto, come se fossero, cioè, applicabili universal-mente.

Le teorie e i principi, in questo approccio tradizionale, inol-tre vengono insegnati agli studenti in modo semplificato

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perché, si afferma, è impossibile trasferire appropriati livelli di complessità a novizi che hanno conoscenze precedenti inadeguate.

Come risultato di questo approccio, gli studenti tendono a memorizzare e a conseguire solo una comprensione di base di quelle idee, ad apprendere qualcosa sul contenuto ma non su come applicarlo.

Una contromisura all’iper semplificazione delle idee è la Cognitive Flexibility Theory - teoria della flessibilità co-gnitiva. (Spiro, Feltovich,,Jacobson & Coulson, 19992). La Cognitive Flexibility Theory sottolinea l’interrelazione con-cettuale delle idee e questo viene evidenziato attraverso la presentazione di temi e prospettive multiple usando casi di studio.

Piuttosto che studiare una sequenza di idee (di contenuti), gli studenti attraversano in modo incrociato (criss-cross) i casi considerando prospettive disciplinari, esplicative o te-matiche multiple. Tra le difficoltà a rendere operativa la Co-gnitive Flexibility Theory vi è quella di fare in modo che gli studenti esaminino in modo adeguato la varietà di prospet-tive che vengono presentate. Un Ask Systems può facilitare quel processo. Un Cognitive Flexibility Hypertext (CFH), ipertesto per la flessibilità cognitiva, organizzato in forma di Ask System, può presentare i casi e per ognuno di essi prevedere delle domande che guidano alla comprensione.

L’approccio ai “contenuti” offerto dai CFH fa parte di un più ampio approccio didattico che colloca i contenuti stessi all’interno di casi, casi che sono delle rappresentazioni reali di quei contenuti ovvero di come quei contenuti prendo-no forme reali. Questo approccio è descritto nella scheda “Case-based Learning”

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rIferImentI bIblIoGrafIcI

Agrusti, Teresa Russo, (1992), Conoscere l’insegnamento : materiali per la formazione degli insegnanti, La nuova Italia

Bruner, J (1975), Beyond the Information Given: Studies in the Psycol-ogy of Knowing, George Allen & Unwin

Von Glasersfeld, Ernst, (1995).Radical constructivism: A way of knowing and learning. RoutledgeFalmer

Spiro, R.J., Feltovich, P.J., Jacobson, M.J., & Coulson, R.L. (1992). Cog-nitive flexibility, constructivism and hypertext: Random access instruc-tion for advanced knowledge acquisition in ill-structured domains. In T. Duffy & D. Jonassen (Eds.), Constructivism and the Technology of Instruction. Hillsdale, NJ: Erlbaum.

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439Ambienti di apprendimento per la formazione continua

costruttIvIsmoGiovanni Marconato

Il contesto

La controversia epistemologica tra comportamentismo e costruttivismo non può essere affrontata e risolta nei ter-mini di quale teoria sia valida e quale no, ma ponendoci la domanda di quale sia lo scopo dell’istruzione che voglia-mo assumere e quali obiettivi di apprendimento si inten-dano conseguire. Le pratiche didattiche di impostazione comportamentistica possono essere considerate coerenti con (ed adeguate a) obiettivi di apprendimenti situabili ai livelli base della sequenza degli apprendimenti e, cioè, la memorizzazione e la ripetizione, Se, invece, vogliamo (o dobbiamo) assumere obiettivi cognitivi di ordine elevato (comprensione, transfer, problem solving .... ) dovremo as-sumere come basi concettuali le teorizzazioni e le pratiche di derivazione costruttivistica.

Descrizione

Una metafora può essere utile a cogliere, attraverso una for-ma di pensiero analogico, la differenza tra costruttivismo e comportamentismo. L’apprendimento nella concezione comportamentista può essere rappresentato da un muro di mattoni: si apprende mettendo un nuovo mattone sopra quelli esistenti. L’apprendimento costruttivista può essere rappresentato da una vasca contenente liquido: si apprende versando nuovo liquido su quello esistente. Nel primo caso si apprende ampliando il muro, nel secondo caso si appren-de “mescolando” adeguatamente i due liquidi. Nel primo caso ciò che conta è la quantità dei contenuti posseduti, nel secondo la qualità dei legami che si stabiliscono tra gli stessi.

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Secondo l’approccio costruttivista all’apprendimento e all’insegnamento, ogni soggetto deve essere messo nella condizione di costruire la propria conoscenza, di dare un significato (che non può essere che personale) a ciò che ap-prende.

Questo significa che:• al centro del processo insegnamento/apprendimento

c’è il soggetto che apprende;• il ruolo dell’insegnate dovrebbe essere quello di facilita-

re l’apprendimento;• il compito degli studenti è di appropriarsi dei contenuti;• il “prodotto” dell’apprendimento dovrebbe essere la

comprensione autentica.

Vediamo, quindi, che la conoscenza “trasmessa” si contrap-pone concettualmente ed operativamente, alla conoscenza “costruita”.

La conoscenza in senso positivista, ha valore universale, si contrappone ad una concettualizzazione che vede la stessa svilupparsi ed acquisire senso in modo soggettivo, con rife-rimento a specifiche situazioni, nell’interazione sociale.

Ogni persona costruisce la sua propria conoscenza integran-do le nuove esperienze con il mondo nella sua propria strut-tura cognitiva (le conoscenze che già possiede), mediando e negoziando socialmente e culturalmente i significati.

La conoscenza è il risultato di un’interazione del soggetto con il mondo che lo circonda e, ciò che ne risulta, è una costruzione personale anche se determinata socialmente. Ogni nuova conoscenza viene letta alla luce delle cono-scenze possedute trasformandosi e trasformando anche le seconde. Solo in questo modo una nuova informazione con cui la persona viene in contatto si trasforma in conoscenza ed entra a far parte del sistema delle rappresentazioni pro-

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441Ambienti di apprendimento per la formazione continua

prie dell’individuo: quelle rappresentazioni che governano l’azione dell’individuo.

Questa concettualizzazione scombina le nostre tradizionali visioni di conoscenza positivistico/comportamentiste che da ordinata, stabile, uniforme, assoluta ed equilibrata, di-venta caotica, mutevole, complessa, auto-organizzata (Lom-bard. E, 1999).

Costruire significato vuol dire misurare il nuovo alla luce di quanto già si conosce o per modificare la conoscenza pre-cedente, se questa non è più adeguata a spiegare le nuove evidenze con cui si viene a contatto, o per integrarlo armo-niosamente nella propria “knowledge-base” personale.

Costruire significato significa risolvere la dissonanza co-gnitiva tra ciò che conosciamo con certezza a proposito di un fenomeno e ciò che percepiamo possa meglio spiegare quello stesso fenomeno, tra ciò che consociamo e ciò che vogliamo o dobbiamo conoscere (Jonassen & Land, 2000).

La dissonanza viene risolta, quando si tratta di dare un si-gnificato condiviso a fatti e fenomeni, anche in un processo dialettico di confronto della propria posizione con quella di altri, di testarne la bontà confrontandosi, cercando di convincere gli altri delle proprie ragioni e, da questi, farsi influenzare.

Tanto le ricerche che l’esperienza quotidiana indicano che solo da un’integrazione delle nuove conoscenze con quel-le esistenti, da una loro comprensione, dall’attribuire loro un significato, la persona che apprende è in grado di uti-lizzare il frutto del proprio lavoro (di apprendimento) in modo appropriato nella vita quotidiana, altrimenti i nuovi apprendimenti hanno applicazione e valore solo in ambito scolastico, per risolvere problemi scolastici, per superare esami scolastici. Si apprende costruendo una propria teo-

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ria dell’ambiente che ci circonda (Cognition and Technolgy Group at Vanderbilt, 1992).

Il costruttivismo nella didattica ha le sue radici nel lavoro di Piaget e di Vygotskij che sviluppano il paradigma da due prospettive differenti 26.

Per il primo, il processo di costruzione è essenzialmente in-dividualistico ed è determinato dalla ristrutturazione delle conoscenze e delle rappresentazioni che ogni singolo indi-viduo possiede; per il secondo, la conoscenza si costruisce nelle relazioni con l’ambiente perché il significato che ognu-no di noi dà ai concetti ed ai fatti con cui viene in contatto è socialmente costruito attraverso il linguaggio.

Nella logica piagettiana, compito dell’istruzione èfar si che la persona metta in discussione le proprie credenze, attra-verso la dissonanza cognitiva, e riorganizzi la mappa cogni-tiva esistente.

Nell’approccio di Vygotskij, compito dell’istruzione è so-stenere l’individuo nei suoi compiti d’apprendimento attra-verso una progressiva diminuzione di supporto e controllo (scaffolding) e di aiutarlo (nella sua zona di sviluppo pros-simale) a svolgere quei compiti che da solo non riuscirebbe a portare a termine per, poi, essere in grado di farlo da solo.

Secondo Vygotskij (Vadeboncoeur, 1997), i bambini sono attivi nel proprio sviluppo e mentre sviluppano la cono-scenza del mondo attraverso l’attività. E’ proprio questo

26 Per non estremizzare questo concetto, va notato che l’apprendere per esperienza non è capace, come neppure gli altri approcci, di rap-presentare - da solo - il modello sufficiente all’acquisizione di co-noscenze complesse. Si pensi allo studio della chimica, della mate-matica, delle scienze. Non tutto si può scoprirlo o narrarlo. Ci sono leggi, dati e formule da leggere e comprendere. L’esperienza media la pratica, aiuta a contestualizzare.

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443Ambienti di apprendimento per la formazione continua

ruolo attivo che consente loro di trasformare la conoscenza: la conoscenza è dinamica ed è creata, esaminata e trasfor-mata piuttosto che meramente trasmessa, per intero, dall’a-dulto al bambino (pag. 27).

Anche Piaget ricorre alla metafora del bambino come scien-ziato solitario (Vadeboncoeur, 1997, pag. 23): costruisce continuamente teorie sempre più accurate del mondo come conseguenza dell’uso di strumenti logici. Chi apprende co-struisce modi per dare senso all’esperienza e continua ad usare queste costruzioni anche quando lavora.

Dalle idee di questi nobili padri sono nate numerose posi-zioni teoriche ed, altrettanto numerose, applicazioni edu-cative che si situano lungo un continuum cha vanno dal rigettare decisamente ogni aspetto di oggettività nella cono-scenza al riconoscerne una qualche ragionevole utilità teo-rica (Spiro, et. al. 1992) e che sono accomunate dal rigetto di una concezione della “conoscenza per la conoscenza” a favore di una sua concettualizzazione come “strumento” a disposizione del soggetto per agire nel mondo reale.

Il Costruttivismo, come movimento, se ci possiamo permet-tere questa formulazione, contro la “conoscenza inerte” ed a favore di un soggetto che, apprendendo, si emancipa (sul piano personale, professionale, sociale…).

Secondo l’approccio costruttivista:• l’apprendimento è un processo personale ed è: attivo,

costruttivo, intenzionale, autentico e collaborativo;• l’apprendimento è mediato dal pensiero; il pensiero è

innescato dall’attività del soggetto. Il pensiero non è, mai, separato dall’azione;

• la fonte dell’apprendimento non è una realtà oggettiva ma la comprensione personalizzata basata sull’esperien-za delle cose e del mondo;

• il collegamento tra gli obiettivi assunti dall’insegnante

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e le sue attività didattiche e l’apprendimento realizzato dall’allievo è incerto e poco chiaro.

• criterio regolatore dell’apprendimento è il soggetto che apprende, non la disciplina che deve essere appresa.

rIferImentI bIblIoGrafIcI

Colombo M., Varani A. (2008), Costruttivismo e riflessività. La formazio-ne alla pratica di insegnamento, Junior, Milano.

Cognition and Technology Group at Vanderbilt University (1992), Tech-nology and the design of generative learning environment. In Duffy, T. M, e Jonassen, D. H.

Duffy T. D., Lowyck J., Jonassen D. H., Welsh T.M. (2012). Designing Environments for Constructive Learning, Berlin: Springer-Verlag.

Jonassen, D. H, Land, S.M. (eds), 2000, Theoretical Foundations of Learning Environment. New Jersey: Lawrence Erlbaum Associates.

Lombard, L. (1999), Critical theory, socio-constructivism and distance education (on-line).

Rivoltella P. C. (2003), Costruttivismo e pragmatica della comunicazione on line. Socialità e didattica in Internet, Centro Studi Erickson, Trento

Spiro J. R et al (1992), Cognitive flexibility, Construcivism,and hyper-text: random access instruction for advanced knowledge acquisition in ill-structured domains, in Duffy, T.M e Jonassen, D. H

Vadeboncoeur, J. A. (1997). Child development and the purpose of edu-cation: A historical context for constructivisms in teacher education. V. Richardson (Ed.), Constructivist teacher education: Building a world of new understandings(pp. 15-37). Washington, DC: Falmer Press.

Varisco B. M. (2002), Costruttivismo socio culturale. Carocci, Roma.

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445Ambienti di apprendimento per la formazione continua

exPertIseGiovanni Marconato

Il contesto

Questo tema va visto in stretta connessione con quelli de-gli obiettivi didattici e tassonomia delle conoscenze, della Task Analysi e della Cognitive Task Analyis. Queste quat-tro tematiche sono accumunate dal fatto di rappresentare aspetti importanti nel determinare la forma ed i contenuti dell’ambiente di apprendimento da allestire a fronte di una esigenza di apprendimento. Le tematiche approfondiscono la questione del contenuto del lavoro, dei “compiti profes-sionali” che un “esperto” esegue, delle conoscenze coinvol-te e dei correlati obiettivi di apprendimento conseguibili.

Il concetto di “expertise” evidenzia in cosa consista davve-ro la prestazione esperta e come si differenzi da quella del novizio.

Descrizione

Dreyfus e Dreyfus (1997) nell’affrontare il tema di come le persone apprendono nuove abilità propon-gono un modello di expertise evidenziando cinque stadi di sviluppo della prestazione esperta. Il model-lo ruota attorno al ruolo che in questo processo han-no i contenuti, le teorie,le “regole” e il fare esperienza.

Novizio (Novice): utilizza regole non contestualizzate per risol-vere un problema; in questa attività non utilizza la propria espe-rienza e si limita all’applicazione meccanica di teorie e regole

Esordiente avanzato (Advanced Beginner): a seguito dell’applicazione non contestualizzata di regole, inizia a ri-

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levare e a riconoscere caratteristiche distintivedelle diverse situazionied il suo comportamento è determinato tanto da regole mnemonicamente apprese che dall’esperienza delle situazioni; l’utilizzo di regole date preserva dal dover pren-dere decisioni e dall’ansia associata.

Competente (Competence): con l’accrescere dell’esperien-za aumenta la capacità di cogliere aspetti rilevanti della si-tuazione da prendere in considerazione e quelli non rilevan-ti da trascurare pena l’ingestibilità della situazione stessa. La persona sviluppa, quindi, strategie per determinare qua-li elementi prendere prioritariamente in considerazione ed agisce sulla base di un limitato set di variabili da controllare e sviluppa piani d’azione che prendono in considerazione la situazione nel suo insieme e non più per elementi stacca-ti. La persona sviluppa piani per l’approccio separato delle singole variabili, effettua valutazioni esplicite degli elementi da considerare, adotta comportamenti razionali e guidati dalle regole date, partecipa emotivamente alle valutazioni, alle scelte, alle attività, ai risultati dell’azione.Abbandona le teorie e le regole e si affida sempre più alla propria esperien-za, Prende decisioni in un contesto di limitate informazioni e di incertezza a causa di una esperienza ancora limitata.

Abile (Proficiency): l’aver fatto esperienza con situazioni differenti, con diagnosi, con piani d’azione concepiti e rea-lizzati, con risultati ottenuti, l’analisi della situazione diven-ta un processo automatico ma la decisione sull’azione da compiere è ancora cosciente.

Esperto (Expertise):il progredire dell’esperienza di situa-zioni in cui intervenire porta, progressivamente, a suddivi-dere le macro-categorie di situazioni in sotto-tipologie di contesti tra di loro molto simili e questo favorisce l’adozio-ne di risposte intuitive, automatiche. E’ stato raggiunto lo stadio dell’expertise

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447Ambienti di apprendimento per la formazione continua

In breve, il novizio applica regole, principi, teorie, l’esper-to agisce intuitivamente senza bisogno di applicare regole. In un certo senso possiamo dire che l’esperto non ragiona, non risolve intenzionalmente problemi ma fa ciò che abi-tualmente funziona e... funziona!

Questo approccio ci dice che il passaggio da novizio ad esperto non è un passaggio dal concreto all’astratto ma da regole astratte a un repertorio di casi concreti. La chiave del successo, della progressione da novizio ad esperto sta, prima di tutto, nella diversità di esperienze che il soggetto ha la possibilità di compiere. Senza tralasciare la possibilità di riflettere per capitalizzare l’esperienza.

Altri importanti elementi alla conoscenza dei percorsi che portano al comportamento esperto ci vengono forniti dagli studi svolti nel solco della Cognitive Task Analyis (Crandall, Klein, Hoffman, 2006).

Studiando le basi dell’expertise, gli Autori si domandano se l’esperto conosca più fatti e regole del non esperto o se la differenza non sia, anche, di ordine qualitativo. Di certo, nella loro lunga esperienza (gli A. indicano in 10 – 20 anni il tempo nella professione per diventare “esperto” anche se il fattore tempo non basta da solo a fare di un novizio un esperto), gli esperti hanno appreso:• fatti• relazioni• meccanismi• routine

sviluppando “sensibilità contestuale” per comprendere come applicare questa conoscenza e come adattarla alla situazione.

Ma non è solo il tempo trascorso su un lavoro a farne un esperto: il semplice accumulo di pratica non basta. Al tem-po trascorso va aggiunta la possibilità di fare una ampia

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gamma di esperienze diversificate, di riesaminare quelle esperienze, di lavorare attivamente per sviluppare e affinare le proprie abilità

L’esperto sviluppa la propria competenzaconfrontandosi attivamente con l’ambiente,valutando sé stesso e la propria prestazione in continuità, facendo continuamente pratica delle abilità richieste.

L’esperto è in grado di formulare giudizi, di operare delle discriminazioni non possibili ai non esperti, di applicare la propria esperienza in una vasta gamma di situazioni com-prese quelle non routinarie.

Soprattutto, l’esperto non solo conosce di più ma conosce in modo differente.L’ampiezza e la profondità della sua conoscenza gli consente di vedere l’invisibile, di percepire cosa manca in una situazione oltre a ciò che è presente.

Glasser (citato dagli A.) ha caratterizzato in questo modo lo spostamento verso livelli sempre maggiori di expertise:• La prestazione variabile e maldestra diventa coerente,

accurata, completa, efficiente;• Singole azioni e giudizi sono integrati in strategie più

generali;• Con l’apprendimento percettivo (perceptual learning)

la focalizzazione su variabili isolate si sposta sulla per-cezione di modelli e su schemi complessi;

• Si ha un incremento della fiducia in sé e dell’abilità di dare forma a nuove strategie sulla base di quanto serve.

Sulla base dei loro studi gli A. identificano i seguenti ele-menti cognitivi che differenziano gli esperti dai novizi.

Modelli mentali: l’esperto possiede una gamma più vasta di modelli mentali del novizio ed è, così, in grado di com-prendere una gamma più ampia di connessioni causali che

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determinano il modo funzionare delle cose e sono in grado di usare quei modelli con fluidità e flessibilità al cambiare degli eventi;

Abilità percettive: l’esperto ha sviluppato abilità percetti-ve (perceptual skills) che gli consentono di avvertire indizi sottili e modelli, schemi non visibili ai novizi e di compiere accurate discriminazioni

Senso di tipicità: l’esperto ha aggregato modelli ed espe-rienze in prototipi che gli consentono di formulare giudizi quando si trovano ad affrontare una situazione tipica e de-vono affrontare una situazione poblematica e che richiede attenzione

Routines: l’esperto ha appreso una grande varietà di com-portamenti routinari da usare per affrontare i problemi. Può trattarsi di una applicazione automatica di una singola routine o dell’aggregazione di pezzi di differenti routine. In ogni caso l’esperto usa il proprio ampio repertorio di routi-ne per adattarlo ai problemi

Conoscenza dichiarativa: gli esperti posseggono anche una grande quantità di conoscenza dichiarativa (informazioni fattuali, regole, procedure) a cui attingere. Un esperto sa, quindi, anche di più di un novizio.

L’esperto utilizza tutti questi tipi di “conoscenza” per re-agire alle sfide in modo molto più efficace del novizio. Le utilizza per:• prendere rapidamente delle decisioni;• diagnosticare gli eventi;• formarsi delle aspettative;• prevedere eventi futuri;• pianificare;• generare rapidamente soluzioni alternative quando è

necessaria una ri-pianificazione;

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• coordinare efficacemente le proprie attività.

Le dimensioni in cui si articola la prestazione esperta, i suoi contenuti, le modalità operative e, soprattutto, il modo di pensare dell’esperto è oggetto della Cognitive Task Analyis, alla cui scheda si rimanda.

Un ultimo riferimento può essere utile per comprendere la prestazione professionale esperta ed è quello di Guy Le Bo-terf (2004). Secondo l’Autore, il cliente può avere fiducia del professionista perché:• non trascurerà niente di importante della situazione del

cliente;• non trascurerà niente di importante della situazione –

problema e del suo contesto;• saprà far fronte all’incompletezza delle prescrizioni;• saprà prendere delle iniziative pertinenti;• è aggiornato sullo «stato dell’arte» del mestiere;• saprà spiegare perché’ e come agisce;• saprà apprendere dalla propria esperienza;• saprà mobilizzare una rete professionale di risorse;• rispetterà le regole etiche e deontologiche.

La natura dell’expertise, come chiaramente emerge in que-sta sintesi, è complessa, multifattoriale e questo ha delle im-plicazioni per la formazione (a cosa formare e, soprattutto, come), ma anche ci aiuta a comprendere quale sia il conte-sto più appropriato per la formazione e, indicando che l’ex-pertise si costruisce oltre la formazione formale, ne segnala i suoi confini ed apre alla questione degli apprendimenti informali, incidentali, taciti.

rIferImentI bIblIoGrafIcI

B. Crandall, G. Klein, R. R. Hoffman, (2006). Working Minds. A Practi-tioners guide to task analysis. A Brandon Book. The MIT Press

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451Ambienti di apprendimento per la formazione continua

H. L. Dreyfus, S.E. Dreyfus (1997). Analysis versus Intuition in the class-room: A model of expertise and the role of computers in achieving it. in C.R. Dills e A. J. Rominszowsky, Instructional Developments Paradigms, Educational Technology Publications

G. Le Boterf (2004, seconda ed.). Ingénierie ed évoluation desi compéten-ces, Editions d’Organisation

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452

aPPrendImento naturaleGiovanni Marconato

Il contesto

Le persone imparano “naturalmente” lungo tutto l’arco della loro vita; da questa prospettiva si potrebbe dire che la scuola e tutte le forme di istruzione formale e/o istituzionali rappresentano una forma “artificiale” di attivazione e soste-gno dell’apprendimento.

Che apprendimento nella vita di tutti i giorni ed apprendi-mento a scuola si differenzino ed, anzi, si contrappongono, è evidente anche se si pensa che nella vita si impara sempre per poter fare qualcosa con ciò che si è imparato mentre a scuola si impara per imparare. L’apprendimento nella vita è sempre goal-directed, finalizzato ad uno scopo applicativo.

Forse una riscoperta anche in ambito educativo delle forme “naturali” di apprendimento potrebbe rendere maggior-mente significative ed efficaci anche le forme “artificiali” di istruzione e di apprendimento.

Descrizione

Tra coloro che oggi hanno approfondito la tematica dell’ap-prendimento naturale troviamo Roger Schank il quale affer-ma che tutte le persone sono dotate di potenti meccanismi naturali di apprendimento che consentono loro di padro-neggiare, nel corso della loro vita, un’enorme massa di si-tuazioni, problemi, di sviluppare conoscenze e competenze. Si tratta di un apprendimento che si verifica sempre al di fuori della scuola.

Schank afferma anche che piuttosto che contrapporsi a que-

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sti meccanismi naturali di apprendimento, la scuola dovreb-be utilizzarli fino a cambiare la propria natura. Purtroppo, prosegue l’Autore, la tendenza dominante della scuola è di strutturarsi in modo contrario a quanto si sa relativamente all’apprendimento

A scuola si apprende attraverso lo studio e si ripete ciò che si è sentito dire; nella vita si apprende attraverso l’esperien-za e si fanno tentativi ed errori.

Nella vita si apprendono le cose che hanno un significato per la persone e per questo non si dimenticherà mai ciò che è stato appreso; a scuola si impara per imparare e si dimen-tica presto tutto.

La chiave di volta dell’apprendimento naturale è la presen-za di uno scopo per apprendere, uno scopo concerto, reale.

L’apprendimento si attiva con la presenza di uno scopo per apprendere, con il far proprio un obiettivo. Il persegui-mento dello scopo porta a generare una domanda su come poterlo fare; la domanda porta alla costruzione di una ri-sposta. La persona compie un’esperienza, si interroga sulla stessa e trae delle conclusioni.

L’apprendimento naturale è, quindi, sempre correlato ad uno scopo, ad una specifica esigenza: un problema da risolvere, un’abilità da sviluppare. Si tratta di un apprendere facendo, apprendere nel contesto di un bisogno, per tentativi ed erro-ri, ricercando aiuto esterno, ponendo domande, riflettendo (cercando aiuto interno), esplorando, attingendo all’espe-rienza altrui, spesso anche in modo incidentale e serendipico.

Le persone, come fa notare Schank (1995, 2004), adottano fin dalla nascita ed in modo naturale, strategie di apprendi-mento basate sul fare, per tentativi ed errori, “ questi mec-canismi sono goal-dominated. non si impara per conosce-

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454

re qualcosa, ma per fare qualcosa: è il learning by doing” (Schank 2004 p. 261).

L’apprendimento è, in modo naturale, guidato dal bisogno di fare. La conoscenza è guidata dall’azione. Agire e cono-scere sono intimamente connessi. Sempre secondo Schank, è dal periodo della scuola che, però, il conoscere viene stac-cato dal fare ed è, forse, questa la ragione della limitata effi-cacia di tanta scuola.

Molte delle strategie didattiche adottate nella formazione scolastica, non fanno altro che replicare la didattica scola-stica convenzionale (Jonassen 2002a), i modelli scolastici di didattica organizzata attorno alla distribuzione di contenuti (in aula lo fa l’insegnante, nell’e-learning lo fanno il PC ed Internet) astratti da ogni loro uso.

Come organizzare, allora, ambienti di apprendimento in grado di conformarsi alle forme in cui le personenatural-menteapprendono? Riferendoci anche alla nostra esperien-za direttaci rendiamo conto che per apprendere le cono-scenze e le abilità che ci servono per affrontare uno specifi-co compito o per risolvere un problema:• esploriamo la nostra biblioteca personale alla ricerca di

informazioni;• acquistiamo qualche nuovo libro di cui utilizziamo an-

che solo qualche pagina;• chiediamo informazioni a qualche persona a noi vicina

(amico, collega di lavoro…);• contattiamo una persona che riteniamo essere “esper-

ta” sull’argomento;• ricontattiamo qualche vecchio insegnante;• navighiamo in internet alla ricerca di siti dedicati al

tema di nostro interesse;• aderiamo a qualche “comunità” virtuale spesso in modo

passivo e, qualche volta, partecipando alle sue attività, come le discussioni;

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455Ambienti di apprendimento per la formazione continua

• discutiamo, ci confrontiamo, ci opponiamo;• difendiamo le nostre idee ma le cambiamo di fronte ad

evidenze che mettono in luce contraddizioni;• riflettiamo su quanto facciamo, sugli errori nostri e su

quelli di altri;• proviamo, sbagliamo, riproviamo;• miglioriamo un poco alla volta la nostra azione.

Quando impariamo?• interrompendo una attività (principale) che stiamo

svolgendo;• quando ci viene improvvisamente una idea;• lavorando anche solo poco tempo per volta;• in modo non strutturato, casuale, apparentemente ca-

otico;• mentre svolgiamo l’attività che dobbiamo migliorare;• quando siamo dentro fino al collo in un problema;• lavorando da soli e seguendo un nostro percorso molto

personale;• lavoriamo con una persona con cui siamo in sintonia

confidando anche le nostre debolezze;• lavoriamo in un piccolo gruppo orientato ad un com-

pito, ad un risultato da ottenere, un problema da risol-vere;

• quando ci serve.

Impariamo integrando lavoro e apprendimento, dedicando all’apprendimento formale anche solo pochi minuti ma nel contesto di un caso concreto, di un bisogno reale, di un pro-blema attuale. Ricerchiamo informazioni che sono una rispo-sta ad una domanda che, implicitamente, ci siamo fatti ed in questo modo diamo ad esse un significato: la risposta ha una sua domanda. Una informazione decontestualizzata ha tan-to il sapore di una risposta data in assenza di una domanda!

Queste sono tutte forme di apprendimento che realmente attiviamo e che nulla hanno a che vedere con i tradizionali

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456

approcci formativi e sono quelle modalità alle quali ci do-vremo ispirare per progettare i nostri ambienti di appren-dimento.

Selle differenza tra l’apprendimento “naturale” e quello che viene promosso in contesti scolastici e/o di istruzione formale pare utile citare altri due Autori: Lauren Resnick e David Jonassen.

La Resnick nel suo celebre paper “Imparare a scuola e fuo-ri” (Resnick, 1987) evidenzia quattro sostanziali differenze tra i due contesti di apprendimento in termini di processi cognitivi che sono attivati negli stessi:

Jonassen (2002a) afferma che “Le concezioni dell’appren-dimento nei contesti educativi formali e quelli presenti nei contesti professionali e della vita di tutti i giorni (la vita reale) sono diametralmente opposti. Nelle scuole, nelle università e nella formazione aziendale, l’apprendimento è basato su contenuti, è fortemente organizzato e strutturato da regole e formalismi astratti [ ], nella vita reale, l’appren-dimento è basato su attività, non su contenuti. L’apprendi-mento è situato nei problemi che le persone stanno cercan-do di risolvere e le tematiche da apprendere emergono da quei problemi. L’apprendimento e la soluzione di problemi nel mondo reale si poggia sulla conoscenza distribuita in una comunità di pratica.”

Apprendimento a scuola

Cognizione individuale

Attività mentale pura

Manipolazione di simboli

Apprendimento di principi generali

Apprendimento fuori la scuola

Cognizione condivisa

Manipolazione di strumenti

Ragionamento contestualizzato

Competenze specifiche richieste dalla situazione

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457Ambienti di apprendimento per la formazione continua

La concettualizzazione dell’apprendimento naturale trova le proprie radici nel Movimento (americano) per l’educa-zione progressiva attivo fin dagli ultimi anni del 19^ secolo. Il padre fondatore è stato Francis Wayland Parker (1837, 1902) ma il personaggio più noto di questo movimento è certamente il filosofo e psicologo John Dewey (1859 - 1952).

Elementi comuni alle diverse forme attraverso cui movi-mento realizzò i propri principi sono il convincimento che la scuola deve puntare a sviluppare la persona nella sua in-terezza (sociale, culturale, emotiva, cognitiva) e per questo non limitarsi ad attività di ascolto, di lettura, di addestra-mento ma rendere possibili esperienze di apprendimento a contatto con la realtà. Uno slogan tipico di questo approccio è “learning by doing”. Approcci e pratiche didattiche che caratterizzano le scuole progressiste sono l’apprendimento attraverso l’esperienza, il problem solving, lo sviluppo del pensiero critico, l’apprendimento cooperativo, per progetti e casi reali, il lavoro di gruppo e lo sviluppo di abilità so-ciali, la marginalizzazione del libro di testo a favore di una molteplicità di risorse per l’apprendimento.

Ma l’affermazione forte fatta dal Movimento riguarda la fi-losofia che la scuola dovrebbe abbracciare, favorire (ed uti-lizzare) le forme naturali di apprendimento e non opporvisi imponendo forme “artificiali”.

rIferImentI bIblIoGrafIcI

Jonassen, D.H. (2002a), Engaging and supporting problem solving in online learning. Quarterly Review of Distance Education, 3 (1), 1-13.

Resnick L. B. (1987), Learning in School and Out, in “Educational Re-searcher” 6 (9); traduzione italiana Imparare dentro e fuori la scuola in C. Pontecorvo, A.M. Ajello e C. Zucchermaglio (a cura) I contesti sociali dell’apprendimento, LED 1995

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Apprendimento a scuola Apprendimento fuori la scuolaCognizione individuale Cognizione condivisaAttività mentale pura Manipolazione di strumentiManipolazione di simboli Ragionamento contestualizzatoApprendimento di principi generali Competenze specifiche richieste dalla situazione

Schank R, C. (1995), Engine for Education, Lawrence Erlbaum Associ-ates

Schank R., (2004), Making Minds less educated than our own. Lawrence Erlbaum Associates. Mahwah, New Yersey,

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459Ambienti di apprendimento per la formazione continua

obIettIvI dI aPPrendImento e tassonomIe della conoscenzaGiovanni Marconato

Il contesto

A guardare le pratiche didattiche in uso pare che a fronte di un bisogno di formazione la riposta sia quasi-obbligata ed abbia la forma di un “corso” da tenersi “in aula” ed in forma di “lezione” con questa gestita con ampio ricorso alla “spiegazione”.

I bisogni di formazione, gli obiettivi di apprendimento, le conoscenze, le abilità, le competenze da sviluppare occu-pano una vasta gamma di opzioni e, conseguentemente, an-che le risposte formative dovrebbero coprire una gamma di “forme” altrettanto vasta.

Ci sono almeno quattro questioni “metodologiche” di base da considerare quando si intraprende il processo di ideazio-ne e progettazione di una azione formativa: si tratta tanto di riferimenti culturali che di riferimenti che indirizzano l’operatività: • Gli obiettivi di apprendimento e la tassonomia delle co-

noscenze, che ci segnalano quanto ampia sia la gamma di obiettivi a cui la formazione può tendere;

• Il concetto di expertise, che ci chiarisce cosa significhi essere in grado di padroneggiare una situazione profes-sionale;

• La Task Analysis, che ci aiuta a compiere una attenta analisi delle componenti della prestazione professiona-le;

• La Cognitive Task Analysis, che disvela e ci aiuta a com-prendere i processi di pensiero che presiedono la pre-stazione esperta.

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Tutti questi concetti sono descritti in specifiche schede.

Per quanto riguarda gli obiettivi di apprendimento, i classi-ci riferimenti di ogni progettazione formativa (ad esempio Bloom e Mager) sono superati dalla ricerca contemporanea sulla cognizione e sull’apprendimento. Questa ricerca ci in-vita ad adottare una diversa logica e a considerare una vasta gamma di obiettivi di apprendimento a fronte di una gam-ma altrettanto ampia di tipi di conoscenza.

Descrizione

Obiettivi didattici

I modelli cui abitualmente ci si riferisce per la formulazio-ne degli obiettivi didattici sono la tassonomia degli obietti-vi educativi di Bloom (1956, 1957) e l’impianto operativo messo a punto da Mager (1972, 1975).

La tassonomia di Bloom posiziona l’apprendimento lungo un continuum, dalle abilità di livello più basso a quelle di più alto livello, basandosi sulla convinzione che l’ apprendi-mento sia un processo lineare - postula cioè che la capacità di sviluppare una particolare abilità, come la costruzione di un diagramma di flusso che descrive come e perché certi eventi storici portino ad altri, sia necessariamente precedu-ta dallo sviluppo di un’altra particolare abilità, come quella di porre in ordine temporale una serie di date storiche.

Lo scopo dell’insegnamento, coerentemente, è di “far avan-zare” gli studenti lungo tale continuum di abilità, comin-ciando con l’acquisizione di conoscenze e arrivando alla fine ad abilità di pensiero analitico.

Studi più recenti (Bransford 2000) hanno dimostrato che il pensiero complesso e le abilità di analisi sono una parte

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461Ambienti di apprendimento per la formazione continua

integrante dell’apprendimento ad ogni stadio di sviluppo,

Sono stati proprio due studenti di Benjamin Bloom, che ri-cordiamo aveva sviluppata la sua tassonomia all’inizio degli anni ‘50, hanno messo a punto nel 2001 una nuova versione della stessa, basata sulle nuove scoperte secondo cui la mag-gior parte delle abilità possono essere acquisite e impiegate simultaneamente o senza un ordine preciso. «Questo è di-verso dalla vecchia tassonomia, che affermava, ad esempio, che non si può applicare se non si è compreso, o che si deve capire prima di poter analizzare», spiega il co-autore Lorin Anderson, che con David Krathwohl (2001) ha guidato un gruppo di lavoro che ha lavorato cinque anni per revisiona-re la tassonomia di Bloom. «Sappiamo ora che, in molti casi, questi processi possono essere appresi simultaneamente,o anche in ordine inverso».

Fonte: A Taxonomy for Learning, Teaching and Assessing: a Revision of Bloom’s Taxonomy of Educational Objectives, 2001

Questa diversa logica di perseguire gli obiettivi dell’appren-dimento (non più in sequenza ma in parallelo) va associata al superamento anche dell’approccio sviluppato da Mager per definire gli obiettivi didattici.

L’approccio di Mager era una diretta conseguenza degli assunti del comportamentismo secondo i quali andavano considerati solo gli aspetti visibili del comportamento tant’è che l’approccio di Mager prescrive che gli obiettivi di ap-prendimento debbano essere descritti esclusivamente in termini di output osservabili e misurabili.

Gli studi più recenti, condotti nella prospettiva cognitivista, han-no consentito di aprire la “black box” intenzionalmente ignora-ta dai comportamentisti e di descrivere e comprendere i processi mentali che lì si verificano e di porre ad obiettivi espliciti dell’in-segnamento anche dimensioni non visibili direttamente.

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L’importanza dei processi di pensiero (come si pensa, a cosa si pensa, ...) nello svolgimento delle attività professionali è stata dimostrata anche dagli studi della Cognitive Task Analysis (vedi scheda).

Tassonomia della conoscenza

Le tassonomia di “conoscenze” sono numerose; più o meno datate, più o meno articolate. Classica la classificazione di Anderson (1980) di conoscenza dichiarativa e procedurale. Una tassonomia recente è quella proposta da David Jonas-sen (2009).

Questa tassonomia è stata concepita da Jonassen per dare un contributo al dibattito sulla questione della fondazione scientifica o meno (come alcuni sostengono) del costrutti-vismo ed il suo approccio è che una teoria dell’apprendi-mento e dell’insegnamento dovrebbe dare ragione di quella che lui chiama “architettura della cognizione umana”, di un modello organico che consideri tutte le tipologie di cono-scenza che è possibile costruire attraverso l’apprendimento.

Secondo Jonassen, che si è basato per questa concettualiz-zazione sulla letteratura e sulle sue stesse ricerche di psi-cologia della cognizione, si possono identificare tre tipi di conoscenza (che lui chiama ”il cosa dell’apprendimento”):• Ontologica• Epistemologica• Fenomenologica

Nota: le citazioni di autori fatte nel contesto della descri-zione che segue sono fatte da D. Jonassen (2009) nel saggio citato.

Laconoscenza ontologica (o di dominio) è quella che de-scrive, comunica, esprime ciò che esiste. L’ontologia è il

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463Ambienti di apprendimento per la formazione continua

ramo della filosofia che studia la natura della realtà, che descrive la tipologia e la struttura degli oggetti, le loro pro-prietà e le relazioni.

Ci sono almeno tre tipi di conoscenza ontologica rinvenibili in letteratura; questi tipi di conoscenza sono normalmente oggetto dell’apprendimento in contesti scolastici formali:• Dichiarativa• Strutturale• Concettuale

Conoscenza dichiarativa: conoscenza statica su fatti, concetti e principi (“knowing that” Ryle - 1949). Dato che la cono-scenza dichiarativa non è necessariamente applicata nell’e-secuzione di un compito o di un’abilità, spesso diventa iner-te (Whitehead, 1929) e questo perché le idea che si stanno apprendendo non vengono connesse con il mondo che ci circonda (Perkins, 1999). Questo è il tipo di conoscenza trattato oggi nella nostra scuola.

Conoscenza strutturale: media la traduzione della conoscen-za dichiarativa in forme significative di conoscenza dichia-rativa e altre forme di conoscenza (Jonassen et al. 1993). E’ la conoscenza di come sono correlati i concetti all’interno di un dominio di conoscenza. E’ la consapevolezza esplicita e la comprensione di quelle interrelazioni e l’abilità di rende-re esplicite le stesse. E’, anche, nota come “struttura cogni-tiva” (Shavelson, 1972), l’organizzazione delle relazioni tra concetti nella memoria a lungo termine.

Conoscenza concettuale: qui è implicato un elevato livello di integrazione di conoscenza dichiarativa; è l’immagazzi-namento, l’accumulo integrato di dimensioni significative in un dato dominio di conoscenza. E’ molto di più dell’ac-cumulo di conoscenza dichiarativa: è la comprensione della struttura operativa di un concetto in quanto tale e tra con-cetti associati. Cambiamenti nella conoscenza concettuale

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464

sono chiamati “cambiamento concettuale”. Il cambiamento concettuale è il processo di riorganizzazione dei propri per-sonali modelli concettuali.

La conoscenza epistemologica(o di compito/task) descrive la conoscenza correlata all’esecuzione di un compito, come la conoscenza dichiarativa viene usata. Le tipologie di co-noscenza epistemologica sono differenti in quanto i compiti cui sono correlati sono differenti. La conoscenza correlata con l’esecuzione di un compito è la comprensione di ciò che viene richiesto sul piano cognitivo per l’esecuzione di quel compito, ovvero la “conoscenza in uso” (de Jong et al.). I seguenti tipi di conoscenza derivano dall’azione e dall’ap-plicazione della conoscenza dichiarativa.

Conoscenza procedurale: è la conoscenza necessaria all’ese-cuzione di un compito, conoscenza che può essere applicata direttamente ed è rappresentata da regole operative (An-derson 1996).

Conoscenza situazionale: conoscenze sulle situazioni così come esse normalmente si presentano; sono conoscenze sui problemi, sui contesti e sui processi di soluzione di proble-mi (Script nelle concettualizzazioni di Schank); sono cono-scenze legate alla pratica, sono quelle conoscenze che con-sentono la gestione di problemi con minor carico cognitivo.Conoscenze strategiche(note anche come conoscenze con-dizionali): sono quelle conoscenze di strategie e attività di apprendimento cui si fa appello per l’esecuzione di un com-pito, strategie che sono d’aiuto nella regolazione, nell’esecu-zione e nella valutazione di un compito; sono la compren-sione di quando e dove applicare le conoscenze procedurali

Laconoscenza fenomenologica è la conoscenza di cui sia-mo introspettivamente consapevoli, quella che percepiamo attraverso l’esperienza, quella che ci è d’aiuto nel renderci conto che le nostre percezioni sono spesso incongruenti con

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465Ambienti di apprendimento per la formazione continua

la realtà; è la percezione delle nostre esperienze.

Conoscenza tacita (implicita): la maggior parte di conoscen-za fenomenologica è tacita, non è direttamente accessibile alla coscienza, è ciò che conosciamo ma non possiamo ver-balizzare, non può essere conosciuta ma inferita.

Conoscenza socio-culturale: comprende la visione che si ha del mondo, i sistemi di valori, gli atteggiamenti, la cono-scenza socialmente condivisa all’interno di una cultura. Se affrontata in modo diretto può diventare esplicita ma il più delle volte influenza la percezione personale e la compren-sione di differenti esperienze in modo indiretto in modo meno consapevole. E’ un tipo di conoscenza non individua-le e ci apre la questione della distribuzione della conoscenza tra più persone. La conoscenza presente nella mente di una singola persona è spesso contrapposta alla conoscenza pre-sente nel mondo (Jonassen, 1999).

Conoscenza esperienziale: è la conoscenza che scaturisce da episodi di vita cui siamo stati coinvolti; è il tipo di conoscen-za che ci aiuta a risolvere problemi, pianificare attività, pro-gettare cose, diagnosticare situazioni, spiegare fenomeni, prevedere effetti (Kolodner, 1992). Di fronte ad una nuova situazione noi richiamiamo alla nostra memoria una simile vissuta in precedenza. Il caso precedente ci aiuta a risol-vere quello attuale. E una forma di memoria dinamica che cambia col tempo con l’integrazione di nuove esperienze in quelle passate (Schank 1982). L’intelligenza umana altro non è che la libreria interna di storie indicizzate (Schank, 1999)

rIferImentI bIblIoGrafIcI

J. R. Anderson, 1980, Ecologia cognitiva e le sue implicazioni, ed.Zanichelli, 1980

Page 466: Ambienti Di Apprendimento Per La Formazione Continua

466

Anderson, L. W., Krathwohl, D. R., Airasian, P. W., Cruikshank, K. A., Mayer, R. E., Pintrich, P. R., Raths, J., et al. (2001). A Taxonomy for Learning, Teaching, and Assessing: A Revision of Bloom’s Taxonomy of Educational Objectives, Abridged Edition. New York, NY, USA: Allyn & Bacon

B.S. Bloom,Handbook I. Cognitive Domain,Longman 1956

B.S. Blomm, D.R. Krathwohl e B.B. Masia,Handbook II. Affective Do-main,1957, ristampa Longman, Oct 1965

B. S.Bloom, Tassonomia degli obiettivi educativi - La classificazione delle mete dell’educazione” Volume primo - Area cognitiva - Giunti & Lisciani Editori, 1986

J. D. Brandsford, (Eds).How People Learn: Expanded Edition: Brain, Mind, Experience and School,National Academies Press; 2nd Enlarged edition edition (11 Aug 2000),

D. H. Jonassen (2009), Reconciling a Human Cognitive Architecture, (2009), in Constructivist Instruction. Success or Failure? S. Tobias, T. M. Duffy (eds)]. T & F Books US

R. Mager (1962),ABCD model for instructional objectives, Palo Alto, CA: Fearon Publisher.

R. Mager, (1972). Goal Analysis. Belmont, CA: Fearon Publishers.

R. Mager (1975). Preparing instructional objectives. Palo Alto, CA: Fearon Publishers.

R. Mager, (1987), Gli obiettivi didattici, F. Giunti & Lisciani

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467Ambienti di apprendimento per la formazione continua

PratIca rIFlessIvaGiovanni Marconato

Il Contesto

La riflessione su ciò che si sta facendo o su ciò che si è fatto è uno tra i principali strumenti per l’apprendimento: Moon (1999) la definisce la “governante cognitiva”, un processo cognitivo che mette ordine nei nostri pensieri.

Nel Learning by Doing non si sostiene che l’imparare fa-cendo sia di per sè stesso una strategia di apprendimento efficace: il fare da solo porta ad azioni meccaniche e prive, o quasi, di apprendimento.

L’azione diventa occasione di apprendimento solo se ac-compagnata dalla riflessione.

Lo sviluppo professionale di una persona è fortemente con-dizionato dalla sua capacità di riflessione:

Schön (1983) afferma che solo il professionista riflessivo è in grado di migliorare costantemente la propria competenza.

Caratteristiche

Schön (1983) identifica due forme di riflessione che ac-compagnano l’azione del professionista; la “reflection-in-action”, la riflessione nell’azione e la “reflection-on-action”, la riflessione sull’azione.

Reflection-in-action descrive il tipo di pensiero riflessivo che una persona esperta in una professione (un “professio-nista”) utilizza nell’esecuzione di un compito.

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Le idee di Schon sulla riflessione sono state influenzate dai suoi studi su John Dewey (1933), il quale descriveva ilpen-siero in termini di pratica riflessiva.

I professionisti, gli esperti, mentre lavorano, provano stati d’animo come la sorpresa per un risultato ottenuto o l’in-certezza di fronte ad un problema da risolvere; questi stati d’animo richiamano il professionista su ciò che sta facendo generando, automaticamente, delle domande.

In questo modo il professionista è portato a riflettere sulla situazione in atto e sulla conoscenza sviluppata attraverso esperienze precedenti.

Quella conoscenza è chiamata knowing-in-action, conosce-re nell’azione, dove il conoscere non è l’azione ma, piut-tosto, la conoscenza che si riflette nell’azione. Il knowing-in-action è una forma di conoscenza procedurale che può essere sviluppata solo attraverso l’esperienza. Quella cono-scenza è spesso tacita e, conseguentemente, non consapevo-le fintanto che non la si richiama alla memoria.

La conoscenza è, pertanto, implicita nella pratica. Schön (1983), come già detto, distingue tra due tipi di riflessione, reflection-on-action and reflection-in-action. La reflection-on-action è una riflessione consapevole, post-azione, una specie di discussione che l’esperto fa con sè stesso sulle azioni che sono state prese nel corso di ogni sua prestazione.

L’atto della riflessione sull’azione (reflecting-on-action) ci consente di dedicare del tempo a esplorare le ragioni della nostra azione, come abbiamo agito, cosa sia successo e così via. Attraverso questa riflessione sviluppiamo domande e idee sulle nostre attività e sulle nostre pratiche. Riflettendo in questo modo, generiamo delle domande (Smith, 2001).

La reflection-in-action è knowing-in-action, conoscere-in-

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469Ambienti di apprendimento per la formazione continua

azione, una specie dipensare su due piedi.

Questo tipo di riflessione rende espliciti a noi stessi le atti-vità di pianificazione che eseguiamo, i processi su cui stia-mo lavorando, le aspettative che abbiamo da quel lavoro, le situazioni nuove che ci troviamo a fronteggiare, le strategie di intervento che mettiamo in atto come risposta quelle si-tuazioni; la riflessione ci consente di richiamare alla mente cosa ha funzionato e cosa no.

Le azioni dei professionisti non sono casuali. Sono sem-pre ragionate e guidate da uno scopo in modo che quando qualcosa non funziona, il professionista riflette su cosa fare all’istante.

La reflection-in-action è, in certa misura, un’attività con-scia, che può essere verbalizzata come no. Questa riflessione rappresenta il modello mentale che la persona ha costruito su come agire in compiti complessi e incerti. Attraverso la reflection-in-action prendono forma i nostri modelli menta-li delle pratiche professionali esperte e le sfide correlate da fronteggiare.

rIferImentI bIblIoGrafIcI

J. Dewey, (1933). How we think: A restatement of the relation of reflective thinking to the educative process. Houghton-Mifflin.

J. Moon, 1999. Reflection in learning and professional development: theory and practice. Kogan Page, London

D. Schön (1983) The reflective practitioner. Basic Books: New York

M. K. Smith,(2001) ‘Donald Schön: learning, reflection and change’,the encyclopedia of informal education,www.infed.org/thinkers/et-schon.htm

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470

task analysIs e cognItIve task analysIsGiovanni Marconato

Il contesto

Questo tema va visto in stretta connessione con quello degli obiettivi di apprendimento e della tassonomie delle cono-scenze e dell’expertise, temi oggetto di specifiche schede. Queste tematiche, infatti,sono accumunate dal fatto di rap-presentare aspetti importanti nel determinare la forma ed i contenuti dell’ambiente di apprendimento da allestire a fronte di una esigenza di apprendimento. Le tematiche ap-profondiscono la questione del contenuto del lavoro, dei “compiti professionali” che un “esperto” esegue.

La questione degli obiettivi di apprendimento e della tas-sonomia delle conoscenze evidenzia quanto possa essere ampio lo spettro degli “oggetti” dell’apprendimento. Il concetto di “expertise” evidenzia in cosa consista davvero la prestazione esperta e come si differenzi da quella del no-vizio; la “task analysis” con le sue metodologie ci aiuta ad analizzare i compiti professionali in tutte le loro dimensioni rilevanti; la “cognitive task analysis” ci porta ad esplorare i processi di pensiero che presiedono la prestazione esperta.

Descrizione

Task Analysis

La Task Analysis (TA) è un insieme di concetti, tecniche e strumenti per determinare le componenti significative di una attività lavorativa, semplice o complessa, al fine di organizzare attività formative che abilitino gli utenti della formazione stessa a svolgere adeguatamente quell’attività.

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471Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Una questione che pare essere, oggi, rilevante per proget-tazione formativa riguarda gli elementi di un compito pro-fessionale da prendere in considerazione per una buona formazione. Il rischio è di non prendere in considerazione dimensioni importanti (come, ad esempio, la CTA - trattata qui di seguito - ha dimostrato) o di non cogliere le specifici-tàdi alcune dimensioni trattandole didatticamente tutte allo stesso modo. La TA è, quindi, l’analisi di come un compito viene portato a termine considerando le sue dimensioni ma-nuali e mentali, gli strumenti utilizzati ed il contesto in cui viene svolto

La TA deriva dalla ricerca nell’analisi del comportamento e questa sua origine ne influenza ancora alcune pratiche, pratiche che sono focalizzate sugli aspetti comportamentali (e visibili) della prestazione professionale.

La TA (Jonassen, 1999) porta a:• Definire in modo chiaro i risultati della formazione,• Decidere quali risultati siano più importanti per essere

analizzati e sviluppati in modo approfondito,• Analizzare le componenti ed i requisiti di questi risul-

tati,• Organizzare, riaggiustando ricorsivamente, queste

componenti una sequenza didattica,• Determinare i requisiti formativi cognitivi, affettivi, di

abilità di queste componenti del compito professionale.

Una buona TA è, secondo l’autore, indispensabile per non correre il rischio che il soggetto in formazione offra una performance insufficiente a causa di una formazione ina-deguata. La natura dell’istruzione che noi usiamo per at-tivare l’apprendimento deve essere coerente con la natura dei requisiti dell’apprendimento. Differenti tipi di risultati della formazione implicano differenti tipi di formazione e di strategie di apprendimento.

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Per comprendere la criticità di una TA ben eseguita, va con-siderato in maggior dettaglio a cosa dovrebbe portare la TA stessa. Questi i “prodotti” della TA:• Le mete e gli obiettivi dell’apprendimento;• Le componenti operative del lavoro, delle abilità e degli

obiettivi;• Descrivere quali compiti dovrebbero essere svolti, come

dovrebbe essere svolti e usate le abilità, come si pensa prima, durante e dopo la formazione;

• Quali tipologie di conoscenze caratterizzano il lavoro nel suo insieme o un compito specifico (dichiarative, procedurali, strutturali, …);

• Quali compiti, abilità oppure obiettivi dovrebbero es-sere insegnati, cioè identificare quali siano i risultati dell’apprendimento che possono essere sviluppati at-traverso una sequenza didattica;

• Quali sono i compiti più importanti e prioritari;• La sequenza in cui i compiti saranno eseguiti e, conse-

guentemente, insegnati ed appresi;• Come selezionare e progettare le attività didattiche, le

strategie e le tecniche per promuovere l’apprendimen-to;

• Come selezionare appropriati strumenti e ambienti di apprendimento;

• Come costruire le prove di valutazione.

In buona sostanza, la TA ci aiuta a capire la natura dei com-piti che chi apprende dovrà svolgere. Se non si è in grado di articolare nel dettaglio il modo in cui riteniamo debba pensare ed agire chi apprende, non saremo mai in grado di mettere a punto una strategia didattica che lo aiuti nell’im-presa dell’apprendimento.

Jonassen (1999) rileva, anche, come nella pratica le TA che sono messe alla base dei programmi formativi sono basate sull’analisi delle procedure ignorando i requisiti cognitivi associati all’esecuzione del compito ed osserva anche come

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i metodi realmente usati siano limitati e siano trascurati gli approcci in grado di restituirci un quadro più preciso e complesso di ciò che dovrebbe essere appreso. Il risultato è che, nella pratica, troppo spesso la formazione viene or-ganizzata senza la comprensione strutturale e sistemica dei risultati dell’apprendimento atteso.

Per avere un quadro d’insieme che ci restituisca la comples-sità, ma anche la natura, del problema possiamo far riferi-mento a questa tipologia di scopi o tipi di TA. Ognuno di questi sarà di seguito esposto brevemente rimandando per approfondimenti a Jonassen (1999). Ad ognuno di questi approcci è correlata una specifica visione dell’apprendi-mento, di come le persone sviluppano abilità e conoscenze e, di conseguenza, sono portatori di differenti indicazioni su come insegnare.

Analisi del lavoro o della prestazione: metodi che si focaliz-zano sul comportamento messo in atto. Sono metodi nati nel periodo dell’industrializzazione dove il lavoro veniva scomposto nelle sue unità costitutive elementari e la presta-zione lavorativa viene svolta individualmente;

Analisi dell’apprendimento: metodi che prendono in con-siderazione le attività cognitive necessarie ad apprendere. Metodi che risalgono alla psicologia dell’apprendimento degli anni ‘60 che prendono in considerazione come chi apprende processa le informazioni mentre le usano per af-frontare un compito;

Cognitive Task Analysis: metodi che studiano i requisiti co-gnitivi associati all’esecuzione di compiti. Metodi originati dall’evoluzione della psicologia in direzione cognitivista e focalizzati sulle forme di pensiero messe in atto nell’esecu-zione di un compito specie se complesso;

Analisi del contenuto o della “disciplina”: metodi focalizzati

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sui concetti e sulle loro relazioni. all’interno delle discipline. Approcci in voga tra gli anni ‘50 e ‘60 per pianificare i cur-ricoli educativi che prendono in considerazione la struttura delle disciplina;

Analisi dell’attività: metodi che esaminano l’attività umana e la comprensione situata. Approcci di tipo antropologico che prendono in considerazione come le persone svolgo-no le loro attività in contesti “naturali”, nella vita di tutti i giorni e dei valori sociali e del contesto che influenzano le pratiche quotidiane.

Cognitive Task AnalysisLa Cognitive Task Analyis (CTA) è un approccio alla “co-noscenza” relativamente recente ed ha le sue basi concet-tuali e culturali nelle riflessioni che, negli anni Sessanta, videro l’impegno di studiosi americani, sia di ispirazione comportamentista che cognitivista, nell’analisi e nello svi-luppo di strumenti e percorsi per la progettazione educativa e curricolare. La moderna CTA è, infatti, l’evoluzione degli approcci comportamentistici all’analisi della prestazione.

Con l’evolversi e l’arricchirsi del lavoro in molti settori (specie, anche se non solo, quelli in cui sono coinvolte le tecnologie) la comprensione del lavoro stesso si è evoluta e dalla focalizzazione sulla prestazione fisica e visibile ci si è spostati su quella cognitiva perché risultava evidente che gli aspetti chiave della prestazione implicavano la presenza e l’uso di una conoscenza non direttamente osservabile. L’u-tilizzo della task analysis di impronta comportamentistica per determinare la formazione necessaria produceva descri-zioni incomplete che portavano ad errori nelle decisioni che venivano prese durante la prestazione lavorativa.

L’utilizzo degli approcci propri della CTA è ancor più rile-vante nei contesti in cui si utilizzano le tecnologie come “in-terfacce” tra la persona ed il risultato da produrre. E stato

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notato, infatti, (Howell and Cooke, 1998, citati in Militello and Hutton, 1998 ) l’avvento delle tecnologie non ha dimi-nuito ma incrementato le richieste cognitive. I compiti fatti di procedure o prevedibili nel loro sviluppo sono svolti da macchine intelligenti mentre le persone diventano respon-sabili di compiti che richiedono inferenza, diagnosi, giudi-zio e presa di decisione

La CTA è lo studio della cognizione in situazioni reali e di pratica professionale ed evidenzia il ragionamento dell’e-sperto alle prese con casi difficili.

Per poter comprendere come le persone agiscono nella re-altà non è sufficiente osservare i loro comportamenti, ma è necessario capire cosa succede nelle loro menti, special-mente quando i compiti che devono svolgere sono com-plessi. E’ importante conoscere e capire come le persone pensano, cosa conoscono ed i modi con cui arrivano a co-noscere, come organizzano e strutturano le informazioni e cosa cercano di capire meglio.

La CTA può contribuire a migliorare la prestazione met-tendo a punto strumenti e metodi che sostengono i processi cognitivi necessari a svolgere al meglio i compiti assegna-ti e tra questi la formazione, identificando le conoscenze concettuali e procedurali da mettere ad oggetto dell’ap-prendimento. Altri campi di applicazione della CTA sono lo sviluppo di sistemi esperti, di realizzazione di interfacce uomo-computer, di progettazione di sistemi organizzativi, di prodotti e di marketing.

In sintesi, la CTA consiste nell’evidenziazione, nell’analisi e nella rappresentazione della conoscenza posseduta da una persona.

I metodi utilizzati per la CTA sono numerosi: Clark et al (2006) ne identificano almeno un centinaio e, prevalente-

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mente, richiedono un significativo impiego di risorse per produrre risultati significativi. Per questa ragione gli studi di CTA sono realizzati in contesti critici come le attività mi-litare, di volo ed ad elevato rischi per le cose e le persone. Per questa ragione i detrattori della CTA la ritengono po-tenzialmente utile ma non utilizzabile nelle attività routina-rie. Per questa ragione la CTA è poco conosciuta ed utiliz-zata dai formatori.

Per superare questi handicap, un team di studiosi e pratici della CTA di riconosciuta competenza ha messo a punto un approccio “leggero” alla CTA, la Applied Cognitive Task Analysis (ACTA) descritta inMilitello and Hutton (1998) ed a quel saggio si invia.

Di seguito un riepilogo dei punto più significativi per i for-matori della CTA. Il riferimento è l’importante pubblicazio-ne di Crandal. Klein, Hoffman (2006).

La CTA serve è:• Un approccio allo studio dell’expertise;• Un insieme di strumenti per comprendere come le per-

sone pensano, come la loro mente funziona, come si im-pegnano per conseguire un risultato e come cercano di svolgere con abilità lavori complessi;

• Un approccio per comprendere come i processi di pen-siero rendono possibile la realizzazione delle attività e usare questa conoscenza per aiutare le persone farlo meglio;

• Un insieme di metodi per studiare e descrivere il pen-siero, il ragionamento e la conoscenza che si attivano nel corso dell’esecuzione di compiti reali in contesti complessi e dinamici.

La CTA ci aiuta a capire come i contesti di lavoro funziona-no e cosa fa in modo che funzionino al meglio ed a capire le richieste cognitive che un lavoro fa alle persone che lo

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svolgono in modo da essere svolto in modalità “esperta”.

Gli studi di CTA possono rivelare i rischi, le opportunità, il “fattore tempo” insito in un contesto e gli errori che devo-no fronteggiare le persone mentre lavorano. E ci aiutano a capire il posto di lavoro, le tecnologie, gli strumenti, le con-dizioni di lavoro, i fattori di stress, le forme delle interazioni di gruppo che contribuiscono alla prestazione cognitiva.

La CTA serve a catturare ed a rendere evidenti numerosi aspetti critici di una prestazione professionale come:• a che cosa le persone pensano,• a cosa stanno prestando attenzione,• le strategie che stanno adottando per prendere decisio-

ni e per riconoscere i problemi,• cosa stanno cercando di portare a termine,• cosa conoscono su come un processo funziona.

Questioni chiave, pertanto, diventano:• Come le persone pensano, ragionano, prendono deci-

sioni nei contesti complessi e dinamici che caratterizza-no i compiti reali;

• Catturare come la mente lavora, catturare le cognizione;• Capire e descrivere come le persone vedono il lavoro

che stanno facendo e come danno senso agli eventi;• Descrivere le basi della prestazione esperta quando

vengono intraprese azioni efficaci e vengono gestite al meglio situazioni complesse.

Un elemento importante per capire la CTA di ultima gene-razione (quella, ad esempio, dei lavori di Crandal. Klein, Hoffman) e la sua tipicità metodologica rispetto ad altri approcci è che la cognizione viene studiata in un contesto naturale, nella vita reale e, questo, è un approccio diverso dal farlo attraverso metodi di ricerca da laboratorio. Spo-standoci dal laboratorio alla realtà emergono dimensioni sconosciute, mai rilevate.

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A questo insieme di processi e funzioni cognitive è stato dato il nome di macrocognition in contrapposizione alla mi-crocognition che è quella che viene studiata in laboratorio e che rileva gli aspetti di base della cognizione stessa.

Nel mondo reale le persone agiscono e prendono decisioni in modo diverso da quanto avviene in laboratorio. Queste sono i tipi di attività cognitive che normalmente si rilevano attraverso gli studi sul campo:• naturalistic decision making, presa di decisione in con-

testi naturali: in contesti naturali le persone non pren-dono decisioni del tipo “come si dovrebbe fare”, come prescritto, ma si basano sulla propria esperienza per de-terminare la propria azione, usano simulazioni mentali di cosa fare;

• sensemaking,situation assessment,costruzione di senso, valutazione della situazione: molti contesti reali richie-dono processi di costruzione/attribuzione di significa-to alla situazione stessa che siano attivi. Devono essere identificate le ragioni per cui si è giunti allo stato attua-le, devono essere fatte delle previsioni su come si evol-verà per anticiparne gli sviluppi; si devono raccogliere dati da inserire in un modello; si devono avere in mente degli scenari. Il contesto deve essere diagnosticato;

• planning, pianificazione, il processo di modifica di un’a-zione per trasformare lo stato attuale in uno desiderato in futuro;

• adaptation/replanning, adattamento eripianificazione: modificare, aggiustare o sostituire la pianificazione in uso; spesso succedono degli incidenti in quanto la ripia-nificazione non è stata attivata in tempo;

• problemdetection, individuazione del problema: abilità di porre attenzione ad un problema potenziale quando questo è ancora ad uno stadio non critico, identifica-re le anomalie quando si è ancora in tempo per porvi rimedio, rilevare “segnali deboli”. Fare questo spesso implica la capacità di riformulare la situazione;

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• coordination,coordinamento: il modo in cui i membri del team orchestrano la sequenza delle loro azioni per dare realizzazione ad un compito.

I processi macrocognitivi che, in parallelo alle tipologie di attività cognitive svolte sono:• Mantenere una base comune di comprensione del con-

testo;• Sviluppare modelli mentali, fenomeni di esperienze co-

scienti aventi componenti di immaginazione mentale e di comprensione dell’evento;

• Compiere simulazioni mentali e costruzire storie, mo-delli mentali che ci proiettano nel futuro;

• Gestire l’incertezza ed il rischio, situazioni in cui man-cano dati critici, la validità dei dati presenti non è accer-tata, l’obiettivo non è chiaro;

• Identificare punti di forza, di opportunità ed utilizzarle per l’azione; più che attingere ad opzioni predetermina-te, l’esperto attinge alla propria esperienza;

• Gestire l’attenzione, usare filtri percettivi per determina-re le informazioni da cercare ed a cui prestare attenzione.

Attività cognitive e processi macrocognitivi non sono agiti singolarmente ed in isolamento l’una dall’altra ma sono agi-te simultaneamente, in sovrapposizione, vengono agite in un “flusso cognitivo”.

Scopo della CTA è scoprire come tutto questo accade, come le informazioni presenti nel contesto sono cercate, usate, in-terpretate ed anche ignorate, come la persona esperta è in grado di fare inferenze che altri non sanno fare.

Training cognitivo

Nella formazione progettata in senso convenzionale ci si focalizza sull’apprendimento di procedure corrette, sulla

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memorizzazione di fatti, sul fare pratica di abilità in modo da sviluppare automatismi. Ma in molti casi, come la CTA ci ha aiutato a capire, le persone dovrebbero apprendere nuovi modelli mentali di come le cose funzionano o appren-dere abilità percettive in modo da poter fare distinzioni im-portanti e critiche o ad usare meglio la propria attenzione. Quando la prestazione esperta è fatta di qualcosa che non sia solo eseguire una serie di passaggi ed in modo routina-rio, insegnare un elenco di passaggi o procedure non basta.

Anche in un contesto di procedure e/o passaggi predeter-minati è, infatti, importante riconoscere quali siano i pas-saggi importanti, come rendersi conto che la situazione non è quella che avrebbe dovuto essere e come adattare le pro-cedure.

Le abilità cognitive sono problematiche da porre intenzio-nalmente ad oggetto dell’insegnamento perché sono difficili da vedere, da dimostrare e da descrivere. La CTA ci aiuta a conoscere le abilità cognitive sottostanti la competenza e la prestazione esperta.

La CTA può supportare la formazione attraverso:• L’identificazione dei requisiti cognitivi da mettere ad

oggetto della formazione, identificare i modelli mentali che l’esperto ha appreso e che il novizio dovrebbe sco-prire;

• Lo sviluppo di materiali didattici da utilizzare come scenari utilizzando storie raccolte durante le interviste per costruire giochi e simulazioni che affrontano impor-tanti requisiti cognitivi;

• Mettere a disposizione dati raccolti tramite CAT che forniscano gli elementi da valutare e le dimensioni da rinforzare tramite feedback cognitivo.

• Facilitare la comprensione di come le persone che ap-prendono danno senso ai “contenuti” della formazione ad identificare i modi in cui chi apprende potrebbe in-

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contrare difficoltà nell’apprendimento stesso;• Sostenere la formazione sul lavoro attraverso l’identifi-

cazione di ciò che l’esperto sa in modo che lo stesso sia in grado di mettere a disposizione dei novizi i propri modelli mentali e le proprie discriminazioni percettive.

La CTA ci è, pertanto, utile per determinare i modi in cui aiutare le persone a fare meglio il loro lavoro.Per progre-dire nel nostro lavoro dovremo espandere i nostri modelli cognitivi che è quanto attraverso la CTA si può disvelare. Prendendo in considerazione le conoscenze, le strategie, i modelli, le credenze degli esperti abbiamo a disposizione importanti risorse per aiutare a fare in modo eccellente il proprio lavoro anche le persone che ancora non le posseg-gono.

rIferImentI bIblIoGrafIcI

B. Crandall, G. Klein, R. R. Hoffman, (2006). Working Minds. A Practi-tionerìs guide to task analysis. A Brandon Book. The MIT Press

Richard E.Clark, David F. Feldon, Jeroen J. G. van Merriënboer, Ken-neth Yates and Sean Early (2006) Cognitive Task Analysis October 14, 2006 http://www.cogtech.usc.edu/publications/clark_etal_cognitive_task_analysis_chapter.pdf

Laura G. Militello and Robert J. B. Hutton (1998) Applied cognitive task analysis (ACTA): a practitioner’s toolkit for understanding cognitive task demands in ERGONOMICS, 1998, VOL. 41, NO. 11, 1618 ± 1641

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aPPendIce

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485Ambienti di apprendimento per la formazione continua

la FormazIone ProFessIonale della ProvIncIa autonoma dI bolzano ed Il servIzIo dI FormazIone contInua sul lavoro

Il continuo sviluppo sociale e tecnico richiede un apprendi-mento lungo tutto l’arco della vita che si attua anche attraver-so processi di formazione continua sul lavoro.

Dall’importanza che il livello di qualificazione dei lavoratori/lavoratrici ha assunto sia per la loro propria impiegabilità, sia per la qualità e la quantità delle prestazioni aziendali emergo-no gli attuali compiti della formazione continua.

Essa deve perciò contribuire, attraverso interventi formativi finalizzati e sistematici, all’acquisizione e al consolidamento delle qualifiche attuali e future dei lavoratori al fine di assicu-rare e promuovere lo sviluppo economico territoriale.

L’aggiornamento professionale ha diversi obiettivi, ma in pri-mo luogo deve contribuire al mantenimento e all’ampliamen-to delle conoscenze e delle capacità acquisite nella formazione professionale iniziale. L’aggiornamento riguarda sia l’adatta-mento delle competenze professionali, ma è altresì orientato allo sviluppo della carriera professionale.

L’aggiornamento professionale riveste particolare importanza poiché i mutamenti economici tecnici e organizzativi che inve-stono il mondo del lavoro pongono i/le lavoratori/lavoratrici occupati di fronte a sempre nuove richieste prestazionali. At-traverso l’aggiornamento può essere facilitato l’inserimento lavorativo di uomini e donne che, a seguito dell’assistenza prestata e dell’educazione dedicata ai propri bambini o per malattia, non hanno per un certo periodo esercitato la loro professione. Esso ha anche lo scopo di recuperare, anche at-

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traverso la certificazione di percorsi di apprendimento di tipo non formale (p.es. esperienze lavorative pregresse), qualifiche professionali non acquisite e di promuovere così lo sviluppo della carriera professionale.

Nel caso di una professionalità diversa da quella posseduta si parla di riqualificazione.

Ciò premesso la Formazione Professionale pubblica promuo-ve misure di formazione continua sul lavoro a favore dei la-voratori/lavoratrici occupati finalizzate, in modo particolare:• all’adeguamento delle conoscenze e capacità alle prestazio-

ni professionali richieste (aggiornamento professionale)• allo sviluppo della carriera professionale• al recupero di un diploma di qualifica professionale (per

es. diploma di fine apprendistato)• al reinserimento nella vita lavorativa di uomini e don-

ne alla ricerca di lavoro (p.es. disoccupati, disoccupati di lungo termine, lavoratori in lista di mobilità, lavoratori a rischio occupazionale, immigrati)

• alla riqualificazione)

• ad aggiornamenti nell’ambito della salute e sicurezza sul posto di lavoro(6) in conformità alle vigenti normative

• ad aggiornamenti riferiti a specializzazioni professionali regolamentate da leggi provinciali o statali (p.es. corsi di preparazione ad esami per l’abilitazione all’esercizio di determinate attività)

Gli Enti di formazione sono tenuti a concordare le misure di formazione continua sul lavoro con le PPSS (associazioni di categoria, sindacati, comunità comprensoriali, ecc.); il relativo parere dovrà essere documentato.

Non saranno incentivate misure di formazione continua che non siano prevalentemente orientate alla trasmissione di co-noscenze professionali e all’acquisizione delle relative compe-tenze…

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487Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Quanto sopra riportato è la deliberazione delle finalità, gli ambiti di intervento e modalità operative istituzionali del Servizio formazione continua sul Lavoro provinciale.

L’attività formativa realizzata fa naturale riferimento ai corsi di formazione professionale di breve durata previsti dalla Legge Provinciale n. 29/77 progettati e organizzati sulla base di un fabbisogno formativo territoriale espresso dalle imprese e, in misura maggiore, sulla base di un “catalogo” all’interno del quale il singolo lavoratore o persona adulta sceglie l’intervento che ritiene più confacente ai propri bi-sogni formativi e professionali.

Le attività formative si svolgono prevalentemente presso le Scuole di formazione professionale pubbliche.

Il Servizio di Formazione continua sul Lavoro svolge le pro-prie attività a supporto della realizzazione dell’aggiornamen-to professionale principalmente nei seguenti ambiti operativi:• la progettazione e la realizzazione dei progetti di svilup-

po del sistema territoriale di formazione continua;• la realizzazione e sperimentazione di modalità e di di-

spositivi per la certificazione di competenze professio-nali in esito a percorsi formativi formali e non formali;

• la realizzazione di sistemi didattici e dispositivi per for-mazione a distanza di individui e gruppi di utenti

• la realizzazione e la gestione di sistemi organizzativi che permettano l’accesso alla formazione individuale (vou-cher individuali);

• la realizzazione e la gestione di sistemi che permettano alla (piccola e media) impresa di implementare piani formativi aziendali, settoriali e territoriali;

• la realizzazione e consolidamento di sistemi organizzativi che permettano l’accesso individuale all’aggiornamento profes-sionale di lavoratori di micro imprese (voucher aziendali).

La differenziazione di metodologie e strategie didattiche

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e organizzative e diversi criteri per la determinazione (e l’individualizzazione) dei percorsi formativi sono originati dalla elevata differenziazione dell’utenza che accede alla formazione continua pubblica; tra i destinatari e beneficiari degli interventi formativi si possono riconoscere:• utenze individuali: lavoratori e cittadini adulti, con qual-

siasi tipo di professionalità e titolo di studio, che accedo-no a corsi di aggiornamento, perfezionamento, qualifica-zione per migliorare le proprie competenze professionali;

• utenze in formazione secondo accordi presi con azien-de: lavoratori di aziende coinvolte in specifici processi di innovazione tecnologica e/o organizzativa (in questo caso l’attività formativa viene avviata a seguito di un esplicito “progetto” proveniente da un’azienda o grup-po di aziende e o associazioni imprenditoriali);

• utenze socialmente deboli: invalidi, immigrati, ex tossi-codipendenti e detenuti;

• soggetti in disagio lavorativo: lavoratori dipendenti in cig e/o in mobilità, disoccupati, donne adulte interessa-te ad un inserimento lavorativo.

In un quadro di riferimento come quello descritto la For-mazione continua sul Lavoro provinciale si viene a trovare all’intersezione di diverse e complesse tematiche tra loro fortemente integrate e interdipendenti:

lo sviluppo economico e professionale

Il “capitale umano” è ritenuto essere la principale risorsa per uno sviluppo economico sostenibile, per il migliora-mento della qualità della vita, per una maggiore coesione sociale. Le “competenze” (delle persone) risultano essere l’“esigenza emergente” e/o la “risorsa chiave-strategica” e/o il “nuovo paradigma” di riferimento per la competiti-vità delle imprese-organizzazioni, per la adattabilità e oc-cupabilità delle persone, per lo sviluppo del sistema di “ istruzione e formazione professionale”.

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l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita

Gli scenari economici, occupazionali e professionali eviden-ziano la necessità di prefigurare, oltre che attività formative “prima” dell’accesso al lavoro, ritorni nel sistema formativo “durante” e “dopo” periodi di lavoro. Si pone l’esigenza di un “apprendimento continuo tutto l’arco della vita” (“li-felong learning”) e si prospetta l’integrazione tra “istru-zione-formazione-lavoro” per valorizzare (e non disperde-re) il patrimonio individuale di competenze accumulato e accumulabile. In tale logica sono state prefigurati contesti di apprendimento diversi ma ritenuti dello stesso valore: contesto di apprendimento “formale” (situazioni e percorsi di istruzione e formazione professionale istituzionalmente deputati alla trasmissione dei saperi teorici e pratici); conte-sto di apprendimento “non formale” (situazioni e percorsi lavorativi e professionali); contesto di apprendimento “in-formale” (situazioni e percorsi di vita sociale e individuale).

La “trasparenza” e “riconoscimento” delle competenze

La “trasparenza” e il “riconoscimento” delle competenze sono ritenuti necessari per dare “visibilità” e “credibilità” alle com-petenze acquisite-acquisibili e per consentire migliore e mag-giore “trasferibilità e “spendibilità” delle competenze nelle si-tuazioni e nei percorsi professionali e/o formativi. Per rendere attuabile e possibile la “trasparenza” ed il “riconoscimento” sono richiesti “protocolli” comuni e condivisi tra attori istitu-zionali, tra soggetti sociali, tra soggetti istituzionali e sociali. Il tema della “trasparenza e del “riconoscimento” pone l’esigen-za di un “quadro unitario” di riferimento espresso (a livello comunitario) attraverso un apposito European Qualification Framework (EQF). L’EFQ si configura come una “meta strut-tura” rispetto a cui mettere in relazione e confrontare i diversi “titoli” rilasciati (qualifiche-diplomi-certificati-ecc.) e si fonda su una struttura di “livelli” progressivi di apprendimento (in linea con i principi della “life long learning”).

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Le esigenze indicate ed emergenti dagli orientamenti comples-sivamente espressi, la valorizzazione delle esperienze e delle specificità “locali” portano all’attuale stato di sviluppo e di qua-lificazione dell’offerta della formazione continua sul lavoro.

Il progetto “Modelli didattici per il Long Life Learning”

All’interno di questo contesto si inserisce il progetto “Mo-delli organizzativi e didattici per il Long Life Learning” che si pone l’obiettivo di portare gli operatori della formazione a riflettere sulle modalità con cui erogare ed organizzare la formazione, proponendo strumenti e dispositivi didattici innovativi pensati per facilitare la comprensione e la sod-disfazione delle mutevoli e molteplici esigenze dell’utenza cercando di avvicinare l’apprendimento anche ai bisogni soggettivi del discente.

Pur rendendoci conto di una certa inevitabilità delle pri-orità economiche che governano la formazione continua riteniamo comunque critico, anche rispetto ai risultati per-seguiti, assumere la prospettiva del necessario adeguamento della propria forza lavoro come unica struttura di senso del-la formazione continua. Ora, la formazione continua non vuole certo ignorare la dimensione economica della propria azione ma sta nella natura dell’apprendimento stesso il suo ancoraggio nella persona.

Arricchendo le riflessioni sui metodi con cui organizzare la formazione vorremmo perciò favorire la possibilità per i partecipanti di vivere l’apprendimento in una prospetti-va soggettiva, come potenziamento delle proprie possibilità d’azione, come ampliamento dello spazio d’azione, così da riferire l’impegno, necessario e spesso oneroso, non solo alle coercizioni emergenti dei mutamenti tecnico-organizzativi, di mercato, ecc. ma anche a sé, al proprio mondo di vita, al proprio senso di autoefficacia.

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Vorremmo in sintesi contribuire un po’ affinché l’apprendi-mento trovi apprezzamento come processo di acquisizione operato dal singolo, come scelta e forma di autodetermina-zione promuovendo anche l’espressione di potenziali crea-tivi del soggetto che ha anche “scelto” di fare formazione. Più facilmente il proprio apprendimento potrebbe allora essere visto come una parte preziosa del proprio sviluppo, sì professionale, ma all’interno di un proprio progetto di vita, o almeno di penetrazione conoscitiva di ambienti di vita.

E se corrispondono alla realtà quei profili professiona-li richiesti in molti posti di lavoro sia dei servizi che nelle aziende manifatturiere, dove compaiono competenze come pianificare in autonomia, lavorare in gruppo, analizzare in autonomia un problema, essere direttamente responsabili della priorità attraverso l’autocontrollo, ecc. allora alcuni principi dell’apprendimento che i metodi descrivono qua-li la situatività, il collegamento alla pratica, l’orientamento ai partecipanti, all’operatività, all’auto organizzazione dei processi di apprendimento, al lavoro cooperativo, alla re-lazionalità nell’apprendere possono rappresentare un utile contributo.

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Il gruPPo tecnIco ProvIncIale Per la PromozIone dell’aPPrendImento ProFessIonale nella ProsPettIva del lIFe long learnIng

Per il conseguimento delle finalità del progetto, tra le sue attività era prevista anche l’attivazione di una sede istituzio-nale di elaborazione e confronto per fare del progetto stesso una forma di intervento attivo e di innovazione dei processi sociali e culturali locali che portano alla erogazione della formazione continua sul lavoro.

A questo scopo si costituito un team di operatori locali della Formazione Continua sul Lavoro che presidiano la tematica del Life Long Learning e che assumono una prospettiva di efficacia e di innovazione per promuovere pratiche formati-ve che rendono sempre più facile e diffuso l’accesso all’ap-prendimento professionale lungo tutto l’arco della vita.

Nel corso della realizzazione del progetto si è formato un gruppo di persone che operano in provincia di Bolzano nell’ambito dello sviluppo professionale e della formazione continua sul lavoro. Al gruppo hanno aderito anche opera-tori della Amministrazione provinciale (scuole professionali e altre strutture formative), di organizzazioni sindacali e im-prenditoriali, di enti di formazione privati, di aziende.

La composizione del gruppo

Al “Gruppo tecnico provinciale per la promozione dell’ap-prendimento professionale nella prospettiva del Life Long Learning” hanno aderito gli operatori e referenti della for-mazione continua sul lavoro:• Ferdinando Manfredini, Matteo Apolloni, Giuseppe

De Leo (Coordinatori delle attività di Formazione sul

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493Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Lavoro della Formazione professionale italiana• Daniel Duzzi (Comitato Paritetico Edile)• Christine Platzer (WIFI) • Piero Cavallaro (ECIPA/CNA) • Marco Repetto (CTM/Assoimprenditori)• Hans Punter (APA/LVH) • Verena Oberrauch, Alberto Petrera (Unione Commer-

cio) • Paolo Pavan (Confesercenti) • Roberta Micheli, Mauro Chiarel (Tangram s.r.l.) • Patrizia Zangirolami, Matteo Grillo (CLS) • Gaetano Gambara, Elena Daddio, Maurizio Moretti

(UPAD) • Martin Stieger, Christian Tecini, Brigitte Kelderer (Ser-

vizio Formazione continua sul lavoro della Formazione professionale tedesca)

• Werner Pramstrahler (AFI/IPL) • Hansjőrg Auer (Ripartizione personale della P.A.B.)• Robert Pfeifer (INAIL) • Claudio Tombari (FORMEDIL)

Lo scopo del lavoro del gruppo è stato definito in una let-tera per la manifestazione di interesse ; questo documento ha avuto anche la finalità di orientare l’attività di ricerca del gruppo di lavoro alle concrete condizioni di realizzazione delle azioni di formazione e aggiornamento professionale nelle aziende e sul territorio provinciale e di porre le con-dizioni per realizzare stabilmente uno spazio di confronto, di ricerca e di aggiornamento per gli operatori ed i referenti della formazione. La proposta riportata è tuttora in fase di negoziazione.

Manifestazione di comune interesse a collaborare

Noi, enti, organizzazioni e ricercatori che in provincia di Bolzano,

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• ricopriamo differenti ruoli e manifestiamo differenti re-sponsabilità ed interessi nell’ambito della formazione,

• operiamo con differenti approcci di metodo ed a favore di differenti gruppi di utenza,

• abbiamo realizzato esperienze formative, di studio e ri-cerca,

• abbiamo maturato la consapevolezza delle necessità di migliorare l’offerta di formazione continua

nella consapevolezza e nella responsabilità di dover iden-tificare soluzioni sempre nuove a fronte delle nuove sfide e delle nuove criticità che l’offerta pubblica di formazione continua dovrà affrontare manifestiamo un comune interes-se a collaborare: • per migliorare le nostre offerte di formazione continua, • attraverso un confronto continuo sui temi della forma-

zione continua,• socializzando le nostre conoscenze ed esperienze, • realizzando anche iniziative pilota e sperimentazioni • facilitando l’emersione di una nuova e più estesa do-

manda di formazione.

Come primo risultato lavoreremo per:• organizzare una raccolta delle esperienze da noi rea-

lizzate integrandole con approcci messi a punto anche altri soggetti,

• sviluppare scenari in cui collocare i metodi, i concetti, le pratiche esplorate

• identificare ed approfondire i temi critici su cui lavora-re nel futuro.

Lo strumento operativo è il “Gruppo tecnico provinciale per la promozione dell’apprendimento professionale nella prospettiva del Life Long Learning” che viene coordinato dalla Formazione Professionale italiana, attualmente nel contesto del progetto FSE “Modelli organizzativi e didattici per il Life Long Learning“.

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glI autorI del Progetto Fse“modellI organIzzatIvI e dIdattIcI Per Il lll”

gIovannI bonaIutI

Dottore di ricerca in “Qualità della formazione” è Ricer-catore di Didattica generale e pedagogia speciale presso l’Università degli Studi di Cagliari. Si occupa di meto-dologie didattiche e di tec-nologie per l’educazione, te-matiche su cui ha pubblicato numerosi contributi tra cui, recentemente, le monografie E-learning 2.0. Evoluzione dell’apprendimento in rete nell’incontro tra formale e in-formale (curatela), Erickson, Trento, 2006; Didattica at-tiva con la LIM. Metodolo-gie, strumenti e materiali, Erickson, Trento, 2009; Didattica attiva con i video digitali. Metodi, tecnologie, strumenti per apprendere

in classe e in rete, Erickson, Trento, 2010. È vicedirettore di “Form@re, Open journal per la formazione in rete” ed è membro della Redazione di “JELKS - Journal of E-Lear-ning Journal of E-Learning and Knowledge Society”, la rivista dell’Associazione Ita-liana di e-Learning Society.

andrea bullara

Insegnante della Formazio-ne professionale italiana, dal 1996 ricopre l’incarico di Co-ordinatore del Servizio For-mazione continua sul Lavo-ro. In questo ruolo ha realiz-zato azioni per la promozione e facilitazione dell’accesso individuale dei lavoratori ai percorsi di formazione e ag-giornamento professionale. Nell’ambito di tali azioni ha promosso e realizzato spe-rimentazioni riguardanti la certificazione di competenze professionali, la costruzione di dispositivi didattici per flessibilizzare l’accesso alla formazione, la progettazione didattica di percorsi formati-vi modulari per la riqualifi-cazione dei lavoratori adulti, la realizzazione di misure per l’aggiornamento profes-

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sionale nella piccola e micro impresa.

Francesco dI cerbo

E’ ricercatore presso SAP Next Business and Techno-logy, la divisione ricerca di SAP. É stato ricercatore universitario presso la Li-bera Università di Bolzano. Ha ricevuto il dottorato di ricerca in Scienze e Tecnolo-gie dell’Informazione e della Comunicazione presso l’Uni-versità di Genova nel 2008. Tra i suoi interessi di ricerca, il Technology Enhanced Le-arning ha ricoperto un ruolo molto importante, ed i suoi contributi sono stati accettati in diversi consessi nazionali ed internazionali.

enzo del Fatto

Si è laureato nel 2002 in In-formatica presso l’Università di Salerno. Nel 2009 ha rice-vuto il Dottorato di Ricerca in Informatica congiuntamente presso l’Università di Salerno e presso l’Istituto Nazionale di Scienze Applicate (INSA) di Lyon, in Francia. I suoi interessi di ricerca includono i Geographic Information Sy-

stems (GIS) e l’Human-Com-puter Interaction (HCI) .

gabrIella dodero

Professore ordinario di Infor-matica presso la Libera Uni-versita’ di Bolzano dal 2006, dove ricopre dal 2012 la cari-ca di prorettore agli Studi. In precedenza ha lavorato pres-so l’Universita’ di Genova, dove ha conseguito la laurea in Matematica nel 1977. Nel-la sua ricerca piu’ recente gli argomenti di Technology En-hanced Learning hanno rico-perto un ruolo importante ed in crescita.

antonIo FInI

Dirigente Scolastico. Già in-segnante, consulente e for-matore. Dottore di Ricerca in Telematica e Società dell’In-formazione. Collaboratore del Laboratorio di Tecnolo-gie dell’Educazione dell’Uni-versità di Firenze. Autore di numerosi libri, articoli e con-tributi a riviste e convegni nazionali e internazionali. Si interessa principalmente ai temi dei social media, del-la Open Education e delle risorse educative aperte. È

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497Ambienti di apprendimento per la formazione continua

socio di SIe-L (Società italia-na di e-learning) e del MED (Associazione italiana per l’educazione ai media e alla comunicazione). E’ attual-mente condirettore della rivi-sta “Bricks”, edita da AICA e SIe-L.

Peter lItturI

Insegnante della Formazione professionale italiana. Re-ferente e coordinatore delle attività di formazione e mo-nitoraggio che concorrono al percorso di valutazione e di abilitazione dei docenti del-la Formazione professionale italiana, per il quale ha cu-rato anche la progettazione degli strumenti e dispositi-vi didattici. Svolge attività di promozione e realizza sperimentazioni didattiche nell’ambito delle attività for-mative dei corsi di base e di aggiornamento professionale.

gIovannI marconato

Psicologo e formatore. Il suo interesse è per i meccanismi che attivano, sostengono e migliorano i processi di ap-prendimento. Da quasi 30 anni si occupa anche di for-

mazione a distanza ed ap-proda “naturalmente” all’uso didattico delle tecnologie per le quali ricerca modalità ope-rative (a distanza ed in pre-senza) che contribuiscono al miglioramento dei processi di apprendimento. Ha realizza-to numerosi progetti di didat-tica con le tecnologie ideando e sviluppando differenti tipo-logie di “ambienti di appren-dimento” digitali. Su questi temi ha pubblicato due libri e numerosi articoli su riviste professionali e scientifiche. Opera come libero professio-nista e svolge insegnamenti e laboratori presso le uni-versità di Padova e Verona. I suoi riferimenti concettuali ed operativi sono di matrice cognitivista e costruttivi-sta. E’ presente ed attivo in numerosi ambienti on-line, condivide le sue esperienze e riflessioni attraverso il blog “Apprendere (con e senza le tecnologie)” in www.gian-nimarconato.it ed è’ anima-tore del network di pratica “La scuola che funziona” in www.lascuolachefunziona.it. E’ membro del Direttivo della Società Italiana di e-learning dove è delegato per i Social Media ed è delegato

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Education nell’associazione NordEst Digitale.

marco PerInI

Formatore e ricercatore, lau-reato in programmazione e gestione dei servizi formativi presso la Facoltà di scienze della Formazione dell’Uni-versità di Verona. Attualmen-te collabora al progetto Coper-nicus & TRIO con il Servizio di formazione continua sul lavoro della Formazione pro-fessionale italiana di Bolzano come docente e progettista di dispositivi didattici; colla-bora inoltre con l’Università di Verona nella gestione del progetto di aggiornamento professionale dei docenti “Ve-netoformatori”.

beate weyland

Ricercatrice di didattica dal 2005 presso la Facoltà di Scienze della Formazione del-la Libera Università di Bolza-no. È docente di media edu-cation e di alcuni laboratori di pedagogia e di didattica. Oltre al costante approfondi-mento delle tematiche legate alle metodologie didattiche, le sue ricerche si sono concen-

trate sul tema dell’educazio-ne ai media nel confronto tra modelli e proposte in Italia e nei paesi di lingua tedesca e da queste sono nati i seguen-ti volumi: Media Education tra organizzazione e fantasia, insieme a D. Felini, Erickson Trento 2007, Professionalità media educative (a cura di), Erickson Trento 2009. Tra i nuovi temi di ricerca compa-iono le politiche per la prima infanzia in contesto italo-ger-manico e il tema dell’edilizia scolastica legato all’innova-zione degli spazi e delle di-dattiche per un incontro tra pedagogia e architettura.

... e altrI

Alle attività di analisi e di ricerca realizzate nall’ambito del progetto documentate in questa pubblicazione hanno inoltre contribuito operato-ri e refenti della formazione professionale di Ammini-strazioni Pubbliche, di Enti ed Associazioni private e di Aziende della provincia di Bolzano facenti parte del Gruppo tecnico provinciale per la promozione dell’ap-prendimento professionale nella prospettiva del Life

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499Ambienti di apprendimento per la formazione continua

Long Learning. Un particola-re ringraziamento va dunque a Ferdinando Manfredini, Matteo Apolloni, Giuseppe De Leo (Formazione pro-fessionale italiana), Daniel Duzzi (Comitato Pariteti-co Edile), Christine Platzer (WIFI), Piero Cavallaro (ECIPA/CNA), Marco Re-petto (CTM/Assoimprendi-tori), Hans Punter (APA/LVH), Verena Oberrauch e Alberto Petrera (Unione Commercio), Paolo Pavan

(Confesercenti), Roberta Mi-cheli e Mauro Chiarel (Tan-gram s.r.l.), Patrizia Zangiro-lami e Matteo Grillo (CLS), Gaetano Gambara, Elena D’Addio e Maurizio Moret-ti (UPAD), Martin Stieger, Christian Tecini e Brigitte Kelderer (Formazione pro-fessionale tedesca), Werner Pramstrahler (AFI/IPL), Hansjőrg Auer (Ripartizio-ne personale P.A.B.), Robert Pfeifer (INAIL), Claudio Tombari (FORMEDIL).

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Finito di stampare nel mese di gennaio 2013presso Digitalprint Rimini per conto di Guaraldi Editore